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Italian Pages 2146 Year 2012
La letteratura degli Italiani 3 Gli Italiani della letteratura Atti del XV Congresso Nazionale dell’Associazione degli Italianisti Italiani Torino, 14-17 settembre 2011 a cura di
Clara Allasia, Mariarosa Masoero, Laura Nay
Edizioni dell’Orso
Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Torino
I libri di «Levia Gravia» collana diretta da Mariarosa Masoero e Giuseppe Zaccaria n. 10
COMITATO SCIENTIFICO Mariarosa Masoero (rappresentante dell’area Nordovest nel Consiglio Direttivo dell’ADI) Clara Allasia, Giovanni Barberi Squarotti, Davide Dalmas, Laura Gatti (ADI-sd), Enrico Mattioda, Laura Nay, Patrizia Pellizzari, Carla Sclarandis (ADI-sd), Paola Trivero, Giuseppe Zaccaria
I volumi pubblicati nella Collana sono sottoposti a un processo di peer review che ne attesta la validità scientifica
La letteratura degli Italiani 3 Gli Italiani della letteratura Atti del XV Congresso Nazionale dell’Associazione degli Italianisti Italiani (ADI) Torino, 14-17 settembre 2011
Sessioni parallele a cura di
Clara Allasia, Mariarosa Masoero, Laura Nay
Edizioni dell’Orso Alessandria
© 2012 Copyright by Edizioni dell’Orso s.r.l. Via Rattazzi, 47 15121 Alessandria tel. 0131.252349 fax 0131.257567 e-mail: [email protected] http://www.ediorso.it Realizzazione editoriale a cura di Arun Maltese ([email protected]) È vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno e didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22.04.41 ISBN 978-88-6274-383-9
Indice delle sessioni parallele per sessione
I. GEOGRAFIE DEGLI ITALIANI E DELLA LORO LETTERATURA Bordi e borders. Scrittori e viaggiatori tra centro e periferia Gianni Cimador Gli “Italiani” di Biagio Marin: conflitti, tensioni e contraddizioni nelle pagine autobiografiche Dario Di Donfrancesco Ai bordi dell’Italia. Pagine di viaggio di Beppe Severgnini e Michele Serra (con intermezzi pasoliniani) Toni Veneri I viaggi in Italia di Paolo Rumiz Primo De Vecchis Guido Piovene e Mario Tobino: viaggi in Italia a confronto Istituzioni e intellettuali verso l’Unità Noemi Corcione Vittorio Imbriani ed il centenario dantesco del 1865 Claudia Gentile Il “realismo” di Francesco Mastriani: un contributo per la rinascita di un popolo Ugo Maria Olivieri Aspettando De Sanctis. La ‘Storia della letteratura italiana’ come costruzione dell’identità nazionale Dal Piemonte all’Italia Alessandro Merci Gozzano lettore di Dante Marina Paino Amalia Guglielminetti (n)e(l)la poesia di Gozzano Sara Calì ‘I provinciali’ di Achille Giovanni Cagna L’insegnamento dell’italiano in Francia nel primo Ottocento Giulia Delogu Pierre-Louis Ginguené, Francesco Saverio Salfi e l’‘Histoire littéraire d’Italie’ Filippo Timo Un «Italiano della letteratura» all’estero: Niccolò Giosafatte Biagioli e il suo impegno per l’affermazione delle lettere italiane nella Parigi del primo Ottocento Narrazioni novecentesche del dispatrio Cecilia Demuru La collaborazione di Luigi Meneghello a «Comunità» II. I GENERI LETTERARI DEGLI ITALIANI La letteratura del Risorgimento: memorialistica Annibale Rainone «La prigione è una lima sì sottile / Che aguzzando il pensier ne fa uno stile», il ‘Manoscritto di un Prigioniero’ di Carlo Bini L’attraversamento dei generi Roberto Galbiati Incroci e sovrapposizioni di generi e di forme letterarie nelle ‘Piacevoli notti’ di Giovan Francesco Straparola Maria Di Giovanna Dal romanzo alla novella. Una capricciosa trasmigrazione nelle ‘Curiosissime novelle amorose’ di G. Brusoni
VI Letizia Magro
Indice delle sessioni parallele
Quando la lettera diventa racconto: osservazioni sull’epistolario di Umberto Saba
III. I PERIODI DELLA LETTERATURA DEGLI ITALIANI L’Umanesimo e l’Italia unita Sara Cipolla L’arte del «buon governo»: l’esaltazione dei valori civili nell’arte e nella letteratura fra Tre e Quattrocento Francesco Martillotto L’Italia unita nell’opera di Flavio Biondo Daniele Pettinari Quale «patria» per la nostra lingua? Lo spazio letterario come veicolo per la codificazione linguistica nel Cinquecento Poesia e politica fra Duecento e Cinquecento Gabriele Baldassari Poesia politica ed encomiastica nel canzoniere Costabili Canzonieri dell’Italia rinascimentale Davide Esposito Autobiografismo e intertestualità nel canzoniere di Domizio Brocardo Mauro Marrocco La ‘Gelosia del Sole’ di Girolamo Britonio Traduzioni e volgarizzamenti nel Cinquecento Maria Catapano Per l’edizione del ‘Canzoniere’ di Giovanni da Falgano «Questo strano e interessante Seicento» Giuseppe Alonzo L’antiaccademismo dei satirici secenteschi: un’anti-geografia italiana Domenico Cappelluti Un esempio di scena gesuitica del Seicento napoletano: le tragedie di Leonardo Cinnamo L’Italia degli umanisti Valentina Marchesi «Poi che la patria così vole» Pietro Bembo, la crisi italiana e la genesi dell’‘Historiae Venetae’ (1527-1530) Sebastiano Valerio La ‘Canzone de Italia’ di Giovanni Tommaso Filocalo Claudia Corfiati Il nostos di Sincero: riflessioni sull’Arcadia IV. IL “CARATTERE” DEL POPOLO, DEI LETTERATI, DEGLI EROI, TRA VECCHIA E NUOVA ITALIA Giuseppe Garibaldi Giulia Iannuzzi Il popolo italiano nei romanzi di Garibaldi: raffigurazioni, analisi sociali, strategie testuali Marina Paladini Musitelli Memoria e rappresentazione dell’impresa garibaldina tra mitizzazione e dissacrazione Andrea Lanzola ‘I Mille’ di Giuseppe Bandi: un autentico romanzo storico Giuseppe Mazzini Luca Beltrami Giuseppe Mazzini critico letterario sull’«Indicatore genovese»
Per sessione
VII
V. IL COSMOPOLITISMO DEGLI ITALIANI Gli Italiani all’estero e il loro contributo alle idee risorgimentali Monica Venturini Per una cartografia della letteratura postcoloniale italiana. ‘I confini dell’ombra’ di Alessandro Spina: «scrivere per la posterità» Roberta Delli Priscoli L’inquieta poesia di Niccolò Tommaseo: i canti patriottici Nikica Mihaljević Un Italiano in Dalmazia precursore del Risorgimento: l’abate vicentino Bernardino Bicego Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’unità Costanza Ghirardini Dal gusto «nostro» al gusto «alemanno»: la prospettiva di Aurelio de’ Giorgi Bertola Marta Rebagliati ‘1944’: Umberto Saba e la ricerca dell’identità italiana attraverso i classici Antonio R. Daniele Stranieri in patria: Alberto Moravia e Dino Buzzati fra identità e canone Caterina Bonetti Dalla commedia dell’arte al teatro colto: la compagnia Riccoboni tra l’Italia e la Francia Veronica Pesce Pascoli e le illustrazioni di Plinio Nomellini ai ‘Poemi del Risorgimento’ VI. ITALIANE DELLA (E NELLA) LETTERATURA Italiane della letteratura: Anna Banti Hanna Serkowska Le confessioni di due Italiane: la riscrittura del modello nieviano in ‘Noi credevamo’ di Anna Banti e ‘La briganta’ di Maria Rosa Cutrufelli Giuseppe Lo Castro Il corpo rimosso del Risorgimento: ‘Noi credevamo’ di Anna Banti Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento Adriana Chemello Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento Cristina Bracchi Sorella patria. I ‘Canti’ di Matilde Joannini Francesca Favaro ‘Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara’ (e gli altri racconti greci di Angelica Palli) Laura Fortini Racconti d’amore e di guerra (Percoto, Manzini, Morante, Brin) Italiane della letteratura: Matilde Serao Ilaria Puggioni ‘La Conquista di Roma’ di Matilde Serao Nunzia Soglia Le donne italiane negli scritti giornalistici di Matilde Serao La figura della donna dall’Italia post-unitaria alla società degli anni Sessanta Alessia Romana Zorzenon Il sacrificio di Teresa ne ‘La piccola fonte’ di Roberto Bracco Caterina Francesca Giordano Una vertigine violenta nel romanzo ‘Con gli occhi chiusi’ di Federigo Tozzi Francesca Tomassini ‘Calderón’ di Pasolini: il sogno di Rosaura Dora Marchese «Ora che l’Italia è fatta, bisognerebbe unificare le cucine italiane!» (F. De Roberto). La dimensione gastronomica nell’unità d’Italia come (in) gradiente politico-sociale La letteratura delle Italiane e le Italiane della letteratura Anna Langiano Il corpo e la Storia: ‘L’arte della gioia’ di Goliarda Sapienza
VIII
Indice delle sessioni parallele
Italiane della letteratura: Elsa Morante Elena Porciani «La morte è un fiore di pazienza». Le trasmutazioni del tragico in Elsa Morante Silvia Ceracchini Il laboratorio segreto di Elsa Morante: ‘Alibi’ VII. ITALIANI DELLA LETTERATURA Italiani della letteratura: Italo Svevo Luca Curti Lo pseudo-Weininger di Zeno. Per un profilo della narrativa di Italo Svevo Italiani della letteratura: Carlo Collodi ed Edmondo De Amicis Annalisa Pontis Collodi, ‘Pinocchio’ e la lingua nazionale Maddalena Rasera Insegnar per racconti: ritratti di personaggi nell’‘Idioma gentile’ Italiani della letteratura: Alberto Moravia Kianoush Meirlaen «Era la solita Roma e i soliti romani: come li avevo lasciati, così li ritrovavo»: la presenza di G. G. Belli nei ‘Racconti romani’ di Alberto Moravia Toni Marino Grandi scrittori e made in Italy: il contributo della letteratura da Pascoli a Moravia Stefania Cori Alberto Moravia e il Sessantotto: l’intellettuale si confronta con gli studenti Stefano Lo Verme L’Italia “conformista” nella narrativa di Alberto Moravia Italiani della letteratura: Ippolito Nievo Carmen Sari ‘Memorie di un garibaldino’: la figura e l’opera di Ippolito Nievo Giancarlo Carpi La prosopopea della Nazione: i luoghi d’Italia nelle ‘Confessioni’ Rosa Maria Monastra Spartaco nel Risorgimento. A proposito di una tragedia di Ippolito Nievo Michele Carini L’umorismo nieviano: lo stato degli studi e alcune proposte Italiani della letteratura: Leonardo Sciascia Andrea Schembari Un lungo secolo «sentimentale». L’altro Settecento di Leonardo Sciascia Bandello e l’identità culturale nella Lombardia del Cinquecento Sandra Carapezza Cultura toscana e identità lombarda nel novelliere Milena Contini La corte e il territorio in Bandello Gabriella Olivero Joannes Tonsus traduttore di se stesso Italiani della letteratura: Gabriele D’Annunzio Chiara Arnaudi I personaggi dell’Unità d’Italia nelle letture di D’Annunzio al Vittoriale Chiara Gaiardoni Trionfi, pantheon e identità nazionale. Qualche appunto su un motivo di lunga durata Rassegne di grandi Piero Bocchia Un esempio di lotta interiore nell’ultimo Petrarca: «ma, pur che l’alma in Dio si riconforte» (TM II, 49) Giovanna Corleto Gli ideali cavallereschi nel messaggio civile del Boccaccio Giuseppe Antonio Camerino La lettera ‘Sul Romanticismo’ di Alessandro Manzoni Italiani della letteratura: Federico De Roberto Rosalba Galvagno L’Italia di Consalvo Uzeda nei ‘Vicerè’ di Federico De Roberto Daniela De Liso L’Italia de ‘I Viceré’
IX
Per sessione
Lavinia Spalanca
Le novelle di guerra di Federico De Roberto e la crisi del modello unitario
VIII. ITALIANI DELLA LETTERATURA: DANTE Tra Toscana e Italia: Dante nel Cinquecento Lorenzo Bocca Dante nei ‘Discorsi’ e nei ‘Dialoghi’ di Sperone Speroni Greta Cristofaro Per una possibile conciliazione tra filosofia e teologia: Pd I commentato da Benedetto Varchi Valentina Martino Dante nella ‘Difesa della lingua fiorentina e di Dante, con le regole da far bella e numerosa la prosa’ di Carlo Lenzoni Dante e dantismi per il Centocinquantenario Davide Ruggerini Aspetti della fortuna editoriale di Dante nel Risorgimento La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti Luca Carlo Rossi La percezione dell’italianità negli antichi commenti alla ‘Commedia’ Domenico D’Arienzo Da fiorentini sulla questione della lingua: Dante tra ‘De vulgari eloquentia’ e ‘Convivio’ Pierangela Izzi Memoria della ‘Commedia’ nei ‘Sonetti’ del Burchiello IX. ITALIANI DELLA LETTERATURA: FOSCOLO Foscolo e gli altri esuli Angelo Favaro Ugo Foscolo o dell’arte tragica Luca Ferraro Tassoni da De Sanctis a Foscolo: un esempio di mutazione nel canone Alessandro Viti Foscolo iniziatore della fortuna della figura letteraria dell’esule politico nel Risorgimento italiano Donatella Donati Ugo Foscolo: silenzi e sfoghi dall’esilio Stefania Baragetti «Non ho in mira che l’Italia»: i carteggi di Giovanni Berchet Rosa Necchi Patria e studi nelle lettere di Terenzio Mamiani X. ITALIANI DELLA LETTERATURA: LEOPARDI Leopardi e leopardiani all’Italia Chiara Fenoglio Gli Italiani: Leopardi e la scommessa di una nazione da fondare Rosa Giulio La borghesia italiana al cospetto dell’Europa: i caratteri nazionali e il Leopardi “civile” Floriana Di Ruzza Tra città antiche e rovine moderne: la rappresentazione degli Italiani nei ‘Paralipomeni della Batracomiomachia’ Manuela Martellini I traditi Lari, ovvero Leopardi e il sogno della Patria Costanza Geddes Da Filicaia L’Italia e gli Italiani nelle riflessioni linguistiche di Leopardi Silvia Ricca Leopardi: un punto di vista “in negativo” sull’Italia e sugli Italiani Novella Primo Su Leopardi, l’Italia e alcune traduzioni poetiche francesi: uno sguardo d’oltralpe Manuel Pace Giordani e la ricezione delle canzoni di Leopardi nel 1819 Chiara Pietrucci Leopardismi patriottici nella poesia di Caterina Franceschi Ferrucci Irene Baccarini Echi leopardiani in Federico De Roberto Francesco Capaldo Lingua, letteratura e nazione italiana in Giacomo Leopardi Vincenzo Dente Da «Hermite des Appenins» che dialoga con un «romito dell’Arno»: Giacomo Leopardi, ‘Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani’
X
Indice delle sessioni parallele
XI. L’ELABORAZIONE E LA RIFLESSIONE SUL PROCESSO UNITARIO L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario Gisella Padovani I romanzi di Cletto Arrighi tra speranze risorgimentali e delusioni post-unitarie Andrea Manganaro I lazzari, Pulcinella e il «carattere del popolo meridionale», tra vecchia e nuova Italia Simone Tonin Identità dallo spazio narrato. Contributi da un’Italia unita La rappresentazione del Risorgimento in quattro testi del secondo Novecento Federica Adriano ‘Troppo umana speranza’ di Alessandro Mari: un’opera prima sull’alba della Nazione Cinzia Emmi Il linguaggio della politica ne ‘Il sorriso dell’ignoto marinaio’ Guido Nicastro Gruppo di famiglia tra i Borbone e i Savoia: ‘Ferdinando’ di Annibale Ruccello Maria Panetta Il fondale del Risorgimento nelle ‘Menzogne della notte’ Da «Italia mia, benché ’l parlar sia indarno» a «O patria mia, vedo le mura e gli archi»: petrarchismo politico e tradizione lirica Valentina Salmaso «Con qual orror s’ascolta, / con qual orror si mira»: Ciro di Pers e il lamento patriottico nell’immaginario barocco La rivendicazione dell’identità nazionale: biografie e panegirici fra Sette e Ottocento Anna Maria Salvadè Il Parnaso degli uomini illustri: gli ‘Elogj italiani’ di Andrea Rubbi Chiara Cedrati Alfieri e le virtù sconosciute Luca Gallarini Dai ‘Ritratti umani’ al mito: la ‘Rovaniana’ di Carlo Dossi L’elaborazione del processo unitario: Sette e Ottocento Loredana Castori La repubblica dei letterati d’Italia: oltre il policentrismo culturale Antonia Marchianò Lomonaco: colpo d’occhio sull’Italia Dal futuro senza Italia all’Italia senza futuro Corrado Confalonieri L’apertura di un a-venire tra Leopardi, Montale e Zanzotto XII. LA LETTERATURA DEGLI ITALIANI A SCUOLA Identità nazionale e letteratura italiana: un atlante e un canone possibile Annalisa Nacinovich Identità nazionale e educazione letteraria Laura Gatti Identità nazionale e parola poetica. Per un percorso didattico sul secondo Novecento Cinzia Ruozzi Dante e Levi. Percorsi di letture parallele Identità nazionale ed educazione letteraria: gli Italiani nella scuola Fabio De Propris Quarant’anni di italiano scritto tra i banchi di scuola. Da Don Milani ad oggi Stefano Rossetti L’immagine dell’insegnante. Fra libri e televisione Identità nazionale e pluralismo culturale: letteratura per una scuola non di soli Italiani Simonetta Teucci Dall’Italia ideale all’Italia reale Elisa Lanzilao La dimensione europea di Alberto Savinio, scrittore eterodosso
XI
Per sessione
Cristina Nesi
Il lato oscuro degli Italiani nell’opera di Ermanno Rea
Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani: individuo, famiglia, collettività Carmelo Tramontana Foscolo, Manzoni, Nievo: genealogie della famiglia nella letteratura risorgimentale Patrizia D’Arrigo Un falegname, una fatina e un burattino: un modello familiare per la nuova Italia Paola Liberale Gli Italiani della letteratura. Autobiografismo e Italiani ideali nella letteratura del Novecento Francesca Pilato Despoti e vittime, sognatori e opportunisti, ingenui e corrotti: il “sistema famiglia” nei ‘Viceré’ di Federico De Roberto Luisella Mesiano Spazi d’identità per mastro-don Gesualdo Luisa Mirone L’età dell’innocenza perduta: la famiglia nei ‘Romanzi della rosa’ di Gabriele D’Annunzio Barbara Mariatti Il “romanzo familiare” di don Gonzalo: una lettura della ‘Cognizione del dolore’ L’identità nazionale: continuità e discontinuità nel legame tra individuo e collettività Claudia Correggi Interpretazioni di un carattere nazionale: dall’Italia all’America con Giovanni Arpino Lucia Olini Identità e “mutazione” degli Italiani in Pasolini. Una proposta didattica Rita Sepe Letteratura-memoria-identità collettiva: una riflessione su ‘Piazza d’Italia’ di Tabucchi Cinzia Gallo Il mito dell’italianità in uno scrittore di confine: Pier Antonio Quarantotti Gambini XIII. LA STORIA DEGLI ITALIANI NELLA LORO LETTERATURA Il nome dell’Italia intorno al Sacco di Roma Fulvio Pevere «La non più bella Italia»: Pietro Aretino Moreno Savoretti I berneschi e il sacco di Roma Marco Chiariglione Il nome dell’Italia nei commenti quattro-cinquecenteschi della ‘Commedia’: da “Nidobeato” a Castelvetro (1478-1570) Giordano Rodda L’italianità dell’‘Orlandino’ di Teofilo Folengo Marco Lazzerini L’Italia «lacerata e distrutta» nel corpus epistolare di Baldassarre Castiglione Roberta Giordano La «non men serva che stolta Italia» di Giovanni Guidiccioni Giorgia Fissore L’«infelice Italia» nelle ‘Lettere’ e nelle ‘Rime’ di Bernardo Tasso La Repubblica romana del 1849 Valeria Tavazzi Prima ricognizione sulla Repubblica romana del 1849 e la narrativa: Antonio Bresciani Beatrice Alfonzetti La Repubblica romana: il teatro Salvatore Canneto «Fra un inno e una battaglia». Primi sondaggi sulla lirica della Repubblica romana del 1849 «La letteratura nostra nella nostra storia»: Lodovico il Moro fra Rinascimento e Risorgimento Patrizia Pellizzari Ludovico il Moro: la voce degli storici rinascimentali Clara Allasia Il Lodovico il Moro di Giovan Battista Niccolini
XII
Indice delle sessioni parallele
XIV. LE ISTITUZIONI, I SAPERI, LA SOCIETÀ DEGLI ITALIANI Letteratura, editoria e intellettuali Claudio Panella Industria e letteratura: identità individuali e collettive alla prova del neocapitalismo italiano (’50-’70) Filosofia, letteratura e scienza: un sapere comune Michele Angelo Purpura Patologie dello sguardo: Capuana e Farina tra scienza e letteratura Alessio Berré Dantismi lombrosiani: ‘Criminali e degenerati dell’Inferno’ Letteratura e società nell’Italia post-unitaria Rosalma Salina Borello «Siamo entrati in giuoco anche noi». Il mondo contadino di Rocco Scotellaro e l’Unità d’Italia Alessandra Cenni Sibilla Aleramo-Giovanni Cena: un sodalizio esemplare. Da lettere e carte rare e inedite (1902-1909) XV. LINGUA E LINGUE DEGLI ITALIANI Lingue e Patrie: l’italiano e l’altro Loredana Palma L’elaborazione di un mito: “genio” e grandezza degli Italiani nei periodici della Napoli preunitaria Rosanna Morace Incontro di lingue nella letteratura-mondo italiana Aida Apostolico Sull’idea di patria, lingua e letteratura degli Italiani nei pensieri autografi di Giovanni Pascoli Augusto Ponzio-Susan Petrilli Letteratura italiana e lingua nazionale Dalla «patria» sarda alla «madre» Italia: la tradizione letteraria nel processo della perfetta fusione Dino Manca La lingua e le lingue dei Sardi. Dentro il laboratorio dello scrittore tra filologia e critica Voci da nord-est: scrittori italiani di area friulana e giuliana tra intrecci di lingue e culture Ilvano Caliaro Identità di frontiera: Slataper e Michelstaedter Roberto Norbedo Scipio Slataper e Biagio Marin, tra Tommaseo e Dioniso Fabiana Di Brazzà Carlo Sgorlon scrittore italiano “di frontiera” XVI. RILETTURE E RISCRITTURE Personaggi e identità: riletture e riscritture Francesco Lucioli L’eco di Poliziano nella ‘Laude delle donne bolognese’ di Claudio Tolomei Nicole Botti Sulle tracce di Orlando: le riduzioni teatrali del ‘Furioso’ Stefano Nicosia Una lettura del poema comico in ottave attraverso il ‘Morgante’ di Luigi Pulci Rosario Atria Risorgimento narrativo tra storia e romanzesco: ‘I tre alla difesa di Torino nel 1706’. Racconto di Domenico Castorina Mathijs Duyck Deformazione gaddiana del modello novellistico boccacciano
Per sessione
XIII
XVII. TEATRO, MELODRAMMA, CINEMA E ARTI FIGURATIVE Immagini, suoni e parole: rappresentazione degli Italiani Irene Palladini L’ombra della parola, la luce del pensiero. Il silenzio nella poesia di Cesare Viviani Dario Stazzone ‘Un volto che ci somiglia’: il ritratto dell’Italia di Carlo Levi «Un sol popolo d’eroi»: l’identità italiana tra libretto d’opera, tragedia e poesia Marco Leo ‘Eufemio da Messina’: scrittura e riscritture da Pellico a Cammarano Guido Laurenti «Oh patrie Guerre funeste!»: amore innocente, onore, morte nella ‘Francesca da Rimini’ di Silvio Pellico Angelo Alberto Piatti «Non serva agli antichi, né ai novi potenti»: Italia e Italiani nell’ode di Giovanni Prati ‘All’arrivo delle ceneri di re Carlo Alberto’ Di scena e di libro: lingue e temi degli autori del teatro italiano contemporaneo Carmela Citro ‘I Giganti della Montagna’ di Pirandello: letture in chiave unitaria di Strehler e di Vetrano-Randisi Piazza, palcoscenico e platea. Gli Italiani a teatro Ilaria Camplone Gustavo Modena. Ritratto di un Italiano tra politica e teatro Loreta De Stasio Contribuzioni alla creazione dell’italianità attraverso il trattamento di alcuni temi e di alcune azioni ne ‘Gli esami non finiscono mai’ di Eduardo De Filippo Mattea Claudia Paolicelli Luigi Zuppetta: patriota e letterato a teatro Raccontare le immagini dell’unità: il Risorgimento tra scrittura e arti figurative Toni Iermano Scritture e pitture garibaldine. I ‘Ricordi’ di Gioacchino Toma Domenico Giorgio Esperienze narrative e rappresentazioni figurative del Risorgimento Giuseppe Varone «Dentro la mia voce gli occhi tuoi»: tracce letterarie e figurative di un altro Novecento Schermi e quinte: il Risorgimento a teatro e al cinema Gloria Maria Ghioni Le memorie risorgimentali di Domenico Lopresti: da ‘Noi credevamo’ di Anna Banti al film di Mario Martone Romina Compagnone «Non ai morti, ma ai feriti dell’orrenda strage»: apparire alla Madonna, Carmelo Bene, Bologna 31 luglio 1981
Indice delle sessioni parallele per autore
Adriano Federica ‘Troppo umana speranza’ di Alessandro Mari: un’opera prima sull’alba della Nazione Alfonzetti Beatrice La Repubblica romana: il teatro Allasia Clara Il Lodovico il Moro di Giovan Battista Niccolini Alonzo Giuseppe L’antiaccademismo dei satirici secenteschi: un’anti-geografia italiana Apostolico Aida Sull’idea di patria, lingua e letteratura degli Italiani nei pensieri autografi di Giovanni Pascoli Arnaudi Chiara I personaggi dell’Unità d’Italia nelle letture di D’Annunzio al Vittoriale Atria Rosario Risorgimento narrativo tra storia e romanzesco: ‘I tre alla difesa di Torino nel 1706’. Racconto di Domenico Castorina Baccarini Irene Echi leopardiani in Federico De Roberto Baldassari Gabriele Poesia politica ed encomiastica nel canzoniere Costabili Baragetti Stefania «Non ho in mira che l’Italia»: i carteggi di Giovanni Berchet Beltrami Luca Giuseppe Mazzini critico letterario sull’«Indicatore genovese» Berré Alessio Dantismi lombrosiani: ‘Criminali e degenerati dell’Inferno’ Bocca Lorenzo Dante nei ‘Discorsi’ e nei ‘Dialoghi’ di Sperone Speroni Bocchia Piero Un esempio di lotta interiore nell’ultimo Petrarca: «ma, pur che l’alma in Dio si riconforte» (TM II, 49) Bonetti Caterina Dalla commedia dell’arte al teatro colto: la compagnia Riccoboni tra l’Italia e la Francia Botti Nicole Sulle tracce di Orlando: le riduzioni teatrali del ‘Furioso’ Bracchi Cristina Sorella patria. I ‘Canti’ di Matilde Joannini Calì Sara ‘I provinciali’ di Achille Giovanni Cagna Caliaro Ilvano Identità di frontiera: Slataper e Michelstaedter Camerino Giuseppe Antonio La lettera ‘Sul Romanticismo’ di Alessandro Manzoni Camplone Ilaria Gustavo Modena. Ritratto di un Italiano tra politica e teatro Canneto Salvatore «Fra un inno e una battaglia». Primi sondaggi sulla lirica della Repubblica romana del 1849 Capaldo Francesco Lingua, letteratura e nazione italiana in Giacomo Leopardi Cappelluti Domenico Un esempio di scena gesuitica del Seicento napoletano: le tragedie di Leonardo Cinnamo Carapezza Sandra Cultura toscana e identità lombarda nel novelliere Carini Michele L’umorismo nieviano: lo stato degli studi e alcune proposte Carpi Giancarlo La prosopopea della Nazione: i luoghi d’Italia nelle ‘Confessioni’ Castori Loredana La repubblica dei letterati d’Italia: oltre il policentrismo culturale Catapano Maria Per l’edizione del ‘Canzoniere’ di Giovanni da Falgano Cedrati Chiara Alfieri e le virtù sconosciute
Per autore
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Cenni Alessandra Sibilla Aleramo-Giovanni Cena: un sodalizio esemplare. Da lettere e carte rare e inedite (1902-1909) Ceracchini Silvia Il laboratorio segreto di Elsa Morante: ‘Alibi’ Chemello Adriana Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento Chiariglione Marco Il nome dell’Italia nei commenti quattro-cinquecenteschi della ‘Commedia’: da “Nidobeato” a Castelvetro (1478-1570) Cimador Gianni Gli “Italiani” di Biagio Marin: conflitti, tensioni e contraddizioni nelle pagine autobiografiche Cipolla Sara L’arte del «buon governo»: l’esaltazione dei valori civili nell’arte e nella letteratura fra Tre e Quattrocento Citro Carmela ‘I Giganti della Montagna’ di Pirandello: letture in chiave unitaria di Strehler e di Vetrano-Randisi Compagnone Romina «Non ai morti, ma ai feriti dell’orrenda strage»: apparire alla Madonna, Carmelo Bene, Bologna 31 luglio 1981 Confalonieri Corrado L’apertura di un a-venire tra Leopardi, Montale e Zanzotto Contini Milena La corte e il territorio in Bandello Corcione Noemi Vittorio Imbriani ed il centenario dantesco del 1865 Corfiati Claudia Il nostos di Sincero: riflessioni sull’Arcadia Cori Stefania Alberto Moravia e il Sessantotto: l’intellettuale si confronta con gli studenti Corleto Giovanna Gli ideali cavallereschi nel messaggio civile del Boccaccio Correggi Claudia Interpretazioni di un carattere nazionale: dall’Italia all’America con Giovanni Arpino Cristofaro Greta Per una possibile conciliazione tra filosofia e teologia Pd I commentato da Benedetto Varchi Curti Luca Lo pseudo-Weininger di Zeno. Per un profilo della narrativa di Italo Svevo Daniele Antonio R. Stranieri in patria: Alberto Moravia e Dino Buzzati fra identità e canone D’Arienzo Domenico Da fiorentini sulla questione della lingua: Dante tra ‘De vulgari eloquentia’ e ‘Convivio’ D’Arrigo Patrizia Un falegname, una fatina e un burattino: un modello familiare per la nuova Italia De Liso Daniela L’Italia de ‘I Viceré’ Delli Priscoli Roberta L’inquieta poesia di Niccolò Tommaseo: i canti patriottici Delogu Giulia Pierre-Louis Ginguené, Francesco Saverio Salfi e l’‘Histoire litteraire d’Italie’ Demuru Cecilia La collaborazione di Luigi Meneghello a «Comunità» Dente Vincenzo Da «Hermite des Appenins» che dialoga con un «romito dell’Arno»: Giacomo Leopardi, ‘Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani’ De Propris Fabio Quarant’anni di italiano scritto tra i banchi di scuola. Da Don Milani ad oggi De Stasio Loreta Contribuzioni alla creazione dell’italianità attraverso il trattamento di alcuni temi e di alcune azioni ne ‘Gli esami non finiscono mai’ di Eduardo De Filippo De Vecchis Primo Guido Piovene e Mario Tobino: viaggi in Italia a confronto Di Brazzà Fabiana Carlo Sgorlon scrittore italiano “di frontiera” Di Donfrancesco Dario Ai bordi dell’Italia. Pagine di viaggio di Beppe Severgnini e Michele Serra (con intermezzi pasoliniani) Di Giovanna Maria Dal romanzo alla novella. Una capricciosa trasmigrazione nelle ‘Curiosissime novelle amorose’ di G. Brusoni Di Ruzza Floriana Tra città antiche e rovine moderne: la rappresentazione degli Italiani nei ‘Paralipomeni della Batracomiomachia’
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Indice delle sessioni parallele
Donati Donatella Ugo Foscolo: silenzi e sfoghi dall’esilio Duyck Mathijs Deformazione gaddiana del modello novellistico boccacciano Emmi Cinzia Il linguaggio della politica ne ‘Il sorriso dell’ignoto marinaio’ Esposito Davide Autobiografismo e intertestualità nel canzoniere di Domizio Brocardo Favaro Angelo Ugo Foscolo o dell’arte tragica Favaro Francesca ‘Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara’ (e gli altri racconti greci di Angelica Palli) Fenoglio Chiara Gli Italiani: Leopardi e la scommessa di una nazione da fondare Ferraro Luca Tassoni da De Sanctis a Foscolo: un esempio di mutazione nel canone Fissore Giorgia L’«infelice Italia» nelle ‘Lettere’ e nelle ‘Rime’ di Bernardo Tasso Fortini Laura Racconti d’amore e di guerra (Percoto, Manzini, Morante, Brin) Gaiardoni Chiara Trionfi, pantheon e identità nazionale. Qualche appunto su un motivo di lunga durata Galbiati Roberto Incroci e sovrapposizioni di generi e di forme letterarie nelle ‘Piacevoli notti’ di Giovan Francesco Straparola Gallarini Luca Dai ‘Ritratti umani’ al mito: la ‘Rovaniana’ di Carlo Dossi Gallo Cinzia Il mito dell’italianità in uno scrittore di confine: Pier Antonio Quarantotti Gambini Galvagno Rosalba L’Italia di Consalvo Uzeda nei ‘Vicerè’ di Federico De Roberto Gatti Laura Identità nazionale e parola poetica. Per un percorso didattico sul secondo Novecento Geddes Da Filicaia Costanza L’Italia e gli Italiani nelle riflessioni linguistiche di Leopardi Gentile Claudia Il “realismo” di Francesco Mastriani: un contributo per la rinascita di un popolo Ghioni Gloria Maria Le memorie risorgimentali di Domenico Lopresti: da ‘Noi credevamo’ di Anna Banti al film di Mario Martone Ghirardini Costanza Dal gusto «nostro» al gusto «alemanno»: la prospettiva di Aurelio de’ Giorgi Bertola Giordano Caterina Francesca Una vertigine violenta nel romanzo ‘Con gli occhi chiusi’ di Federigo Tozzi Giordano Roberta La «non men serva che stolta Italia» di Giovanni Guidiccioni Giorgio Domenico Esperienze narrative e rappresentazioni figurative del Risorgimento Giulio Rosa La borghesia italiana al cospetto dell’Europa: i caratteri nazionali e il Leopardi “civile” Iannuzzi Giulia Il popolo italiano nei romanzi di Garibaldi: raffigurazioni, analisi sociali, strategie testuali Iermano Toni Scritture e pitture garibaldine. I ‘Ricordi’ di Gioacchino Toma Izzi Pierangela Memoria della ‘Commedia’ nei ‘Sonetti’ del Burchiello Langiano Anna Il corpo e la Storia: ‘L’arte della gioia’ di Goliarda Sapienza Lanzilao Elisa La dimensione europea di Alberto Savinio, scrittore eterodosso Lanzola Andrea ‘I Mille’ di Giuseppe Bandi: un autentico romanzo storico Laurenti Guido «Oh patrie guerre funeste!»: amore innocente, onore, morte nella ‘Francesca da Rimini’ di Silvio Pellico Lazzerini Marco L’Italia «lacerata e distrutta» nel corpus epistolare di Baldassarre Castiglione Leo Marco ‘Eufemio da Messina’: scrittura e riscritture da Pellico a Cammarano Liberale Paola Gli Italiani della letteratura. Autobiografismo e Italiani ideali nella letteratura del Novecento
Per autore
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Lo Castro Giuseppe Il corpo rimosso del Risorgimento: ‘Noi credevamo’ di Anna Banti Lo Verme Stefano L’Italia ‘conformista’ nella narrativa di Alberto Moravia Lucioli Francesco L’eco di Poliziano nella ‘Laude delle donne bolognese’ di Claudio Tolomei Magro Letizia Quando la lettera diventa racconto: osservazioni sull’epistolario di Umberto Saba Manca Dino La lingua e le lingue dei Sardi. Dentro il laboratorio dello scrittore tra filologia e critica Manganaro Andrea I lazzari, Pulcinella e il «carattere del popolo meridionale», tra vecchia e nuova Italia Marchese Dora «Ora che l’Italia è fatta, bisognerebbe unificare le cucine italiane!» (F. De Roberto). La dimensione gastronomica nell’unità d’Italia come (in) gradiente politico-sociale Marchesi Valentina «Poi che la patria così vole» Pietro Bembo, la crisi italiana e la genesi dell’‘Historiae Venetae’ (1527-1530) Marchianò Antonia Lomonaco: colpo d’occhio sull’Italia Mariatti Barbara Il “romanzo familiare” di don Gonzalo: una lettura della ‘Cognizione del dolore’ Marino Toni Grandi scrittori e made in Italy: il contributo della letteratura da Pascoli a Moravia Marrocco Mauro La ‘Gelosia del Sole’ di Girolamo Britonio Martellini Manuela I traditi Lari, ovvero Leopardi e il sogno della Patria Martillotto Francesco L’Italia unita nell’opera di Flavio Biondo Martino Valentina Dante nella ‘Difesa della lingua fiorentina e di Dante, con le regole da far bella e numerosa la prosa’ di Carlo Lenzoni Meirlaen Kianoush «Era la solita Roma e i soliti romani: come li avevo lasciati, così li ritrovavo»: la presenza di G.G. Belli nei ‘Racconti romani’ di Alberto Moravia Merci Alessandro Gozzano lettore di Dante Mesiano Luisella Spazi d’identità per mastro-don Gesualdo Mihaljević Nikica Un Italiano in Dalmazia precursore del Risorgimento: l’abate vicentino Bernardino Bicego Mirone Luisa L’età dell’innocenza perduta: la famiglia nei ‘Romanzi della rosa’ di Gabriele D’Annunzio Monastra Rosa Maria Spartaco nel Risorgimento. A proposito di una tragedia di Ippolito Nievo Morace Rosanna Incontro di lingue nella letteratura-mondo italiana Nacinovich Annalisa Identità nazionale e educazione letteraria Necchi Rosa Patria e studi nelle lettere di Terenzio Mamiani Nesi Cristina Il lato oscuro degli Italiani nell’opera di Ermanno Rea Nicastro Guido Gruppo di famiglia tra i Borbone e i Savoia: ‘Ferdinando’ di Annibale Ruccello Nicosia Stefano Una lettura del poema comico in ottave attraverso il ‘Morgante’ di Luigi Pulci Norbedo Roberto Scipio Slataper e Biagio Marin, tra Tommaseo e Dioniso Olini Lucia Identità e “mutazione” degli Italiani in Pasolini. Una proposta didattica Olivero Gabriella Joannes Tonsus traduttore di se stesso Olivieri Ugo Maria Aspettando De Sanctis. La ‘Storia della letteratura italiana’ come costruzione dell’identità nazionale Pace Manuel Giordani e la ricezione delle canzoni di Leopardi nel 1819 Padovani Gisella I romanzi di Cletto Arrighi tra speranze risorgimentali e delusioni post-unitarie Paino Marina Amalia Guglielminetti (n)e(l)la poesia di Gozzano Paladini Musitelli Marina Memoria e rappresentazione dell’impresa garibaldina tra mitizzazione e dissacrazione
XVIII
Indice delle sessioni parallele
Palladini Irene L’ombra della parola, la luce del pensiero. Il silenzio nella poesia di Cesare Viviani Palma Loredana L’elaborazione di un mito: ‘genio’ e grandezza degli Italiani nei periodici della Napoli preunitaria Panella Claudio Industria e letteratura: identità individuali e collettive alla prova del neocapitalismo italiano (’50-’70) Panetta Maria Il fondale del Risorgimento nelle ‘Menzogne della notte’ Paolicelli Mattea Claudia Luigi Zuppetta: patriota e letterato a teatro Pellizzari Patrizia Ludovico il Moro: la voce degli storici rinascimentali Pesce Veronica Pascoli e le illustrazioni di Plinio Nomellini ai ‘Poemi del Risorgimento’ Petrilli Susan-Ponzio Augusto Letteratura italiana e lingua Pettinari Daniele Quale «patria» per la nostra lingua? Lo spazio letterario come veicolo per la codificazione linguistica nel Cinquecento Pevere Fulvio «La non più bella Italia»: Pietro Aretino Piatti Angelo Alberto «Non serva agli antichi, né ai novi potenti»: Italia e Italiani nell’ode di Giovanni Prati ‘All’arrivo delle ceneri di re Carlo Alberto’ Pietrucci Chiara Leopardismi patriottici nella poesia di Caterina Franceschi Ferrucci Pilato Francesca Despoti e vittime, sognatori e opportunisti, ingenui e corrotti: il “sistema famiglia” nei ‘Viceré’ di Federico De Roberto Pontis Annalisa Collodi, ‘Pinocchio’ e la lingua nazionale Ponzio Augusto-Petrilli Susan Letteratura italiana e lingua nazionale Porciani Elena «La morte è un fiore di pazienza». Le trasmutazioni del tragico in Elsa Morante Primo Novella Su Leopardi, l’Italia e alcune traduzioni poetiche francesi: uno sguardo d’oltralpe Puggioni Ilaria La ‘Conquista di Roma’ di Matilde Serao Purpura Michele Angelo Patologie dello sguardo: Capuana e Farina tra scienza e letteratura Rainone Annibale «La prigione è una lima sì sottile / Che aguzzando il pensier ne fa uno stile», il ‘Manoscritto di un Prigioniero’ di Carlo Bini Rasera Maddalena Insegnar per racconti: ritratti di personaggi nell’‘Idioma gentile’ Rebagliati Marta ‘1944’: Umberto Saba e la ricerca dell’identità italiana attraverso i classici Ricca Silvia Leopardi: un punto di vista “in negativo” sull’Italia e sugli Italiani Rodda Giordano L’italianità dell’‘Orlandino’ di Teofilo Folengo Rossetti Stefano L’immagine dell’insegnante. Fra libri e televisione Rossi Luca Carlo La percezione dell’italianità negli antichi commenti alla ‘Commedia’ Ruggerini Davide Aspetti della fortuna editoriale di Dante nel Risorgimento Ruozzi Cinzia Dante e Levi. Percorsi di Letture parallele Salina Borello Rosalma «Siamo entrati in giuoco anche noi». Il mondo contadino di Rocco Scotellaro e l’Unità d’Italia Salmaso Valentina «Con qual orror s’ascolta, / con qual orror si mira»: Ciro di Pers e il lamento patriottico nell’immaginario barocco Salvadè Anna Maria Il Parnaso degli uomini illustri: gli ‘Elogj italiani’ di Andrea Rubbi Sari Carmen ‘Memorie di un garibaldino’: la figura e l’opera di Ippolito Nievo Savoretti Moreno I berneschi e il sacco di Roma Schembari Andrea Un lungo secolo «sentimentale». L’altro Settecento di Leonardo Sciascia Sepe Rita Letteratura-memoria-identità collettiva: una riflessione su ‘Piazza d’Italia’ di Tabucchi Serkowska Hanna Le confessioni di due Italiane: la riscrittura del modello nieviano in ‘Noi credevamo’ di Anna Banti e ‘La briganta’ di Maria Rosa Cutrufelli Soglia Nunzia Le donne italiane negli scritti giornalistici di Matilde Serao
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Per autore
Spalanca Lavinia Le novelle di guerra di Federico De Roberto e la crisi del modello unitario Stazzone Dario ‘Un volto che ci somiglia’: il ritratto dell’Italia di Carlo Levi Tavazzi Valeria Prima ricognizione sulla Repubblica romana del 1849 e la narrativa: Antonio Bresciani Teucci Simonetta Dall’Italia ideale all’Italia reale Timo Filippo Un «Italiano della letteratura» all’estero: Niccolò Giosafatte Biagioli e il suo impegno per l’affermazione delle lettere italiane nella Parigi del primo Ottocento Tomassini Francesca ‘Calderón’ di Pasolini: il sogno di Rosaura Tonin Simone Identità dallo spazio narrato. Contributi da un’Italia unita Tramontana Carmelo Foscolo, Manzoni, Nievo: genealogie della famiglia nella letteratura risorgimentale Valerio Sebastiano La ‘Canzone de Italia’ di Giovanni Tommaso Filocalo Varone Giuseppe «Dentro la mia voce gli occhi tuoi»: tracce letterarie e figurative di un altro Novecento Veneri Toni I viaggi in Italia di Paolo Rumiz Venturini Monica Per una cartografia della letteratura postcoloniale italiana. ‘I confini dell’ombra’ di Alessandro Spina: «scrivere per la posterità» Viti Alessandro Foscolo iniziatore della fortuna della figura letteraria dell’esule politico nel Risorgimento italiano Zorzenon Alessia Romana
Il sacrificio di Teresa ne ‘La piccola fonte’ di Roberto Bracco
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
Bordi e borders. Scrittori e viaggiatori tra centro e periferia Istituzioni e intellettuali verso l’Unità Dal Piemonte all’Italia L’insegnamento dell’italiano in Francia nel primo Ottocento Narrazioni novecentesche del dispatrio
BORDI E BORDERS. SCRITTORI E VIAGGIATORI TRA CENTRO E PERIFERIA
GIANNI CIMADOR Gli “Italiani” di Biagio Marin: conflitti, tensioni e contraddizioni nelle pagine autobiografiche
La posizione di Biagio Marin nei confronti dell’Italia e degli italiani è quella di una duplice marginalità, geografica e linguistica, che produce una vera e propria nevrosi dell’italianità, carica di sfumature diverse e di contraddizioni, come dimostra, sul fronte della poesia, la scelta dialettale, espressione di un’ansia di purezza e di assoluto caratterizzata da una «connotazione eremitale»,1 dalla ricerca di uno spazio circoscritto nel quale poter ricomporre, oltre alle fratture e alle delusioni storiche, la inquieta consapevolezza della propria separatezza: Perché il problema è tutto qui: un dialettale non può pretendere di essere considerato alla pari degli scrittori e dei poeti in lingua nazionale. Badi che c’è di mezzo una prassi secolare e la creazione di miti molto importanti come quello di Montale che rappresentano la legge dell’avvento tra le popolazioni varie d’Italia non solo della lingua ma anche di un’anima unitaria nazionale. […] Io sono in realtà un piccolo isolano di un’isola minima al margine del mondo italiano e vicina al mondo slavo e magari a quello tedesco per essere stati noi sotto l’Austria e avere io frequentato scuole tedesche e l’Università di Vienna. Tutti questi coefficienti hanno reso me un vero marginale e di una realtà così isolata e così elementare da non poter costituire un valore.2
Nel nodo biografico di Marin è riassunta tutta la situazione contraddittoria e stratificata della Venezia Giulia, la cui specificità consiste proprio nella «italianità
1
Cfr. F. Brevini, Le parole perdute. Dialetti e prosa nel nostro secolo, Torino, Einaudi 1990, p. 241. Sulla purezza della poesia di Biagio Marin si veda anche C. Bo, L’arcipelago dei dialettali, in Storia della letteratura italiana. Il Novecento, II, a cura di E. Cecchi, N. Sapegno, Milano, Garzanti 1987, p. 177. 2 Lettera di Biagio Marin a Diego de Castro del 16 gennaio 1982, ora in «Studi mariniani», II, 2 (dicembre 1992), p. 181.
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marginale posta […] a contrasto con altre stirpi e altre lingue»,3 che diventa oggetto di una sofferta rielaborazione interiore, di un serrato confronto con se stessi, con «una zona d’ombra e di solitudine che è stata quasi sempre disperata»,4 producendo, accanto all’amplificazione dell’immagine dell’Italia, anche l’esasperazione di un nazionalismo tutto particolare, nel quale si canalizza una forma di nevrosi ansiogena: Il nazionalista di confine non esaspera qualcosa di concreto, di buono, che c’era già in lui, […] come per esempio fa un toscano quando decide che gli italiani sono il popolo più grande di questo mondo; […] il nazionalista di confine è povero, diseredato, e non gli rimane altro che soffocare mezza sua personalità a vantaggio dell’altra, […] cioè […] la nevrastenia.5
Quella che riconosciamo in Marin è la cifra spirituale che contraddistingue una intera generazione di ‘scrittori di frontiera’, che guarda all’Italia con una «ingenuità centroeuropea»6 e appare perennemente in ritardo e inadeguata rispetto all’oggetto del proprio amore smisurato, ma che tenta di trasformare questa difficoltà e la sofferenza per l’incomprensione degli italiani nei confronti dei giuliani in una risorsa positiva: Noi siamo – la nostra generazione, intendo – pervasi ancora da un’educazione romantica, magari un po’ tarda e decadente, che è quella la quale ha permesso di costituire il regno d’Italia un secolo fa. Questo romanticismo si è spento un po’ prima negli italiani non triestini e giuliani che in questi ultimi. Le ragioni storiche sono ovvie, ma questo fatto rende la nostra generazione psicologicamente sfasata. Se l’Italia si dovesse rifare oggi, con i bigliardini, il football, il ciclismo, il hula-hoop, Lascia o raddoppia e il Musichiere, Le garantisco io che l’Italia non si farebbe. Mentre noi, vecchi idioti, saremmo ancora disposti a dare la vita per salvare Trieste o riannettere l’Istria.7
La vastissima produzione diaristica ed epistolare di Biagio Marin, a partire dagli anni viennesi immediatamente precedenti la prima guerra mondiale fino agli ultimi mesi di vita, rileva la «propensione giuliana all’autobiografismo»8 che diventa anco-
3
E. Sestan, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale (1947), a cura e con postfazione di G. Cervini, Udine, Del Bianco 1997, p. 11. 4 C. Bo, L’eredità di Leopardi, Firenze, Vallecchi 1964, p. 474. 5 E. Bettiza, Il fantasma di Trieste, Milano, Longanesi, p. 243. 6 Cfr. la lettera accompagnatoria di Pier Paolo Pasolini a Vanni Scheiwiller e ai lettori per Solitàe, poesie scelte di Biagio Marin a cura di P. P. Pasolini (Milano, All’insegna del Pesce d’Oro 1961), ora in «Studi mariniani», IV, supplemento al n. 4 (dicembre 1995), p. 35. 7 Lettera di Biagio Marin a Diego de Castro del 13 maggio 1959, in «Studi mariniani», II, 2 (dicembre 1992), p. 123. 8 Cfr. R. Lunzer, Irredenti redenti. Intellettuali giuliani del ’900, Trieste, LINT 2009, p. 59. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
Gli “Italiani” di Biagio Marin
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ra più accentuata passando attraverso l’esperienza vociana, ponendosi come strumento privilegiato di conoscenza di una realtà dicotomica e conflittuale, e di superamento, sempre irrisolto, del senso di marginalità e della propria infelicità personale in una prospettiva universale: l’ossessione vociana della verità9 e la convinzione nella necessità di una «formazione di tutto l’uomo e al di sopra delle preoccupazioni individuali utilitarie»,10 oltre al radicamento in strutture di pensiero ambivalenti che richiedono continui processi di mediazione e configurano una identità dinamica, una idea di cultura come «traduzione»,11 determinano un atteggiamento antiretorico e antiletterario che vuole esprimere una «sintesi di cultura e di vita»12 e si traduce spesso in posizioni antidogmatiche.13 Antidogmatica e «socratica»14 è anche l’adesione di Marin alla politica, che si colloca sulla linea mazziniana e slataperiana e presuppone l’affermazione della patria come «perentoria esigenza», come dovere al quale Mazzini ha dato, soprattutto nel contesto giuliano, una consistenza culturale e ideale: Lo amavamo perché a noi, gente di confine, ancora incerta, aveva dato una fede sicura e soprattutto una patria. Una patria non data dalla terra, non costituita dal passato, che non esisteva prima di noi, con la possibilità quindi di farci sentire di essere dei superflui o addirittura degli stranieri; ma una patria ancora tutta da farsi, sempre da farsi, che nasceva e cresceva con noi e ci apparteneva, perché costituita dalla nostra stessa vita. Era il nostro dovere, un dovere magnifico, proiettato per millenni nell’avvenire; e ognuno di noi era chiamato a collaborare da libero, in dignità. […] L’Austria era una realtà di potenza; l’Italia mazziniana soltanto un ideale, ma ci scaldava il cuore. E al suo cospetto tutta la realtà austriaca svaniva. […] Eravamo soltanto italiani, noi, e da lui avevamo appreso il meraviglioso concetto di popolo, come processo vivo di organizzazione della nazione ai fini dell’ideale. Organizzazione gerarchica, che proiettava e ripeteva Dio, quale vertice sublime della piramide.15
9
Cfr. G. Prezzolini, L’italiano inutile (1953), Milano, Rusconi 1983, p. 126. Cfr. G. Lombardo Radice, Verso una nuova pedagogia e una nuova educazione italiana, in «La Voce», IV, 51 (19 dicembre 1912), p. 966. 11 Cfr. D. Bachmann-Medick, Kultur als Text. Die anthropologische Wende in der Literaturwissenschaft, Frankfurt/M., Fischer 1996. 12 Cfr. R. Lunzer, Irredenti redenti… cit., p. 109. 13 Cfr. L. Zorzenon, «E al sole vorrei tornare…». Autoritratto di Biagio Marin: lettere a Oliviero Honoré Bianchi (1936-47), in «Studi Mariniani», I, 1 (dicembre 1991), pp. 214-215. 14 Cfr. la lettera di Biagio Marin a Carlo Tigoli (direttore del «Messaggero Veneto» tra 1948 e 1965) del 4 febbraio 1955, ora (col titolo Caro dottore 1955) in B. Marin, Autoritratti e impegno civile, a cura di E. Serra, con la collaborazione di P. Camuffo e I. Valentinuzzi, Pisa, Fabrizio Serra Editore 2007, p. 166. 15 B. Marin, Gorizia. La città mutilata (1940), Gorizia, Editore Il Comune di Gorizia 1956 (III ed.), p. 53. Sull’influenza esercitata da Mazzini sui “vociani” giuliani si veda in particolare E. Serra, Giuseppe Mazzini, Gorizia 1905. Trieste anni ’50, in Mazzini e il mazzinianesimo nel contesto 10
Bordi e borders. Scrittori e viaggiatori tra centro e periferia
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L’idea del carattere spirituale e necessario della patria come «spirito in atto, che si accresce, si modifica, si trasforma, ma secondo la legge del suo passato»,16 identifica l’essenza di una nazione nel concetto di cultura che è «acquisizione dei valori della tradizione che diventano condizione di vita e di vita nostra e si aumentano con ogni battito del nostro cuore e si difendono con la vita perché sono le ragioni della vita stessa»:17 Ora l’italianità non è un fatto naturalistico, è fatto spirituale, processo di vita nell’alveo di una tradizione spirituale che ha le sue lontane origini nei valori eterni del mondo greco-romano, in quelli del cristianesimo cattolico medioevale, che ha i suoi eroi in Agostino, in Tommaso, in Dante. Segue la grande fioritura umanista, e quella artistica del ’500: seguono Galilei e Vico e lo splendido nostro ’800, il secolo più completo umanamente, più armonioso della nazione italiana. Questa è la nostra tradizione: 25 secoli di lavoro, di lotte, di miserie, ma anche di glorie dei più grandi popoli del Mediterraneo e, per quanto noi sappiamo, fra i grandissimi della Terra. Siamo europei, perché a tutta l’Europa abbiamo trasmesso la cultura nostra, la nostra religione, la nostra arte, il nostro diritto, e in compenso abbiamo avuto coadiutori i migliori dei figli degli altri popoli.18
Il complesso giuliano dell’‘ultrapatriottismo’, legittimato sulla base di una pretesa di ‘vera’ italianità e della rivendicazione dei valori della «civiltà del Risorgimento»,19 esprime un’ansia di totalità e di completezza che si risolve in una pratica ipertrofica e schizofrenica delle passioni nazionali, nel «frasario retorico ottocentesco da Risorgimento» che per Bazlen caratterizza la borghesia triestina e ne evidenzia la separatezza rispetto alla comunità nazionale,20 la tendenza a sentirsi ‘stranieri in patria’ e di conseguenza a rifugiarsi in una dimensione astratta ed ‘eccessiva’ per sottrarsi alla delusione dell’Italia reale, di un paese contraddittorio che non è mai come lo si sogna: come dimostra soprattutto lo scritto Coscienza nazionale, anche Marin rischia spesso di cadere in una retorica tribunizia, riconoscendo poi tardivamente
storico centroeuropeo, Atti del Convegno internazionale di studi di Trieste, 6 maggio 2005, a cura di G. Nemeth, A. Papo, F. Senardi, Duino Aurisina (TS), Associazione Culturale italo-ungherese del Friuli Venezia Giulia «Pier Paolo Vergerio», 2005, pp. 119-130. 16 B. Marin, La nostra lotta nazionale secondo Scipio Slataper (1952), in Id., Autoritratti e impegno civile cit., p. 148. 17 B. Marin, Il gabinetto di lettura (1948), in Ivi, p. 131. 18 Ibidem. 19 Cfr. al riguardo A. Omodeo, L’età del Risorgimento italiano (1931), prefazione di G. Pugliese Carratelli, Napoli, Vivarium 1996, e inoltre A. Brambilla, Parole come bandiere. Prime ricerche su letteratura e irredentismo, Udine, Del Bianco 2003. 20 Cfr. R. Bazlen, Intervista su Trieste, in Id., Scritti, a cura di R. Calasso, Milano, Adelphi, p. 137. Sul localismo e sul tardo romanticismo letterario di Trieste si veda anche E. Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, Firenze, Vallecchi 1988, in part. p. 19. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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che «il patriottismo di tanta gente era una illusoria efflorescenza di parole, era senza radici, mancava di quel minimo superamento dell’individualismo atomistico, necessario a creare un coibente, una solidarietà umana».21 L’adesione ai valori del mazzinianesimo che a Trieste, più che avere un’origine repubblicana, è espressione della sinistra radicale del movimento liberale, in Marin passa attraverso l’identificazione nella figura di Scipio Slataper, critico nei confronti della falsa italianità dei nazional – liberali e del loro irredentismo «fighi e zibibe»22 ed emblema di una ulteriore, drammatica, nevrosi, dal momento che il «dissidio [fra ideali patriottici e interesse economico della Trieste asburgica], e la lotta per l’indipendenza nazionale assorbivano tutta la possibilità politica della nostra generazione»: Ma Scipio Slataper era uomo di frontiera anche in un senso più profondo: sono gli uomini di frontiera che acquistano vera coscienza della propria entità, perché solo la lotta e l’urto con gli altri, che nelle nostre terre convivono con noi, nelle stesse città, nelle stesse borgate, può dare chiara consapevolezza dei propri valori e di quelli altrui. Conosciamo così noi stessi, ma anche i popoli vicini nel loro bene e nel loro male. E la Patria per noi non è uno stato di naturalità, ma una libera elezione, un instauramento progressivo in noi di valori; non un dato, ma un dovere da compiere con ogni nostro respiro, mazzinianamente. «La Patria – diceva Giuseppe Mazzini, il grande educatore degli italiani – non è data dalla terra, non dalla lingua, non dai comuni costumi: è più alta: è data da una volontà comune, è fatto di coscienza, è azione perenne per il compimento di una missione di un popolo nel mondo». Così intendeva lo Slataper la Patria: realtà religiosa e sacra, da servire con la devozione di tutta la vita, e, se necessario, col sacrificio supremo.23
A questa visione, risultato di un sentimento esasperato della storia e della politica, dell’«imperativo risorgimentale di totalità invalso nel gruppo dei triestini»,24 si affianca, in modo contraddittorio, l’idea dell’irredentismo culturale, contrapposto da Slataper all’intransigente irredentismo politico che per Trieste risulta pericoloso come «la scure sulle radici»:25
21
B. Marin, Commento all’Elegia su Trieste di Dino Buzzati, in «Messaggero Veneto», 23 maggio 1950, ora in Id., Autoritratti e impegno civile cit., p. 141. 22 Cfr. S. Slataper, L’irredentista «fighi e zibibe», in «La Voce», 6 maggio 1909, ora in Id., Scritti letterari e critici, a cura di G. Stuparich, Milano, Mondadori 1956, pp. 13-14. 23 B. Marin, Umanità di Scipio Slataper, in Id., I delfini di Scipio Slataper, Milano, Scheiwiller 1965, pp. 60-61. Sul patriottismo giovanile di Marin e sulla sua formazione mazziniana si veda G. Talami, Biagio Marin e la Venezia Giulia: dagli interventi giornalistici alle «Elegie istriane», in «Studi mariniani», II, 2 (dicembre 1992), pp. 51-76. 24 Cfr. R. Lunzer, Irredenti redenti… cit., p. 165. 25 Cfr. S. Slataper, Lettere triestine. La vita dello spirito, in «La Voce», 25 marzo 1909, ora in Id., Scritti politici, a cura di G. Stuparich, Milano, Mondadori 1954, p. 103. Bordi e borders. Scrittori e viaggiatori tra centro e periferia
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Irredentismo colturale. È l’irredentismo triestino, è quello che i socialisti affermarono per la prima volta, negando l’importanza dei confini politici. Ed è l’irredentismo della Voce. Noi non neghiamo l’importanza dei confini politici; ma sentiamo fermamente che non contengono la patria. […] Noi, è inutile negare, viviamo internazionalmente; e fra un tedesco intelligente e un italiano sciocco, preferiamo il tedesco. In un certo senso, dunque, ma nel solo possibile, è già compiuta la confederazione dei popoli.26
Soprattutto gli intellettuali giuliani vedono nella guerra la funzione etica di una «esperienza conclusiva» di liberazione,27 l’opportunità di uscire dal loro solipsismo e dal «margine della storia»,28 una occasione «per controbilanciare la loro vacuità morale con un atto di sacrificio»29 che servisse in un certo senso da patente di italianità, da dimostrazione dello smisurato desiderio di ricongiungimento all’Italia, di un riconoscimento: come in Giani Stuparich, anche in Biagio Marin, in particolare dopo la morte del figlio Falco nella seconda guerra mondiale, si sarebbe sviluppato un processo di spietato revisionismo interiore che riconosceva la «tragica illusione» della volontà di «costruire nel sangue l’unità degli italiani»,30 superando così l’isolamento dell’intellettuale con l’attivismo e l’interventismo. Ancora nel 1922, sebbene siano venuti meno «i frenetici ritmi all’anima, i sogni garibaldini»31 e sia già in atto una fase di «decantamento della guerra e di ciò che essa valse per la cultura e per l’uomo italiano»,32 la guerra e le tensioni sociali sono viste come un sacrificio necessario attraverso il quale è possibile ricomporre in una armonia i drammi della storia, diventando «fratelli di tutte le patrie combattute», nell’ottica di un inestinguibile attivismo volontaristico che vuole suscitare una sempre più larga condivisione e cooperazione ideale incentrata su una verità collettiva: L’Italia s’è costituita attraverso alla sconfitta e alla vittoria la sua nuova fisionomia storica. Il male antico e nuovo, la retorica nazionale e l’indisciplina individualistica, sono sempre da superarsi. Ma essi non sono più soltanto in noi, ma anche davanti alla nostra coscienza, e c’è una volontà precisa di combatterli e di vincerli. Una generazione nuova s’era maturata alla guerra, alla lotta. Di questa generazione Scipio era uno
26
Ibidem. Cfr. G. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, Milano, Garzanti 1948, p. 153. 28 C. Stuparich, Cose e ombre di uno (1919), prefazione di G. Stuparich, Empoli, Ibiskos 2006, p. 272. Si veda inoltre M. Isnenghi, La letteratura italiana e la guerra, in «Ateneo Veneto», I, 1 (gennaio 1963), p. 100. 29 G. Stuparich, Scipio Slataper, Firenze, La Voce 1922, pp. 236-237. 30 la lettera di Biagio Marin a Giuseppe Prezzolini del 31 luglio 1954, Archivio Prezzolini di Lugano cit. in R. Lunzer, Irredenti redenti. Una dialettica italo-austriaca, in Storia d’Italia: le regioni dall’unità a oggi. Il Friuli Venezia Giulia, a cura di R. Finzi, C. Magris, G. Miccoli, Torino, Einaudi 2002, p. 1221. 31 M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, Bari, Laterza 1970, p. 199. 32 Id., La letteratura italiana e la guerra cit., p. 106. 27
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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dei migliori e dei più maturi. […] Bisogna ripensarla, bisogna riviverla se vogliamo riuscire a qualcosa la sua esperienza; essa deve servire anche a noi che siamo i suoi conterranei, i suoi connazionali. Essa ha un nome preciso: sacrificio. Distacco continuo, doloroso dalla realtà immediata, dal semplice naturale essere, per ascendere a forme di vita sempre più larghe, e così dilatandosi, accogliere nel proprio amore, nella propria volontà gli altri, che nella loro ideale unità costituiscono la Patria.33
Oltre a Slataper, figure come Michaelstadter, Enrico Elia, Carlo Stuparich sono tutte l’espressione della stessa nevrosi ansiogena per una situazione di marginalità e di «totalità infranta»,34 che si risolve nella guerra, ovvero nel «rito di rifondazione di senso […] di una cultura che attraverso l’annientamento desidera rinascere»:35 è il dissidio di una «generazione della trincea»,36 per la quale «se si escludono i Doveri dell’uomo di Mazzini, di una cultura teoretica – politica non era il caso di parlare»,37 imbevuta di un idealismo che avrebbe dimostrato tutti i suoi limiti al contatto con la realtà bellica e che era animato da una ossessione di redenzione e di confronto con la morte,38 che «li poneva in partenza come estranei o come diversi, se non anche piegati da antiche colpevolezze, a cui soltanto la guerra italiana avrebbe potuto dare diritti che li equiparassero agli altri italiani».39 Il prezzo pagato per la guerra in termini di vite umane e di aspettative deluse finisce per acuire la sindrome della delusione e la sensazione di essere ‘figli illegittimi’ di una patria che non sa comprendere la peculiarità giuliana, proiettata già in una dimensione europea e riflesso della mancanza di una classe dirigente con una autentica coscienza nazionale: La maledizione fondamentale degli italiani è proprio questa: sono vissuti isolati, fuori d’Europa, per tanti secoli, e mancano radicalmente della esperienza dei contatti e dei
33
B. Marin, Scipio Slataper, in «L’Azione», 1 dicembre 1922, p. 11. C. Magris, L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna, Torino, Einaudi 1984, p. 193. 35 G. Morandini, Alle porte del mondo slavo: una rete di voci e di sguardi, dattiloscritto, intervento al convegno «Restaurare l’uomo. Giani Stuparich, 1891-1991» (Trieste, 28-30 novembre 1991) cit. in R. Lunzer, Irredenti redenti… cit., p. 61. 36 Cfr. B. Marin, Oggi la grande voce del Carso sovrasta quelle delle trincee, in «Il Piccolo», 22 giugno 1968, p. 14. 37 Cfr. Id., Il pensiero culturale politico di Scipio Slataper, in Id., I delfini di Scipio Slataper cit., p. 143. 38 Il tema della guerra come diversivo, come «oscuro bisogno della nostra giovinezza di confrontarsi […] con la morte» è presente anche in E. Rocca, La distanza dai fatti, Milano, Giordano 1964, p. 44. 39 S. Tavano, Irrequietezze e sospensioni idilliche, in Per una storia della coralità goriziana, a cura dell’Associazione Corale «C. A. Seghizzi», LXXV Anniversario della Fondazione, Gorizia 1995, p. 20. 34
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conflitti con gli altri popoli. Perciò non capiscono la psicologia dei giuliani, che da secoli resistono allo sforzo e dei tedeschi e degli slavi a conquistare la terra, a insinuarsi nella pianura veneto-friulana. Anche i migliori degli italiani, sono degli ingenui provinciali e mai, in nessun caso, anche se hanno grande ingegno e grandissimo nome, sono europei e ciò per mancanza di esperienza. No, noi non vogliamo restare dove siamo; noi vogliamo vivere con la nostra nazione, in Italia. Poiché italiani siamo e Italia è la terra nostra. Nessuna delusione ci può attendere; ormai conosciamo la vita e la morte della nostra nazione e non intendiamo di disdirla. Comunque sia, è la nostra nazione. Certo non siamo d’accordo con la mancanza di dignità virile che si riscontra in troppa gente del nostro popolo, non siamo d’accordo con il rinnegamento della Patria, perché essa costa sangue; non siamo d’accordo con la deficienza assoluta di spirito sociale e di solidarietà nazionale.40
Trieste in particolare, oltre a vivere lo «iato irreparabile […] tra la vita e il valore»,41 nel quale si traduce il dualismo freudiano fra il «complesso di interessi» asburgici, antirisorgimentali, e il «sentimento» risorgimentale, italiano,42 rivela l’incompiutezza e la tragica assenza dell’Italia, non soltanto «dell’Italia istituzionale e ufficiale, bensì di quella ideale, morale, capace di muovere dal basso la gente motivandola oltre gli effetti materiali, dando loro un prestigio di una rinnovata nobiltà di spirito»,43 anche se si tratta di superare il sentimentalismo provinciale che caratterizza la borghesia triestina e che Marin in più occasioni biasima, in quanto espressione di incertezza spirituale e di bastardaggine umana: Trieste è malata di male austriaco di eteronomia; continua a essere governativa e leccapiattina; ma non sa che i piatti della Burocrazia italiana sono magri e amari; […] l’Italia non è l’Austria. […] Ma i triestini si ostinano a non volerla capire e continuano a fare i governativi a tout prix. […] Bisogna rinunziare al mito dell’Italia-Austria, per accettare l’Italia italiana e viverci dentro secondo le sue leggi di sviluppo. Trieste insomma deve costituirsi una vera coscienza autonoma (altro che l’autonomia austriaca!) di un’autonomia veramente italiana. Deve crearsi una classe dirigente, che non ha più, e smetterla di fare la romantica a fondo perduto. […] Dappertutto lagni e disperazioni e imprecazioni in camera caritatis, e mai una parola franca, seria, serena. Anche i migliori hanno tradita la causa di Trieste per opportunismi sentimentali, facendo molto male a Trieste e all’Italia.44
40 B. Marin, Commento all’Elegia su Trieste di Dino Buzzati, in «Messaggero Veneto», 23 maggio 1950, ora in Id., Autoritratti e impegno civile cit., p. 142. 41 A. Ara, C. Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Torino, Einaudi 1984, p. 61. 42 Cfr. C. Schiffrer, La città declassata (1958), in Dopo il ritorno all’Italia. Trieste 1954-1969, a cura di G. Negrelli, Udine, Del Bianco 1992, p. 90. 43 Ivi, p. 91. 44 Observator [B. Marin], La crisi di Trieste, in «L’Azione», 25 marzo 1922, ora in «Studi mariniani», III, 3 (dicembre 1993), p. 95.
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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Dalla vocazione autonomista di Trieste derivano, oltre al capovolgimento dialettico dell’irredentismo comune anche ad altre minoranze nel rapporto con il ‘centro’,45 una forma particolare di ‘coscienza nazionale’, una tendenza a proteggere la propria differenza, a conservare il respiro sovranazionale acquisito nell’ambito della monarchia asburgica, che sostiene la nazionalità culturale italiana ma a patto che venga riconosciuta la nazione politica, con il rischio che la difesa del proprio particolarismo trasformi la città in una entità astratta, destoricizzata, e quindi in una proiezione immaginaria che diventa oggetto di processi di autoidentificazione e di mitopoiesi,46 gli stessi che alimentano l’irredentismo, dovuti anche alla mancanza di una base sociale omogenea: Non vogliono essere italiani, non possono essere tedeschi, non hanno la forza di essere slavi. E allora si rifugiano in una patria astratta, che è costruita sulla loro misura, e immaginano una Trieste tutta fatta come loro, il paradiso dei senza nazione, dei senza fede sociale; una patria dove si possa vivere senza doveri, dove si possa pensare esclusivamente al pane e al companatico ed essere ben grassi e sazi, al di qua di ogni dramma umano. Non avendo carattere, aspirano ad un mondo senza carattere e accusano i grandi competitori di voler levare loro la loro felicità. Sono i figli del caos, della confusione ed odiano ogni umano volere che si acquisti con la fede in un ideale e chieda il sacrificio della persona particolare in favore di una comunità, sia essa nazionale, che di classe. Il loro motto è: Trieste ai triestini, con l’esplicita riserva che triestini sono soltanto loro, gli sradicati. Non hanno nessuna realtà, né umana, né politica; sono dei burattini che finché un burattinaio muove, hanno l’illusione di essere uomini, e di rappresentare qualcosa.47
In questa tensione autonomistica che Marin vive e subisce nello stesso tempo, vanno cercate anche le ragioni dell’«irredentismo superato»,48 della delusione verso l’Italia che non è in grado di valorizzare l’essenza più autentica di Trieste, la sua funzione di punto d’incontro fra civiltà e di mediazione transnazionale, di «estremo osservatorio d’Italia, aperto a tutte le correnti europee»:49 La ragione del malcontento dei triestini, va trovata nella loro mentalità ed educazione centroeuropee, assolutamente contrarie ad ogni forma di pesantezza burocratica e di pressapochismo politico ed estremamente sensibili ad ogni sfumatura psicologica […]
45 Cfr. in particolare C. Gatterer, In lotta contro Roma. Cittadini, minoranze e autonomie in Italia, trad. it. di U. Gandini, Bolzano, Praxis 3 1994. 46 Al riguardo si veda soprattutto C. Tullio-Altan, Ethnos e civiltà. Identità etniche e valori democratici, Milano, Feltrinelli 1995. 47 B. Marin, Uomini e situazioni bastardi, in «Messaggero Veneto», 16 maggio 1952, ora in Id., Autoritratti e impegno civile cit., p. 154. 48 G. Stuparich, Irredentismo superato?, in «Rivista di Milano», 5 febbraio 1920, p. 16. 49 Cfr. Id., Trieste nei miei ricordi cit., p. 111.
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Questo è un discorso che pochi italiani intendono, e quei pochi si sentono offesi dalla diversità di mentalità e di carattere dei giuliani, perché più e meglio di italiani come loro, non si può essere. Che italiani sono questi giuliani che pretendono di triestinizzare l’Italia? Gli italiani li considerano tedeschi. […] Gli italiani non vogliono sentir parlare di mentalità europea. Ciò che non è italiano, non può che essere nemico o non valore. Trieste per essi è solo una rogna, della quale se avessero potuto liberarsi, si sarebbero liberati volentieri.50
È questa situazione drammatica a far riemergere e rafforzare l’aspirazione separatista di Trieste, un fenomeno che per Vivante era «nato e vissuto in un’atmosfera di sogno e di passione […] e tenuto poi, ad arte, lontano dalle correnti aspre e rudi della realtà»,51 qualificato come «fraseologia» in quanto prodotto da una logica «statofila» di tutela degli interessi commerciali con l’Austria: dalla necessità di difendere la propria specificità contro ogni centralismo burocratico nasce l’idea di una ‘nazione triestina’ cosmopolita, che era molto diffusa negli ambienti del socialismo riformista52 e che riprenderà vigore periodicamente dopo il 1945 e anche in seguito alla firma del Trattato di Osimo nel 1975, quando si sarebbe manifestato «un ulteriore scollamento tra società civile e istituzioni politiche, dando vita al movimento civico Lista per Trieste».53 Come per Giani Stuparich,54 anche nel caso di Biagio Marin è l’esperienza dell’insegnamento scolastico, proprio negli anni in cui prendeva corpo la riforma Gentile, a mettere in rilievo la differenza fra le forme mentali della società giuliana, influenzata da una «educazione morale austriaca»,55 e quelle più eclettiche dell’Italia, fra una disciplina neutra e rigorosa che tuttavia produceva coscienze autonome e veniva calata nella vita autonoma delle regioni, e una formazione fondata su norme astratte e conformistiche, senza alcun rapporto con l’esistenza.56
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Il passo, scritto in data 16 febbraio 1956, è tratto dal quaderno 9 (FM 9) del corpus di diari, taccuini di appunti e lettere di Biagio Marin («Fondo Marin»: la sigla FM è quella dell’elenco di consistenza e verrà usata anche qui d’ora in avanti) conservati presso la sezione italianistica del Dipartimento di Storia e Culture dall’Antichità al Mondo contemporaneo (DISCAM) dell’Università degli studi di Trieste. 51 Cfr. A. Vivante, Irredentismo adriatico (1912), con uno studio di E. Apih, Trieste, Edizioni «Italo Svevo» 1984, p. 2. 52 Cfr. M. Cattaruzza, Socialismo adriatico. La socialdemocrazia di lingua italiana nei territori costieri della Monarchia asburgica: 1888-1915, Manduria, Lacaita 1998, pp. 173-182. 53 Id., L’Italia e il confine orientale, Bologna, Il Mulino 2007, p. 327. 54 Cfr. G. Stuparich, Considerazioni amare di un insegnante della Venezia Giulia, in «L’Educazione nazionale», I Suppl., aprile 1921, pp. 1-3. 55 P. Quarantotti Gambini, Il poeta innamorato, Pordenone, Studio Tesi 1984, p. 169. 56 Cfr. M. Raicich, La scuola triestina tra la «Voce» e Gentile 1910-1925, in Intellettuali di frontiera. Triestini a Firenze (1900-1950), I, a cura di R. Pertici, Firenze, Leo S. Olschki Editore, pp. 299-344. Si veda anche B. Marin, Le «anime nuove» di Gorizia, in «Studi goriziani», XXXVI, 2 (luglio-dicembre 1964), p. 118. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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La delusione per l’incomprensione della collettività italiana e la rivelazione delle sue manifestazioni individualistiche e negative riattivano l’identità austriaca rimossa, la sua tensione alla molteplicità culturale: è un fenomeno di fluidità identitaria che riguarda chi appartiene a più di un mondo e che emerge, per esempio, quando Marin, da volontario di guerra sul fronte italiano e quindi disertore dell’Austria, con un lapsus freudiano dichiara a un istruttore della Scuola Ufficiali di Caserta che «noi austriaci non siamo avvezzi a tali inciviltà».57 La tragica ambivalenza di questo amore negativo nei confronti dell’Austria, che esprime l’adesione attraverso la ribellione58 e che risulta difficile da comprendere nello stesso ambiente vociano,59 è evidente nell’episodio dell’incontro di Marin con il rettore dell’Università di Vienna Forster che rimprovera al «piccolo italiano» di non essersi reso conto della «funzione europea» dell’Austria, mettendo anche in evidenza quanto fossero disarmati, oltre che politicamente e culturalmente ingenui, i giovani intellettuali irredentisti: Mio giovine signore, Le auguro che non venga il giorno in cui Lei dovrà ricordare l’impero degli Asburgo come un ideale di convivenza civile, tra così diverse nazioni. Lei non si rende conto di ciò che significa potersi muovere liberamente tra popolazioni diverse, e farsi intendere per il tramite di una lingua comune, anche se non è la sua, e sentirsi cittadino di pieno diritto presso tanti popoli.60
A riprova della persistenza delle antinomie dell’irredentismo che ‘falsificava’ anche il fenomeno dell’immigrazione austriaca a Trieste, circoscritta in realtà a una esigua minoranza isolata dalla madre patria e di gusto letterario classicista e quindi identificabile nei termini di una cultura «coloniale» più che «colonizzatrice»,61 è il fatto che, pensando all’Italia postbellica, Marin ancora nel 1948 vi proietti i valori del mondo asburgico da cui proveniva: Era troppo bello vivere in Europa fino al 1914, i popoli ne serberanno la memoria
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R. Spazzali, Biagio Marin e il suo pensiero politico, in «Studi mariniani», I, 1 (dicembre 1991), p. 108. 58 S. Slataper, L’irredentismo oggi, in «La Voce», 15 dicembre 1910, ora in Id., Scritti politici cit., p. 97: «Mi pare che proprio il fatto d’essere uniti all’Austria sia l’impedimento psicologico per fortificarci delle sue virtù». 59 G. Papini, Un libro sull’Austria, in «La Voce», II, 53 (15 dicembre 1910), p. 464. Al riguardo si veda anche la nota del 13 dicembre 1914 contenuta in G. Prezzolini, Diario 19001941, Milano, Rusconi 1978, p. 143. 60 B. Marin, La guerra all’Austria, in Id., Il gabbiano reale. Prose e racconti, a cura di E. Guagnini, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana 1991, p. 74. 61 Al riguardo si vedano E. Apih, Italia, Fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia. 19181943, Bari, Laterza, p. 37; S. de Luguani, La cultura tedesca a Trieste dalla fine del 1700 al tramonto dell’impero asburgico, Trieste, Edizioni «Italo Svevo» 1986. Bordi e borders. Scrittori e viaggiatori tra centro e periferia
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come di un’età dell’oro. A pensare che in Austria perfino i poliziotti e i gendarmi erano gentiluomini! E come rispettavano il prossimo, e quale senso alto di responsabilità presiedeva all’esercizio dei poteri statali! Ora la violenza si è scatenata in tutti e andiamo verso la maliziosa ferinità. Ancora non è sorta la necessità della grande rinuncia: non è nato il tempo in cui gli uomini si ritireranno sui monti, e nei boschi per sfuggire al macello; ma è vicino.62
La paura degli «slavi fanatici e feroci»63 e quella di ridursi a schiavi tra «gente ostile e straniera»,64 che perseguitano Marin soprattutto negli anni fra il 1945 e il 1954, quando Trieste si trova in una situazione di drammatica sospensione, riattualizzano i presupposti slataperiani di un «irredentismo culturale»65 che favorisca la mediazione tra le parti diverse, nell’ottica delle autoctonie autonome e di una sfida leale e pacifica, cioè della convivenza e non dell’idridismo,66 evitando ogni soluzione violenta: Badiamo però a non imbarbarire. Questo non ci è lecito, perché in una gara di barbarie abbiamo solo da perdere. Noi siamo italiani e in nome della nostra civiltà e con i suoi mezzi dobbiamo combattere. […] A mio modesto parere, più che di «grado» di cultura, si tratta di «modo» di cultura. Gli slavi hanno un’anima profondamente diversa dalla nostra: sentono diversamente da noi e vivono diversamente, anche quando si mimetizzano dietro gli abiti della nostra civiltà. La loro storia è stata diversa dalla nostra e ha plasmato una diversa umanità. Con che non si nega certamente la immanenza in loro di valori universali, a tutti comuni.67
La differenza fra italiani e slavi va quindi posta non in termini etnici ma culturali, in base a un «intrinseco valore» e alla «superiorità di pensiero e di opere», anche se il discorso normativo di Marin porta in campo in modo velato questioni proprie del fronte nazionalista come l’appello alle origini remote e al «diritto del primo occupante» o la difesa attraverso la lotta dei diritti della civiltà superiore,68 facendo un uso politico, ideologico, della storia:69 62 È un passo dai diari di Biagio Marin, scritto in data 16 giugno 1948, ora in B. Marin, La pace lontana. Diari 1941-1950, a cura e con una postfazione di I. Marin e con uno studio di E. Guagnini, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana 2005, p. 314. 63 Ivi, p. 313. 64 B. Marin, L’agonia degli italiani, in «Arena di Pola», 15 settembre 1947, ora in Id., Autoritratti e impegno civile cit., pp. 123-125. 65 E. Apih, Trieste, Bari, Laterza 1988, p. 97. 66 al riguardo anche B. Marin, Parole franche, in «L’Azione», 11 febbraio 1922, ora in «Studi mariniani», III, 3 (dicembre 1993), pp. 83-84. 67 B. Marin, La nostra lotta nazionale secondo Scipio Slataper (24 maggio 1952), ora in Id., Autoritratti e impegno civile cit., p. 150. 68 Observator [B. Marin], In tema di collaborazione con gli slavi. Discussione aperta, in «L’Azione», 11 febbraio 1922, ora in «Studi mariniani», III, 3 (dicembre 1993), pp. 85-87. 69 G. Bandelli, Per una storia del mito di Roma al confine orientale. Istri e Romani nell’età dell’irredentismo, in «Quaderni giuliani di Storia», XV, 1 (gennaio-giugno 1994), pp. 163-175.
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Perché non siamo stati fedeli al genio della stirpe, perché, nella lunga convivenza con essi non siamo stati liberi, è nata la separazione e la seguente tragedia. Lo so, sono problemi brucianti e difficili: ma vanno affrontati con dignità. Alla dignità s’arriva, purtroppo, di rado. / Eppure è la sola via che può impedire, almeno di tanto in tanto, l’abisso tra gli uomini. […] Lo so bene che non basta. Ma la storia o la si fa, o la si subisce. E so anche che la storia non è fatta di feste d’arte e di mediazioni spirituali; la storia è innanzi tutto urto d’interessi e domanda perciò uomini duri e fermi. Ma non belve, non fanatici: uomini interi. Non si gioca a nascondersi. Come tra le persone vi ha la possibilità di incontri e scontri, così tra i popoli. Agli uni e agli altri bisogna essere pronti con mente aperta e cuore saldo. La realtà degli altri, è anche la nostra: non giova negarla. Si supera il contrasto, valendo di più: è questione di essere, di valere.70
In Marin riaffiorano le contraddizioni di Slataper che afferma chiaramente il fatto che «noi italiani di Trieste siamo più colti degli sloveni […] la nostra cultura vale di più, perché noi siamo più in alto di loro»71 e che non riesce ancora ad accettare una uguaglianza reale tra slavi e italiani, asserendo la necessità di difendersi dagli sloveni e di fortificarsi attraverso il genio e l’entusiasmo slavo,72 di trarne la forza vitale per rinvigorire una civiltà che è dinamica ma non dialettica e che nel primitivo cerca «rinnovo, non novità; non lotta e superamento tra classi, ma tutt’al più ricambio di stirpi in vista della perpetuazione di una stessa civiltà», dal momento che «una Trieste non borghese non esiste»:73 in entrambi gli scrittori, lontani dalla polemica di Angelo Vivante contro «il ritornello della ‘barbarie’ contrapposta alla civiltà latina»,74 ritroviamo la stessa nevrosi dell’italianità che produce l’atteggiamento di «difesa nazionale» della borghesia triestina nei confronti degli slavi e che Fölkel interpreta come una vera e propria forma di «razzismo», criticando anche letterati ebrei come Svevo, Saba e Bazlen, colpevoli di «una sorta di nevrotica cecità»,75 perché non si confrontarono mai con gli sloveni e con la loro letteratura. Quando Marin, ancora nel 1956, sebbene dopo la ulteriore e cocente delusione per la perdita dell’Istria, sottolinea che «era nella disciplina morale e spirituale la salvezza» e che «non bisognava farsi barbari per vincere la barbarie, ma essere
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B. Marin, La sera di Capodistria, in «La Voce Giuliana», 1 febbraio 1958, ora in Id., Le due rive. Reportages adriatici in prosa e in versi, a cura di M. Giovanetti, Reggio Emilia, Diabasis 2007, pp. 79-80. 71 S. Slataper, L’avvenire nazionale e politico di Trieste, in «La Voce», 6 giugno 1912, ora in Id., Scritti politici cit., p. 153. 72 Id., Lettere triestine. La vita dello spirito, in «La Voce», 25 marzo 1909, ora in Id., Scritti politici cit., p. 37. 73 G. Negrelli, In tema di irredentismo e nazionalismo, in Intellettuali di frontiera. Triestini a Firenze (1900-1950), I, cit., p. 283. 74 A. Vivante, Irredentismo adriatico cit., p. 162. 75 A. Bressan, Le avventure della parola. Saggi sloveni e triestini, Milano, Il Saggiatore 1985, p. 52. Bordi e borders. Scrittori e viaggiatori tra centro e periferia
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signori di civiltà»,76 egli continua a portare avanti un discorso mistificatorio rispetto al quale, per la sua formazione culturale e politica, non è in grado di prendere le distanze e che finisce per giustificare nei fatti la violenza e la barbarie che nega a parole. La logica della difesa nazionale, che è un sintomo della debolezza del senso dello Stato e che produce «il nazionalismo truculento e rettorico che cagiona tanto male e ci diffama di fronte agli stranieri»,77 è stata l’illusione di un’intera generazione che, sul confine orientale, ha visto nel fascismo il ‘partito degli italiani’ e quindi il compimento del processo di formazione della coscienza nazionale, un peccato originale in cui è caduto anche Marin sulla scorta dell’idea mazziniana e risorgimentale di una ‘missione’ italiana, risolta in un aggressivo espansionismo: si tratta di una presa di posizione che riflette ancora una volta l’orientamento di Trieste che «per un male inteso patriottismo […] fu più fascista di molte altre città italiane»,78 fiera, attraverso l’adesione convinta al fascismo, di una ‘normalità’ italiana finalmente raggiunta. La suggestione di una definitiva redenzione, ottenuta a scapito del cosmopolitismo tollerante e quindi di una ulteriore amputazione da parte dell’intellettualità giuliana che ragiona ancora in termini tardorisorgimentali e sostitituisce alla diga culturale di Slataper quella del nazionalismo e dell’ideologia,79 si risolse nell’ennesima delusione di fronte alla realtà dei fatti, ancora più forte fra gli istriani, come testimonia l’incontro, avvenuto nel 1940, con l’amico Giuseppe Toso, evocato in Una sera a Volosca: Per tanti anni ci hanno mentito. E noi, non senza agonia, non senza dubbi, abbiamo creduto, abbiamo ritenuto nostro dovere di credere. Già, difficile far capire questo fatto fondamentale nella nostra vita: ci siamo fatti un dovere di credere. Avevamo occhi anche noi per vedere certe miserie; dicevamo col cuore angosciato: passeranno, si supereranno. Anche in questo momento in cui il dubbio ci attanaglia più forte, anche in questo momento, ci sentiamo in dovere di fare un atto di fede. A me la camicia nera è costata sacrificio continuo: la credevo la divisa della patria.80
È soprattutto il fallimento della politica imperiale a innescare un tormentato esame di coscienza, facendo crollare definitivamente le aspirazioni mazziniane che
76 B. Marin, Dal monte Kâl verso la patria, in «Trieste. Rivista di cultura e politica», III, 11 (gennaio-febbraio 1956), p. 13. 77 Id., Di alcune illusioni da combattere, in Id., Autoritratti e coscienza civile cit., p. 159. 78 G. Voghera, Anni di Trieste, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana 1989, p. 25. 79 R. Spazzali, Azione e politica di Biagio Marin, in «Studi mariniani», XII, 9-10 (dicembre 2004), pp. 63-79. 80 B. Marin, Una sera a Volosca, in «Giornale d’Istria», 15 giugno 1951, ora in Id., Le due rive. Reportages adriatici in prosa e in versi cit., p. 73.
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Marin proiettava sul fascismo, ovvero la speranza che il regime diventasse una prova di maturità per il popolo italiano e potesse farlo uscire dalla sua secolare passività e dall’individualismo anarcoide anche attraverso l’organizzazione ‘corporativa’ della società e dell’economia, basata su una solidarietà sociale che poteva rappresentare un’alternativa sia rispetto alla massificazione e al materialismo dell’ideologia bolscevica sia all’eccessivo individualismo del liberalismo anglosassone: Cosa pensano, cosa sentono in questo momento gli italiani? Difficile dirlo! Ma non mi pare molto. Si sopporta, si patisce, non altro. Quanto a pensare, non si pensa affatto. Il cattolicesimo è preoccupato della propria sorte; ma non può far nulla; non ha alcuna presa sulla realtà spirituale dei popoli, cosa che dimostra la sua impotenza. Il fascismo è ormai in funzione del germanesimo. La gente fra noi si divide in filotedesca e antitedesca. Una corrente pro Italia, che rappresentasse un pensiero una volontà italiana non esiste. Anche questa è una dimostrazione dell’impotenza nazionale. Il sogno mazziniano di una missione nazionale italiana, mi pare non si sia per ora avverato. La passione religiosa rinnovatrice mazziniana si è spenta ed è stata sostituita dal machiavellismo furbo di Mussolini. Che è troppo poco, e ha finito per corrompere completamente la Nazione, già corrotta del resto. Senza libertà non vi ha vita morale, senza vita morale non vi ha valore. Nella formula di giuramento della Giovine Italia, è detto chiaramente che il segreto della vittoria risiede nel dirigere le forze immanenti nel popolo, non solo «pel popolo» ma anche «col popolo». Mussolini questo non ha fatto. Si è separato dal suo popolo isolandosi nella «dittatura».81
Il Fascismo è stato giustificato con il ‘dovere’ di dare una patria a tutti gli italiani e con l’illusione di battere il comunismo opponendogli «una nazione ben organizzata»: in realtà ha acuito le fratture sociali e «ha aggravato il problema dell’assimilazione delle masse allo Stato liberale».82 Oltre a Mussolini, per Marin le responsabilità dell’affermazione e della degenerazione del fascismo si devono attribuire all’immaturità e alla inadeguatezza teorica della sua generazione, alla sua secolare separatezza intellettuale rispetto alle masse popolari, al fascino esercitato dal gentilianesimo, percepito come compimento del binomio mazziniano pensiero – azione: Del nostro popolo, della distanza che correva tra le nostre plebi e la nostra classe dirigente non c’eravamo accorti. A parole, per astrazione, esisteva un problema sociale. Ma c’era tempo per risolverlo. […] Nessuno dei nostri Maestri aveva avvertita l’urgenza del problema e il suo sfondo tragico. Nessuno ci sbatté sul muso di imbecilli giulivi
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È un passo dai diari di Biagio Marin, scritto in data 10 luglio 1941, ora in B. Marin, La pace lontana. Diari 1941-1950 cit., p. 54. 82 Id., Caro dottore 1956 (26 maggio 1956), in Id., Autoritratti e impegno civile cit., p. 190. Nello stesso volume si veda anche il Discorso tenuto al I comizio del partito radicale di Trieste l’8 aprile ’56, pp. 173-174. Bordi e borders. Scrittori e viaggiatori tra centro e periferia
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la realtà, nessuno ci educò al necessario pessimismo, all’angoscia, alla vigilanza. Neanche un Salvemini, e non Croce, e non Gentile.83
Il problema del Rinascimento ‘incompiuto’, che non è riuscito a fare degli italiani un ‘grande popolo’ e che viene anche giustificato romanticamente in quanto il popolo italiano «nei secoli s’è sfinito in questa costruzione dell’Eterno» e «per servire in letizia il suo Dio, è diventato inetto alla forza degli eserciti, alla disciplina dei grandi stati»,84 costituisce nei vari momenti della riflessione di Marin una sorta di ‘cuore di tenebra’, un buco nero nel quale si inceppa la fiducia nella forza educatrice dell’arte e della cultura: L’arte bastano pochi a farla e non dimostra ancora la presenza della nazione nella storia. Abbiamo visto il Rinascimento, che io cambierei molto volentieri con una Nazione moralmente, spiritualmente sana e politicamente unita e solida. Ancora una volta, mentre i grandi popoli si fracassano, noi, pur compresi nel gioco, siamo quasi assenti. Sì, proprio così: il popolo italiano subisce la guerra, il fascismo, Mussolini, i magnaccia, i ladri, e tira a campà.85
La perdita sul fronte russo del figlio Falco, emblema di una nuova generazione di intellettuali giuliani che, oltre alla possibilità di una rigenerazione,86 ha rappresentato con estrema coerenza la «continuità del sacrificio»87 ed è stata tradita dagli ideali dei padri,88 che si sono rivelati vere e proprie colpe tragiche di un destino immodificabile, ha inasprito in Marin la consapevolezza della zona grigia che si frappone tra la realtà e l’Ideale, già presente anche nel figlio, nella sua tensione spirituale destinata inevitabilmente allo scacco: Siamo veramente dei decadenti […] Faremo forse con questi uomini un’Italia grande e civile, uscirà da questa codardia una popolazione virile e gagliarda? Possibile che tutta L’Italia sia composta da gente simile? Possibile che domani io debba vivere e trattare con questa gente? […] Credo davvero che esista della gente disposta a lottare
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È un passo dai diari di Biagio Marin, scritto in data 30 agosto 1941, ora in B. Marin, La pace lontana. Diari 1941-1950 cit., p. 77. 84 Id., Passeggiata in Toscana, in Id., Il Gabbiano reale cit., p. 86. 85 È un passo dai diari di Biagio Marin, scritto in data 10 luglio 1941, ora in B. Marin, La pace lontana. Diari 1941-1950 cit., p. 55. 86 Al riguardo si veda R. Spazzali, «Le nostre primavere sacre». Biagio Marin e i giovani caduti in guerra nella lotta di liberazione, in «Studi mariniani», XI, 7-8 (dicembre 2002), pp. 43-47. 87 R. Spazzali, La profezia civile di Biagio Marin, in B. Marin, Autoritratti e impegno civile cit., p. 54. 88 G. Salvemini, La generazione tradita. Una traccia sul mare, in «Il Mondo», 10 marzo 1951, p. 24. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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per l’ideale? Forse questa gente non esiste. Ma pure mi pare impossibile che questo imperativo, che per me ha un valore assoluto, resti per gli altri lettera morta.89
Nonostante il tentativo di pagare il proprio ‘debito generazionale’ impegnandosi attivamente nelle file della Resistenza e del Partito Liberale90 sempre nell’ottica di una ideale prosecuzione ideale e morale del Risorgimento e della costruzione di una nuova Italia «che gli italiani vogliono e più vorranno edificare con il fiore delle loro anime e del loro sangue»,91 dopo il 1945 riaffiorano in Marin il complesso dell’‘ultrapatriottismo’ e la sindrome della delusione, che lo portano di nuovo a censurare la ‘miseria morale’ degli italiani, ancora una volta indifferenti al problema del confine orientale, ottusi di fronte ai «propri elementari interessi»92 e incapaci di comprendere la «tragedia dei confini»93 in cui le popolazioni giuliane hanno rappresentato la nazione italiana e le «superiori ragioni di civiltà»,94 sacrificandosi per tutti e dimostrando così di avere una maturità e una mentalità europea che gli altri italiani non hanno ancora: Ma noi che siamo in lotta, anzi in agonia, non possiamo dubitare, non ci è permesso di dubitare; perciò a tutti gli italiani gridiamo: badate si tratta di voi stessi, del bene comune, della vostra carne, della vostra anima, della vostra civiltà, della vostra terra. Noi siamo solo la vostra scolta avanzata e ci battiamo, con un lungo martirio, per tutti. Siate presenti o italiani a questo nostro sforzo, a questo nostro dolore, che noi consacriamo all’Italia, che deve vivere ancora nei secoli dei secoli. Non diversamente vorremmo parlare ai popoli d’Europa, che devono ormai sapere che la nostra causa è la loro, è quella della stessa civiltà.95
La situazione ‘sospesa’ in cui si trova Trieste nel secondo dopoguerra e che la rende simile a una «figlia esclusa dalla casa»,96 rende lo sguardo di Marin lucido e
89
F. Marin, La traccia sul mare, Milano, Scheiwiller 1966, pp. 98-100. Cfr. G. Botteri, Le scelte politiche di Marin, in «Studi mariniani», I, 1 (dicembre 1991), pp. 95-106; R. Spazzali, L’impegno civile e politico di Marin nella resistenza giuliana, in «Studi mariniani», II, 2 (dicembre 1992), pp. 15-40. 91 B. Marin, Conquista di civiltà e di libertà. La vittoria della guerra ’15-’18, in «Trieste. Rivista di cultura e politica», XII, 66 (marzo-aprile 1965), p. 22. 92 P. De Simone, Silvio Benco e Biagio Marin sul destino dell’Istria del ’48, in «Trieste. Rivista di cultura e politica», XII, 68 (luglio-agosto 1965), p. 11. 93 B. Marin, Al signor sindaco di Roma (15 settembre 1948), in Id., Autoritratti e impegno civile cit., p. 121. 94 B. Marin, L’agonia degli italiani, in «Arena di Pola», 15 settembre 1948, ora in Id., Autoritratti e impegno civile cit., pp. 123-125. 95 B. Marin, Al signor sindaco di Roma cit., p. 122. 96 Id., Commento all’Elegia su Trieste di Dino Buzzati cit., p. 140. 90
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disincantato anche rispetto alle retoriche repubblicane e agli slanci sentimentali e ottimistici che rivelano la persistente insufficienza della coscienza nazionale, lontana dall’idea mazziniana e slataperiana di patria come «perentoria esigenza», che implica «la realtà di un articolato sistema di valori» e la traduzione della responsabilità politica in azioni e scelte coerenti: Quel sentimento, non lo dobbiamo misconoscere, può essere una prima tensione necessaria e buona: ma può anche rapidamente pervertirsi. Bisogna che il sentimento diventi fatto politico, per giustificarsi. E questo passaggio richiede dura negazione degli istinti nella loro immediatezza, richiede la trasformazione del sentimento. […] Perché possa rendere deve essere domato e trasformato. E anche questa è una illusione da combattere. Non abbiamo bisogno di falsi entusiasmi e di false giovinezze, di false primavere. La vita vera, costruttiva, chiede dura disciplina, pertinacia costruttiva, spirito di sacrificio.97
La crisi di Trieste, l’esodo e la sensazione tragica di uno sgretolamento della patria rivelano, oltre alla profonda crisi dello Stato e alla cecità della burocrazia romana che ignora i triestini facendoli sentire degli «italiani sbagliati»,98 il tradimento delle aspettative rivolte a una «Patria mazzinianamente intesa; missione nella storia del mondo di un nucleo di uomini, regno di valori», che rovescia le speranze nate dopo il 1918 e ribadisce la totale estraneità degli italiani al problema del confine orientale, il loro provinciale particolarismo, l’assenza di quella inquietudine morale che caratterizza i giuliani: Non sentono e non arrivano a sentire! Non solo Zara è andata perduta, ma tutta l’Istria e il confine delle Giulie; e fossero andate perdute anche Trieste, Gorizia e Monfalcone, ancora sempre non sarebbero arrivati a sentire. Perché? Perché non hanno la nostra Patria, perché ignorano l’esperienza umana della Patria italiana: sono friulani, romagnoli, lombardi e chi più ne ha più ne metta, anzi sono veneziani e milanesi e torinesi ma troppo raramente italiani. Per essere davvero italiani bisogna avere coscienza drammatica sofferta della diversità degli altri, bisogna in qualche modo essere europei e non provinciali. Quanti sono in Italia gli uomini di questa coscienza?99
Proprio sulla base di questa sofferta consapevolezza e dell’amaro riconoscimento del fatto che «la nostra fede nell’Italia è di molto superiore alla nostra stima nei nostri fratelli»,100 Marin sostiene che «l’Italia è a Trieste prima e assai più che a
97
B. Marin, Di alcune illusioni da combattere, in Id., Autoritratti e impegno civile cit., p. 160. P. Quarantotti Gambini, Un italiano sbagliato, in «La Fiera Letteraria», 15 novembre 1964, ora in Id., Il poeta innamorato cit., pp. 166-179. 99 B. Marin, Non ho più patria, in «Trieste. Rivista di cultura e politica», II, 9 (settembreottobre 1955), p. 17. 100 B. Marin, Commento all’Elegia su Trieste di Dino Buzzati cit., p. 143. 98
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Milano o a Firenze o Roma stessa»:101 la città diventa così il termometro della situazione italiana priva di un centro di gravità ideale. Non solo nei diari ma anche nelle corrispondenze con Jemolo, de Castro, Faggin, Voghera, Brazzoduro, la riflessione di Marin mette in evidenza gli aspetti contraddittori dell’Italia democristiana, non nascondendo i limiti del suo punto di vista, che portano lo scrittore a maledire «l’educazione idealistica che ho avuto e la mia impossibilità di fare i conti con la realtà e di trovare in essa la mia pace»:102 ciò che determina l’immaturità civile degli italiani e la loro estraneità all’etica comune europea, è il senso del ‘particulare’, che si ripresenta in un quadro politico dove tutti i partiti sembrano rivolgersi agli interessi particolaristici piuttosto che a quelli collettivi, temendo l’affermazione dello Stato. La mancata rivoluzione protestante e il ruolo egemonico esercitato nello spazio pubblico da parte del cattolicesimo che «soprattutto negli ambienti clericali, è sempre stato ostile all’Italia unitaria perché laica»,103 hanno per Marin un peso rilevante nelle responsabilità di questa desolante situazione, dove sono gravi anche le colpe di una burocrazia accentratrice formata da «sofisti furbi, ricchi di grande intelligenza, plebei e arrivisti» i quali «si sono impossessati dell’apparato statale e costituiscono essi i nostri giudizi e la misura di tutte le cose», mettendo in luce il fatto che in Italia il sentimento nazionale della maggioranza «non è capace di distinguere l’Italia da gli italiani, e gli italiani dalla burocrazia»104 e che «non esistono minoranze aristocratiche dalle quali possa avere origine un qualche movimento di salute. Singoli individui isolati sì, ma nuclei no»:105 è una analisi impietosa che se da un lato riprende il discorso sul cattolicesimo sviluppato in più riprese da De Sanctis, Spaventa, Amendola, Gobetti e Noventa, dall’altro attesta nello stesso tempo le insufficienze del movimento risorgimentale e gli strascichi del Fascismo, che perdurano ancora nel quadro politico repubblicano e che spingono in più occasioni Marin a invocare una rivoluzione socialista come unica soluzione possibile,106 estrema via d’uscita dal momento che lo scrittore rimarrà sempre un idealista aristocratico, diffidente delle masse e scettico verso ogni pensiero basato su certezze dogmatiche.107
101
Id., Di alcune illusioni da combattere cit., p. 154. Id., FM 10, 30 agosto 1957. 103 la lettera di Biagio Marin a Arturo Carlo Jemolo del 14 agosto 1978, ora in «Nuova Antologia», CXXV, 1 (gennaio-marzo 1990), p. 257. 104 la lettera di Biagio Marin a Diego de Castro del 20 gennaio 1958, ora in «Studi mariniani», II, 2 (dicembre 1992), pp. 121-122. 105 B. Marin, FM 8, 13 agosto 1955. 106 Id., FM 11, 11 febbraio 1959. 107 B. Maier, Dimensione Trieste. Nuovi saggi sulla letteratura triestina, Milano, Istituto di Propaganda Libraria 1987, p. 268. 102
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La riflessione sul male italiano dello scetticismo rimanda a quella sviluppata nel Discorso sopra i costumi degl’italiani di Leopardi che Marin sente vicino,108 avvertendo, nella stessa posizione di ‘marginale’, l’assenza in Italia di una nazione e di una società, una mancanza di ideali e di finalità collettive, espressione di un cinismo freddo e disilluso su ogni cosa, che costituisce l’essenza della vita sociale italiana, appiattita su un presente senza prospettive e su un egoismo anarchico e dissolutore che fa del riso «l’unico modo, l’unica arte di conversare che vi si conosca»:109 È tanto mirabile e simile a paradosso, quanto vero, che non v’ha né individuo né popolo sì vicino alla freddezza, all’indifferenza, alla insensibilità, e ad un grado così alto e profondo e costante di freddezza, insensibilità e indifferenza, come quelli che per natura sono più vivaci, più sensibili, più caldi. Collocati questi tali o popoli o individui in uno stato e in circostanze o politiche o qualunque, in cui niuna cosa conferisca all’immaginazione e all’illusione, anzi tutto contribuisca al disinganno, questo disinganno per la vivacità stessa della loro natura e in ragione diretta di essa vivacità è completo, totale, fortissimo, profondissimo. L’indifferenza che ne risulta è perfetta, radicatissima, costantissima; l’inattività, se si può così dire, efficacissima; la noncuranza effettivissima; la freddezza è vero ghiaccio, come accade nel gran caldo, che i vapori sono elevati a tanta altezza che quivi stringendosi nel più duro gelo, precipitano ridotti in gragnuola. I popoli settentrionali meno caldi nelle illusioni, sono anche meno freddi nel disinganno.110
Lo stesso cinismo che gli italiani esprimono nella vita sociale caratterizza per Leopardi e per Marin il loro rapporto con la religione che non è religione creativa, di libertà, ma è riducibile a una fredda adesione conformistica, a una ritualità che soffoca la spiritualità, dal momento che anche in questo ambito essi hanno usanze e abitudini piuttosto che costumi e si muovono in base al calcolo e all’interesse personale, senza credere effettivamente in quello che fanno, spinti da speranze pratiche più che metafisiche, con una consapevolezza della vanità di ogni cosa, che li rende più filosofi di qualsiasi altro popolo straniero e che ha le sue origini nel mondo romano: Purtroppo l’italiano è scettico da sempre; se leggi i saggi sulla religione dei greci e quella dei romani, vedi che i greci credevano, la loro religione aveva talora le ali della poesia; i romani no, non credevano a nulla; la frase di non comprendere come due auguri incontrandosi non scoppiassero nel riso, è significativa; al più i romani avevano una superstizione, patteggiare, dire agli dei: ti do tanto se tanto mi dai. La religione
108
B. Marin, FM 11, 8 maggio 1959. Sui rapporti fra Marin e Leopardi si veda Una linea di pensiero teso. Bruno, Leopardi, Marin, a cura di F. Russo, Pesaro, Metauro 2007. 109 G. Leopardi, Dei costumi degl’italiani (1824), introduzione e cura di A. Placanica, Venezia, Marsilio 1989, p. 143. 110 Ivi, pp. 157-158. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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degli italiani raramente in pochi, è stata dominata dall’amore, dall’annientamento di sé; quasi sempre abbiamo pregato per avere tanto o perché tanto ci fosse evitato; riconosco che anche la mia preghiera contiene eminentemente una serie di richieste. Da qui che, caduta (a ragione od a torto?) la paura dell’Inferno, la religione degli italiani si era ridotta pressoché a nulla.111
Come Leopardi che non ha fede nelle masse e condanna la «società stretta» dell’intellettualità borghese italiana, responsabile dello stato di semibarbarie in cui si trova il popolo in quanto priva di moralità e incapace di liberarsi dalle vecchie strutture del pensiero e dell’organizzazione sociale, diversamente da quanto accade in Inghilterra, Francia e Germania,112 anche Marin individua il cancro della vita nazionale in una borghesia interessata soltanto al denaro e alla potenza che ne deriva, totalmente passiva e servile rispetto alla falsa autorità della Chiesa,113 che non riesce a superare il Medioevo in uno stato moderno, a elaborare un pensiero autonomo e a prendersi delle responsabilità politiche: Il peccato originale di essere il popolo italiano nato da servi, di mancare di una aristocrazia guerriera, di una classe aristocratica politica, doveva sfociare nel regime monarchico – autoritario cattolico. La grande fioritura artistica rinascimentale, più che rafforzare le tendenze unitarie, le ha sfinite. Un’aristocrazia di artisti è negativa per le funzioni statali. È strano io dovrei rallegrarmi della mancanza di uno stato forte in Italia; invece no! Perché? Perché la plebe mi è insopportabile. La Chiesa cattolica è il regime nato dal plebeismo romano e italiano, che esclude ogni aristocrazia che non sia la gerarchia ecclesiastica. Nessuno può acquistare dignità, autorità al di fuori dei quadri della Chiesa. Papa Giulio II poteva trattare Michelangelo a colpi di bastone. I quattro caproni del Sant’Uffizio, potevano far bruciare vivo Giordano bruno. Questa è mentalità schiettamente plebea. Del resto il simbolo del pastore e del gregge rivela il carattere fondamentale della cattolicità politica. Gregge, plebs, e plebamus il pastore. Lo stato dei preti è sempre stato un cattivo stato. Solo le aristocrazie guerriere sono atte a costruire stati e in essi, borghesie libere.114
La Chiesa cattolica ha sostituito con la sua disciplina morale e con il conformismo della vita rituale il bisogno dell’unità civile lasciando inalterato il «sottofondo plebeo» ed eterogeneo degli italiani (nascosto già dai Romani),115 ha colmato quin-
111 Lettera di Biagio Marin a Arturo Carlo Jemolo del 13 ottobre 1974, ora in «Nuova Antologia», CXXIV, 4 (ottobre-dicembre 1989), p. 22. 112 Cfr. A. Placanica, Introduzione a G. Leopardi, Dei costumi degl’italiani cit., pp. 81-84. 113 Cfr. M. Vercesi, Teologia negativa e manifestazione del divino in Marin, in «Studi mariniani», XVI, 14 (dicembre 2008), p. 52. Nello stesso volume si veda anche P. Zovatto, La problematica religiosità di Biagio Marin, pp. 61-79. 114 B. Marin, FM 11, 11 febbraio 1959. 115 Ibidem.
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di un vuoto politico unificando «il popolo delle molte vite» attraverso una penetrazione in tutti i settori della società civile e Mussolini ha siglato una sorta di compimento di questo processo, vendendo ai preti lo stato risorgimentale che era tuttavia l’espressione di un’élite,116 dal momento che la quasi totalità della nazione era rimasta al Medioevo: Gli italiani, mentre sono istintivamente anarcoidi, sono incapaci di instaurare in se stessi la dignità del giudizio e quindi di essere liberi e responsabili. Da secoli, da millenni hanno deputato i preti a pensare per essi, a decidere per essi, i modi della loro condotta. Perciò si sono ridotti a pusilli e gli istinti in essi prevalgono sulla ragione. Imparano eventualmente la lezione ma non vogliono pensare. E non è neanche il caso di dire che il prete rappresenti l’occasione del dialogo, che solo dà la certezza della verità, come pensava Platone. Il prete non dialoga mai. Recita a sua volta la lezione ricevuta.117
La Democrazia Cristiana rappresenta l’effetto più emblematico di questa politicizzazione della religione con la quale finisce per coincidere la moralità pubblica, mettendo in evidenza la paradossalità dei ‘partiti cattolici’ che in realtà non possono che riprodurre e affermare la struttura gerarchica e monarchica della Chiesa (come anche del regime fascista) e sono perciò inconciliabili con una effettiva democrazia: […] da una parte essi debbono obbedire alle regole della democrazia, fondata sulla consapevolezza che esistono verità relative ad una dialettica di ideologia; da l’altra essi debbono obbedire alla Chiesa che impone loro dei credi assoluti. Tra le due obbligazioni è evidente che il partito dei cattolici finirà per sacrificare Cesare, a quelli che la Chiesa considera i diritti di Dio. I preti pretendono l’accettazione della tutela clericale. […] Si tratta di creare un clero nuovo più liberale, meno centralizzato, più civile, pur nella sua indipendenza pedagogica. Lo stato italiano non deve tollerare di essere sottoposto alla Chiesa […] che si cominci quanto prima la lotta per liberare il popolo.118
Per Marin non è possibile un autentico rinnovamento italiano senza un profondo rinnovamento cattolico, anche se nello scrittore gradese si insinua la suggestione di soluzioni autoritarie, evocate nella corrispondenza con Giorgio Voghera quando Marin, di fronte al disordine e all’anarchia che caratterizzano la società italiana all’inizio degli anni settanta119 e che inducono «questi levantini antieuropei»,
116
Cfr. al riguardo S. J. Woolf, Il Risorgimento italiano, I, Torino, Einaudi 1981, in part. pp. 231-233, e inoltre R. Romanelli, L’Italia liberale 1861-1900, Bologna, Il Mulino 1979, pp. 4546. 117 B. Marin, FM 21, 12 dicembre 1967. 118 Id., FM 10, 24 settembre 1957. 119 Al clima caotico dei primi anni settanta rimanda spesso anche la corrispondenza epiI. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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ostili al protestantesimo e al razionalismo, a sognare «il ritorno all’autorità sacrale del Papa, a una vita che abbia per suo fulcro la trascendenza e neghi ogni immanenza»,120 dichiara che «abbiamo bisogno dei buoi, ma senza tori, non avremmo i buoi», suscitando una altrettanto vigorosa risposta da parte del suo interlocutore: […] mi permetta di esprimerLe la mia perplessità di fronte all’eventualità che sia un «toro» ad imporre ai «buoi» l’osservanza delle leggi necessarie per una più giusta e pacifica convivenza… io ho l’impressione che un sano legalitarismo ce lo possiamo aspettare soltanto da parte dei deboli. Mi viene in mente a questo riguardo lo stretto legalitarismo, antigerarchico ed in un certo senso anche antistorico, dell’ebraismo tradizionale: il quale certo ha dato luogo a lungo andare a risultati poco brillanti, perché è degenerato nel formalismo, nel conservatorismo, nella cristallizzazione spirituale, ma è tuttavia, se non mi sbaglio, un esempio di un certo rilievo di leggi strettamente (anche troppo strettamente) imposte ed osservate senza il ricorso alla forza fisica.121
Certe posizioni irrazionalistiche, condizionate ancora dalla formazione tedesca e romantica di Marin,122 dalla suggestione di Nietzsche e di una volontà superomistica,123 e che sono tuttavia parte di un complesso e variegato arcipelago culturale che ha favorito l’affermazione dei totalitarismi,124 ritornano nella corrispondenza con Gino Brazzoduro che contesta i risvolti oppressivi dell’individualismo di Marin e, con essi, gli aspetti contraddittori di tutta la generazione intellettuale che aveva come suo nume tutelare Scipio Slataper, perennemente divisa fra etica e vitalismo,125 totalmente avulsa dai processi reali della storia e ripiegata, come la città di cui è espressione, in una ossessiva sublimazione ideologica, tendenza che viene rilevata anche sulle pagine della rivista bilingue «Most»:
stolare fra Biagio Marin e Carlo Arturo Jemolo, soprattutto le lettere fra 1970 e 1975, ora in «Nuova Antologia», CXXIV, 4 (ottobre-dicembre 1989), pp. 5-34. Si veda inoltre A. C. Jemolo, Questa repubblica. Dalla contestazione all’assassinio di Aldo Moro, con introduzione di G. Spadolini, Firenze, Le Monnier 1978. 120 La lettera di Biagio Marin a Giuseppe Faggin del 4 gennaio 1974, ora in «Studi mariniani», V, 4-5 (dicembre 1996), p. 226. 121 Lettera di Giorgio Voghera a Biagio Marin del 6 maggio 1974, ora in B. Marin, G. Voghera, Un dialogo. Scelta di lettere 1967-81, a cura di E. Guagnini, Trieste, Edizioni della Provincia di Trieste 1982, p. 36. 122 Cfr. E. Guagnini, Poetica e storicità di Biagio Marin, in Id., Note novecentesche, Pordenone, Studio Tesi 1979, pp. 6-7. 123 Cfr. P. Camuffo, Biagio Marin, la Poesia, i filosofi. Tracce per una interpretazione, Monfalcone (GO), Edizioni della Laguna 2000, pp. 34-57, e inoltre M. Bonciani, Elementi nietzschiani nella poetica di Biagio Marin, in «Studi mariniani», XVI, 14 (dicembre 2008), pp. 133-144. 124 Cfr. E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, Bologna, Il Mulino 2001. 125 Cfr. R. Spazzali, Biagio Marin e il suo pensiero politico, in «Studi mariniani», I, 1 (dicembre 1991), p. 109. Bordi e borders. Scrittori e viaggiatori tra centro e periferia
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L’appello di Slataper alla «fratellanza» umana suona un po’ vuoto perché generico e indeterminato. In effetti alla realtà umana, quella vera, egli non aderisce che in superficie: gli manca il valore della «pietas», l’umiltà di accostarsi con amore all’uomo quale esso è, senza la pretesa di sovrapporre a questo uomo reale e autentico un progetto di uomo astratto. Troppo forte in lui la volontà d’imporre a quest’uomo un’immagine di «eroe» esemplare. Egli sembra incapace di fissare il volto della miseria e del dolore umani, di chinarsi sull’uomo con comprensione e solidarietà, con commossa simpatia.126
Se Marin conferma un orientamento conservatore e ‘prezzoliniano’ (che lo porta, ancora nel 1979, a dichiararsi «mazziniano irredentista»127), Brazzoduro, al quale si può rimproverare di non tenere conto a sufficienza del contesto di esasperazione nazionalistica in cui si forma la generazione di Slataper e quindi della ingenuità ideologica che la caratterizza, è vicino all’internazionalismo socialista e, pur essendo un italiano di Fiume, si schiera dalla parte degli slavi, prendendo una posizione certo insolita che si risolve in una concezione diversa dell’identità nazionale e della patria, nel senso di un dialogo costruttivo contro ogni fissazione dogmatica ed etnocentrica, del rifiuto netto di ogni gerarchia dominante e di ogni appartenenza esclusiva, dell’italianità quando essa diventi oppressione e volontà di prevaricazione: Credo di essere un onesto cittadino italiano: ho avuto a scuola una cultura italiana, è la mia lingua, lavoro in questo paese che però non riesco – mi perdoni – a chiamare col nome di «patria», al quale non sento di «appartenere» con l’esclusività e la dedizione dei grandi amori. Posso sentirmi italiano per Dante (e oggi per Montale), come inglese per Shakespeare (i suoi sonetti basterebbero!) o tedesco per tutta la musica (tranne Wagner che non sopporto), la filosofia, la scienza, la letteratura; un poco francese (Pascal, Cartesio, Ravel); anche slavo (la musica e il suono di una lingua che quasi non conosco). E magari un poco americano; e poi perché non africano o asiatico? O eschimese, lappone… Magari azteco, maya […]. Perché sentirsi estraneo a qualcuno, a qualsiasi atomo di questa galassia?128
Marin, che cerca comunque il dialogo per capire meglio le ragioni altrui e se stesso, non riesce a comprendere il punto di vista di Brazzoduro e l’eliminazione
126
G. Brazzoduro, Le contraddizioni di Slataper. ‘Il mio Carso’ riletto, in «Most», XIX, 63-64 (luglio-dicembre 1982), pp. 197-199. 127 La lettera di Biagio Marin a Diego de Castro del 27 ottobre 1979, ora in «Studi mariniani», II, 2 (dicembre 1992), p. 157. 128 Lettera di Gino Brazzoduro a Biagio Marin del 14 maggio 1979, ora in G. Brazzoduro, B. Marin, Dialogo al confine. Scelta di lettere 1978-1985, a cura di P. Camuffo, presentazione di E. Serra, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore 2009, p. 57. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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del concetto di patria, che resta per lui quello mazziniano, fondato sulla lingua e sulla superiorità culturale e quindi su una idea di confine come qualcosa che divide, separa, rispetto a popoli più ‘barbari’ e inferiori, diversamente da Brazzoduro che invece dichiara che «ogni confine passa in me, mi attraversa, mi divide, ma non mi spacca drammaticamente, ma mi rende partecipe dei territori limitrofi: linea che congiunge [regioni nelle quali mi riconosco, alle quali partecipo in modo essenziale]»:129 Chi è morto in obbedienza alle leggi della patria, è per me un uomo di valore. Naturalmente in me esiste la perentoria esigenza della «Patria» e la non meno perentoria esigenza, della santità delle leggi. Un popolo che non ha «Patria» e non conosce la sacertà delle leggi, per me è fuori di ogni dignità civile. Naturalmente so benissimo che la Patria degli Spartani, era già diversa da quella ateniese; e che gli Italiani, non hanno avuto nei secoli un adeguato concetto della Patria e della legge. Il mito della Patria, va certamente integrato; e deve accogliere in sé tutta la vita di tutto il popolo. Non deve essere quindi rifugio d’una frazione; ma realtà costruita da tutti e tutti accogliente. Ma non possiamo credere che questo possa avvenire con una invocazione religiosa di giustizia. Anche la Patria è un lento tragico risultato di secoli di pena. Non penso che gli uomini siano responsabili della loro storia.130
Rispetto al mito astratto e sovrastorico della patria ribadito da Marin, Brazzoduro rileva i rischi che un tale eccesso teorico e ideale può comportare e sostiene la necessità di calare questo mito nella vita quotidiana, ovvero il valore imprescindibile dell’esperienza e dei vissuti dei singoli individui, che prescindono da rigide definizioni o da quella mistificazione della realtà, che Vivante definiva «imperialismo utopico»,131 pagata poi a caro prezzo: Aggiungi la mia appartenenza ‘mista’, diciamo così, italo-tedesca-slava (facciamo un terzo equamente per ciascuna), e così vedi come confine non è qualcosa di irreale, campato in aria. Ma può essere, anzi identificarsi col vivere, con l’esistere, anzi con la più intensa e profonda coscienza dell’esistere; di più: esperienza [sottolineato] permanente dell’esistenza. Non, dunque, «mito», e men che meno mito»bugiardo». Verissimo, anzi! Vera autentica [sottolineato] esperienza esistenziale.132
129
Lettera di Gino Brazzoduro a Biagio Marin del 29 gennaio 1984, ora in G. Brazzoduro, B. Marin, Dialogo al confine. Scelta di lettere 1978-1985 cit., p. 246. 130 Lettera di Biagio Marin a Gino Brazzoduro del 10 settembre 1979, ora in G. Brazzoduro, B. Marin, Dialogo al confine. Scelta di lettere 1978-1985 cit., p. 72. 131 Cfr. R. Lunzer, Irredenti redenti cit., p. 41. 132 Lettera di Gino Brazzoduro a Biagio Marin del 29 gennaio 1984, ora in G. Brazzoduro, B. Marin, Dialogo al confine. Scelta di lettere 1978-1985 cit., pp. 245-246. Bordi e borders. Scrittori e viaggiatori tra centro e periferia
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Quella che si profila in Brazzoduro è una concezione di identità dinamica, che «implica la Entzauberung, lo sfatamento del»mito dell’altra parte», perché ogni uomo si trova ora di qua ora di là dal confine»,133 e che identifica la vera patria con il confine, come «luogo della cultura»,134 linea di avvicinamento e incontro più che di separazione, spazio dove la disponibilità all’indebolimento e alla messa in discussione di se stessi diventa occasione di arricchimento e di crescita: Attraverso i confini avvengono contatti, scambi, interazioni […]. Per questo le frontiere sono anche un «topos» straordinario di contraddizioni, in cui si manifestano interesse e curiosità per ciò che accade sull’altro versante. Sui limiti confinari nascono anche nuovi bisogni di complementarietà, stimoli inediti per l’intuizione e si annunciano possibilità singolari di interfecondazione e di pluridimensionalità per l’immaginazione creativa.135
A questa situazione porosa, fatta di contaminazioni e differenze, rimanda anche la realtà di Trieste, dove l’italianità ha una connotazione particolare rispetto ad altre regioni d’Italia, che comporta anche una maggiore responsabilità e la necessità di rendere testimonianza della propria esperienza e verità umana, per evitare le strumentalizzazioni della cultura, che, da parte italiana, hanno finito per creare le condizioni della tragedia dell’esodo e che sono alla base di tutte le «azioni di banditismo internazionale» e di operazioni vergognose giustificate e falsificate nella loro realtà autentica attraverso la censura, le costruzioni ideologiche e le manipolazioni dell’informazione: Un abitante confinario ha sempre ‘qualcosa di più’ di un concittadino che vive all’interno. Un italiano di Trieste non è la stessa cosa di uno di Firenze. Il confinario ha una prospettiva più profonda, un’apertura visuale che all’altro è meno congeniale. Ha un’esperienza umana più ricca, più aperta. Non per questo sarà meno ‘italiano’, ovviamente; anzi, se mai di più! […] È questione di sensibilità: una sensibilità più raffinata dal confronto con l’altro che gli convive accanto quotidianamente. Il confinario è, in un certo senso ‘biculturale’ per vocazione. Non perché rinuncia a qualcosa della propria identità nazionale, ma perché vi aggiunge [sottolineato] qualcosa di peculiare e di irripetibile, di originale: la propria vocazione multiculturale, non esclusiva ma aperta, ‘curiosa’ verso il diverso, l’altro da sé. Questo dovrebbe insegnare l’esperienza del confine.136
Nel confronto dialettico fra Marin e Brazzoduro si riflette ancora, in tutta la sua
133
Cfr. R. Lunzer, Irredenti redenti… cit., p. 25. Cfr. H. K. Bhabha, The Location of Culture, New York, Routledge 1994, in part. p. 218. 135 G. Brazzoduro, Oltre le linee, Pisa, Nistri – Lischi 1985, p. 6. 136 Lettera di Gino Brazzoduro a Biagio Marin del 15 febbraio 1985, ora in G. Brazzoduro, B. Marin, Dialogo al confine. Scelta di lettere 1978 – 1985 cit., p. 280. 134
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contraddittorietà, l’ambivalenza di Trieste che, da un lato, è città di mediazioni ma, dall’altro, si rivela anche una aggregazione di componenti isolate, di anime diverse che vivono senza comunicare, ignorate dalla cultura italiana ‘ufficiale’, ostile a ogni sintesi mediatrice che possa produrre l’assimilazione e la scomparsa dell’italianità triestina la quale, prima del movimento risorgimentale e delle esasperazioni ideologiche sostenute dai nazional-liberali, costituiva invece, anche attraverso il dialetto, il principale fattore di sintesi e di unità sociale, riconoscendosi come ‘nazione’ in se stessa.137 In Marin si ripresenta il sofferto confronto slataperiano con l’«anima in tormento» di Trieste, «pantragicamente» «scissa»,138 e il tentativo di fondare su essa e sulla sua «originalità d’affanno» una cultura, una fondazione che «reca in sé una contraddizione profonda, lo slancio vitale proteso all’edificazione e la dura repressione che esso impone in nome di quella meta, finendo per negare se stesso e per convertire la propria energia in pulsione di morte la quale intorbida la strenua passione di costituire una Kultur, perché oscuramente fa sentire che non è possibile fondarla in modo duraturo».139 La tensione a comporre l’individualità e l’esperienza nell’unità solida della dimensione dello spirito, in un «blocco formidabile, uno, compiuto in sé» che non può essere «sminuzzato»140 sostituisce tuttavia alla vita una immagine di essa ed è una forma di autoinganno, di «cancellazione del diverso nella paranoica estensione dell’io, che cerca così di nascondere la propria intima debolezza: ma inutilmente, perché quell’immagine è solo negazione di ciò che non si sa più ricomprendere; riconoscimento dell’impotenza a creare, tautologica affermazione di sé».141 L’ostentazione di una volontà illimitata e di una immagine che non corrisponde alla realtà ma della cui verità ci si vuole persuadere, rivela il dramma di una città e di una borghesia che vogliono presentarsi all’esterno come compatte e capaci di rappresentare l’intera realtà, politica, sociale e umana, ma che in realtà non hanno storia e occultano la loro debolezza costitutiva attraverso l’uso politico del mito astratto della nazionalità: Distaccato dalla realtà viva della società presente, enfiato di nozioni che riflettono stadi di cultura e perciò di maturazione storica differenti, l’io politico di questi intellet-
137 A. Ara, Trieste e la mediazione tra le culture: lo sfondo storico, in Intellettuali di frontiera. Triestini a Firenze (1900-1950), I, a cura di R. Pertici cit., pp. 9-30. Nello stesso volume si veda anche C. Magris, I triestini e la mediazione tra le culture, pp. 31-38. 138 R. Lunzer, Irredenti redenti… cit., p. 36. 139 A. Ara, C. Magris, Trieste. Un’identità di frontiera cit., p. 58. 140 S. Slataper, Ai giovani intelligenti d’Italia, in «La Voce», 26 agosto 1909, ora in Id., Scritti letterari e critici, a cura di G. Stuparich, Milano, Mondadori 1956, pp. 186-189. 141 G. Negrelli, In tema di irredentismo e di nazionalismo cit., p. 279.
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tuali è un io irrelato che si espande indefinitamente come nuda Volontà. Ed è allora volontà di affermazione di sé, come individuo, come classe, come nazione: privo di contenuti precisi, è innanzi tutto volontà di espansione, volontà di potenza. Prima del ripiegamento su di sé, nel tentativo di elaborare un programma politico e di divenire «partito», il movimento nazionalista, movimento di intellettuali, il «vario nazionalismo» che circola come atmosfera di diffuso disagio nell’Italia della cultura, è essenzialmente questo stato di amplificazione indeterminata della Volontà politica in chi è impotente ad agire su di una realtà che è diversa dall’idea, dalla proiezione intellettuale di essa.142
In questa prospettiva si deve quindi collocare il nazionalismo mariniano che, come quello slataperiano, cade, soprattutto per ragioni ‘esterne’ e per la mancanza di «senso pratico» dei mazziniani triestini,143 nell’equivoca identificazione di ‘nazione’ e ‘nazionalità’, giustificata da uno ‘stato di necessità’, ed è destinato inevitabilmente alla delusione nel confronto con la realtà, sempre inadeguata e insufficiente rispetto ai presupposti ideali. Perciò alla città non resta che rifugiarsi nella contemplazione di se stessa e della propria ‘diversità’, in una proiezione poetica, immaginaria e immutabile, nella quale vengano meno tutte le contraddizioni, costruendo così un «mito al quadrato» che finisce per cristallizzare la polivalenza triestina, sottraendola al divenire storico e al confronto con il mondo circostante: Quella diversità, che costituisce la triestinità di Slataper, viene indicata come reale ma indefinibile, autentica quando viene vissuta nella ritrosa interiorità del sentimento e subito falsata quando viene proclamata ed esibita. Il retaggio plurinazionale, che Slataper sente confluire in se stesso, è così fuso nella sua persona da non essere precisabile […]. La patria di cui egli ha nostalgia non esiste veramente in alcun luogo, perché nessun luogo gli offre un’identificazione completa. […] Ma quella diversità imprecisabile e incompresa – della quale il poeta si compiace, perché ha bisogno di sentirsi incompreso per sapere di esistere, giacché altrimenti, non potendo definirsi, potrebbe dubitare della propria esistenza – è il luogo della poesia. Soltanto la poesia può dire ciò che non si riesce a definire in modo esplicito, raccontare le contraddizioni inconciliabili senza pretendere di risolverle, dando loro in tal modo sostanza e facendone una ragione di vita, trasformare l’incertezza della propria identità in un viaggio alla ricerca della medesima e cioè nell’identità più vera.144
Analogamente, quando Marin afferma che la poesia è «presenza spirituale che implica la conoscenza, che implica il giudizio di valore, la realizzazione, l’incarna-
142
Ivi, p. 289. Cfr. A. Spaini, I mazziniani a Trieste, in «La Voce», 15 dicembre 1910, ora in Trieste e «La Voce», a cura di G. Baroni, Milano, Istituto di Propaganda Libraria 1975, pp. 148-158. 144 C. Magris, Un mito al quadrato, in Storia d’Italia: le regioni dall’unità a oggi. Il Friuli Venezia Giulia cit., p. 1395. 143
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zione del valore, implica l’essere persona, cioè l’uomo intero, in cui passato e presente sono momenti astratti di distinzione temporale dentro l’eternità omogenea»,145 è ancora attualissima la fiducia slataperiana nella capacità della poesia di risolvere le contraddizioni esistenziali e di convertirle in potenzialità, di ricreare «con la gioia dell’espressione chiara questa convulsa e affannosa vita nostra»:146 A Trieste c’è da far tutto, agire. È un punto d’incrocio di civiltà: studiare dal vivo. Ha bisogno di maestri: insegnare. Contiene inquieta, gli elementi che inquietano noi moderni; bisogna equilibrarli realmente. Perché io posso illudermi d’essere calmo, io scrivendo in italiano e leggendo libri tedeschi, guardare alla nazione con coscienza d’umanità, ma finché io non so attuare, rendere propagabile questo mio equilibrio, esso non esiste in realtà. Finché, anche, io non so divorare tutta la complessità della vita umana, assistendo partecipe delle sue forme apparentemente contraddittorie, commedia e letteratura, salotto e città vecia, corso e lastricato, sloveni e italiani, io non sono poeta.147
Anche Enzo Bettiza mette in rilievo il carattere schizofrenico e contraddittorio del nazionalismo triestino che è una variazione del ‘vorrei dirvi’ slataperiano ed esprime la stessa e sempre incompiuta tensione alla sintesi fra una forte ansia di assimilazione e l’affermazione di una indefinibile diversità, insieme autentica e artificiosa, dal momento che le parole non riescono a esaurire del tutto la complessa pluralità dell’esperienza: Per chi non sia nato nelle ambigue, sfuggenti, assurde zone di confine, sarà sempre difficile capire, capire veramente. […] i casi di cosiddetta «doppia personalità» sono, qui da noi, all’ordine del giorno. […] Il fenomeno si aggrava quando, in un luogo come Trieste, la «doppia personalità» decida di diventare «una», indivisibile e assoluta, quando decida di espellere l’altra parte di sé e di buttarsi tutta da una parte sola. Ciò non può farlo, senza violenza su se stessa. Ed ecco allora si spiegano i numerosissimi casi di nevrastenia politica che allignano in una città come la nostra e che spesso, erroneamente, o, per lo meno, imprecisamente, vengono classificati sotto il termine sommario di nazionalismo.148
Marin non nasconde il carattere antinomico del suo pensiero, che, oltre a riprodurre la condizione di continuo disagio in cui si trovano gli intellettuali giuliani e il
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Cfr. B. Marin, La tragedia della parola, in Id., Parola e poesia, con introduzione di E. Guagnini, Genova, Lanterna 1984, p. 66. 146 Cfr. S. Slataper, Lettere triestine. La vita dello spirito cit., p. 106. 147 Lettera di Scipio Slataper a Luisa Carniel (Gigetta) dell’8 febbraio 1912, ora in S. Slataper, Lettere, a cura e con prefazione di G. Stuparich, III, Torino, Buratti 1931, pp. 144145. 148 E. Bettiza, Il fantasma di Trieste cit., p. 243. Bordi e borders. Scrittori e viaggiatori tra centro e periferia
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loro radicamento in «strutture di pensiero e di sentimento ambivalenti, in opposizioni costitutive e discorsi dissonanti»,149 non si sente estraneo neppure al principale difetto degli italiani, ovvero l’individualismo: Io non sono un eroe. Devo confessare che sono italiano al cento per cento, che tutti i peccati che mi fanno orrore nei miei fratelli sono innanzi a tutto miei, che a mancare di coerenza disciplinata e quindi di nobiltà sono io per primo […] Vedo con tanta acutezza il male nei miei fratelli perché l’ho in me. La verità è che non sono disposto a pagare fino in fondo il prezzo della potenza, ma che non mi dispiacerebbe averla. Predico il rispetto ma non so rispettare. Non so come sia degli altri, ma di questa contraddizione che è in me, soffro acutamente. Non mi riesce essere semplicemente devoto ai valori.150
Quando Marin dichiara, in una lettera a Voghera, di non potersi dire «né gentiliano né crociano né idealista, né materialista», dal momento che «non esiste in me una consequenzialità teorica, di cui non sia io il punto di partenza e di arrivo», riaffiora, al di là di ogni adesione ideologica, la natura più autentica dello scrittore, l’affermazione della priorità dell’uomo,151 la difesa di un particolarismo e di una marginalità che diventano antidoto contro le violenze della storia e della ragione: Tutte le ideologie tendenti a uniformare la volontà dei tanti individui, che devono costituire la società, che valore hanno? La riduzione in prevalenza nei nostri tempi della realtà umana, a una realtà astrattamente razionale, che cosa può veramente raggiungere? L’arroganza dell’Illuminismo sia vecchio sia nuovo, che cosa può di fronte alle esperienze millenarie, così diverse, così varie degli uomini?152
Sulla base di questi presupposti e di un irrazionalismo di derivazione tedesca che riemerge puntualmente, nessuna posizione risulta mai effettivamente monolitica. Marin stesso rivela in molti casi l’insufficienza teorica del concetto di nazionalità culturale, che i giuliani hanno dovuto abbracciare perché posti di fronte al dilemma italo-slavo, con aperture che segnalano la suggestione del progetto di una federazione adriatica, sostenuto dai socialisti giuliani come «l’unica possibilità per preservare i popoli dalla rovina totale»153 e interrotto bruscamente dalla prima
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Cfr. R. Lunzer, Irredenti redenti… cit., p. 24. B. Marin, FM 8, 13 agosto 1955. 151 Cfr. G. Botteri, Le scelte politiche di Marin, in «Studi mariniani», I, 1 (dicembre 1991), pp. 98-99. Sull’influenza di Giovanni Gentile si veda P. Camuffo, Il “mio” Gentile, in «Studi mariniani», XII, 9-10 (dicembre 2004), pp. 19-33. Per i rapporti con Benedetto Croce si veda P. Camuffo, Biagio Marin, la Poesia, i filosofi cit., pp. 58-99. 152 Lettera di Biagio Marin a Giorgio Voghera del 26 giugno 1978, ora in B. Marin, G. Voghera, Un dialogo. Scelta di lettere 1967-1981 cit., p. 105. 153 Cfr. il discorso tenuto a Trieste da Valentino Pittoni al convegno dei socialisti del 1905 150
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guerra mondiale, potenzialmente recuperabile nell’ambito di una dimensione europea e di una valorizzazione del «valore – cultura» di Trieste come «alfabeto transnazionale di civiltà»,154 secondo la stessa prospettiva che aveva spinto i vociani triestini a progettare una rivista intitolata Europa155 e che ripropone l’impasto vociano di nazionalismo e di liberalismo rispettoso delle altrui individualità nazionali: La felice, o almeno fruttuosa coesistenza diventerà ogni giorno più, una necessità comune. Il tempo dei popoli chiusi nelle loro frontiere, e perciò isolati, è finito. E noi marginali siamo qui per un’alta e nobile funzione d’intermediari tra il nostro popolo e gli altri. È deplorevole che non si capisca che ogni intesa con gli altri chiede chiara visione della realtà e anche spirito di mediazione.156
La chiarezza di visione dei ‘marginali’ rispetto alla patria, sottolineata anche dalla scelta poetica del dialetto come «lingua-mondo» e dell’italiano come «seconda lingua»,157 e la capacità di tradurre il «vantaggio – svantaggio» delle proprie origini in mediazione culturale,158 in «creazione artistica che unisce»,159 trasformano quello che apparentemente è un handicap geografico in una risorsa per tutta la comunità nazionale che, a partire dalle «nazioni senza storia» verso cui si rivolgevano i vociani,160 ovvero dalle minoranze culturali e politiche, può quindi fare riferimento a una Italia diversa e migliore, proiettandosi nel futuro.161
cit. in C. Gatterer, «Italiani maledetti, maledetti austriaci». L’inimicizia ereditaria (1972), trad. it. di U. Gandini, Bolzano, Praxis 2003, p. 97. 154 F. Senardi, Biagio Marin, uomo del dialogo, in «Studi mariniani», XVI, 14 (dicembre 2008), p. 38. 155 Cfr. A. Ara, Trieste e la mediazione tra le culture: lo sfondo storico cit., p. 20. 156 B. Marin, Ritorno a Rovigno, in «Il Piccolo», 7 agosto 1968, ora in Id., Le due rive cit., p. 167. Sul «nuovo irredentismo» che punta all’integrazione si veda anche F. Senardi, I Turchi, gli Asburgo e l’Adriatico, Duino Aurisina (Trieste), Associazione Culturale italo-ungherese del Friuli Venezia Giulia «Pier Paolo Vergerio», 2007. 157 M. Tarlao Kiefer, Biagio Marin: perfezione di una lingua, in «Studi mariniani», I, 1 (dicembre 1991), pp. 77-93. 158 Cfr. G. Cusatelli, Il viaggio dei triestini della «Voce», in Intellettuali di frontiera, I, cit., p. 295. 159 E. Rocca, La distanza dei fatti cit., p. 153. 160 Cfr. F. Senardi, Biagio Marin, uomo del dialogo cit., p. 22. 161 Cfr. la lettera di Biagio Marin a Arturo Carlo Jemolo del 20 ottobre 1974, ora in «Nuova Antologia», CXXIV, 4 (ottobre-dicembre 1989), p. 25. Bordi e borders. Scrittori e viaggiatori tra centro e periferia
DARIO DI DONFRANCESCO Ai bordi dell’Italia. Pagine di viaggio di Beppe Severgnini e Michele Serra (con intermezzi pasoliniani)
Nei meandri infiniti e piacevolmente tortuosi di quel vastissimo macrotema storico-letterario approssimativamente identificabile con il sintagma «viaggio in Italia», e con lo scopo di operare una tra le possibili riflessioni sulle opere degli scrittori italiani che meglio hanno analizzato e raccontato il nostro paese attraverso le loro pagine, credo che grande attenzione e rispetto debbano essere riservati ai resoconti del XX secolo dedicati all’Italia da scrittori italiani. Si tratta di uno dei sottogeneri odeporici forse meno indagati dalla critica e meno accattivante rispetto ai testi in cui si racconta dei viaggi degli italiani all’estero o degli stranieri in Italia,1 ma che molto rivela del Belpaese, producendo memorabili istantanee italiane. Vi si scorgono riferimenti alle timide rivoluzioni tecnologiche, scientifiche, del costume e della moda, ai rapporti tra gli stessi italiani, catturati in microframmenti organizzati in mosaico grazie a episodi, coincidenze, spesso anche all’abile invenzione (o mestiere) dello scrittore-viaggiatore. Tanti e celebri, nel nostro panorama letterario, sono gli esempi di resoconto di italico viaggio, un filone che comprende una nutrita lista di autori, scrittori e giornalisti. Ritenendo il reportage uno dei più preziosi e poliedrici strumenti letterari di indagine sociologica, ho scelto di soffermarmi su due «reportage costieri», redatti tra la fine degli anni Ottanta e il decennio successivo del Novecento, da due giornalisti che ricavarono abbondanza di notizie, approfondimenti, note di colore e dati indicativi dell’immagine e della situazione di quell’Italia balneare, turistica e marittima, con i numerosi corollari socioculturali che provvidenzialmente si colgono tra le maglie dell’impianto odeporico. Mi riferisco a Tutti al mare di Michele
1 Cfr. E. Guagnini, Da Alfredo Panzini a Michele Serra: alcune linee del viaggio novecentesco in Italia, in Il viaggio in Italia. Modelli, stili, lingue, a cura di I. Crotti, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1999, p. 213.
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Serra, che raccoglie le corrispondenze giornalistiche pubblicate su «L’Unità» nell’estate del 1986,2 e a La Repubblica sul mare di Beppe Severgnini, breve reportage vacanziero redatto nell’estate del 1990 e uscito sulle pagine de «Il Giornale», che sarebbe stato più tardi pubblicato in volume.3 I due scritti, dunque, comparvero a pochi anni di distanza l’uno dall’altro e, dato ancor più interessante, le loro istantanee non sembrano essere state confutate o sbiadite dal tempo, visto che stereotipi e situazioni paiono oggi pressoché immutati. Il reportage di Severgnini rappresentò una sorta di risposta speculare e omologa a quello di Serra, con l’itinerario costiero invertito e la struttura perimetrica e semicircolare quasi invariata, tenendo conto delle inevitabili differenze nella resa letteraria e stilistica. Particolare non secondario, entrambi i giornalisti sono lombardi, riferimento biografico che rende ancora più significative le impressioni odeporiche a sfondo sociale e culturale raccolte nelle tappe litorali, soprattutto nelle aree meridionali, in cui più vivace e stimolante, se non altro per opposizione o presunta asimmetria culturale, poteva risultare il riferimento all’Italia costiera e turistica del loro passato. Tornando alla struttura dei reportage in esame, bisogna a questo punto meglio precisarne i simmetrici itinerari, indagando al contempo sulle motivazioni che hanno avevano indotto i due giornalisti a progettarli e realizzarli. Michele Serra parte da Ventimiglia, a bordo di una Fiat Panda 4x4,4 per arrivare a Trieste; il suo è un «diario di viaggio lungo le coste italiane […] da dettare in presa diretta»,5 che nasce da attente riflessioni professionali sull’effettivo significato di concetti-base come «notizia» o «scrittura». Il diario, dunque, ebbe una genesi spontanea e non priva di acume e spirito antropologico, e le sue pagine sono intrise di quello stile pungente e grandangolare tipico del giornalista milanese. Non dissimile è la ragione che dà origine al reportage di Severgnini: la genesi è anch’essa ascrivibile al lavoro di inviato speciale. Come per il collega Serra, anche il giornalista cremasco dichiarava di essere tanto attratto dagli incomprensibili «misteri d’Italia» da ritenere che un puntuale resoconto di una ricognizione costiera dello Stivale, isole escluse, sarebbe forse stato in grado di inquadrare e rappresentare quei fenomeni sociali in maniera più originale, proprio grazie all’utilizzo di un filtro narrativo corrisponden-
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L’opera fu edita in volume nel 1986, per i tipi della Milano Libri; successivamente, esaurito il libretto a circolazione molto limitata, fu edita e ristampata più volte dalla casa editrice Feltrinelli. Qui si cita dall’ottava edizione, stampata nel 2005. 3 Il reportage è contenuto in B. Severgnini, Italiani con valigia. Il bel paese in viaggio, Milano, Rizzoli 1993. Qui si cita dall’edizione Biblioteca Universale Rizzoli (Superbur) del 2001. 4 Si tratta dunque di una vettura «proletaria», di gran successo in quel periodo, una utilitaria buona per ogni occasione, soprattutto per la vacanza al mare; il mezzo di trasporto fu fornito a Serra espressamente dalla Fiat, proprio per sponsorizzare il viaggio da cui sarebbe nato il reportage. 5 M. Serra, Tutti al mare, Milano, Feltrinelli 2005, p. 6. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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te a un’Italia in pieno orgasmo turistico-balneare. L’idea non era nuova né da sottovalutare, tanto che lo stesso giornalista lo ammette nelle prime pagine, rendendo merito al collega Serra. Pare opportuna, a questo punto, una breve digressione che faccia maggior luce su una particolare modalità del sottogenere odeporico in esame. Quello del «viaggio in Italia» effettuato lambendone i tanti chilometri costieri e intrufolandosi nelle miriadi di realtà mediterranee, non è una novità nel panorama letterario e paraletterario del nostro paese. Tanti sono gli scrittori che hanno utilizzato alcune fasce costiere della Penisola come referenti geo-antropologici e letterari, mentre più rare sono le opere organicamente dedicate all’intero perimetro costiero. Una di esse, un resoconto rondista intitolato Italia per terra e per mare, porta la firma di Riccardo Bacchelli, che nell’estate del 1950 cominciava un’amorevole esplorazione delle «sponde marittime d’Italia, e specialmente di quelle più remote, che non furono mai o più non sono frequentate dagli uomini e dalla storia»,6 con l’intento primario di riportare alla luce vicende e i paesaggi dimenticati dell’Italia litorale, costruendosi un itinerario che andava dalla Liguria a Trieste. In questa sede, però, voglio menzionare soprattutto due ulteriori riferimenti, decisamente distanti tra loro per spessore letterario, datazione cronica e modalità di pubblicazione, ma che convergono sulla dimensione topica e litorale, con un itinerario speculare. Il primo, illustre precedente è opera di Pier Paolo Pasolini, e a tale scritto ci si rivolgerà spesso in questa sede, considerandolo come magistrale raccordo topologico e letterario; il secondo resoconto è invece un diario di bordo dei nostri giorni, redatto e pubblicato direttamente sulle pagine immateriali della rete telematica, opera del milanese Guido Grugnola. Lo scritto odeporico di Pasolini si intitola La lunga strada di sabbia, cronaca di viaggio lungo le coste italiane (comprese quelle della Sicilia), pubblicato per la prima volta sulla rivista «Successo», in tre puntate, nell’estate del 1959.7 Grugnola, nell’impresa di recente portata a compimento a bordo del suo ecologico kayak, racconta invece di un’Italia costiera in un viaggio all’origine del quale c’è una convergenza tra la narrazione odeporica in forma di diario, le moderne tecnologie di redazione e diffusione di testi e la dimensione socioculturale e biomarina del litorale italiano. L’accostamento, se può fare a ragione vacillare i puristi della letteratura cosiddetta «alta», non paia dissacrante: sebbene lo spessore, le finalità e
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R. Bacchelli, Ricognizione poetica delle coste d’Italia, in Id., Italia per terra e per mare, Milano, Mondadori 1962 (19521), p. 609. 7 Per una compiuta e dettagliata ricostruzione delle vicende del manoscritto e della corrispondenza effettivamente pubblicata, nonché per l’aneddotica che la circonda, cfr. la notizia al testo in P. P. Pasolini, Romanzi e racconti, Vol. 1: 1946-1961, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori 1998, p. 1739. Il reportage è pubblicato anche in P. P. Pasolini, Un paese di temporali e di primule, a cura di N. Naldini, Parma, Guanda 1993. Bordi e borders. Scrittori e viaggiatori tra centro e periferia
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la resa letteraria delle due opere appartengano indubbiamente a due piani molto distanti tra loro, infatti, il parallelo diacronico e sintopico appare tematicamente e geograficamente avallabile, nonostante le tante differenze, non ultima quella che riguarda proprio il mezzo di trasporto protagonista della prosa odeporica, che influisce notevolmente sulla portata della visione e costruisce dunque una diversa tipologia della rappresentazione paesaggistica italiana su pagina, anche dal punto di vista stilistico. Una semplice operazione diacronica, allora, può anche permettere di verificare il grado di attrazione di simile itinerario, che mantiene comunque una certa frequenza nella nostra letteratura, seppur adeguandosi agli attuali mezzi di redazione e comunicazione del viaggio. Torniamo ora ai resoconti in esame. Si seguirà un criterio basato sulla sovrapposizione geografica e sociale delle aree visitate dagli inviati-viaggiatori. Il breve lasso di tempo che intercorre tra i due scritti, se da un lato non può restituire una panoramica diacronicamente apprezzabile delle evoluzioni o involuzioni del popolo italiano (balneare), dall’altro fornisce un’ampia polifonia di descrizioni e tipologie socioculturali italiche. L’area ligure coincide con il momento della partenza per il giro dell’Italia del mare di Michele Serra, mentre il contrario avviene per Severgnini. Nel reportage meno recente, il confine franco-italiano di Mentone è immediatamente pretesto per registrare la opinabilità delle mansioni da parte di un impiegato della pubblica amministrazione. Nelle pagine di Severgnini, in cui quel confine coincide con la conclusione del viaggio, curiosamente si reitera la registrazione della italica scortesia degli impiegati di enti turistici: a Ponte San Lodovico, stessa località citata da Serra, si riporta un episodio di «sciatteria professionale» che riverbera anche nella visita ai giardini botanici Hanbury di Ventimiglia, mentre un’ambientazione tetra e kafkiana enfatizza l’iperbolica antitesi con il lindore del contiguo territorio francese: Un funzionario sorridente, una frontiera linda, e una serie di gallerie illuminate potevano indurmi a pensare d’aver passato la frontiera senza accorgermi. E invece no, sono a casa: il funzionario è scorbutico, le gallerie sono scure come l’antro di Circe, piccole prove di incuria sono disseminate ovunque con noncuranza. […] Niente di grave, sia chiaro: solo i segni di una feroce determinazione nazionale a non farne mai una giusta fino in fondo.8
Pasolini, che cominciava il suo resoconto odeporico pressappoco nello stesso punto, preferì invece concentrarsi sulle semplici meraviglie naturali e perfino architettoniche di una costa occidentale italiana ancora semivergine di scempi edilizi, guidato da un maresciallo della Polizia di frontiera «la cui umiltà di fronte alle cose
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del mondo ch’egli serve, si è mutata in una grande tranquillità di giudizio, quasi in dolcezza».9 I bordi che disegnano i contorni dell’area ligure e toscana sono densi di istantanee socioculturali in entrambi i resoconti. Serra riempie le pagine con osservazioni che, rilette oggi, forniscono le esatte coordinate culturali della Riviera alto-tirrenica degli anni Ottanta del Novecento, con i riferimenti alla bulimia turistica di Alassio, ai flussi di rientro della borghesia troppo precipitosamente fuggita all’estero negli anni Settanta, al cemento della via Aurelia pur generosa di vedute panoramiche, alla storia etrusca di Populonia, fino alle disillusioni intellettuali di Capalbio. Il collega Severgnini, dal canto suo, restituisce al lettore dei frammenti paesaggistici e sociali quasi perfettamente sovrapponibili a quelli appena elencati, con la noia dei villeggianti riscontrata a Rapallo e lungo tutta la Riviera ligure, la «lentezza» delle coste toscane, la subdola e attraente antifrasi onomastica degli hotel di Punta Ala. Le pagine pasoliniane recano profonde tracce del paesaggio (anche sociale) ligure, grazie all’osservazione dei giocatori al casinò di San Remo, oppure alle chiacchierate con il cameriere dell’albergo, che si esibisce in un’ardita analisi antropologica dell’imperscrutabilità un po’ rude delle genti liguri, attribuendone l’origine all’immigrazione meridionale. Le dure e poetiche pagine fluiscono, con accenni a Genova (trascurata da Serra e Severgnini), Lerici, La Spezia, ma improvvisamente lasciano spazio alle terre e coste toscane; con i monti della Versilia a far da maestoso fondale scenografico, irrompe la spiaggia di Cinquale, passeggiando per la quale l’intellettuale viaggiatore, immerso nei ricordi di Huxley, D’Annunzio, Mann, Anna Banti (tutti scrittori che avevano amato quelle coste), si imbatte in una sequenza di presenze così proletariamente e italicamente balneari e ordinarie da rendere inutile il ricorso a paralleli, analisi, spiegazioni di qualunque sorta.10 Arriva anche una delle fasce costiere comuni ai due reportage, identificabile con il litorale laziale e segnatamente con la zona nei pressi di Ostia. Il parallelo, in questo caso, riserva sorprese e qualche conferma. La dimensione periferica della città è prontamente segnalata ed enfatizzata da Serra, con mini-istantanee socioculturali marcatamente pasoliniane che ci rimandano ai «ragazzi di borgata»: la trascuratezza diffusa, l’aria di pericolosità, le baraccopoli (le prime incontrate dalla partenza a Ventimiglia), la giungla edile e popolare che deturpa la costa. La successiva cronaca da Castel Porziano, spiaggia allora frequentata da nudisti e comunità omosessuali, concede al giornalista una ghiotta opportunità di addentrarsi in una sorta di digressione sociologica, analizzando con pazienza e fedelmente riportando su pagina le tipologie di rifiuti abbandonati che giacciono roventi sulla spiaggia libera. Imma-
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P. P. Pasolini, La lunga strada di sabbia cit., p. 1479. Cfr. ivi, pp. 1488-1489.
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gini più concilianti provengono invece dalle parole di Severgnini, che decostruisce lo stereotipo della costa romana, simile, nell’immaginario dei settentrionali, a un «Bronx in riva al mare, dove le automobili di province signorili come Mantova o Pavia verrebbero inseguite da turbe urlanti»,11 menzionando la civiltà delle attese in coda riscontrata a Tor Vaianica o Nettuno, e comprovando empiricamente il grado di efficacia delle ordinanze marittime che in quel periodo disciplinavano il libero accesso ai lidi. E Pasolini? Cosa aveva affidato alla pagina di quel litorale che sedici anni dopo avrebbe abbracciato il suo cadavere martoriato? Dopo aver fatto visita a Moravia e Fellini sulla spiaggia di Fregene, lo scrittore regala un intenso passo odeporico e «automobilistico», in cui il paesaggio, non a caso, si rivela in sintonia con quello appena analizzato.12 La peregrinazione costiera speculare continua. Sul litorale campano, Severgnini racconta della immutabilità di Positano e dei disastri ambientali di Castel Volturno, mentre Serra si concentra maggiormente sul territorio, testimoniando dettagli di realtà italiane socio-balneari come Pozzuoli, Napoli con i suoi scugnizzi beatamente inosservanti, Torre del Greco con motocarri da cui rotolano giù meloni, scugnizzi «meravigliosi, feroci e scalzi sopra i grossi frutti gialli»,13 Castellammare di Stabia, la penisola sorrentina e finalmente Vico Equense. L’automobile impreziosisce questo reportage con alcune notevoli sequenze narrativo-descrittive, di pregnanza sociale e ben rappresentative dei misteriosi meccanismi italiani, soprattutto in occasione dell’attraversamento del capoluogo partenopeo, che neppure Pasolini aveva omesso nel suo tragitto, con pagine che non sarebbe azzardato accostare quelle di Francesco Mastriani, Domenico Rea o Matilde Serao: […] si vede Napoli formicolare in lontananza, enorme e inespugnabile da chiunque, con le sue creature piccolissime e dure che vendono Marlboro sovrapprezzo e pescano cozze in un mare ridotto ad acquitrino. Attraversarla così, da turista frettoloso e superficiale, è stato comunque bello e quasi dolce, se si accetta di perdersi, anche solo dal finestrino di una macchina, in quello sfascio di finestre e ciminiere, di cristiani e di cemento.14
Le prose odeporiche non risparmiano il loro sguardo indagatore nemmeno al
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B. Severgnini, La Repubblica sul mare cit., p. 235. «Arrivo a Ostia sotto un temporale blu come la morte. L’acqua svapora tra tuoni e fulmini. I villeggianti sono stretti nei bar, sotto i capanni, con la coda tra le gambe. Gli stabilimenti, vuoti, paiono immensi. La pioggia non ha l’aria di cessare: e, in questo clima gelido di novembre [il viaggio, lo si ricordi, ebbe luogo nel luglio del 1959] filiamo lungo la costa», P. P. Pasolini, La lunga strada di sabbia cit., pp. 1492-1493. 13 M. Serra, Tutti al mare cit., p. 48. 14 Ivi, p. 49. 12
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territorio calabro-lucano. Dopo un meritato elogio al semimontuoso entroterra salernitano, raccontato ancora grazie all’attitudine letteraria dell’automobile, Michele Serra visita Maratea e Trecchina (in provincia di Potenza). Ciò che l’occhio del reporter registra permette nuovamente di decostruire lo stereotipo del Meridione nullafacente e superficiale, con il composto affollamento della spiaggia in perfette condizioni e l’aria semi-svizzera del piccolo borgo montano: «A farsi friggere tutti i luoghi comuni del Sud lamentoso e dolente»,15 chiosa sorpreso ma soddisfatto il giornalista milanese. La fase sintopica di Severgnini trascura invece Maratea, al contrario anche di Pasolini,16 per dedicarsi ad altre città costiere calabresi, con episodi tutti ugualmente istruttivi e testimoni della poliedricità del (mal)costume italiano. L’area ionica inquadrata dai due scritti contempla corrispondenze da varie località costiere. Se Michele Serra indugia sulle coazioni turistiche di un famoso villaggio-vacanze a Capo Rizzuto, con un’atmosfera che oggi fa riecheggiare gli allegri e inconsapevoli eccessi degli anni Ottanta del Novecento, Severgnini fotografa la desolazione e l’abusivismo selvaggio delle spiagge di Locri, Sibari, Cirò Marina, nonostante la (allora) incipiente e galoppante turisticizzazione omologata di massa. L’Italia di Severgnini, inoltre, riserva apprezzabili attenzioni a Metaponto, nella Basilicata ionica, sulla spiaggia della quale l’orecchio attento del reporter capta un sottofondo sonoro che pare la concretizzazione vocale, quotidiana e non banale dell’Italia unita: Chi non crede che l’Italia sia un’unica nazione dovrebbe trascorrere una mattinata sulla spiaggia di Metaponto con gli occhi chiusi, e si convincerebbe: qui, come a Jesolo, a Pineto negli Abruzzi, i discorsi sono gli stessi. Al Sud, forse, gridano un po’ di più. Per il resto, stessi timori, stesse arrabbiature, stesse urla verso bambini del tutto simili […].17
Nulla a che vedere con l’area ionica di Pasolini, venata di un lirico surrealismo che solo parzialmente controbilancia l’aria da far west italiano del dopoguerra. Si tratta di una costa che, però, proseguirà con la «perfezione» del connubio urbanomarino di Taranto e della biancheggiante Gallipoli, fino ad arrivare a Santa Maria di Leuca. È qui che tornano a riannodarsi le fila geografiche e narrative dei tre reportage. Leuca si dimostra infatti costante spartiacque geo-sociologico: se Paso-
15
Ivi, p. 55. Già nel luglio del 1959 lo scrittore sottolineava le presenze degli industriali milanesi su quella costa, esaltandone il surreale livello di artificiale, noiosa e monotona perfezione paesaggistica e architettonica, definendola per questo «tremenda»: cfr P. P. Pasolini, La lunga strada di sabbia cit., p. 1505. 17 B. Severgnini, La Repubblica sul mare cit., p. 223. 16
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lini non si esime dal menzionare lo scoglio che divide convenzionalmente lo Ionio dall’Adriatico, Serra, ancora una volta complice la presenza letteraria dell’automobile, restituisce al lettore la mutazione paesaggistica costiera con cui il Salento adriatico gli dà il benvenuto, rimanendo immutata, però, la speculazione edilizia, e aggiungendosi la sensazione di incipiente modernizzazione della vacanza italiana, con paninoteche al neon dai nomi anglofili. Il dualismo ionico-adriatico permane anche nella prosa di Severgnini, con esempi più o meno edificanti di italianità balneare e vacanziera, con un Salento che «continua ad alternare luoghi incantevoli e volenterose manomissioni».18 Le tappe e le descrizioni dell’itinerario costiero adriatico appaiono più fluide e sgranate rispetto a quelle tirreniche in entrambi i reportage. Serra procede dal Salento verso Trieste, menzionando per prima Brindisi e il suo affollato porto, obbligatoria tappa di transito per la Grecia, in un periodo in cui il turismo del basso-Adriatico non era così sviluppato come oggi. Severgnini, invece, si era lasciato rapidamente scorrere davanti agli occhi le marine del Salento, dopo essersi soffermato su scorci abruzzesi, molisani e garganici. In questa vasta area costiera, operando un parallelo tra i due reportage, notiamo come il paesaggio e le notazioni socioculturali siano gli elementi più saldi delle prose odeporiche, armonicamente in sintonia. Entrambi i giornalisti consegnano infatti ricordi e immagini tipicamente italiani e balneari. Serra menziona l’insopportabile inquinamento acustico e pluridialettale di Cala della Pergola, un dettagliato elenco di «misteri» garganici e italiani, ma anche l’epopea romantica di un calcio-balilla di Silvi Marina, in Abruzzo, definito come uno degli ultimi superstiti sulle coste italiane (previsione, in fondo, non del tutto azzeccata), mentre la sfrenata pseudo-modernizzazione delle vacanze italiane è acutamente dedotta dalle surreali onomastiche e sembianze dei prodotti di gelateria industriale. Sulla stessa linea è Severgnini: la descrizione odeporica e balneare è ancora una volta mezzo di indagine su alcune delle infinite realtà del nostro paese, con la diffidenza dei gestori di esercizi commerciali verso il giornalista, la frattura paesaggistica e turistica tra i laghi garganici e il tempo immobile di Pineto degli Abruzzi, ferma come in una cartolina degli anni Sessanta: [Pineto è] un posto di mare vagamente malinconico, né bello né brutto, dove i ragazzi giocano a calcetto di fianco alla ferrovia, tra i pini marittimi e gli ombrelloni del bar Saint-Tropez […]. È un’Italia con gli infissi in metallo, dove le automobili hanno quasi sempre un’ammaccatura. […]. È l’Italia di quand’ero bambino, piena di negozi che vendono biglie e canotti.19
Pasolini, dopo i resoconti insulari da Ischia, da Capri, dalla Sicilia, ricominciava
18 19
Ivi, p. 220. Ivi, p. 217. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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la sua cronaca addirittura dalla provincia di Foggia, omettendo gran parte della costa adriatica pugliese, condensandola però in una suggestiva ricognizione odeporica e sentimentale per mezzo di una solinga passeggiata notturna sulla spiaggia di Rodi Garganico: L’intera costa pugliese si sfa in questa quiete, dopo aver infuriato ai miei occhi, ai miei orecchi, per mattinate e meriggi di caos preumano, sottoumano. […]. Nella memoria, cattedrali e poveri ragazzi nudi, confuse città pericolanti e informi come accampamenti […].20
Lo iato paesaggistico-culturale tra alto e basso Adriatico, variamente collocabile in una fascia costiera comunque ristretta, è una costante dei tre diari di viaggio, ed è interessante approfondire la questione. Lo stesso Pasolini ammetteva che a Francavilla al Mare cominciava la nuova civiltà balneare, e riconosceva a San Benedetto del Tronto una tipologia di dimensione balneare assimilabile a quella del Nord, sebbene il passaggio da Sud a Nord sarebbe stato molto nettamente individuato solo nelle Marche, nei dintorni di Ancona. Michele Serra, invece, racconta solo dei nudisti di Sirolo e delle servitù militari di cui è schiava la costa nelle vicinanze del Monte Conero, mentre Severgnini si prodiga per evitare le decine di iniziative, appuntamenti serali ed eventi, con la presenza dell’automobile più percepibile nella narrazione, quando emerge il problema delle soste adriatiche, in un lungo tratto costiero che non lascia scampo al viaggiatore vessato da venditori ambulanti e giocatori dilettanti di beach volley. Della Riviera romagnola si fissano quadri descrittivi variegati. Pasolini, nel 1959, già metteva in guardia il lettore riguardo al bilinguismo italiano-tedesco della segnaletica stradale e balneare di Rimini e Riccione, arrendevolmente invischiato nel ricordo autobiografico dell’infanzia. La Rimini di Serra, invece, nulla registra della sociologia odeporica italiana, essendo la narrazione concentrata sul famoso Grand Hotel e su una divertente intervista al bagnino, il latin lover per antonomasia, mentre la Riccione di Severgnini è diluita nelle pagine, tra la menzione del fenomeno della mucillagine e l’augurio che la città si salvi dalla previsione di Pier Vittorio Tondelli: diventare la «meta del turismo intelligente e intellettuale degli anni Novanta».21 Si giunge, infine, all’area adriatica veneto-giuliana, in cui si concludono i resoconti di Pasolini e Serra, e comincia quello di Severgnini. L’Italia costiera dell’intellettuale friulano, qui, è soprattutto Venezia, di cui rimangono sulla pagina sbiadite istantanee turistiche di cinquanta anni fa. Serra sembra voler cogliere meglio la dimensione lagunare, che gli fornisce l’occasione di affrancarsi temporaneamente
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P. P. Pasolini, La lunga strada di sabbia cit., p. 1514. B. Severgnini, La Repubblica sul mare cit., p. 211.
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dalla schiavitù automobilistica per raccontare di un’Italia diversa, lontana da tanti stereotipi o cliché: In laguna, il paesaggio è diverso. Povero di turismo, a differenza di quanto accade più a nord: ma punteggiato dalle molteplici attività produttive, moderne o secolari, che fanno di questa specie di mare domestico uno dei più strani e suggestivi ambienti creati dall’uomo.22
Il collega cremasco aveva scelto invece di approfondire l’originalità onomastica di ristoranti e circoli nei dintorni di Jesolo e Grado, registrando convinti e divertiti consensi di turisti tedeschi e inglesi. Questa tipologia etnica, turistica e vacanziera, ritorna nelle pagine di Serra con la descrizione di Lignano Sabbiadoro, dove le presenze teutoniche sono attestate a livelli vertiginosi, e tutta quella piccola fetta costiera d’Italia sembra una succursale svizzera per pulizia, efficienza, sicurezza e lingua franca. Le pagine pasoliniane sono ovviamente molto significative, in quanto raccontano sì di una Italia adriatica veneto-giuliana, ma soprattutto di un territorio autobiografico e inaspettatamente discosto dal ricordo di gioventù, quando Jesolo non esisteva, quando la lingua predominante non era certo il tedesco, e Caorle era ancora la spiaggia degli italiani del Nordest; se verso i mutamenti di quest’ultima lo scrittore trabocca di sdegno, alla Lignano appena sorta dal nulla riserva invece parole più indulgenti, in sintonia, in effetti, con le impressioni odeporiche di Serra. L’estrema propaggine orientale e giuliana è pervasa da alcune sfumature metaforicamente e geograficamente conclusive. Pasolini volle raccontare l’ultimo lembo italiano del suo viaggio litoraneo componendo alcune istantanee dalla periferia di Trieste, città solo da pochi anni riconsegnata ufficialmente alla nazione;23 egli si spinge fino a Muggia e a Lazzaretto, ultima spiaggia italiana traboccante di popolo vero, dove «l’Italia ha un ultimo guizzo, è Italia come da centinaia di chilometri non la vedevo. […] è un fatto: la breve spiaggia di Lazzaretto potrebbe essere in Calabria».24 Di quello che allora costituiva il confine con la Jugoslavia, Pasolini menziona soltanto la desolazione, l’assenza di bagnanti, con parole e domande che, considerata la recente storia balcanica e l’attuale situazione comunitaria, si portano addosso il peso degli anni trascorsi: «Oltre il confine non si vede
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M. Serra, Tutti al mare cit., pp. 104-105. Bisogna tenere presente, infatti, che lo scrittore visita l’area triestina nell’agosto del 1959, dunque nemmeno cinque anni dopo il Memorandum di Londra, con cui si definì la questione di Trieste e del Territorio Libero, ridefinendo i confini italo-jugoslavi. Il Trattato di Osimo, con cui si definì formalmente la questione dei confini, sarebbe stato firmato soltanto nel 1975, l’anno dell’omicidio di Pasolini. 24 P. P. Pasolini, La lunga strada di sabbia cit., p. 1526. 23
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più un’anima: il territorio jugoslavo pare disabitato […]. Non c’è ferragosto in Jugoslavia? Non c’è estate?».25 La mescolanza etnica e storica di Trieste e dell’Italia di confine è prontamente catturata anche da Michele Serra, che preferisce soprassedere sulla presunta sopravvivenza della cultura mitteleuropea in quelle zone. Muggia, in questo reportage, offre i suoi scenari soltanto per fissare le tappe più memorabili del viaggio, mentre funge da innesco narrativo in quello di Severgnini, con la segnaletica stradale ammaccata e trascurata, proprio come, secondo il reporter, quell’Italia che si avviava alla fine del secondo millennio.
25
Ibidem.
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TONI VENERI I viaggi in Italia di Paolo Rumiz
Il movimento che collega centro e periferia – un movimento fondamentalmente narrativo – è con ogni probabilità quello che, con ininterrotta costanza, da più tempo regola la scrittura del viaggio nel mondo occidentale. Affondando nel paradigma spaziale più antico, quello della localizzazione, risponde a una configurazione gerarchica del mondo e a un’immaginazione geografica qualitativa che, dai poemi omerici alla fisica aristotelica, situa ogni spostamento entro un orizzonte polarizzato, all’interno di un campo di forze individuato da luoghi che intrinseche qualità contrappongono fra loro. Se questo paradigma non ha mai cessato di esercitare il suo potere gravitazionale, caricando di senso il racconto di passaggi e attraversamenti – da spazi privati a spazi pubblici, da ambienti familiari ad ambienti estranei, da luoghi sacri a luoghi profani – non per questo è riuscito a sottrarsi alle profonde negoziazioni che l’ascesa di paradigmi epistemologici radicalmente diversi ha reso inevitabili. A tentare di appianarne i dislivelli costitutivi è stato innanzitutto, in senso orizzontale, lo spazio quantitativo e misurabile, e perciò più descrittivo che narrativo, della viabilità romana e poi dell’estensione galileiana; ma è stato anche, più recentemente e in senso verticale, lo spazio di dislocazione della contemporaneità, in cui, attraverso il ritorno all’elemento temporale, le relazioni fra i luoghi e gli spazi sembrano dipendere sempre meno da rapporti di disuguaglianza od omogeneità, quanto da rapporti o meno di simultaneità. Non solo l’apparizione di nuovi centri e la scomparsa di vecchie periferie – e viceversa – ma anche i cambi di direzione e traiettoria dei movimenti che hanno costituito i centri e le periferie come tali possono dunque essere assunti come chiave storica di lettura dei racconti di viaggio e soprattutto di quanto essi possono ancora restituirci del loro contesto di produzione. Adottando questo punto di vista le narrazioni di viaggio dell’antichità rivelano tutta la loro forza centrifuga: la periegesi del cartaginese Annone, le storie del greco Erodoto, le imprese del macedone Nearco, per esempio, sono tutte in qualche modo riconducibili a processi di espansione commerciale, politica o militare dell’ecu-
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mene mediterranea. Al contrario, nella letteratura di pellegrinaggio di epoca medievale, contemporanea all’affermazione europea dei monoteismi e delle loro topografie sacrali, il movimento sembra cambiare direzione e farsi centripeto e lineare, orientandosi verso i centri, allo stesso tempo reali e simbolici, della spiritualità cristiana, da Roma a Gerusalemme a Santiago. A contrastare, ma soprattutto a complicare, tale percorso iniziatico rimane però l’orizzonte mitico dell’Oriente, inesauribile serbatoio d’immaginario, nei cui limiti geografici indefiniti si confondono le estreme periferie del mondo abitato e i suoi vagheggiati centri del potere e dello spirito, dal paradiso terrestre alle isole affollate di mostri, dal favoloso regno del Prete Gianni alla muraglia edificata da Alessandro Magno contro Gog e Magog. Non sono dunque soltanto i poemi cavallereschi che tendono nel basso Medioevo a configurare geograficamente le avventure allegoriche dei paladini secondo un disegno sempre più circolare, ma gli stessi racconti dei pellegrini, in via di secolarizzazione, si riformulano sempre più come peripli nel Levante e nell’Oriente, da Marco Polo che scopre in Cambaluc il centro di un ineguagliabile potere imperiale a John Mandeville che una volta raggiunto il centro simbolico e geografico del mondo, Gerusalemme, si lancia, fino a toccare gli Antipodi, in un’anarchica e fantasiosa esplorazione delle sue periferie. L’impulso centrifugo dato all’immaginazione geografica dalle grandi esplorazioni marittime e terrestri del tardo Medioevo non tarda nel Rinascimento a formalizzare e irrigidire le nuove gerarchie, con la nascita del paradigma metropoli-colonie, ma soprattutto contribuendo largamente, e proprio attraverso la letteratura di viaggio, alla formazione dell’idea di Europa, prima come Cristianità e poi come civiltà occidentale. Il nuovo processo rinascimentale di produzione dello spazio, alimentato dalla riscoperta di Tolomeo, dall’affermarsi della prospettiva, dallo sviluppo prodigioso della cartografia e dell’editoria geografica, non abolisce dunque i fenomeni di gerarchizzazione ma li attua simultaneamente a processi di omogeneizzazione e di frammentazione, laddove nel mondo medievale tutti gli elementi erano fra loro collegati e nessuna permutazione, come nessuna equivalenza, era possibile. Ne consegue che assumono un’importanza inaudita le utopie geografiche secolarizzate che meglio sorreggono questo processo: l’utopia imperiale, con il suo vertice politico che organizza in maniera astratta e autoritaria gli spazi che gli sono subordinati, e il microcosmo, l’isola, il centro che si richiude su se stesso, facendo tabula rasa di ciò che lo circonda, di ogni possibile periferia. L’idea di Italia nei secoli è stata profondamente coinvolta in questo tipo di costruzioni gerarchiche di alto valore politico e culturale: inizialmente con Roma centro del potere spirituale e temporale della cristianità, meta dei pellegrini; con le sue ricche corti principesche, oggetto di desiderio e conquista da parte dei sovrani stranieri, ma anche destinazione dei viaggiatori diplomatici; con le sue prestigiose università, tappe obbligate della peregrinatio academica. Occupando tuttavia sempre più una posizione politica ed economica marginale rispetto ai grandi imperi europei, l’Italia nei resoconti dei viaggiatori viene a cristallizzarsi come periferia eterocronica, tagliata fuori dal tempo, e allo stesso tempo come destinazione fissata da «quel mi-
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to dell’Italia che dilagherà con moto centripeto per ogni dove in Europa»:1 luogo privilegiato in cui iniziarsi alla cultura e all’estetica (il Grand Tour) e più tardi a una dimensione primigenia della natura (la riscoperta romantica del Mediterraneo arcano e selvaggio). In questo contesto la nazione, frutto di un discorso soprattutto interno, costruito dalla storiografia e dalla trattatistica geografica, oppure promosso dalla letteratura tout court, intrattiene un rapporto ambiguo con la letteratura di viaggio, dal momento che quest’ultima, come discorso esterno, attraversa i confini piuttosto che assumerli a perimetro d’indagine, e al contempo, veicolando potentemente stereotipi e idee correnti sulle nazioni, fornisce all’imagologia uno dei suoi più ricchi terreni d’indagine. Appare dunque ulteriormente significativo lo sviluppo otto e novecentesco, da parte di narratori italiani, del viaggio in Italia, condotto talora in chiave organica alle politiche culturali di costruzione della nazione talora adottando un punto di vista decentrato e una visione contrappuntistica. È questo il caso dell’ormai ventennale attività letteraria di Paolo Rumiz,2 per la comprensione del quale le categorie di centro e periferia, di movimento centrifugo e movimento centripeto, sono forse le migliori, anche perché consentono di tracciare la progressiva emersione dell’Italia in una produzione inizialmente così refrattaria all’adozione delle consuete unità d’analisi nazionali. Una delle costanti nel tempo di questa produzione rimane infatti la rivendicazione della perifericità del punto di vista, di una posizione privilegiata dalla quale registrare i rapporti sotterranei che legano fra loro processi apparentemente antitetici di abbattimento e costruzione dei confini, di globalizzazione e localismo. Il narratore, «esperto del tema delle Heimat e delle identità in Italia e in Europa» secondo la dicitura dell’editore Feltrinelli, non esita già in una delle sue prime prove in volume a individuare nell’impurità delle proprie radici la possibilità di un’insolente libertà viatoria, ma anche di uno sguardo più lucido sul presente: Ho frequentato taverne serbe, montagne austriache e coste della Terronia. Mi arrampico sui monti della Carnia, batto sentieri siciliani e vado in bici lungo la Sava. E c’è di peggio. In ognuno di questi luoghi mi trovo splendidamente. Come impuro nelle radici e nella cultura, ho una percezione nettissima. Più cresce quella che chiamiamo la globalizzazione e più si approfondiscono i piccoli confini «etnici».3
1
C. De Seta, Il mito dell’Italia e altri miti, Torino, Utet 2005, p. 6. Cfr. E. Bianda, M’è dolce questo narrar. Paolo Rumiz e il nuovo feuilleton giornalistico, Webgol, 2011, www.webgolnetwork.com/pdf/005_WN_EnricoBianda_dolcenarrar.pdf (consultato 12/2011); E. Guagnini, Orizzonti adriatici di viaggiatori e saggisti contemporanei, in Viaggiatori dell’Adriatico. Percorsi di viaggio e scrittura, a cura di V. Masiello, Bari, Palomar 2006, pp. 103-106; Id., Una città d’autore. Trieste attraverso gli scrittori, Reggio Emilia, Diabasis 2009, pp. 114-119. 3 P. Rumiz, Il frico e la jota. Il profondo Nordest in bici, in È Oriente, Milano, Feltrinelli 2003, pp. 164-165. 2
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Questa rivendicazione fornisce la più potente base di legittimazione per un’indagine dei particolarismi identitari e delle marginalità geografiche, ma anche per sciogliere la maledizione delle Heimat e lanciare alla sinistra, al suo orrore per le radici e l’identità, una sfida, quella di riprendere il contatto con il linguaggio e i simboli del territorio, che proprio nel profondo Nordest è stato preso in ostaggio dalla destra. È a partire dalla volontà di comprendere un fenomeno geograficamente prossimo come l’ascesa politica della Lega che, nell’introduzione a La secessione leggera, Rumiz elabora un piccolo manifesto di riforma e riappropriazione semantica: Non so perché ci voglia tanto a capire che la stirpe è una componente del tutto trascurabile dell’identità. L’ethnos, lo sapevano anche i greci, è fatto da tante altre cose. […] C’è il topos, il luogo, dunque il paesaggio, i profumi della terra, l’appartenenza. C’è l’epos, cioè le leggende, i racconti, la storia comune. Poi l’ethos, la morale, l’insieme delle regole condivise. E ancora il logos, la lingua, la parola. E non basta ancora. Dentro la parola «radici» c’è di tutto. C’è talmente tanto che ti viene un sospetto. Ne abbiamo paura solo perché la sua complessità ci è diventata intollerabile, il suo mistero rivoluzionario spaventa questo mondo semplificato dall’idolatria del consumo.4
Per spiegare ma anche per reagire al fenomeno Lega, è necessario dunque andare oltre alle demagogiche e facilmente condannabili rivendicazioni della stirpe e rendersi conto che è stato impadronendosi dell’ethos che la destra è riuscita a governare «i simboli del territorio, il linguaggio delle radici e delle autonomie, l’ansia dei ceti produttivi di fronte al globale e persino la voglia di sicurezza e di modernità», ma soprattutto a cavalcare e alimentare il «distacco mentale dalla politica, dallo stato, dalla res publica, persino da quel supremo bene comune che si chiama territorio».5 Se l’Italia conserverà in tutte le opere di Rumiz questo ambivalente ruolo morale, a un tempo esempio parossistico di malgoverno e di scollamento del potere dal territorio – quel paese della politica da cui era già scappato, alla scoperta del Giappone, il moderno Marco Polo di Goffredo Parise –6 e ideale comunitario, orizzonte di aspirazioni, la sua consistenza geografica invece varierà nel corso della lunga collaborazione giornalistica con una delle principali testate nazionali, «La Repubblica». Il punto di vista decentrato, che aveva già contribuito a commentare gli eventi della guerra in Jugoslavia,7 spinge dunque inizialmente il giornalista verso
4
Id., La secessione leggera. Dove nasce la rabbia del profondo Nord (1997), Milano, Feltrinelli 2001, p. 6. 5 Ivi, pp. 7-8. 6 G. Parise, L’eleganza è frigida (1982), Milano, Adelphi 2008. 7 Cfr. P. Rumiz, La linea dei mirtilli, Trieste, O.T.E. «Il Piccolo» 1993; Maschere per un massacro. Quello che non abbiamo voluto sapere della guerra in Jugoslavia, Roma, Editori Riuniti 1996. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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una poetica regionale, che risente della volontà di de-eccezionalizzare, attraverso il ricorso alla genealogia, la geografia istituzionale delle nazioni. Il racconto di queste regioni muove senza costrizione da aree relativamente circoscritte, come il Nordest de La secessione leggera o l’Istria di Vento di terra, a veri e propri mondi, come quello mitteleuropeo di Danubio, quello mediterraneo di Gerusalemme perduta e de La rotta per Lepanto, quello est-europeo di È Oriente e Tre uomini in bicicletta –8 nel quale, contestando l’uso discriminatorio del cardinale «Est», Rumiz insiste sulla propria familiarità con un Oriente che si estende ininterrotto da Trieste fino alle porte del Karakoram. Un racconto che non sostituisce dunque i confini dell’amministrazione locale a quelli della grande politica ma indica piuttosto l’esistenza di violente fratture orografiche e idrografiche, i cui dislivelli hanno generato e generano tuttora, non senza scatenare conflitti «altimetrici», grandi correnti di cultura capaci di pervadere un mondo frammentato, costituito non solo da rocche e campanili ma anche da porti e vie di comunicazione. I passaggi di scala allora si fanno bruschi, slittando dalla microtopografia dei luoghi, sempre esperiti in quanto teatro di incontri e di vicende comunitarie, al respiro epico transnazionale e transcontinentale della storia che scuote e connette fra loro i villaggi più lontani. Il caso di Rumiz dimostra bene come anche nella letteratura di viaggio, in questo apparentemente più libera della storiografia, si avvicendino alterni paradigmi geografici: ma prima di rilevare come nelle opere più recenti sia proprio l’affermarsi di una dimensione nazionale a complicarne ulteriormente le scelte, vale la pena soffermarsi brevemente sull’altro elemento distintivo della sua scrittura, quello stilistico. L’indagine sulle Heimat, che conduce a una riscoperta del paese minore, alla compilazione di una cartografia alternativa a quelle dei media e del potere istituzionale, trova il proprio corrispettivo letterario in una poetica corsara delle retrovie, retrovie in cui le cose non scorrono lente ma velocissime e dove si sente più che nei centri la forza del cambiamento. Quella di Rumiz è anche una poetica della fuga, per cui la costante drammatizzazione del paesaggio si fa vertiginosa e fantasmagorica, il ritmo tachigrafico della prosa subisce accelerazioni filmiche che scoraggiano il grande affresco unitario e che, piombando il lettore nel vortice dei mille piccoli luoghi che girano intorno al viaggiatore, mal sopportano l’epopea lenta e maestosa della nazione. La toponomastica si fa polifonica e magica, i nomi cantano o aggrediscono, la natura non è mai immobile, si agita, si accende, respinge o accoglie, le strade parlano, le montagne rabbrividiscono, i venti picchiano o pettinano l’erbe: tutto insomma appare animato dallo spirito del luogo. Un personalissimo gusto per la metafora, associato a una scrittura che non conosce pause, di-
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Id., Danubio. Storie di una nuova Europa, Pordenone, Studio Tesi 1990; Vento di terra. Istria e Fiume, appunti di viaggio tra i Balcani e il Mediterraneo, Trieste, Mgs Press 1994; È Oriente cit.; con M. Bulaj, Gerusalemme perduta, Milano, Frassinelli 2005; La rotta per Lepanto, in «La Repubblica», 2004; con Francesco Altan, Tre uomini in bicicletta, Milano, Feltrinelli 2002. Bordi e borders. Scrittori e viaggiatori tra centro e periferia
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venta qui fabbrica di una vivida immaginazione metamorfica: le isole sono testuggini o capodogli, i promontori diventano animali marini, le agavi ondeggiano come alberi maestri, i platani si sbracciano come fantasmi o giganti, le montagne spuntano come istrici mitologici, forchettoni giganteschi o antenne paraboliche. Anche gli elementi umani del paesaggio subiscono la stessa trasfigurazione: i camion avanzano come cavalli, le auto come elefanti, i freni miagolano e poi barriscono, i ciclisti sulle Alpi si sollevano come arcangeli, le città diventano a loro volta isole o transatlantici, i templi antichi delle astronavi, mentre le strade decollano e planano come aerei, gli aerei navigano come arche su mari di nuvole, i tunnel inghiottono come balene o risuonano come strumenti musicali, i campanili si ergono come fari di naviganti e gli atlanti infine profumano dei luoghi che contengono. A fronte di queste costanti teoriche, tematiche e stilistiche, il ruolo occupato dall’Italia nei reportages di Rumiz è uno dei più adatti a valutarne le discontinuità nel tempo, nel passaggio da una saggistica fortemente autobiografica a vere e proprie narrazioni in cui il viaggio cessa di legittimare e rinforzare con la testimonianza autoptica la riflessione giornalistica e diventa invece l’oggetto principale del racconto. Questo ruolo va compreso all’interno di un percorso di riposizionamento delle unità geografiche di racconto, di un graduale avvicinamento e di una lenta riformulazione dell’idea di Italia, inizialmente rappresentata come totalità autocratica, colpevole di disconoscere le appartenenze ibride delle sue aree periferiche e di ignorarne le dinamiche e connessioni (la Mitteleuropa, l’Adriatico e l’Oriente, l’Europa occitanica), successivamente esplorata nelle sue abbandonate spine dorsali, le Alpi e gli Appennini, e nelle leggende che ancora le abitano, antiche come quella annibalica, o moderne, come quelle ferroviaria e garibaldina, fino a culminare, con l’impresa del tricolore di Montecchio, in una sorta di rovesciamento biografico nell’adesione al paradigma nazionale. In È Oriente, raccolta di sei viaggi compiuti fra il 1998 e il 2001, l’orizzonte geografico è vasto e le fughe hanno, oltre a modalità diversissime (bicicletta, auto, treno, chiatta), destinazioni lontane come Vienna, Kiev, Berlino, Istanbul, le foci del Danubio. Il percorso di due viaggi si srotola tuttavia in territorio italiano e la città di partenza, Trieste, offre la sponda per contestare l’indifferenza nazionale, amplificata localmente, rispetto agli eventi oltre confine: A Roma pensano: se l’Italia è una retrovia, figurarsi Trieste. Vivrà in perpetuo allarme sull’orlo del cratere, ultimo avamposto sul deserto dei Tartari. Sbagliato. Succede il contrario. È la legge della sopravvivenza: più ci si avvicina al pericolo, più scatta l’immobilismo mimetico. Trieste conferma la regola e il paradosso: è la città italiana dove la guerra si vede di meno.9
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P. Rumiz, Capolinea Bisanzio. Regioni adriatiche in auto, in È Oriente cit., p. 134. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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In Capolinea Bisanzio, una traversata costiera in automobile da Gorizia al Salento, l’esempio locale serve così all’autore per sviluppare la sua nota tesi sulla deriva tirrenocentrica dell’Italia: Da cinquant’anni l’Adriatico è stato rimosso dall’immaginario degli italiani, non è più sentito come «mare nostrum» ma come mare degli altri. Per la gente è solo il mare dei bombardieri e dei profughi. E mentre l’Italia diventa tirrenocentrica, nessuno ci dice che, se non avessimo l’Adriatico, avremmo la guerra in casa.10
L’Adriatico, mare del Nord, ingiustamente percepito come affaccio marginale sul nulla, è considerato a torto dagli italiani una retrovia: Senigallia. […] La bora batte forte su questo punto della Riviera, forma lunghe linee parallele di schiuma, dice che l’Italia adriatica è un’altra cosa. Non è retrovia, come il Tirreno. È prima linea, è la costa più esposta al nuovo tempo. […] Adriatico è, dal Veneto alla Puglia, la rivoluzione permanente di un paese diverso, laboratorio di un pragmatismo economico senza massimalismi né dogmi. È mare europeo, sensore geopolitico, ponte per la ricostruzione dei Balcani, trampolino della delocalizzazione industriale verso oriente, mare del contrabbando e della pesca, del commercio e del turismo. Mare delle diversità e delle identità più inquiete, mare di Roma e Bisanzio, risorsa storica, ponte verso l’altro mondo. […] Come spiegarlo alla gente? Come dire che qui le civiltà entrano in collisione, ma restano anche legate da una rete corsara di contatti?11
Ne Il frico e la jota. Il profondo Nordest in bici, viaggio che fin dal titolo ancora la molteplicità delle appartenenze al dato biografico (i due piatti identitari, friulano e triestino, evocano l’origine dei genitori), la fuga a Oriente diventa l’unica via d’uscita («Di colpo, sento che i miei spazi si restringono. Ed è già nostalgia d’Oriente»),12 tanto dall’arroccamento identitario, quanto dal degrado del territorio, le due caratteristiche che più sembrano adatte ormai a definire il Nordest: E forse, più che un viaggio, è un’evasione, una fuga dall’ansia di sentirsi braccati. Un giro insensato in un universo penitenziario dove le banche sembrano galere, Fort Knox e Alcatraz insieme, dove i centri commerciali paiono templi aztechi, le periferie necropoli, i pollai discoteche. Nordest.13 apparteniamo tutti – ecco un vero motivo di unità regionale – a uno spazio ipersensibile della memoria, costellato di sacrari e memorie nere. […] Il rischio, in queste terre
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Ivi, pp. 135-136. Ivi, pp. 142-143. 12 P. Rumiz, Il frico e la jota, in È Oriente cit., p. 197. 13 Ivi, p. 156. 11
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di frontiera, è sempre lo stesso: fossilizzare l’identità, produrre una caricatura delle Heimat.14
Qualche anno dopo, ne L’Italia in seconda classe, «ferrocronache» estive che in forma epico-comica raccontano la riuscita di un folle proposito, quello di percorrere in territorio italiano la stessa distanza chilometrica coperta dalla Transiberiana, il Bel Paese cessa di respingere il narratore e comincia a svelare i propri tesori segreti o abbandonati. In apertura al volume il misterioso compagno d’impresa di Rumiz, che solo verso il finale si scoprirà essere Marco Paolini, riconosce così all’amico di aver composto attraverso i suoi appunti maniacali «una canzone innamorata del paese che attraversa».15 La ferrovia in questo reportage non permette soltanto di restituire al lettore una totale immersione nel paesaggio che amplifica, portandole nel registro epico, le accelerazioni cinematografiche così tipiche della prosa di Rumiz, ma soprattutto, in quanto è democratica e popolare, a differenza dell’aereo, totalitario e imperscrutabile, la ferrovia diventa qui simbolo della nazione, o meglio simbolo di un’Italia minore, in via di scomparizione. Oltre allo straordinario merito di aver messo in contatto, nel periodo post-unitario, mondi fino allora distantissimi fra loro, la rete di ferro italiana, per decenni all’avanguardia in Europa e capillarmente presente nel territorio, ha visto costruirsi attorno a sé un eccezionale mondo di relazioni umane e professionali che una miope e sciagurata politica delle infrastrutture sta spazzando via per sempre. Ancora una volta la città di provenienza dell’autore, Trieste, un tempo città di grandi ferrovie capaci di scavalcare ogni frontiera, ridotta oggi a binario morto, acuisce, non senza alimentarne l’indignazione, la sensibilità storica dell’osservatore verso uno straordinario patrimonio dilapidato, eletto qui a simbolo del «grande saccheggio ai danni della res publica».16 Il viaggio si chiude tuttavia, sulla freccia delle Dolomiti, con insolita indulgenza, quando di fronte alla sconcertante indifferenza dei passeggeri allo straordinario paesaggio, Rumiz si lascia sorridere: «Ecco, l’Italia è anche questo. Gente simpatica e bambini grassi che viaggiano senza sapere dove sono, a bordo di un treno caciarone, dove la musica è scritta da altri. Ma che posso farci, this land is my land. Nel bene e nel male, è la mia patria».17 La riscoperta delle retrovie nazionali acquista ben maggior respiro ne La leggenda dei monti naviganti, volume del 2007 che riunisce due distinti reportages dedicati alle grandi catene montuose della penisola. Nelle Alpi, snobbate e incomprese dagli italiani («Sempre la stessa storia: ci vuole uno straniero a spiegarci l’Italia»),18 igno-
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Ivi, p. 162. P. Rumiz, L’Italia in seconda classe, Milano, Feltrinelli 2009, p. 9. 16 Ivi, p. 11. 17 Ivi, p. 99. 18 P. Rumiz, La leggenda dei monti naviganti, Milano, Feltrinelli 2007, p. 169. 15
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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rate dai centri di potere («Da noi, la politica la montagna l’ha ridotta a una riserva indiana di vecchi, poeti e originali»),19 ma anche dal paese civile («non conosco nessuna nazione che assista così passivamente alla morte dei luoghi»),20 lo scontro fra luce e ombra si fa cosmico, e spiega come l’arroccamento, il particolarismo e la chiusura possano coesistere con una tradizione anarchica, ereticale, partigiana e transfrontaliera. Uno scontro che anche qui dà luogo a una climax, nel momento epifanico in cui le piccole patrie sembrano ricomporsi lungo grandi linee di forza, enormi assi geografici: Sono di fronte a un confronto altimetrico, come nell’ex Iugoslavia […] Ho saputo molte cose e ora, nel buio di Pont, tutto si confonde e sembra coincidere. L’arroccamento delle valli, il ritorno delle xenofobie, le periferie francesi in fiamme, il Vajont e la Val Susa, le guerre balcaniche e il disastro in Medio Oriente. Paiono sintomi della stessa febbre, della stessa dilapidazione. Lì, di fronte alle prime luci della pianura italiana, alle porte delle cento città, sento il malessere delle mille periferie. La rivolta del pagus, il villaggio disprezzato da millenni.21
Ancora più eloquente è il caso degli Appennini, che a differenza delle Alpi «non si sono mai fatti reclutare militarmente dagli stati maggiori. Semmai, sono stati nido di resistenze».22 La loro totale dissociazione dalla viabilità contemporanea apre una questione fin troppo taciuta: «Perché questo straordinario terreno grondante storia ha un ruolo subalterno nell’immaginario nazionale? […] Forse c’è qualcosa di non risolto, nell’identità d’Italia».23 Anche il mito così appenninico di Annibale, la sua leggenda incardinata nei luoghi di cui è stato «un insuperabile interprete»,24 abita «una viabilità alternativa e incompatibile con quella ramificata delle strade consolari romane».25 Non a caso Rumiz, all’inizio del suo viaggio sulle orme del generale cartaginese, incontra il contromito dell’imperialismo romano, sceso per distruggere Torino e punire i Romani, in un presidio contro l’Alta Velocità ferroviaria nella Val Susa e ne intuisce l’ancora attuale capacità simbolica di eversione: Forse la distanza tutta italiana fra cultura popolare e burocrazie ministeriali, i disastri della nostra scuola, i vuoti dei suoi programmi – manipolati prima dagli educatori sabaudi e fascisti, poi dalle rimozioni post-belliche – appaiono in tutta la loro evidenza
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Ivi, p. 165. Ivi, p. 136. 21 Ivi, p. 159. 22 Ivi, p. 188. 23 Ivi, pp. 188-189. 24 P. Rumiz, Annibale. Un viaggio, Milano, Feltrinelli 2008, p. 177. 25 Ivi, p. 11. 20
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proprio con Annibale, un grande che ancora sconta la dannazione della memoria inflitta dai Romani.26
In un viaggio che diventa malattia, ma allo stesso tempo sogno alla scoperta di una «topografia dell’Italia segreta»,27 l’autore si mette alla ricerca delle più minute tracce di una disseminazione mediterranea che disegna, «nelle periferie bastonate dalla storia»,28 una vera e propria cartografia della resistenza, che non sfida soltanto il racconto propagandistico di Tito Livio e la pianificazione territoriale dell’impero. In questo farsi viaggio e tradursi in geografia, l’esperienza patologica e onirica del mito rovescia il consueto rapporto conoscitivo che oppone il movimento centripeto del viaggiatore verso una meta finale e catartica, fondamentalmente una riaffermazione del già noto, alle esplorazioni corsare delle periferie, materializzazioni geografiche di un antagonismo al sapere precostituito erogato dai centri della cultura e dell’immaginario («i viaggi, in fondo, sono fatti per confermare i miti, non per demolirli»).29 Proprio il confronto con il mito, piuttosto che con la storia, permette a Rumiz di fare strategicamente leva su un’unica, recente e brusca cesura storica, che circa trent’anni fa avrebbe spezzato i cardini di una cultura millenaria, mantenutasi con continuità dai tempi del cartaginese. Forte di questo rifiuto della contemporaneità e di un conseguente lamento sulla decadenza dei tempi, sulla «peste dei non luoghi» e sull’ignoranza degli italioti, perennemente impegnati al cellulare, il viaggio abolisce così l’incolmabile distanza storica che lo separa dall’ombra inseguita, divenuta ormai simbolo di un mondo scomparso l’altro ieri. Eppure la dimensione nazionale si affaccia qui anche in altro modo: quella fra romani e cartaginesi è per Rumiz la prima guerra mondiale della storia, ma è anche una guerra tutta italiana, combattuta però da italiani che, consci della propria peninsularità, ne avevano fatto un punto di forza nel loro progetto imperiale di espansione politica e commerciale. L’immagine di quell’ecumene ormai distrutta – l’Africa è lontana, il mare è stato spaccato in due e le isole hanno perso d’importanza – non può che ricondurre il narratore a interrogarsi sulla scomparsa del senso della res publica e a porsi «la grande domanda del viaggio: perché negli italiani di oggi non è rimasto niente della romanità?»30 Negli ultimi anni l’entusiasmo di Rumiz per la riscoperta dell’Italia minore non ha mostrato segni di cedimento: gli ultimi due puntuali reportages estivi l’hanno infatti visto percorrere lo stivale e le isole rispettivamente sulle tracce dell’epopea
26
Ivi, p. 19. Ivi, p. 11. 28 Ivi, p. 21. 29 Ivi, p. 11. 30 Ivi, p. 188. 27
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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risorgimentale – riabilitando, in Camicie rosse, una storia ormai considerata di retrovia, un’anticaglia polverosa in realtà animata dall’energia e dalle speranze di intere generazioni di giovani patrioti – e all’esplorazione, in Le case degli spiriti, dei mille luoghi abbandonati del paese, testimonianza al contempo delle glorie passate e del degrado presente.31 Una delle ultime prove di lealtà nazionale di Rumiz, con la quale vorrei concludere questa piccola riflessione, risale a venerdì 9 settembre 2011, quando, in vista della conclusione a Montecchio del giro della Padania, ha confessato la propria responsabilità nell’audace impresa compiuta nella cittadina veneta un anno prima. In quell’occasione la scalata notturna della ciminiera della Boschetti, con un tricolore recante la scritta «Viva Garibaldi», era riuscita secondo le intenzioni a mettere in crisi le leghiste istituzioni locali tanto quanto l’assalto dei serenissimi aveva un tempo spiazzato le istituzioni nazionali, un gesto di contestazione che rivendicava al Veneto una storia di ideali, e di vite spese al loro raggiungimento, che avevano trovato nella nazione il loro orizzonte di realizzazione, perché, nelle parole di Rumiz a Montecchio, non c’è solo la kermesse ciclistica dei secessionisti verdi. C’è anche […] il Veneto che ha vinto con Garibaldi a Bezzecca, il Veneto che ha combattuto le campagne del nostro generale dal Gianicolo a Calatafimi, i Caduti sulle nostre montagne della Grande Guerra, morti in nome di un’Italia ideale che nulla aveva a che fare col Paese in ginocchio ora governato proprio da coloro che la vorrebbero demolire.32
31
P. Rumiz, Camicie Rosse, in «La Repubblica», 2010; Le case degli spiriti, in «La Repubblica»,
2011. 32 Id., Il giornalista Paolo Rumiz confessa: «Il blitz tricolore è stata opera mia», in «Il Giornale di Vicenza», 9 settembre 2011.
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PRIMO DE VECCHIS Guido Piovene e Mario Tobino: viaggi in Italia a confronto
Vorrei qui partire da alcuni appunti tratti dal Diario inedito dello scrittore Mario Tobino per tessere un discorso più ampio, concreto e astratto al tempo stesso. Userò come termine di paragone alcuni scritti di Guido Piovene. Lambirò anche la poetica di alcuni artisti, architetti e pittori, Andrea Palladio e Paolo Veronese per esempio. Tale excursus mi permetterà di affrontare meglio il discorso sulla geografia italiana, o meglio riferito al suo paesaggio e al suo popolo. Il tema potrebbe sembrare ampio: in verità cercherò di soffermarmi solo su alcuni dettagli, spie, segnali, per suggerire una visione d’insieme. Lo scrittore viareggino Mario Tobino ha tenuto nell’arco della sua vita un Diario, dal 1945 al 1980 circa. Trattasi d’uno scartafaccio composito, laboratorio di opere future, tesoretto di annotazioni vergini, inedite, che col tempo stanno emergendo gradualmente.1 Per comprendere la forma di tale Diario occorrerebbe alludere alla passione di Tobino per Henry Beyle ovvero Stendhal. Tra il 1950 e il 1954 abbondano le note di viaggio per l’Italia, compiuto a frammenti nei periodi di vacanza, quando l’autore abbandonava il manicomio di Lucca, essendo egli psi-
1
Un’anticipazione del Diario inedito, ovvero il [Diario del 1950], è uscita nel Meridiano dedicato allo scrittore: M. Tobino, Opere scelte, a cura di P. Italia, con un saggio introduttivo di G. Magrini e uno scritto di E. Borgna, Milano, Mondadori 2007, pp. 1607-1710. Ma altre parti selezionate, come [«Io avevo intensamente immaginato di fare un paese…»] del 1958 e [Diario de ‘Gli ultimi giorni di Magliano’] compreso fra il 1977 e il 1980, sono state pubblicate in appendice a M. Tobino, Gli ultimi giorni di Magliano, introduzione di M. Zappella, cronologia e bibliografia di P. Italia, nota storica di P. De Vecchis, nota al testo di M. Marchi, Milano, Mondadori 2009, pp. 195-259. Tuttavia la gran parte del materiale è ancora inedito e in attesa di pubblicazione: i 101 quaderni manoscritti che formano il complesso scartafaccio diaristico (spesso materiale preparatorio di opere già edite) sono attualmente custoditi a Siena presso gli eredi. Bordi e borders. Scrittori e viaggiatori tra centro e periferia
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chiatra. Non mancano però i riferimenti agli altri scrittori, come nell’Accenno letterario sul ventennio. Mi soffermerei su un appunto datato 12 ottobre 1950: E il Piovene è acuto nell’attenzione degli altri popoli, così attento a delucidare che dimostra amore per tutti gli uomini e il suo tempo e se davvero potesse un giorno abbandonarsi (ciò che il matematico gioco delle carte nega) potrebbe collaborare all’aiuto della letteratura italiana. Comunque intanto ha come sue nobiltà il saggio, piuttosto che la creazione di personaggi, ed è giusto di vederlo con piacere a bordo.2
Tale appunto è significativo alla luce di ciò che dirò poi. Denota alcune affinità di visione, pur nella diversità di stile e poetica ovviamente. Ma qui ora ci preme cogliere le analogie. In quel momento, ottobre 1950, Piovene si trova negli Stati Uniti, ove rimarrà fino al 1951, esperienza dalla quale trarrà il minuzioso volume De America. Tobino già da qualche anno ha cominciato a prendere nota dei suoi viaggi per il Belpaese, soffermandosi sulle arti figurative, sul paesaggio e costumi degli italiani, in modo rapido, elettrico, stendhaliano. L’idea di tessere questo dialogo costante con la geografia e dunque con la storia e le arti gli era sorta molti anni prima, almeno tra il 1940 e il 1941, quando Tobino era stato inviato in Libia per partecipare alla guerra. Durante la guerra sono stato per anni nel deserto di Libia. Soffocando in quel calore lanoso, pensavo alla Toscana, mi pareva di averla trascurata, di averla guardata senza attenzione, senza vederla. Nella solitudine della tenda mi dicevo: «La visiterò pietra per pietra. Nulla è comparabile alla sua misura, alla sua gentilezza, al miracolo dello spirito che si fa materia». Sono tornato e ho cominciato il mio pellegrinaggio.3
L’impulso a osservare la propria regione con occhi attenti e amorevoli era quindi sorto con il trauma della seconda guerra mondiale, che come sappiamo inflisse molti danni fisici a paesi e città antichi, non intaccando però come per miracolo moltissime realtà. Negli anni Cinquanta l’Italia risorge dalle ceneri ed è ancora intatta, pura: basteranno dieci anni per deturparla irreversibilmente con una nuova calamità in tempo di pace, la speculazione edilizia e uno sviluppo positivo ma caotico, selvaggio, che non necessariamente porterà progresso (come intuì con disincanto Pier Paolo Pasolini). Il 10 agosto del 1948 Tobino è di ritorno da un viaggio compiuto nel nord Italia. A Vicenza s’inchina dinanzi alla rigorosa libertà di Palladio «costruzione, mente, precisione, invenzione che rimane nell’architettura».4 E l’architetto padova-
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M. Tobino, dal Diario [Diario del 1950], in Id., Opere scelte cit., p. 1691. Id., L’orgoglio di dove si è nati, in O. Tondini (a cura di), Toscana Toscana, Firenze, La Mandragora 1989, p. 88. 4 M. Tobino, Diario inedito, quaderno 1, p. 99. 3
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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no tornerà ad ossessionare lo scrittore rappresentando un modello per la sua poetica. Ecco che il 12 agosto torna a scrivere del viaggio da poco compiuto. Riemerge il recente ricordo di Palladio «uguale alle trame divine di un cervello anatomico, la proiezione cioè in architettura della nostra bianca cerebrale, e più nobile, anatomia».5 Palladio è l’emblema della pura limpida conoscenza del vero senza l’intrusione delle pulsioni meno elevate, troppo legate alla volontà, che costituiscono la personalità soggettiva; Palladio è il cristallo trasfigurato in architettura al quale Tobino tende, ma con la forza della fiamma. L’ammirazione per il Palladio torna il 15 luglio del 1952, quando Tobino visita la villa La Rotonda a Vicenza: Il Palladio è architetto come uno nasce poeta, tutto ciò che fa è architettura: spazio, linee, armonia. Solido, uguale a una pianta. […]. La poesia del Palladio deriva esclusivamente dall’Architettura e soltanto da quella Egli può vivere in tutti i tempi e infatti del «suo tempo» non ricorda nulla, tutto invece implacabilmente conduce all’Architettura. […]. L’abbandono di un architetto è esser sicuro, l’architettura è figlia della terra. Quando lo spazio risuona esatto come un teschio nel silenzio è architettura; quando in una tale costruzione le parole più semplici e intricate vi danzano a loro agio è Palladio. In qualsiasi ora del giorno la Rotonda è solenne e ride (in qualche modo simile alla Gioconda del Louvre).6
Ha scritto una volta Piovene che «La vera linfa della critica è nelle osservazioni dei dilettanti di genio»:7 è il 1968 e si tratta di un’introduzione all’Opera completa del Veronese dal titolo Un mondo mentale. Piovene si riferisce alle «osservazioni annotate da Goethe nel suo Viaggio in Italia, in data 8 ottobre 1786. […]. Goethe espone un’idea sulla pittura veneziana che ha ricavato dal confronto tra le opere dei pittori e il luogo dove sono nati».8 L’introduzione di Piovene all’opera del Veronese si occupa anche del Palladio. E sfiorando con la penna la poetica del Palladio lo scrittore vicentino parla di sé. Vale la pena di soffermarsi su alcuni punti: È proprio dell’architettura creare organismi nei quali ci muoviamo e viviamo sentendoci dentro il mondo che però non somigliano a niente che esiste in natura, e forma uno spazio artificiale immerso in quello naturale.9
5
Ivi, quaderno 1, p. 102. Ivi, quaderno 15, pp. 3-47. 7 G. Piovene, Un mondo mentale, in R. Marini (Apparati critici e filologici di), L’opera completa del Veronese, Milano, Rizzoli 1968, p. 5. 8 Ibidem. 9 Ivi, p. 6. 6
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V’è qualche assonanza con i precedenti appunti di Tobino, anch’egli dilettante di genio come Goethe e Stendhal, che parlando di Palladio e del paesaggio veneto lancia invero inconsapevoli segnali di poetica. Tobino è un toscano che ammira Palladio e Veronese (nonché Tiziano): coglie la peculiarità del paesaggio e dell’arte veneti. Piovene è un veneto che ammira tra gli altri Brunelleschi e Michelangelo e identifica con precisione l’essenza del paesaggio, delle arti e del carattere toscani. In una folgorante poesia intitolata Pittura e datata 24 gennaio 1978, Tobino scrive: I pittori furono i veneziani. I fiorentini parlavano con Dio.10
Tale discorso viene sviluppato meglio nel corso del Diario, dove si allude alla cifra del carattere toscano, la chiarezza e il cinismo. Ma concetti molto simili vengono espressi da Piovene in un’opera felice che non possiamo qui non trattare. Se Tobino scrive tra il ’52 e il ’56 Passione per l’Italia (uscito nel ’58) Piovene si cimenta tra il ’53 e il ’56 nel suo dettagliatissimo Viaggio in Italia. Si tratta di un Gran Tour, ma anche di un censimento. La RAI gli affida nel contempo l’incarico di un viaggio attraverso le regioni italiane. La paziente fatica triennale fu spartita con la moglie: Piovene, vittima di una leggendaria quanto civettuola pigrizia, non guidava l’automobile, e questo compito fu sempre riservato all’infaticabile signora. L’itinerario fruttò una serie di trasmissioni radiofoniche bisettimanali, messe in onda dal dicembre ’54, e gli esemplari testi del Viaggio in Italia, riuniti in volume nel ’57 ma anticipati in parte considerevole in «Epoca», tra il ’54-’56.11
Tobino viaggerà insieme alla Giovanna, alias Paola Olivetti, durante le vacanze; Piovene viaggerà con Mimy Pavia a tempo pieno. Piovene, a differenza di Tobino, è dettagliatissimo, scrupoloso, minuzioso, tuttavia non mancano squarci di estrema sintesi che sembrano essere stati composti per un’antologia. Piovene attraverso la geografia, il paesaggio, le arti, coglie il carattere degli uomini ordinari e dei Geni, nati come piante da quel particolare ambiente, esattamente come fa Tobino (forse con una maggiore dose di inconsapevolezza). Il paesaggio è vivo, si rispecchia nella psiche o meglio la influenza e quindi informa della sua sostanza anche le opere d’arte e le idee dell’ingegno. Vorrei però correre subito agli esempi. Dal confronto, dal paragone nascono sempre le intui-
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M. Tobino, Diario inedito, quaderno 72, pp. 21-25. C. Martignoni, Cronologia, in G. Piovene, Opere narrative, a cura di C. Martignoni, Milano, Mondadori 1976 (20004), p. LXVII. 11
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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zioni migliori. Così come Tobino nella sua poesia e negli appunti, anche Piovene mette a confronto due regioni italiane rappresentative, Veneto e Toscana. Quella tra Veneto e Toscana è un’antitesi facile, ma non per questo errata. Lo spirito toscano è dialettico, chiaro; prive di compiacenza le relazioni con se stessi e con gli altri; vi è un’ammissione della infelicità, e quel giudizio crudo sulla realtà, sulla stessa natura umana, così meschino nei meschini, che però è il presupposto dei mistici e dei rivoluzionari. La punta delle idee e l’accettazione del vero possono spingersi fino alla crudeltà, al fanatismo, alla deformazione. La civiltà del Veneto è piuttosto sentimentale, che significa appagamento e delizia in se stessi, affondamento voluttuoso nella propria natura, rifiuto di accettare l’infelicità e riconoscerla; e perciò scarsa inclinazione a mutare. Non per nulla la civiltà veneziana è coloristica, architettonica ed idillica; scarsa di apporti filosofici e letterari dello stesso valore.12
Simili considerazioni sul Veneto e sulla sua civiltà incline all’edonismo e al garbato piacere si ritrovano nelle descrizioni che Tobino dedica alle opere pittoriche del Veronese, contemplate però al Prado di Madrid. Mi dimenticai che avevo la parola. Gli occhi si abbandonarono. Il primo è Veronese. I manti delle donne veneziane, il fasto di Venezia, la gioia della vita, il massimo splendore, le donne belle: hanno sulle tenere tempie un morbido ricciolo d’oro, compostezza e follia, donne nude che folgorano, uguali alle amate dal Tasso ma le Veronesi lontane dalla guerra, loro dominio l’amore, le vesti, il paesaggio. Manto la loro moda, i gioielli consuetudine, il rosa che traspare dalla bianca pelle segno del piacere soddisfatto. Le spalle potrebbero esser di guerriere, il secolo le dichiarò regine. Le cosce, gli inguini, un mistero senza peccato. Valeva la pena essere venuto a Madrid, i re avevano comprato quei quadri, ne avevano salvaguardato il valore, avevano costretto a conservarli. Davanti a Veronese è facile capire la dissoluzione del patrimonio del giovane erede, che sente suo dovere immolarlo alle dee. Guardando la testa mi si era fatta calda e compatta. Non avevo più lingua; nelle pupille parlava il mio animo. Le donne del Veronese hanno pettini infissi tra i fulvi capelli; campi di grano, cielo pesantemente celeste, pavoni acquattati tra i rami. Raggiono sì di bellezza che quando, deposta sul piatto, alzano la testa tagliata non sono crudeli. Fresche di vittoria desiderano respirarla. L’Oriente servitore del loro capriccio. Periodo tra i più felici del mondo. Calzano sandali estivi, nude sotto la pesantezza dei broccati, albe loro diamanti e perle. Questa veneziana è la sola regalità del nostro millennio.13
12
G. Piovene, Viaggio in Italia, Milano, Baldini Castoldi Dalai 2005 (20094), p. 25. M. Tobino, Due italiani a Parigi, Firenze, Vallecchi 1954, pp. 211-213 [in appendice Malinconica Spagna]. 13
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Primo De Vecchis
Come avrete notato nelle fresche e ariose descrizioni tobiniane della pittura (dove lo stile letterario entra quasi in risonanza con il tratto pittorico) dominano le impressioni, piacevoli ed edonistiche. I dettagli sfumati e le forme coloristiche. Come accennai, Piovene ha dedicato un breve saggio al Veronese, tramato di accenni di poetica. Veronese non è realista ma artificiale. Significa che il mondo dei suoi quadri, dove i colori brillano come gemme, il suo «cosmo a struttura cristallina», si vede solo nei suoi quadri, e non fuori. Uno studioso, Terisio Pignatti, osserva che nei quadri del Veronese non esiste ombra o luce che cadano seguendo le regole naturali. Vi è sostituita una luce artificiale, i cui angoli di incidenza sono calcolati in modo che strisci sulle superfici esaltando i contrasti, provocando riflessi, illuminelli e luminescenze cangianti.14
Il trionfo dell’impressione momentanea quindi che viene fermata su tela in modo artificioso ma riproducendo pur sempre particolari tratti dal vero, da qui l’illusione, l’inganno. I veneti, i veneziani brillarono nel colore, nell’impressione (molto prima dei francesi), a Venezia dipinse William Turner i quadri che stregarono il critico d’arte John Ruskin, il quale ispirò la poetica di Marcel Proust. A Venezia Gabriele D’Annunzio ambientò Il fuoco dove per prime appaiono le “epifanie” che confluiranno in Joyce. Da un dipinto di Sebastiano del Piombo trasse ispirazione Vladimir Nabokov per uno dei suoi più suggestivi racconti, La Veneziana. È quindi un’arte che fa l’effetto di una droga gentile. Veneziani e fiorentini, Veneto e Toscana, piacere e intelletto, sensualità e misticismo, parvenza e vero, compiacimento e cinismo. Si susseguono le opposizioni che chiariscono la natura dei rispettivi popoli ed ingegni. Piovene dedica memorabili pagine alla Toscana, culla della nostra lingua e letteratura, misura del Belpaese, così variegato e fitto pur nella sua limitatezza. Il realismo toscano consiste appunto in una visione antiretorica della natura umana, e in tale visione ognuno è portato a comprendere per gusto della chiarezza intellettuale, anche la sua persona. Il temperamento veneto, forse in Italia il più antitetico, come la storia stessa delle arti dimostra, tende al felice edonismo, e per questo è condotto a manipolare se stesso, a colorirsi ed a rivestirsi di favole. Invece il toscano, anche di fronte a se stesso, è spietato. Vi è in lui una necessità di chiarezza intellettuale, un bisogno di scorgere uomini e cose come sono, che prevale sulla tendenza a essere o credersi felici. […]. Il fondamentale realismo, anzi, con più esattezza, anti-idealismo dei toscani, può volgersi in due direzioni, come l’esperienza dimostra. Può nascerne un idealismo della qualità più alta. […].
14
G. Piovene, Un mondo mentale cit., p. 6. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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È questa la Toscana dei grandi poeti, dei santi, dei ribelli e dei visionari, quella che portò la nostra letteratura alle massime altezze: la Toscana, anche dei conventi e degli eremi, che la coprono tutta, dalla Verna a Monte Senario. Il popolo toscano, realistico e logico, è proprio quello su cui meglio si disegna talvolta l’asciutta e sublime follia dottrinaria di don Chisciotte.15
Tuttavia Piovene riconosce con arguzia una zona toscana tra le più dolci e meno intransigenti, l’antitesi dell’austerità senese per esempio: ovvero Pisa, la Lucchesia e la Versilia. A Pisa si sofferma sull’esemplarità espositiva del Museo Nazionale, che conserva i preziosi disegni preparatori del ciclo di Benozzo Gozzoli (1421-1497), il quale si trovava nelle pareti affrescate del Camposanto, rovinate dal bronzo fuso della copertura del tetto, danneggiato da una scarica di artiglieria pesante durante la seconda guerra mondiale. e volendo trovare qualche consolazione ai danni, la si avrà nella scoperta delle sinòpie, disegni in terra rossa di preparazione agli affreschi, emersi sotto le opere cancellate. Si possono vedere in parte al museo Nazionale; ed un raffinato potrà preferire questi vasti abbozzi, più liberi di disegno, su cui il pittore lavorava, all’affresco compiuto.16
Ed è esattamente ciò che accade con il raffinato osservatore Tobino, il quale rimane folgorato dalle abbozzate raffigurazioni, Storie del Vecchio Testamento, di Benozzo Gozzoli e infatti scriverà in una breve introduzione a un volume di foto, Pisa, la Piazza dei Miracoli: «Addirittura certi disegni mi sembrarono più profondi della pittura finita».17 Ancora una volta vi è affinità di sguardo tra i due scrittori. Piovene inoltre dedica acute pagine a Lucca, città presso la quale Tobino visse più di quarant’anni, in qualità di psichiatra nel manicomio di Maggiano. Lucca è racchiusa da tre cerchie di mura, l’ultima delle quali forma un anello di bastioni, che dà vita alla Passeggiata, e tale struttura armonica l’ha preservata intatta, come accade con altre esemplari città italiane. E il riferimento di Piovene corre nuovamente al Veneto, quasi a voler chiudere stavolta il cerchio, l’anello del discorso, apparentemente prosaico, bensì lirico, ma d’un lirismo congelato e descrittivo. Lucca è tra le città dalla vita stradale più vivace, e meno dispersa. Basta per esserne colpiti, entrare in una delle sue piccole strade, che sono ancora la strada-emporio del
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Id., Viaggio in Italia cit., pp. 361-362. Ivi, p. 415. 17 M. Tobino, Introduzione, in Pisa, la Piazza dei Miracoli, Novara, Istituto Geografico De Agostini 1982, p. 10. 16
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Medio Evo, animate da un commercio intenso, e capaci di assolvere, oggi non meno di ieri, la loro funzione. […]. Con diverso colore, Lucca è paragonabile per l’intensità della vita stradale solo a un’altra città italiana, che una ragione analoga, la difficoltà di espandersi, mantenne di misura umana: Venezia.18
Ciò quindi che interessa Piovene non è il singolo monumento da descrivere minuziosamente come in un Baedeker, ma la città antica nel suo insieme, la forma della città, che costituisce un organismo unico e ancora vivo. Pasolini parlerà con tonalità simili di Sana’a, rustica cittadella dello Yemen del Nord, simile a Venezia o Spoleto, in un noto documentario del 1970.19 Tobino dirà la stessa cosa sempre di Lucca, nei frammenti lirici de Gli ultimi giorni di Magliano (1982), dedicati alle viuzze, ai giardini a terrazza, ai palazzi e alle case della città. Piovene ripeterà lo stesso concetto, quello di preservare anche i dettagli minori d’una città antica e intatta, evitando sventramenti, a proposito di Ascoli Piceno. Gide la prediligeva; chiedendomi il motivo della predilezione del grande scrittore francese, mi sono risposto che Ascoli Piceno è bella come alcune città della Francia del sud, non tanto per questo o quel monumento in modo speciale, ma per il suo complesso, per la qualità antologica, per un incanto che viene da nulla e da tutto.20
Si tratta quindi di una delle tante città visibili d’Italia, custodi della nostra storia e della nobiltà dei secoli passati, miraggi di pietra che attirarono dapprima i viaggiatori europei del Gran Tour e che nel dopoguerra calamitarono l’attenzione di scrittori e intellettuali quali Piovene, Tobino, ma anche Pasolini e molti altri, forse più preoccupati dal fatto che l’improvviso sviluppo economico del Paese potesse minacciarle, rovinarle, guastarle per sempre. E di certo si può ammettere che ancora oggi, leggendo le inchieste giornalistiche per esempio di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo in Vandali (Milano, Rizzoli 2011), il rischio permane e occorre vigilare affinché tale patrimonio e tesoro, da rivalutare più di prima in tempi di crisi sistemica dello sviluppo economico, non vada abbandonato per sempre al suo destino di decadenza.
18
G. Piovene, Viaggio in Italia cit., p. 420. P. P. Pasolini, Le mura di Sana’a. Documentario in forma di appello all’Unesco, 1970-71. 20 G. Piovene, Viaggio in Italia cit., p. 534. 19
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
ISTITUZIONI E INTELLETTUALI VERSO L’UNITÀ
NOEMI CORCIONE Vittorio Imbriani ed il centenario dantesco del 1865
«Nell’Ottocento, come mai in precedenza» scrive Borsellino «Dante sembrò incarnare funzioni non solo letterarie. Fu il vate del risorgimento nazionale e come uomo interpretò un «carattere»; con la sua infelicità e il suo orgoglio di esule divenne un modello di passionalità romantica per altri uomini che attribuivano a lui la primogenitura italiana dell’esilio»,1 alimentando quella coscienza unitaria e quel senso di appartenenza che stava guidando l’Italia verso un percorso nuovo e decisivo per la propria formazione. Se il Settecento aveva avviato, sulla base di un’attenzione prevalentemente linguistica e di stile, una riscoperta di Dante con la ripresa degli studi a lui dedicati da parte di eruditi come Muratori, Gravina, Bettinelli, Venturi, Gozzi, Maffei, Dionisi, e con la canonizzazione della figura dell’Alighieri, emblematico maestro «[…] di geniale fusione tra il classico e il medievale, l’ideale e il reale»,2 solo con il XIX secolo si assiste alla fondazione di una critica più agguerrita e differenziata negli interessi e nelle ricerche, sulla scia dello storicismo romantico e delle indicazioni della scuola storica. Nonostante sia ormai accettato che il «[…] secolo XVIII non fu dantesco né per pensiero né per poetica»,3 bisogna tuttavia avvertire che esso gettò le basi per una «[…] definizione critica e per la piena valutazione di Dante e della sua opera»,4 così come appare dalla ricognizione delle principali pubblicazioni del Settecento operata dal Sarappa, ne La critica di Dante nel secolo XVIII, che suddivide gli studi danteschi in quattro grandi periodi: «il primo, in cui abbiamo una critica originale e luminosa, sebbene ristretta a pochi
1
N. Borsellino, Ritratto di Dante, Roma-Bari, Gius. Laterza & figli 2007, pp. 104-105. G. Mazzoni, L’Ottocento, in Storia letteraria d’Italia, Milano, Vallardi 1949, p. 1318. 3 N. Borsellino, Ritratto di Dante cit., p. 104. 4 Ibidem. 2
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grandi, il Vico, il Gravina, il Muratori, nomi venerati da quanti hanno a cuore le patrie grandezze, e qualcuno dei minori, i quali dalle tenebre secentesche sorsero giganti ad investigare il pensiero letterario, filosofico e storico. Il secondo, in cui quasi si dimentica Dante, e la critica è più sentimento che pensiero: in questo unici rappresentanti di qualche valore abbiamo il Corticelli ed il Conti. Nel terzo periodo, in cui sono già sorti vari imitatori della Divina Commedia, s’è formata tutta una scuola di dantisti, abbiamo una critica di lotta violenta, una vera battaglia letteraria, di cui i campioni principali sono il Bettinelli ed il Gozzi. Nel quarto ed ultimo periodo si ha una critica ampia, con larghe vedute, librata, sebbene pur essa prevalente per sentimento, che apre la via alla critica moderna ed ha i maggiori rappresentanti nel Parini e nel Monti.5
Il XVIII secolo indicava dunque ai posteri la grandezza di un Dante che sarebbe di lì a poco divenuto il padre nobile della nazione italiana e lo faceva offrendolo all’ammirazione di tutti il 3 gennaio 1798 allorquando a Ravenna, presso il sepolcro del Poeta e su invito firmato dal Costa, Monti ne cantò le lodi, dopo averlo scelto come guida letteraria, morale e politica, nei canti della Basvilliana del 1793, ideati e scritti in reazione antifrancese e antigiacobina. Dante si trovò quindi a ricoprire un ruolo fondamentale nel corso del Risorgimento proprio perché guidava gli animi, con le parole e con i gesti, verso un redde rationem storico e civile non ulteriormente procastinabile, per mezzo di una visione dei poteri che sembrava rispecchiare quella dell’Italia postunitaria, invitando ad una ridefinizione dei rapporti tra politica e ceto intellettuale; già Alfieri, del resto, nel trattato Del principe e delle lettere, anticipando lo slancio patriottico e libertario ottocentesco, aveva sottolineato l’importanza dell’indipendenza del Dante uomo ed artista, senza la quale non vi sarebbe stata alcuna possibilità di concepire un’opera totalizzante quale la Commedia: Dante, dalla oppressione e dalla necessità costretto d’andarsene ramingo, non si rimosse però dal far versi; né con laide adulazioni, né con taciute verità avvilì egli i suoi scritti e sé stesso. Quella necessità medesima, che sforzava Orazio allo scrivere, e non gli permetteva di esser altro che leggiadro scrittore, quella stessa necessità non potea pure impedir Dante di altamente pensare, e di robustissimamente scrivere.6
Ed il Carducci così commentava, entusiasta, al proposito: «Per lui [Alfieri] quel poeta che gl’Italiani del Quattro o Cinquecento avean preso un po’ troppo alla lettera per un sublime imaginoso e noioso teologo, per un solitario mistico allegoriz-
5
F. Sarappa, La critica di Dante nel secolo XVIII, Nola, tip. Sociale S. Felice 1901; si veda anche, alla stessa altezza cronologica, G. Zacchetti, La fama di Dante in Italia nel secolo XVIII, Roma, Società Editrice Dante Alighieri 1900, pp. 4-5. 6 V. Alfieri, Del principe e delle lettere, II, III. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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zatore; quel poeta che i migliori Italiani di poi tenevano per un potente ed originale, se anche un po’ rozzo e scheggiato, facitore di poesia antica; per Vittorio Alfieri, Dante nostro tornò quel che veramente e grandemente anche fu, un sublime, un ardente, un fiero e indomito amatore della sua patria, della madre nostra Italia. Ahi serva Italia! Cotesto emistichio faceva rizzare i capelli ai nostri padri, e le mani cercavano la carabina e incontravano le catene dei tiranni. Grazie all’Alfieri, al Foscolo, al Mazzini».7 Il culto di Dante nella prima metà dell’Ottocento mirò a concretizzare e legittimare dunque ab initio l’indipendenza e l’unità d’Italia così come la lotta contro gli invasori e le potenze straniere; tale culto aveva, come scrive Dionisotti, una duplice valenza: gli uomini politici esuli o intenti a quanto succedesse fuori d’Italia si fecero accorti della necessità insieme di riportare la questione del risorgimento italiano nel quadro delle questioni europee e di riformare il culto nazionale di Dante nei termini propri del culto che gli veniva tributato in Europa. Ma anche valse il mito di Dante all’interno, a più umile livello, perché nella prevalente ignoranza e selvatichezza esso contribuì potentemente a reprimere e restringere nei limiti della lotta politica lo spirito di parte degli italiani. È notevole che alle divergenze letterarie e generalmente ideologiche, manifestatesi con tanta violenza nei primi decenni del secolo, altre non se ne aggiungessero nei decenni centrali fino alla costituzione del Regno d’Italia. Quelle divergenze duravano e nella cronaca regionale e municipale contavano, ma puristi e antipuristi, classici e romantici, cristiani e miscredenti, reazionari e liberali, neoguelfi e neoghibellini mirabilmente si incontravano e accordavano nel culto di Dante.8
Al Dante politico avevano altresì contribuito, nell’ambito delle visioni laico-ghibelline e cattolico-neoguelfe, anche le ricerche del Troya e del Baldacchini; il primo, con le pubblicazioni Del Veltro allegorico di Dante e Del Veltro allegorico de’ Ghibellini con altre scritture intorno alla ‘Divina Commedia’ di Dante, assegnava al poeta fiorentino un ruolo di preminenza assoluta nell’ambito della storia medievale, […] insistendo, come spiega Ghidetti, sul rapporto di intima connessione fra l’opera di Dante e il suo tempo già proposta da Vico, […] aprendo la strada ad una più scientifica prospettiva di ricerca e di interpretazione storica dell’età di mezzo, collaborando ad affrancare il poeta sia dalle ipoteche ideologiche in chiave attualizzante sia dalla pretesa di leggere Dante con Dante, contribuendo indirettamente a restituire
7
G. Carducci, A proposito di un codice diplomatico dantesco, in «Nuova Antologia», n. 30 (1895), terza serie, p. 606; poi in Id., Dante, Edizione Nazionale delle Opere di Giosue Carducci, vol. X, Bologna, Zanichelli 1942, pp. 432. 8 C. Dionisotti, Varia fortuna di Dante, in «Rivista storica italiana», LXXVIII, pp. 544-583; ora in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi 1999, pp. 278-279. Istituzioni e intellettuali verso l’Unità
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l’Alighieri al tempo che fu suo e la Commedia alla dimensione storico-culturale che le è propria;9
il secondo così spiegava la coesistenza nell’Alighieri della doppia visione laica e religiosa, riflettendo traslatamente sulla condizione dell’Italia dell’epoca: La Divina Commedia esprime in tutto il suo splendore l’idea cristiana e l’idea civile, né in altra età poteva essere cantata che in quella in cui il laicato cattolico si apparecchiava, educato virilmente dalla Chiesa nel lungo periodo del Medioevo ad entrare in una vita di futuro progresso. Dall’Italia eransi diffusi, per opera principalmente del pontificio romano i germi dell’educazione ieratica, dalla Italia anche con Dante cominciare dovevano, a mano a mano diffondersi i germi dell’educazione laicale, di che oggi tanto andiamo superbi.10
Da tale punto di vista, il centenario, primo esempio di festeggiamenti ufficiali nei confronti dell’autore della Commedia, costituì dunque l’acme non solo per quanto riguardava l’esaltazione degli ideali nazionali ma anche per la diffusione degli studi danteschi in Italia e all’estero (e qui basterà citare le opere critiche di Sismondi, Ginguené, Witte, appassionati cultori della letteratura italiana che si dedicarono all’esegesi dantesca con quell’intelligenza storica e quegli strumenti filologici che risultavano ancora assenti o poco praticati dagli studiosi della nostra penisola), dando concretezza al desiderio di un mito catalizzante che riunisse i più diversi spiriti di una nazione nascente e in cerca di un passato comune, coll’intento di ampliare con autorevolezza i confini della politica e della cultura italiane. La creazione del culto dantesco era favorita inoltre dalla temperie romantica che, dopo l’esperienza illuministica ed il suo distacco dal passato in nome di un progresso tendente ad ostacolare il secolare ritorno alle origini, rivalutava come una visione nostalgica e creativa al tempo stesso, recuperando quell’esperienza mitica e iniziale vista ormai come fondante ed ineludibile. L’esempio forse più alto e compiuto che illustri tale percorso è fornito proprio, nella seconda metà del secolo, da quella Storia della letteratura italiana del De Sanctis che, in seguito ai tentativi di Gioberti e Mazzini di «resuscitare il motivo della missione italiana nel mondo»,11 illustrò «il
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E. Ghidetti, I romantici italiani e il culto di Dante, in Letteratura e filologia fra Svizzera e Italia. Studi in onore di Guglielmo Gorni, a cura di M. A. Terzoli, A. Asor Rosa, G. Inglese, vol. I. Dante: la Commedia e altro, Roma, Edizioni di storia e letteratura 2010, p. 319. 10 S. Baldacchini, De’ presenti studii danteschi in Italia e particolarmente intorno ai dubbii mossi da alcuni sull’autenticità della lettera di frate Ilario del Corvo. Discorso di Saverio Baldacchini pubblicato la prima volta nel Museo di Scienze e di Letteratura in agosto dell’anno 1840, in C. Troya, Del Veltro allegorico de’ ghibellini con altre scritture intorno alla Divina Commedia, Napoli, Dalla Stamperia del Vaglio 1865, p. 412. 11 F. Ferrucci, Il mito, in Letteratura Italiana, vol. V. Le questioni, Torino, Einaudi 1986, p. 543. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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nascere, il deperire e il risorgere dello spirito nazionale» attraverso la narrazione di «eventi proposti come mitologici».12 Su tali premesse l’Ottocento si appropriava definitivamente del mito dantesco con le celebrazioni del fatidico 1865. I festeggiamenti principali si svolsero a Firenze dal 14 al 16 maggio ma in tutta la penisola fu forte il desiderio di celebrare la grandezza del nume tutelare della nazione, in particolare nei luoghi dove il poeta fiorentino aveva soggiornato negli anni del lungo esilio. Organi di diffusione e di conoscenza della vita, dell’opera e degli studi su Dante furono in particolare due periodici stampati a Firenze «La Festa di Dante. Letture domenicali del popolo italiano» e il «Giornale del Centenario di Dante Allighieri». Il primo, composto di soli due fogli e ispirato ad una «più che chiara tendenza laica-liberale»13 ebbe un carattere perlopiù nazionalpopolare, essendo stato ideato per il «popolo» con lo scopo «di preparalo alla gran festa in memoria di Dante». Il «Giornaletto», a puntate, in articoli generalmente senza firma, offriva riassunti della Commedia, spiegazioni degli argomenti affrontati da Dante nel poema, ricognizioni dei luoghi che l’Alighieri aveva scelto come ispiratori dei paesaggi evocati nelle tre cantiche, quadri sinottici delle cronache e degli avvenimenti principali occorsi dalla fine del Duecento fino alla metà del Trecento. Il periodico, che fece registrare il primo numero il 1° maggio 1864 e terminò le pubblicazioni l’11 giugno 1865 si configurava in realtà come una sorta di appendice didattica del «Giornale del Centenario di Dante Allighieri», sulle cui pagine invece si alternavano gli interventi dei maggiori studiosi danteschi dell’epoca, dal Ghivizzani al Giuliani (autore del discorso inaugurale delle celebrazioni), dal Frullani allo Zauli Sajani, dal Filalete al Ferrazzi, dal Cellini allo Scolari, dal Cavalcaselle al De Gubernatis. Gli argomenti proposti all’attenzione dei lettori affrontavano temi quali l’analisi delle varianti, l’autenticità dei codici, il diritto, la cosmografia, la concezione teologica e politica in Dante, i commenti mitologici e biografico-storici al poema, oltre a presentare una serie di Lezioni intorno alle condizioni morali e politiche d’Italia, in relazione alle dottrine di Dante, e le indagini sulla vita e la formazione del poeta. Quasi in ogni numero dei due periodici erano presenti notizie o proposte riguardanti i festeggiamenti danteschi, in un crescendo di entusiasmi e di inviti alla partecipazione che testimoniava degli sforzi sostenuti per conferire la dovuta importanza all’evento e per sostenere il paragone con le splendide feste, ricordate anche dall’Imbriani nel suo Un’ultima parola per finirla sul centenario dantesco, tenute in Germania nel 1859 per il primo centenario della nascita di Schiller. La grande mobilitazione delle coscienze e degli ingegni che si chiedeva, e al tempo stesso si offriva, agli italiani era evidente inoltre dalla piena partecipazione offerta dai mem-
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Ivi, p. 544. V. Presta, Festa di Dante, in Enciclopedia Dantesca, vol. II, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana 1984. 13
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bri dell’Accademia (Centofanti, Tommaseo, Guerrazzi, Mayer) che con altri studiosi diedero vita ad una miscellanea di studi, pubblicata a Firenze nello stesso anno, intitolata Dante nel suo secolo, volume ritenuto dal Dionisotti «qualitativamente importante».14 Le celebrazioni del 1865 permisero ad Imbriani, con l’articolo appena ricordato e pubblicato a puntate sul giornale «La Patria» dal 31 maggio al 1° giugno 1865, da un lato di intervenire, polemicamente, in merito all’adeguatezza delle iniziative messe in atto e all’autorevolezza esegetica degli interventi di critici e studiosi danteschi e dall’altro di trasformare il giudizio sui festeggiamenti in un’occasione per affrontare una dissertazione sui concetti di Arte, Morale, Bello, sulla definizione di Critica e sul modo più corretto di esercitare una funzione tanto delicata quanto indispensabile, per mezzo della quale si forma da sempre la coscienza di un’intera nazione. La storia contemporanea ci presenta tra’ fenomeni degni d’esame il centenario dantesco. Noi che non abbiamo rappresentata a Firenze nessuna parte più o men buffa: che non abbiamo percepito viatico di sorta per esporre all’ammirazione del popolo fiorentino il nostro zazzerino ed i nostri grandi occhi ispirati: e che quindi non abbiamo (quel che volgarmente si chiama) il dovere, e (che in buon Italiano s’addimanderebbe) l’interesse di travisar le cose, noi, noi e poi noi eccetera dispenseremo le ceneri a’ cari nostri compatrioti, ora che questo carnevale può dirsi finito; che se la franchezza del predicatore vi spaventa, e voi non lo state ad ascoltare,
illustrando poco oltre la delicatezza e l’importanza di concetti quali la «fantasia» e la «critica»: Ogni creazione umana, come ogni fenomeno cosmico, ha un principio, un apogeo ed un tramonto: qualunque religione, qualsiasi impero, qualsivoglia opinione, ogni ideale ha dei primordî, un’epoca di gloria culminante in cui tiene l’orizzonte ed illumina l’umanità e poi succedono i secoli di decadenza. […] Non basta il fare una gran cosa per meritare in feudo una data nicchia nella storia e per esser guardato da’ secoli in sempiterno amen, sotto quel dato, immoto punto visuale: ogni secolo ed ogni nazione considera diversamente gli uomini e le cose, ne ricava un’idea, un concetto suo che poi documenta nelle opere d’Arte e di Critica, ed anche nelle azioni quotidiane, giacché la storia non è rettorica, ma vita. Gli eroi ed i fàcini, i grandi uomini ed i gran fatti hanno due vite: l’una breve, univoca, effettiva nella materialità delle cose; l’altra inesauribile, immortale, ideale nella coscienza de’ posteri: e quest’ultima è il mito, ed ha, ripetiamolo, più vicissitudini della prima, che sta lì immobile nella sua grettezza. Il doppio lavoro della fantasia e della critica è immenso, potentissimo.
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C. Dionisotti, Varia fortuna di Dante cit., p. 280. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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Sprezzante delle letture di piazza, delle «corse alle cascine» e delle declamazioni pubbliche, Imbriani affronta temi solo apparentemente estranei ai festeggiamenti, volendo in realtà richiamare l’attenzione su uno dei nodi più importanti sottesi alla conoscenza dei testi letterari e in generale a qualsiasi prodotto artistico, ossia la loro corretta interpretazione secondo un modello critico che, libero da suggestioni o condizionamenti esterni, faccia emergere l’«objetto» dell’opera analizzata, il messaggio fondamentale, l’«[…] epifania dell’idea»,15 il concetto di Bello riconducibile a quello dell’Archetipo. Scrive difatti l’Autore nel saggio Dell’organismo poetico: In ognuno l’Universalissimo, che altro non è se non l’idea più vasta e più indeterminata, si rivela parzialmente limitato cioè arricchito (giacché ogni limite, ogni determinazione impingua, rinsanguina, rinvigorisce), e quindi ridotto ad Universale, ad Archetipo cui risponde una serie effettiva d’individui o di fenomeni nel mondo delle cose; […] Il Bello, ch’è l’Universale, l’Archetipo, manifestato nella produzione artistica e quindi, vieppiù limitato, nella letteraria; non può incarnarsi che percorrendo tutti gli stadî, esaurendo tutte le sue categorie, vale a dire logicamente.16
La polemica di Imbriani nei confronti di una critica trasformista, che altera i contenuti del prodotto artistico (nell’intervento sul centenario polemizza con «[…] la critica Italiana [che] non s’occupa ora che dell’estrinseco, dell’accidentale, dell’inessenziale; non considera ciascun lavoro objettivamente, ma lo stende sul letto di Procuste»), metteva in evidenza la sostanziale incomprensione della quale essa si macchiava nel fraintendere le impressioni naturali, fantastiche e favoleggiative che ogni creazione artistica da sempre comporta. E ironizzava: «Sconsolato mestiere questa critica! L’occhio avvezzo ad afferrare il fenomeno letterario nella sua muta essenzialità, a spassionatamente misurarlo con le due stregue dell’estetica: la storia e la logica, non può mai condursi in guisa differente, né applicare criterii diversi ad altri fenomeni».
Attraverso il corso della «creazione umana» che, «come ogni fenomeno cosmico, ha un principio, un apogeo ed un tramonto» e la sua costante trasformazione («l’objetto», ossia l’opera d’arte, «è il metallo prezioso che ogni secolo foggia diversamente nel mito: dal minerale informe si fondono verghe, s’intagliano coppe ornate di figurine; le coppe profane si distruggono da’ devoti per formare de’ brutti santi; i santi si manomettono da’ bisognosi increduli per coniar marenghi; i marenghi si buttano nel crogiuolo dall’orafo per ricavarne pendagli e fremagli. Il
15 V. Imbriani, Dell’organismo poetico e della poesia popolare italiana, Napoli, s.t. 1866, poi in Id., Studi letterari e bizzarrie satiriche, a cura di B. Croce, Bari, Laterza 1907, p. 53. 16 Ivi, p. 51.
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valore intrinseco del metallo è sempre il medesimo, però quelle trasformazioni che lo adattano a’ bisogni d’ogni tempo quanto non importano! si può affermare che il vero pregio dell’oro consiste nella suscettibilità d’assumere quelle forme»), il giovane studioso di Dante pone l’accento sul nesso necessario tra l’ideale ed il reale, identificando nelle categorie di Arte e Morale l’esplicazione di quei contenuti essenziali per cogliere quanto di soggettivo «si eleva e consolida nell’oggettivo»,17 in linea con le teorie hegeliane. La funzione della critica è dunque strettamente connessa al concetto di Estetica, dal momento che quest’ultimo è preposto all’osservazione e all’intelligenza dell’Arte, oggetto della propria indagine; dunque al bando ogni esteriorità, ogni forma di moralismo desunto, tanto i costumi accademici quanto le esigenze politiche, a favore di una disamina concreta che rinnovi la capacità di cogliere la bellezza come valore fondante dell’uomo. Da tale punto di vista, questo tipo di analisi si affianca a quanto lo stesso De Sanctis auspicherà di lì a poco al termine della Storia della letteratura italiana, affermando che nella «ricerca degli elementi reali della sua esistenza, lo spirito italiano rifarà la sua cultura, ristaurerà il suo mondo morale, rinfrescherà le sue impressioni, troverà nella sua intimità nuove fonti d’ispirazione, […] non come idee brillanti, viste nello spazio, che gli girino intorno, ma come oggetti concreti e familiari, divenuti il suo contenuto».18 Per Imbriani la critica italiana dunque scambia «gli accessorî per l’essenziale» e, nel caso di Dante, continua a non intendere il suo vero messaggio, critica che, a suo dire, risulta ancora inesorabilmente legata al retaggio degli studi eruditi e minuti del secolo precedente i quali, analizzando ciò che è accidentale, non riuscivano a giudicare gli scritti di un poeta attraverso la categoria estetica propria; le Bellezze di Dante, raccolte dall’abate Cesari, o gli indirizzi linguistico-letterari dell’Amor patrio di Dante del Perticari, così come le dispute tra accademici più o meno influenti di gusto ancora settecentesco, insomma, dovevano risultare, all’altezza del 1865, insostenibili per chi, come Imbriani, aspirava ad un rinnovamento profondo degli strumenti di giudizio. L’occasione delle celebrazioni del centenario fecero sì che Imbriani si cimentasse in una sperimentazione tecnica e critica in relazione non solo ad una vicenda di ampio respiro nazionale e popolare ma anche ad una risposta culturale che le coscienze letterarie dell’epoca offrivano; l’Autore affrontava in questo modo il definitivo recupero ottocentesco della figura dell’Alighieri attraverso la lezione realistica del De Sanctis, e tale recupero si rivelava stimolante ed indicativo di una nuova strada da seguire per la critica, di una rifondazione degli studi danteschi da
17
G. Cacciatore-A. Giugliano, Imbriani filosofo, in Studi su Vittorio Imbriani. Atti del «Primo Convegno su Vittorio Imbriani nel Centenario della morte», Napoli, 27-29 novembre 1986 cit., p. 159. 18 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, introduzione di N. Sapegno, Torino, Einaudi 1958, vol. II, p. 974. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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basarsi su una nuova idea di Bello («Lo scopo dell’Arte è di realizzare il Bello ed il Bello è una categoria tanto superiore alla morale […] che nulla più; ben può produrre, come vuole Aristotele della tragedia, una catarsi, una purgazione; ma questo sarà un effetto puramente involontario ed accidentale»); tale idea di Bello doveva essere strettamente legata alla concretezza del messaggio poetico, lontana dalle dissertazioni critiche che divenivano filosofiche e storiografiche fino a deformare la figura del poeta trasformandola in quella di un idolo letterario sempre più incompreso e distante: Quali sono le categorie del mito dantesco? O per parlar più franco e naturale e senza formole, quali sono le differenti ragioni per cui nei differenti secoli il nostro Dante è stato ammirato? quali sono le ragioni per cui lo si ammira adesso? qual è la legge che governa questi modi successivi d’ammirarlo? Chieder questo è chieder la storia della critica in Italia: le vicende di essa rispondono a capello alle vicende della fama di Dante. Secondo che o l’una o l’altra categoria era riguardata come costituente il merito poetico, Dante veniva ammirato perché ed in quanto rispondeva a quella categoria. Quando la grandezza dello scrittore si misurava alla quantità di riboboli fiorentini adoperati s’ammirava Dante pei riboboli; quando il merito d’un poema si attribuiva a’ plagi degli antichi, Dante era sublimato pei plagi; quando il poetico e l’enimmatico si confondevano, Dante venne esaltato per quanto era incomprensibile; quando il versificare ed il poetare furono creduti identici, si stupì per la versificazione dantesca; quando i versi robusti vennero di moda, s’andò in estasi per le rime aspre e chiocce ecc. ecc.
Il frequente ricorso da parte di Imbriani ai criteri di Arte e di Estetica può essere ricondotto sia agli studi filosofici da lui compiuti a Berlino presso la scuola di Michelet e Stater, nei quali egli aveva assimilato lo storicismo hegeliano e una certa visione romantica della storia letteraria, sia al pensiero critico desanctisiano appreso nel corso delle lunghe frequentazioni del maestro prima a Torino e poi a Zurigo. L’Imbriani tende infatti ad applicare il giudizio estetico alla civiltà culturale e sociale italiana dell’epoca, nel tentativo di una critica realmente militante, e dunque in linea con l’insegnamento di De Sanctis, che fosse in grado di analizzare la vita di una nazione che si avviava ad una concretizzazione della propria storia celebrando e fortificando la propria identità attraverso la figura poetica più rappresentativa del suo passato letterario. In tale contesto allora appare più netto nel nostro autore anche l’allontanamento dall’idea hegeliana della cosiddetta morte dell’arte, delineandosi a poco a poco quella sorta di conciliazione tra una categoria che rischiava di risultare astratta e la concreta realtà di una scienza letteraria che si mostrava in continua mutazione negli spiriti più acuti dell’Ottocento. Tant’è vero che Imbriani, come abbiamo visto, modificò il binomio hegeliano di Arte e Critica in quello di Arte e Morale, sovrapponendo quasi un concetto all’altro, e intendendo ribadire con quest’ultimo l’importanza della soggettività, la necessaria preminenza attribuita ad una presa di coscienza da parte dell’uomo che sola può renderlo libero e pensante: Istituzioni e intellettuali verso l’Unità
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L’abito fa che il comprendere ogni cosa in sé, ed il rendersene conto, divenga una necessità della vita né più, né meno del mangiar pane: non ti basta l’impressione o la descrizione dell’objetto, non curi d’investigarne le parti accidentali ed accessorie, non t’appaghi delle apparenze bugiarde, anzi vuoi saperne la ragione, il valore, il significato, il perché.
Aggiungendo sarcasticamente: Seguendo questo sistema accade fatalmente di contraddire spesso al volgo, id est all’universale, sempre contento alla corteccia; e, quel ch’è peggio, si rimane defraudati degli entusiasmi sciocchi, delle illusioni buffe, delle credenze insulse, della fede nella sapienza politica del tale o tal’altro giornalaccio, d’ogni presupposto, d’ogni preconcetto, d’ogni pregiudizio, insomma delle tante parti plebee, che pur sono le maggiori dolcezze della vita umana.
L’attenzione nei confronti del centenario dantesco si concretizzò per Imbriani anche nel tentativo di innalzare al Poeta un monumento celebrativo nella nativa città di Napoli, in quel Largo del Mercatello che di lì a poco avrebbe assunto la propria denominazione dal grande poeta chiamandosi, appunto, Piazza Dante. Per realizzare tale progetto in Nostro fondò, insieme con l’amico e maestro Settembrini, già cospiratore nel periodo borbonico insieme al Poerio, la loggia segreta Libbia d’oro e promuovendo una sottoscrizione per innalzare un monumento al celebre fiorentino con la finalità dell’«educazione morale […] [e] intellettuale del popolo».19 La collaborazione con Settembrini aveva portato, fin dal 1862, alla fondazione di una Società Dantesca Promotrice di un Monumento a Dante in Napoli in cui lo storico e patriota fu designato a ricoprire la carica di presidente e Imbriani quella di segretario; la Società doveva realizzare l’opera statuaria innalzando un «Monumento a Dante Allighieri in Napoli, quasi segno della presa di possesso di queste provincie per parte dell’Idea unitaria», perché, se a Firenze Dante «era un grand’uomo», a Napoli egli «raffigurava l’ingegno, il sapere, le sventure, le glorie, le fatiche, le speranze e tutta la vita dell’intero Popolo Italiano».20 Tra i soci fondatori della Società Dantesca, che si tassarono per «effigiare con la statua di Dante la ricostituita Unità d’Italia»,21 si possono leggere, oltre ai nomi di Settembrini ed Imbriani, anche quelli di Dalbono, Pironti, all’epoca regio delegato del Comune di Napoli e già affiliato, con lo stesso Settembrini e il Poerio, alla loggia Grande
19
Ivi, p. 35. La Sottoscrizione per un Monumento al Fratello Dante Allighieri in Napoli è conservata presso la Biblioteca Comunale di Pomigliano d’Arco, coll. Manoscritti 14. Corsivo mio. 21 Resoconto del Settembrini, in F. Rubino Mazziotti, Proposta per una doverosa Epigrafe all’Unità d’Italia, da incidersi sul Monumento a Dante Alighieri in Napoli, Napoli, Tip. Antonio Amoroso 1929, p. 5. 20
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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Società dell’Unità Italiana, Ranieri, del Giudice, Angelini (uno degli artefici del monumento insieme al Solari, anch’egli partecipante con una quota), Mascilli, De Renzi, presidente dell’Accademia Pontaniana, Caravita, marchese di Sirignano e, tra i finanziatori, S.M. il Re Vittorio Emanuele II che si sottoscrisse per L. 2000, S.A.R. il Principe Eugenio di Savoia Carignano, Ricasoli, il Banco di Napoli, la Procura Generale di Napoli e Paolo Emilio Imbriani, sindaco della città. Imbriani, che credeva fermamente in tale progetto, pubblicò, inoltre, in forma anonima, ma immediatamente riconoscibile, una serie di articoli sul quotidiano «La Nuova Patria» tra il 21 giugno 1869 e l’8 novembre 1871 (anno dell’erezione della statua), sorta di reportage dedicato alla costruzione dell’opera statuaria.
Istituzioni e intellettuali verso l’Unità
CLAUDIA GENTILE Il “realismo” di Francesco Mastriani: un contributo per la rinascita di un popolo
Debellata l’ultima resistenza borbonica a Gaeta nel 1860, Napoli, annessa al resto d’Italia, si trovò a subire la perdita del ruolo di capitale, un depauperamento economico, artistico e sociale molto grave ed il dilagare della camorra e del brigantaggio divennero una vera e propria piaga sociale. L’incontro scontro fra realtà disomogenee produsse quella che verrà poi definita «questione meridionale»: tale situazione ben presto si palesò spinosa per il neonato governo che, incapace di comprendere le reali dinamiche del problema e di affrontare in maniera costruttiva le profonde differenze che inevitabilmente venivano ad esserci fra regioni diverse, si limitò a porre il problema nell’ambito di uno scontro di civiltà e a definire l’intera area del mezzogiorno come un unico blocco di sottosviluppo economico e sociale. Coloro che avrebbero dovuto amministrare le nuove province si limitarono ad un rapido e superficiale esame della società napoletana etichettandola sotto la categoria dell’arretratezza e attribuendo ai napoletani le difficoltà che andavano incontrando nella loro opera di governo. Sono esemplari a tal proposito le impressioni che il primo luogotenente delle province meridionale, Luigi Farini, inviò a Cavour ancor prima di arrivare a Napoli: «Ma, amico mio, che paesi son mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica. I beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile».1 A fronte dell’incapacità del nuovo stato unitario di risolvere tali problemi vi fu una presa di coscienza da parte degli intellettuali napoletani e italiani che portò alla produzione di una gran quantità di lavori che tentavano di «usare la letteratura e
1 C. Petraccone, Le due Italie: la questione meridionale tra realtà e rappresentazione, Roma-Bari, Laterza 2005, p. 6.
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Claudia Gentile
l’arte, per esempio, come strumento per un’inchiesta sociologica urbana».2 Del 1862 sono i saggi di Marc Monnier, Notizie storiche documentate sul brigantaggio nelle province Meridionali,3 e quello di Marino Turchi, Sulla igiene pubblica della città di Napoli;4 nel 1863 sempre il Monnier pubblica La camorra-notizie storiche raccolte e documentate.5 Passando poi agli anni Settanta troviamo le Lettere meridionali6 di Pasquale Villari, il saggio La miseria di Napoli7 di Jessi White Mario, moglie del garibaldino Alberto Mario sodale di Pisacane e Napoli ad occhio nudo8 di Fucini. E nel 1884, anno della tragica epidemia di colera che colpì Napoli, Matilde Serao pubblicò Il ventre di Napoli,9 una raccolta di articoli scritti per Il Corriere di Roma illustrato in cui denunciava lo stato di degrado e le pessime condizioni igienico-sanitarie della città. La descrizione delle aberranti condizioni di vita dei cittadini delle province meridionali destò grande interesse nell’opinione pubblica nazionale ma il governo fece ben poco per risolvere la situazione limitandosi a qualche intervento strutturale dopo l’epidemia di colera dell’84. Un’analisi profonda sui bisogni della città era stata condotta già dai primi anni Sessanta da un prolifico scrittore di romanzi d’appendice che per «campare» la famiglia si divideva fra un impiego alla dogana, l’attività di traduttore e quella di istitutore. Francesco Mastriani era nato nel 1819 da un’agiata famiglia borghese e, come lui stesso ci riferisce,10 ebbe il suo battesimo giornalistico nel 1838, scrivendo articoli di costume per Il Sibilo. Giornale napoletano di mode e teatri. Nelle sue prime prove narrative si mostra legato ancora ai temi e al gusto di un romanticismo bizzarro e pittoresco, seguirà nel 1847 la stesura del primo romanzo, Sotto altro cielo, cui faranno seguito una quantità ingente di opere che il figlio e biografo Filippo11 ha censito in 900 titoli di cui ben 107 romanzi. Tali lavori narrano principalmente fatti di camorra, situazioni di miseria e degrado ma è solo con la cosiddetta trilogia
2
A. Di Filippo, Lo scacco e la ragione. Gruppi di intellettuali, giornali e romanzi nella Napoli dell’800. Mastriani, Lecce, Milella 1987, p. 155. 3 M. Monnier, Notizie storiche documentate sul brigantaggio nelle province meridionali, Firenze, Barbera 1862. 4 M. Turchi, Sulla igiene pubblica della città di Napoli, Napoli, Morano 1862. 5 M. Monnier, La camorra-notizie storiche raccolte e documentate, Firenze, Barbera 1863. 6 P. Villari, Le lettere meridionali e altri scritti sulla questione sociale in Italia, Firenze, Le Monnier 1878. 7 J. White Mario, La miseria in Napoli, Firenze, Le Monnier 1877. 8 R. Fucini, Napoli ad occhio nudo: lettere ad un amico, Firenze, Le Monnier 1878. 9 M. Serao, Il ventre di Napoli, Milano, Treves 1884. 10 Ne I Misteri di Napoli, Mastriani ci informa: «[…] nel 1838 ricevetti io pure il battesimo della stampa in una mia prima novella intitolata Il diavoletto, pubblicata in un giornale domandato il Sibilo». 11 F. Mastriani, Cenni sulla vita e sugli scritti di Francesco Mastriani, Napoli, Gargiulo 1891. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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socialista (I Vermi. Studi storici sulle classi pericolose in Napoli,12 Le ombre. Lavoro e miseria,13 I misteri di Napoli. Studi storico-sociali)14 che Mastriani approda ad una vera e propria analisi sociale dei bisogni e delle difficoltà in cui vive il popolo napoletano, punta l’attenzione sulle condizioni di vita dei sui concittadini, sulle piaghe che l’affliggono e le indaga con profondo ed acuto realismo. Mastriani diede un grande contributo alla nascita del meridionalismo, fu un precursore della questione meridionale e fu un modello per quegli scrittori che in seguito decideranno di indagare la realtà e dar voce a coloro che voce non avevano prostrati dall’ignoranza, dalla miseria e dall’abbrutimento. Ne I Vermi l’intento denunciato dallo scrittore è proprio quello di condurre un’analisi sui bisogni della città: Il suo scopo principale è di gittare alquanta luce su le pratiche insidiose di quelle numerose classi che, o per accidia naturale ed abborrimento ad ogni onesto lavoro, o sedotte dalla speranza di uscire, più presto che col lavoro, dallo stato di miseria in cui giacciono, o sopraffatte dall’ignoranza da’più astuti, si danno a vivere d’illeciti guadagni. Queste classi, figlie della corruzione, formano appunto la sciagurata generazione de’ VERMI sociali. I fatti su cui appoggiano i nostri studi storici sono, la maggior parte, veri. I particolari che diamo su i costumi, su le pratiche, sul linguaggio di queste classi sono esattissimi […]. I personaggi che figurano in questi nostri racconti sono la maggior parte esistenti […]. Della più parte di questi personaggi abbiam ritenuto il linguaggio caratteristico per rendere questa lettura più svariata e originale.15
Questi romanzi-saggio sono organizzati come nebulose di episodi indipendenti, tenuti assieme da un’esile trama che proprio però nell’uso estremo della digressione trovano la loro forza principale. Mastriani si fa personaggio con i suoi personaggi, ci introduce negli ambienti in cui si svolgono le vicende, ci prepara ad un colpo di scena, perora la causa dei più umili, esprime giudizi, cita i nomi di strade, vicoli e anfratti: Venite meco in quella stanzaccia umida e fredda del fondaco Crocifisso a San Pietro a Fusaro. Il fondaco Crocifisso! Sapete che cos’è un fondaco a Napoli? Immaginate una specie di cortile chiuso in cui non penetrò mai un raggio di sole, e nel quel vanno a deporsi tutte le immondizie dei chiassaiuoli vicini, immaginatevi una maniera di ronco, che si potrebbe credere un ricovero di immondi animali anzi che un luogo dove possono vivere creature battezzate.16
12
F. Mastriani, I Vermi. Le classi pericolose in Napoli, Napoli, Salvati, [dopo il 1860]. Id., Le Ombre. Lavoro e miseria: romanzo storico-sociale, Napoli, Montefusco 1872. 14 Id., I misteri di Napoli. Studi storico sociali, Milano, Sonzogno 1875. 15 Id., I Vermi. Le classi pericolose in Napoli, a cura di L. Torre, Napoli, Torre 1994, vol. I, pp. 9-10. 16 Ivi, p. 268. 13
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La digressione diventa fondamentale per l’intento educativo dell’autore che la utilizza fino al limite della disgregazione della trama narrativa, e come ci ha fatto notare Antonio Palermo: Sta tutta qui la sua forza di scrittore: aver avuto il coraggio di utilizzare, al confine della disgregazione, l’istituto della parentesi, della nota, dell’esempio extravagante, del ricordo associativo, per analogia o per contrasto, della pausa narrativa, insomma della vera e propria frattura della vicenda portante, non compromettendo il suo discorso (di appendicista naturalmente) ma anzi arricchendolo, potenziandolo.17
Tutto ciò che vi è di nota di costume, di fatto di cronaca il nostro lo traeva dal vero, i suoi romanzi sono un ineguagliabile documento della vita napoletana di metà Ottocento. Nelle sue opere il linguaggio gergale della camorra è ampiamente utilizzato così come vi è un dettagliato studio di tipi della malavita che poi verranno ripresi da Marc Monnier nel suo La camorra-notizie storiche raccolte e documentate;18 si prenda ad esempio la puntuale citazione dei 24 articoli del codice della camorra.19 Mastriani ci descrive con acutezza da antropologo i vermi che popolano il suo romanzo, i suoi ritratti di uomini, cose e ambienti fedeli fino alla ripugnanza sono quanto di più realistico si possa immaginare: Quella faccia non era propriamente d’uno stupido animale, perciocchè un raggio d’intelligenza sfavillava nella bieca pupilla; ma la sua testa lercia ed immonda parea tratta per la prima volta dalle più cupe tenebre di sordida prigione. La sua quasi nudità facea schifo. Io credo che egli non avesse addosso che un lembo di camicia ed alquanti stracci di calzonetti alla marinaio.
Il forte interesse per le condizioni del popolo lo spingeva a rappresentare una realtà che per la sua estrema violenza sembra inedita. A tal proposito la Mario ne La Miseria in Napoli scrive: Chi vuole apprezzare i lavori del Mastriani deve prima veder Napoli, poi leggerli; se no, chiuderà i suoi libri dicendo queste sono esagerazioni di romanziere, sogno di rivoluzionario ma dopo aver visto con i suoi occhi esclamerà mestamente: pur troppo egli ha scritto la verità, null’altro che la verità, ma non tutta la verità.20
Coloro che avevano provato a raccontare la sostanza della realtà napoletana dell’Ottocento ne avevano spesso alterato l’immagine dando vita ad una rappre-
17
A. Palermo, Da Mastriani a Viviani per una storia della letteratura a Napoli fra Otto e Novecento, Napoli, Liguori 1987³, p. 15. 18 M. Monnier, La camorra-notizie storiche raccolte e documentate cit., 1863. 19 F. Mastriani, I Vermi cit., pp. 157-161. 20 J. White Mario, La miseria in Napoli cit., p. 157. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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sentazione oleografica e pittoresca, una sorta di seconda realtà opposta a quella vera, tragica e miserabile.21 Per Mastriani invece i vicoli, la povertà, i personaggi che brulicano e s’affannano a sopravvivere nella città sono materia del racconto restituiti fedelmente. Egli rappresenta il «fatto nudo e crudo» e solo in questo modo l’essenza della città non è alterata, i personaggi non diventano tipi e si fa luce su una realtà vera e terribile. Il tranquillo e bonario Mastriani rivendica fortemente il suo primato sulla rappresentazione della realtà:22 il romanziere francese Emilio Zola ha creato pel primo quella scuola che dicesi del realismo o del vero. Questo pubblicista o si mostra ignorante delle patrie cose, e questo è imperdonabile in chi si occupa di critica letteraria, o è di mala fede […]. Come si può avere il coraggio di dire che Zola è stato il primo a creare la scuola del realismo nel romanzo, quando io, Francesco Mastriani, apersi nel romanzo questa arditissima scuola co’miei Vermi, colle mie Ombre, co’miei Misteri di Napoli?23
E ancora: Che è mai cotesto rumore che si leva intorno al realismo? Il realismo l’ho inventato io. Che è cotesta Nanà, che tutto il mondo n’ha da discorrere come dell’ottava meraviglia? Io ho scritto I Vermi. C’è niente di più realista dei Vermi? Io vi domando in coscienza se si può scendere più in basso. Di più, voi realisti da strapazzo, sguazzate nel sudiciume; ed io, come vedete, vi servo in tavola l’anima stessa del medesimo in tante pagine strappate dall’albero della mia fantasia ancora verdi e sanguinanti […].24
Anche se «Mastriani non era positivista né verista sia per formazione culturale sia perché questo fenomeno si definirà nei decenni successivi»25 fu un anticipatore che nel clima postunitario si pose il problema dell’impegno sociale e della denuncia. Quasi come un manifesto politico del nascente socialismo italiano suonano le seguenti parole:
21
A. Palermo, Dopo il ’60, in Napoli dopo un secolo, Napoli, ESI 1961, pp. 361-372. La risentita risposta di Mastriani è diretta al De Sanctis che in un suo articolo del 1878 parlando dell’Assommoir diceva: «Questo racconto non è solo la storia di Gervasia, ma una storia sociale. E se volete averne un concetto guardate Napoli, Napoli non ha ancora i suoi quartieri bassi? Non vi è mai giunta la voce di certi covili dove stanno ammassati padri, figli, madri, senz’aria, senza luce, tra le lordure perpetue, cenciosi, laceri, scrofolosi, anemici? Nessuno di noi ha avuto stomaco di andare lì e studiare quella miseria: il disgusto ce ne allontana. Ebbene questo coraggio lo ha avuto Zola», F. De Sanctis, Zola e l’Assommoir, in Saggi critici, a cura di Luigi Russo, Bari, Laterza 1953, p. 315. 23 F. Mastriani, prefazione a I Drammi di Napoli, Napoli, Regina 1878, pp. X-XI. 24 F. Verdinois, Francesco Mastriani, in Profili letterari napoletani, Napoli, Morano 1882, p. 71. 25 A Di Filippo, Lo scacco e la ragione. Gruppi intellettuali, giornali e romanzi nella Napoli dell’800. Mastriani cit., p. 158. 22
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Non temiamo ad asserire che molte leggi che riguardano la proprietà sono ingiuste, in controsenso alla civiltà dei tempi. Cadde il feudalesimo alla voce del progresso, ma non cadde l’esoso edificio dei privilegi, degli abusi, dei contratti draconiani garantiti dalla legge. La setta dei privilegiati a’ quattro venti: la proprietà è sacra e inviolabile. E con questa sentenza fu imbavagliata la parola del gran codice dei diritti dell’uomo.26
Mastriani coglie la realtà attraverso le immagini della sua fantasia e grazie alla sua qualità di narratore originale, di scrittore immediato, e tagliente ci restituisce un affresco del popolo napoletano vivo e palpitante, una vera e propria «commedia umana» dei reietti. Significative sono le parole della Serao: questo martire della penna era, veramente, fra i più forti e più efficaci nostri romanzieri. L’opera sua, formata da cento e più romanzi, appare grezza, disuguale, talvolta ingenua nella scarsezza delle risorse artistiche […] possedeva una fioritura di fantasia tutta spontanea; egli era il raccontatore nato, vario, diverso, instancabile, inesauribile […] la qualità simpatica nell’opera che tanti artisti non possiedono è l’emozione27
Egli voleva essere un educatore e un maestro per il popolo per il quale scriveva28 e che rappresentava in tutta la sua crudezza, un popolo che ricambiava la sua attenzione seguendolo con affetto e partecipazione, facendo entrare i suoi romanzi nell’epos popolare.29 Lo scopo della sua letteratura è pedagogico: voleva educare, informare e rendere il suo popolo più consapevole attraverso la conoscenza, renderlo capace di provvedere a se stesso attraverso l’istruzione. I suoi romanzi sono anche questo, sono una lezione di educazione civica, rimpiazzano le scuole pubbliche cui non tutti potevano accedere e che fra l’altro, come lo stesso Mastriani tiene a sottolineare, spesso si basa sul principio che: l’istruzione de’fanciulli si crede debba consistere principalmente nel far di loro tanti pappagalli. Non alzeremo mai abbastanza la voce contro il pessimo sistema d’istruzione che è in vigore appo noi, ed anco, crediamo appo il resto d’Italia, di mettere cioè nel cervello de’ fanciulli parole e non idee. Se gl’istitutori, guardassero meno a soddisfare la vanità dei genitori e de’parenti anzi che a provveder seriamente all’istruzione dei fanciulli loro affidati, rigetterebbero un sistema d’insegnamento affatto inutile e tutto al più buono ad ammaestrare pappagalli e scimmiotti.30
26
F. Mastriani, I Misteri di Napoli cit., p. 306. M. Serao, Francesco Mastriani, «Il Corriere di Napoli», 9 gennaio 1891. 28 G. Algranati, Un romanziere popolare a Napoli. Francesco Mastriani, Napoli, Morano 1914. 29 «[…] a Napoli, trent’anni or sono, viveva ancora l’ultimo vecchio cantastorie classico, che declamava ai popolani sul Molo le gesta epiche dei Paladini […] e che cedette poi malinconicamente il posto a un concorrente formidabile, leggendo in volgare prosa sgrammaticata i romanzi popolari di Francesco Mastriani», F. Russo, Un cantastorie napoletano del Cinquecento, Napoli, Vela Latina Editrice 1915, pp. 2-3. 30 F. Mastriani, I Vermi cit., p. 532. 27
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L’istruzione nel pensiero di Mastriani era fondamentale per modificare le condizioni di miseria e di sofferenza del popolo, l’unica strada attraverso la quale modificare lo status quo e conquistare quella dignità di uomini andata perduta nella lotta per la sopravvivenza quotidiana: Facciamo valere l’opera nostra. Dinnanzi al ricco […] noi siamo la forza viva della società, ed esso è inerzia […] noi rappresentiamo la produzione, ed esso la consumazione. […], non dovete lasciarvi uguagliare alla condizione del mulo e dell’asino.31
Ma non basta denunciare le ingiustizie sociali e pretendere che siano sanate per essere considerati socialisti; ed infatti Mastriani non lo fu, il suo «sentimento fervido ed elementare»32 era contro la rivolta e i cambiamenti rivoluzionari. Il suo spirito riformatore è così riassunto da Hérelle: «un granello di verità e un sacco di utopia. Questo è quello che si trova nel socialismo di Mastriani»,33 e l’autore «un socialista di carità, qualcosa come un socialista cristiano».34 Malgrado il grande successo di pubblico Mastriani non fu apprezzato dal mondo letterario contemporaneo, i suoi lettori furono «tutta Napoli, all’infuori della gente letterata»,35 degradato al ruolo di modesto scrittore solo perché autore di romanzi d’appendice. Benedetto Croce, dopo un primo giudizio negativo su Mastriani,36 invitò a studiarne l’opera, criticando l’assenza di un saggio interamente dedicato a lui: «Si notava […] una certa tendenza verso il contenuto e le forme del verismo […]. Tutto ciò, senza dubbio, rimaneva in lui crudo, rozzo, bruto, non attingeva l’arte».37 La lingua adoperata dal Mastriani è stata fortemente criticata ma mancando una lingua unitaria parlata comunemente da tutti, si usano, anche in opere «popolari», soluzioni ibride, che mescolano stilemi aulici e forma prosaiche.38 Mastriani utiliz-
31
Id., I Misteri di Napoli cit., p. 1012. Id., I Misteri di Napoli a cura di G. Innamorati cit., p. 16. 33 E. Osterhus-Shadman, «Quelque chose comme un socialiste chrètien». I Vermi di Mastriani tra illuminismo e religiosità, in «Critica letteraria», XXXIII (2005), n. 127, p. 345. 34 G. Hérelle, Un romancier socialiste en Italie,. Francesco Mastriani, in «La Revue de Paris», Julliet 1894, p. 275. 35 B. Croce, La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900 in La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, Bari, Laterza 1947, p. 320. 36 Interessante la vicenda che vide il Croce nell’edizione del 1943 della Letteratura della Nuova Italia criticare l’opera dell’autore accusandolo di rappresentare la piccola borghesia con «grossolane caricature» (p. 35). 37 B. Croce, La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900 in La letteratura della nuova Italia. Saggi critici cit., p. 321. 38 Cfr. T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza 1991. 32
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Claudia Gentile
za un registro stilistico che sia corrispondente al mondo che va descrivendo, un mondo elementare e povero, che si esprime sostanzialmente in dialetto; la sua lingua-contenitore è un miscuglio di italiano, dialetto, di termini gergali ed anche stranieri, un miscuglio che ben si adatta a seguire la sbilenca struttura narrativa39 e a calare il lettore nell’esplorazione del «ventre» ribollente. Una lingua che adopera all’occorrenza anche stilemi aulici e figure retoriche ricercate e che è segno della stessa crisi di identità linguistica di cui soffrirono i romanzieri di altre regioni italiane, una lingua «frutto di un compromesso o se si vuole di una mediazione tra il vecchio, rappresentato dal dialetto o la lingua napoletana, e il nuovo rappresentato dalla folata unitaria importata da Basilio Puoti e dal suo allievo Francesco De Sanctis».40 Mastriani morì il 7 gennaio del 1891 ed anche in questa occasione, ad onta delle classi intellettuali, l’affetto del popolo fu con lui fino alla fine; gli operai che accompagnavano in massa il feretro reggevano un manifesto significativo: È morto un lavoratore cui l’opera onesta della mente non diede il pane per la vita, come a noi non lo dà l’opera assidua delle braccia. Noi renderemo solo quello che è in nostro dovere, ossequio postumo a chi come noi soffrì dolori inenarrabili, comuni ad una gente che aspetta la redenzione sua nel mondo, a chi non nascose della plebe le virtù onorate.41
E queste parole ci aiutano a comprendere il valore storico della scrittura e dell’intera produzione di Francesco Mastriani. La sua penna, che illumina violentemente la realtà napoletana, offriva al nuovo stato italiano, ai dirigenti politici piemontesi, un’occasione fondamentale di conoscenza. Se, come credo, il verismo italiano nasce e si diffonde per «far conoscere gli italiani agli italiani» dopo la raggiunta Unità politica, come la storia e l’impegno di Verga ci confermano, allora Francesco Mastriani aveva preceduto anche il politico lombardo-piemontese che auspicava la conoscenza degli italiani, ovvero del modo con cui essi affrontavano la vita quotidiana. Ma la parola di Mastriani, la denuncia sociale delle sue opere, fu inascoltata e coloro che avrebbero dovuto indagare le ragioni di comportamenti e situazioni per loro incomprensibili reagirono alla loro inadeguatezza con la violenza delle fucilazioni e delle impiccagioni, con la depredazione, e non con una politica della comprensione e dell’onestà. Così la fiducia di un popolo, che sfruttato per secoli credeva nel nuovo Stato, venne tradita e la possibilità, attraverso le conoscenze fornite dai romanzi di Francesco Mastriani, ché un popolo potesse rinasce-
39
A. Palermo, Da Mastriani a Viviani cit., p. 116. F. Mastriani, I Vermi cit., p. VI. 41 L. Bovio, I miei napoletani, Napoli, Editrice CLET 1935, pp. 4-16. 40
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
Il “realismo” di Francesco Mastriani
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re a quella antica qualità di vita perduta in secoli di occupazioni vessatorie andò persa.
Istituzioni e intellettuali verso l’Unità
UGO MARIA OLIVIERI Aspettando De Sanctis. La ‘Storia della letteratura’ italiana come costruzione dell’identità nazionale
L’attesa, cui si riferisce il titolo della mia comunicazione, è da intendersi almeno in una duplice accezione. La prima, più ovvia, è legata ad una visione storicista, continuista e progressiva della storia culturale italiana e presuppone un lento e certo formarsi di un clima culturale e di una produzione di testi di critica letteraria che, per progressivi tentativi, approda a quel capolavoro che è La storia della letteratura Italiana di Francesco De Sanctis edita a Napoli presso Morano nel 1872. L’altra accezione non è letterale ma allusiva, allegorica, nel senso benjaminiano che ha l’allegoria moderna, poiché allude al titolo beckettiano Aspettando Godot. Nel testo teatrale l’attesa è il paradigma di un vuoto destinato a non colmarsi, a rappresentare la moderna condizione di frustrata redenzione. Invece l’evocazione contenuta nel mio titolo serve innanzitutto a spiegare un fenomeno della nostra vita culturale ottocentesca, ossia il contributo fornito dalla storia letteraria a formare la futura identità nazionale, ossia una «comunità immaginata», come lo storico Benedict Anderson1 denomina il processo di creazione del concetto di nazione e di nazionalismo nell’Ottocento. E in realtà l’attesa, nel caso italiano, rinvia a una rottura epistemologica e di prospettiva culturale destinata, con l’opera di De Sanctis, a colmarsi solo a patto di riformulare daccapo il problema del rapporto tra la coscienza nazionale e il canone letterario. Mi spiego meglio. E per farlo devo in un certo senso anticipare le conclusioni, come non si dovrebbe fare in un lavoro scientifico. Il procedimento mi sembra tuttavia necessario per spiegare l’andamento di una mia ricerca più complessiva sul contributo della storia letteraria alla «genealogia» dell’identità nazionale. Quando, infatti, la riflessione sulla storia letteraria diviene anche riflessione sul-
1 Cfr. B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, tr. it., Roma, ManifestoLibri 2000.
Istituzioni e intellettuali verso l’Unità
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l’episteme che sta alla base della disciplina è, a mio avviso, inevitabile che si debbano far «confliggere» due accezioni del termine «storia», quella storicista e quella genealogica, per mostrare come il paradigma storicista della storia letteraria si costruisca poco alla volta come forma di descrizione e di spiegazione del corpus di testi letterari scelti per rappresentare l’identità nazionale per poi ripresentarsi come residuo novecentesco del permanere del modello messo in opera. Si tratta, allora, in questo segmento pre-unitario della storia della disciplina di indagare come, e se, il genere della storia letteraria, nato attorno alla metà dell’Ottocento, sia stato concepito da vari autori come esplicito contributo al problema dell’identità nazionale. E, alla luce della soluzione desanctisiana, si potrà capire sino in fondo perché tali tentativi, dal 1844 in poi, siano stati, al contempo, un prologo necessario, ma non fondante, della successiva impresa di De Sanctis. Prologo non fondante nel senso che molte storie letterarie saranno accantonate, archiviate, dal nuovo punto di vista della Storia della letteratura italiana di De Sanctis. Prologo necessario poiché molti concetti presenti in De Sanctis non sarebbero «pensabili» senza tali antecedenti. In margine posso solo accennare a come dietro questa affermazione vi sia una riflessione di metodo sulla necessità, ogni volta che si affronta l’800, di descrivere e rappresentare, mi verrebbe di dire di «drammatizzare», l’uso di un duplice schema di rappresentazione storiografica, l’uno pienamente continuista sul modello di «gli antesignani di De Sanctis», legato alla tradizione ottocentesca, l’altro genealogico legato all’oggi, cartografico in quanto descrizione dei contorni e delle faglie, degli «impensati teorici» che l’opera di De Sanctis è destinata a far emergere. Una storia come continuità e accumulo/una storia come frattura e scelta per intenderci. Schematicamente: storicismo versus genealogia di ascendenza nietzschiana e foucaultiana. E continuando a servirmi di suggestioni metodologiche, il problema del rapporto tra storia e testi letterari può essere riformulato come l’aveva pensato un formalista come Tynianov,2 ossia come l’analisi dell’interazione tra due serie parallele che debbono essere sincronizzate tra di loro: la serie della letteratura italiana nel suo sviluppo formale e di valori intra-letterari, la serie della ricezione di tali valori estetici nel paradigma storico-sociale della costruzione di una coscienza civile e storica nazionale. Si tratta in definitiva della costituzione di un’opinione pubblica guidata, nel suo sentirsi protagonista di una lotta di edificazione nazionale, dai valori letterari come valori fondanti la coscienza e l’azione risorgimentale. Ho prima evocato una data, il 1844, presa simbolicamente a inizio di questa nuova accezione della storia letteraria per un motivo preciso. Si tratta della data di
2 Ju. N. Tynianov, Il fatto letterario, raccolto in Id., Avanguardia e tradizione, tr. it., Bari, Dedalo 1968.
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
Aspettando De Sanctis
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pubblicazione della Storia delle belle lettere in Italia di Paolo Emiliani Giudici3 presso la Società Editrice Fiorentina, primo esempio del nuovo genere della storia letteraria destinata a differenziarsi rispetto ai modelli eruditi settecenteschi presenti, come ha ben mostrato Getto nel suo ancora fondamentale studio sulla storia delle storie letterarie,4 fino ad oltre metà Ottocento. Prima di fornire qualche notizia sull’autore e sul testo, notizie necessarie per passare, come dice Benjamin, da un approccio fattuale ad uno interpretativo, conviene rapidamente accennare alle caratteristiche dell’analisi del letterario così come era stata consegnata dall’età illuministica a quella romantica, consegnata attraverso un testo prestigioso che non verrà del tutto abbandonato dai critici del primo romanticismo ma servirà più come cava d’informazioni, luogo da cui ricavare notizie erudite e minuti fatti, tralasciando l’impianto complessivo dell’opera. Si tratta dell’opera del Tiraboschi, Storia della letteratura italiana,5 monumentale opera in dieci volumi, vero e proprio compendio della cultura italiana sino alla metà del ’700, sul modello delle compilazioni erudite settecentesche. Un’opera che Carlo Tenca in un articolo di recensione al testo di Emiliani-Giudici comparso ne «Il Crepuscolo» del 1/2/1852, definisce come opera che «non ha altro merito, fuorchè quello d’aver apprestato ed appurato il più vasto tesoro di notizie che fosse dato adunare, e d’averne agevolato l’impresa ai futuri istoriografi».6 Neanche Emiliani-Giudici, che pure nella compilazione della sua opera si serve abbondantemente sia delle notizie che dell’impianto critico di Tiraboschi, è meno critico rispetto al testo dell’erudito settecentesco. E se una critica, così unanime, ad un precedente teorico così ingombrante e importante accomuna due intellettuali diversi ma, poi, entrambi attenti alla nuova funzione assegnata alla storia della letteratura, un motivo ci deve pur essere. E il motivo è chiaramente esplicitato negli accenni contenuti nel Discorso preliminare premesso dall’autore alla prima edizione del 1844 della Storia delle belle lettere in Italia, una premessa che verrà poi soppressa nell’edizione successiva del 1855, sostanzialmente identica a quella del ’44 se non fosse per il significativo cambio di titolo in Storia della letteratura italiana. E sempre per rimanere alla storia fattuale del testo, nell’edizione del 1855, nonostante le affermazioni contrarie dell’autore, non cambia né la struttura dei capitoli né il contenuto ma cambia il fatto che l’ultimo capitolo, sorta di riepilogo
3
Cfr. P. Emiliani-Giudici, Storia delle belle lettere in Italia, volume unico, Firenze, Società Editrice Fiorentina 1844 (da ora in poi citato direttamente nel testo con indicazione della pagina). 4 G. Getto, Storia delle storie letterarie, Firenze, Sansoni 1981. 5 G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena, 1772-1782. 6 C. Tenca, Di una storia della letteratura italiana, in «Il Crepuscolo» III, 5, 1/2/1852, ora in Id., Saggi critici, a cura di G. Berardi, Firenze, Sansoni 1969, p. 289. Istituzioni e intellettuali verso l’Unità
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dello schema storiografico usato, viene integrato da alcune parti della premessa del 1844, quasi a mettere in rilievo che l’impianto innovativo dell’opera deve essere ribadito e giustificato. E ciò ha qualche attinenza anche con la biografia intellettuale di Paolo Emiliani-Giudici che, nel 1844, appena sbarcato a Firenze era uno dei tanti emigrati intellettuali dal Regno delle Due Sicilie, ove peraltro aveva già conquistato una fama di intellettuale versato nell’estetica e attento alla produzione intellettuale inglese.7 Al suo approdo a Firenze entra in contatto con gli ambienti del classicismo toscano, e con Giovan Battista Nicolini in primis. Dieci anni più tardi, nel 1855, Emiliani-Giudici è entrato già da qualche anno in contatto con Tenca e con «Il Crepuscolo» per cui scrive delle Corrispondenze dalla Toscana e ha conquistato un posto di rilievo negli ambienti intellettuali liberali. Ora sin dalla sua formazione siciliana Paolo Emiliani Giudici frequenta i testi di estetica, legge Hegel e si apre a quel bisogno di storia come storia delle idee che Getto, nel suo studio, afferma essere una delle novità dell’impostazione della Storia delle belle lettere in Italia. Se ci si accosta al testo si scorge meglio e con più precisione come si articola questo bisogno d’un impianto storicistico come griglia per indagare i testi letterari. L’opzione metodologica che è alla base dell’opera è esplicitamente fatta risalire da Emiliani ad un modello al contempo letterario e civile, quale poteva, per i contemporanei, essere Foscolo. Non a caso Emiliani, rifacendosi ai testi di critica letteraria composti da Foscolo durante l’esilio londinese e sparsi in vari periodici, afferma «la fusione della dottrina politica e della letteraria, che noi desiderammo negli storici tutti della nostra letteratura, fu per la prima volta ammirata negli scritti di Foscolo, che ancora rimangono – non so se inimitabili certo inimitati in Italia». (Emiliani, p. 54). Una simile soluzione di accostamento tra due sfere ideologiche diverse, quella storica e civile e quella critico-letteraria, porta ovviamente l’autore a dover definire in maniera diversa l’oggetto d’indagine. Diciamo a margine di questa ricostruzione critica che queste due serie ideologiche, per dirla con i termini del formalismo, sono oggetto di una ricerca anche personale, parallela, da parte di Emiliani Giudici se egli nel 1851, dopo, quindi, la compilazione della Storia delle belle lettere in Italia, consegna a Firenze, all’editrice Poligrafica Italiana, una Storia dei municipj italiani. Il saggio mette al centro della sua indagine la rinascita comunale, vista anacronisticamente come il primo segnale esplicito della nascita della nazione italiana, una nascita che ha il suo motore in uno
7
Sulla formazione di Emiliani Giudici e sul suo rapporto con «Il Crepuscolo» si veda il recente G. Padovani, Emiliani Giudici, Tenca e «Il Crepuscolo», Milano, FrancoAngeli 2011, che ha tra l’altro il pregio di antologizzare molte delle corrispondenze scritte da Paolo Emiliani Giudici per la rivista tenchiana. Sul modello della storia letteraria in Emiliani Giudici si veda F. Danelon, Dal libro da indice al manuale. La storiografia letteraria in Italia nel primo Ottocento e l’opera di Paolo Emiliani Giudici, Alessandria, Edizioni dell’Orso 1994. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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strato sociale imbevuto di cultura laica e letteraria in opposizione al potere ecclesiastico e alla letteratura religiosa ad esso collegata. E se la serie storica, essenziale per la fondazione dell’idea di nazione italiana, assume il modello comunale duecentesco come punto di partenza di una storia dei valori laici di contro al predominio del papato e del potere ecclesiastico lungo tutto l’arco della storia italiana, la cosa più interessante, nella Storia delle belle lettere, è che la serie sottoposta a una ridefinizione rispetto ai paradigmi settecenteschi è il concetto stesso di letteratura: «Cominciando dal diffinire la parola Letteratura, vidi come i miei predecessori non ne avessero avuta un’idea netta, determinata ed eguale». La nascita della storia letteraria è quindi, in Emiliani-Giudici, contemporanea alla riformulazione dell’oggetto di studio della disciplina stessa. Occorre, cioè, superare la visione retorica presente in Tiraboschi che lega bello stile e definizione del concetto di letteratura. La soluzione prospettata individua l’oggetto della storia letteraria in quelle «arti della parola», dato specifico della letteratura che porta anche ad una nuova suddivisione del continuum in cui si muovono gli oggetti letterari poiché «a spiegare il muoversi e lo stare de’ tempi, abolii la parola secolo nel significato a che usurpavasi finora, ed adottai quella di epoca. In tal guisa mi fu dato di capire che la vera indipendenza mentale e la grandezza vera della letteratura erano solo conciliabili colla indipendenza e grandezza politica» (Emiliani, p. 61). Non bisogna certo dimenticare come in Emiliani convivano, però, nella definizione di letteratura, un’accezione neo-classicista delle arti della parola come eccellenza dello stile e delle figure retoriche della tradizione e lo spirito nuovo, storicista, ottocentesco, che vede nella letteratura l’espressione di una comunità di lingua, di patria e di storia. D’altronde Emiliani sembra aver ben presente che se «le storie letterarie finora scritte in Italia non servano a’ bisogni ed alle condizioni dell’epoca nostra» (Emiliani, p. 58) ciò deriva da una mancata riflessione estetica sulla natura del fatto letterario. E per capire fino in fondo questo classicista in cerca di una dimensione civile della riflessione estetica e letteraria basta tornare al testo per scorgervi una polemica esplicita con l’estetica hegeliana ma soprattutto con la ricezione francese dell’estetica hegeliana. Dopo aver criticato «il fantastico, gigantesco, incomprensibile sistema dell’universo di Hegel» (Emiliani, p. 48) e la visione idealistica che ne deriva del processo creativo, centrato attorno al termine di «ispirazione», termine medio tra l’idea e l’opera, Emiliani coglie come le traduzioni in Francia dell’opera di Hegel abbiano comportato una mis-interpretazione della sua estetica e una trasposizione di tale estetica in direzione di una teoria dei generi letterari ibridati. Per i critici francesi «l’arte che concilia l’apparente contrarietà di questi elementi, è l’arte grottesca, dunque questa è l’arte vera» (Emiliani, p. 51). La conclusione a cui perviene Emiliani – che è anche un modo per prendere le distanze dalla produzione romantica italiana fortemente influenzata dalla fine delle gerarchie tradizionali tra i generi letterari – è che i critici francesi, come i coevi letterati italiani, «conclusero: la fusione dei generi separati, l’accordo dei generi discordanti costituisce la forma dell’arte nuova» (Emiliani, p. 51). A questa estetica romantica Emiliani Giudici contrappone la produzione teoriIstituzioni e intellettuali verso l’Unità
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ca di Foscolo e soprattutto l’elaborazione del concetto di arte come emulazione della natura e non imitazione delle opere antiche che hanno come oggetto la natura. Date queste premesse estetiche lo schema storico che deve servire a raccontare una storia letteraria dell’Italia non può che essere fondato su un modello di testo fortemente dipendente dalle circostanze storiche che condizionano lo sviluppo storico della letteratura. Non a caso Emiliani-Giudici divide l’intero sviluppo storico della letteratura italiana in due grandi epoche: l’età di Dante e l’epoca dell’imitazione. La prima si presenta come un periodo letterario di perfetta corrispondenza tra autore e contesto politico, età in cui si contempla già la futura armonia della nazione fondata sulla letteratura laica e d’impegno civile. Un periodo felice che comprende tutto il Quattrocento ma che è destinato a lasciare il posto, con i primi del Cinquecento, ad un’epoca di decadenza e di subordinazione della letteratura al potere ecclesiastico e l’inizio di una letteratura d’intrattenimento e di decadenza destinata a perdurare per tutto il ’600 e buona parte del ’700. Ora è proprio questa così stretta dipendenza della decadenza letteraria italiana dall’eclissi dello spirito laico che viene messa in discussione da Carlo Tenca in una serie di articoli comparsi a puntate nella rivista «Il Crepuscolo» tra il febbraio e il marzo del 18528 come recensione all’edizione ridotta del manuale di Giudici edita nel 1851 con il titolo di Compendio della storia della letteratura italiana. Gli articoli di Tenca volevano essere un’articolata recensione all’opera di Emiliani-Giudici, il riconoscimento dell’elemento di novità contenuto in questo Compendio ma ne divengono anche, in un certo senso, il superamento mediante lo spostamento verso un nuovo baricentro dell’impianto della nascente storia letteraria. Tenca non a caso mette in rilievo come lo studio della letteratura italiana nasce a partire da una crisi del presente e non si potrebbe dir meglio di come la fondazione del paradigma della storia della letteratura e la fondazione della futura comunità nazionale abbiano un’origine comune nel presente come crisi: L’età nostra, fu detto più volte, sembra più destinata a proporre i problemi e a formularli sotto il vero loro aspetto che non a risolverli e a fissare le leggi dell’arte futura. È questa la sorte comune delle epoche di crisi, in cui il pensiero restituito alla sua libertà ed alla sua potenza prova la necessità di riconcentrarsi in se medesimo.9
È evidente quanto la posizione di Tenca sia diversa dalle idee di EmilianiGiudici e tutta concentrata sulla mancanza dello spirito pubblico come origine della decadenza italiana. La forza identitaria della letteratura si riattiva, invece, ogni volta che gli autori si muovono nella prospettiva della creazione dello spirito pubblico, nella direzione di fare del pubblico un elemento interno all’oggetto letterario
8 9
Cfr. C. Tenca, Di una storia della letteratura italiana cit. Ivi, p. 291. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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stesso. Per Tenca la letteratura sarà nuova non solo per la presenza di nuovi contenuti ma soprattutto per la capacità d’inglobare al proprio interno la figura del lettore. Un esempio particolarmente pregnante di tale anticipata e precoce sociologia della produzione letteraria è la spiegazione tenchiana dell’assenza, nella prosa narrativa italiana, del romanzo d’argomento contemporaneo che ha invece fortuna nella letteratura inglese e francese dell’Ottocento. Con un’intuizione, quasi anticipatrice delle moderne teorie della ricezione, Tenca collega la visione della letteratura come «potenza d’entusiasmo» all’inaridimento di tale «entusiasmo» nella realtà civile italiana per mancanza di un’opinione pubblica e deduce quindi da tale osservazione l’impossibilità di una rappresentazione letteraria della vita contemporanea italiana. Tramite insopprimibile di tale visione della letteratura come «affetto e passione» è la figura femminile che «possente eccitamento d’entusiasmo, è meno colta da noi che negli altri paesi».10 La teoria del critico si spinge sino a cogliere una connessione tra una teoria degli affetti ed una teoria dei generi narrativi e può avanzare così un’ipotesi sulla mancata modernità del nostro romanzo, sulla sua incapacità di fondare un’identità nazionale se non sulla storia passata: Però l’affetto meno elevato e durevole, e più liberi i rapporti, e l’amore del bello e del grande che dalla donna si riflette in tutte le arti del pensiero, molle, impossente, perduto nella materialità delle sensazioni. E forse è perciò che ne manca la lingua viva, attuale, e che la letteratura italiana non può creare ancora altro romanzo che lo storico, inetta ad esprimere con forme vere e sentite la vita attuale della società.11
Per tornare in conclusione al mio titolo è chiaro che Tenca rappresenta l’estrema propaggine di tutta una generazione di critici ed intellettuali di formazione laica e liberale che tra gli anni ’40 e ’60 del secolo (e qui sarebbero da aggiungere i nomi di Mazzini e di Settembrini) si pose esplicitamente il problema di «istituire una coscienza moderna attraverso la letteratura riconoscendo ancora, nella tradizione letteraria, uno dei luoghi principali di rappresentazione e di autoriflessione», come afferma Raimondi in Letteratura e identità nazionale.12 In Emiliani-Giudici, invece, il riferimento al canone, alla tradizione letteraria non avveniva senza una scelta ancora condizionata dalla polemica d’inizio secolo tra classici e romantici e soprattutto mancava quella costruzione attraverso la letteratura di una coscienza dell’identità nazionale che può far affermare, con intuizione precoce, a Tenca che «l’esistenza politica d’una nazione non è che uno dei vari elementi che concorrono a dar forma al suo sviluppo.13
10
Ivi, p. 286. Ibidem. 12 Cfr. E. Raimondi, Letteratura e identità nazionale, Milano, Bruno Mondadori 1998, p. 22. 13 C. Tenca, Di una storia…, p. 326. 11
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E proprio per «dar forma» alla tradizione letteraria in funzione del presente nasce la Storia della letteratura Italiana di De Sanctis. Nasce, cioè, dalla scelta consapevole di dare un carattere concreto all’ideale e quindi di superare la crisi di legittimità della coscienza italiana poiché «l’ipocrisia religiosa, la prevalenza delle necessità politiche, le abitudini accademiche, i lunghi ozii, le reminescenze d’una servitù e abbiezione di parecchi secoli, gl’impulsi estranei soprapposti al suo libero sviluppo, hanno creata una coscienza artificiale e vacillante».14 Avviene così che la rilettura della tradizione italiana in De Sanctis supera la troppo stretta rispondenza tra la serie letteraria e quella storica per partire dal carattere filosofico concreto dell’ideale sino ad articolare la dualità cosmopolitismo/identità nazionale in funzione della costruzione della coscienza letteraria italiana moderna: La nuova letteratura, rifatta la coscienza, acquistata una vita interiore emancipata da involucri classici e romantici, eco della vita contemporanea universale e nazionale come filosofia, come storia, come arte, come critica intenta oggi a realizzare sempre più il suo contenuto, si chiama ed è la letteratura moderna.15
Quanto quest’esito finale, questa letteratura italiana moderna, come esito di tutto un disegno storico di fondazione della coscienza nazionale fosse molto meno pacificato di quanto sembri era d’altronde evidente allo stesso De Sanctis che concludeva non a caso il suo manuale su Leopardi, autore individuato come corifero del vero e di un pessimismo attivo e attento a fare della letteratura un’inequivoca denuncia dei limiti della realtà politica italiana. E certo molto problematico continua ad apparire anche a noi che non possiamo guardare quest’esito che con gli occhi dell’angelo delle Tesi sulla Filosofia della Storia di Walter Benjamin, «un angelo che ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese e il viso rivolto verso il passato. Dove ci appare una catena di eventi egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi».
14 15
F. De Sanctis, Storia della Letteratura Italiana, Torino, Einaudi 1981, p. 274. Ivi, p. 973. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
DAL PIEMONTE ALL’ITALIA
ALESSANDRO MERCI Gozzano lettore di Dante
«Figurati che leggo la Divina Commedia. Si può dire che è la prima volta in vita mia. Ci sono dei bei versi. Quel Dante Alighieri non era mica una bestia». Così scriveva nel 1907 all’amico Carlo Vallini il ventiquattrenne Guido Gozzano,1 fornendoci alcuni indizi importanti sulla natura dei suoi rapporti col padre della nostra letteratura. L’amore di Gozzano per Dante – se di amore si può parlare – non risale agli anni tormentati della scuola o dell’adolescenza, durante i quali la lettura della Commedia è anzi subita dal poeta con un certo fastidio (come non ricordare il «pedagogo fiacco» che alterna «la sciattezza del comento» «alla presa di tabacco» e «la scolaresca muta che si tedia» della lirica Dante, poi esclusa dalle raccolte ufficiali?);2 esso è frutto di un recupero successivo, a cui lo scrittore è spinto tanto dalle lezioni universitarie di Arturo Graf e dalle numerose iniziative dantesche organizzate dalla Società di Cultura di Torino, a cui prendevano parte intellettuali di prim’ordine come Isidoro del Lungo, Guido Mazzoni e Dino Mantovani, quanto dalla lettura dei suoi poeti preferiti, Pascoli e D’Annunzio, i cui versi e le cui opere in prosa sono ricchi di riferimenti e richiami danteschi. La lettura attenta della Commedia, anzi il suo «studio disperato» com’ebbe a dire leopardianamente il poeta,3 risale insomma al 1907-1908: lo testimoniano alcune importanti lettere4 e il
1
La lettera, oggi dispersa, non è contenuta nella raccolta Lettere a Carlo Vallini, Torino, Centro Studi Piemontesi 1971, ma è citata da Carlo Calcaterra nel suo volume Con G. Gozzano e altri poeti, Bologna, Zanichelli 1944, p. 34. 2 G. Gozzano, Poesie, Milano, Rizzoli 2004, p. 390. 3 Così in una lettera citata da M. Guglielminetti, Spogli danteschi e petrarcheschi di Guido Gozzano, «Otto/Novecento», marzo-aprile 1982, n. 6, pp. 169-258, in cui il poeta parla della propria poesia «malata fino ai remoti anni di clorosi pascoliana e dannunziana», «risanata poi da uno studio disperato di Dante e Petrarca, annotando, vagliando, soppesando le parole necessarie alla sua tavolozza» (p. 169). 4 Oltre a quella già citata al Vallini, del 28 aprile 1907, si ricordino almeno un’altra missiDal Piemonte all’Italia
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cosiddetto quaderno dantesco, pubblicato da Marziano Guglielminetti e Mariarosa Masoero, sul quale Gozzano ha trascritto, in modo non sempre fedelissimo, più di mille versi del «sacrato poema».5 Questo tipo di lettura mostra come Gozzano si sia avvicinato a Dante più per ragioni tecnico-stilistiche che per motivi di affinità spirituale; in questo senso ha ragione Angela Casella quando scrive che «Dante non è mai stato, in alcun periodo della formazione intellettuale del poeta, né un idolo, né un modello»;6 è stato soprattutto uno strumento formidabile della sua officina poetica, che ha favorito la piena maturazione artistica e l’acquisizione di una propria cifra stilistica. La lettura di Dante, e con lui di Petrarca e di Leopardi, ossia dei massimi poeti della nostra tradizione, interviene infatti negli anni cruciali di passaggio tra La via del rifugio (1907), ancora impregnata di spiriti carducciani, pascoliani e soprattutto dannunziani, e I colloqui (1911), l’indiscusso capolavoro del poeta torinese.7 I frutti di questi studi saltano agli occhi anche di un lettore non particolarmente avvertito, sotto forma ora di citazione dichiarata, ora di richiamo più o meno aperto, ora di allusione cifrata. La presenza di tali richiami intertestuali è stata subito notata dalla critica, e si è via via allungato nel corso degli anni l’elenco dei riferimenti e delle fonti, ma sul loro significato e sulla loro natura si sono registrate divisioni e fraintendimenti.
va, sempre al Vallini, del 7 febbraio 1908 («Da una parte l’abulia e l’impotenza verbale e metrica e dall’altra un’incontentabilità morbosa che mi fa parere una schifosità anche la Divina Commedia») e la lettera a Francesco Chiesa del 7 gennaio 1908 («Sono tanto ignorante, illustre Signore! […] Tanto che ho ripreso a commentare Dante accuratissimamente: credo non esista rimedio migliore per un poeta»). Sull’importanza delle sue letture dantesche (e petrarchesche) Gozzano tornerà orgogliosamente anche più tardi, in una lettera a Salvator Gotta del 1916: «E fra tanti consentimenti e lodi immeritate (e che si scontano poi) sono orgoglioso di questo, d’aver dirozzato sul Canzoniere e sulla Divina Commedia il mio analfabetismo di beota subalpino». 5 M. Guglielminetti e M. Masoero, Spogli danteschi e petrarcheschi di Guido Gozzano cit. Non tutti i versi annotati sono poi usati nelle poesie, mentre ne compaiono altri non trascritti. 6 A. Casella, Le fonti del linguaggio poetico gozzaniano, Firenze, La Nuova Italia 1982, p. 16. Indubbiamente eccessive, anche se tese a sottolineare questo aspetto del dantismo gozzaniano, risultano invece le affermazione di Gaetano Mariani: «Dante e Petrarca rimangono più vezzo intellettuale che effettiva ricerca di un’intima educazione letteraria, cari poeti sfogliati e in qualche parte assimilati sulla terrazza a mare di S. Giuliano d’Albaro o pigramente interrogati nei lunghi pomeriggi estivi in “una dolcezza tenera” tra “il ritmo del torrente” e “il canto lontano dei montanari”, nelle ville di Agliè o di Bertesseno: nulla di estremamente impegnativo né sul piano umano (dove ben altre erano le preferenze di Gozzano) né sul piano culturale», L’eredità ottocentesca di G. e il suo nuovo linguaggio, in Id., Poesia e tecnica nella lirica del Novecento, Padova, Liviana 1958, p. 34. 7 Di un vero e proprio «salto di cultura» tra le due raccolte parla G. Savoca, La letteratura italiana. Il Novecento, Bari, Laterza 1976, p. 339. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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Alcuni, come Giuseppe Villaroel e Bruno Porcelli, hanno parlato senza mezzi termini di «furterelli», di «raccogliticci», di «plagi», di «parassitismo letterario» perfino,8 giungendo a censurare ferocemente la parodia dantesca dell’Ipotesi come «vera e propria profanazione dell’arte»;9 altri, come Carlo Calcaterra, hanno visto nel ritorno ai classici Dante e Petrarca una sana reazione alla «tabe» dannunziana;10 altri infine, come la già citata Angela Casella, hanno ricondotto il gusto gozzaniano della citazione al preziosismo liberty, all’amore preraffaellita delle gemme antiche, alla passione per i mosaici e gli intarsi propria della letteratura decadente, e in particolare di D’Annunzio. È evidente che di questione cruciale si tratta e che aderire all’una o all’altra di queste tesi implica un giudizio differente sul significato dell’intera opera gozzaniana. Il problema delle citazioni non è insomma materia da eruditi o da anacronistici cercatori di fonti, ma rappresenta il cuore stesso del «problema» Gozzano, come ha riconosciuto Walter Boggione in un suo recente volume.11 Anche senza offrire una schedatura completa delle citazioni e delle allusioni dantesche all’interno dei Colloqui, per la quale si rimanda ai meritori lavori di Angela Casella e Aldo Vallone,12 penso possano bastare pochi esempi a mostrare come la citazione gozzaniana, lungi dal costituire un plagio o un furto, rappresenti qualcosa di più di un semplice preziosismo, essendo il mezzo principale attraverso cui Gozzano veicola il suo complesso discorso critico sulla letteratura. Le citazioni di Gozzano acquistano il loro sapore inconfondibile dal contrasto che si genera tra il contesto, solitamente alto e sublime, da cui sono tratte, e la realtà borghese, quotidiana e anti-eroica, in cui si trovano calate; servono insomma a generare, attraverso l’incontro di aulico e prosaico, quelle «scintille» di cui parlava Eugenio Montale nel suo articolo Gozzano, dopo trent’anni.13 L’incontro si fa spesso più stridente e dà i suoi frutti migliori in fine di verso: non solo «Nietzsche» rima con «camicie», come ormai noto a tutti, ma anche le «speranze buone», tratte da Inf. VIII, rimano con un «decamerone» fatto di «mime crestaie fanti cortigiane»
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G. Villaroel, I mosaici di G. Gozzano, in «L’Osservatore politico letterario», III (1957), 7; Id., I furterelli di G. Gozzano, in «Il Giornale d’Italia», 6 novembre 1960; B. Porcelli, Gozzano e Maeterlinck, ovvero un caso di parassitismo letterario, in «Belfagor», XXIII (1969), 6; Id., Gozzano, originalità e plagi, Bologna, Pàtron 1974. 9 G. Villaroel, I mosaici di G. Gozzano cit., p. 70. 10 C. Calcaterra, Modi petrarcheschi nell’arte del Gozzano, in «Studi petrarcheschi», I (1948), pp. 213-223; Id., Della lingua di G. Gozzano, Bologna, Minerva 1948. 11 W. Boggione, Poesia come citazione. Manzoni, Gozzano e dintorni, Alessandria, Edizioni dell’Orso 2002. 12 A. Casella, Le fonti del linguaggio poetico gozzaniano cit.; A. Vallone, Dantismo di Gozzano, in Id., Aspetti della poesia contemporanea, Pisa, Nistri-Lischi 1960, pp. 172-177. 13 E. Montale, Gozzano, dopo trent’anni, in «Lo Smeraldo», V (1951), 5, p. 5. Dal Piemonte all’Italia
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nella lirica Convito; la «bocca che tacendo disse: Taci!», reminescenza di Purg. XXI, risponde ai «baci» dell’amante del momento nel Gioco del silenzio; le «temperate spese» di Inf. XXIX servono ad augurare una «vita piccola e borghese» in Torino; la «sempiterna primavera» di ascendenza paradisiaca (Par. XXVIII, 116) fa coppia con il Tropico «di maniera» in Paolo e Virginia; e ancora, sempre nello stesso poemetto, il «miserere» del primo canto dell’Inferno si specchia nell’«aridità larvata di chimere» che chiude il componimento; per non parlare di Cocotte, dove a far «mala prova» non è più la natura come in Par. VIII, bensì il cosmetico della donna ormai anziana; «prova» che oltretutto rima con «alcova». Il richiamo intertestuale non serve insomma a impreziosire il dettato, ma a denunciare l’inattualità della tradizione e a mostrare, grazie al corto circuito alto-basso, la falsità e l’inautenticità della letteratura. La poesia gozzaniana è stata letta troppo a lungo esclusivamente in chiave antidannunziana, di reazione al «sogno esasperante e miserevole» di Andrea Sperelli e dell’estetismo;14 la polemica del poeta ha però, a ben vedere, una portata ancora maggiore, e riguarda lo status e la legittimità stessa della letteratura in genere, sempre più percepita come inganno, menzogna, falsificazione. L’intera tradizione lirica italiana, nei suoi vertici rappresentati dalla triade Dante-Petrarca-Leopardi, è messa in discussione e accusata di inautenticità, in modo forse meno evidente e corrosivo di quanto avviene nei confronti di D’Annunzio, ma con maggiore sottigliezza e ironia. Sono infatti le parole stesse della tradizione, smontate e riassemblate con una sapiente tecnica a metà tra mosaico e intarsio, a denunciare l’inganno della poesia: questa è percepita infatti dal Gozzano maturo come uno schermo che impedisce di aderire al reale, come una bella menzogna di cui solo la prospettiva mortuaria in cui lo scrittore è entrato rivela tutta la miseria. Verso i grandi autori del canone Gozzano mostra un rapporto ambivalente, di amore-odio, ed è con dolore che ne prende le distanze attraverso il medium dell’ironia, come riconosciuto dalla parte più avvertita della critica, da Edoardo Sanguineti a Walter Boggione ad Angelo Jacomuzzi.15 I Colloqui rappresentano in questo senso quasi un addio alla
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Così il poeta nei versi A Massimo Bontempelli, in Id., Poesie cit., p. 318. Tra le letture della poesia gozzaniana in rapporto a D’Annunzio si segnalano per intelligenza critica le pagine di Edoardo Sanguineti in Tra liberty e crepuscolarismo, Milano, Mursia 1977 e in Guido Gozzano. Indagini e letture, Torino, Einaudi 1975. 15 Già Edoardo Sanguineti parlava di «ambivalenza affettiva, tra consenso patetico e critico distacco» e di una «dialettica di partecipazione e ironia», Guido Gozzano. Indagini e letture cit., pp. 24-25. Una tesi analoga è sostenuta in modo convincente per quanto riguarda i rapporti con la poesia dannunziana da Walter Boggione: W. Boggione, Poesia come citazione. Gozzano attraverso D’Annunzio, in Id., Poesia come citazione cit., pp. 75-89. Si veda in particolare quanto l’autore scrive a p. 78: «Per Gozzano non v’è spazio alcuno per emulare i sommi modelli del passato, senza la mediazione distruttrice dell’ironia: ogni imitazione, nel tempo attuale, assuI. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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letteratura, dopo il quale non potrà esserci che il silenzio, o il «rituale arcadico (per gioco!)» delle Farfalle.16 L’arte gozzaniana si nutre di ironia – sarebbe un errore fatale prendere sul serio certo spiritualismo o certo romanticismo affiorante qua e là tra i versi del poeta –, e questa raggiunge l’apice nell’uso straniante della citazione proprio dei Colloqui. Gozzano non ricorre alle parole altrui per appoggiarsi a un’autorità o inserirsi nel solco di una tradizione, e nemmeno per omaggiare presunti maestri, bensì per rivelare l’inganno delle loro trasfigurazioni e dei loro sogni poetici. Così, limitandoci al versante dantesco oggetto di questo studio, a «trasumanare» sono soltanto le amanti del poeta nel ricordo tutto laico e immanente della poesia Convito e il «non son colui, non son colui che credi» dell’Onesto rifiuto non prelude ad alcuna riflessione sulla Chiesa e sulla corruzione ma si abbassa a semplice avvertimento ad una donna «curiosa» di lui. Analogamente, «le dritte vie» di Torino hanno perso l’accezione morale che avevano in Dante per diventare «corrusche di rotaie», e a saper «quel che si tace» non è più Virgilio bensì una borghesissima «cara mamma» (In casa del sopravvissuto). Una presenza particolarmente fitta di richiami più o meno evidenti alla Commedia si riscontra poi – lo notava anche Gianfranco Contini –17 nella
me, a dispetto delle intenzioni di chi scrive, la forma della parodia»; «la citazione è lo strumento di una presa di distanza, determina un analogo effetto di straniamento. […] È non una forma di competizione, né tanto meno di omaggio, ma di sottile perfidia, e per ciò stesso volentieri si presenta come una ricombinazione di modelli letterari diversi». In modo analogo si esprime Angelo Jacomuzzi nel breve intervento Gozzano e la tradizione citata, raccolto negli atti del convegno Guido Gozzano, I giorni, le opere, Firenze, Olschki 1985, pp. 131-134: «Il rapporto che il poeta intrattiene con i modelli della tradizione non è dunque mai la attualizzazione, è al sicuro da ogni tentativo di rinnovamento della situazione letteraria attraverso processi di imitazione. Gozzano non stabilisce solidarietà, non cancella le differenze, ma ne acuisce la consapevolezza mostrando gli esempi del passato come presenze “citate”. La spia stilistica di questa consapevolezza è appunto la citazione, che ha quasi sempre la funzione di chiamare a testimonianza una diversità»; meno convincente invece appare l’autore quando sostiene che nello scontro tra realtà piccolo-borghese e tradizione sublime il poeta stia «dalla parte dell’Inferno dantesco e […] per la sua intatta persistenza» (p. 133); non mi pare che persistenze siano possibili. Ancora più fantasiosa mi pare poi la tesi sostenuta da Bruno Porcelli nel suo capitolo dedicato ai Dantismi nella produzione in versi (Gozzano. Originalità e plagi cit., pp. 83-96), secondo cui l’interesse di Gozzano per Dante sarebbe da ricondurre al comune «gusto dell’indefinito» e al «senso dell’evasione dal reale» (pp. 92-93). 16 Poesie cit., p. 248. Dante si ritrova anche nell’incompiuto poemetto Le farfalle (solo per fare qualche esempio: «insensate cure», «mal soffrendo il velen dell’argomento», «lento volgendo ad or ad or la testa», «che tengono del musco e del macigno», «per non perder pietà si fa spietata»), ma in esso appare «rivisto ed adattato secondo codici didascalici e georgici» (M. Guglielminetti, Spogli danteschi… cit., p. 173), rimanendo comunque secondario rispetto a un Maeterlinck o a un Lorenzo Mascheroni. 17 G. Contini, Letteratura dell’Italia unita, Firenze, Sansoni 1968, pp. 643-656. Dal Piemonte all’Italia
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Signorina Felicita, a partire dal gioco di parole sul nome della protagonista, «Oh veramente Felicita…felicità!», suggerito al poeta, una volta accantonata definitivamente l’idea della signorina Domestica, dal «padre suo veramente Felice!» di Par. XII: nel corso del poemetto incontriamo poi «la tua semplice vita», riferito originariamente ad Arrigo III d’Inghilterra (Purg. VII, 130); «quel tuo voler piacermi», variazione delle parole pronunciate da Cunizza da Romano in Par. IX, 14; «per far di sé favoleggiare altrui», modellato su Par. II, 51 («fan di Cain favoleggiar altrui»); «che fa la vita simile alla morte», probabile riecheggiamento del «viver ch’è un correre alla morte» di Purg. XXXIII, 54; l’espressione «mi avevano in dispregio», che oltre a ricordare il «dir chi tu se’ non avere in dispregio» di Inf. XXIII, presenta la stessa rima con «collegio»; «l’altra riva» come perifrasi per indicare il regno dei morti (Inf. III, 86); ancora, il «rifugio luminoso e alto» ricorda il «luogo aperto, luminoso e alto» del Limbo in Inf. IV, 116, come «i colli dilettosi» rappresentano una versione dimessa del «dilettoso monte» di Inf. I, 77. A questo si aggiunga la ripresa della rima «strozza-mozza» (Inf. XXVIII, 100-103), e lo slittamento semantico dell’espressione «s’apprende», che non riguarda più l’amore come in bocca a Francesca nel V dell’Inferno, bensì il «male» inguaribile della letteratura L’abbassamento del dettato dantesco, realizzato sempre con leggerezza e ironia, raggiunge i suoi esiti migliori nella lirica Invernale e nel poemetto L’ipotesi. Nella prima il poeta descrive con le parole che Dante aveva riservato al lago di Cocito nel basso Inferno («crosta», «vetro», «larghe rote», il «folle accordo», la stessa onomatopea «cri…i…i…i…i…ch» con cui si apre la poesia) una pattinata sul ghiaccio insieme alla donna amata, per affiancare all’ironia contenutistica evidente anche a un lettore ingenuo – la prova di iniziazione non superata – una più profonda ironia stilistica, fruibile solo da un lettore colto e smaliziato, in grado di apprezzare lo slittamento borghese che la parola dantesca subisce, e godere così maggiormente la sensazione straniante che tale slittamento produce. Analogamente, il finale dell’Ipotesi, con la riscrittura parodica della favola di Ulisse «ad uso della consorte ignorante», può essere goduto soltanto da chi abbia presente sia il testo dantesco, esplicitamente richiamato («Ma né dolcezza di figlio, / né lagrime, né la pietà / del padre, né il debito amore / per la sua dolce metà / gli spensero dentro l’ardore / della speranza chimerica», vv. 127-133),18 sia l’attualizzazione che ne aveva proposto D’Annunzio in Maia pochi anni prima (1903). Ulisse, emblema nobile e tragico della sete di conoscenza secondo Dante e prototipo del Superuomo per D’Annunzio, viene degradato a semplice avventuriero, pronto ad emigrare in America alla ricerca di sesso e denaro. Non è un semplice scherzo, né soltanto un episodio fra i tanti della polemica antidannunziana: è la liquidazione di un mondo, la rinuncia ad ogni trasfigurazione mitica e il riconoscimento della natura prosaica del presente.19
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Ivi, p. 364. La «decisiva importanza» di questo brano è stata già riconosciuta da molti, in particolare da Angelo Jacomuzzi, Gozzano e la tradizione citata cit., p. 133. 19
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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Il tempo degli eroi è finito, e con esso il tempo di certa letteratura, o forse della letteratura tout-court, se letteratura e menzogna tendono a coincidere nella mente del poeta. In quest’opera di critica della tradizione letteraria la citazione e il richiamo intertestuale rivestono un ruolo di primissimo piano. Il dantismo, il petrarchismo o il leopardismo di Gozzano acquistano così un carattere peculiare ben diverso da quelli degli scrittori ottocenteschi.20 Nel XIX secolo la citazione rappresentava infatti prevalentemente un omaggio, e aveva di solito un carattere celebrativo, con tutti i rischi di caduta nella retorica che questo comportava; rischi che, per quanto riguarda Dante, erano incrementati dalle letture patriottiche e risorgimentali, talvolta vere e proprie mistificazioni, che facevano del poeta della Commedia l’araldo dell’unità italiana, il fustigatore di tutte le divisioni e il nemico giurato di ogni ingerenza ecclesiastica.21 A questo costume diffuso che interessò autori quali il giovane Leopardi, Mazzini, Rossetti e Carducci,22 solo per citarne alcuni, si sostituì verso la fine del secolo l’atteggiamento più libero e spregiudicato di Gabriele D’Annunzio, per lasciare da parte quella «singolare aberrazione» – così il Croce – che fu il dantismo pascoliano.23 Gozzano è certamente loro debitore per il ricorso alla pratica intertestuale, anzi per la stessa lettura attenta dei classici, come già accennato, ma supera ben presto il loro gusto preraffaellita della parola rara e della voce antica grazie all’ironia. In Gozzano non è più possibile alcuna identificazione col classico; la tradizione è diventata per lui un immenso repertorio di forme ormai vuote, morte,24 da usare giocosamente per i propri travestimenti.25 La nuova poesia può fiorire soltanto 20 In proposito, il bel saggio di M. Guglielminetti, Con Dante attraverso il Novecento, in Id., Petrarca fra Abelardo ed Eloisa e altri saggi di letteratura italiana, Bari, Adriatica Editrice 1969, pp. 291-328, in particolare pp. 297-300, in cui vengono riconosciute l’originalità e la modernità dell’operazione gozzaniana, fino a individuare in essa un punto di passaggio fondamentale tra Ottocento e Novecento. 21 G. Mazzini, Dell’amor patrio di Dante, Ancona, Stab. Tip. Cooperativo 1921. 22 Ho già trattato più distesamente il tema nell’articolo Dante nella poesia italiana tra ’800 e ’900. Note sull’intertestualità da Carducci a Gozzano, in «S.P.C.T.», XLI (2011), 82, pp. 183-198. Sul rapporto Carducci-Dante ha scritto pagine significative Umberto Carpi nel suo recente Giosue Carducci. Politica e poesia, Pisa, Edizioni della Normale 2011, sottolineando le difficoltà procurate a Carducci dal contrasto tra l’ammirazione estetica e le riserve politiche e ideologiche verso la Commedia. 23 «La Critica», V (1907), 1, p. 101. 24 Se ne era già accorto Edoardo Sanguineti: «La lingua della tradizione è per questo poeta proprio una lingua morta, cui non è dato concretamente aderire e candidamente consentire, di cui non è più possibile avvalersi come di uno strumento in certo modo naturale, connaturato. Il divorzio tra l’arte e la vita, tra la letteratura e la natura, si rispecchia, anzi, in primo luogo nel linguaggio», Guido Gozzano cit., p. 24. 25 La poesia di Gozzano potrebbe essere interpretata nella sua interezza, e con qualche utilità, in chiave di «travestimento». Si pensi soltanto alla poesia L’esperimento.
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sulle rovine della poesia passata, nutrendosi di essa non per povertà di mezzi espressivi o mancanza di fiducia nella propria voce – già Montale riconosceva anzi che la poesia di Gozzano «è stata non la più ricca e la più nuova, ma la più “sicura” di quegli anni»26 –, ma per riflettere sulla natura e i limiti della letteratura stessa. La poesia di Gozzano è sempre anche meta-letteratura, e si avvale degli innumerevoli reperti impolverati del museo della tradizione per costruire una critica giocosa, ma niente affatto innocua, alla letteratura stessa. È evidente che una simile poesia, colta e raffinata, capace di usare gli strumenti tecnici dell’arte contro l’arte stessa, oltre che destinata a pochi intenditori, è di necessità la poesia di una stagione soltanto, di un unico libro, I colloqui, appunto. Un libro che solo il passare degli anni ha saputo isolare e sollevare dalle coeve raccolte crepuscolari di Corazzini, Moretti, Govoni, Chiaves, Martini o Palazzeschi,27 e di cui solo recentemente si è compresa appieno la profondità e la modernità: l’uso decostruzionista della citazione praticato assiduamente da Gozzano, specialmente nei Colloqui, rappresenta infatti un’anticipazione notevole di molti esperimenti post-moderni, e rivela una consapevolezza e una chiaroveggenza inaudite per quegli anni.28 Le scintille che le citazioni dantesche provocano, facendo incontrare, anzi scontrare, tradizione sublime e prosaica realtà borghese, rappresentano per molti versi i primi bagliori della nostra inquieta e amara contemporaneità.
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E. Montale, Gozzano, dopo trent’anni cit., p. 5. Il primo a parlare di Guido Gozzano senza i crepuscolari è stato Pietro Pancrazi in un suo articolo recante questo titolo, «Pan», dicembre 1933, pp. 30-40; anche Contini ha rimarcato il posto particolare che spetta a Gozzano nella letteratura crepuscolare (Letteratura dell’Italia unita cit., pp. 635-637). 28 Di «spaventosa chiaroveggenza» parlava d’altra parte Gozzano stesso nell’autoritratto travestito di Totò Merùmeni (Poesie cit., p. 214). 27
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
MARINA PAINO Amalia Guglielminetti (n)e(l)la poesia di Gozzano
L’irrisolto rapporto di Guido Gozzano con le muse dei suoi versi (sempre a vario titolo inaccessibili o, in alternativa, da lui apertamente rifuggite) ha il suo momento di più sofferto cortocircuito tra vita e letteratura nella relazione instaurata a partire dal 1907 con Amalia Guglielminetti.1 È un rapporto letterario assai complesso questo tra Amalia e Guido, tra i più singolari e sfaccettati del nostro Novecento, visto che lei, poetessa in proprio, diviene presto anche ispiratrice e testimone della scrittura gozzaniana, e diviene fantasma lirico all’interno di essa (al pari di Carlotta, al pari di Felicita), pur restando allo stesso tempo anche donna reale che insegue vanamente il suo Guido. L’idea della femminilità, naturalmente fondamentale per lei e ossessivamente cruciale nell’universo lirico di lui, si pone a vario titolo sempre al centro di questa articolata liaison, i cui documenti (lettere, poesie, recensioni, ritratti) fanno infatti da supporto ad una specifica riflessione di entrambi sull’immagine e sul ruolo della donna. In tal senso Amalia diviene una sorta di catalizzatore dell’immaginario poetico femminile di Guido, interagendo da subito con le principali dinamiche semantiche di esso; tra l’uno e le altre si instaura una fitta rete di rimandi i quali prendono le mosse dall’interno e dall’esterno di quella poesia, grazie proprio all’ambigua collocazione di Amalia che si pone, da ammirata lettrice, in dialogo con i versi gozzaniani, ma anche dentro quei versi come vero e proprio personaggio. Più che quello tra Amalia e Guido, il rapporto letterariamente rilevante e denso di implica-
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Su questo complesso rapporto cfr. M. Guglielminetti, La musa subalpina. Amalia e Guido, Pastonchi e Pitigrilli, Firenze, Olschki 2007; nonché le specifiche riflessioni contenute in E. Gioanola, Gozzano: la malattia e la letteratura, in Guido Gozzano. I giorni, le opere, Atti del Convegno nazionale di studi (Torino, 26-28 ottobre 1983), Firenze, Olschki 1985, pp. 334 e ss., e in A. Piromalli, Le non godute, ivi, pp. 187 e ss. Dal Piemonte all’Italia
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zioni è del resto proprio quello tra Amalia “e” la poesia di Guido, rapporto che, nel segno della trasfigurazione lirica di lei, si salda fecondamente alla stessa presenza del suo fantasma “nella” poesia di lui. Amalia è così una protagonista dei versi gozzaniani e insieme un’interlocutrice (soprattutto epistolare) del poeta con la quale discutere di altre figure femminili, in una stretta coesione tra poesia ed epistolario rafforzata dal fatto che anche nelle lettere Gozzano tende a trattare la sua corrispondente quale figura ideale più che persona reale. L’Amalia delle lettere si presta pertanto ad essere considerata quasi un personaggio letterario (in fondo non così distante dalla propria proiezione poetica nei versi dei Colloqui), in virtù dell’impronta artificiosa che, soprattutto Guido, ha voluto dare alla loro corrispondenza e di conseguenza al loro rapporto. Per segnare qualche nota ulteriore a margine degli studi sul rapporto tra Amalia e Guido, converrà anzi prendere le mosse proprio dal loro epistolario, nel tentativo di mettere a fuoco alcuni specifici elementi di questo lungo dialogo tra realtà e finzione, lettere e poesia. Come si conviene tra due poeti, il loro primo contatto epistolare avviene sotto le insegne della poesia in occasione di un reciproco scambio delle rispettive raccolte appena pubblicate (La via del rifugio e Le vergini folli). Emerge da subito una propensione di entrambi a fare propri i motivi poetici dell’altro, come in una ricerca di vicinanza che di fatto, anche in seguito, avrà in letteratura il suo unico esito. Nel leggere la raccolta ricevuta da Gozzano, Amalia punta non a caso immediatamente l’attenzione sul motivo dell’«ebbrezza folle del sogno»,2 quasi a voler attirare le tematiche gozzaniane nell’orbita lessicale delle sue Vergini, appunto «folli»; e, per parte sua, nel ricambiare l’apprezzamento per i versi della Via del rifugio espressogli dalla collega, il poeta le risponde con la notissima lettera in cui, sulla scorta delle poesie della Guglielminetti, egli si dilunga sulla bistrattata figura della «Signorina» che di lì a poco affascinerà prepotentemente anche il suo immaginario.3 Significativamente, tra i diversi tipi di fanciulle da lui individuate nelle liriche della Guglielminetti, egli si sofferma in particolare su quella che «si strugge nel sogno di un’attesa vana»,4 il sogno cioè della vana attesa dell’amore, come in un’istintiva solidarietà di tipo autoreferenziale indirettamente evocante la propria stessa visione dell’amore e del rapporto con la donna. Ma in realtà anche gli antefatti, poi rievocati per lettera, di questa conoscenza poetica tra i due, hanno a propria volta a che fare con l’immaginario femminile gozzaniano; e così, mentre lui le rac-
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Cfr. la lettera di Amalia Guglielminetti del 13 aprile 1907, in Lettere d’amore di Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti, pref. e note di S. Asciamprener, Milano, Garzanti 1951, p. 27. L’epistolario tra i due poeti è ora leggibile anche in S. Raffo, Lady Medusa. Vita, poesia e amori di Amalia Guglielminetti, Milano, Bretti 2012. 3 Cfr. la lettera di Guido Gozzano del 5 giugno 1907, ivi, pp. 29-30. 4 Ivi, p. 30. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
Amalia Guglielminetti (n)e(l)la poesia di Gozzano
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conta di avere a lungo disquisito con gli amici del circolo (e in termini non del tutto lusinghieri) sulla fama di lei e sulla sua condizione di donna e di intellettuale,5 Amalia gli confessa di essere stata gelosa per un parere poetico su una lirica, chiesto un giorno, sempre al circolo, da lui ad altri piuttosto che a lei:6 quella lirica era Il responso, il componimento della Via del rifugio incastonato tra Le due strade e L’amica di nonna Speranza che vede al centro appunto una figura di donna, l’«amica buona» cui l’io lirico chiede di leggere nel libro intonso della verità se l’amore sarebbe per lui arrivato. La strada di Amalia incrocia dunque da subito quella delle figure femminili di Gozzano, ed è lei stessa del resto ad accomunare Graziella alle proprie protagoniste,7 a confessare come la Madama Colombina della Via del rifugio sia ormai familiare a casa dei suoi,8 mentre Guido le scrive di ravvisare in lei una somiglianza con un’attrice famosa,9 esattamente come aveva detto in versi della protagonista di Un rimorso, penultima lirica della Via del rifugio, in cui, in una sorta di prefigurazione del rapporto con Amalia raccontava dell’amore di una donna («tanto simile ad una / piccola attrice famosa») da lui respinta in modo rude.10 Il fantasma di Amalia era dunque in qualche modo già dentro la poesia di Gozzano prima del loro stesso incontro, o forse è più corretto dire che è Gozzano a vestirla dei tratti di quel modello femminile da lui man mano definito in modo sempre più netto. Un’Amalia che egli plasma secondo il proprio copione, una creatura letteraria più che reale, mascherata sin da subito dietro schermi dannunziani e petrarcheschi: sulla
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Cfr. la lettera di Guido Gozzano del 10 giugno 1907, ivi, pp. 38-39. Cfr. la lettera di Amalia Guglielminetti del 7 giugno 1907, ivi, pp. 34-35. 7 In risposta alle considerazioni del poeta sulle figure rappresentate nelle Vergini folli (cfr. la lettera Guido Gozzano del 5 giugno 1907) Amalia infatti gli scrive: «Anche Voi avete una piccola dolcissima figura di fanciulla moderna in Graziella a cui vorreste affidare la vostra mano e compiere con lei l’ascesa, invece d’affaticarvi in recar con l’antica amica l’antica catena. Non sempre dunque vi è parsa tanto triste e ambigua la creatura ch’io amo e difendo», lettera di Amalia Guglielminetti del 7 giugno 1907, ivi, p. 34. 8 Nella lettera del 16 giugno 1907, Amalia scrive infatti al poeta: «Madama Colombina è diventata famigliare fra noi, e se qualcuna s’affaccia alla finestra, subito l’altra intona la «bella filastrocca»; ma s’aspettano invano «tre fanti sui tre cavalli bianchi», ivi, p. 44. 9 Nella lettera del 10 giugno 1907, in cui Gozzano le confessa di trovarla bella, si legge: «E precisamente di quella bellezza che piace a me […]; avete anche il profilo che piace a me, vestite come piace a me e camminate come piace a me – con l’eleganza un po’ stracca e un po’ trasognata della nostra massima attrice…», ivi, pp. 37-38. 10 In quella lirica della Via del rifugio, la donna respinta chiamava più volte l’io lirico per nome («O Guido! Che cosa t’ho fatto / di male per farmi così?»), circostanza che ricorrerà significativamente solo all’interno di una delle liriche ispirate da Amalia: «Oh! Guido! Tra di noi! / Pel mio dolce passato, / in giubba o in isparato / Voi siete sempre Voi…», Una risorta. Tutte le citazioni dalle liriche di Gozzano sono tratte dal volume di Tutte le poesie, testo critico e note a cura di A. Rocca, introduzione di M. Guglielminetti, Milano, Mondadori 1980. 6
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scia di altri la accosta infatti alla petrarchista Gaspara Stampa,11 e questo molto prima di nasconderla dietro la protagonista del componimento più esplicitamente petrarchesco dei Colloqui, e cioè Un’altra risorta, donna del passato paragonata nel finale a Laura (la donna interdetta per antonomasia, la donna che non si può avere). Altrettanto forte è la patina dannunziana che avvolge l’Amalia delle lettere di Gozzano,12 il quale mette in luce ad esempio nelle Vergini folli atmosfere da Vergini delle rocce, testo che tanto aveva suggestionato il suo immaginario poetico giovanile: lasciando infatti intravedere sullo sfondo l’attacco del romanzo dannunziano, nella lettera del 5 giugno 1907 Guido parla a proposito del libro di Amalia, della felice sensazione di essere ammessi in un giardino dove tra gigli e rosai una corte di vergini si fa avanti,13 vergini che attendono il loro Signore, come recitava il titolo di una sezione del volume della Guglielminetti dedicata appunto all’attesa dell’amore e dello sposo promesso. Aldilà della suggestione dannunzianeggiante, Gozzano comincia tuttavia allo stesso tempo a prefigurare la sua Amalia, protagonista di una mancata storia d’amore da lui plasmata con insensibile determinazione: come in un’anticipazione di quello che sarà descrive da subito gli occhi di lei come pieni di una dolcezza servile, «gli occhi di colei che s’inchina al despota Signore e gli tende i polsi febbrili e li vede cerchiare di catene, quasi godendone»;14 e nella stessa lettera le dice che la sua bellezza è per lui una qualità allontanante, così come quella «bella bocca, piuttosto grande e fresca e attirante come poche» (che sembra richiamare direttamente l’im-
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Cfr. la lettera di Guido Gozzano del 5 giugno 1907, in Lettere d’amore… cit., p. 32. Scrive Marziano Guglielminetti: «[Amalia] incarnava nei suoi versi e nel suo modo di fare quel tipo preraffaellita di vergine da profanare tanto caro a D’Annunzio prima delle Laudi. Ecco perché […] fu questa donna a diventare, d’ora in poi, l’ispiratrice pressoché unica della poesia di Gozzano: perché portava su di sé, vivente, le stigmate preziose e venerande della letteratura, allo stesso titolo che le portava, già nel nome goethiano, la fittizia Carlotta dell’Amica di nonna Speranza», Introduzione a G. Gozzano, Tutte le poesie cit., p. XX. Sulla stessa linea anche le considerazioni di Patrizia Menichi su Amalia: «[Gozzano] coglierà, nei suoi versi, solo quel tipo di creatura amante e ammaliatrice tanto caro a D’Annunzio al quale la Guglielminetti, nella sua persona, nel suo modo di fare e nei suoi libri dava corpo e figura. Per questa sua proiezione quale amante dannunziana […] Amalia, ed il rapporto di Gozzano con lei, tende ad iscriversi e ad identificarsi, così nelle poesie come nelle lettere, con le pagine del D’Annunzio, necessario ed ironico termine di riferimento», P. Menichi, Guida a Gozzano, Firenze, Sansoni 1984, p. 57. 13 Nella lettera si legge: «E il lettore ha l’impressione di essere per qualche istante ammesso in un giardino claustrale: ad ogni svolto di sentiero, fra i cespi di gigli e gli archi de’ rosai, una nuova coorte di vergini si fa innanzi cantando una nuova sorta di martirio o di speranza. Ella compie nel suo libro, Egregia Guglielminetti, quasi un vergiliato, e conduce il lettore attraverso i gironi di quell’inferno luminoso che si chiama verginità», lettera di Guido Gozzano del 5 giugno 1907, in Lettere d’amore… cit., p. 29. 14 Cfr. la lettera di Guido Gozzano del 10 giugno 1907, ivi, p. 37. 12
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portanza della sfera dell’oralità nella lirica gozzaniana), fino ad avvertirla anticipatamente che sarebbe arrivato ad essere rude con lei («Badate che il mio modo di pensare mi condurrà qualche volta a scrivervi cose di una rudezza tale da confinare con la sconvenienza… Sarete tanto superiore da perdonarmi?»).15 Sin dalle prime missive che i due si scambiano è dunque possibile rintracciare alcune vistose tracce della contiguità di Amalia con l’immaginario femminile che Gozzano aveva indipendentemente elaborato prima di conoscerla, e nel contempo pure cogliere anticipazioni epistolari di quello che Guido avrebbe fatto della sua Amalia e della storia, più letteraria che reale, imbastita con lei. Ma in realtà le lettere molto dicono anche di un altro aspetto centrale di questa controversa liaison letteraria, ovvero dell’interazione tra Amalia e la creazione di personaggi femminili da parte del poeta: in tal senso il momento di più importante tangenza coincide proprio con la genesi del più noto personaggio femminile gozzaniano, quella signorina Felicita originariamente Domestica da subito descritta ad Amalia con dovizia di particolari. E se Amalia partecipava agli occhi di Gozzano di un’indubbia aura dannunziana, la nuova creatura viene immediatamente iscritta ad una dichiarata anagrafe antidannunziana (il contesto in cui si muove è campagnolo – scrive Guido – da «2° atto della Figlia di Jorio», ma precisa che la nuova compagna non assomiglia affatto alla Mila di D’Annunzio).16 Il celebre incontro immaginario del poeta con Domestica/Felicita era stato preceduto da un soggiorno di questi ad Agliè Meleto, in riva ad un laghetto boschivo che – scrive Gozzano ad Amalia – «ha visto l’infanzia di mia madre e dove si può sognare qualche bel sogno umile».17 Il bel sogno umile con Domestica/Felicita, perfetta antitesi di Amalia (il poeta aggiunge infatti di avere grande nostalgia delle donne eleganti come lei),18 nasce dunque all’ombra del fantasma materno che dai versi giovanili di Primavere romantiche presiede all’elaborazione dell’intero immaginario femminile di Gozzano. E nella prima lettera in cui, senza ancora nominarla, parla di Domestica/Felicita ad Amalia il poeta mette esplicitamente in diretta relazione la presenza della nuova compagna con l’assenza della «Madre»: «questa è la servente che avrò fino a che non giunga mia Madre, dal mare. Perché sono solo, capite? Mia Madre è a Pegli, con mio fratello Renato, che abbisognava di bagni».19 La figura di Amalia intreccia così il proprio itinerario con quello di personaggi di invenzione e allo stesso tempo col fantasma materno cominciando a subirne l’ipoteca alla stregua di tante altre creature gozzaniane: da un lato tenta di trasformarsi lei stessa in personaggio (scrive a Guido di immaginarsi sul «sedile rustico» del
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Ivi, p. 40. Cfr. la lettera di Guido Gozzano del 3 agosto 1907, ivi, p. 47. 17 Cfr. ivi, p. 45. 18 Cfr. ivi, p. 48. 19 Ivi, p. 47. 16
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giardino con lui accanto: «intento ad ascoltarmi, presso a poco come se fossi la vostra ancella… un po’ ingentilita, spero, di vesti, di figura e di linguaggio»),20 ma, nel momento in cui annuncia al poeta la sua prima visita, lui le comunica: «sono felicissimo! […] vi aspetta anche mia Madre», e chiude la lettera con un «abbiatevi le cordialità di mia Madre».21 Va del resto notato che lo stesso rapporto epistolare tra Amalia e il poeta era nato quasi in subordinazione alla figura materna, posto che ad inizio della prima lettera di Guido presente nell’epistolario egli le precisa: «Non mi concederò che fra due giorni il piacere di scriverle. Perché è qui sulla spiaggia la mia Mamma […] che ripartirà domani sera».22 Il cortocircuito tra Amalia, Felicita/Domestica e l’ombra materna, inaugurato nella prima lettera in cui viene annunciata la conoscenza della «servente indigena e prosaicissima», continua significativamente anche nella successiva missiva in cui lui parla all’amica poetessa della Signorina. È quella inviata dal “materno” Meleto il 12 novembre 1907 e, come già accaduto, egli chiama ancora in causa l’assenza della genitrice: «mia Madre è via da più settimane ed io sono qui con l’ultime foglie. […] Sto meglio anche perché sono innamorato! Di una donna che non esiste, naturalmente! La signorina Domestica. […] È strano ch’io mi sia così cerebralmente invaghito di costei, mentre ho ancora nella retina la vostra moderna figura di raffinata. Forse è una reazione, una benefica reazione…».23 E questa contrapposizione tra Felicita/Domestica e la raffinata Guglielminetti, ribadita in termini ancora più espliciti nei versi dell’Ipotesi,24 si colora immediatamente in questa stessa lettera di riferimenti letterari dannunziani messi in relazione con Amalia: Guido le ricorda la responsabilità intellettuale che grava su di lei (così distante dalle modeste incombenze di Felicita)25 e la esorta con un «Fare bisogna, fare bisogna» citato a memoria dalla Fiaccola dannunziana, medesima esortazione che l’Amalia “altra risorta” a propria volta rivolgerà, nell’omonimo componimento dei Colloqui, all’io lirico di
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Lettera di Amalia Guglielminetti dell’8 agosto 1907, ivi, p. 49. Lettera di Guido Gozzano del 4 ottobre 1907, ivi, pp. 53 e 54. 22 Lettera di Guido Gozzano del 26 maggio 1907, ivi, p. 28. 23 Lettera di Guido Gozzano del 12 novembre 1907, ivi, pp. 60-61. 24 «Sposare vorremmo non quella che legge romanzi, cresciuta / tra gli agi, mutevole e bella raffinata e saputa / […] Ma quella che prega e digiuna e canta e ride, più fresca / dell’acqua, e vive con una semplicità di fantesca». 25 «Ritroverete la mia Bella tra l’odore del caffè tostato, della lavanda, della carta da bollo e dell’inchiostro putrefatto» scrive il poeta ad Amalia, da lui chiamata ad un compito assai diverso: «Siete l’unica donna dalla quale la Poesia (parlo d’Arte) attende un nuovo ornamento e dovete pensare ad ogni risveglio, non senza panico, alla responsabilità intellettuale che grava sulla vostra piccola mano», lettera di Guido Gozzano del 12 novembre 1907, in Lettere d’amore… cit., p. 61. 21
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quei versi («Fare bisogna. Vivere bisogna / la bella vita dalle mille offerte», Un’altra risorta).26 È la prima diretta spia di come queste lettere diventeranno una sorta di base preparatoria per le liriche poi direttamente riferibili ad Amalia. Quello che va sottolineato è che è proprio a questa altezza cronologica, in coincidenza cioè con la creazione letteraria della sua antitesi (e cioè Felicita), che nelle lettere si cominciano a definire i tratti del personaggio che Amalia sarebbe diventata. E infatti nella stessa lettera poc’anzi citata Gozzano le dice: «non v’ho parlato che di letteratura. È un buon sintomo, sapete, per la mia pace; è segno che risorge in Voi il buon compagno d’arte, il buon fratello di sogni, e che la bellissima creatura è già un poco annebbiata agli occhi miei, già innocua, confinata nel rettangolo della fotografia».27 Amalia è dunque già «buon compagno», come suonerà il titolo di uno dei componimenti dei Colloqui a lei ispirati, e questa rassicurante condizione “maschile”28 si lega significativamente ad un’immagine gozzaniana ben nota e altrettanto rassicurante, quella della donna ritratta in fotografia che rende Amalia sempre meno figura in carne ed ossa e sempre più personaggio dell’invenzione lirica assimilandola, neanche troppo indirettamente, a Carlotta. E Amalia non manca di supportare questa finzione, rispondendo due giorni dopo al poeta: «Amico mio, vagheggiate con molta serenità la deliziosa bruttezza della vostra Signorina. Come ritrovo e riconosco in Voi il nipote di nonna Speranza!».29 La contiguità di questa Amalia delle lettere con i personaggi femminili gozzaniani assume presto però toni più drammatici, con i ripetuti rifiuti di Guido, da lui nascosti dietro una riconoscibile cifra lessicale già inequivocabilmente connotata all’interno del suo sistema semantico: Amalia lo ha aspettato invano per due giorni consecutivi e lui definisce il proprio inqualificabile comportamento come «la mia
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Marziano Guglielminetti legge la ripetizione del «verbo di Maia» pronunciata dall’“altra risorta” in linea con la svolta filodannnunziana consumata da Amalia con il poema tragico L’amante ignoto del 1911 (cfr. M. Guglielminetti, Introduzione a Gozzano, Roma-Bari, Laterza 1993, ora rifuso in Id., La musa subalpina cit., p. 110). 27 Lettera di Guido Gozzano del 12 novembre 1907, in Lettere d’amore… cit., p. 62. 28 Cfr. in proposito anche la lettera di Guido Gozzano del 23 ottobre 1907 (ivi, p. 56), e la lettera di risposta di Amalia Guglielminetti del 26 ottobre 1907 (ivi, pp. 58-59). 29 Lettera di Amalia Guglielminetti del 14 novembre 1907, ivi, p. 64. Patrizia Menichi arriva ad ipotizzare che potrebbe essere stata proprio Amalia, per prima, «ad avvertire l’intenzione poetica (e addirittura la poetica) che accomuna Felicita a Carlotta, […] figura femminile della Via del rifugio poi recuperata da Gozzano: un recupero che si può pensare incoraggiato anche da queste lettere», P. Menichi, Guida a Gozzano cit., p. 69. Va del resto sottolineato come i versi della parte conclusiva della Signorina Felicita che sembrano per molti aspetti rifarsi al mondo di Carlotta sono proprio quelli inviati, quasi dedicatoriamente, dal poeta ad Amalia nella cartolina del 12 luglio 1908, cfr. Lettere d’amore cit., p. 113. Dal Piemonte all’Italia
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rinunzia di ieri e la mia rinunzia di quest’oggi»,30 con la ripetizione di quel termine «rinunzia» da lui ricollegato nel titolo della lirica conclusiva della Via del rifugio (L’ultima rinunzia) proprio alla messa in scena di un poco credibile abbandono della madre e quindi di una rinunzia all’amore di lei. E come ad avvalorare questa sovrapposizione tra quelle solo immaginate angherie ai danni della figura materna sofferente e queste reali angherie ai danni della povera Amalia, Gozzano in quella stessa lettera aggiunge: «mi sento cattivo con tutti, […] sono amaro con tutti; non abbastanza buono persino con mia Madre: lo sarei anche poco con Voi…».31 Realtà e finzione finiscono per confondersi indissolubilmente nel rapporto con Amalia e lei può anche essere immaginata nel ricordo di Guido come figura crudele («risentivo sulla mia bocca la crudeltà dei vostri canini»),32 prima di ritornare nella lontananza ritratto da fotografia: «Come sto bene! Sono felice! Non desidero niente, non desidero Voi, non desidero mia Madre, non desidero amici… Mi lascio vivere… È così dolce! Ho la vostra effige pensosa (grazie!) racchiusa fra le pagine del libro che sto leggendo: “la sensitiva” di P.B. Shelley».33 L’assimilazione alla madre, che coinvolge tanti dei personaggi femminili del poeta, si sposa, dunque ancora una volta alla confortante riduzione di Amalia ad immagine fotografica, racchiusa per di più in questo caso all’interno di un volume di versi. Le carte autografe di Gozzano presentano per altro, intramezzati alla scrittura, numerosi ritratti di donna di mano del poeta, donne dai tratti volitivi, spesso raffigurate di profilo e fortemente somiglianti ad Amalia, come a confondere costantemente l’immagine di lei con quella delle creature d’invenzione.34
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Lettera di Guido Gozzano dell’1 dicembre 1907, ivi, p. 67. Lettera di Guido Gozzano dell’1 dicembre 1907, ivi, p. 68. In tale direzione Giuseppe Zaccaria mette in diretta relazione il rapporto dell’io lirico con la figura materna dell’Ultima rinunzia e il fantasma di Amalia presente tra i versi dei Colloqui, cfr. G. Zaccaria, «Reduce dall’amore e dalla morte». Un Gozzano alle soglie del postmoderno, Novara, Interlinea 2009, p. 82. 32 Lettera di Guido Gozzano del 9 dicembre 1907, in Lettere d’amore… cit., p. 71. Come segnala Patrizia Menichi (Guida a Gozzano cit., p. 121), questa stessa “crudeltà” è comunque tutta letteraria e specificamente dannunziana, e cita in proposito Forse che sì forse che no («Entrambi sentivano la durezza dei denti nelle gengive che sanguinavano») e Il fuoco («avevano sentito l’acutezza dei denti nei loro baci crudeli». Il motivo viene puntualmente ripreso da Gozzano nei versi di Una risorta: «riseppi le sagaci / labbra e commista ai baci / l’asprezza dei canini». 33 Lettera di Guido Gozzano dell’11 dicembre 1907, in Lettere d’amore… cit., p. 71. 34 In direzione di un collegamento tra Amalia e i ritratti femminili continuamente messi su carta da Gozzano, cfr. la testimonianza dell’amico Mario Vugliano: «Comune luogo di ritrovo con Gozzano e gli amici era la Società di Cultura […]. Quando vi entrava la banda Gozzano, addio pace studiosa là dentro. […] Tutti invocavano un po’ di silenzio. E Gustavo Balsamo Crivelli, che era, se ben mi ricordo, il bibliotecario: “Prego, Gozzano, anche un po’ più di ri31
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La poetessa tenta allora di sottrarsi a questa prigione della finzione che le viene imposta e cerca di prendere a propria volta le distanze dal suo “carceriere”: accusa Guido (anche se dandogli l’impressione di parlare piuttosto di Vallini) di aver truccato malinconicamente la propria anima per somigliare ad un altro, adoperando il rossetto dell’ironia, il bistro della negazione dell’essere, il «cold-creame del sogno»; dichiara apertamente di non ritenere la «ribalta falsa della letteratura» motivo sufficiente per rinunciare alla propria identità e gli annuncia di avere riletto i propri versi correggendoli per non guidogozzaneggiare più.35 E lui? Lui le risponde inviandole invece il primo abbozzo di Cocotte, storia della cattiva signorina che cerca di ingannare il tempo proprio col belletto e col veleno delle tinture,36 donna anche lei ipotecata dalla figura materna, ma non da respingere come Amalia, ma anzi da attendere ed invocare proprio perché donna impossibile. La poetessa a questo punto accentua i segni d’ossequio inviati per lettera alla madre di lui37 e in qualche modo finisce per sottomettersi alla sostituzione dei corpi reali con le immagini riprodotte: gli racconta di una incisione in rame realizzata dal suo volto e di un ritratto ad olio che la raffigura come una maestosa «imperatrice bizantina» e gli chiede di inviarle anche lui un suo ritratto;38 Gozzano, quasi incurante della sottomissione della sua corrispondente a tale sostituzione figurativa della corporeità (da lui sollecitata), respinge persino questo residuo legame fisico e le scrive anzi che ne sta già dimenticando la fisionomia, che nella memoria l’ovale del volto di lei ormai «vanisce a poco a poco» così come la tinta dei capelli e l’arco delle sopracciglia.39 Quale supremo sfregio di questa corporeità surrogata le scrive anche di avere profanato una piccola effige di lei cancellandone con uno spillo la mano sinistra «fatta mostruosa dalla prospettiva fotografica» (e precisa: «Ho preferito mutilarvi. Non vi doleva la mano sinistra pochi istanti fa? (Sono le 15,20 di Mercoledì). Vi voglio molto bene, Amalia!»),40 pur annunciandole poco dopo di essere andato a
spetto per i libri”. Perché Gozzano vi pupazzettava sui margini vergini folli», in G. Gozzano, Cara Torino. Poesie e prose scelte, con saggi e testimonianze, Torino, Viglongo 1975, p. 258. 35 Cfr. la lettera di Amalia Guglielminetti del 19 dicembre 1907, in Lettere d’amore… cit., pp. 74-75. 36 Cfr. la lettera di Guido Gozzano del 23 dicembre 1907, ivi, pp. 76-78. 37 Raccontando di un casuale incontro in chiesa con Vallini, Amalia scrive infatti a Guido: «c’incontrammo alla Messa d’Osanna. Credo anche che [Vallini] vi avesse accompagnato vostra Madre, ma per una scortese distrazione non la vidi e non la salutai. Fatele, se potete, le mie più vive scuse e cercate di dissipare l’impressione cattiva che può essergliene rimasta», lettera di Amalia Guglielminetti del 29 dicembre 1907, ivi, p. 79. 38 Cfr. ivi, p. 80. 39 Cfr. la lettera di Guido Gozzano del 6 gennaio 1908, ivi, p. 81. 40 Lettera di Guido Gozzano del 15 gennaio 1908, ivi, p. 84. Dal Piemonte all’Italia
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farsi ritrarre lui da un noto fotografo, «autore dei famosi ritratti della Duse». Lei ovviamente gli chiede in anticipo copia di questa fotografia.41 La fotografia è qualcosa che cattura l’immagine, la cristallizza e la conserva, anche se poi diventa di fatto solo un sostituto sterile della vita che fluisce nella morte.42 Lo sapeva bene il Gozzano dell’Amica di nonna Speranza e lo sa bene anche Amalia che infatti gli scrive di non volere questo: «Io non voglio […] che tu mi segua di lontano come un estraneo, che tu mi riveda ancora un giorno lontano quando forse i miei capelli non saranno più tanto bruni e la mia bocca fresca e i miei occhi lucenti».43 Amalia cioè non vuole fare la fine della cocotte, invocata a distanza di anni nella bellezza inevitabilmente sfiorita. Glielo dice chiaramente, eppure lui non mancherà di ribaltare questo avvertimento di Amalia nei versi di Un’altra risorta, in cui tra echi petrarcheschi e dannunziani immagina che l’antica sorella gli appaia con i capelli bianchi («mi volsi e vidi i suoi capelli: bianchi»). E come la cocotte veniva invitata a risorgere da un tempo lontano, così la protagonista di Un’altra risorta risorge dal passato eterno. Una sorte non diversa tocca anche all’Amalia delle lettere: «Ti penso un po’ come una morta»,44 le scrive infatti Guido, in una lontananza sempre più accentuata, pur dicendole che lei continua ad essergli necessaria «anche di lontano» (e aggiunge: «specialmente di lontano»).45 Confondendone l’identità in base a riconoscibili luoghi comuni del rapporto tra l’io lirico dei suoi versi e l’universo femminile, le scrive che con lei sarebbe facile divenire irriverente «come con una crestaia od una cortigiana qualunque»,46 e nella consapevolezza della propria inclinazione a rifuggire qualsiasi «bella felicità che gl’offre il destino»,47 continua ad evitare di incontrare Amalia, senza mancare di continuare a mettere costantemente in mezzo la propria Madre; le scrive ad esem-
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Gli scrive infatti: «Ricordatevi che una delle prime copie sarà per me – della vostra fotografia, intendo – e non me la dovete negare se pensate come e quanto la desideri», lettera di Amalia Guglielminetti del 28 gennaio 1908, ivi, p. 85. Il valore attribuito da Amalia alle riproduzioni fotografiche riemerge anche in occasione della scomparsa della sorella Emma: «Io ho sentito in questi giorni acutamente la mancanza di qualche bella immagine che mi risuscitasse al vivo la nostra Cara, ed è un rimpianto questo che mi durerà in cuore perennemente. Io voglio che la mia figura mi sopravviva se mai sono come Lei destinata a morte precoce. Voglio essere ricordata in forme di giovinezza e di bellezza», lettera di Amalia Guglielminetti del 19 marzo 1909, ivi, p. 133. 42 Sul motivo della fotografia cfr. E. Ajello, Il racconto delle immagini. La fotografia nella modernità letteraria, Pisa, ETS 2009 (ed in particolare il capitolo gozzaniano Il dagherrotipo che non c’è, ivi, pp. 83 e ss.). 43 Lettera di Amalia Guglielminetti del 24 marzo 1908, in Lettere d’amore… cit., p. 92. 44 Lettera di Guido Gozzano del 30 aprile 1908, ivi, p. 103. 45 Lettera di Amalia Guglielminetti del 24 maggio 1908, ivi, p. 103. 46 Lettera di Guido Gozzano del 30 marzo 1908, ivi, p. 94. 47 Ivi, p. 93. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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pio di essere passato per ventiquattr’ore da Torino giusto nel giorno in cui la madre era stata in visita da Amalia e le segnala l’emblematica coincidenza: «Io aveva scelto per venirvi a vedere il Martedì stesso di mia Madre!…»; e comunque poi non ci va annunziandole anzi che presto sarebbe partito per terre lontane.48 È allora Amalia che va a trovarlo, e subito dopo questa visita lui le manda una cartolina in cui trascrive esclusivamente i celebri versi del commiato dell’Avvocato da Domestica/Felicita prima della partenza per terre d’oltremare.49 Il commiato da Amalia si sovrappone dunque e confonde al commiato dalla celebre Signorina in un cortocircuito tra poesia e vita, creature di carta e creature di carne, documentato per altro anche da un primo abbozzo del sonetto Anche te, cara, che non salutai, componimento strettamente legato per contenuto a questo congedo da Felicita e nel cui primo abbozzo si legge a mo’ di dedica «a cattiva sorella e buon compagno»,50 in un’indiretta conferma dell’assorbimento di Amalia nelle dinamiche narrative che coinvolgono i personaggi femminili gozzaniani. Di lì a poco Gozzano cercherà del resto di toglierle ulteriormente corporeità eleggendola a destinataria e ispiratrice del poema sulle farfalle,51 secondo una significativa associazione mentale tra l’amica corrispondente e le eteree protagoniste delle Epistole entomologiche che trova conforto anche nei versi (ugualmente ispirati da Amalia) di Una risorta. Non è forse un caso che uno degli ultimi cenni epistolari che Amalia rivolge ad una specifica lirica di Guido, sia un riferimento all’Esperimento, la lirica cioè del tentativo del poeta di possedere il corpo di Carlotta (il componimento è appena apparso sul «Viandante» e nella lettera in questione la poetessa ricorda a Guido, quasi autoreferenzialmente, di quella volta in cui sulla strada di Moncalieri lui le aveva recitato i versi dedicati all’impossibile resurrezione di Carlotta e all’impossibilità stessa dell’amore).52 L’unico successivo riferimento ad una lirica gozzaniana presente nell’epistolario è rappresentato da un breve giudizio emesso dalla poetessa su Paolo e Virginia, ennesima storia di un amore impossibile che la devota Amalia bolla però come ispirata dalla «freddezza del puro virtuosismo».53 Siamo già nel settembre del 1910 e le liriche gozzaniane che raccontano dell’amore rifiutato di Amalia sono già state
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Cfr. la lettera Guido Gozzano del 20 giugno 1908, ivi, p. 108. Cfr. la cartolina del 12 luglio 1908, ivi, p. 113, scritta la sera stessa della visita di Amalia, subito dopo partenza di questa. 50 Cfr. A. Rocca, Nota critica ai testi, in G. Gozzano, Tutte le poesie cit., p. 770. 51 Cfr. le lettere di Guido Gozzano del 3 settembre e del 17 settembre 1908, in Lettere d’amore… cit., pp. 121 e ss. Sul rapporto tra Amalia e la genesi delle Epistole entomologiche cfr. M. Guglielminetti, La musa subalpina cit., pp. 118 e ss. 52 Cfr. la lettera di Amalia Guglielminetti del novembre 1909, in Lettere d’amore… cit., p. 154. 53 Cfr. la lettera di Amalia Guglielminetti del 3 settembre 1910, ivi, p. 158. 49
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edite su rivista nei mesi precedenti di quello stesso anno.54 I colloqui sono ormai prossimi ad uscire e, una volta editi, l’Amalia ridotta a personaggio non manca di dare alle stampe una sua pronta risposta. Ed è una risposta da critica severa affidata ad un articolo per «La Stampa» di Torino eloquentemente intitolato Aridità sentimentale. Per molti versi esso può essere considerato una sorta di appendice conclusiva dell’epistolario poiché vi si parla di poesia, vi si parla d’amore, vi si parla dei rapporti tra i sessi, ma tra le righe vi si parla indirettamente della storia mancata tra Guido e Amalia.55 La Guglielminetti reagisce da donna ferita ai troppi rifiuti di Gozzano e alla messa in versi di quei rifiuti nelle strofe del Buon compagno, di Una risorta, di Un’altra risorta e dell’Onesto rifiuto, i componimenti della raccolta maggiore all’interno dei quali è possibile rintracciare più chiaramente l’ombra di lei, nonché l’eco, talora quasi letterale, di molti passaggi dell’epistolario. Al di là delle specifiche liriche più direttamente riferibili al rapporto con Amalia, e costantemente lette dalla critica in controcanto con le missive scambiatesi dai due, nelle pagine dei Colloqui quest’ombra e quest’eco si rifrangono comunque significativamente anche tra le pieghe di altri testi, a conferma del forte legame istituitosi tra il fantasma poetico della “vergine folle” e le altre creature femminili gozzaniane. La donna del Gioco del silenzio, ad esempio, protagonista della lirica che nell’ordinamento finale della raccolta precede immediatamente Il buon compagno, si abbandona col poeta ad un’«ora folle», quasi senza consapevolezza «della cosa carpita, della cosa / che accade e non si sa mai come accada», cui fa seguire un improvviso pentimento, in una riproposizione a parti invertite dei pentimenti recitati dal poeta all’interno delle lettere ad Amalia. Di lei la donna del Gioco del silenzio reca con sé le stimmate della follia amorosa, mentre il poeta la paragona per un attimo ad una «crestaia» (esattamente come fa con Amalia in una missiva della primavera del 1908),56 e finisce per trattarla in modo rude («Ti scossi, ti parlai con rudi frasi, / ti feci male»), secondo quanto anticipato da subito all’amica all’inizio della loro corrispondenza.57 Quasi a fare pendant con l’occorrenza sottolineata nel Gioco del silenzio, l’aggettivo «folle», inevitabilmente riconducibile alla memoria dell’uso fattone dalla poetessa nell’intitolazione della raccolta Le vergini folli, ritorna indicativamente anche nel
54
Il buon compagno, «La Riviera ligure», mag. 1910; Una risorta (col titolo Visitatrice), «La Lettura», giu. 1910; Un’altra risorta (col titolo Novembre), «La Riviera ligure», feb. 1910; L’onesto rifiuto, «la donna», 20 ago. 1910 (già «il Viandante», 13 giugno 1909). 55 Cfr. A. Guglielminetti, Aridità sentimentale, «La Stampa», 11 luglio 1911, ora anche in G. Zaccaria, «Reduce dall’amore e dalla morte». Un Gozzano alle soglie del postmoderno cit., pp. 197-200. 56 Cfr. la lettera di Guido Gozzano del 30 marzo 1908, in Lettere d’amore… cit., p. 94. 57 Cfr. la lettera di Guido Gozzano del 10 giugno 1907, ivi, p. 40. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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componimento Invernale che segue a ruota i versi del Buon compagno, incorniciati così tra due liriche variamente ricollegabili alla riconoscibile destinataria di essi: e se nel Gioco del silenzio l’io lirico e la sua accompagnatrice si lasciavano andare ad un’«ora folle», in Invernale il poeta si lascia coinvolgere dall’amica pattinatrice nei volteggi di un «folle accordo» («senza passato più, senza ricordo, / m’abbandonai con lei, nel folle accordo, / di larghe rote disegnando il vetro»), nell’uno e nell’altro caso camuffate duplicazioni di quell’«atto rapido, inconsulto» consumato dai protagonisti del Buon compagno. All’interno dell’Onesto rifiuto, l’ultima delle liriche dei Colloqui esplicitamente ispirate da Amalia, l’aggettivo «folle» viene del resto espressamente riferito all’innominata Amalia che, «bella e folle», fa offerta di sé («So che sei bella e folle nell’offerta / di te. Te stessa, bella preda certa, / già quasi m’offri nelle palme schiuse»), come a sancire definitivamente l’anagrafe di questa traccia lessicale segnata indelebilmente dalla figura della bella poetessa. Il fantasma di Amalia continua comunque anche dopo I colloqui ad aleggiare nelle liriche di Guido, e così anche i versi d’occasione scritti dal poeta per la fidanzata di un amico risentono del suo influsso:58 esattamente come Amalia, la destinataria del componimento è una donna lontana (in questo caso perché non conosciuta dall’io lirico), eppure «sorella» e «amica» nel nome della poesia e del sogno («come / care ti sono le mie rime: questo / ti fa sorella nel mio sogno mesto»); è proprio la distanza, anzi, che la rende a lui “vicina”, in una trasfigurata riproposizione delle dinamiche sottese al rapporto con la Guglielminetti e, più in generale, a quello del Gozzano poeta con le figure femminili: Fuori del sogno fatto di rimpianto forse non mai, non mai c’incontreremo, forse non ti vedrò, non mi vedrai. Ma più di quella che ci siede accanto cara è l’amica che non mai vedremo; supremo è il bene che non giunge mai!
Il riferimento al modello di relazione istituito con Amalia potrebbe certo sembrare generico se il poeta non inserisse a conclusione del componimento la citazione letterale di un verso della lirica Il miraggio raccolta nelle Vergini folli della Guglielminetti, quasi a siglarne la sopravvivenza del fantasma poetico anche oltre il racconto lirico del loro amore interdetto affidato ai componimenti dei Colloqui. L’ombra di Amalia si allunga del resto anche sul più celebre personaggio fem-
58
Si tratta del sonetto Tutto ignoro di te: nome e cognome…, conosciuto anche col titolo Ad un’ignota e composto da Gozzano per la fidanzata dell’amico Ettore Colla; sulla controversa tradizione di questa lirica cfr. A. Rocca, Nota critica ai testi cit., pp. 772-773. Dal Piemonte all’Italia
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minile della stagione successiva alla raccolta maggiore, quella Ketty del componimento indiano Supini al rezzo ritmico del panka… la quale, incarnazione di un’ennesima signorina ormai però affrancatasi da ogni riduttivo stereotipo,59 viene comunque definita «vergine folle dagli error prudenti», in una sottolineatura dell’ideale parentela anche di questa figura femminile con l’immaginario segnato dalla Guglielminetti.60 L’ultimo riconoscibile riferimento ad Amalia presente nei versi gozzaniani è affidato ad una comica ballata dedicata all’inesistente primo numero della rivista «Numero» (La ballata dell’Uno), nella quale il nome di Amalia viene citato insieme a quello di altre poetesse impegnate anche loro nel reperimento dell’introvabile pubblicazione.61 Amalia è ormai solo un nome da evocare ironicamente, per sempre restituito alla lontananza come già quello della Carlotta dell’Esperimento; la storia con lei è già stata narrata dal poeta tanto in versi quanto nella prosa delle lettere e ad essa nulla resta da aggiungere. Sarà piuttosto Amalia a tornare ancora a dire la sua su questa liaison nei versi dell’Insonne in cui riscriverà a propria volta quanto Gozzano aveva narrato nelle liriche dei Colloqui ispirate da lei. Qui la “vergine folle” arriva però a liberarsi delle catene di quell’amore infelice e del ruolo in cui l’aveva rinchiusa Guido nelle lettere e nei versi,62 tanto da poter scrivere dopo la morte di lui, in memoria, gli ultimi capitoli di questa sua storia con la poesia di Gozzano con animo ormai pacificato.
59 Così nei versi viene descritta la protagonista: «signora di sé della sua sorte / sola giunse a Ceylon da Baltimora / dove un cugino le sarà consorte. / Ma prima delle nozze, in tempo ancora / esplora il mondo ignoto che le avanza / e qualche amico esplora che l’esplora». 60 In una delle prime lettere Amalia si descriveva del resto apertamente anche lei come un’anticonformista (seppur sempre attraverso schermi letterari): «Io, se fossi uomo, sarei certo come quel tal personaggio delle «Demi-Vierges» il quale frequentava il mondo per studiarvi le ragazze e per turbarle col suo fascino di libertino», lettera di Amalia Guglielminetti del 7 giugno 1907, in Lettere d’amore… cit., p. 34. 61 Nel componimento (di probabile ma non certa attribuzione) si legge infatti: «Térésah, Carola, Amalia, / l’altre insigni letterate, / che oggi infiammano l’Italia, / si presentano infiammate / come tante forsennate: / un prurito inopportuno / tutte sentono dell’Uno, / l’Uno – ohimè – tutto esaurito». 62 Dopo aver narrato dell’ennesimo rifiuto opposto dall’amante, con toni che ricalcano assai da vicino quelli delle lettere e delle liriche di Gozzano ispirate alla storia con Amalia, i versi dell’Insonne raccontano di un’avvenuta liberazione: «E fu l’ultima volta. / Seguii una traccia malcerta, / balzai nella deserta via, corsi nell’ombra già folta. // Senza pensier né sosta, correndo l’estuosa sera, / la mia carne leggera mi parve di vento composta. // Trovai sulle mie porte un vile idoletto di creta / calpesto e dissi lieta al mio cuore: – Cuore sei forte» (Milano, Treves 1913, p. 65 ora anche in S. Raffo, Lady Medusa… cit., p. 411). Come sottolineato da Marziano Guglielminetti, molti passi dell’Insonne sembrano in realtà un preciso controcanto di versi gozzaniani, cfr. M. Guglielminetti, La musa subalpina cit., pp. 230 e ss..
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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Tutti questi testi sono ora raccolti in appendice al volume di Marziano Guglielminetti La musa subalpina, curato da Mariarosa Masoero, e parlano diffusamente del poeta e della sua poesia. Sono tuttavia ormai solo discorsi intorno ad essa che nulla più raccontano di quell’amore vagheggiato e negato, sottratto da Gozzano alla vita vera e consegnato per sempre dentro I colloqui alla fittizia e perciò rassicurante dimensione della letteratura.
Dal Piemonte all’Italia
SARA CALÌ ‘I Provinciali’ di Achille Giovanni Cagna
In una delle prime lettere a Giovanni Faldella, quella del 2 marzo 1877,1 Achille Giovanni Cagna riepiloga gli avvenimenti principali della propria vita: Ho fatto sacrificio di lunghe notti per leggere, studiare, e lavorare, perché di giorno avevo ben altro da fare. Avevo diciotto anni allora, la testa bollente di pensieri disordinati […] ma non trovavo modo di espansione, io non potevo scrivere perché non conoscevo né lingua né grammatica né ortografia. I miei studi si erano arrestati a 15 anni nella seconda tecnica […] mio padre era allora in angustie di fortuna, la mia famiglia languiva nello stento […] fui subito impiegato come porta-bagagli e copista in ufficio […] e poi vennero i primi sintomi di velleità artistiche, […] e poi una voglia matta di sfogare il ruscello che mi affogava il cervello, e mi accinsi tutto solo a studiare la grammatica e fare esercizi di lingua, a leggere, a istruirmi, e potei sui venti anni misurarmi senza tema con tutti i miei amici che avevano continuato gli studii.2
Inizia così il lungo sodalizio con lo scrittore di Saluggia e il nutrito epistolario che li vedrà affettuosamente e sinceramente legati fino al 31 ottobre 1925, data dell’ultima lettera di Faldella. Dal poderoso corpus di lettere si delinea con grande chiarezza il percorso artistico di Cagna e l’influsso di Faldella, meritevole agli occhi del discepolo, di aver «dipanato» il proprio ingegno: sbrigandolo di tutte le pastoie che l’ingiulebbiavano di retorica e di romanticheria da quarantotto. Io ti sono venuto dietro accettando il bene ed il male che mi derivava da
1 A.G. Cagna-G. Faldella, Un incontro scapigliato. Carteggio 1876-1927, a cura di M. Schettino, Novara, Interlinea 2008, p. 50. 2 Ivi, p. 52.
Dal Piemonte all’Italia
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questa assimilazione di forze nuove, riflettendo co’ miei mezzi quegli obbiettivi chiari sereni, pacati che costituiscono il prisma del tuo forte e nutrito ingegno.3
L’amico gli consiglia libri da leggere, commenta gli scrittori contemporanei, gli dà suggerimenti e lo aiuta ad ottenere l’agognata abilitazione per l’insegnamento dell’Italiano.4 Cagna, di rimando, chiede consigli, racconta dei suoi amori infelici e del sereno fidanzamento con Luigia Rossi5 che sposerà nel 1880, annuncia la nascita della prima delle due figlie, i dissapori con lo zio,6 l’abbandono dell’impiego nella sua azienda cerealicola e, infine, la laurea della figlia Nuccia.7 L’immagine che ne deriva potrebbe essere ulteriormente condensata in una delle riflessioni più stravaganti che la critica ha dedicato a Cagna, quella del lombrosiano Lorenzo Gualino, che nel 1926 scriveva: Achille Giovanni Cagna è un uomo sano; il suo sistema digerente come il circolatorio, i suoi organi della respirazione come le sue ghiandole lavorano in modo perfetto, sì che nella pienezza delle sue funzioni organiche, in uno stato di vero benessere fisiologico egli vive e trasfonde la vita intorno a sé […] nella vita quotidiana passa dalla mercatura dei cereali al pianoforte, al disegno, alle bozze di stampa […]. Ed è questa instabilità8 così varia9 che sottraendolo agli influssi rettorici e metodici […] non gli permette di appartenere ad alcuna delle cosidette scuole letterarie, come lo spinge fuori della vocabolatura ufficiale, dandogli uno stile suo, locuzioni e forme verbali proprie ed originali.10
L’eccentricità del commento fa quasi sorridere, ma il ritratto non è troppo lon-
3
Ivi, p. 153. Nella lettera del 18 aprile 1890 (ivi, p. 267), Cagna comunica a Faldella di aver ottenuto quella triennale. Si veda anche la lettera di Faldella del 13 luglio 1892, ivi, p. 310. 5 Cfr. la lettera a Faldella del 22 aprile 1879, ivi, pp. 103-104. 6 Ne accenna Faldella nella lettera del 4 ottobre 1891, ivi, p. 301. 7 Cfr. la lettera di Faldella del 15 giugno 1922, ivi, p. 589. 8 G. Zaccaria, Per una letteratura di confine. Autori, opere e riviste del Piemonte orientale, Novara, Interlinea 2007, p. 91. 9 Giorgio Petrocchi in Scrittori piemontesi del Secondo Ottocento, Torino, De Silva 1948, p. 63, riguardo ai Provinciali commenta: «non è soltanto segno di una mutevolezza contenutistica (da un personaggio all’altro, e poi di nuovo al primo, e quindi al secondo), ma sintomo di una oscillazione della sensibilità […]. Lo scompenso dell’arte del Cagna non va visto, quindi, come dissidio tra umorismo e pateticità, ma […] tra un epilogo di romanticismo ed un gusto realistico». Cagna stesso conferma la propria instabilità: «Io […] sono sempre stato un po’ disuguale; talora volo, talora mi strascino arrancato come paralitico, e da ciò i chiaro scuri che io stesso conosco ne’ miei lavori; tratti netti, sicuri, e sgorbi indecifrabili, o peggio ancora stenti, ricercatezze che muoiono in uno sbadiglio», scrive a Faldella l’8 maggio 1885, in A.G. Cagna-G. Faldella, Un incontro scapigliato… cit., p. 15. 10 L. Gualino, Un umorista italiano, in Aa. Vv., A.G. Cagna. L’uomo, lo scrittore, Milano, A. Barion 1926, pp. 41-43. 4
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‘I provinciali’ di Achille Giovanni Cagna
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tano dalla realtà, soprattutto per il particolare uso della lingua che gli varrà un posto nella Scapigliatura piemontese, non tanto, precisa Zaccaria sulla scorta di Contini: «quella provocatoria e iconoclasta […], ma […] quella dell’eversione stilistica, della rottura dell’ordine espressivo».11 A tal proposito sarà illuminante un esempio tratto dai Provinciali che rappresentano in questo senso un momento di assoluto rilievo. Nel capitolo L’aurora, Cagna presenta il professor Simeoni: Egli, irsuto e ringhioso come era per temperamento contro ogni levigatura elegante, e sapendo di essere sull’occhio delle dame tanagliate dalla sua linguaccia nera, se ne sfogava, tenendo delle vere conferenze prudhoniane contro la pornocrazia invadente, lanciando con amabilità elefantesca, frizzi da lupo sui costumi delle signore del bel mondo, ossia come egli soleva chiamarle: le ocheggianti e ciarlivendole schinchimurre,12
nell’Aurora nuova ritrae in questi termini il consiglio comunale: I primi colpi di scopa furono menati ai vecchi mammalucchi del consiglio comunale; era tempo ormai di sbandeggiare l’archeologica camarilla di mummie e di comparse, di quella borghesia patriottarda del quarantotto, la quale dopo di aver sbalzato la nobiltà, si era costituita in oligarchia misoneista e retriva;13
il legame tra la «deformazione» della lingua e l’umorismo che ne deriva, colto anche da Montale: «il Cagna più felice è quello dei toni parodistici e caricaturali»,14 permette di inquadrare l’autore dei Provinciali entro due direttive fondamentali: «plurilinguismo e umorismo»,15 cui aggiungerei la sapiente scrittura polifonica di certe scene corali,16 in cui si esprime appieno l’abilità narrativa di Cagna, come nel Settimino di Beethoven, citato sia da Croce17 che da Contini18 nella sua antologia:
11
Ivi, p. 8. A.G. Cagna, Provinciali, Torino, Piero Gobetti Editore 1925, p. 339. Tutte le citazioni si intendono tratte da questa edizione. 13 Ivi, p. 364. 14 E. Montale, dal «Lavoro di Genova», in Aa.Vv., A.G. Cagna. L’uomo, lo scrittore cit., p. 77. 15 G. Zaccaria, Per una letteratura di confine… cit., p. 93. 16 Si pensi anche a Corpus Domini o alla vivacità di certi gruppi di sartine negli Alpinisti ciabattoni. Lo accenna anche Contini quando parla di «resa collettiva dell’ambiente […] a preferenza del ritratto singolo che scivola verso il racconto, per quanto, precisamente, il racconto, dove tende a formarsi, si scinda in una serie di bozzetti», in G. Contini, Racconti della Scapigliatura piemontese, Torino, Einaudi 1992, p. 38. 17 B. Croce, G.C. Molineri-A.G. Cagna, in Aggiunte alla ‘Letteratura della Nuova Italia’, in «La critica», XXXV, (1937), 2, cita dei passi da L’ambiente (nei Provinciali sono le pp. 3-4), Il settimino di Beethoven (p. 40), Lo scultore Giani (p. 135), Casa Soretti (p. 54), Il romanzo di una damina (pp. 404-405), Sul lubrico (pp. 505-506). 18 G. Contini, in Racconti della Scapigliatura piemontese cit., p. 38, evidenzia: «Il Settimino di 12
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Incomincia l’andante di Beethoven. I primi violini stridono alquanto nell’attacco, e non imbroccano l’intonazione; gli accompagnamenti tentennano nella misura, ma il contrabbasso che è un valente professore, un vero cavallo di punta, rimette la massa in carreggiata con tre poderose raspate che fanno traballare i vetri e l’assito del palco,19
o nella cena in Casa Salamandra: Il veleno schizzato da madama Furlana scoppiò la sera istessa in casa Salamandra. Papà Matteo si era messo a tavola con un’aria tragica, e la calotta in un significante sghimbescio; Gigino aveva piantato la seggiola vicino alla mensa con un certo garbo che spaventò le sorelle […]. Mamma Salamandra, fiutando il brutto tempo, stava sull’avvisato; […] papà Matteo, da una parte, saettava occhiate a schiancio sulla moglie, Gigino dall’altra bolliva come una caldaia […].20
Molti critici concordano nel ritenere i Provinciali la vetta letteraria21 dello scrittore, Montale li reputa «il più importante libro del Cagna»,22 Faldella li definisce: «materia cosmica degna di Balzac»,23 per Contini «il primo dei libri buoni di Cagna, Provinciali, è anche il suo migliore».24 Non a caso Piero Gobetti decide di rilanciarli assieme alla Rivincita dell’amore e agli Alpinisti Ciabattoni, sia pure utilizzando, per i Provinciali i volumi rimasti dell’edizione pubblicata nel 1903, a Vercelli, da Gallardi & Ugo-Editori (Edizione Speciale per gli abbonati del giornale «La Sesia»). L’opera si fonda su una serie di racconti che condividono tra loro alcuni luoghi e molti personaggi, ricalcando abbastanza da vicino la struttura delle Figurine, per la brevità e la fresca vivacità di certi quadri, ma anche per l’attenzione a quella lingua che in Faldella fa da contraltare ai manzoniani, grazie ad un plurilinguismo che va dai latinismi ai piemontesismi, aspirando, al tempo stesso, alla popolarità ricavata dall’esempio del Giusti.25 L’influsso del maestro è dichiarato da Cagna stesso,
Beethoven, […] L’ambiente, Stampa cittadina, La Casa delle Gatte (esclusone il patetico), ma anche Villalbana patriottica e L’invasione» (questi due non appartengono, secondo Contini alla struttura primitiva dei Provinciali). 19 A.G. Cagna, Provinciali cit., p. 38. 20 Ivi, pp. 233-234. 21 G. Zaccaria, Per una letteratura di confine… cit., fa notare che Faldella salva Provinciali, Alpinisti e A volo, mentre Contini e Gobetti al posto di A volo preferiscono La rivincita dell’amore, p. 96. 22 E. Montale, dal «Lavoro di Genova», in Aa. Vv., A. G. Cagna. L’uomo, lo scrittore cit., p. 76. 23 G. Faldella, nel capitolo dedicato ad A. G. Cagna, ivi, p. 17. 24 G. Contini, in Racconti della Scapigliatura piemontese cit., p. 36. 25 G. Faldella, Figurine, a cura di A. Ruffino, presentazione di C. Marazzini e G. Zaccaria (è la riproduzione anastatica dell’edizione del 1875), Novara, Interlinea 2006, p. VII. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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come dice l’amico in una lettera del 1 settembre 1903: «nella tua lettera fraterna accenni generosamente alla parentela, anzi quasi alla derivazione dei Provinciali e degli Alpinisti dalle Figurine e da Geromino».26 Sebbene gli influssi sulla narrativa di Cagna si estendano anche ad altri nomi, tra i quali, secondo Petrocchi,27 Balzac28 e Flaubert. Seguace, dunque, delle idee e dei consigli del maestro Faldella, Cagna elabora una lingua che, oltre ai «neologismi di derivazione vernacola e ai toscanisimi, sanciti e autorizzati dal Vocabolario della Crusca», come è stato notato,29 adotta anche onomatopee, espressioni ricalcate sul dialetto e forme desuete. Attraverso una serie di adattamenti successivi, che si possono riscontrare, come si vedrà, nel confronto tra le due edizioni, Cagna ricerca una lingua duttile e leggera, ma anche intensamente espressiva, che si adatti allo spensierato, talvolta sfacciato, talora sarcastico umorismo di certe descrizioni e alla sottile penetrazione di alcuni stati d’animo, per lo più femminili. È proprio quando abdica al compito di educatore per farsi portavoce della maldicenza, dei piccoli sotterfugi, delle abitudini mentali e comportamentali degli abitanti della provincia e partecipa all’universo emotivo dei suoi personaggi che Cagna si distingue come autentico scrittore, a dispetto dei tratti in cui la tensione narrativa si allenta per cedere ad una stentata vena patetica30 (si pensi a Come si finisce) o ristagna nel compiacimento descrittivo, talora un po’ eccessivo, di certe lungaggini della Stampa cittadina e di certe sedute «consulari» di Sic itur ad astra, tanto che Spagnoletti arriva a parlare di «pedanteria».31 Il chiuso mondo in cui si avvicendano, sotto apparenze diverse, caratteri simili, accomunati dagli stessi interni domestici, dalle stesse signorine che studiano sordamente il pianoforte, da una mentalità preconcetta, fatta di piccole convenienze e tornaconto personale, pone i seguaci dell’arte, per lo più di ceto sociale povero, in una condizione di estraneità rispetto al corpo uniforme della cittadinanza. E a pagarne le conseguenze sono tre amici, tutti vittime dell’arte, lo scultore Giani che dopo aver suscitato «un vespaio di commenti e di mormorazioni nei suoi concittadini, poco entusiasti delle [sue] garibaldinate»,32 dissiperà il suo genio nell’alcool;
26
A.G. Cagna-G. Faldella, Un incontro scapigliato… cit., p. 454. G. Petrocchi, Scrittori piemontesi del Secondo Ottocento cit., p. 67. 28 L’opinione di Faldella (in Aa. Vv., A. G. Cagna. L’uomo, lo scrittore cit., p. 17) non è condivisa da Silvio Benco (Uno scrittore di ieri, ivi, p. 58). 29 Cfr. T. Sarasso, L’espressionismo dei ‘Provinciali’ di Achille Giovanni Cagna, in «Studi piemontesi», III (1974), 1, pp. 46-47. 30 Anche G. Spagnoletti nella Prefazione a C. Boito-A.G. Cagna-R. Zena, Opere scelte, Milano, Mondadori 1967, p. XXXVI, riconosce che quando «lo studio psicologico indulge al patetico, anche il ritmo della prosa di Cagna s’affloscia e dà nel risaputo». 31 Ibidem. 32 A.G. Cagna, Provinciali cit., pp. 141-142. 27
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Rinaldo, un poeta sognatore, e Paolino, un critico mordace, che rappresentano insieme, con insuccesso, il dramma storico Vercingetorige: l’uno tornerà sconfitto a casa (nel Male dell’arte), l’altro non potrà sposare l’amata Luigina, perché tutti si rifiuteranno di dargli un lavoro, a causa delle sue «dottrine sovversive in una città che non ne aveva proprio bisogno».33 Un ruolo simile, per l’isolamento a cui è condannata, spetta anche alla colta e delicata Giorgina che si stacca dallo «stuolo gaietto femminile» per la sua sensibilità letteraria e i suoi nobili pensieri, ma è tutelata dalla posizione sociale elevata, mentre il tema scelto da Cagna fin dal giovanile Un bel sogno, poi ripreso nella più tarda Rivincita dell’amore, prevede che ad essere emarginato sia un artista povero, sinceramente innamorato di una donna molto più ricca di lui, abbandonato in favore di un uomo di più alto ceto, motivo che, tra l’altro, prende le mosse da una vicenda autobiografica, testimoniata da una delle prime lettere inviate a Faldella (quella 2 marzo 1877).34 Tra gli altri personaggi femminili si distingue sicuramente la serva Maddalena che offre lo spunto per una riflessione sulla condizione servile, marginalmente affrontata anche in Uno snob. La povera anziana, abbandonata da tutti i familiari, è costretta a consumarsi di lavoro per compiacere le padrone egoiste e pettegole (La casa delle gatte): al mattino dopo la spesa, l’assetto delle camere e della cucina, le provviste di acqua e di legna; poi bisognava galoppare in ogni angolo della città, dal merciaio per bottoni, al fondaco per il sapone, dal calzolaio per far cucire in fretta uno stivaletto sgualcito. Tornava stanca, trafelata, ma non aveva ancora aperto l’uscio, che già fioccavano altre commissioni. Bisognava tornare dal calzolaio […]. E Maddalena, sbalordita, rifaceva le scale con quelle sue gambe stracche; non era ancora in fondo che già madama dall’alto ringhiava dietro: Ma siete lì ancora? Animo, movetevi, e tornate presto che ci sono ancora molte cose da sbrigare! E rientrando, sbatteva l’uscio in modo così malandro, come se volesse schiacciare fra i battenti quella vecchia intorpidita.35
Tuttavia, la vicenda s’inclina verso un epilogo troppo scontato, vòlto ad un patetismo troppo ostentato, mentre risulta molto più efficace la coerente ironia che avvelena l’indimenticabile figura di Madama Furlana, viperino emblema del pettegolezzo sfrenato e reiterato, connaturato a questa schiera di provinciali livorose, come quando In Teatro la donna scorge: madama Gherulfi con la figlia maggiore, della quale si buccinava il prossimo fidanzamento col ragioniere Ramusini, economo del ricovero.
33
Ivi, p. 111. Id.-G. Faldella, Un incontro scapigliato… cit., p. 50. 35 Ivi, p. 283. 34
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E se si pensa che costui era stato l’anno innanzi in procinto di sposare tota Furlana, che già la cosa pareva in porto, quando l’economo virò di bordo, attaccandosi a casa Gherulfi per la dote più vistosa, via, bisogna ammettere che madama Furlana ha ben ragione di sputare amaro.36
In questa provincia pettegola e bigotta anche la grande storia risulta naturalmente relegata su uno sfondo neutro e opaco. (L’arco temporale dei Provinciali si estende dal 1847 al 1880). Solo apparentemente, fanno eccezione i capitoli dedicati alla Stampa cittadina, in cui se ne parla più diffusamente ma freddamente, per via dell’espediente di riferire quanto scriveva la stampa locale, ugualmente pettegola e inconcludente. Per il resto, Cagna relega la menzione storica ad una semplice coloritura di fondo e affida i grandi avvenimenti a riflessioni ironiche, come quella di Giorgina in Primi passi: «Dopo lo statuto e Roma capitale, è lecito ancora alla moglie, alla signora di un funzionario […] mettersi come una contadina a far la balia ai proprii figliuoli?».37 Qui l’importanza dell’avvenimento è ridimensionata e screditata dall’accostamento a fatti quotidiani, ben più importanti nella scala di valori dei protagonisti. Nota giustamente Montale che «l’eccentricità di siffatto osservatorio [la provincia infima], di tale specola remota (o Villalbana!), e il suo contrasto con la solennità dei moti e delle idee divampanti, dà a Provinciali quel suo tono divagante, tra dolceamaro e umoresco».38 D’altronde lo stesso Cagna era avverso alla retorica, come si evince da una lettera di Faldella39 e dal fatto che anche il giornale di Villalbana, «L’Aurora», è presentato come del tutto disinteressato agli avvenimenti politici, tant’è che Cagna, con un po’ di paradossale ironia, fa coincidere la sua fine con l’apoteosi della storia: morì – infatti – nel 1870, proprio nei giorni in cui la nuova Italia entrava trionfalmente in Roma per la breccia di porta Pia. Così per strana coincidenza, un fatto minuscolo di cronaca provinciale, segnava anche in Villalbana il tramonto di un ciclo storico finito, e l’avvenire di una era novella, […] l’avvento storico della presa di Roma, non turbò l’abituale quiete di Villalbana. […] e poi in fondo la cittadinanza che già era stata commercialmente danneggiata per il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, non aveva ragione di entusiasmarsi per Roma, che è ancora più lontana.40
La denuncia del distacco fra questi insensibili provinciali e l’idea nazionale trova una sorta di corrispettivo nel rifiuto dell’unificante koiné manzoniana. E non si
36
Ivi, p. 121. Ivi, p. 433. 38 E. Montale, dal «Lavoro di Genova», in Aa.Vv., A.G. Cagna. L’uomo, lo scrittore cit., p. 37
77. 39 Cfr. la lettera di Faldella del 21 luglio 1905, in A.G. Cagna-G. Faldella, Un incontro scapigliato… cit., pp. 466-468. 40 A.G. Cagna, Provinciali cit., pp. 352-354.
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tratta di un’affermazione generica o scontata, dal momento che chi legge la Rivincita dell’amore, vi trova un linguaggio più scorrevole e piano, meno in tensione. D’altronde, nel caso dei Provinciali, è proprio nell’uso della lingua che si concentrano le maggiori cure dell’autore (si estenderanno anche agli Alpinisti ciabattoni) e lo si può riscontrare dalla comparazione delle quattro edizioni che il romanzo ha conosciuto: la prima, presso l’Editore Giuseppe Galli di Milano nel 1886, la seconda, quella del 1894, presso lo stesso editore (non presenta nessuna variante rispetto alla precedente), e quella del 1903, edita a Vercelli da Gallardi, che sarà ristampata, senza variazioni, nel 1925 da Gobetti. Pertanto, le edizioni di riferimento sono solo due, come conferma anche Faldella in una lettera del 17 aprile del 1903: «l’altro ieri aprendo di prima giunta il bello e poderoso volume dei tuoi rifatti Provinciali, non ho potuto celare a me stesso una profonda commozione […]. Ho già cominciato una lettura parallela delle due edizioni».41 E proprio grazie all’epistolario è possibile ricostruire anche la genesi e l’evoluzione del romanzo. Nella lettera del 22 aprile 1879,42 Cagna accenna al nucleo iniziale del romanzo, intitolato L’arte in provincia (che costituirà il capitolo Il male dell’arte).43 Tra momenti di stasi e di fervore44 lo scrittore riprende il lavoro nel novembre 188145 e il 4 gennaio 1882 scrive: «lavoro di notte a quel mio romanzone il quale si intitolerà definitivamente così: Kalende. Scene della vita di provincia».46 Seguono alcune lettere in cui lo
41
A.G. Cagna-G. Faldella, Un incontro scapigliato… cit., pp. 451-452, e in quella dell’11 settembre 1900, Faldella ribadisce: «in proposito della stampa vulcanica patriottica citavo l’abbagliante saggio che tu ne dai nel capitolo inedito della 2° edizione dei tuoi Provinciali», ivi, p. 438. 42 Ivi, p. 103. 43 Ibidem. 44 Continua nella quiescenza ancora nel giugno del 1879, cfr. la lettera del 7 giugno 1879, ivi, p. 107, e la lettera n°45 senza data, ivi, p. 114. 45 «Da qualche giorno mi sono rimesso intorno a quello Studio della Provincia (non già quella di Vercelli), e tiro innanzi con grande stento», lettera a Faldella del 7 novembre 1881, ivi, p. 125. Nella lettera del 16 dicembre 1881, Cagna vuole sottoporre all’attenzione dell’amico un capitolo intitolato Il settimino (che troverà collocazione nei Provinciali con il titolo: Il settimino di Beethoven, destinato ad essere pubblicato sulla «Gazzetta Piemontese Letteraria» del 7 gennaio 1882. 46 Ivi, p. 129. Segue l’annuncio della partecipazione al concorso bandito dal «Fanfulla della Domenica» con un capitolo dei Provinciali (non precisato) nella lettera a Faldella del 7 marzo 1882, ivi, p. 131. Poi Cagna invia a Faldella un altro capitolo, non precisato, da pubblicare e visionare, nella lettera a Faldella del 22 agosto 1882, ivi, p. 132 e pubblica su «Rivista minima», sul finire del 1882, il capitolo Casa Soretti, come dice, ringraziando l’amico per averlo aiutato, nella lettera n° 61, senza data, ma per il contenuto databile tra il novembre e il dicembre 1882, anno di pubblicazione del capitolo, ivi, p. 135. Nella lettera del 7 novembre 1884, si I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
‘I provinciali’ di Achille Giovanni Cagna
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scrittore invia altri capitoli come Fidanzato e Primavera, ed altre ancora in cui i due amici ragionano sul titolo dell’opera,47 fino al 13 dicembre 1886, quando Cagna annuncia: «oggi finalmente vengono alla luce i Provinciali».48 Nella prima edizione si contano venti capitoli, tre in meno rispetto a quella successiva, in cui si nota, oltre ai numerosi cambiamenti apposti al capitolo la Stampa cittadina,49 l’aggiunta di tre nuovi capitoli: L’Aurora, L’Aurora nova e Sic itur ad astra. Tutti gli altri subiscono modifiche solo a livello formale ma rimangono comunque inalterati nella successione. La dedica «A mio Padre ed al mio affettuoso e caro amico Giovanni Faldella» della prima edizione è seguita da una prefazione in forma di lettera indirizzata all’amico, in cui Cagna, con tratto incerto e un’umiltà forse troppo esibita, cerca di delineare la propria poetica: «accumulando una fitta di osservazioni minime non ho mirato che a dare una nota modesta dei piccoli ambienti, raccogliendo, non già fotografie, ma impressioni intime che tutto al più esprimono un mio modo particolare di vedere le cose.50 […] dunque calabrone o moscherino, pungo l’aria anch’io a mio modo con un debole ronzio, e spero che non ci sia nulla a ridere».51
parla dell’invio di un altro capitolo intitolato: Fidanzato, in parte confluito in Fifì paga lo scotto (si veda il commento della Schettino, ivi, p. 147). Si parla ancora del lavoro assiduo intorno al romanzo nella lettera a Faldella del 2 marzo 1885: «Io lavoro indefesso intorno a quel libro della provincia perché voglio sbrigarmene, ma non ti so dire come mi riesce penoso il rimpasto del vecchio col nuovo. Inoltre, non so se per mia meticolosità, o per affievolimento di energie, impiego delle ore per metter giù una pagina di roba» (ivi, p. 151), e preannuncia l’invio di un altro «capitolo stampato: Primavera» (con lo stesso titolo nel romanzo), ibidem. 47 In particolare cfr. la lettera n° 82 (la lettera è senza data, ma è molto probabilmente del settembre 1885), ivi, p. 158, in cui Cagna suggerisce diversi titoli quali: Provincialine, Mirmidonia, Mirmidoniche, Figurine di Provincia, Passo Ordinario, Scene di Campanile, Dall’alto del Campanile, All’ombra del Campanile, Sotto il campanile. Segue ancora la lettera del 21 settembre 1885, ivi, p. 159, in cui si riferisce che l’editore ha scartato il titolo Figurine di Provincia, e quella del 7 dicembre 1885, in cui Cagna dice di propendere per il titolo Provinciali, scelto sempre da Faldella e definitivamente accolto dall’editore, come si legge nella lettera del 2 marzo 1886, in cui se ne annuncia anche la prossima pubblicazione, ivi, p. 165. L’8 marzo 1886 Faldella invita Cagna ad una scampagnata per festeggiare i Provinciali (ivi, p. 167), ma ancora il 20 aprile 1886, Cagna invia a Faldella la lettera-prefazione che apre il romanzo, per averne un giudizio (ivi, p. 172). 48 Ivi, p. 177. Cagna parla dei dissapori con l’editore Giuseppe Galli: «Sono in rottura col mio editore, il quale mena il can per l’aia per non pagarmi quei pochi quattrini dei Provinciali e Alpinisti», Lettera del 4 agosto 1888, ivi, p. 232. Nella lettera di Faldella a Cagna del 14 luglio 1900, si accenna alla «primizia di Villalbana patriottica», ivi, p. 434. 49 Il titolo è affiancato da due sottotitoli: La Vecchia Aurora e Villalbana Patriottica. 50 A.G. Cagna, Provinciali, Milano, Giuseppe Galli-Libraio Editore 1886, p. XI. 51 Ivi, p. XII. Dal Piemonte all’Italia
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Nella seconda, Cagna si mostra molto più deciso e consapevole, fin dalla dedica, molto più asciutta: «A mio Padre ed a Giovanni Faldella», cui segue una Premessa più convincente, incentrata esclusivamente sulla difesa dell’argomento scelto, circoscritto al solo ambiente provinciale, per la volontà di privilegiare la sanità di un mondo «senza spreco di energie» che «conferisce all’animo una serenità igienica e morale».52 L’intento stilistico di Cagna si rivela già a partire dagli aggiustamenti che investono il capitolo iniziale dell’edizione del 1886, in ragione dei quali i «diciotto mila abitanti»53 di Villalbana cresceranno a «venticinquemila»54 nell’edizione successiva, dove si registrano, oltre a cambiamenti ortografici, come la sostituzione di minuscole in maiuscole, la correzione di alcuni refusi, una punteggiatura più fitta, cambiamenti più rilevanti come quello che vede lo scialbo cognome di madamigella Leverier sostituito nel più frizzante Zizina,55 o come il maestro Zanfigi, inizialmente solo «autore della nota canzonetta La va mal divenuta celebre, e di tanti altri graziosi componimenti musicali dettati da raro magistero di forma e di stile»,56 poi glorificato dall’incompetenza del pubblico di Villalbana per la sua «particolarità di dirigere con la mano sinistra» e perché autore, addirittura, di un’opera «mai rappresentata, per la straordinaria difficoltà dell’esecuzione».57 Altrettanto degne di menzione sono le varianti che mirano alla creazione di un linguaggio più icasticamente e quasi iperbolicamente espressionistico. Si pensi alla descrizione di madama Furlana, nell’edizione del 1886, la donna: con la sua tota, nelle ricorrenze natalizie si mette in giro per un paio di settimane, e fa non meno di quaranta visite, discorrendo sempre delle sue faccende di famiglia, dello stufato che ella sa fare senza burro, e della infedeltà della gente di servizio,58
mentre nella versione successiva: madama Furlana, vedova benestante, detta madama Ficcanaso, nelle ricorrenze natalizie si mette in giro per un paio di settimane con la sua tota, e fa non meno di quaranta visite, arrotando la sua lingua saracena sulle spalle di questa o di quella, tanagliando senza misericordia le malcapitate che sono cadute in disgrazia.59
52
Id., Provinciali cit., p. X. Id., Provinciali, Milano, Giuseppe Galli-Libraio Editore 1886, p. 1. 54 Id., Provinciali cit., p. 1. 55 Ivi, p. 6. 56 Id., Provinciali, Milano, Giuseppe Galli-Libraio Editore 1886, p. 5. 57 Id., Provinciali cit., p. 7. 58 Id., Provinciali, Milano, Giuseppe Galli-Libraio Editore 1886, p. 15. 59 Id., Provinciali cit., p. 18. 53
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
‘I provinciali’ di Achille Giovanni Cagna
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Si noti, ad esempio, il passaggio da «discorrendo» ad «arrotando la sua lingua saracena» e dalla discussione sullo stufato a quella sorta di giudizio morale che si rivela dalle ben più cariche parole «tanagliando senza misericordia le malcapitate che sono cadute in disgrazia». La donna, che odiava il ragionier Ramusino perché si era rifiutato di sposare sua figlia, per vendetta andava dicendo che egli soffrisse di attacchi epilettici e: Questa diceria messa dalla terribile madama Furlana,60
diventa, nel 1903: Questa coltellata assassina.61
E quando Ramusino decide di fidanzarsi con Eulalia, la primogenita del signor Gherulfi,62 si vocifera sull’età della fortunata: Quanti anni avesse questa primogenita, nessuno poteva saperlo perché papa Gherulfi richiesto su tale proposito, rispondeva costantemente; è di età maggiore.
La stessa affermazione è resa molto più efficace nella seconda edizione dal contrappunto della voce malevola di madama che insiste rabbiosamente sull’età anagrafica, considerazione che si accompagna, nella frase, con l’uso animalesco e dantesco del verbo «latrare» e della personificazione in Marcolfa:63 Quanti anni avesse questa primogenita, va a vederlo; papà Gherulfi sghisciava: età maggiore, o maggiorenne, e basta. – Quarant’anni e più! – Andava latrando in giro madama Furlana; ma era risaputo che la Marcolfa parlava per vendetta.
Il confronto fra le edizioni, pertanto, si rivela indispensabile alla comprensione del percorso artistico di Cagna e dimostra quanto, nella tecnica sperimentata in questo romanzo, l’uso della lingua sia motivo generatore e fondante della costruzione narrativa, oltre a rivelare, di volta in volta con grande chiarezza, gli intenti artistici perseguiti e raggiunti dallo scrittore.
60
Id., Provinciali, Milano, Giuseppe Galli-Libraio Editore 1886, p. 182. Id., Provinciali cit., p. 197. 62 Id., Provinciali, Milano, Giuseppe Galli-Libraio Editore 1886, p. 183. 63 Id., Provinciali cit., p. 200. 61
Dal Piemonte all’Italia
L’INSEGNAMENTO DELL’ITALIANO IN
FRANCIA NEL PRIMO OTTOCENTO
GIULIA DELOGU Pierre-Louis Ginguené, Francesco Saverio Salfi e l’‘Histoire littéraire d’Italie’
La storia dei rapporti culturali tra Francia e Italia è estremamente ricca e tali rapporti furono molto fecondi tra Settecento e Ottocento. I vincoli tra i due paesi furono particolarmente stretti a partire dal triennio giacobino, iniziato con la discesa delle armate napoleoniche nella Penisola, e poi attraverso gli esuli italiani riparati in Francia dopo il 1799. Esemplare di questa temperie culturale è la compilazione di una monumentale opera sulla storia letteraria italiana in lingua francese, iniziata dal francese Pierre-Louis Gingené e terminata dall’italiano Francesco Saverio Salfi.1 Pierre-Louis Ginguené2 nacque a Rennes nel 1748 e proprio nella sua città natale incominciò la sua istruzione presso il Collegio dei Gesuiti, dove strinse una salda amicizia col compagno di studi Évariste de Parny, a sua volta futuro poeta.3 La sua vocazione furono da subito le belle lettere e soprattutto la poesia. Tuttavia Ginguené, più che grande poeta, fu soprattutto sagace critico e attento editore: a lui si devono le più importanti edizioni delle opere di Lebrun e Chamfort,4 nonché
1
Salfi stesso nell’Elogio di Ginguené contenuto nel tomo X dell’Histoire littéraire d’Italie sottolineò la profondità dei rapporti italo-francesi dovuta alla «influence réciproque de lumière et d’efforts». 2 Per un profilo biografico vd. Colloque intenational «Ginguené», 2-3-4 avril 1992, Université de Rennes II-Haute Bretagne; É. Guitton, Ginguené (1748-1816). Idéologue et Médiateur, in «Chaiers Roucher-Chénier», XIII-XIV (1995). 3 Parny (1753-1814), membro della loggia massonica Neuf Sœurs, inizialmente noto come il Tibullo francese, divenne in seguito celebre grazie al poema La guerre des dieux, opera d’ispirazione volterriana, laica e fortemente anticlericale, tuttavia fu sempre un moderato e durante la rivoluzione si tenne al di sopra della mischia, vd. J.-C. Bésuchet, Précis historique de la FrancMaçonnerie, Paris, Rapilly 1829, II voll.; J. Lemaire, Parny et la franc-maçonnerie, in «Études sur le XVIIIe siècle», II (1975), pp. 43-55. 4 Œuvres de Ponce-Denis-Écouchard-Lebrun, mises en ordre et publiées par P.-L. Ginguené, L’insegnamento dell’italiano in Francia nel primo Ottocento
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il merito di aver scoperto André Chénier,5 il più grande poeta del Settecento francese, morto sotto la ghigliottina.6 La Rivoluzione rappresentò un importante punto di svolta nella sua tranquilla vita di letterato. Favorevole agli ideali rivoluzionari, fu comunque sempre moderato e quindi poco gradito al regime di Robespierre:7 infatti solo il colpo di stato del 9 termidoro lo salvò dalla sorte toccata al suo amico Chénier. Testimoniano ancora oggi le sue posizioni politiche interventi su numerosi fogli, in particolare la «Décade philosophique»,8 della quale fu principale redattore, e prove poetiche9 come Ode sur les États Généraux.10 Sotto il Direttorio depose la piuma e iniziò una brillante carriera pubblica: direttore dell’Istruzione pubblica, membro dell’Institut de France, ambasciatore a Torino, infine membro del Tribunato. Alla presa di potere di Napoleone, essendo dissidente, come d’altre parte praticamente tutti i suoi compagni del gruppo degli Idéologues,11 si ritirò a vita privata e si dedicò alla stesura della monumentale Histoire littérarie d’Italie.
Paris, G.Warée 1811, 4 voll. Œuvres de Chamfort, recueillies et publiées par un de ses amis, Paris, Impr. des sciences et des arts, an III [1794], 4 voll. 5 André Chénier (1762-1794), autore di opere come Jeu de Paume (1789) e France libre (1791), è considerato l’ultima voce poetica dell’Illuminsimo francese, cfr. B. Didier, Le siècle des Lumières, Paris, MA Editions 1987, p. 79: «Il est bien homme de Lumières». 6 B. Didier, Histoire de la littérature française du 18e siècle, Paris, Nathan 1992, p. 350. «La poésie renaît sous la plume de Chénier, parce qu’elle est une poésie politique: c’est soudain cette dimension nouvelle qui lui donne sa grandeur et sa force, mais la Révolution fait vivre la poésie et tue le poète». 7 M. Delon, Ginguené poète des États-Généraux, in Colloque intenational «Ginguené»… cit., pp. 185-91: Ginguené unì «prudence réformatrice» e «violence rhétorique». 8 B. Didier, La littérature de la Révolution française, Paris, Presses Universitaires de France 1988 p. 21: «La Décade philosophique, littéraire et politique», nata nel 1794, era la rivista del gruppo degli Idéologues. Id., La littérature française sous le consulat et l’empire, Paris, Presses Universitaires de France 1992, p. 55: con l’Impero la «Décade» si oppose a Napoleone, perseguitata, fu infine fusa con la rivista rivale, «Le Mercure», nel 1807 per ordine dell’Imperatore. 9 Les hymnes et chansons de la Révolution: aperçu général et catalogue, avec notices historiques, analytiques et bibliographiques, par C. Pierre, Paris, Imprimerie Nationale 1904, p. 89. 10 P.-L. Ginguené, Ode sur les États généraux, Paris, Impr. de Monsieur 1789. 11 B. Didier, Histoire de la littérature française du 18e siècle cit., pp. 338-9: il gruppo degli Idéologues, che si riuniva nel il salotto di M.me Hélvetius ad Auteil, ebbe forti legami con la Massoneria e in particolare con la Loge des Neuf Sœurs. Si consideravano «héritiers directs des Philosophes», tra di loro si contano sia massoni come Cabanis, Garat, Ginguené, Destutt de Tracy sia profani come Laplace, Carnot, Lamarck, Cuvier; l’appartenenza alla Massoneria del pensatore principale, Condorcet (1743-1794), è invece dubbia: non esistono documenti che lo colleghino a nessuna loggia, si sa che partecipò ai lavori della Société Olympique e del I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
Pierre-Louis Ginguené, Francesco Saverio Salfi
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In questa sede è doveroso ricordare Ginguené soprattutto come «una delle figure di maggior rilievo e importanza nella storia dei rapporti tra cultura francese e cultura italiana»,12 amico di Leopoldo Cicognara e Giovanni Pindemonte, come colui che si prodigò per tutti gli esuli italiani, anche con un intervento pubblico in loro difesa, pronunciato il 7 dicembre 1801. Molto fece soprattutto per la diffusione della cultura italiana, sia come professore all’Athenée (dove tenne, tra il 1802 e il 1806, un ciclo di lezioni su Dante), sia come critico sulla «Décade» e sul «Moniteur». Ginguené promosse la pubblicazione di poesie italiane coeve sulla «Décade»: il 28 febbraio 1800 fu stampato il Sonetto composto sulla vetta del Monte Ginevra nel 1 ventoso anno 8 della Repubblica francese13 di Giovanni Pindemonte, cui seguì, l’8 giugno 1800, Quando i Galli e il guerrier console scorse. Il suo interesse per la cultura italiana lo portò a redigere una Notice biographique14 su Casti, una Notice sur la vie et les ouvrages de Nicolò Piccinni,15 a tradurre la Vita di Alfieri16 e culminò infine dalla già citata Histoire littéraire d’Italie, edita a partire dal 1811. Tra le carte manoscritte di Ginguené conservate alla Biblioteca Nazionale di Francia c’è anche un quaderno contenente poesie italiane composte durante l’esilio dagli esuli Buttura, Mascheroni e Pindemonte. L’opera di diffusione della cultura italiana perseguita da Ginguené ispirò anche Foscolo che, tra il 1803 e il 1804 attraverso il giornale «Diario Italiano»,17 del quale per mancanza di fondi uscirono solo tre numeri, cercò di allacciare rapporti proprio con Ginguené e con gli Idéologues, ai quali si sentiva accomunato dall’opposizione a Bonaparte; il giornale era redatto in francese e in italiano, si proponeva quale ponte di scambio tra le due culture e vi collaborarono Vincenzo Monti, Luigi Lamberti e Luigi Cerretti.
Lycée, associazioni culturali fortemente legate alla Massoneria stessa, ma ciò non basta per sostenere la sua affiliazione, leggenda alimentata da Bachaumont nelle sue Mémoires secrets e da Barruel. 12 M. Tatti, Le tempeste della vita: la letteratura degli esuli italiani in Francia nel 1799, Paris, Honoré Champion 1999, p. 49. 13 M. Tatti, Le tempeste… cit., p. 240: Il sonetto «fu subito inteso, dagli stessi contemporanei, come una sorta di manifesto dell’esule». 14 Il profilo di Casti scritto da Ginguené si può leggere in Biographie universelle ancienne et moderne, Paris, Michaud frères 1811-1828 (trad. it Serie di vite e ritratti de’ famosi personaggi degli ultimi tempi, Milano, Batelli e Fanfani 1815-1818 e poi in Biografia universale antica e moderna, Venezia, Missiaglia 1823). 15 Pierre-Louis Ginguené, Notice sur la vie et les ouvrages de Nicolas Piccinni, Paris, Vve Panckoucke, an IX [1800-1801]. 16 Notice sur la Vie de Victor Alfieri écrite par lui-même et traduite de l’italien par M. Ginguené, s.d. 17 C. Del Vento, Un allievo della rivoluzione. Ugo Foscolo dal «noviziato letterario» al «nuovo classicismo»: 1795-1806, Bologna, Clueb 2003. L’insegnamento dell’italiano in Francia nel primo Ottocento
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Le ragioni di tanto prodigarsi per gli esuli italiani si possono certamente trovare nella sua passione per la cultura della penisola, ma forse e soprattutto giacciono nella comune fratellanza massonica con molti di essi.18 Ginguené infatti fu esponente di spicco della massoneria transalpina e membro della più celebre loggia parigina, la Loge des Neuf Sœurs19 e ai suoi Fratelli dedicò nel 1810 la poesia Un frère à ses frères.20 D’altro canto massoni furono i citati Salfi, Pindemonte, Mascheroni e Buttura. Francesco Saverio Salfi,21 nato a Cosenza nel 1759, divenne prete, da subito mostrò inclinazioni letterarie (entrando a far parte dell’Accademia dei Costanti), ma soprattutto idee illuministe, scrivendo un saggio contro le credenze popolari nel 1786. Il 1787 lo vede docente di discipline letterarie a Napoli, dove ha l’opportunità di entrare in contatto con i grandi ingegni del tempo: Gaetano Filangieri, Antonio Genovesi, Mario Pagano e Antonio Jerocades. Il frizzante ambiente napoletano, i circoli intellettuali e massonici che ivi frequenta lo allontanano progressivamente dalla chiesa. Nel 1792 fu tra gli intellettuali partenopei che ricevette-
18
A. M. Rao, Poeti o anarchistes? La condizione dei letterati italiani in esilio, in Vincenzo Monti e la Francia. Atti del Convegno internazionale di studi, Parigi, 24-25 febbraio 2006, Parigi, Istituto italiano di cultura 2006, pp. 52-3: «preesistenti legami di solidarietà culturale e massonica, i rapporti, in particolare, con le Neuf Sœurs, dove militavano Amaury Duval, Ginguené, Chaptal, Fourcroy, il mondo degli idéologues insomma». 19 La loggia des Neuf Sœurs fu fondata a Parigi nel 1776 da un gruppo di massoni e intellettuali, tra cui l’astronomo Jérôme de Lalande e il poeta Michel de Cubières, che solevano riunirsi nel salotto di Madame Hélvetius e presto contò tra le sue file i maggiori ingegni dell’epoca: Voltaire, Franklin, i giuristi Pastoret, Dupaty ed Élie de Beaumont, i savants Court de Gebelin, Bernard-Germain-Étienne de La Ville conte di Lacépède, Pierre-Jean-Georges Cabanis, Joseph-Dominique Garat, Joseph-Ignace Guillotin, Joseph-Michel e Jacques-Étienne Montgolfier, i letterati Antoine Roucher, Évariste de Parny, Nicolas-Sébastien Roch Chamfort, Louis de Fontanes, Jacques Delille, Jean-Pierre Claris de Florian, Pierre-Louis Ginguené, Claude-Marie-Louis-Emmanuel Carbon de Flins des Oliviers, François de Neufchâteau. La loggia si caratterizzò per una straordinaria apertura verso il mondo esterno e per un’intensa e pubblica attività culturale, nonché per un marcato cosmopolitismo, tra i suoi membri infatti si contarono anche italiani come Fabroni del Gabinetto del Gran Duca di Toscana, i musicisti Nicolò e Giuseppe Piccinni, Giorgio De Santis medico del Gran Duca di Toscana, il duca Pignatelli Gran Maestro delle Logge del Regno di Napoli, il principe Sigismondo Chigi barone d’Olgiata e mecenate di Vincenzo Monti, il banchiere De Bardi, Antonio Buttura del Ministero degli Affari esteri del Regno d’Italia. Vd. L. Amiable, Une Loge maçonnique d’avant 1789. La Loge des Neuf Sœurs, commentaire et notes critiques de Charles Porset, Paris, Edimaf 1989. 20 La poesia Un frère à ses frères, scritta nel 1810, si può leggere in Colloque intenational «Ginguené», 2-3-4 avril 1992, Université de Rennes II-Haute Bretagne. 21 http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-saverio-salfi/ I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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ro l’ammiraglio francese Latouche-Tréville ed entrò a far parte della Società patriottica napoletana. Nel 1794, per evitare la reazione borbonica, fuggì prima a Genova, dove abbandonò l’abito ecclesiastico, poi a Milano, dove, firmandosi Franco, iniziò una carriera di ardente pubblicista e poeta civile. Nel 1798, al seguito del generale Championnet, tornò a Napoli, dove assunse l’incarico di segretario provvisorio della Repubblica napoletana. Presto, però, dovette riparare in Francia, seguendo il destino comune di altri patrioti esuli. Il soggiorno fu di però di breve durata: nel 1800, dopo Marengo, era di nuovo a Milano, docente al ginnasio di Brera. In seguito fu consigliere di Gioacchino Murat, alla cui morte riparò definitivamente in Francia. Da un punto di vista letterario Salfi non fu certo un autore di primo piano, tuttavia fu al centro di una fitta rete di legami tra intellettuali francesi e italiani e molto fece per la diffusione della nostra letteratura oltralpe e viceversa.22 Per capire la centralità di Salfi23 basti pensare che fu proprio a lui che Vincenzo Monti nel 1797, lasciata Roma per la Repubblica Cisalpina, scrisse una lettera,24 abiurando la Bassvilliana, e in seguito inviò i poemetti La Superstizione, Il Pericolo, Il Fanatismo, vicini ai «toni infiammati della poesia rivoluzionaria francese»25 e Il Prometeo, dedicato a Napoleone. La scelta di Monti certo non fu casuale considerando che Salfi aveva scritto un poemetto in versi sciolti su Bassville,26 antitetico al suo. I versi di Salfi poi, segnatamente l’Inno per la festa ordinata del generale in capo Brune, sono contenuti nel Parnasso Democratico,27 vera e propria summa della poesia repubblicana italiana tra Settecento e Ottocento. 22 Salfi fu profondo conoscitore e grande ammiratore della letteratura francese; curò infatti la trasposizione italiana di tragedie come i Templari di François Raynouard, il Fénelon, il Carlo IX, il Timoleone e il Caio Gracco di Marie-Joseph Chénier e raccolse nella sua biblioteca le maggiori opere filosofiche dei lumi francesi da Candide di Voltaire, all’Esprit des Lois di Montesquieu, a l’Intérpretation de la nature di Diderot: vd. L. Sozzi, La cultura francese di Francesco Saverio Salfi, in Id., Da Metastasio a Leopardi: armonie e dissonanze italo-francesi, Firenze, Olschki 2007, pp. 275-287. 23 Salfi fu al centro del dibattito intellettuale e muratorio nella Milano di primo Ottocento, vd. G. M. Cazzaniga, Nascita del Grande Oriente d’Italia, in La Storia d’Italia Einaudi, La Massoneria, Einaudi, Torino 2006, p. 558: «In questo dibattito stanno non solo fratelli come Salfi e Monti, Romagnosi e Gioia, Isidoro Bianchi e Compagnoni, Botta e Cuoco, ma anche giovani fratelli come Ugo Foscolo e giovani letterati, che in questo ambiente muratorio si formano e che saranno destinati a un brillante futuro, come Alessandro Manzoni». 24 M. Formica, Vincenzo Monti e la Rivoluzione, in Vincenzo Monti e la Francia cit., pp. 17-40. 25 W. Spaggiari, Poesia celebrativa del Monti francese, in Vincenzo Monti e la Francia cit., p. 191; nella nota 11 si suggeriscono come modelli, probabilmente noti a Monti, l’Hymne du Neuf Thermidor di Marie-Joseph Chénier e l’omonimo testo di Théodore Desorgues. 26 Francesco Saverio Salfi, Morte di Ugo Bassville, Milano, dallo stampatore Luigi Veladini 1796. 27 Parnasso Democratico ossia raccolta di poesie repubblicane de’ più celebri autori viventi, a cura di Giuseppe Bernasconi, Bologna [ma Milano?], 1801 [?].
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Veniamo infine all’Histoire littérarie d’Italie, vero monumento alla letteratura italiana. Il primo volume apparse nel 1811, nel 1813 erano usciti i primi sei curati interamente da Ginguené, che alla morte nel 1815 lasciò appunti e materiali per i successivi tre, editi per le cure di Salfi, con l’aiuto di Pierre Daunou e AmauryDuval. Salfi stesso poi scrisse gli ultimi cinque volumi, dal decimo (1823) al quattordicesimo (1835).28 L’eco dell’Histoire fu fin da subito vasta, tanto che fu tradotta in italiano già tra il 1823 e il 182529 e conobbe una seconda edizione a cura di Daunou, con preposte biografie di Ginguené (volume I) e Salfi (volume X), tra il 1824 e il 1835. Nel primo volume del 1811 Ginguené tracciò un piano ideale dell’opera, pensata in dieci volumi e che doveva abbracciare tutta la letteratura italiana dalla decadenza dell’impero romano al XVIII secolo, ma l’opera si arrestò al XVII secolo. I materiali, come dichiara l’autore stesso, derivano dalle sue lezioni presso l’Athenée di Parigi: il corso del 1802-1803 corrispondeva alla prima parte dell’opere (tre volumi dal tardo antico al XV secolo). In seguito Ginguené per motivi di saluti rinunciò alle lezioni e si dedicò interamente alla stesura dell’Histoire. La seconda parte doveva invece riguardare il solo XVI secolo, mentre al XVII e al XVIII sarebbe stata dedicata la terza parte. Nell’Introduzione al primo volume ogni epoca viene etichettata con una definizione saliente: le invasioni barbariche e i secoli successivi sono la «ruine totale des Lettres», l’XI secolo è invece «première époque de la renaissance des Lettres», il XIII viene identificato come la nascita della poesia italiana, il XIV è quello dei «trois grands hommes createurs d’une langue poetique et oratoire», segue poi il «savant quinzième siècle», si raggiunge il culmine con il XVI vera e propria «âge d’or», il XVII è invece un periodo di decadenza contrapposto alla gloria delle lettere francesi coeve, il XVIII segna una nuova rinascita attraverso la fusione di lettere, filosofia e scienze. L’iniziale progetto in dieci volumi viene rivisto all’altezza del settimo, il primo pubblicato dopo la morte di Ginguené: la trattazione del XVI secolo infatti, rispettando gli appunti dell’ideatore, si era oltremodo dilatata arrivando a coprire i volumi dal quarto al nono, si era reso pertanto necessario ampliare la misura dell’opera, che infine risultò composta di tre parti. La prima comprende tre tomi: dall’Età di Costantino a Dante, da Dante a Petrarca, da Boccaccio all’Umanesimo. La seconda, tutta cinquecentesca, consta di sette tomi, divisi per generi: due dedicati al poema cavalleresco, poi il teatro, gli studi eruditi, la prosa (Machiavelli, gli storici,
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G. M. Cazzaniga, Massoneria e Letteratura. Dalla République des Lettres alla letteratura nazionale in Le Muse in Loggia, Milano, Unicopli 2002, p. 20. 29 P.-L. Ginguené, Storia della letteratura italiana, traduzione del prof. Benedetto Perotti, Milano, dalla Tipografia di commercio 1823-1825. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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gli storici della letteratura, le novelle), la poesia didascalica e femminile, il settimo è composito e riunisce diversi generi poetici (egloga, elegia, lirica, poesia latina) e una riflessione sul rapporto tra arti e lettere. La terza parte in quattro tomi riguarda il Seicento: la letteratura scientifica (in particolare Galileo), il teatro e la poesia, un volume composito sul poema eroico, il poema eroicomico, la satira e gli studi letterati ed eruditi e un ultimo volume che inizia con una riflessione sulle cause della decadenza italiana e poi tratta dei poligrafi, delle enciclopedie, di Marino e il marinismo, della poesia latina e del rapporto tra arti e lettere. Nell’Introduzione Ginguené aveva brevemente toccato questioni metodologiche e in particolare si era soffermato sull’importanza di dare un quadro storico (la storia politica e militare viene definita «Histoire» con l’iniziale maiuscola): la letteratura infatti se considerata slegata da «histoire politique e vicissitudes» perde di significato. Questa linea verrà seguita anche da Salfi che giudicherà lo svolgimento letterario secondo il criterio delle libertà politiche e civili. Un altro aspetto fondamentale secondo Ginguené è quello della biografia, che sempre deve completare i profili letterari. Nella Nota biografica su Salfi scritta da Daunou nel 1834 si ricorda come il letterato cosentino abbia deciso di dedicarsi allo studio del Seicento, secolo di decadenza, spinto dall’amor di patria e come il suo merito principale sia stato quello di aver messo in primo piano una delle poche luci in quel secolo tenebroso: l’opera di Galileo. E questo era proprio l’intento già di Ginguené: scrivere un monumento alla tanto amata letteratura italiana, per farne conoscere tutti gli aspetti, anche minori, al grande pubblico francese, agli «amateurs éclairés de la littérature italienne».
L’insegnamento dell’italiano in Francia nel primo Ottocento
FILIPPO TIMO Un «Italiano della letteratura» all’estero: Niccolò Giosafatte Biagioli e il suo impegno per l’affermazione delle lettere italiane nella Parigi del primo Ottocento
Il ligure Niccolò Giosafatte Biagioli, nato a Vezzano nel 1772 ed emigrato in Francia nel 1799, deve la propria notorietà principalmente al fortunato e molto riprodotto Comento alla Divina Commedia (Parigi, Dondey-Dupré, 1818-1819). Ma Biagioli non è solo commentatore: è autore di testi di lingua e grammatica e all’attività di ricercatore affianca quella di insegnante, giungendo a rivestire un ruolo di primissimo piano nell’affermazione della lingua e letteratura italiana nella Parigi del primo Ottocento. L’indiscutibile qualità intellettuale, insieme all’estro e all’ambizione, portano Biagioli nei migliori salotti e nelle accademie della capitale francese, facendone vero promotore di cultura. I primi anni di vita parigina – 1800-1801 – sono, per Biagioli, segnati dalla stretta frequentazione degli altri emigrati politici italiani e dall’impegno didattico e letterario, attraverso cui può mantenersi. Aspetto, quest’ultimo, fondamentale, considerando che Biagioli è uomo di umili origini e giunge in Francia con pochi mezzi e nessuna rendita. Probabilmente inizia subito a proporsi come lettore privato di italiano e presto ottiene un insegnamento ufficiale di lingua italiana al Pritaneo di Parigi, attribuitogli dal governo francese. La notizia è riportata da tutti i maggiori biografi ottocenteschi del Biagioli, ma non è mai accompagnata da una precisa indicazione di data. Viene però unanimemente collocata all’inizio dell’esperienza francese, e più fonti specificano che tale incarico ha la durata di un solo anno, dopodiché la cattedra viene soppressa. Posto nuovamente di fronte alla necessità di trovare un impiego e una retribuzione, Biagioli si muove su due fronti: da una parte, come vedremo, avvia una collaborazione editoriale con alcuni stampatori e librai parigini, dall’altra intensifica l’attività di insegnante privato. La fine capacità oratoria, la solida formazione grammaticale e l’approccio moderno, più attento all’efficacia didattica che al rispetto dei tradizionali canoni di insegnamento, permettono al ligure di emergere prestissimo dalla vasta schiera degli emigrati italiani che a Parigi danno lezioni della propria lingua. Per far fronte al numero crescente di allievi che si rivolgono a lui, Biagioli sceglie di istituire corsi strutturati, aprendo
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di fatto una vera e propria «scuola privata». Entrato in amicizia con un altro insegnante di origine italiana, Andrea Mango, già professore in un liceo di Lione, Biagioli crea con lui una società per il libero insegnamento privato della lingua e della letteratura italiane. All’impresa arride uno straordinario successo, tanto che a distanza di anni il Bescherelle, nella sua biografia del Biagioli, potrà ricordarsene usando queste parole: «il fit […] plusieurs cours de langue et de littérature italiennes, qui, chaque année, attiraient un concours prodigieux d’élèves, appartenant pour la plupart aux classes élevées de la société, et parmi lesquels se trouvaient des personnages de la plus haute distinction, des savants et des littérateurs».1 La fama di ottimo insegnante che Giosafatte riesce a conquistarsi, ben maggiore di quella del più anziano collega Mango, non va disgiunta dall’apprezzamento che riscuote fra le classi abbienti. In altre parole, insomma, non solo Biagioli diventa insegnante conosciuto e stimato, ma lo diventa in particolare presso le famiglie più importanti di Parigi. Questa circostanza innesca una sorta di «circolo virtuoso» molto favorevole per Biagioli, che, prima di tutto attraverso l’impegno professionale, ha la possibilità di frequentare notabili e potenti. La sua presenza in determinati ambienti consolida ulteriormente il suo prestigio e lo riconferma anche presso esclusivi salotti italiani trapiantati a Parigi, come quello di Giulia Beccaria. Sollevato così dalle più impellenti necessità economiche, Biagioli può dedicarsi a progetti «a lungo termine» e pensa di realizzare un’opera didattica, per mettere a frutto anche in senso editoriale la posizione raggiunta. Per concretizzare questo intento cerca la collaborazione di Louis Fayolle, editore e libraio. La scelta di rivolgersi al Fayolle è naturale: questi, infatti, possiede una delle maggiori librairies italiennes della città, che certamente Biagioli ha la possibilità di frequentare sin dai primi mesi del suo trasferimento a Parigi. Fin da subito ha in mente un manuale didattico, ovviamente di lingua italiana: l’argomento è il più adeguato vista la sua solida formazione linguistica presso gli Scolopi e il prodotto potrebbe poi essere utilizzato in appoggio alle lezioni, trovando un immediato e sicuro bacino di acquirenti. L’idea della grammatica, è però anche molto ambiziosa: ha bisogno di un tempo di elaborazione più lungo e, come opera prima, dal punto di vista dell’editore rappresenta pur sempre un rischio. È forse proprio per il concorso di tutte queste ragioni che Biagioli e Fayolle decidono di iniziare la propria collaborazione con un’opera più sicura per l’editore e meno impegnativa per l’autore: la pubblicazione di un grande autore classico, riedito con la cura del giovane studioso. Esce così, nel 1804, il Tacito volgarizzato da Bernardo Davanzati. Riveduto e corretto da G. Biagioli. L’opera è in tre volumi e la stampa, poiché il Fayolle non possiede una tipografia propria, viene affidata a Armand Louis Jean Fain «le jeune». Il Fain è un tipografo giovane e attento e Biagioli è un
1 H. Bescherelle, Nécrologie-Biagioli, su «Revue encyclopédique», XLIX, Paris, gennaiomarzo 1831, p. 469.
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autore scrupoloso e di molti interessi, che offre volentieri una fitta presenza in tipografia: così quest’esperienza e la successiva, la Grammaire, appaiono fondamentali nella formazione di un metodo di lavoro che lo accompagnerà per tutta la vita, un metodo caratterizzato dalla diretta collaborazione e da un’efficace interazione col tipografo in tutte le fasi della creazione del libro, dall’editing alla stampa e alla vendita. Mentre il Tacito viene dato alla luce, Biagioli completa la prima opera da autore: nel 1805 può uscire così la Grammaire italienne, élémentaire et raisonnée, suivie d’un traité de la poésie italienne, di nuovo prodotta dall’associazione Fayolle – Fain. La Grammaire italienne élémentaire et raisonnée sarà una delle opere più fortunate e ristampate della sua carriera, e i consensi arrivano ancor prima della pubblicazione. Presentando il trattato in bozze e sottoponendolo all’analisi dell’illustre grammatico François Urbain Domergue, Biagioli ottiene la facoltà di fregiarsi dell’approvazione dell’Institut National de France, nato nel 1795 come erede delle cinque accademie più importanti della nazione.2 Una volta distribuita, l’opera riesce ben presto ad affermarsi come punto di riferimento per gli studi di lingua italiana, nonostante non sia l’unica del genere a disposizione di studenti e studiosi. Le ragioni del successo della Grammaire e delle altre opere linguistiche del Biagioli sono molteplici, legate ai contenuti e al metodo, ma anche all’inesausta volontà dell’autore di migliorare e aggiornare il proprio lavoro di edizione in edizione, mantenendo sempre viva una non comune capacità di cogliere le esigenze della didattica prima d’ogni altra cosa. Biagioli ha ben chiaro, innanzitutto, quale sia lo scopo e quale il pubblico cui la sua opera è indirizzata: la Grammaire non dev’essere un trattato rivolto agli studiosi ma un manuale per gli studenti – quelli francesi in primo luogo – e il suo fine dev’essere quello di portare ad una «connaissance approfondie»3 della lingua, nel modo più intuitivo e naturale possibile. Convinto che la prerogativa più importante di una grammatica sia l’efficacia didattica, Biagioli basa la propria opera sulla ricerca di tre caratteristiche fondamentali: simplicité, ordre, précision. Guardando a questi principi e all’esperienza di alcuni grandi maestri francesi delle discipline linguistiche e cognitive come Étienne Bonnot de Condillac e César Chesneau Dumarsais, al cui insegnamento l’autore si richiama apertamente,4 Biagioli giunge alla
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L’approvazione dell’Institut viene esibita sul frontespizio dell’opera, come prima garanzia di qualità. La circostanza che fosse stato il Domergue (1745-1810) ad analizzare l’opera per conto dell’Institut ci è riportata da C. Weiss, voce Biagioli in Biographie Universelle ancienne et moderne, nuova edizione pubblicata sotto la direzione di Louis-Gabriel Michaud, Paris, Desplaces et Michaud 1843 e segg., vol. IV, p. 265. 3 La citazione presente e tutte le successive contenute qui, salvo diversa indicazione, sono tratte dall’introduzione dell’autore alla Grammaire italienne, élémentaire et raisonnée, suivie d’un traité de la poésie italienne. 4 Cfr. l’introduzione alla Grammaire. L’opera che più di ogni altra ha influenzato l’impostaL’insegnamento dell’italiano in Francia nel primo Ottocento
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creazione di quello che è stato rivendicato come un vero e proprio metodo d’insegnamento, innovativo e compiuto. La prima edizione della Grammaire va esaurita in poco più di due anni e nel 1808 il libraio-editore Fayolle e l’autore stesso finanziano l’uscita della seconda edizione, che ottiene l’attenzione di una delle massime autorità del mondo accademico e letterario francese: Pierre Louis Ginguené.5 Questi recensisce il manuale del Biagioli nel numero del 28 gennaio 1809 della rivista «Le Mercure de France»,6 usando parole molto lusinghiere: «M. Biagioli a donc rendu, par cette Grammaire, un service essentiel, et à notre pays et au sien même. Il a prouvé, en revenant par un travail tout nouveau sur un ouvrage déjà publié avec succès, qu’il était fait pour y atteindre». La Grammaire avrà in tutto sei edizioni, l’ultima del 1827, e riuscirà a riscuotere molti altri consensi: basti ricordare che sarà citata da Francesco Saverio Salfi sul primo numero della rivista «Revue encyclopédique» nel 1819.7 Gli elementi comuni nei giudizi attribuiti alla Grammaire, che sono anche la chiave del successo ottenuto, sono la semplicità dell’approccio – che si traduce in efficacia didattica – e il fatto che l’opera si ponga apertamente sotto l’insegnamento dei grandi maestri francesi citati. Il riconoscimento, da parte del pubblico, di una «paternità nazionale» anche nell’opera di uno straniero, e per lo più volta allo studio di una lingua straniera, non è elemento secondario nell’affermazione dell’opera stessa. Il successo nell’attività di insegnante privato e l’ottimo riscontro, anche commerciale, ottenuto dalla sua Grammaire, consentono a Biagioli di raggiungere una certa stabilità, che accompagna felicemente alcuni importanti momenti della vita privata. Verso la metà del primo decennio – si ignora la data precisa, ma tale collocazione è la più attendibile – Biagioli sposa una donna d’origine polacca, Carolina Herdlizka, che si mantiene lavorando come insegnante di arpa e pianoforte ed è probabilmente già da tempo vicina alla «comunità italiana» di Parigi. Così Biagioli descriverà la compagna in una lettera inviata a Foscolo nel 1818: «Mia moglie, donna di bontà e saviezza, è una delle migliori cantatrici italiane, benchè Polacca di
zione dei lavori di Biagioli è l’Exposition d’une méthode raisonnée pour apprendre la langue latine di César Chesneau Dumarsais, uscita nel 1722 e utilizzata sino alle soglie dell’Ottocento. 5 Rennes, 1748-Parigi, 1816. Ginguené, con la sua Histoire littéraire d’Italie, regala alla Francia la prima opera completa, sistematica e moderna per lo studio della letteratura italiana. 6 P. L. Ginguené, Grammaire Italienne, élémentaire et raisonnée, par G. Biagioli (2me édition), su «Le Mercure de France», CCCXCIII, 28 janvier 1809. 7 F. S. Salfi, Du génie des italiens, et de l’état actuel de leur littérature, in «Revue encyclopédique», tomo I, 1819, pp. 515-524. Inoltre si veda il giudizio molto positivo dato da Anonimo, voce Biagioli, in Galerie historique des contemporains ou nouvelle biographie, Bruxelles, Wahlen 1818, tomo II: «l’ouvrage de M. Biagioli peut être regardé comme l’un des plus propres à faciliter la connaissance du plus séduisant des idiomes modernes» (p. 122). I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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nascita, e sonatrice d’arpa e piano eccellente, dotta in musica e compositrice di cose lodate dai primi maestri».8 Sul piano delle amicizie, che si sviluppano principalmente all’interno dell’ambiente degli esuli italiani, Biagioli in questi primi anni ha contatti con Urbano Lampredi, Luigi Angeloni, Francesco Gianni, Antonio Buttura, Carlo Botta. Con l’Angeloni, cresciuto come mercante autodidatta ma divenuto uomo di grandi interessi culturali e ottime letture, Biagioli ha rapporti sin dagli anni della Repubblica romana, in cui entrambi ricoprono incarichi amministrativi. Al Lampredi è accomunato dall’antica appartenenza agli Scolopi, e poi sia l’Angeloni che il Lampredi compiono con lui il viaggio di fuga da Roma verso Marsiglia. La frequentazione Francesco Gianni, invece, inizia probabilmente per la comune afferenza alla cerchia di protetti di Luigi Emanuele Corvetto e grazie al tramite di altri notabili d’origine ligure, ma è poi Lampredi a portare Gianni nella casa di Biagioli. Col Buttura Giosafatte stringe amicizia, inizialmente, grazie a ragioni professionali e culturali: entrambi sono insegnanti di italiano, forse addirittura nella stessa sede del Prytanée, e studiosi di Dante Alighieri. Col Botta, infine, diventa amico probabilmente per tramite di altri italiani conosciuti nei primissimi anni parigini: gli esuli creano nella nuova patria un vivacissimo ambiente culturale e politico, caratterizzato da scambi fitti e continuati, e la stessa lista delle conoscenze di Biagioli potrebbe proseguire ben oltre i nomi citati. La amicizie di Biagioli che abbiamo sin qui ricordato sono tutte importanti e significative, ma alcune più di altre hanno avuto un peso nelle vicende degli anni successivi. È il caso, ad esempio, del rapporto con Gianni e Lampredi, che nel 1807 lo porterà a partecipare alla stesura della Lettera di Filebo, scritto satirico contro Vincenzo Monti. Agli stessi anni appartiene anche un’altra frequentazione illustre del Biagioli: quella con Alessandro Manzoni, che può essere ricostruita grazie alle tracce contenute nell’epistolario del grande scrittore milanese. Quanto detto sin qui attorno alle amicizie di Biagioli con altri compatrioti non deve indurre a pensare che egli non abbia frequentazioni al di fuori della «comunità» italiana. Sono vivi e intensi, infatti, anche i suoi rapporti con la migliore società parigina. Il primo canale attraverso il quale può farsi conoscere a Parigi è quello delle lezioni private, che ottengono molto successo e sono frequentate da decine di studenti ogni giorno. Inizialmente gli allievi provengono più che altro dalla classe borghese e il rapporto del maestro coi giovani è più superficiale. Nel corso degli anni, però, il prestigio ottenuto dal Biagioli gli consente di rivolgersi ad una fascia sociale ancora più elevata. Mutando l’estrazione socio-economica degli
8 U. Foscolo, Epistolario, 1816-1818, a cura di Mario Scotti, Firenze, Le Monnier 1970, lettera 2245.
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allievi muta anche l’impostazione dei corsi: i gruppi di allievi diventano meno numerosi per consentire un rapporto più diretto con l’insegnante e il semplice maestro di lingua e letteratura si trasforma in qualcosa di più simile all’istitutore privato. Biagioli trasforma la propria casa in una sorta di collegio privato, riesce a dotarsi di una servitù per accogliere degnamente gli allievi e amplia notevolmente l’ambito delle discipline insegnate, ovviamente cercando la collaborazione di altri docenti. In particolare, specialmente negli anni successivi alla restaurazione, Giosafatte «assume» alle proprie dipendenze giovani letterati italiani ai quali affida i corsi base di lingua, mentre tiene per sé gli insegnamenti progrediti di grammatica e letteratura italiana ma anche di greco e latino. Intanto sua moglie completa l’offerta didattica insegnando musica, canto e recitazione. Il tutto è gestito con misura ed attenzione anche alla qualità degli studenti, secondo un principio teorico che imposta la formazione sullo scambio intellettuale fra tutti i membri della scuola, oltre che sulle tradizionali lezioni degli insegnanti. Tornando propriamente al tema delle frequentazioni del Biagioli, è innegabile che il commentatore ligure riesca a trarre profitto dalle occasioni che gli si presentano e dalle conoscenze che matura, molto più e molto meglio di tanti altri emigrati italiani nelle sue stesse condizioni. Riuscirà infatti ad entrare nei palazzi della più alta nobiltà parigina, diventando maestro di lingua e letteratura della futura classe dirigente della Francia post-napoleonica. L’inizio del secondo decennio dell’Ottocento porta il Biagioli verso una nuova fase, caratterizzata dall’attenzione sempre maggiore verso l’impegno esegetico. Gli anni dieci sono quelli in cui sulla sua scrivania, accanto alle opere grammaticali, compare il grande faldone del commento a Dante, affiancato poi dai commenti a Petrarca e Buonarroti. In questo orientamento possiamo vedere un’ulteriore prova della maturazione professionale di Biagioli, che ormai ha un curriculum tale da consentirgli di affrontare un’impresa ambiziosa come il commento alla Divina Commedia. Altro elemento caratterizzante del decennio è la nascita del rapporto con quello che sarà il più importante e significativo editore di Biagioli: Dondey-Dupré. Prima di entrare in contatto con Dondey-Dupré il ligure ha rapporti con vari editori anche molto prestigiosi, come il Fayolle – punto di riferimento per gli studi italiani in Francia – e i Didot, discendenti di una delle maggiori famiglie di editori e stampatori della nazione. Nel 1812, però, ragioni che ci restano in parte oscure lo spingono a firmare un contratto – quello per la terza edizione della Grammaire italienne, élémentaire et raisonnée uscita sino ad allora per Fayolle – con un nuovo editore: questi è appunto Auguste François Dondey-Dupré. La storia dell’editore Dondey-Dupré e sui suoi rapporti col Biagioli rappresentano un argomento ampio e complesso, che è impossibile sintetizzare in questa sede:9 qui basti anticipare che il rapporto di Giosafatte col figlio e successore di
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Un primo contributo sull’argomento, realizzato da chi scrive, è attualmente in corso di pubblicazione. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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Auguste François, Prosper, va oltre la normale relazione tra editore-stampatore e autore, per diventare un vero e proprio rapporto di scambio culturale, di progettazione comune, di interazione disciplinare, di reciproca influenza sugli indirizzi di studio, di ricerca e di investimento. Anche sotto il profilo commerciale, è attraverso il Dondey-Dupré che Biagioli avrà le migliori gratificazioni economiche, talora facendosi finanziatore lui stesso, ed è innegabile che, d’altro canto, una delle opere alle quali la casa di stampatori parigini deve maggiormente la propria notorietà è la Commedia commentata dal nostro. Da quanto s’è detto sin qui capiamo che la storia di Biagioli dal momento del suo arrivo in Francia è sostanzialmente un’ascesa senza soluzione di continuità: nella nuova patria Biagioli trova la libertà, la famiglia, il successo professionale e la stabilità economica. Quest’ascesa, tuttavia, alla metà degli anni Dieci subisce un brusco arresto, non per sua responsabilità ma per qualcosa che coinvolge l’intera nazione. La caduta di Napoleone e le conseguenti deliberazioni del Congresso di Vienna, che impongono alla Francia il pagamento di altissimi debiti bellici, precipitano lo stato in una terribile crisi economica che rischia di portare nuovamente alla guerra civile. Già prima dei cento giorni e soprattutto dopo la chiusura del Congresso, nel giugno del 1815, si avvia una fase di grave e prolungata instabilità finanziaria che colpisce duramente quella classe medio-borghese alla quale appartiene, perlomeno da un punto di vista economico, il Biagioli. Se le fasce sociali più ricche riescono a rispondere bene alla crisi, chi, come Biagioli, gode di un benessere acquisito da poco e tutto fondato sul reddito del momento, subisce un brusco dissesto. Costretto a vendere gran parte dei propri beni, compresi i mobili e i libri, deve rinunciare al tenore di vita raggiunto negli anni precedenti. Così racconta lui stesso in una lettera a Foscolo del 1818: «Mi sono dimenticato di dirle che tutti i libri che mi domanda con quanto si può avere d’interessante su questo poeta io l’ho avuto, ma sono stato costretto a vendere per nove cento franchi tutta la mia libreria di pochi volumi, ma di gran prezzo, e ciò all’ingresso in Parigi degli alleati, e per fame».10 Nel tentativo di risollevare le economie domestiche, Biagioli intensifica l’attività di insegnante privato e torna alla consuetudine, molto diffusa tra i rifugiati politici negli anni immediatamente successivi al 1799, di dividere l’abitazione con amici e conoscenti ottenendo una partecipazione alle spese. Per tutti gli anni della crisi economica Biagioli riesce a impedire che le gravi scelte cui è costretto – la vendita della biblioteca personale, l’aumento delle ore dedicate alle lezioni private per far fronte alle spese, un trasloco – e le preoccupazioni che ne derivano gravino eccessivamente sull’esito dei lavori critici e sul suo prestigio personale. Evidentemente, però, il dissesto subito è particolarmente
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U. Foscolo, Epistolario, 1816-1818, cit., lettera 2245.
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grave e profondo, a tal punto che dopo il 1815 la famiglia Biagioli non riuscirà più a tornare ad una reale soglia di serenità finanziaria. Indebitati e fiaccati dagli anni più duri, Giosafatte e Carolina dovranno combattere tutta la vita per mantenere quantomeno la dignità e i costumi che il loro status e la loro professione impongono. A risollevarli non basteranno i successi editoriali delle grammatiche e dei commenti, e nemmeno i nuovi prestigiosi incarichi che Biagioli saprà accaparrarsi. In particolare, a partire presumibilmente dal 1816, Biagioli diventa insegnante ufficiale di italiano presso la corte di Maria Carolina duchessa di Berry, moglie di Carlo Ferdinando di Borbone e nuora del futuro re di Francia Carlo X. Questo incarico gli consente di entrare in contatto col livello più alto della nobiltà francese, ottenendo quello che può essere considerato un riconoscimento ufficiale del suo valore professionale. Il ruolo gli impone di abbandonare gran parte delle altre attività didattiche e di trasferire tutte le proprie energie nelle lezioni per la corte ducale, che ha sede presso il Palais de l’Élysée. Peraltro l’origine italiana della giovane duchessa, figlia primogenita del re di Napoli Francesco I, fa sì che l’insegnamento della lingua e della letteratura italiane sia tenuto in grande considerazione all’interno della corte: da ciò deriva che l’incarico del Biagioli non è affatto marginale. Rimane maestro di corte probabilmente sino al febbraio 1820, quando l’assassinio del duca Carlo Ferdinando interrompe bruscamente la normale vita di palazzo e impone il trasferimento di Maria Carolina, incinta dell’atteso erede maschio del duca. Del rapporto di Biagioli con la corte della duchessa, tuttavia, rimarrà una testimonianza diretta nella dedica del Comento alle Rime di Francesco Petrarca, che sarà offerto proprio alla nobildonna. L’insegnamento di italiano alla corte, se in parte distoglie Biagioli dalle altre attività didattiche, non gli impedisce però di portare avanti con grande zelo il lavoro di commento alla Commedia, che a quest’altezza cronologica rappresenta il centro dei suoi interessi critici. Come ci informerà egli stesso nella prefazione al Comento,11 l’impresa dantesca inizia parecchi anni prima, ma è nel 1816 che il progetto può essere portato dinnanzi ad un editore, che ovviamente è Dondey-Dupré. Sul finire degli anni Dieci il prestigio e la notorietà di Biagioli sono assolutamente consolidati, dentro e fuori i confini della città di Parigi. A questo punto siamo giunti al biennio 1818-1819, che certamente è uno dei più significativi per l’attività critica del nostro autore, poiché è il momento in cui vede la luce la fondamentale edizione della Commedia. Ma nel 1819 Biagioli porta alle stampe, sempre presso Dondey-Dupré, anche la quarta edizione della Grammaire italienne, che si conferma come la sua opera più venduta in Francia. E proprio sulla carta di guardia di questo manuale l’autore annuncia la sottoscrizione per gli
11
Cfr. Dedica al Corvetto, in apertura del tomo I. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
Un «italiano della letteratura» all’estero
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altri due grandi commenti della sua officina critica: il Petrarca e il Buonarroti, che usciranno nel 1821. Attorno a Biagioli, divenuto ormai maestro maturo, si raccoglie una scuola di allievi e assistenti che collabora con i lavori di commento e partecipa alla gestione dell’attività didattica nei confronti degli studenti veri e propri, il cui numero è sempre tale da esaurire i posti disponibili. Fra gli studiosi che lo affiancano e ne diventano «allievi» in senso accademico vi sono figure interessanti come il pavese Angelo Cerutti, che parlerà diffusamente di Biagioli nella propria autobiografia stesa in maturità. La Vita di Angelo Cerutti12 è una finestra sulla storia di Giosafatte assolutamente senza pari per precisione e ricchezza delle informazioni: ci offre una descrizione esplicita e diretta di tutto il mondo del commentatore ligure. Attraverso le parole di Cerutti capiamo che, dall’inizio degli anni Venti, Biagioli punta davvero a crearsi una «scuola» in senso accademico. Cerutti e altri che verranno dopo di lui non sono propriamente allievi, ma neppure collaboratori alla pari com’era stato il professor Mango: sono piuttosto assistenti, che partecipano alla produzione scientifica svolgendo incarichi di supporto o correzione e all’attività didattica affiancando e sostituendo il maestro quando questi ha altri impegni. Obiettivo della loro formazione non è più solo la materia in sé, ma è diventare a propria volta insegnanti e autori, magari per raccogliere progressivamente l’eredità del maestro e darvi continuità, offrendo in cambio la propria collaborazione pratica e intellettuale. Anche il trattamento economico conferma i principi ispiratori di questo rapporto: Cerutti non paga benché assista a tutte le lezioni del Biagioli per completare la propria formazione, ma spesso non è neppure pagato per il lavoro «redazionale» cui attende oppure per le lezioni che tiene al posto del maestro. Riceve invece retribuzioni modeste e discontinue, quasi in forma di incentivi o ricompense in base alle disponibilità e al giudizio di Biagioli. La testimonianza di Cerutti, però, non è importante solo per gli aspetti citati: ci offre infatti notizie accurate e interessanti anche sull’organizzazione didattica quotidiana, sulla struttura e sui contenuti dei corsi agli studenti e persino sulle peculiarità e sulle piccole stravaganze che hanno fatto del Biagioli uno dei maestri più popolari di Parigi. Ad esempio, Cerutti ci informa che Biagioli tiene corsi individuali a domicilio oppure collettivi presso la propria abitazione; gli studenti riuniti alle lezioni collettive non superano il numero di venticinque per corso, e le classi sono divise per sesso. Alla sezione maschile sono ammessi soltanto allievi in età scolare o al massimo studenti universitari; a quella femminile, invece, sono ammesse anche donne
12
Vita di Angelo Cerutti con ragionamenti e digressioni morali e filosofiche, da lui scritta, Firenze,
1846. L’insegnamento dell’italiano in Francia nel primo Ottocento
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adulte, purché realmente motivate allo studio. Le classi ospitano anche molti studenti inglesi e occasionalmente altri di lingua tedesca o russa, ma l’ammissione alla scuola è soggetta a varie condizioni. Prima di accettare nuovi allievi Biagioli è solito assumere informazioni sulla famiglia, per constatarne la rispettabilità, e comunque gli studenti devono garantire impegno e buona condotta, pena l’estromissione dai corsi. La frequenza è obbligatoria, le lezioni sono quotidiane salvo il finesettimana e durano due ore ciascuna. Biagioli, oltre a pretendere assoluta puntualità e massima attenzione, affida compiti a casa, dei quali esige il completo svolgimento. Pure in presenza di allievi d’estrazione alto-borghese o addirittura nobile, in caso di carenze di disciplina il maestro applica un’esemplare durezza, ponendo al centro del proprio insegnamento i valori del rispetto e della responsabilità. Ora passiamo alla didattica: le lezioni prevedono spiegazioni del maestro, lavoro individuale e lavoro collettivo, con molte esercitazioni orali e scritte. Si utilizzano i testi grammaticali scritti dal Biagioli, da cui si derivano anche gli esercizi, e numerosi testi di lettura. Negli anni Venti anche tutti i testi di lettura sono opere commentate da lui: le Lettere del Cardinal Bentivoglio, il Tesoretto della lingua toscana, i Rerum vulgarium fragmenta e la Commedia, affrontati in questo ordine. Oltre ad essere letti ed analizzati, i testi vengono anche copiati per iscritto, note comprese, come esercizio di ortografia. Alla fine di ciascuna lezione c’è una sorta di verifica nella quale il maestro chiede la traduzione o l’interpretazione di frasi o versi in lingua italiana: chi sbaglia è tenuto al pagamento di un soldo che finisce in una cassa comune. Alla fine di ogni mese tale cassa viene utilizzata per l’acquisto di libri diversi che vengono dati in premio ai più meritevoli. L’intensa attività didattica e editoriale accompagna Biagioli sino alla morte, che giunge nel 1830: nell’autunno accetta di intraprendere un viaggio a Londra, probabilmente su invito di un allievo, ma durante il viaggio di ritorno, verso la fine di novembre, contrae una grave polmonite che lo porta a spegnersi in meno di un mese. Muore nella sua casa di Parigi il 23 dicembre 1830, assistito dalla moglie Carolina e dagli allievi degli ultimi anni. Pur ripercorse con la sintesi necessaria a questa sede, le vicende dei trent’anni di attività parigina del Biagioli sono tali da consentirci di collocarlo fra le personalità più rilevanti del mondo intellettuale parigino del primo Ottocento: non solo prolifico ricercatore e apprezzato insegnante, ma anche vero promotore della cultura italiana all’estero.
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
NARRAZIONI NOVECENTESCHE DEL DISPATRIO
CECILIA DEMURU La collaborazione di Luigi Meneghello a «Comunità»
Mi sono espatriato nel 1947-48, e mi sono stabilito in Inghilterra con mia moglie Katia. Non abbiamo figli. L’incontro con la cultura inglese e lo shock della loro lingua hanno avuto per me un’importanza determinante. Sono tuttavia certamente un italiano, e non ho alcun problema di identità, né mi sono mai sentito per questo aspetto in esilio.
«Mi sono espatriato»: è con questo verbo che Luigi Meneghello, nel profilo autobiografico sul risvolto di copertina del Dispatrio,1 indica il suo allontanamento dall’Italia. È stato più volte sottolineato il valore del prefisso nella parola dis-patrio;2 allo stesso modo merita di essere analizzato l’uso pronominale del verbo espatriarsi. Meneghello sceglie un verbo che si potrebbe definire di diatesi media, la stessa dia-
1
L. Meneghello, Il dispatrio, Milano, Rizzoli 1993. Si rimanda almeno a A. Tosi, Luigi nel paese delle meraviglie o il diario inglese di Meneghello, in Per ‘Libera nos a malo’. A 40 anni dal libro di Luigi Meneghello, Atti del convegno internazionale di studi «In un semplice ghiribizzo» (Malo, Museo Casabianca, 4-6 settembre 2003), a cura di G. Barbieri e F. Caputo, Vicenza, Terra Ferma 2005, pp. 193-199; D. Starnone, Il nocciolo solare dell’esperienza, in L. Meneghello, Opere scelte, progetto editoriale e introduzione di G. Lepschy, a cura di F. Caputo, con uno scritto di D. Starnone, Milano, Mondadori 2006, p. XXV. Meneghello, sollecitato in un’intervista da Giulio Nascimbeni (Meneghello: le radici vere stanno nel dialetto, «Corriere della Sera», 3 agosto 1983), ha spiegato perché gli piacque il concetto di «dispatrio» proposto da Paolo Milano nella sua recensione a Libera nos a malo (Il borgo visto in ogni sua parte, «L’Espresso», 14 luglio 1963): «Perché nella mia decisione di lasciare l’Italia, il senso di “dispatriare” c’era. A influenzarmi era il senso dell’enorme ritardo culturale causato dal periodo storico precedente: lo pativo quasi come una vergogna personale, capivo che bisognava andare in un paese più avanzato, più moderno, per imparare nuove esperienze di vita», G. Nascimbeni, Il calcolo dei dadi. Storie di uomini e di libri, Milano, Bompiani 1984, pp. 9798. 2
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tesi che nel latino caratterizza verbi deponenti come ricordare, nascere o morire: «Nel primo mistero pensoso si contempla l’idea che morire è deponente»,3 scriverà Meneghello. L’espatrio quindi è un’esperienza di passaggio che coinvolge direttamente il soggetto e che richiede per essere descritta una oltranza espressiva, affidata alla morfologia derivativa: dis-patrio, espatriarsi; allo stesso modo Meneghello invita a riflettere sul fatto che la lingua non disponga di un verbo che riesca da solo a descrivere il passaggio tra fascismo e antifascismo: «Fu un processo esaltante e lacerante insieme: un po’ come venire in vita, e nello stesso tempo morire», scrive nell’explicit dei Fiori italiani (1976).4 Tra le varie attività che caratterizzarono gli anni del dispatrio, l’attenzione si concentrerà qui sulla collaborazione di Meneghello a «Comunità», rivista fondata da Adriano Olivetti; questa attività, come è noto, precede quella di narratore: Meneghello infatti pubblica sulla rivista più di un centinaio di articoli, tra 1952 e 1961,5 cioè prima dell’esordio narrativo nel 1963 con Libera nos a malo.6 I primi tre articoli, firmati con il suo vero nome, sono dedicati ai fabiani; nel giugno 1953 esce un articolo firmato con lo pseudonimo Andrea Lampugnani (dal nome dell’autore della congiura del 1476 contro Gian Galeazzo Visconti) e da allora solo articoli firmati con lo pseudonimo Ugo Varnai (dal cognome del cognato), con cui Meneghello firmerà anche recensioni di libri italiani pubblicate in Inghilterra, soprattutto sul «Times Literary Supplement», e traduzioni, alcune pubblicate per le Edizioni di Comunità. Nel Tremaio, Meneghello ha specificato come negli scritti pubblicati in quegli anni lo guidasse un sentimento di polemica contro le scritture accademiche italiane: Quando mi sono trovato in Inghilterra, negli anni dopo il 1947, mi è capitato di scrivere – inevitabilmente, perché insegnavo in un’università – della roba di tipo accademico, saggi, recensioni, ecc., qualche volta in inglese e qualche volta in italiano (tra parentesi, ho pubblicato solo una frazione minima di questi scritti e scarabocchiamenti, e per lo più sotto altro nome). Lasciando ciò che scrivevo direttamente in inglese, che costituirebbe un argomento a parte, nelle scritture italiane mi guidava un sentimento di fondo, una polemica piuttosto accesa contro la falsa profondità e l’oscurità artificiata, finta, di una parte purtroppo dominante dei nostri scrittori e critici, sia
3
L. Meneghello, Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta. Volume I: Anni Sessanta, Milano, Rizzoli 1999, p. 362 (datato settembre 1967). 4 L. Meneghello, Fiori italiani, in Id., Opere scelte cit., p. 963. 5 Per l’elenco completo degli articoli, si rimanda alla Bibliografia a cura di F. Caputo in L. Meneghello, Opere scelte cit., pp. 1759-1767. 6 L. Meneghello, Libera nos a malo, Milano, Feltrinelli 1963. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
La collaborazione di Luigi Meneghello a «Comunità»
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accademici che, come dicevano, militanti (cosa vuoi militare, avrebbe detto il piantone Giazza del 5° Alpini a Merano).7
Lo stesso spirito di polemica e il desiderio di proporre studi chiari e documentati emerge anche dal carteggio con l’amico Renzo Zorzi, redattore di «Comunità»: è lui che gli propone di collaborare alla rivista.8 Lo scambio epistolare tra i due dimostra che Meneghello attraverso le sue recensioni intende dare un resoconto in Italia di nuove materie di discussione e di nuovi aspetti culturali dell’Inghilterra. Così per esempio scrive in una lettera datata 7 gennaio 1956: A me sembra che se riuscirò a continuare, la rivista avrebbe una rubrica mensile di libri «inglesi» di cui non credo ci sia l’equivalente in Italia. Sono questi i libri che le più aggiornate tra le persone colte, qui in Inghilterra, riescono a leggere, o a «vedere» di mese in mese: e noi cerchiamo di darne conto al lettore italiano a mano a mano che escono, aprendogli un campo che altrimenti gli resterebbe inaccessibile e sconosciuto.
La ricezione di questi argomenti presso i lettori italiani, però, non sarà esente da problemi: La famiglia, il paese, Vicenza, Padova; poi l’Italia, la cultura europea, la nostra collocazione nella storia del secolo… Lì a quel tempo mi fermavo. La critica della civiltà occidentale, non aveva libero corso in Italia. Ne trovai i primi esempi (primi per me, si capisce) in vari libri inglesi. […] Però, tornando in Italia d’estate, dovevo stare molto attento a parlare di questi argomenti. La gente, amici magari, si arrabbiava, si offendeva. Le Crociate? Lascia stare… E analogamente, i pederasti? ma andiamo… Le statistiche? non parlarmi delle statistiche…9
Su «Comunità» Meneghello pubblica soprattutto recensioni a libri inglesi, prevalentemente di storia, politica e letteratura. La maggior parte degli articoli compare in una rubrica intitolata Libri inglesi o Libri in Inghilterra; in qualche caso la recensione viene pubblicata a tutta pagina sottoforma di saggio (per esempio dedica, su
7
L. Meneghello, Il tremaio, in Jura. Ricerca sulla natura delle forme scritte (1987), in Id., Opere scelte cit., p. 1073 (riproduce il testo pubblicato nel volume Il tremaio. Note sull’interazione tra lingua e dialetto nelle scritture letterarie, Bergamo, Lubrina 1986). 8 Il carteggio editoriale, costituito da 33 lettere, scritte tra ottobre 1952 e dicembre 1960 (non sono presenti le minute di alcune lettere di Zorzi), è conservato in copia nel Fondo Meneghello presso il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia (in originale presso l’Archivio Storico Olivetti di Ivrea); cfr. la Cronologia a cura di F. Caputo, in L. Meneghello, Opere scelte cit., pp. CXXX-CXXXVII. 9 L. Meneghello, Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta. Volume III: Anni Ottanta, Milano, Rizzoli 2001, p. 452 (datato 11 novembre 1988). Narrazioni novecentesche del dispatrio
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richiesta di Renzo Zorzi, una lunga recensione a Lolita di Vladimir Nabokov);10 in altri casi l’articolo va a costituire una sezione della rivista, nella forma di rassegna bibliografica, insieme a interventi di storici come Aldo Garosci e Giovanni Vigo. Molto spesso, anche se il testo si presenta come recensione, Meneghello inserisce riferimenti alla sua esperienza personale in Inghilterra, spesso con un semplice «qui in Inghilterra», ma in altri casi con qualche riferimento autobiografico; per esempio, recensendo due volumi dedicati alla campagna antinucleare in Inghilterra, scrive: Mi sono trovato anch’io a marciare per un tratto coi dimostranti della marcia su Aldermaston, e ho assistito alla manifestazione finale e alla estromissione (del tutto pacifica) di un gruppetto di controdimostranti intervenuti all’ultimo momento sul luogo del raduno a tentare di guastare la manifestazione a bordo di una sinistra Mercedes nera.11
In una recensione del 1959 inserisce un breve inserto narrativo: L’accento australiano si considera da molti, qui in Inghilterra, rozzo e popolaresco: emblema di tutta un’atmosfera sociale e intellettuale. Si pensa all’Australia come a una specie di deserto culturale: un continentaccio senz’anima. Una signora che conosco, che deve trasferirsi laggiù per qualche anno con la famiglia, si preoccupa gravemente di quello che potrà accadere, tra quella gente stolida e rude, alla sua figliuola quindicenne allevata finora con arcaica finezza. Così ha accelerato le cure preventive, una specie di vaccinazione a base di latino, di musica, di poesia italiana. «Se lei avesse una figlia – dice alle mie blande esortazioni a non esagerare – cosa preferirebbe che diventasse, un’australiana o (con un rialzarsi della voce) una fiorentina?»12
Con un riferimento personale conclude una recensione del 1960: Senza contare che, per quelli di noi che viviamo all’estero, verrebbe a cessare l’imbarazzo di sentire che si aspetta da noi – per via di quel mito – quello che non sempre siamo in grado di dare. Un mio amico, italiano senza ardori se mai ce ne furono, mi confessava durante un suo soggiorno qui che a una donna conosciuta a un ballo, per non deludere le aspettative che la sua vera nazionalità avrebbe inevitabilmente suscitate, s’era indotto a dichiararsi svizzero del Canton Ticino!13
10
U. Varnai, Il successo di Lolita, in «Comunità», XIII (1959), 71, pp. 92-94. Id., Campagna anti-nucleare in Inghilterra, in «Comunità», XII (1958), 62, pp. 33-36 (recensione a P. Noel-Baker, The Arms Race, London, Stevens & Sons 1958; S. King-Hall, Defence in the Nuclear Age, London, Gollancz 1958). 12 U. Varnai, Ritratto dell’Australia, in «Comunità», XIII (1959), 70, pp. 104-107 (recensione a J.D. Pringle, Australian Accent, London, Chatto & Windus 1958). 13 U. Varnai, As for Italy, in «Comunità», XIV (1960), 78, pp. 100-101 (recensione a J.F. Revel, As for Italy, London, Weidenfeld & Nicolson 1959). 11
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L’episodio verrà poi ripreso nelle Carte: Lorenzo [Renzo Piovesan] si vergognava di essere italiano, per timore che le ragazze inglesi si aspettassero da lui un certo tipo di esuberanza: e a quelle che incontrava nelle balere ecc. diceva che era svizzero, dei cantoni italofoni.14
In una recensione a Julian Huxley, inserisce un paragone con un’esperienza qui attribuita genericamente all’esercito italiano, ma autobiografica: Le grandi fedi politiche riguardano una classe, un gruppo, una razza, una nazione: che saranno concetti vaghi, ma si prestano benissimo a caricarsi di contenuti emotivi specifici e concreti. Fino all’ultima guerra ai nostri fanti in addestramento si insegnava a gridare «Savoia!» al momento di lanciarsi all’assalto delle trincee nemiche. Se il simbolo fosse opportunamente scelto si può discutere. Ma come fare a rappresentarsi dei fanti che, innastate le baionette, in una guerra in cui le baionette servano ancora a qualcosa, corrano sulle trincee nemiche gridando: «Evoluzione!» «Transumanesimo!» «Neomendelismo!» «Relatività!»?15
L’assalto alle trincee finte al grido «Savoia» sarà descritto nei Piccoli maestri (1964), dove Meneghello svilupperà la riflessione ironica che aveva anticipato nelle pagine di «Comunità», fino alla proposta di un grido alternativo: Fatto sta che questo momento è senz’altro eccitante da un punto di vista strettamente sportivo; il caposquadra si alza in piedi, gli altri lo imitano, e tutti si slanciano sulla trincea finta gridando Savoia!. Ora bisogna dire che questo grido era foneticamente perfetto; a me non mancava mai di procurare una certa ebbrezza, tanto è vero che sognando di ripristinare queste tattiche sull’Altipiano, sentivo che ci sarebbe voluto un grido analogo, forse La troia! che rendeva l’idea.16
Potrebbe aiutare a costruire una mappatura delle recensioni di Meneghello su «Comunità» lo scritto I Vittoriani, in cui l’autore parla di «letture formative estranee ai miei studi» nei primi tempi del suo soggiorno in Inghilterra, mettendo particolare enfasi soprattutto sul fatto che si trattava di letture inglesi: Si tratta sempre di letture «inglesi» o filtrate attraverso l’inglese, che hanno condizionato il mio modo di vedere e giudicare il tempo in cui viviamo.17
14
L. Meneghello, Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta. Volume II: Anni Settanta, Milano, Rizzoli 2000, p. 237 (datato 6 ottobre 1974). 15 U. Varnai, Otri nuovi per vino vecchio, in «Comunità», XII (1958), 58, pp. 103-104 (recensione a J. Huxley, New Bottles for New Wine, London, Chatto & Windus 1957). 16 L. Meneghello, I piccoli maestri, in Id., Opere scelte cit., p. 446. 17 Id., I Vittoriani, in La materia di Reading e altri reperti (1997), in Id., Opere scelte cit., p. 1364. Narrazioni novecentesche del dispatrio
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Individuare i principali poli di interesse di queste letture, e dei libri recensiti su «Comunità» (i fabiani e i vittoriani; la Germania, il nazismo e lo sterminio degli ebrei; il bolscevismo, il comunismo e l’URSS; l’astrofisica e la cosmologia), permette di ricostruire la «biblioteca di formazione» dello scrittore; il regesto dei titoli recensiti, incrociato con le informazioni, quasi i consigli di lettura, sparsi nei libri della «materia inglese» e nelle annotazioni delle Carte, aiuta a delineare un nuovo scaffale di quella biblioteca dello scrittore che, come ha visto Pietro De Marchi, Meneghello ha rivisitato nei Fiori italiani:18 La risposta che danno i Fiori italiani è che la cultura si trasmette attraverso una biblioteca, e soprattutto attraverso i libri di scuola, cioè attraverso le parole, la lingua di questi libri. Ma anche attraverso l’esempio di chi legge i libri (magari altri libri, un’altra biblioteca) e li interpreta.19
Ai libri della scuola fascista si era sostituita una nuova bibliografia, incarnata da Toni Giuriolo: «In un senso importante, Antonio era quei libri; la sua persona appariva come fusa con la sua biblioteca».20 La biblioteca dello scrittore si viene ora idealmente a completare secondo il punto di vista privilegiato di un italiano dispatriato, che trova in letture inglesi una chiave di lettura anche sulla cultura italiana:
I Vittoriani nasce come relazione a un incontro al Circolo Filologico Linguistico Padovano nel 1996. 18 P. De Marchi, La biblioteca di un italiano. I ‘Fiori italiani’ di Luigi Meneghello come romanzo di formazione, in «Versants», 53-54 (2007), pp. 221-239. 19 Ivi, p. 227. 20 L. Meneghello, Fiori italiani, in Id., Opere scelte cit., p. 958; l’abbozzo di «catalogo ragionato» dei libri di Antonio si legge alle pp. 958-961. Secondo Rocco Mario Morano, la biblioteca è «descritta con cura non senza il dichiarato proposito di poterne un giorno “ricostruire il catalogo ragionato”, quasi con l’intento, abilmente celato però, di competere letterariamente (ma per contrapposizione e per contrasti impliciti di rappresentazione) con le biblioteche di due personaggi “comici”, in senso pirandelliano, della letteratura mondiale: Don Chisciotte e Don Ferrante, entrambi traviati, sia pure per motivi e intenti diversi, dalle loro letture, a differenza di Giuriolo che dal rapporto costante e metodologicamente corretto con i libri sa trarre succhi vitali per comprendere sempre meglio il mondo “reale” in cui opera», R.M. Morano, ‘I piccoli maestri’ e ‘Fiori italiani’: Luigi Meneghello tra «fraterna acies» e «lezioni d’abisso», in Omaggio a Luigi Meneghello, a cura di A. Daniele, Cosenza, Centro Editoriale e Librario Università degli Studi della Calabria 1994, p. 111. Cfr. anche: «Avevamo bensì, in questo gran sconquasso, la parte migliore della nostra cultura, quella acquistata non a scuola, ma fuori. Erano come appigli rocciosi in mezzo a una corrente. C’era l’antifascismo di Antonio; i poeti, Baudelaire e Rimbaud, alcuni altri; molte poesie singole e un gran numero di versi o emistichi; c’era il metodo che noi chiamavamo crociano, le distinzioni tra questa e quella forma della coscienza», L. Meneghello, I piccoli maestri cit., p. 459. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
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Sono ben curiose le strade per cui si formano le nostre idee: nel mio caso ero dovuto uscire dal mio ambiente per vedere con chiarezza che il presente e il passato prossimo di una cultura (e di un paese) non sono separabili.21
Nei Vittoriani, Meneghello parla anche di alcuni dei testi da lui recensiti: in particolare, tra le biografie, ricorda quella di Rudyard Kipling, citando la sua recensione su «Comunità» nel 1955.22 Tra le autobiografie, cita L’apprendistato di Beatrice Webb, primo testo che ha recensito sulla rivista nel 1952, definendolo «uno dei più libri della letteratura biografica di questo secolo».23 Sul significato del termine apprendistato (che darà il titolo alla lectio magistralis di Palermo nel 2007)24 commenta nei Vittoriani: (l’apprendistato: il lavoro intellettuale sentito come un onesto mestiere a cui ci si addestra!)25
Se l’attività di recensore meriterebbe di essere studiata nel suo valore di politica culturale, anche in relazione al progetto complessivo della rivista, la lettura di questi articoli interessa anche per altri aspetti. Da un lato l’autore, con una prassi che gli è consueta, riproporrà in altre sedi questi articoli; il caso più noto è il libro Promemoria,26 la cui genesi viene ricostruita da Meneghello nella Nota in limine:
21 L. Meneghello, I Vittoriani cit., p. 1360. Ma già presso la biblioteca di Giuriolo c’erano «le traduzioni di libri stranieri allora disponibili in Italia (tipicamente Laterza, e in seguito Einaudi) che servissero a contestare la versione ufficiale dei grandi eventi del secolo, cominciando dalla rivoluzione bolscevica, o a fornire ragguagli sulle esperienze politiche e culturali del mondo contemporaneo, la crisi del socialismo, i problemi della civiltà delle masse; e inoltre quei testi che Antonio si procurava in Francia, importandoli illegalmente, libri come l’allucinante Hitler m’a dit, o la Trahison des clercs. C’erano presenze inattese e illuminanti, Keynes per esempio, e c’erano cose tutt’altro che ovvie; e poteva capitare che un oscuro libro, diciamo i saggi di Prévost Paradol, un polemista liberale del Secondo Impero, aprisse un prezioso spiraglio su certe realtà della vita europea», L. Meneghello, Fiori italiani cit., pp. 959-960. 22 L. Meneghello, I Vittoriani cit., pp. 1364-1365. Cfr. U. Varnai, Una nuova biografia di Kipling, in «Comunità», X, (1956), 39, pp. 55-57 (recensione a C. Carrington, Rudyard Kipling. His Life and Work, London, Macmillan 1955). 23 L. Meneghello, Ritratti di Fabiani. «… Entra Beatrice Webb», in «Comunità», VI (1952), 16, pp. 26-28. 24 Il testo della lectio magistralis in occasione della laurea ad honorem in Filologia moderna (Palermo, 20 giugno 2007) si legge oggi in L. Meneghello, L’apprendistato, in Volta la carta la ze finia. Luigi Meneghello. Biografia per immagini, a cura di G. Adamo e P. De Marchi, Milano, Effigie 2008, pp. 36-40 (cfr. anche L. Meneghello, Io apprendista della penna, «Il Sole-24 Ore», 8 luglio 2007). 25 L. Meneghello, I Vittoriani cit., p. 1367. 26 Id., Promemoria. Lo sterminio degli ebrei d’Europa, 1939-1945, in un resoconto di «Ugo Varnai»
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Cecilia Demuru
Questo libretto non è mio ma di Ugo Varnai, il nome che usavo negli anni Cinquanta per la rubrica «Libri inglesi» nella rivista «Comunità». Il testo che qui si ripubblica con poche modifiche tipografiche e minimi ritocchi di superficie è uscito in tre parti nei numeri di dicembre 1953 e febbraio e aprile 1954. È un resoconto dettagliato del libro di Gerald Reitlinger sulla Final Solution, la «Soluzione Finale» della questione ebraica messa in opera dai nazisti negli anni della guerra, dal ’39 al ’45.27
Meneghello, ricordando in apertura della prefazione che il libro «non è mio ma di Ugo Varnai», sembrerebbe suggerire che non si tratta della scelta di un semplice pseudonimo,28 ma quasi di uno sdoppiamento, simile a quello tra «io scrivente» e «io parlante» di cui ha parlato nei saggi intitolati Per non sapere né leggere né scrivere.29 Ribadire la scelta dello pseudonimo nel riproporre a distanza di anni questi scritti significa anche porre un distacco con una materia che ha profonde implicazioni per l’autore;30 solo come lettore e recensore è possibile trattarla come oggetto di studio e fare definitivamente i conti con questo argomento: Io avevo notizie personali e dirette (partecipate con estrema reticenza, ma assorbite quasi per osmosi) su due dei luoghi chiave, Auschwitz nel 1944, e Belsen nei primi mesi del 1945, ma non avevo mai voluto fare veramente i conti con la realtà ultima dei fatti, guardare in faccia il mostruoso insieme della cosa.31
A proposito degli articoli sullo sterminio degli ebrei, è ancora il carteggio con
(1953) del libro ‘The Final Solution’ di Gerald Reitlinger, Bologna, il Mulino 1994. Su «Comunità» la recensione a G. Reitlinger, The Final Solution. The Attempt to Exterminate the Jews of Europe, 1939-1945, Valentine, London, Mitchell & Co 1953 è uscita in tre puntate, intitolate Lo sterminio degli ebrei d’Europa: I, in «Comunità», VII (1953), 22, pp. 16-24; II. Auschwitz, in «Comunità», VIII (1954), 23, pp. 10-15; III. I risultati della «soluzione finale», in «Comunità», VIII (1954), 24, pp. 36-39. 27 Ivi, p. 7. 28 La scelta è anche contingente, come testimonia il carteggio con Renzo Zorzi: «Circa la faccenda degli pseudonimi, la questione è importante per me, per un complesso di motivi accademici che sarebbe lungo spiegare» (lettera del 27 marzo 1953). 29 L. Meneghello, Per non sapere né leggere né scrivere, in Jura cit., p. 984. 30 La moglie Katia Bleier, ebrea jugoslava di madrelingua ungherese, fu deportata a Auschwitz e poi a Belsen, cfr. la Cronologia cit., pp. CXXII-CXXIII. 31 L. Meneghello, Promemoria cit., p. 7. Cfr. anche: «Io so che cos’è la fame vera, perché conosco bene chi l’ha conosciuta bene, specialmente a Auschwitz, ma anche a Belsen dov’era ancora peggiore, però lì ormai non la sentivano quasi più; non dicono quasi nulla su questa fame, e in generale su tutta la faccenda, ma si capisce lo stesso; queste comunicazioni avvengono in un modo molto curioso, non si dice quasi nulla, e a un certo punto si sa quasi tutto», Id., I piccoli maestri cit., pp. 471-472. I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
La collaborazione di Luigi Meneghello a «Comunità»
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Renzo Zorzi a dimostrare che la proposta del testo di Reitlinger intende mettere a disposizione del pubblico italiano dei documenti nuovi; così Meneghello scrive in una lettera del 27 settembre 1953: Tu sai che i nostri fascisti tentano di minimizzare (come suppongo che direbbero) la faccenda dei campi di annientamento; ed io credo di poterti dare uno scritto che potrà forse far testo in materia, grazie s’intende alla quantità e qualità del materiale di recente pubblicato e di cui io mi servirei senza pretese di contributi originali. Si tratta di mettere a disposizione del pubblico nostro dati che esso non conosce.
Sarà sufficiente ricordare in questa sede almeno un altro caso di recupero a distanza di molti anni di un articolo: la recensione alla biografia di Havelock Ellis (1959) viene ripubblicata con lievi modifiche nella serie delle Nuove Carte nel 2006 sul supplemento domenicale «Sole-24 ore», con il titolo Il timido pioniere dell’eros.32 Infine, l’analisi di questi articoli conferma che tutto all’interno del suo cantiere elaborativo può diventare materia narrativa: le letture effettuate tra Anni Cinquanta e Sessanta in Inghilterra per queste recensioni offriranno anche a distanza di anni spunti all’interno di romanzi.33 In Libera nos a malo la riflessione sul sonno del compagno d’asilo Olmo, introdotta da «Ora so che certe aree del cervello dormono sempre», è basata, come indicato nell’apparato di note posto in appendice al romanzo, su «(Recenti studi inglesi sulla fisiologia del cervello)», tra cui con ogni probabilità un saggio di divulgazione scientifica sull’evoluzione del cervello e le malattie psicosomatiche recensito nel 1961;34 analogamente la distinzione tra labour e work, dove il lavoro-fatica viene ricondotto al tribulare del dialetto, risale a Hanna Arendt, The human condition, che Meneghello aveva recensito su «Comunità» nel 1960, soffermandosi proprio su questa distinzione.35
32
U. Varnai, Niente passione, in «Comunità», XIII (1959), 72, pp. 116-117 (recensione a A. Calder-Marshall, Havelock Ellis. A Biography, London, Rupert Hart-Davis 1959); L. Meneghello, Il timido pioniere dell’eros, «Il Sole-24 Ore», 15 gennaio 2006. 33 Dei numerosi e più o meno diretti riferimenti a questi testi contenuti nei volumi delle Carte si darà solo qualche esempio. 34 L. Meneghello, Libera nos a malo, in Id., Opere scelte cit., p. 29 (la nota a p. 307); U. Varnai, Il presuntuoso cervello dell’uomo, in «Comunità», XV (1961), 95, pp. 117-118 (recensione a A. T. W. Simeons, Man’s Presumptuous Brain. An Evolutionary Interpretation of Psychosomatic Disease, London, Longmans 1960). 35 L. Meneghello, Libera nos a malo cit., p. 122 (la nota a p. 321); U. Varnai, Il lavoro, le opere e le azioni, in «Comunità», XIV (1960), 78, pp. 95-98 (recensione a H. Arendt, The Human Condition, Chicago, University of Chicago Press 1958). Narrazioni novecentesche del dispatrio
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Un passo dei Piccoli maestri presenta un riferimento a un testo recensito nel 1955; nel romanzo si legge: Di questi grandi villeggianti della guerra civile, la borghesia urbana ne ha prodotti parecchi; non pochi di loro sono oggi energicamente schierati dalla parte degli angeli, hanno fatto carriera, e speriamo che siano contenti.36
In questo caso Meneghello fa riferimento a una frase di Benjamin Disraeli, oppositore di Charles Darwin, che aveva citato nella recensione Scimmie, angeli e vittoriani illustri (1955): Nel 1864 il Disraeli esprimeva l’estremismo ideologico del suo tempo nella celebre dichiarazione: «La questione è la seguente: È l’uomo una scimmia o un angelo? Io per me sono dalla parte degli angeli»; offrendo tra l’altro ai posteri la formula classica del moralismo vittoriano.37
Se in questi casi conoscere le recensioni permette di rendere più decodificabili riferimenti contenuti in opere successive, alcuni romanzi e studi recensiti per «Comunità» diventeranno dei veri e propri testi di riferimento nella formazione intellettuale dello scrittore, che a questi testi disseminerà negli anni all’interno delle proprie opere allusioni più o meno dirette. È il caso per esempio del già citato Apprendistato di Beatrice Webb, o, tra gli studi scientifici di cui dichiara più volte la preminenza, di The black cloud di Fred Hoyle,38 che definisce nell’Acqua di Malo «l’astronomo e cosmologo (e strambone) che oltre che uno scienziato di rango è uno dei più stimolanti e provocanti divulgatori di pensieri scientifici»:39 è soprattutto da Hoyle, come specifica in questo scritto, che gli deriva il concetto di «buco nero della testa» come fonte delle idee;40 su Hoyle scrive nelle Carte: Messaggetto: «Scrivete sui quanti, poesie, anche prose, e sulle esplosioni terminali delle stelle… Versificate almeno Hoyle, per le budelle dello Spiritus Mundi!»41
36
L. Meneghello, I piccoli maestri cit., p. 375. U. Varnai, Scimmie, angeli e vittoriani illustri, in «Comunità», IX (1955), 34, pp. 49-51 (recensione a W. Irvine, Apes, Angels and Victorians, London, Weidenfeld & Nicolson 1955). 38 U. Varnai, La testa delle nuvole, in «Comunità», XIII (1959), 70, pp. 110-111 (recensione a F. Hoyle, The Black Cloud, London, Heinemann 1957). 39 L. Meneghello, L’acqua di Malo, in Jura cit., p. 1164. 40 «Ho due fonti, i pacchi delle mie carte e il buco nero della mia testa… Ne ricavo membretti di frasi (di cose): sono state generate nel buco nero, poi riorganizzate tra le carte, in una specie di nuovo mondo», L. Meneghello, Le Carte. Anni Ottanta cit., p. 356 (datato 8 novembre 1986). 41 L. Meneghello, Le Carte. Anni Sessanta cit., p. 195 (datato 6 settembre 1965). Cfr. anche Id., Le Carte. Anni Sessanta cit., p. 476 (datato 4 maggio 1969); Id., Le Carte. Anni Settanta cit., 37
I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
La collaborazione di Luigi Meneghello a «Comunità»
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Altro testo, recensito su «Comunità» nel 1957 e a cui alluderà più volte in scritti successivi, è Pincher Martin, romanzo di William Golding;42 del libro Meneghello parlerà anche nell’intervento del 1990 La virtù senza nome43 e, ancora, in una puntata delle Nuove carte.44 Un riferimento nei Piccoli maestri viene da Pincher Martin; nel primo capitolo si legge: Eccomi qua con questo fiore, pensavo, in questa sede irrigua. Stranamente non ero arrabbiato: la notte e la pioggia non erano ostili; c’era un groppo che si scioglieva.45
Tra gli autografi del Fondo Meneghello presso il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia è conservato un abbozzo di apparato di note ai Piccoli maestri, costruito sul modello delle note che concludono Libera nos a malo e Pomo pero; qui Meneghello postilla il termine ostili, che è corsivo nel testo: p. 16 ostili: (corsivo) viene da Pincher Martin, forse non la parola, ma la percezione di una inimicizia intrinseca / e infatti l’aggettivo è inimical, sono pronto a scommettere.46
Nelle Carte dedica un vero e proprio aforisma a William Golding, alludendo al titolo di un altro romanzo, Le guglie, del 1964: Non serve un simboletto come la guglia (di Guglielmo Golding) per mettere in piedi un argomento. No, Guglielmo, non è questione di guglie.47
Le letture inglesi, quindi, offrono importanti strumenti di ricerca e una nuova chiave di lettura critica della storia e della politica; attraverso le recensioni prima e la narrazione poi, Meneghello prova a mettere a disposizione dei lettori italiani anche questo patrimonio, per difesa e per amore dell’Italia:
p. 27 (datato 18 aprile 1970); Id., Le Carte. Anni Ottanta cit., p. 316 (datato 9 febbraio 1986); ivi, p. 361 (datato 13 dicembre 1986). 42 U. Varnai, I tre racconti di William Golding, in «Comunità», XI (1957), 46, pp. 77-78 (recensione a W. Golding, Lord of the Flies, 1954; The Inheritors, 1955; Pincher Martin, 1956, tutti London, Faber & Faber; inoltre W. Golding, J. Wyndham, M. Peake, Sometime Never, London, Eyre & Spottiswood 1956). 43 L. Meneghello, La virtù senza nome, in La materia di Reading cit., p. 1429. 44 Id., Lo scoglio del tenente inglese, in «Il Sole-24 Ore», 27 marzo 2005. 45 Id., I piccoli maestri cit., p. 340. 46 Inimical è aggettivo tratto da Pincher Martin: «Seals aren’t inimical», si legge per esempio nel romanzo. 47 L. Meneghello, Le Carte. Anni Sessanta cit., p. 140 (datato 22 marzo 1965). Cfr. anche Id., Le Carte. Anni Sessanta cit., p. 316 (datato 27 gennaio 1967); Id., Le Carte. Anni Settanta cit., p. 468 (datato 18 agosto 1978); Id., Le Carte. Anni Ottanta cit., pp. 386-387 (datato 1 giugno 1987). Narrazioni novecentesche del dispatrio
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«Non lasciate l’Italia a coloro che la saccheggiano. Ci siamo espatriati abbastanza noi: voi preparatevi a vivere qui».48
L’analisi della collaborazione alla rivista delinea dunque un quadro del periodo di apprendistato culturale e letterario dei primi anni inglesi di Meneghello, e consente di studiarlo nei termini del rapporto di un italiano dispatriato con il paese d’origine, per il quale la divulgazione di nuovi titoli significa soprattutto trasmettere in Italia un nuovo metodo critico; lo studio delle recensioni si è inoltre dimostrato produttivo nella prospettiva della successiva attività di narratore, permettendo di individuare in quest’ambito non solo alcuni testi di riferimento, ma anche un fecondo repertorio di immagini e tessere linguistiche a cui Meneghello attinge nel corso degli anni, confermando quanto siano labili i confini tra narrazione e saggistica nel suo costante lavoro di scritture e riscritture.
48
Id., Le Carte. Anni Sessanta cit., p. 246 (datato 16 giugno 1966). I. Geografie degli Italiani e della loro letteratura
II. I generi letterari degli Italiani
La letteratura del Risorgimento: memorialistica L’attraversamento dei generi
LA LETTERATURA DEL RISORGIMENTO: MEMORIALISTICA
ANNIBALE RAINONE «La prigione è una lima sì sottile / Che aguzzando il pensier ne fa uno stile», il ‘Manoscritto di un Prigioniero’ di Carlo Bini
Il Manoscritto di un Prigioniero apparve per la prima volta, gravemente mutilato dalla censura, nel 1843 e con la prefazione di Giuseppe Mazzini, salvo poi venir pubblicato integralmente in una raccolta di scritti editi e postumi per la curatela di Levantini-Pieroni, ad oggi l’edizione di riferimento per tutte le altre a venire, tra cui quelle della Cappelli1 con l’ottima introduzione di Marziano Guglielminetti e, da ultimo, l’edizione della Quodlibet,2 con uno scritto di Carlo Alberto Madrignani, dopo un silenzio trentennale; ma tant’è: la precedente edizione a quella del Guglielminetti data 1942, anno del centenario della morte dell’autore, se si escludono le pagine scelte dal Provenzal nel 1944 con una lacuna nel capitolo XVIII. Dell’autore, Carlo Bini, livornese del 1806, Mazzini ebbe a scriverne con spirito compassionevole, se non con parzialità: avesse letto il capitolo XXI, penultimo del Manoscritto, avrebbe sensibilmente ridefinito il suo giudizio. Il capitolo, come s’è detto, non superò il controllo preventivo della censura; in esso vi erano, infatti, un’attenta analisi politica della situazione europea (segnatamente francese, all’indomani della rivoluzione borghese di Luigi Filippo) e la designazione d’una classe eletta, la plebe, e non già la borghesia: quanto cioè di più lontano dall’ideologia mazziniana. A riguardo, Madrignani sostiene che Mazzini abbia a bella posta minimizzato la natura del testo, e perché ostile alla professione di ateismo dichiarata dal Bini e perché fu il Bini stesso ad avere scarsa stima verso sette e congiure, nonostante l’apprendistato politico del giovane patriota livornese, scomparso appena trentaseienne, prenda abbrivo da una visita del Mazzini in Livorno nel settembre del 1830, incaricato dal capo dei carbonari genovesi, di fondarvi una vendita. Per inciso,
1 2
C. Bini, Il manoscritto di un prigioniero e altro, Bologna, Cappelli editore 1978. Id., Manoscritto di un prigioniero, Macerata, Quodlibet 2008.
La letteratura del Risorgimento: memorialistica
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quella sortita mazziniana veniva di lì a pochi giorni a chiudersi con l’arresto e la reclusione nel carcere di Savona, dove il patriota genovese vi trascorse circa quattro mesi, e che più tardi avrebbe ricordato quasi con nostalgia: in una incisione del Mantegazza, Mazzini riceve in cella, al mite sguardo del sorvegliante, la visita del padre, ben leggibili i dorsi di tre dei quattro libri, una Bibbia, un volume di Tacito e uno di Byron.3 E, tuttavia, già prima dell’arrivo del Mazzini in Livorno, terreno fertile alla propaganda democratica, verso la fine del 1828 Carlo Bini vi aveva fondato con Francesco Domenico Guerrazzi, amici di vecchia data ma diversi per temperamento, l’Indicatore livornese, il giornale che sino al febbraio del ’30 proseguirà il discorso interrotto dal soppresso Indicatore genovese, realizzando sostanzialmente una doppia redazione, quella livornese appunto e quella di Genova. La notizia è interessante perché testimonia gli iniziali fervori patriottici del Bini e del Guerrazzi, anteriori allo stesso incontro col Mazzini che avverrà nel ’30: un anno cruciale per il patriota livornese, in cui sono le premesse di una sua successiva maturazione personale e, dato non trascurabile, il sentimento di delusione provato in seguito al tradimento dei liberali francesi dopo la Rivoluzione parigina: ciò non lo distolse dalla sua attività di proselitismo politico presso le fasce più deboli del porto, lavorando invece attivamente alla diffusione della Giovine Italia.4 Nel 1933, Carlo Bini e Francesco Domenico Guerrazzi vengono arrestati e fatti prigionieri nella fortezza di Portoferraio. Dal settembre al dicembre di quello stesso anno, Bini scrive di getto il Manoscritto e il dialogo Il forte della Stella; contestualmente, il Guerrazzi, già noto per la La Battaglia di Benevento e L’Assedio di Firenze, va componendo le sue Note autobiografiche. L’anno precedente, con grande successo di pubblico, erano state pubblicate a Torino da Giuseppe Pomba Le mie prigioni del «concaptivo» Silvio Pellico. In particolare, «concaptivo», parola dunque mutuata dal Pellico, è l’attributo che il Guerrazzi indirizza al Bini nel dedicargli le sue Note autobiografiche: in modo analogo a Le mie prigioni, le Note guerrazziane trasvalutano l’esperienza carceraria nelle forme del racconto autobiografico, soggettivamente drammatizzato, in cui tra i riferimenti letterari più immediati è l’Alfieri, il Rousseau e, certo, la sorgente agostiniana delle Confessiones. Sicché tanto l’opera pellichiana che le Note del Guerrazzi possono essere annoverate nella memorialistica risorgimentale per quel loro comune punto di partenza, al di là delle differenze di scrittura e di fede, non solo politica.5
3
Cfr. Monsagrati, G. Talamo, Giuseppe Mazzini, Milano, Adelphi edizioni 1972. Cfr. Scritti scelti di Francesco Domenico Guerrazzi e di Carlo Bini, a cura di A. Cajumi, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese 1955. 5 Cfr. Memorialisti dell’Ottocento, a cura di G. Trombatore, Tomo I, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore 1953. 4
II. I generi letterari degli Italiani
Il ‘Manoscritto di un Prigioniero’ di Carlo Bini
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Naturalmente – e il De Sanctis lo ricordava nella sua ripartizione di scuola democratica e di scuola moderato-cattolica – tra Guerrazzi e Pellico non v’è condivisione di spirito e di ideologia, e meno che mai tra il Pellico e Bini. Eppure, fatto davvero singolare, nonostante la comune sorte e la lunga amicizia, alla dedica così accorata del Guerrazzi delle Note autobiografiche non fece seguito da parte del Bini alcun esito o risposta; allo stesso modo, nel recente passato di collaborazione all’Indicatore livornese, non vi fu alcun seguito, dalle colonne del giornale o altrove, agli articoli di morale e letteratura guerrazziani. In realtà, una risposta, a mio avviso, a quegli articoli e a quella dedicata, Bini l’ha data. In esergo al Manoscritto di un Prigioniero compaiono due citazioni, entrambe oblique. La prima è da Byron: «You smile? it’is better thus than sigh» («Ridi? È meglio ridere che sospirare»). L’altra, che val la pena riportare per intera, ha come fonte la dicitura Epigrafe, che va per conto mio: V’è più ragione di ridere quando sei in fondo, che quando sei in cima; – almeno tu non temi più di dare la balta. Il riso dell’uomo felice può essere smentito da un punto all’altro. La Fortuna non ha contratti perpetui con nessuno. Il suo corso è a spirali, e non rettilineo. Oggi t’abbraccia, e ti mette sul capo un diadema; dimani ti taglia la testa, e la dà per balocco all’abietto, che faceva da sgabello ai suoi piedi.
Entrambe le citazioni fanno riferimento ad una doppia alternanza di sentimenti, in Byron, tra riso e sospiro, nell’Epigrafe, che va per conto mio, tra pianto e riso. In un articolo dedicatogli sull’Indicatore livornese, Bini aveva riconosciuto in Laurence Sterne un moralista chiamato a castigare ridendo mores. Con una avvertenza singolare per la precisione della stilettata ad un «severo» cui bene farebbe l’amaro medicamento sterneriano. Molto propriamente, Guglielminetti protende ad identificare quell «severo» in Guerrazzi, specialmente laddove, nei capitoli I-XIX del Manoscritto, è il tema della collera dei poveri minacciata agli scrittori strumenti del sistema. Ma il critico torinese non si spinge a leggere nel Manoscritto lo spazio di una lucida, organica, polemica al Guerrazzi e al Pellico: eppure, cos’altro è quel «sospiro» in dedica se non il tono di fondo, dimesso e intimista, del Pellico cui Byron preferisce il riso? Cos’è l’Epigrafe, che va per conto mio se non un modo di far leva sullo Sterne, sulla sua leggerezza e mordacità, contro il tono alto e severo del romanzo storico (L’Assedio di Firenze o La Battaglia di Benevento), in cui ciò che più sta a cuore al Bini (non il popolo ma la plebe) è ignorato, per così dire, sentimentalmente misconosciuto? La plebe, sostiene Bini, è insensibile alla pedagogia della storia e alle sue mistificazioni: pare di sentire il Gramsci lettore del Manzoni (non a caso, dietro quella linea del romanticismo lombardo nella quale è il Pellico del Conciliatore) per il quale la povera gente veste una macchietta bonaria e ironica e agli umili è dato un sentimento di distacco sostanziale da risolvere, tutt’al più, col verosimile del romanzo storico. Sembra, cioè, che Bini punti a colpire nel vivo il suo amico Guerrazzi lad-
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dove questi mostri l’aporia ideologica del proprio pensiero e che quella dedica, mutuata dal Pellico, serva per infirmare, ad un tempo, epopea del popolo in senso mazziniano calata in una dimensione remota, antiproblematica, e autobiografismo borghese; narrazioni dell’io e memorialistica. Al romanzo storico così concepito, Bini oppone allora la scrittura di un’opera attuale, dall’umore estemporaneo, ritagliata nel vivo dei giorni di prigionia e nella sola dimensione del presente: non la retorica del passato e la voce alta, piuttosto l’alternanza di riso e pianto, di comicità e páthos; alle narrazioni sostenute e ai modelli consolidati, Bini propone capovolgimenti dell’unità sentimentale e, assieme, dei modelli: Rousseau e Alfieri, anzitutto, contro il Foscolo dell’Ortis e del Gazzettino e dello Sterne (tradotto dal Foscolo e dallo stesso Bini). Anzi, proprio la ricezione biniana dello Sterne induce a riflessioni sullo specifico letterario del Manoscritto di un prigioniero, dacché Sterne, a quest’altezza, è l’esempio di scrittura antipedantesca, di letteratura antisublime, di antimetafisica, oltre che il più moderno degli scrittori, il primo a dissipare fregole e illusioni dell’io in una struttura fortemente umoristica. Con Sterne, Bini, parla e può parlare al Guerrazzi rispondendo contestualmente al Pellico (e viceversa) in materia di autobiografia e memorialistica. In ciò, legittimato da un passo de Il carcerato nel Viaggio sentimentale di Yorik, versione di Ugo Foscolo.6 L’uccello in gabbia mi perseguitava nella mia camera. M’assisi presso al tavolino; e sostenendomi il capo con una mano, mi posi a rappresentarmi le miserie della prigione. L’anima contristata lasciò libero campo alla fantasia. E principiai da tanti milioni di creature tutte mio prossimo, e tutte nate con l’unico patrimonio della schiavitù. Ma per quanto il quadro fosse compassionevole, m’avvidi ch’io non poteva ravvicinarmelo, e che sarei sopraffatto e distratto dalla folla di que’tristissimi gruppi. Mi tolsi un prigione solo; e serrato ch’io l’ebbi dentro il suo carcere, m’apparecchiai a farne il ritratto, osservandolo dal pertugio della sua porta inferrata.
All’invito che il Guerrazzi rivolge al Bini di scrivere in maniera più organica, è risposto che filo ed ossatura non mancano certo, ché la narrazione (sia essa autobiografica o romanzesca) ha sostituito le parvenze teatrali od oratorie con la dispersione apparente della prosa sterniana, sostanzialmente monologica; e, di fatto, l’organicità c’è tutta, pedissequamente riscontrabile se solo si mettono in
6
Cfr. Il carcerato. Parigi., in Viaggio sentimentale di Yorik, versione di Ugo Foscolo, Napoli, Libreria di Mergellina 1864, cap. XLI, p. 69. Cfr. anche Prose varie di Ugo Foscolo. Ultime lettere d’Iacopo Ortis. Gazzettino del Bel Mondo, Milano, Casa Editrice Italiana di M. Guidoni 1870; L. Sterne, La vita e le opinioni di Tristam Shandy, gentiluomo, con uno scritto di Walter Scott, Milano, Mondadori 2011. II. I generi letterari degli Italiani
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colonna, raffrontandole, le posizioni del Bini lettore del Pellico: ingiustizia e durezza della repressione austriaca nell’autore di Saluzzo sono contraccambiate in Bini nella ingiustizia del trattamento riservato al signore, un nobilotto locale, la cui giornata di prigioniero è descritta con verità ed ironia assolutamente moderne; alla crisi religiosa risolta nell’abbandono di ogni fiducia nella politica, Bini propone posizioni radicali, in una visione alternativa che prevede un ribaltamento dell’assetto sociale esistente; alle sofferenze patite come l’esperienza di una vittima tra le altre vittime, in un mondo dominato dal male, molte sono le pagine del Manoscritto attraversate da un misto di pietà e orrore; alla diegesi pellichiana, Bini risponde con uno svolgimento narrativo in cui è la contraddizione a smascherare i luoghi comuni di logica e morale. Infine, se Le mie Prigioni sono una sorta di libro religioso di salvezza e di riscatto personale, il Manoscritto di un prigioniero è tutto attraversato dalla fede nel valore positivo della lotta politica in cui ai poveri è prefigurata la possibilità di esser portatori di un’alternativa radicale (Madrignani). In conclusione, un ultimo cenno al distico di endecasillabi in rima a chiusura del Manoscritto. Ciò perché è il sistema lessicale di rimandi e sensi figurati che cortocircuita con qualsiasi tipo di parafrasi minimale opportunamente liberata (la prigione è lima tanto sottile da acuire il pensiero in forma, espressione, letteraria). Appartengono, infatti, al medesimo campo semantico i termini “lima” e “stile”, anzitutto: della lima in quanto utensile manuale che serve ad asportare piccole quantità di materiale in lavori di sgrossatura e rifinitura, è noto il senso figurato applicato al lavoro di perfezionamento e di rifinitura di un testo – e testo è qui la stessa scrittura come corpo extra vincula publica, emancipato dall’immaginazione; inoltre, in senso figurato letterario, “lima” è anche pensiero doloroso e continuo, tormento che rode l’animo. Scrive Bini: Io sono mesto e spossato dalla noia. […] La noia è l’asma dell’anima – è una ruggine che può consumare la meglio temperata lama che si dia. […] Schiaccia l’acume dell’intelletto, e lo rende bestialmente stupido, – e insugherisce il cuore, mortificandone la squisita sensibilità, disseccandone dentro la lacrima del piacere e del dolore.7
In modo analogo, “stile”, prima che essere la particolare forma in cui si concretizza l’espressione letteraria o artistica propria di un autore, di un’epoca, di un genere, è propriamente “corpo acuminato” (da stĭlu(m), naturalmente), usato per scrivere o per raschiare (ma è, anche, si badi, il braccio graduato della stadera che fa da peso equilibratore all’unico piatto della bilancia; e, per la vicenda biografica del Bini, lo stiletto, il pugnale che gli provocò il grave ferimento alla spina dorsale compromettendone per sempre il fisico). In più, poco o niente deambulando tra i
7
C. Bini, Il manoscritto di un prigioniero e altro cit., pp. 84-85.
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«dodici passi della mia prigione»,8 più spesso disponendosi, con la massima attenzione e curiosità, all’ascolto di quanto accade fuori delle quattro mura, cercando con lo sguardo di rendere più penetranti le smorte osservazioni rapite oltre la grata,9 il prigioniero fa opera di aguzzare vista e orecchi così che s’acuisca il pensiero: per poterne scrivere e, certo, in punta di penna, evadere, con doloroso, limato, (lavorato) pensiero analitico, elaborando con estrema cura stile e tormento dell’animo.10 E se fuga ed evasione sono, nel settembre-dicembre del ’33, i soli strumenti del pensiero che la reclusione assottiglia, rendendo più perspicace l’ingegno e l’immaginazione, la scrittura è necessariamente analisi, cioè quanto di più vicino al genere del trattato, nella fattispecie, politico, antropologico. Ma, abbiamo visto, non è questo, il solo, unico, «stile» dell’autore, in senso classico, tassonomico. Ché, a guiderdone della rivoluzione romantica, il morso della censura e le serie limitazioni alle attività editoriali, lo «stile» è, invece, qualcosa d’altro, un modo originale, molto personale – «negligente giusto», lo definisce l’autore – di individuare nella sola scrittura, una scrittura «capricciosa», le matrici della propria, inconfondibile, espressione letteraria, della nuova esperienza dell’io. Cioè un modo molto moderno di tenere assieme, dalla specola rovesciata del vissuto esperienziale personale, fiction, dramma, autobiografia, satira e trattatistica politica in chiave polemica con il proprio tempo, in opposizione al contesto sociale di appartenenza, rivolgendo nuova attenzione alla sintassi sociale contemporanea percepita come negativa, mistificante, eppure pienamente romantica negli aspetti e nella sensibilità.11 Ed è così che il Manoscritto può essere letto quale risposta molto precisa, storicamente cogente, tanto all’insoddisfazione della prassi e dei programmi delle congiure quanto alla «vicenda risorgimentale, così come la stava delineando l’amico Mazzini, per la quale non aveva senso far salire in primo piano una rivolta risolutiva dei poveri».12
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Ivi, p. 85. Ivi: «Se mi affaccio, vedo, è vero un bel cielo, ma le sbarre, che mi traversano l’occhio, me lo tingono color di ferro; vedo un cerchio di monti, e mi paion sepolcri; vedo una mandra di soldati, che la disciplina militare ha saputo convertire in altrettanti arcolai. – Pallida mi appare la verdura degli orti, e dei vigneti, e il canto degli uccelli mi suona lamento». 10 Ivi, p. 88: «Potessi almeno farmi de’ sogni! ché la mattina dipoi mi ingegnerei a farne la storia, e a metterli in bello stile». 11 L’uomo romantico, a cura di François Furet, Roma-Bari, Editori Laterza 1995. 12 C.A. Madrignani, Un libro di speranza e di progetto, in C. Bini, Manoscritto di un prigioniero cit., p. XVIII. 9
II. I generi letterari degli Italiani
L’ATTRAVERSAMENTO DEI GENERI
ROBERTO GALBIATI Incroci e sovrapposizioni di generi e di forme letterarie nelle ‘Piacevoli notti’ di Giovan Francesco Straparola
Come osservò Manlio Pastore Stocchi,1 l’ambiguità è la cifra stilistica delle Piacevoli Notti: i tanti fili intrecciati nella raccolta non formano un tessuto ordinato ma una tela che, ancorché vivace e policroma, risulta sconnessa e non ben rassettata. Fuor di metafora, manca nelle Piacevoli notti una salda regia compositiva che dia unità e organizzazione al ricco materiale narrativo ivi presente. Straparola offre l’impressione di muoversi non lungo una traiettoria coerente, ma zigzagando tra diversi sentieri, come dimostra l’analisi dei generi e delle forme letterarie intersecantisi nell’opera. Il più macroscopico incrocio riguarda, com’è noto, la novella e la fiaba. Obiettivo dello Straparola non è quello di creare una raccolta di fiabe, come sarà, da lì a un’ottantina d’anni, il Pentamerone del Basile, ma quello, meno rivoluzionario, di comporre un libro di novelle. Le Piacevoli notti devono essere, quindi, contestualizzate entro lo sfrangiamento proprio della novellistica cinquecentesca. Nel corso del secolo, la novella, nonostante la ripresa, ancorché controversa, della cornice decameroniana, si apre a forme nuove, si ibrida a tal punto che, per certe opere, risulta quanto meno discutibile l’etichetta di «libro di novelle». La poliformia del genere e l’impossibilità di irregimentarlo in una retorica fissa e modellizzante sono sfruttate per battere strade che si allontanano dall’inarrivabile e sempre più remoto momento di partenza. Tuttavia, mentre i novellatori contemporanei, specialmente quelli di origine settentrionale, innalzano la novella al rango di narrazione aristocratica, di «diporto» ameno per il pubblico della corte contaminandola con generi alti, quali il teatro, la trattatistica e il dialogo,2 Straparola volge il suo sguardo verso il basso: non al
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Le piacevoli notti a cura di M. Pastore Stocchi, Roma-Bari, Editori Laterza 19792, p. IX. Tra gli studi che tratteggiano l’evoluzione del genere nel Cinquecento, si è tenuto parti-
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mondo cortigiano, ma al brulicame dei racconti popolari, con particolare attenzione a quelli fiabeschi. Le favole del popolo vengono accolte entro l’impianto tradizionale del libro di novelle. La cornice, la lieta brigata, la situazione di disordine iniziale (qui rappresentata dalla fuga di Ottaviano Gonzaga Sforza e della figlia Lucrezia da Milano e successivamente da Lodi),3 la dedica alle «amorevoli donne»,4 fino al periodare mimante la complessità dello stile boccacciano sono tutti marchi del genere-novella, i sigilli che lo rendono riconoscibile al grande pubblico. Accanto agli elementi che richiamano da vicino la novella di tradizione boccacciana, ancora molto amata e letta nel Cinquecento come testimonia l’alto numero di edizioni del Decameron,5 se ne ritrovano altri che rimandano alle peculiarità della novellistica settentrionale della prima metà del secolo. La verniciatura di cortigianeria e di aristocraticismo, gli enigmi conclusivi di ogni «favola», le schermaglie a fine racconto tra le novellatrici e gli ospiti della Signora fanno scivolare la raccolta verso il ragionamento galante e mondano; la inclinano verso una pratica conversativa, in cui al racconto di novelle si mescolano altre attività di svago e di colto passatempo, cioè in direzione di quella particolare forma letteraria, a metà strada tra novella-trattato-dialogo, che riflette la configurazione assunta dalla novella d’area padano-veneta di quei decenni. Tutti questi tratti di ascendenza novellistica convivono, in modo coatto e ai nostri occhi un po’ forzato, con la fiaba. L’inserimento di materiale fiabesco entro un’opera novellistica non è un’innovazione straparoliana: fin dal Decameron compaiono novelle che si rifanno alla fiaba. Senonché Boccaccio personalizza questi racconti, li trasforma, sicché della
colarmente conto di: M. Guglielminetti, Introduzione a Novellieri del Cinquecento, Milano·Napoli, Riccardo Ricciardi Editore 1972, vol. I, pp. IX-LIV; G. Mazzacurati, Dopo Boccaccio: percorsi del genere novella dal Sacchetti al Bandello, in All’ombra di Dioneo, Firenze, La Nuova Italia 1996, pp. 79-150; R. Bruscagli, La novella e il romanzo, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, Il primo Cinquecento, Roma, Salerno Editrice 1996, vol. IV, pp. 835-907; D. Maestri, Lineamenti di novellistica italiana del Cinquecento, in «Matteo Bandello. Studi di letteratura rinascimentale», I (2005), pp. 31-64. 3 Basterebbe questa semplice indicazione per misurare l’abisso che separa la serietà e le implicazioni della cornice boccacciana da quella straparoliana. 4 Le piacevoli notti, ed. critica a cura di D. Pirovano, Roma, Salerno Editrice 2000, vol. II, p. 425; edizione da cui si cita. Del medesimo studioso si legga pure: Una storia editoriale cinquecentesca: ‘Le piacevoli notti’ di Giovan Francesco Straparola, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLXXVII (2000), pp. 540-569. 5 E. Bottasso, La prima circolazione a stampa, in La novella italiana. Atti del Convegno di Caprarola (19-24 settembre 1988), Roma, Salerno editrice 1989, vol. I, pp. 245-264. Lo studioso scrive che tra il 1529 e il 1557 si ebbero del capolavoro boccacciano 37 edizioni per lo più a Venezia (p. 250). II. I generi letterari degli Italiani
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fiaba rimane solo un’eco, un ricordo, spesso ravvisabile esclusivamente nella struttura dell’episodio o nella conservazione di «alcuni valori essenziali della fiaba».6 Ciò non accade invece nello Straparola: la personalizzazione è marginale, superficiale, si limita all’aggiunta di alcuni semplici tratti novellistico-borghesi; in ogni caso non intacca la forma della fiaba, come dimostra il fatto che Donato Pirovano abbia potuto reperire nelle «favole» straparoliane le forme che secondo Max Lüthi contrassegnano il genere.7 Insomma, lo Straparola non camuffa, non altera in profondità il racconto favolistico, ma lo rispetta nella sua essenza. Egli si comporta esattamente come i canterini autori dei cantari d’argomento fiabesco. Come giustamente sostiene Carlo Donà, è in questi poemetti, prima che nelle Piacevoli notti o ne Lo cunto de li cunti del Basile, che bisogna ricercare le più antiche attestazioni della fiaba nel campo della letteratura italiana.8 Anche nei cantari, come nel novelliere del bergamasco, non compare alcuna incisiva personalizzazione della fiaba; anche i canterini inseriscono solo varianti marginali: allungano un brodo che non travisa il racconto primigenio, il quale ci giunge così nel suo aspetto più vivo e autentico. Parlare di fiaba a Venezia nel primo Cinquecento significa discorrere innanzitutto di cantari. La nascita della stampa conferirà ai cantari fiabeschi una nuova e più capillare diffusione, come la ricerca di Luisa Rubini dimostra chiaramente.9 E non stupisce che il centro nevralgico di questa attività commerciale sia stata proprio Venezia, città in cui sappiamo muoversi lo Straparola: «la macchina della fiaba di magia si è messa in moto e trova nelle officine veneziane uno strumento propulsivo di primaria importanza. Tutto questo andava incontro a gusti precisi del pubblico»10 A mio avviso sarebbe interessante, oltre che allargare il campo d’indagine dal 1530 al 1550, ricercare se alcuni dei motivi dei cantari fiabeschi pubblicati a
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M. Petrini, La fiaba di magia nella letteratura italiana, Udine, Del Bianco Editore 1983, p.
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D. Pirovano, Introduzione, a Le Piacevoli notti cit., pp. XXII-XXX e dello stesso autore La fiaba letteraria di Giovan Francesco Straparola, in «Rivista di Letteratura italiana» XXIV (2006), pp. 51-64. Il libro di Lüthi citato è La fiaba popolare europea. Forma e natura, Milano, Mursia 1979. 8 C. Donà, Cantari, fiabe e filologi, in Il cantare italiano fra folklore e letteratura. Atti del Convegno internazionale di Zurigo (Landesmuseum, 23-25 giugno 2005), a cura di M. Picone e L. Rubini, Firenze, Leo S. Olschki 2007, pp. 147-170, e del medesimo autore, Les ‘Cantari’ et la tradition écrite du conte populaire, in «Cahiers de Recherches Médievales et Humanistes», XX (2010), pp. 225-242. 9 L. Rubini, Fiabe in ottava rima: il cantare fiabesco a stampa (1475-1530), in Il cantare italiano fra folklore e letteratura cit., pp. 413-440. Esaminando la tav. 2 (pp. 438-439), in cui sono riportati i cantari fiabeschi in ordine cronologico di pubblicazione, si è contato che a Venezia tra il 1475 al 1530 (il periodo preso in considerazione dalla studiosa) uscirono dodici cantari fiabeschi, contro i tre di Firenze, e l’uno di Roma, di Modena e di Perugia. 10 Ivi, p. 436. L’attraversamento dei generi
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Venezia in questi decenni si ritrovino nelle Piacevoli notti. Uno sicuramente sì: la celebre storia di Pietro pazzo, è alla base, sebbene con varianti, de La Historia del pescatore come trouo uno pesse che parlo et li dette tre gratie cosa nuoua, Venezia, M. Pasini, ante 1530 e della Historia di Camallo pescatore: che si fece Re per gratia che hebbe da vno pesce [Venezia], 1529 ca.11 Questo discorso ci permette di delineare il retroterra culturale e letterario da cui le Piacevoli notti emersero: da un lato il magma fluido e disarticolato della novellistica (condizione questa che rendeva la novella disponibile a inusitati esperimenti), e dall’altro il filone fiabesco, che, come si è cercato di delineare, ha già propaggini e radici nell’universo canterino. L’incrocio tra fiaba e novella non esaurisce il gioco combinatorio attuato nell’opera. Le Piacevoli notti sono un grande emporio, affollato di ogni tipo di bric à brac, dove il mainstream letterario del tempo convive con le anticaglie della produzione artistica precedente. Straparola svolge la funzione di trait d’union fra il mondo del lettore medio e quello cortigiano-accademico. Nonostante l’assenza di indicazioni biografiche, dalle sue opere egli traspare come un autore che visse all’ombra degli alberi ad alto fusto della letteratura primo-cinquecentesca e che ne raccolse e ne sparse i frutti (basti pensare alla sua Opera nova, «canzoniere pre-bembesco, ovvero di un petrarchismo cortigiano assai male digerito»)12 Le due novelle in dialetto (V III e V IV) si configurano, ad esempio, come lo sfruttamento di tendenze in atto nella letteratura alta. Come Pirovano ha osservato, «il punto di riferimento non è tanto la realtà, ma il teatro e il libro, e in particolare Ruzante, dove il bergamasco e il contadino padovano avevano già goduto di una notevole fortuna»13 Dietro a Zambò, il contadino che, nella «favola» in bergamasco, è costretto ad abbandonare il suo paese natale a causa della carestia, si può scorgere, in filigrana, l’abbozzo della maschera dello Zanni, ossia di una figura che stava iniziando, proprio in quegli anni, a fare il suo ingresso nel panorama letterario italiano. Così come gli enigmi, la cui presenza è sottolineata sin dal titolo della raccolta, sono un’arguta e non casuale concessione a una moda letteraria in voga in quegli anni. Ogni lettore poteva rintracciarvi tutto quello che desiderava: da Pietro Bembo alle stilizzate dieci dame di compagnia della Signora; dalla prosa alla poesia; dal
11 L’aver ritrovato, in un testo anteriore alle Piacevoli notti, il motivo del pesce incantato che, in cambio della libertà, esaudisce i desideri di un povero pescatore facendolo diventare re, indebolisce la tesi di Ruth B. Bottigheimer (in Fairy Godfather. Straparola, Venice, and the Fairy Tale Tradition, Philadelphia, University of Pennsylvania 2002) secondo cui lo Straparola fu l’inventore delle «rise» fairy tales, ossia dei racconti fiabeschi i cui protagonisti sono poveri che passano dalla miseria alla ricchezza tramite un aiuto magico. 12 M. Guglielminetti, Introduzione a Novellieri del Cinquecento cit., p. XXXVII. 13 D. Pirovano, Introduzione, a Le piacevoli notti cit., p. XXXVI.
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commento moralistico all’enigma sessualmente allusivo; dalla favola alla novella di beffa; dal Boccaccio al Morlini, uno degli scrittori meno boccacciani della nostra novellistica.14 Il non aver conferito organicità e sistematicità all’ammasso di storie affastellate nel libro e l’uso spregiudicato di materiali eterogenei ci permettono di aprire una piccola fessura nel muro d’anonimato che circonda il novelliere di Caravaggio. Egli si presenta come un puro raccontatore di storie; qualsiasi lettura che voglia ingabbiare il testo in una rigida griglia interpretativa rischia di vederselo sgusciare dalle mani. Ogni storia deve essere letta come un mondo unico e in sé conchiuso. Questo spiega come mai lo Straparola si sia rivolto alla fiaba di magia e non alla favola esopica:15 non solo per la novità commerciale che il suo inserimento entro il genere-novella comportava, ma anche perché la fiaba si adatta perfettamente alla esigenza fabulatoria dell’Autore: essa richiede innanzitutto al lettore di accettare le sue regole, di farsi rapire dall’ascolto lasciando da parte ogni pretesa intellettualistica o di verisimiglianza. Quello che importa è il racconto, il piacere che esso genera. Gli insegnamenti moralizzanti a inizio d’ogni «favola» sono anch’essi pegni da pagare al genere (si ritrovano, ad esempio, anche nelle Fabulae poco edificanti del Morlini) e non istanze veramente avvertite dall’Autore. L’incrocio tra la novella e la fiaba ha determinato, in alcune storie, anche una loro parziale fusione. Straparola, probabilmente inconsapevolmente, ha creato un particolare tipo di racconto in cui la distinzione tra novella e fiaba diventa lieve e in certi casi solo nominale. Il polo che risente di maggiori tensioni è, a nostro avviso, quello novellistico: è la novella che si inclina verso la fiaba e non viceversa. Al riguardo, possiamo esaminare la «favola» terza della nona sera. Si è scelto proprio questo racconto giacché, per stessa ammissione dell’Autore, esso «ritiene più tosto della istoria che della favola», raccontando la disavventura occorsa a Francesco Sforza, figlio di Lodovico Moro, durante una battuta di caccia. È interessante notare che, nonostante la dichiarazione dello Straparola, l’istoria partecipa notevolmente al clima fiabesco. Innanzitutto le collocazioni temporali e spaziali sono assenti: il racconto è
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Per un campionario e un’analisi delle molte contraddizione del testo, cfr. G. Mazzacurati, Rapporto su alcuni materiali in opera nelle Piacevoli notti di G. F. Straparola, in Conflitti di culture nel Cinquecento, Napoli, Liguori editore 1977, pp. 83-117. 15 Ricordo che la favola esopica suscitò dal Medioevo all’età moderna sempre un vivo interesse, basti pensare ai vari esopi, alle novelline di Leonardo da Vinci o, per restare nel Cinquecento, alla traduzione del Panciatantra di Firenzuola e ai Vari componimenti di Ortensio Lando. Alcuni esopismi si ritrovano incapsulati nel secondo volume della raccolta, ma la natura disorganica delle ultime pagine del libro li rende una delle tante fonti a cui l’Autore, in corto di lena e di fantasia creativa e magari anche di tempo, si è indirizzato per rimpolpare il testo. L’attraversamento dei generi
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ambientato «a’ tempi nostri» e non è specificato l’esatto luogo in cui avviene la vicenda. Privo di caratterizzazioni è pure Franscesco Sforza, il protagonista: egli, come quasi tutti gli eroi delle fiabe, è «bello di forma, ornato di costumi, e il suo volto dimostrava segno di chiara indole». Descrizione tanto vaga quanto generica. La narrazione, poi, si svolge in un «boschetto»: il luogo canonico della fiaba; così come tradizionale è lo smarrimento del protagonista – smarrimento sottolineato dalla ripetizione per ben tre volte della parola. Straparola non crea nessuna suspence, anzi avvisa il lettore del pericolo imminente che incombe sul duca: egli preso da paura, «alquanto si smarrì, temendo non gli avenisse cosa che gli spiacesse: sì come gli avvenne». Lo Sforza giunge a una abitazione dove vivono un «vecchiarello», una bellissima giovane e una bambina. Il racconto procede per giustapposizione di episodi: Francesco si è perso; trova una casa di contadini; vi entra; chiede ospitalità; una volta accolto, la giovane «che era amorevole» gli fa «festa e carezze» Non vi è nessuna descrizione precisa: del vecchio si dice solo che «non aveva meno di anni nonanta» (età chiaramente iperbolica); la casa è «picciola, coperta di paglia e mal condizionata»; poco più avanti si dirà che il luogo è «selvaggio e inabitato» Nessun realismo: al posto del duca si sarebbe potuto trovare Livoretto, uno degli eroi delle «favole» straparoliane, e la storia non sarebbe mutata di una virgola. Nel frattempo arriva Malacarne, il padrone di casa, che, come indica il nome, rappresenta l’antagonista dell’eroe. Egli, veduto il giovane ricco e ben vestito, decide assieme alla famiglia di ammazzarlo. Come se Straparola temesse di spaventare i suoi lettori, si affretta a rincuorarli anticipando che: «il giusto Dio non permise il malvagio lor proponimento aver effetto, ma con bel modo il loro trattato scoperse» Mentre Malacarne va a chiedere aiuto a tre suoi amici, la bambina, avvicinatasi a Francesco, gli racconta la macchinazione progettata ai suoi danni. Non è l’astuzia o l’industria del duca a svelare le intenzioni omicide della famiglia, ma un’«aiutante» (nelle vesti non casuali di una bambina) È uno stimolo esterno quello che mette in allerta l’eroe e gli consente di scampare al pericolo. Compare, seppur depotenziato, anche l’oggetto tra aiutante e eroe (rappresentato dalla collana d’oro che Francesco dona alla bambina), che, come insegna Lüthi, contrassegna esteriormente la relazione instauratasi tra i due personaggi. Venuto a conoscenza delle cattive intenzioni di Malacarne, Francesco, puntellata la porta dell’abitazione e imbracciato il fucile, attende il ritorno dell’uomo. Solo a questo punto il narratore ci informa su quello che stanno facendo i compagni del duca. Straparola obbliga il lettore a fare un salto temporale; non è presente nessun ponte tra i due episodi: «I compagni del signor, vedendo mancargli il loro capo, né sapendo dove fusse gito, cominciarono a sonar e’ corni e chiamarlo» Essi sono rimasti esattamente al punto di partenza della storia e qui, l’Autore ci riconduce. La narrazione procede, come si vede, per blocchi separati, linearmente come è tipico della fiaba. Finita la breve digressione, il racconto ritorna al troncone principale della storia con la temporale «mentre che i giovani cavalcavano» Incomincia lo scontro tra II. I generi letterari degli Italiani
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Francesco, asserragliato in casa, e i manigoldi di fuori. Della moglie e del vecchierello non vi è più traccia: scompaiono dalla scena, quasi inghiottiti dalla terra. Bisogna riconoscere che l’unione dei due blocchi narrativi (quello dei compagni e quello di Francesco) è un piccolo pezzo di bravura di Straparola: «e perché quanto più la notte è lucida e serena, tanto più è tranquilla e queta, e ogni motto, ancor che lontano, di leggieri si sente, fu dalla compagnia del signor il streppito sentito». Giunti gli uomini del duca, Malacarne racconta loro che la persona asserragliata in casa è un soldato che, oltre ad aver tentato d’uccidere l’anziano padre, di sforzare la moglie, e di rapire la figlia, ha ammazzato due suoi compagni. L’agnizione di Francesco non avviene per la sua intraprendenza (egli non riconosce neppure la voce dei suoi soldati), bensì grazie al riconoscimento da parte di un soldato del cavallo del signore legato davanti all’abitazione. L’istoria si conclude con la punizione di Malacarne e della famiglia e con la ricompensa alla bambina «salvatrice», che si scoprirà chiamarsi Verginea (altro nome parlante e di chiara ascendenza mariana); significativo è pure che lo svelamento del nome avvenga a fine racconto. A Verginea il duca darà per dote il castello di Binasio (oggi Binasco) «posto fra Melano e Pavia, il quale oggidì per le contìnove guerre è in sì fatta maniera distrutto, che non ci è rimasta pietra sopra pietra». Notazione storica che stride violentemente con le fiabesche parole conclusive: «e la fanciulla col suo marito per molti anni felicemente visse». Nonostante la figura storica di Francesco Sforza e l’assenza di magia e di prodigi, il racconto presenta un evidente andamento fiabesco. Sarebbe interessante, per conoscere il modo in cui l’Autore lavorava, confrontarlo con quello di Giovanni Giustiniani Brevis commentariolus memorabilis facti serenissimi principis Maximiliani Bohemiae Regis stampato a Padova nel 1550 e che presenta il medesimo motivo. Un’ultima annotazione. Dal momento che uno scrittore si giudica non solo per ciò scrive ma anche per quello che si lascia sfuggire e non coglie, Straparola appare come un narratore incapace di costruire storie complesse e stratificate; gli è congeniale, al contrario, procedere lungo vie dritte e lineari (come, appunto, quelle fiabesche) Si consideri, ad esempio, l’episodio finale quando i compagni arrivano alla casa dove si è barricato il duca. Straparola avrebbe potuto dar teatralità al momento, creare una piccola commedia degli equivoci, giocare sulla triangolazione fra Malacarne e i soldati da un lato e lo Sforza dall’altro; invece ha optato per la scelta più semplice e banale: il riconoscimento è casuale ed è affidato a un soldato. Ecco, questa occasione perduta mostra più di tanti discorsi il ceppo da cui proviene l’Autore: la sua dedizione alla fiaba non solo poggia su istanze commerciali, ma combacia pure con la sua inclinazione narrativa. La fiaba rappresenta la forma a lui più vicina, più propria; quella che meglio si adatta alle sue esigenze e abilità di scrittore.
L’attraversamento dei generi
MARIA DI GIOVANNA Dal romanzo alla novella. Una capricciosa trasmigrazione nelle ‘Curiosissime novelle amorose’ di G. Brusoni
Presentiamo un giuoco di specchi rivelatore sia della personalità esibizionistica di un autore quale Brusoni, particolarmente concentrato su di sé e incline anche alle autocitazioni,1 sia di un’epoca di norme deboli in letteratura, propizia dunque a sconfinamenti, sovrapposizioni, bizzarri innesti. Un complicato caso di immissione di strutture del romanzo, di consapevole operazione alchemica, ci consentono infatti di mettere a fuoco quattro novelle del Brusoni. I suddetti testi sono dotati di un contrassegno di “diversità” rispetto alle altre Curiosissime,2 intanto perché lo stesso autore si premura di informare i lettori della derivazione di quei quattro racconti da suoi romanzi perduti. Il Brusoni lo fa nel paratesto de Gli amanti sepolti vivi; mentre, addirittura all’interno del testo delle altre tre novelle, un momento autobiografico s’incunea con forza destrutturante, richiamando quella ferita aperta, quel sentimento della perdita: la notizia dello smarrimento, o della sottrazione per dolo, viene così fornita nella parte conclusiva de La giustizia oltraggiata e proprio nella clausola finale de L’onestà tradita e de La gelosa malcapitata.3 Un avvio argomentativo ci può offrire il trafiletto in corsivo, che precede il testo vero e proprio de Gli amanti sepolti vivi. In esso è individuata la tipologia della
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Per le intriganti modalità con cui un esplicito riferimento a La Orestilla è inserito nei Sogni di Parnaso e ne La peota smarrita, cfr. M. Di Giovanna, Giano bifronte nello specchio del presente. Tracciati autobiografici e progetto di nuovo romanzo ne ‘la Orestilla’ di Girolamo Brusoni, Palermo, Palumbo 2003, pp. 19-22 e 30-31. 2 La raccolta esce nel 1663, in edizione definitiva: Le curiosissime Novelle amorose del Cav. Brusoni. Libri quattro. Con nuova Aggiunta, In Venetia, appresso Stefano Curti. La prima edizione era apparsa nel 1665 (Delle novelle amorose. Libri quattro, Venetia, appresso Andrea Giuliani). 3 Di tali opere smarrite il Brusoni peraltro parla anche altrove: cfr. F.P. Franchi, Bibliografia degli scritti di Girolamo Brusoni, in «Studi secenteschi», vol. XXIX, 1988, pp. 304-305 e 307. L’attraversamento dei generi
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Maria Di Giovanna
novella, «Tragica Istoria» appunto; ed è ricordato il titolo della perduta opera da cui si è originato quel contenuto riuso: «Questa Tragica Istoria è tolta dalla Ginevra, Romanzo dell’Autore già smarrito nella perdita d’altre sue scritture senza speranza di ricupera».4 Peraltro il probabile bisogno di risarcimento, sotteso a quella restituzione, è oscurato da un compito quasi poliziesco affidato a quell’operazione, ovvero la scoperta di possibili plagi conseguenti: «Il che abbiam voluto accennare perché serva di Indicio per iscoprire quel furto se mai uscisse in luce travestito».5 Ma più significativa è l’indicazione finale della breve nota informativa, poiché forse implica una riflessione sulla natura dei due generi, sulla intrinseca disponibilità alla reciproca contaminazione in zone di più facile confluenza di materiali narrativi da un versante all’altro. Gli amanti sepolti vivi, infatti, dipenderebbe da un racconto nel racconto – che avrebbe fatto parte della Ginevra – riferito da un narratore di secondo grado (che si rivolgeva ad altro personaggio): «Il Racconto è in Persona dell’Abate Teorindo al Paladino Rinaldo per dichiaramento d’una Pittura».6 Storia, dunque, suggerita da un dipinto, che sembrerebbe avere avuto caratteri di “separatezza” nel perduto romanzo, e collocata inoltre in un luogo testuale richiamante l’impianto del novelliere con cornice. Ma ancor più rilevante è che, nel testo della suddetta novella, il Brusoni abbia mantenuto traccia dei livelli diegetici di quella porzione della Ginevra. Ne Gli amanti sepolti vivi, la voce narrante, infatti, sembra ancora identificabile con il personaggio ricordato nella nota introduttiva (l’abate Teorindo): la sua narrazione è carica del pathos di chi ha assistito al caso atroce del seppellimento di due esseri ancora vivi («che di provarsi a descriverla in un mal tirato racconto con lingua vacillante sotto il peso dell’atroce cordoglio, che nella sola rimembranza di caso tanto crudele mi sviscera ancora l’anima»);7 sembra inoltre rivolgersi con particolare riguardo a un definito destinatario, le cui qualità morali e intellettuali sembrerebbero ben accordabili con quelle presumibili del paladino Rinaldo ricordato nel paratesto («cosa da lasciar più tosto alla consideratione del vostro alto giudicio»);8 e concorrono alle suddette impressioni certi aggettivi dimostrativi che palesano la vicinanza dei luoghi al narratore («questo Regno»;9 «questa Selva»10); e ricordiamo che la vicenda si svolge in «Scotia».11
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G. Brusoni, Gli Amanti Sepolti Vivi. Novella quarta [del Libro II], in Le curiosissime Novelle amorose cit., p. 82. 5 Ibidem. 6 Ibidem. 7 Ivi, p. 89 (il corsivo è nostro). 8 Ibidem. 9 Ivi, p. 90 (il corsivo è nostro). 10 Ivi, p. 92 (il corsivo è nostro). 11 Ivi, p. 82. II. I generi letterari degli Italiani
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In maniera ben più evidente, ne L’onestà tradita (derivata pure da un’opera smarrita, in questo caso dal Principe deredato), ancora una volta sul piano della tecnica del racconto, la magia della scrittura fa comparire il simulacro del perduto romanzo all’interno dello spazio novellistico. La gestione del racconto, infatti, è affidata a un narratore che nel romanzo perso doveva essere di secondo grado; e che comunque nella novella risulta coinvolto nella vicenda che racconta, come personaggio che agisce; e soprattutto – e qui sta la vera anomalia – si rivolge non ai lettori ma, in maniera estremamente palese, a un interlocutore che nel Principe deredato doveva essere il fruitore interno di quel racconto (e di cui nella novella rimane una muta presenza). L’informazione (contenuta nelle battute conclusive) sulla derivazione da un testo-fonte sottratto all’autore non fornisce i nomi e lo status del personaggionarratore e del suo interlocutore, né tale situazione è chiarita ad apertura del racconto; ma i lettori si accorgono di questo rapporto diegetico procedendo nella fruizione della novella e possono ricavare dal testo stesso almeno la collocazione sociale dei due, certi loro connotati morali e intellettuali e il loro ruolo. Di sé il narrante chiarisce le relazioni di parentela con la protagonista del racconto («Di Panteo Conte d’Azelia mio fratel Cugino […] nacque al mondo Calliana»);12 e ripetutamente focalizza i propri interventi nella vicenda, a tutela dell’onore della giovane.13 Mentre colui che tecnicamente è il destinatario di quel racconto è individuato dal narrante come persona assennata e appartenente a una fascia della piccola nobiltà: «Di questa non meno empia, che sconsigliata azione di Filasadio […], è cosa da lasciarsi al vostro prudente giudicio, Signor Cavalliere».14 Risulta inoltre particolare familiarità tra il narrante e l’uomo che l’ascolta: «Vi confesso, carissimo Amico, che non mi piacquero punto così frettolose e furtive nozze».15 E, ancora, in questi momenti in cui il narrante si rivolge al personaggio che beneficia del racconto, apprendiamo che questi conosce il principe protagonista della vicenda («mi porgerebbono larga materia di discorrere se non favellassi con Personaggio, che avendo longamente pratticato quel Principe […] non m’avvertisse di rivoltare ad altra parte il mio ragionare»),16 pur ignorando quegli specifici eventi, benché di così sbalorditivo impatto: «e resto Io oltremodo maravigliato, come non pervenisse giammai a vostra notitia la verità d’un avvenimento per la sua mostruosità degnissimo d’essere dalla
12 G. Brusoni, L’Onestà Tradita. Novella sesta [del Libro II] in Le curiosissime Novelle amorose cit., pp. 106-107 (il corsivo è nostro). 13 Un esempio: «Io mi vidi malissimo impacciato a questo incontro; ma risoluto di metter sossopra il Mondo prima d’acconsentire al violamento dell’onore del nostro Sangue, esortai», (ivi, p. 113). 14 Ivi, pp. 120-121 (il corsivo è nostro). 15 Ivi, p. 117 (il corsivo è nostro). 16 Ivi, p. 104, (il corsivo è nostro).
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Fama divulgato e dalle Genti raccolto».17 La novella, insomma, è contaminata dal romanzo, ne mantiene certe strutture. Ma il narratore de L’onestà tradita, che, appunto, non è un’anonima voce ma un personaggio che racconta ad altro personaggio, alla fine della novella restituisce la gestione narrativa all’autore, il quale riassume certe vicende del perduto romanzo (su questo punto torneremo); ma poi lascia intravedere che la sua selezione dei pochi frammenti, che ancora gli resterebbero, di quel suo testo sfortunato, finalizzata alla confezione di una novella, è stata influenzata da una visione del discrimine tra i due generi che si configurerebbe come una frontiera sbrecciata solo in alcuni punti che consentono passaggi di materiale; mentre, appunto, in altri tratti di confine non si aprirebbero varchi, tali almeno da approvvigionare il versante novellistico. Alcuni frammenti del Principe deredato pure in possesso dell’autore, dunque, non si presterebbero a un’utilizzazione in forma di novella: Il maritaggio di Filasadio con la Principessa di Lidia; la ritirata di Calliana a vita Religiosa, l’infausta morte di Filasadio, e le avventure di Piriteo si raccontano nel Principe Deredato. Opera perduta con altre insieme dall’Autore, di cui non gli resta, che questo breve Racconto della Onestà Tradita con altri pochi Frammenti incapaci di questo luogo, che si vedranno forse un giorno in un’Opera favoleggiata da Istorie pur troppo vere del nostro Secolo.18
L’autore viceversa ritiene di poter in futuro destinare quei frammenti «incapaci» di svolgimento novellistico ad altro progetto letterario che sembrerebbe richiamare quelle operazioni “a chiave”, allegoriche, in voga soprattutto nel romanzo del Seicento, dirette da un orientamento volto a rappresentare vicende e costumi della realtà presente sotto l’apparenza di una materia fantastica. Il travaso (dal romanzo alla novella) non si esaurisce comunque nelle tracce delle scelte d’ordine diegetico operate nei romanzi perduti (oltretutto le altre due novelle, La gelosa malcapitata e La giustizia oltraggiata non sembrano dipendere da un originario racconto nel racconto). I testi-fonte sembrano avere agito, in certi casi, allentando quel criterio dell’economicità del narrare che dovrebbe essere proprio del genere novellistico (benché la lunga storia della novella mostri ampiamente deroghe a tale orientamento). E così, nell’esordio de L’onestà tradita, la ricostruzione di un tratto dell’albero genealogico della regale famiglia del lussurioso Filasadio e la segnalazione di certe vicende della successione al trono nel regno d’Epiro risultano in effetti una “perdita di tempo” rispetto alle necessità di un testo novellistico; un lascito appunto delle strategie compositive di un romanzo quale doveva essere il Principe deredato, opera giovanile di un Brusoni non ancora giunto alle proposte innovative de La Orestilla e della trilogia. È comunque possibile che il giova-
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Ivi, p. 121 (il corsivo è nostro). Ibidem (il corsivo è nostro). II. I generi letterari degli Italiani
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ne Brusoni del Principe deredato si accostasse al filone più frequentato del romanzo barocco, quello eroico-galante, con intenti non dissimili da quelli di altri Incogniti, e cioè introdurre una prospettiva critica mirata a illuminare le perverse inclinazioni dei Grandi, utilizzando in senso estensivo, metaforico la singola vicenda di nequizia di un regnante.19 Lo fa pensare una tessera della novella: «sapendo, che sogliono talvolta i Principi per trarsi i loro capricci servirsi di sì fatti mezzi con danno e disonore di chi lor crede».20 Un altro esempio di ampliamento o digressione non ben giustificati dall’economia di un corpo novellistico potremmo indicare ne La gelosa malcapitata (testo pure derivato dalla Ginevra). L’indugio sull’amore del giovanetto Teorindo per la cugina Ardelia appare in un certo senso superfluo, se si considera la circoscritta storia che, almeno apparentemente, è al centro della novella e le dà il titolo; e cioè le vicende dell’amore di Delminio (coniugato e padre di Teorindo) per una donna sposata, destinato a provocare tragiche conseguenze per la gelosia della moglie Eutichia, sorella del re Terrismondo (la donna, sospettando il tradimento, durante una caccia aveva spiato il marito ed era stata da lui trafitta mortalmente per un errore fatale: «credutala un Cervo»).21 Quella già ricordata insistenza della voce narrante sulla adolescenziale passione del figlio della coppia per la fanciulla Ardelia risulta viceversa non superflua se si considerano gli eventi successivi a quella tragica storia, che erano parte del perduto romanzo Ginevra; fatti che l’autore-narratore sintetizza a conclusione della sua novella quando vuole informare i lettori della singolare operazione di trasferimento di un segmento testuale: Come poi riconosciuta la raccogliesse dalle sue labbra gli ultimi spiriti della sua vita. Le turbolenze suscitate a suo danno dal Re Terrismondo per l’opinione, che non a caso, ma pensatamente l’avesse uccisa per amore della Contessa d’Ultonia. La ardita risolutione di Teorindo di rapire per liberare il Padre la principessa Ardelia. La morte miserabile di questa Fanciulla divenuta sua sposa; e la ritirata perciò di Teorindo nella Gran Selva Calidonia in Iscozia con la sua conversione, si raccontano diffusamente nell’accennato Romanzo della Ginevra; ed a noi basta d’aver qui messo per una seconda Pietra di paragone alla discoperta di quel Furto; questo breve Racconto della Gelosa Malcapitata22
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Pensiamo, ad es., a La Bersabee di Ferrante Pallavicino. G. Brusoni, L’Onestà Tradita cit., p. 117. 21 Id., La Gelosa Malcapitata, in Le curiosissime Novelle amorose cit., p. 102. 22 Ibidem (il corsivo è nostro). 20
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Lo schema del brevissimo riassunto di fatti successivi al caso che è al centro della novella, enunciati perché presenti nello smarrito testo-fonte, viene trasferito anche nelle altre due novelle che presentano all’interno la notizia della derivazione. E con una climax verificabile se guardiamo all’ordine di collocazione nella raccolta delle Curiosissime. Mentre ne Gli amanti sepolti vivi (II, 4) questo specifico compendio manca e tutti gli eventi riguardano l’abnorme accadimento proposto, nelle altre tre novelle va progressivamente ampliandosi lo spettro delle tessere riassuntive: ne La gelosa malcapitata (II, 5) i fatti successivi al doloroso caso della donna atrocemente punita dalla sorte a causa di un’eccessiva gelosia, offerti in sintesi, non sembrano esaurire le vicende dell’intero romanzo (non si capisce perché questo prendesse titolo da un nome proprio, Ginevra, che non ricorre nella sintesi). Nella successiva novella, L’onestà tradita (II, 6), che narra la storia della grave scorrettezza di un re nei riguardi della fanciulla prima segretamente sposata e poi ripudiata, nel finale23 il riassunto dei fatti, che nella fabula del perduto romanzo erano determinati da quella decisione riprovevole, è seguito da una formula che in maniera assolutamente concentrata e generica («le avventure di Piriteo») definisce l’oggetto principale del Principe deredato; e che proprio Piriteo dovesse essere il personaggio privato di eredità ovvero di diritto di successione al trono, il protagonista “deredato” appunto, è chiaro poiché, nell’evento culminante della storia su cui si era soffermato diffusamente il narratore in precedenza nella novella, è quello il nome del bambino danneggiato dall’annullamento del matrimonio dei suoi genitori. In un crescendo, ne La giustizia oltraggiata (III, 6) addirittura è offerta la sintesi dell’intero romanzo (che sembra avere avuto lo stesso titolo della novella: «di questo breve Romanzo»), con un taglio che salva tutti i passaggi essenziali per la conoscenza compiuta della trama. Con brusca interruzione dell’episodio sin a quel momento ampiamente cesellato, è infatti data prima la notizia dello smarrimento e delle circostanze che consentirebbero la confezione almeno di una novella: Altro non habbiamo potuto ricuperare di questo breve Romanzo, negli abbozzi delle nostre Opere smarrite; conservati e raccolti da un Amico, che ce gli ha rimessi. Onde per non lasciare inutile affatto questo Frammento: tralasciato il Racconto degli Episodij men rilevanti, non avendo ora né tempo, né voglia di fermarci in così fatti scherzi; diremo solamente.24
Subito dopo il lettore è informato dell’esito favorevole di quell’amore illegittimo di un Grande, che, illustrato distesamente nelle sue fasi iniziali, precedentemente all’autobiografica informazione, aveva occupato lo spazio più ampio della
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Abbiamo già citato la chiusa della novella. G. Brusoni, La Giustizia Oltraggiata. Novella sesta [del Libro III], in Le curiosissime Novelle amorose cit., p. 169. 24
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novella.25 Sono dunque presentate le modalità con cui il principe avrebbe ottenuto le grazie amorose della bella Rossane, sicché un’ombra cupa si deposita su quella storia e soprattutto si delinea un’immagine perversa di un potere che usa congiuntamente «inganno» e «forza» contro innocenti. Il marito della donna concupita, infatti, nel perduto romanzo, veniva dunque imprigionato, colpito da accuse palesemente false per rendere facile l’adulterio.26 Ma la sintesi comprende anche, mediante rapida ma compiuta esposizione, l’organico disegno conclusivo di quella trama che prevedeva la punizione – operata dalla sorte – ai danni del funzionario complice dell’ingiusto procedere del principe.27 Addirittura la formula finale della novella si riferisce proprio a tale funzionario indegno, che è personaggio che compare solo nella sintesi. E, dunque, l’orientamento sentenzioso del narratore, nella chiusa del testo, si indirizza non su quella storia d’amore che in apparenza si offriva quale oggetto privilegiato dell’impegno del novelliere, ma sul senso di cui il romanzo perduto doveva quasi sicuramente farsi carico:28 «ed egli pianse fino alla Morte invano la sua sciocchezza d’avere per altrui capriccio oltraggiata la Giustizia, che gli aveva raccomandata la sua spada, perché la sfoderasse al castigo de’ Delinquenti, non perché la imbrandisse alla Depressione de gl’Innocenti».29 Denuncia degli abusi dei Grandi, insomma, ma anche della rete di complicità negli apparati dello Stato che li agevolerebbe. Ora, se escludiamo Gli amanti sepolti vivi (che presenta un caso abnorme confezionato con estrema cura), si ha l’impressione che la categoria del “curiosissimo” ricorra nelle altre tre novelle per i movimenti inclusivi che consentono ad esse di
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«Che essendosi finalmente accordati per mezo di Sandaule il Principe e Rossane; dopo d’aver tentati invano mille mezi per trovarsi insieme […]; ebbe il Principe finalmente ricorso col consiglio d’Adrasto ad uno stratagemma, che congiunse insieme l’inganno e la forza, ed ottenne quello che volle», ibidem. 26 «Trovatosi adunque col Collateral Generale del Re, tanto seppe predicargli in capo, che l’indusse ad oltraggiar la Giustizia, facendo col pretesto di segrete accuse in materia di Stato imprigionar Idraspe [il marito] con alcuni de’ suoi più fedeli Servidori, per quanto tempo piacque al Principe di domesticarsi con Rossane. Della quale (come son satievoli e vani i piaceri del senso) sodisfatto al fine sopra i suoi desideri; fu liberato Idraspe e dichiarato Innocente», ivi, pp. 169-170. 27 «Ma non si scordò già la Giustitia oltraggiata delle vere ingiurie fatte in questi falsi rigiri alla Sua Maestà dal Collaterale; e perseguitandolo con quei medesimi mezi, che egli aveva adoperati violando per compiacer altrui le leggi del Cielo e del Mondo; permise, che la propria sua Moglie invaghita appunto d’Idraspe bellissimo Cavalliere in una matura virilità di quaranta anni, per potersi trovar con lui, si disfacesse del Marito accusandolo al Re di gravissimi mancamenti […]. Onde condannato ad una perpetua prigione: ed ella ebbe (e n’era degna) quel, che le piacque da Idraspe», ivi, p. 170. 28 Anche il titolo della novella si riferisce ai fatti che solo la sintesi consente di conoscere. 29 G. Brusoni, La Giustizia Oltraggiata cit., p. 170. L’attraversamento dei generi
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fagocitare al loro interno le fattezze larvali dei perduti romanzi; sicché soprattutto da tali inedite modalità l’autore ricavi un effetto sorprendente. Peraltro se “estremo” può dirsi il doloroso caso al centro de La gelosa malcapitata e se almeno inattese si sviluppano determinate conseguenze del disordine erotico del protagonista de L’onestà tradita, viceversa l’amore adulterino del principe è presentato nel testo de La giustizia oltraggiata come scontata fenomenologia comportamentale.30 E, certo, la prevedibilità degli atteggiamenti indotti dal “riposo del guerriero” indebolisce alquanto la poetica che punta all’inusitato dell’oggetto del narrare; sicché la sopravvivenza del “curiosissimo” deve necessariamente appoggiarsi ad altro, appunto a quello strano inglobamento, propiziato dal narcisismo dell’autore che, ferito dalle aggressioni della Realtà, per una reazione apre spazi di visibilità per il proprio io, restituisce una parvenza di vita a percorsi inventivi traumaticamente interrotti. E che la ragion d’essere delle tre novelle stia particolarmente in tale epifania, in tale esibizione di lillipuziani disegni ricostruttivi, lo conferma un particolare per noi decisivo: la fretta che interviene a un certo punto e costringe la voce narrante a tagliare l’episodio prima selezionato dalla trama del testo-fonte (e offerto inizialmente con disteso narrare); sicché finalmente, nella conclusione della novella, la comparsa dell’autore sulla scena della scrittura possa avvenire e così possa anche dispiegarsi quel suo ultimo giuoco di prestigio, che è il disegno, in sintesi più o meno compiuta, dell’intero corpo di un romanzo smarrito. Non estendiamo invece il discorso a Gli amanti sepolti vivi, dove l’episodio esibito sin dal titolo sembra esercitare una fascinazione oscura sull’autore, evidenziata dall’insistita tecnica di prefigurazione,31 dal gusto teatrale che gestisce la presentazione dell’orribile supplizio,32 dalla complessa orchestrazione. Viceversa sembra proprio che al Brusoni delle altre tre novelle non basti salvare dalla rovinosa cancellazione di una ponderosa costruzione letteraria un singolo rudere restaurato, destinandolo a coprire interamente lo spazio testuale. Ciò che sembra soprattutto animare l’operazione inventiva è l’ansia di pervenire all’atto autobiografico sicché si trasmetta l’immagine di un Autore-Lottatore che agiti le armi di una rinnovata invenzione contro la Sorte e le insidie degli uomini. E la prova regina di ciò che affermiamo è offerta dalla fretta, ne La gelosa malcapitata e ne La giustizia oltraggiata, dicevamo, di liberarsi a un certo
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«Ma perché pare, che sia destino fatale de’ gran Capitani allora che ribellati alle fatiche Cavalleresche si consagrano a gli ozj della Corte di far passaggio dalla militia di Marte a quella di Venere; non volle Amore, che il Principe Filarmiro troppo lungamente si vantasse di libertà; ma additatagli una singolar bellezza con un sol fuggitivo sguardo, il fe prigioniero, e ’l pose nel numero de i suoi seguaci», ivi, pp. 163-164. 31 Ad es.: «letto medesimo, dove si giacevano strettamente insieme abbracciati e sepolti in un altissimo sonno i Giovinetti», G. Brusoni, Gli Amanti Sepolti Vivi cit., pp. 87-88, il corsivo è nostro. 32 Non a caso vi è la presenza di un lessico del teatro (cfr. M. Di Giovanna, Novella e “dintorni” nel Seicento. Osservazioni su alcuni testi di G. Brusoni, in «InVerbis», 2011, fasc. 2, p. 165). II. I generi letterari degli Italiani
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punto dell’episodio che pure sarebbe dovuto essere il cuore della costruzione novellistica. Ne La gelosa malcapitata l’immissione improvvisa di uno schema che fonde il riassunto degli eventi successivi e la notizia autobiografica dello smarrimento priva la novella di ingredienti patetici – incomprensibilmente per il gusto del tempo – poiché il racconto della tragica morte della protagonista, trafitta erroneamente dal marito, non è seguito dalla rappresentazione insistita del presumibile doloroso smarrimento dell’uomo, incolpevole uxoricida. Tutto ciò viene affrettatamente sostituito poi da una generica formula, che apre la ricordata sintesi («Come poi riconosciuta la raccogliesse dalle sue labbra gli ultimi spiriti della sua vita»); formula che, con altre enunciazioni riassuntive, informa della diversa estensione che quei fatti avevano nel perduto romanzo («si raccontano diffusamente nell’accennato Romanzo della Ginevra»). L’improvvisa “pigrizia”, che impedisce al Brusoni di cesellare il logico epilogo di quella tragica storia, può spiegarsi realmente solo individuando le motivazioni profonde che presiedono all’ideazione del testo. Ma tale anomalia è ancora più vistosa ne La giustizia oltraggiata, dove il racconto minuzioso di una storia d’amore è interrotto senza che se ne conosca l’esito. Il lettore ha appena il tempo di apprendere dell’insistenza speranzosa dell’uomo (il quale persiste nel corteggiamento)33 che l’autore-narratore sospende quella particolareggiata narrazione, per informare che la genesi della novella starebbe in un vulnus solo parzialmente sanato dall’amico solerte che aveva recuperato e riconsegnato pochi frammenti delle smarrite opere.34 È singolare che il Brusoni addirittura esibisca il suo rifiuto di completare accuratamente la vicenda, portando a compimento quella storia di passione dei sensi, fino almeno alla consumazione dell’atto adulterino («non avendo ora né tempo, né voglia di fermarci in così fatti scherzi»). Ad ogni modo, solo dalla sintesi poi il lettore apprenderà dei fortunati risultati di quel corteggiamento amoroso. Ma la suddetta cesura che attraversa il testo implicitamente rivela che le vere intenzioni che presiedono a quella bizzarra proposta novellistica vanno colte nell’istanza dell’autore di richiamare la violenza di cui sarebbe stato vittima e compensare la ferita narcisistica risuscitando il profilo fantasmatico dell’opera smarrita. E gli indizi di tale dinamica psicologica non a caso appaiono più evidenti ne La giustizia oltraggiata, la novella in cui si presenta più esaustiva la sintesi “riparatrice”, nel testo cioè che si offre come prototipo perfetto di novella-cenotafio; un monumento funebre innalzato per rinverdire la memoria
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«Diedesi pertanto il Principe a seguitare con ardenza maggiore l’impresa, se non gradito, non rifiutato da Rossane; nella cui mente portato dall’efficacia del dono, e dalla presonzione della sua Real Fortuna, s’andava a poco a poco introducendo Amore fatto più vigoroso dalla bellezza, e dalla gratia del Principe, quella nella pienezza delle sue perfezioni, e questa nell’eccesso della maraviglia in lui raccolta», G. Brusoni, La Giustizia Oltraggiata cit., pp. 168169. 34 Abbiamo già citato il passo. L’attraversamento dei generi
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della perduta opera, modellato per rinchiudere un’apparenza di corpo romanzesco, ma non la sostanza vera, la complessione reale di esso. L’illusionistica riapparizione del simulacro consente di saggiare ancor meglio da quali depositi le quattro novelle in questione traggano alimento: il versante del romanzo eroico-galante o anche la tipologia (talora confinante con il suddetto agglomerato fantastico) che consente un uso ideologico degli intriganti materiali tematici, essendo infatti la selezione degli ingredienti dell’intrattenimento funzionale a una riflessione critica sulle perverse pratiche dei Grandi. Non c’è ancora, certo, in quei romanzi giovanili come pure nelle novelle la cui gestazione dipende da quelle matrici, il Brusoni della svolta. Non c’è insomma lo scrittore dell’Orestilla e della trilogia. Tuttavia, anche nelle quattro novelle esaminate, c’è pur sempre un autore che sembra muoversi come un battitore libero, insofferente di schemi canonici. Un Brusoni che sforza l’impianto della novella a contenere lacerti di un organismo testuale più ampio o a rifletterne l’immagine come in un specchio. Ibridazione resa possibile da un contesto letterario agonisticamente impegnato a dismettere le “regole” e che insieme sembra trasferire nelle estrose contaminazioni l’immagine metamorfica e caotica della realtà che la visione barocca coltiva. Ma le quattro novelle testimoniano anche quanto il gusto dell’epoca si compiaccia di finte apparenze. Anche delle ingannevoli parvenze che la parola letteraria riesce a realizzare. E, con quell’esperimento replicato in un crescendo, un tal piacere, poggiante su un letterario gioco di prestigio, il Brusoni intende offrire ai suoi lettori: gustare un romanzo in una novella. Nella temperie barocca, che ama i piani plurimi e cangianti dell’invenzione, il narcisismo dell’autore trova un terreno favorevole per esprimersi. Il forte amore di sé rende proponibile, in una sede letteraria tradizionalmente deputata ad altra funzione, la valorizzazione di un particolare autobiografico, lontano dalle più comuni esperienze. Ad ogni modo, pur se quell’esibizionismo autoriale può invocare l’alibi dell’autodifesa (tutelarsi da possibili plagi) e magari anche quello dell’utilità per i lettori (riconoscere l’eventuale impostura di chi potrebbe in futuro appropriarsi di materiali non suoi), si ha però il sentore di processi che stanno erodendo le regole, molto rigide, che la cultura tradizionale aveva imposto al dir di sé, osteggiando appunto la parola autobiografica e prevedendo solo ristrette deroghe. E, specificatamente nell’ambiente veneziano, un impulso alle scorribande dell’io veniva dall’individualismo propiziato dal pensiero libertino. Inoltre, nella città lagunare, le nuove dinamiche di produzione/consumo potevano indurre gli scrittori a forme di presenzialismo/visibilità e alla ricerca di tecniche e trovate atte a sollecitare l’attenzione del pubblico. Anche a questi fenomeni riconducono, nelle quattro “curiosissime” esaminate, quell’estros a invadenza dell’autore, quella sua convinzione che possano risultare coinvolgenti e cariche di senso, per i lettori, certe sue travagliate vicende di gestazione letteraria, divenute insoliti ingredienti in quei suoi testi.
II. I generi letterari degli Italiani
LETIZIA MAGRO Quando la lettera diventa racconto: osservazioni sull’epistolario di Umberto Saba
Umberto Saba amava raccontare e raccontarsi; l’attitudine alla narrazione dell’autore triestino si manifesta pienamente nelle sue «scorciatoie», nei «raccontini» e nei «ricordi-racconti»,1 ma si avverte anche in diverse liriche del Canzoniere, e ha origine da un profondo bisogno di comunicare, che Saba esprime innanzitutto nella dimensione orale, come testimonia un ricordo d’infanzia di Guido Voghera:2 Saba raccontava assai bene: io pure lo stavo ad ascoltare volentieri, anche se, com’è naturale, non potevo apprezzare pienamente quello che c’era di poetico in tante sue immagini e tante sue frasi. Piaceva a Saba particolarmente raccontare delle ingenuità e delle sciocchezze dette o fatte da qualche bambino o qualche ragazzo di sua conoscenza; di qualche uscita originale di persone semplici; di episodi curiosi che rivelassero lati profondi e insospettati della natura umana.3
Sarà utile osservare come sia stata soprattutto la scrittura epistolare, intesa come appendice cartacea della comunicazione orale, a svolgere un importante ruolo nell’esplicazione e nell’affinamento dell’istinto narrativo sabiano, e come, proprio nelle sue lettere, l’autore triestino sia riuscito a compiere delle originali e consapevoli ibridazioni testuali. Saba scrisse più di tremila lettere e cartoline;4 tuttavia, sebbene avesse coscienza del fatto che parte della sua corrispondenza fosse degna di pubblicazione,5 non considerava il proprio epistolario alla stregua di un’opera letteraria.
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Sono tutte definizioni di Saba riferite alle sue prose. Guido Voghera era figlio di Giorgio, filosofo triestino e carissimo amico di Saba. 3 G. Voghera, Gli anni della psicanalisi, Trieste, Studio tesi 1980, p. 84. 4 È un numero del tutto approssimativo, fornitoci da Elvira Favretti. Cfr. E. Favretti, La prosa di Umberto Saba. Dai racconti giovanili a ‘Ernesto’, Bonacci, Urbino 1982, pp. 105-129. 5 Saba sperava di pubblicare alcune lettere che giudicava più significative, come quelle che 2
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Ogni lettera di Saba è assimilabile ad un ciceroniano «amicorum colloquia absentium»; la scrittura epistolare dell’autore triestino deve quindi essere intesa principalmente come un mezzo di comunicazione, che gli ha permesso di sentirsi vicino ai propri corrispondenti, abbreviando simbolicamente le distanze con loro attraverso l’uso della parola scritta. In Saba la comunicazione epistolare è caratterizzata da un’istintiva dialogicità: nelle lettere l’autore rappresenta, senza filtri e quasi in presa diretta, la realtà complessa e densa di vita che lo circonda. Una spiccata sensibilità rappresentativa gli permette di infondere alla parola scritta i propri gesti, mettendosi talvolta in scena, in una sorta di autorappresentazione estemporanea. Saba riproduce se stesso e le proprie azioni attraverso la scrittura epistolare, che può essere quindi paragonata ad un’istantanea fotografica che immortala l’autore triestino: «Caro Fortuna! mi sono incontrato sulla porta di casa col postino che mi portava la sua cartolina. Vengo in questo momento da Trieste: e sono pieno di sonno».6 «Ecco la buona suora con la siringa in mano».7 «Ti scrivo subito (ho chiuso il libro in questo momento) perché sento che, se non lo faccio subito, non lo avrei fatto più».8 Da questi esempi è possibile dedurre come, attraverso la scelta costante di alcuni accorgimenti testuali, quali l’uso di determinazioni temporali specifiche che ricreano un effetto di simultaneità tra l’atto di scrittura e quello di lettura delle lettere, Saba diventi attore, oltre che mittente, delle sue stesse missive. L’uso del discorso diretto, consente inoltre all’autore di introdurre altri personaggi nelle sue rappresentazioni epistolari, trasmettendo ai propri corrispondenti qualcosa della loro personalità. Es. «Addio, mio caro Moretti: “queste sono lettere!” à esclamato mia moglie, quando le ò letto l’ultima tua».9
aveva scritto al suo pupillo Federico Almansi definite dall’autore triestino «il suo capolavoro»; abbiamo notizia di ciò da un accenno che l’autore fa alla moglie Lina in una lettera del 3 marzo 1946: «Ho passata quasi tutta la notte in cucina, dove ho rilette quasi tutte le vecchie lettere che scrivevo negli anni terribili a Federico… di quante cose mi sono ricordato, leggendole! C’è in quelle lettere, oltre il resto, tutta la nostra casa d’allora, con te, Linuccia, il cane Fido. Credo che quelle lettere sieno il mio capolavoro. Ho detto a Federico che, subito dopo la mia morte, egli dovrebbe pubblicarle; ma non vuole», U. Saba, La spada d’amore. Lettere scelte 1902 – 1957, Milano, Mondadori 1983, p. 150. 6 Lettera del 30 dicembre 1912, in U. Saba, Quanto hai lavorato per me, caro Fortuna! Lettere e Amicizia fra Umberto Saba e Aldo Fortuna (1912-1944), Trieste, Mgs press 2007, p. 85. Il grassetto di questo passo e dei seguenti è nostro. 7 Lettera a Vittorio Sereni del 20 febbraio 1951. in U. Saba, V. Sereni, Il cerchio imperfetto, lettere 1946-1954, Milano, Archinto 2010, p. 142. 8 U. Saba-P. A. Quarantotti Gambini, Il vecchio e il giovane, a cura di L. Saba, Milano, Mondadori 1965, pp. 101-105. 9 Lettera datata «Milano, 9 aprile 1914»; in U. Saba-M. Moretti «Anime di cortigiani e di vecII. I generi letterari degli Italiani
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Se è quindi possibile considerare le lettere di Saba alla stregua di appendici cartacee della comunicazione orale, non sembrerà strano che la passione dell’autore triestino per gli aneddoti messa in luce da Guido Voghera, si sia trasmessa alle sue conversazioni a distanza, non è raro infatti ritrovare nelle lettere sabiane alcuni tasselli e inserti narrativi che hanno l’evidente scopo di infondere alla scrittura epistolare una particolare intimità e vitalità, costituendo inoltre un’inconfondibile sphragìs dell’autore triestino. La sua corrispondenza è dunque ravvivata da una profonda ed inesausta originalità narrativa, che ci permette di osservare una continuità d’ispirazione nell’attività creativa di Saba poeta e prosatore: le lettere sono infatti una sorta di fil rouge che connette vita e letteratura dell’autore triestino, dal momento che non esistono periodi della sua vita privi di rapporti epistolari. Per Saba scrivere lettere rappresenta certamente un modo per comunicare, tuttavia la scrittura epistolare è anche un terreno in cui l’autore sperimenta e mette alla prova, in maniera non del tutto inconsapevole, le sue doti di narratore. È opportuno sottolineare che, già nella sua prima giovinezza, il principale valore che Saba cercò di istillare alla proprie missive non fu quello della bellezza formale e fine a se stessa, che anzi, fino alla sua vecchiaia, sarà sempre coerentemente osteggiata con sdegno a favore di altri valori. Secondo il parere di Saba la lettera non deve essere bella in sé, deve piuttosto trasmettere i sentimenti e le passioni dello scrivente; già nel 1903 l’autore contesta all’amico Amedeo Tedeschi il termine «bella» con il quale ha apostrofato ingenuamente la sua ultima lettera: Carissimo Amedeo…Due cose mi seccano della tua lettera, l’una è l’aggettivo «bella» col quale qualifichi l’ultima mia, come se io nella corrispondenza non volessi esprimere in una forma qualsiasi i miei sentimenti, ma fare sfoggio o esercizio di virtuosità. passò il tempo, amico mio, nel quale si scriveva per il diletto di scrivere, lettere e versi non ne scrivo più che costretto dalla passione e dal dovere, cose che, purtroppo, succedono spesso.10
Lo stesso motivo di una bellezza intrinseca del testo epistolare, giudicata non necessaria rispetto al valore “sentimentale” attribuito alle lettere, si ritrova anche in una missiva scritta ben quarantatrè anni dopo alla figlia Linuccia: «Scrivimi una bella bella lettera (ma senza cercare che sia bella)».11 L’aggettivo «bella», ripetuto due volte dal poeta, che imita in tal maniera l’uso orale della duplicazione con funzione superlativa, è immediatamente negato nella parentesi. In essa Saba specifica
chie zitelle» appunti sul carteggio Moretti-Saba, a cura di M. Ricci, in «Archivi del nuovo»,VIII (2005),16-17, pp. 85-105. 10 Lettera datata «Pisa 8 Febbraio 1903», in U. Saba, La spada d’amore, lettere scelte cit., p. 61. 11 Lettera del 25 aprile 1946, in U. Saba, Atroce paese che amo, lettere famigliari (1945-1953), Milano, Bompiani 1987, p. 51. L’attraversamento dei generi
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il tipo di «bellezza» a cui fa riferimento, che ha poco a che fare con il concetto puramente estetico attribuito a questa parola. Sul concetto di bellezza delle lettere Saba ritornerà ancora scrivendo a Vittorio Sereni nel 1952: «Io non volevo scriverti una “bella” lettera; volevo solo stare un po’ con te e con le cose nate da te».12 L’autore specifica quindi il valore fondamentale che attribuisce alla comunicazione epistolare: accorciare le distanze e stare insieme ai suoi cari, anche attraverso la scrittura, che diventa creatura viva: è questa la vera intrinseca bellezza che anima le lettere sabiane. Le missive in cui Saba annuncia ai suoi corrispondenti di voler raccontare loro una storiella o un fatterello sono moltissime, per l’autore triestino l’atto del narrare rappresenta una sorta di omaggio nei loro confronti; rileggendo alcune formule con cui introduce o accompagna i suoi aneddoti, diventa ancora più evidente come questo gusto per l’apologo si sposi ad un piacere più profondo, quello della condivisione di un evento, anche banale, che Saba trasforma in narrazione: «Un altro episodio voglio raccontarti […]».13 «Adesso ti racconto una cosa che, in quanto scrittore, ti rallegrerà […]».14 «Io non mi posso occupare di te per la semplice ragione che di te, proprio di te, non dici mai nulla…così non mi resta che raccontarti storielle, sperando che ti svaghino un po’».15 L’atto del narrare si aggiunge quindi in maniera consapevole a quello della comunicazione, arricchendola di piacevoli fatti, episodi inediti e storielle; l’autore triestino racconta principalmente avvenimenti che lo riguardano o episodi di cui sono stati protagonisti suoi conoscenti e amici o ancora degli aneddoti che gli sono stati a sua volta riferiti da altri. Il gusto per l’apologo si riscontra già nelle lettere del giovane Saba all’amico Amedeo Tedeschi,16 diventando sempre più spiccato con la maturità dell’autore triestino. L’ingrediente indispensabile agli aneddoti sabiani è senza alcun dubbio il sottile dolceamaro umorismo con il quale l’autore condisce tutte le sue prose. Le spiccate doti di caratterista di Saba si estrinsecano ad esempio nella sua narrazione dei successi di Italo Svevo, che troviamo in una lettera indirizzata all’amico Nino Curiel, risalente al 1926,17 tuttavia uno dei protagonisti prediletti delle storiel-
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Lettera del 18 agosto 1952, in U. Saba, V. Sereni, Il cerchio imperfetto cit., p. 175. Lettera del 19 novembre 1947, ivi, p. 70. 14 Lettera a Giovanni Comisso del 28 luglio 1943, in Saba – Svevo – Comisso, Lettere inedite, a cura di M. Sutor, Gruppo di Lettere Moderne (STA, Vicenza), Padova 1968, p. 41. 15 Lettera a Nora Baldi senza data (risalente al 1952), in U. Saba, Lettere a un’amica, settantacinque lettere a Nora Baldi, Torino, Einaudi 1966, p. 81. 16 Cfr. B. Maier, Appunti sul noviziato artistico di Umberto Saba, In Id., Saggi sulla letteratura triestina del Novecento, Milano Mursia 1972, pp. 97-117. 17 U. Saba, La spada d’amore cit., pp. 87-88. 13
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le epistolari sabiane è senza dubbio il suo fidato commesso Carlo Cerne.18 «Carletto» come afferma acutamente Giacomo Debenedetti, fu il Sancio Panza del chiosciottesco Saba, e rappresentò una sorta di coscienza esterna dell’autore triestino, la «personificazione del buon senso conformista» che si opponeva e mitigava il sotterraneo anticonformismo sabiano.19 L’autore triestino ebbe sempre per lui parole d’affetto, arricchite da una bonaria e tagliente ironia. Il personaggio di Carletto è protagonista di alcune scorciatoie sabiane e del gustoso raccontino Carletto e il servizio militare, Sono “sue” anche alcune liriche del Canzoniere come l’omonima Carletto e la favola in versi De gallo et lapide. Una delle storielle più divertenti che ha per protagonista il Sancio Panza di Saba, è senza dubbio quella che l’autore triestino racconta, in una lettera del 30 dicembre 1952 alla sorella di Carletto Ada, in esso i commenti e i giudizi del commesso, divenuto ormai comproprietario della libreria, innescano un singolare affare privato: Il buon Carletto è agli spasimi per una biblioteca che gli era stata offerta a Bologna […]. Intanto le dirò che abbiamo fatto, io e lui, un affare quasi fuori del negozio Ogni volta che (da me sollecitato, spontaneamente non lo faceva mai) mi aiutava ad indossare il cappotto, esclamava che era indecente, che bisognava che me ne comprassi assolutamente uno nuovo… e qui cominciava a farmi tutti i conti, di quanto, fra bottega e letteratura, avevo guadagnato l’anno scorso (suo fratello, quando si tratta di «dar le colpe» agli altri è specialista […] ). Ma davvero, colpa o non colpa, con quel cappotto non potevo più tirare avanti. Oltre al resto, ero stanco di sentir «rugnare» Carletto (non che gli interessi molto che il suo principale d’un tempo stia caldo, ma temeva che ne derivasse scorno alla Libreria, e indirettamente a lui). Così un giorno ho detto. «Facciamo una cosa. Tu mi dai il tuo (che a me andava benissimo) e tu te ne comperi uno nuovo coi soldi della Libreria». Abboccò subito: disse anzi (come quando era ragazzo e gli regalavo 10 lire) «mille grazie, signor Saba». Così che io ho adesso il cappotto che, anni fa, gli aveva regalato suo marito, ed egli ne ha uno nuovo, fatto su misura e di suo gusto (grigio chiaro). Sono molto contento. anche perché, oltre ad odiare gli indumenti nuovi, quel cappotto è stato portato, prima di me, da due persone, relativamente a quello che è il mondo e la vita dell’uomo nel mondo, fortunate. Ecco, cara Ada la storia del cappotto, che spero davvero sia il mio ultimo cappotto.20
La tendenza all’autorappresentazione porta Saba a diventare il personaggio pro-
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Carlo Cerne, o «Carletto» come lo chiamava affettuosamente Saba, divenne impiegato della libreria antiquaria nel 1924, e collaborò con l’autore per il resto dei suoi giorni, fino a diventare egli stesso proprietario della libreria nel 1948. Per un ritratto di Cerne si veda il suggestivo volume di E. Bizjak Vinci e S. Vinci, La libreria del poeta, Trieste, Hammerle 2008. 19 Cfr. G. Debenedetti, Per un gruppo di lettere, in U. Saba, Lettere a Giacomo Debenedetti, in «Nuovi Argomenti», VI (1959), 41, pp. 1-10. 20 E. Bizjack Vinci – S. Vinci, La libreria del poeta cit., p. 83. L’attraversamento dei generi
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tagonista per eccellenza dei suoi aneddoti; del resto nelle lettere, come in tutta la sua opera letteraria, l’autore pianta (in maniera certamente meno costruita) le fondamenta della propria “automitografia’.21 Interessanti sono i raccontini epistolari che Saba scrive nella sua vecchiaia: hanno infatti il tono di favolette argute, e nascono sempre dall’attenta osservazione del mondo che lo circonda. Ad esempio, nello spassoso raccontino che leggiamo in una lettera indirizzata nell’aprile 1953 al suo caro amico, e grande appassionato di aneddoti, Bruno Pincherle, Saba riferisce una vicenda che gli è stata a sua volta raccontata da una suora: Ieri suor Ignazia […] mi raccontava di una madre superiore del suo ordine (francescana) che adesso è molto vecchia (fra gli 80 e 90 anni) e dirige a Bologna un educandato. Ha tanta fiducia in San Giuseppe che, quando non ha soldi per pagare i fornitori, minaccia il santo di castigarlo: ne porta cioè l’immagine in cantina. Dopo un poco (generalmente dopo poche ore) arriva sempre, per mano di un benefattore, noto od ignoto, l’assegno necessario… Così fu anche all’inizio: quando si mise in testa di fondare l’educandato (più di cinquant’anni fa) andò. Gli chiesero quali garanzie potesse presentare: rispose di averne una, più forte di tutte: San Giuseppe, ed ottenne l’importo. Volevo dire a suor Ignazia, che forse il successo è dovuto al fatto che pochi, qui in terra si rivolgono a San Giuseppe (la sua gloria è maggiore nella Corte dei Cieli che in questa miserabile terra); ma poi ho capito che non era il caso.22
L’estro narrativo sabiano emerge quindi con grande frequenza nel laboratorio di scrittura delle sue lettere; le missive dell’autore triestino, nella loro intrinseca antiletteralità, sono la sede naturale in cui egli esprime le proprie emozioni e narra le sue esperienze, sublimandole attraverso il raccontino e l’aneddoto. Tendenzialmente il raccontino si amalgama con il resto della comunicazione epistolare arricchendola con originali intermezzi narrativi, tuttavia talvolta questi intermezzi occupano uno spazio maggiore all’interno delle missive sabiane, trasformando in racconto anche un’intera lettera. Significativa in tal senso è una missiva a Giacomo Debenedetti del 14 ottobre 1927,23 in cui Saba ricostruisce uno
21 Usiamo questo termine prendendo ispirazione da Elvio Guagnini che lo adopera riferendosi a Storia e cronistoria del Canzoniere, ci sembra tuttavia appropriato anche per definire alcuni aneddoti sabiani che lo vedono nelle vesti di protagonista. Cfr. E. Guagnini, Il «difficile libro» di Saba, ‘Storia e Cronistoria del Canzoniere’ tra saggio, autobiografia e romanzo, in «In quella parte del libro de la mia memoria» verità e finzioni dell’«io» autobiografico, a cura di F. Bruni, Venezia, Marsilio 2003, pp. 353-356. 22 Lettera datata «Roma 31 aprile 1953», in Diciannove lettere di Umberto Saba a Bruno Pincherle (1950-1953) a cura di M. Coen in «Problemi», XVIII (1985), Gennaio-Aprile, pp. 237-239. 23 U. Saba, La spada d’amore cit., pp. 90-94.
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strano sogno che lo ha visto protagonista insieme al suo amico Giacomino; l’autore non si accontenta di comunicare brevemente le proprie impressioni, e conferisce alla lettera il taglio di una fiaba onirica, in cui tratteggia con sapienza narrativa la sua modificata percezione della realtà. È interessante osservare come, in quella che possiamo definire una “lettera-racconto” Saba rammenti di aver manifestato in sogno il desiderio di far diventare scrittura la sua singolare avventura onirica: «In quel punto tu rientravi, io ti chiedevo come avevi fatto, e tu rispondevi: il sonno. ho dato loro il sonno. Allora – dicevo – non sono morti? No no – rispondevi – sono veramente morti. Ed io prossimo probabilmente a destarmi: voglio scrivere – pensavo – questo sogno. Ma vedevo la tua stanza piena di persone».24 Altrettanto significativa è una lettera del 15 luglio 1946 indirizzata alla figlia Linuccia,25 che è occupata quasi interamente dalla narrazione del magico incontro di Saba con tre piccoli musicisti. A questo episodio l’autore triestino attribuisce addirittura un titolo: Storia di tre fisarmoniche e una chitarra.26 All’interno del plot si riconoscono due macrosequenze: nella prima predominano il malumore e l’insoddisfazione del poeta, che insieme al suo pupillo Federico Almansi, a Vittorio Sereni e alla moglie di quest’ultimo, è costretto da un capriccio del giovane Almansi a recarsi in un locale differente rispetto al bar nel quale è solito trascorrere le sue serate. Saba si ritrae seccatissimo e pronto a fuggire da un ambiente che gli sembra ancora più odioso, nel momento in cui si accorge che al tavolo vicino stanno facendo dei preparativi musicali. La svolta positiva nella narrazione è costituita dalla scoperta dell’identità dei tre suonatori: «I musicanti erano… tre bambini, fra i sette e i dieci anni; due dei quali suonavano la fisarmonica seduti, e l’altro – il più piccolo – la chitarra».27 La constatazione che i piccoli musicanti sono tre istriani scappati dal regime di Tito e che questa è la loro prima esibizione innesca un meccanismo di identificazione tra la loro condizione e quella di Saba: il poeta entra in scena, cessando di essere un osservatore per diventare a pieno titolo personaggio del suo stesso racconto; l’autore prende per mano il più piccolo dei tre musicisti e lo accompagna
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Ibidem U. Saba, La spada d’amore cit., pp. 167-170. 26 Questa vicenda ispirerà anche un racconto di Vittorio Sereni. Il racconto in questione si intitola Angeli musicanti, ed è edito nel volume di Sereni La tentazione della prosa, Milano, Mondadori 1998, pp. 24-27. Saba lo criticò per alcune debolezze che riconobbe nella trama. Cfr. U. Saba, V. Sereni, Il cerchio imperfetto cit., pp. 49-51. 27 La spada d’amore cit., pp. 167-170. 25
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tra i tavoli a far la questua. Il senso di questa immedesimazione è da ricercarsi nel significato dell’esibizione e nella sua spontaneità ed immediatezza: Era meraviglioso; qualcosa che nasceva all’improvviso dalla terra, e dalla «nostra» terra; impossibile trovare tre ragazzini italiani che suonassero a quel modo e con quello spirito. non era «erbe inanella un rivolo», ma «Tu sei come una giovane – una bianca pollastra» oppure «C’è a Trieste una via dove mi specchio». Era meglio ancora. Tu avessi veduto i movimenti delle loro ossa puntute, come segnavano il ritmo! E il piccolo con la chitarra che, verso la fine, quasi dormiva in piedi, e suonava sempre e come in sogno. Ricevettero molti soldi, gelati e paste; ma ai soldi non parevano interessati affatto (nemmeno ringraziavano) e mangiavano appena. Volevano suonare.28
La musica che nasce dai tre fanciulli, è di fatto una melodia che ha origine da una terra di confine, la stessa che ha visto nascere Saba, il quale infatti in quelle note si riconosce. Un’altra comunicazione epistolare che lascia interamente spazio all’estro narrativo sabiano, diventando lettera-racconto è la missiva del primo luglio 1953 indirizzata a Bruno Pincherle,29 in essa Saba delinea il delicato ritratto di una bambina, la piccola Rosalba. In realtà più che di una lettera-racconto, si tratta di un ritratto narrativo, in cui Saba arricchisce la sua rappresentazione di significati profondi, che si connettono alla particolare costellazione creativa nella quale si trova l’autore triestino. Bisogna sottolineare come la lettera-racconto destinata a Pincherle sia stata scritta nello stesso periodo in cui Saba sta redigendo il suo romanzo Ernesto. Infatti, per certi versi, la bambina sarda di undici-dodici anni descritta dall’autore triestino, può considerarsi un alter ego femminile di quel primitivo che è appunto l’adolescente Ernesto.30 Quello di Rosalba è uno dei più affascinanti ritratti narrativi scritti da Saba, ed acquista un fascino maggiore grazie alla scrittura epistolare, che ne conferma la spontaneità e fa di esso un dono prezioso e ricco di significato per un caro amico di Saba. Le lettere-racconto, con il loro impianto narrativo e descrittivo, costituiscono quindi una singolare tipologia di prose; la comunicazione rimane tuttavia la loro funzione primaria: Saba infatti scrive ai propri corrispondenti principalmente per stabilire un contatto con loro, confermando in tal modo il carattere preminentemente antiletterale delle sue missive.
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Ibidem. Diciannove lettere di Umberto Saba a Bruno Pincherle, a cura di M. Coen cit., pp. 242-244. 30 Si veda, in tal senso la lettera a Pincherle del 30 giugno 1953: «Ernesto non aveva inibizioni, o poche poche, e in forma più graziosa che angosciosa. (Non era un decadente, era un primitivo)», ivi, p. 241. 29
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A questo punto della nostra trattazione, è necessario compiere una distinzione tra le “lettere – racconto”, che sono a tutti gli effetti delle comunicazioni epistolari occupate quasi interamente dalla narrazione di una vicenda o di un episodio vissuto da Saba, ed i “ricordi – lettera”, che sono invece articoli giornalistici di taglio narrativo, che l’autore triestino scrive sotto forma di lettera alla figlia Linuccia tra il gennaio e l’agosto del 1957, ovvero nei pochi mesi che precedono la sua scomparsa. In seguito alla morte della moglie Lina Saba ricerca una nuova forma letteraria che gli permetta di esprimere pienamente i suoi ricordi e farli diventare racconti, come è già successo con le sue novelle, che l’autore ha infatti chiamato «ricordiracconti»;31 tuttavia non riesce più a trovare questa forma, perché si è rotta «per estensione», come confessa in una lettera a Piearantonio Quarantotti Gambini del 15 gennaio 1957: Sto male, mio caro «Bambino Pierantonio», vorrei morire (togliere anche agli altri l’ingombro della mia longevità importuna); ma…non so come fare: è così difficile. Stato d’animo e l’età e il mondo nuovo aiutando, quello che in me si è rotto è la forma. E si è rotta per estensione. Ho pensato, per un momento (per un momento solo) di scrivere un racconto: Lina il principe Hoenlohe e il macchinista Kramer… ma che cos’era? un articolo, una novella, un romanzo? Risalendo di fatto in fatto, di cosa in cosa, mi sono accorto che averi dovuto – e non ho saputo – scrivere un volume… dove mai avrei la forza, anche materiale?32
La rinuncia espressa da Saba non equivale tuttavia ad una resa definitiva delle sue armi di narratore; la momentanea impotenza creativa testimonia piuttosto la sua necessità di trovare una nuova modalità di narrazione per esprimere i suoi ricordi. La “rottura della forma” porta Saba ad un ripensamento in merito alla «forma» stessa, non solo dal punto di vista personale, ma anche da quello narrativo e stilistico. Per risolvere la sua empasse l’autore ricerca in prima istanza una maniera di scrittura che gli consenta di esprimere con schiettezza i propri sentimenti, e la trova proprio nella forma epistolare istituendo una mediazione tra la lettera e il racconto, ovvero il ricordo-racconto, e agglutinando i due generi in maniera più consapevole rispetto ai racconti-lettera. Il ricordo-racconto diventa quindi un ricordo-lettera; Saba riuscirà a portarne a compimento ben sei: Versilia, Trieste come la vide un tempo Saba, Le polpette al pomodoro, Come di un vecchio che sogna, Il sogno di un coscritto, Ritratto di Malaparte, tutti pubblicati, con l’esclusione di Trieste come la vide un tempo Saba, sulla «Stampa».
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Saba pubblica un volume che raccoglie alcune delle sue novelle, e che intitola RicordiRacconti, nell’ottobre del 1956. 32 U. Saba-P. A. Quarantotti Gambini cit., p. 174. L’attraversamento dei generi
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Il ricordo-lettera è a tutti gli effetti una prosa narrativa alla quale Saba assegna anche un titolo, tuttavia, dal momento che la concepisce in forma di comunicazione epistolare, l’autore ha la necessità di rivolgersi a un destinatario fisico, al quale si sente legato da un profondo e sincero sentimento di affetto; indirizza infatti le sue narrazioni alla figlia Linuccia: «Mia cara Linuccia, già più volte mi hai scritto che il giornale che, da tanto tempo usi leggere: «La Stampa», vorrebbe pubblicare una mia poesia»33 «Mia cara Linuccia, non so come –conoscendo meglio di qualunque altro le mie condizioni fisiche e psichiche –ti regga il cuore di chiedermi dei scrivere ancora… […] non avrei potuto stendere queste pagine in altra forma che non sia quella di lettera a te, Linuccia, che me le hai (Dio ti perdoni) chieste».34 «Mia cara Linuccia, manchi da tanto tempo ormai da quella che è stata la nostra casa, che mi chiedi in che consistessero, di che fossero, materialmente, composte, le «famose» polpette al pomodoro di tua madre».35 Attraverso i ricordi-lettera Saba stabilisce in prima istanza un amoroso dialogo con la figlia, che gli permette di riconquistare una «forma» adeguata per i suoi ricordi – racconti; di fatto la figura della donna assurge anche alla funzione di rassicurante diaframma e di interfaccia tra l’autore e i suoi anonimi lettori che costituiscono il vero destinatario di queste prose, e confermano la loro dimensione coscientemente narrativa. ciò risulta evidente in Versilia e in Trieste come la vide, un tempo Saba, in queste due prose l’autore fa infatti esplicito riferimento ad un ipotetico «lettore»: «Il lettore può, forse, provare un attimo di interesse sapendo dove, come e con quale intenzione l’ho scritta».36 «Di “Berti” ce ne sono molti a questo mondo: ne ho conosciuto uno che la sua balia chiamava così, quando nella prima infanzia, viveva con lei nell’incantevole Via del Monte, a Trieste. Non credo che si tratti della stessa persona. […] Cercherò, comunque, di accontentare – come so e posso – te e lui. Per quanto riguarda il lettore… è un altro affare».37 L’attenzione per il lettore attesta in maniera inequivocabile la consapevolezza di Saba in merito al significato letterario di questi ibridi epistolari e narrativi che si confermano dei racconti in piena regola; avendo trovato una soluzione al problema della loro «forma», Saba non esita a definirli ancora una volta «ricordi-racconti», sottolineandone, con una punta di malinconia, la tardiva novità rispetto ai suoi precedenti racconti. I ricordi-lettera o per meglio dire i ricordi-racconti epistolari, costituiscono senza alcun dubbio una delle vette raggiunte da Saba narratore, che rivive e dipin-
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Versilia, in U. Saba, Tutte le prose, Milano, Mondadori 2001, p. 1085. Trieste come la vide, un tempo, Saba, in U. Saba, Tutte le prose cit., p. 1089. 35 Le polpette al pomodoro, in Ivi, 2001, p. 1095. 36 Versilia, in Ivi, p. 1085. Il riferimento è all’omonima lirica allegata al ricordo – lettera. 37 Trieste, come la vide, un tempo, Saba, in Ivi, p. 1089. 34
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ge, con nuovi e delicati colori, alcuni episodi della sua vita, ma sono anche un maturo esempio di come Saba abbia compiuto una consapevole reinterpretazione della scrittura epistolare, fornendoci un’originale testimonianza del suo naturale istinto narrativo.
L’attraversamento dei generi
III. I periodi della letteratura degli Italiani
L’Umanesimo e l’Italia unita Poesia e politica fra Duecento e Cinquecento Canzonieri dell’Italia rinascimentale Traduzioni e volgarizzamenti nel Cinquecento «Questo strano e interessante Seicento» L’Italia degli umanisti
L’UMANESIMO E L’ITALIA UNITA
SARA CIPOLLA L’arte del «buon governo»: l’esaltazione dei valori civili nell’arte e nella letteratura fra Tre e Quattrocento
Tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento in Italia, sia in ambito artistico che letterario, inizia a farsi strada il gusto per la celebrazione delle virtù eroico cavalleresche, particolarmente adatte a incarnare il sistema di valori appartenenti al mondo cortese e funzionali al sistema politico dominante. È in questo periodo infatti che tanto l’oligarchia comunale quanto l’aristocrazia si fanno promotrici di una politica culturale volta all’esaltazione delle qualità amministrative del «buon governo». La scelta di narrare le imprese dei grandi eroi dell’epopea cortese, l’importanza che assumono virtù come la saggezza, la prudenza e la giustizia, cui si aggiungono la vaillance e la noblesse, simboli della forza e della grandezza del cavaliere, rispondeva alla precisa necessità, espressa dalla classe politica reggente, di celebrare le virtù etiche e civili alla base della corretta gestione del potere amministrativo. Ne sono un esempio le numerose camerae pictae raffiguranti scene con soggetti tratti dall’immaginario epico-cavalleresco e topoi di origine cortese, cui spesso si affiancavano didascalie esplicative in lingua volgare che ne illustravano il contenuto. L’affresco aveva in tal modo la funzione di codex publicus, in cui venivano illustrate, anche attraverso le iscrizioni, le qualità morali del signore e la sua condotta virtuosa, che rispecchiava il codice della cavalleria. Le linee guida della politica culturale promossa dalle società civili del tempo si individuano proprio nella scelta di motivi letterari e figurativi adatti a rappresentarne i contenuti esemplari. Il Trecento è ricco di queste testimonianze. Tanto nella produzione letteraria di matrice allegorico-didascalica quanto nelle raffigurazioni artistiche del periodo, frequentemente troviamo descrizioni di cortei di prodi ed eroine, rappresentazioni allegoriche delle virtù cardinali e teologali, narrazioni ecfrastiche di castelli immaginari nelle cui sale sono effigiate le personificazioni della Gloria mondana o della dea Fortuna, episodi celebri della storia antica, e vicende tratte dai racconti biblici e mitologici. Si pensi alla descrizione del castello della Fama presente nell’Amorosa Visione, in cui Boccaccio immagina dipinta da
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Giotto una Gloria mondana in trionfo con uomini illustri, ai riquadri istoriati della cornice dei superbi del Purgatorio dantesco, alla sfilata di uomini e donne antiche nei Trionfi petrarcheschi, alla rappresentazione del trionfo della Gloria nei Documenti d’amore di Francesco da Barberino, o ancora al Trattato sopra le virtù morali di Graziolo de’ Bambagioli. Tra questi motivi dall’elevato contenuto esemplare alcuni ebbero particolare fortuna nell’ambito delle rappresentazioni artistiche e della letteratura di argomento politico, proprio perché rappresentativi di quell’ideale di «buon governo» a cui ogni società civile doveva tendere. Questo è il caso del topos francese dei cosiddetti Nove Prodi, che nasce e si sviluppa nell’ambito della produzione poetica transalpina, con la funzione di tituli d’accompagnamento alle immagini. Il tema prevedeva nella sua forma originaria un canone di nove uomini illustri, di cui tre erano pagani (Ettore, Alessandro e Cesare), tre giudei (Giosuè, David e Giuda Maccabeo) e tre cristiani (Artù, Carlo Magno e Goffredo di Buglione). Questo motivo, che nell’arte e nella letteratura francese tra Tre e Quattrocento tende a mantenere il suo statuto originario, nell’ambito della produzione pittorica e poetica italiana si affianca, e per certi versi si fonde, con il motivo ben più noto dei viri illustres di matrice romana: così, accanto ai nove eroi della tradizione, possiamo trovare una lista numericamente non definita di personaggi illustri, appartenenti a diverse categorie (eroi biblici e mitologici, personaggi della storia greca e romana, e così via). Ciò che resta invariato è il valore morale ed esemplare della figura, che, in quanto incarnazione di virtù etiche e civili, si pone come modello di comportamento valido tanto nell’ambito della celebrazione dinastica della nobiltà di corte, quanto nell’esaltazione del modello oligarchico comunale. La ragione della destinazione pubblica e privata delle figurazioni dei Preux è dovuta principalmente alla funzione comunicativa del tema, alla capacità di riassumere nella presentazione di uomini valorosi le virtù temporali del «buon governo» che, ancora nel tardo Trecento, si identificavano con i valori cortesi e cavallereschi. Già a partire dalla seconda metà del Duecento, infatti, le serie di uomini illustri iniziarono a essere raffigurati, spesso corredati da didascalie poetiche, oltre che nei palazzi signorili, anche negli spazi pubblici come fontane e sale di rappresentanza dei municipi. Un caso emblematico è quello di Perugia, dove il governo comunale commissionò tra il 1275 e il 1278 a Nicola e Giovanni Pisano la costruzione di una fontana pubblica, da porre al centro della piazza principale dove sorgeva il Palazzo dei Priori, raffigurante una serie di personaggi illustri leggendari e storici legati alla città e di scene di argomento mitologico, biblico e storico.1 Lo stretto legame tra amministrazione pubblica e politica culturale si evince anche nelle raffigurazioni quattrocentesche di Gentile da Fabriano a Palazzo Trinci a
1
Cfr. E. Bernini, R. Rota, Nicola e Giovanni Pisano, in Il Medioevo, Bari, Laterza 2000, p. 177. III. I periodi della letteratura degli Italiani
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Foligno,2 anch’esse corredate di un ricco apparato di epigrammi ecfrastici, che introducevano il visitatore all’osservazione delle pitture illustrate nelle sale. Il ciclo pittorico folignate si presenta, in tutta la sua complessità, come il più articolato esempio di commistione di modelli figurativi diversi, che riflettono un unico programma iconografico volto alla celebrazione del potere politico del reggente Ugolino III Trinci: sono infatti presenti nel corridoio del palazzo i cicli dei Nove Prodi e delle età dell’uomo, nella Sala Imperatorum gli uomini illustri del mondo romano, nella Loggia le storie di Romolo e Remo, e infine in un’altra sala le Arti liberali e i Pianeti. La serie dei Nove Prodi e delle Nove Eroine è presente anche nel programma iconografico della sala baronale del Castello della Manta a Cuneo, la cui realizzazione è strettamente collegata alla lunga tradizione politica e culturale del territorio saluzzese, che già dal secolo XII mirava alla costituzione di un principato autonomo e indipendente dalla dominazione savoiarda. Il ciclo di pitture, realizzato tra il 1416 e il 1443 durante il governo di Valerano il Burdo,3 riflette nella scelta del tema e nell’impiego delle didascalie4 il programma politico filo-francese portato avanti negli anni 1389-1390 dal Marchese Tommaso III di Saluzzo, padre di Valerano e autore del Chevalier Errant, poema in versi alessandrini, che riassume le aspettative politiche del Marchesato e le intenzioni dell’autore di entrare a far parte dell’entourage di corte.5 Lo stesso rapporto tra testo scritto e figurazione doveva essere alla base del perduto ciclo di affreschi raffiguranti nove uomini illustri, commissionato da Roberto d’Angiò per la sala bella di Castel Nuovo a Napoli. Il contenuto delle pitture, che la tradizione storico-artistica attribuisce a Giotto, è descritto in una corona di nove sonetti-prosopopea dedicati a eroi della storia antica, biblica e mitologica, contenuta in nove codici manoscritti delle biblioteche fiorentine.
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Gli affreschi solo recentemente sono stati attribuiti a Gentile da Fabriano, grazie al ritrovamento di documenti notarili, e datati al biennio 1411-1412. Cfr. C. Galassi, Il «cantiere» di Palazzo Trinci alla luce delle recenti acquisizioni documentarie, in Nuovi studi sulla pittura tardogotica. Palazzo Trinci, a cura di A. Caleca e B. Toscano, Livorno, Sillabe 2009, pp. 11-48. 3 La certezza che il committente del ciclo di affreschi della Manta sia il figlio illegittimo di Tommaso ci è data da una testimonianza cinquecentesca che attesta il riconoscimento dei ritratti di Valerano nei panni del Prode Ettore di Troia e della moglie Clemenza Provana nelle vesti di Pentesilea (cfr. R. Passoni, Nuovi studi sul maestro della Manta, in La sala baronale del Castello della Manta, a cura di G. Romano, Milano, Olivetti 1992, p. 54 e n. 26). 4 Il topos francese, introdotto da diciotto sestine che celebrano le imprese dei personaggi rappresentati sono infatti esemplate sul modello dei versi dei prodi e delle eroine del Chevalier Errant, opera letteraria scritta dal padre di Valerano, Tommaso III di Saluzzo. 5 Cfr. M. Piccat, Tommaso III, Marchese Errante, in Tommaso III Di Saluzzo, Il Libro del Cavaliere errante, a cura di M. Piccat, Boves, Araba Fenice 2008, p. 9; L. Povero, Valerano di Saluzzo tra declino politico e vitalità culturale, in La sala baronale… cit., pp. 14-17. L’Umanesimo e l’Italia unita
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Il più importante esempio di commistione tra testi letterari, poetici nello specifico, e opere d’arte nell’ottica di una celebrazione del potere politico si ha con il ciclo di affreschi del Buon Governo, dipinti da Ambrogio Lorenzetti per la sala dei Nove nel Palazzo pubblico di Siena, che può essere considerato in tutta la sua unicità come il più celebre manifesto politico del Trecento. L’opera si pone a coronamento del processo di monumentalizzazione della città di Siena portato avanti dal governo dei Nove, il principale organo amministrativo comunale ed espressione dell’oligarchia borghese che governò Siena tra il 1287 e il 1355. Le pitture, eseguite tra il febbraio del 1338 e il maggio del 1339,6 rappresentano l’Allegoria e gli Effetti del Buono e del Cattivo Governo sulla città e nel contado: il soggetto, di matrice esemplare, aveva la funzione di mostrare allo spettatore gli esiti del bene operare secondo Giustizia.7 La sala dei Nove è conosciuta anche con il nome di sala della Pace, proprio in virtù del contenuto simbolico degli affreschi, che indicano come principali conseguenze del buon governo la pace e la concordia tra gli uomini: il messaggio di natura didascalica è reso ancora più esplicito dalle epigrafi in versi, apposte in calce alle pitture, che costituiscono un singolare esempio di «visibile parlare»,8 in cui il motivo poetico si inserisce armonicamente nella superficie dipinta, dando voce alle immagini.9 Furio Brugnolo, che si è occupato di analizzare i tituli senesi, propone un interessante parallelo tra il linguaggio delle iscrizioni poetiche e quello utilizzato da Dante nei canti di Cacciaguida (Par. XV-XVII), mettendo in luce l’impronta del linguaggio “comico” dantesco nella realizzazione di una delle didascalie poste sotto l’immagine degli Effetti del Buon Governo:10 il componimento, individuato come A2,11 riporta una descrizione della città ideale, luogo di «dolce vita e riposa-
6 Cfr. E. Castelnuovo, Famosissimo et singularissimo maestro, in Ambrogio Lorenzetti. Il Buon Governo, a cura di E. Castelnuovo, Milano, Electa 1995, p. 9. 7 Sulla complessa struttura allegorica del programma iconografico della sala si veda M. M. Donato, La «bellissima inventiva»: immagini e idee nella Sala della Pace, in Ambrogio Lorenzetti cit., pp. 28-29. 8 A proposito del visibile parlare si veda C. Ciociola, Visibile parlare, in ‘Visibile parlare’. Le scritture esposte nei volgari italiani dal Medioevo al Rinascimento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1997, p. 7; Id., ‘Visibile parlare’: agenda, Cassino, Università degli studi, (già «Rivista di letteratura italiana», VII (1989), pp. 9-77) 1992. 9 Sulla natura delle iscrizioni si veda F. Brugnolo, Le iscrizioni in volgare: testo e commento, in Ambrogio Lorenzetti cit., pp. 381-391. 10 Brugnolo, Le iscrizioni in volgare cit., p. 385. 11 Riporto per intero l’iscrizione in versi posta in corrispondenza degli Effetti del Buon Governo: «Volgiete gli occhi a rimirar costei, / vo’ che reggiete, ch’è qui figurata / e per su’ ecciellenzia coronata, / la qual sempr’ a ciascun suo [dritto rende. / Guardate quanti ben’ vengan da lei / e come è dolce vita e riposata / quella] de la città du’ è servata / questa virtù
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ta», su cui si manifestano gli Effetti del Buon Governo. In questa città, rappresentata come una donna che, quasi con atteggiamento materno, «guarda e difende / chi lei onora e lor nutrica e pascie», non c’è spazio per l’affermazione del singolo a discapito della collettività, non c’è superbia ma trionfa la giustizia: una città simile alla Firenze dantesca di Paradiso XV 91-142. La proposta di Brugnolo induce a una più approfondita riflessione sulla relazione tra i canti politici del Paradiso, in cui Dante si serve tra l’altro della tradizione dei Nove Prodi per glorificare la casata degli Alighieri da cui Cacciaguida proviene (Par. XVIII 37-51),12 e la funzione commemorativa di valori come la giustizia e il bene operare che vengono espressi sia a livello poetico che artistico nella sala del Buon Governo. Prima del passaggio dal cielo di Marte al cielo di Giove, l’anima di Cacciaguida mostra a Dante un segno: in una croce in cielo appaiono come lampi nove gloriosi uomini,13 che vengono presentati come spiriti «di gran voce».14 Tra questi, dei quali due (Giosuè e Giuda Maccabeo) sono figure della storia biblica e sei sono protagonisti della storia e dell’epopea cavalleresca francese (Carlo Magno, Orlando, Guglielmo d’Orleans, Rinoardo, Goffredo di Buglione e Roberto il Guiscardo), si colloca anche l’avo di Dante: Cacciaguida «l’alma che m’avea parlato».15 Gli spiriti che compirono grandi imprese, motivati dal desiderio di difendere i valori della cristianità, sono stati scelti da Dante proprio in virtù della loro celebrità, perché immediatamente riconoscibili da un più vasto pubblico. L’espressione «fuor di gran voce»16 suggerisce che questi personaggi in vita godettero di notevole fama. Al tema degli Uomini illustri si affianca, dunque, quello della Gloria eterna,17 ottenuta attraverso l’esercizio delle
ke più d’altra risplende. / Ella guarda e difende / chi lei onora e lor nutrica e pascie; / de la suo lucie nascie / el meritar color c’operan bene / e agl’iniqui dar debite pene» (Cfr. Brugnolo, Le iscrizioni in volgare cit., p. 385). 12 Del riferimento dantesco alla serie dei Prodi ne parla Lucia Battaglia Ricci, Immaginario visivo e tradizione letteraria nell’invenzione dantesca della scena dell’eterno, in «Letture classensi», 29 (2000), p. 99; Ead., «Vidi e conobbi l’ombra di colui». Identificare le ombre, in Dante e le arti visive, Milano, ed. Unicopli 2006, p. 69. L’idea si trova già espressa in R. Hollander, Dante e l’epopea marziale, in «Letture classensi», 18 (1989), pp. 111-112 e n. 33. 13 Par. XVIII 37-51: «Io vidi per la croce un lume tratto / dal nomar Iosuè, com’el si feo; / né mi fu noto il dir prima che ’l fatto. / E al nome de l’alto Macabeo / vidi moversi un altro roteando, / e letizia era ferza nel paleo. / Così per Carlo Magno e per Orlando / due ne seguì lo mio attento sguardo, / com’occhio segue suo falcon volando. / Poscia che trasse Guiglielmo e Rinoardo / e ’l duca Gottifredi la mia vista / per quella croce, e Ruberto Guiscardo. / Indi tra l’altre luci mota e mista, / mostrommi l’alma che m’avea parlato / qual era tra i cantor del ciel artista». 14 Ivi, 32. 15 Ivi, 50. 16 Ivi, 32. 17 Va detto in proposito che spesso al topos dei Preux viene accostato il tema del Trionfo L’Umanesimo e l’Italia unita
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virtù temporali: giustizia e nobiltà d’animo sono infatti le caratteristiche che Dante generalmente associa al tema degli antichi valori della cavalleria con particolare riferimento, nel cielo di Marte, al personaggio di Cacciaguida. La figura del cavaliere crociato, da cui discende la famiglia Alighieri, si presenta già dal suo primo incontro con il poeta come rappresentante di quei valori cortesi e cavallereschi ormai decaduti nella società fiorentina in cui vive Dante.18 La visione della croce beata, in cui i Nove Prodi, eroi di sangue perché martiri per la fede, hanno i loro seggi, è posta a climax di un lungo e più ampio discorso sui valori etici che dovrebbero essere alla guida della società civile. Nel canto XV del Paradiso sono infatti descritti gli effetti della corretta amministrazione pubblica guidata secondo giustizia e caratterizzata dalla concordia tra gli uomini. Nella città di Firenze, al tempo di Cacciaguida, il poeta riconosce una serie di virtù civiche e di qualità positive: «si stava in pace»,19 la città era «sobria e pudica»20 e ancora «A così riposato, a così bello / viver di cittadini, a così fida / cittadinanza, a così dolce ostello».21 In questa città ideale, delineata secondo il modello proposto da Aristotele nel V libro della Politica, ogni individuo trova un proprio spazio a seconda del ruolo sociale che copre, senza favorire quella mescolanza tra diverse classi di cittadini, tanto criticata da Cacciaguida nel canto XV del Paradiso. Lo stesso concetto si ritrova espresso anche negli affreschi di Lorenzetti. Tra gli Effetti del Buon Governo, vediamo infatti rappresentata la città di Siena non secondo una prospettiva realistica ma ideale, come quel luogo di «dolce vita e riposata», descritto nella didascalia: al lato sinistro della figurazione sono dipinti gli effetti del buon governo in città, al lato destro, invece, separati da un muro di cinta, sono raffigurati gli effetti del buon governo nel contado. Anche qui come nel XVI canto di Cacciaguida l’organizzazione dello spazio rispecchia il principio aristotelico dell’ordine:22 mentre in città è possibile scorgere la bottega di un sarto, l’oreficeria, il calzolaio e l’alimentari, e perfino un’aula dove un docente intrattiene il suo pubblico con una
della Fama. In alcuni casi al motivo della Gloria Mondana è legato il topos della mutatio fortunae: si pensi all’incrocio tematico tra il motivo dei Nove Prodi e delle Nove Eroine con la Fortuna labilis nel Chevallier Errant di Tommaso III di Saluzzo. In questo luogo della Commedia però il motivo non si arricchisce di connotati negativi la Fama dei nove combattenti non è legata alla mutatio fortunae ma è suggellata dalla loro glorificazione divina nel cielo di Marte. 18 Nel canto XV del Paradiso Dante incontra Cacciaguida che inizia a raccontare la sua storia e la storia della discendenza della famiglia Alighieri partendo da una descrizione dell’antica città di Firenze in cui regnavano la pace ed erano ancora in auge i valori cortesi. 19 Par. XV 99. 20 Ibidem. 21 Par. XV 130-132. 22 Cfr. Aristotele, Politica V, III 1303a 25-b4, come riportato in A. M. Chiavacci Leonardi, Note al canto XVI vv. 67-79, in Dante Alighieri, Commedia, vol. III, Paradiso, p. 456. III. I periodi della letteratura degli Italiani
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lezione, la campagna è contraddistinta dai pascoli e dalle aie, dalle zone arate e coltivate dai contadini e dai boschi dove si pratica la caccia. L’immagine alata della Securitas è posta a guardiana dell’unica porta aperta nella cinta muraria, a sorvegliare chi entra e chi esce dalla città, proprio per regolarne il flusso: poiché, come afferma Dante in Paradiso XVI 67-68, «Sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade». All’esaltazione del bene operare di una società fondata sugli antichi valori cortesi e regolata dalla giustizia e dal ben comun, Dante oppone una dura riflessione sul concetto di nobiltà di sangue e nobiltà d’animo che si sviluppa nel canto XVI, in cui Cacciaguida prosegue la rievocazione storica con l’enumerazione delle casate familiari più nobili di Firenze. La gloria mondana, qui rappresentata dalle insegne dinastiche, è infatti ineluttabilmente destinata a perire a causa della mutevolezza della Fortuna: Le vostre cose tutte hanno lor morte, sì come voi; ma celasi in alcuna che dura molto, e le vite son corte. E come ’l volger del ciel de la luna cuopre e discuopre i liti sanza posa, così fa di Fiorenza la Fortuna.23
Delle famiglie illustri di Firenze nominate da Cacciaguida molte decaddero a causa della loro malvagità, della superbia e delle discordie che portarono alla tragica divisione tra Guelfi e Ghibellini. La nobiltà di sangue se non è nutrita dalla nobiltà d’animo non produce virtù. Anche nel De Monarchia Dante afferma che ogni signoria, intesa come forma di governo, è premio di virtù, e se la virtù alberga nel cuore di chi è nobile d’animo, ne consegue che «nobilibus ratione cause premium prelationis conveniens est» (Mon. II, III 4).24 Dall’esercizio delle virtù deriva la concordia, mentre l’effetto di una cattiva conduzione del governo basata sulla superbia e sulla vanagloria è la discordia: così Dante nei canti di Cacciaguida ricorda il degradamento di Firenze, e denuncia la corruzione dei nobili, la decadenza dei costumi e la diffusione dell’usura, che avevano portato alla discordia tra gli uomini (Inf. VI) e alla lotta tra fazioni politiche (Pg. VI). Anche questo monito morale, sulle virtù civili dell’amministrazione del bene comune, è alla base della riflessione etica suggerita dall’affresco di Lorenzetti che, parallelamente all’Allegoria e agli Effetti del Buon Governo, dipinge nella Sala dei Nove l’Allegoria e gli Effetti del Cattivo Governo, le cui conseguenze sono appunto la discordia e le inimicizie, come descritto nell’iscrizione posta in calce all’affresco: «e per effetto, / ché dove è tirannia è
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Par. XVI 79-84. Lo stesso concetto è espresso anche nel Convivio (IV, XX 5).
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gran sospetto, / guerre, rapine, tradimenti e ’nganni».25 Nell’Allegoria del Cattivo Governo la Tirannide è rappresentata con le sembianze di un diavolo che, ispirato dai tre vizi capitali (avarizia, superbia e vanagloria) e circondato dalle personificazioni di crudeltà, tradimento, frode, ira e divisione, domina sulla Giustizia in catene: «Per volere el bene proprio, in questa terra – suggerisce la didascalia posta nel cartiglio retto da Timor – sommess’ è la giustizia a tyrannia».26 Gli interessi privati contrastano, dunque, con il bene della collettività. Ma uno stato come può farsi garante del bene comune e stabilire la pace e la concordia tra gli uomini? E soprattutto quale forma di governo è in grado di garantire tale stabilità? Nel De Monarchia Dante, partendo dai principi aristotelici riguardanti i fini dell’uomo e l’origine della società, cerca di dimostrare la necessità di uno stato monarchico come unico modello etico e civile possibile. Se il fine spirituale dell’uomo è la felicità eterna dettata dalla conoscenza di Dio, il fine naturale è costituito dalla conoscenza filosofica, che necessita all’uomo per poter organizzare una società in cui regnino la giustizia e la pace tra gli uomini. Quando Dante scrive il De Monarchia ha presente il fallimento in Italia di altri modelli societari: le lotte intestine tra famiglie nobiliari e fazioni politiche che devastarono la Firenze comunale, il contrasto del re francese Filippo il Bello con il potere universalistico del Papa, le difficoltà dell’Impero germanico di Arrigo VII, che non riuscì ad assumere il controllo della penisola, e in ultimo il fallimento del progetto di unificazione dell’Italia sotto il vessillo imperiale portato avanti da Cangrande della Scala, ma interrotto a causa della sua prematura morte.27 Nella monarchia universale il poeta indica quella forma di governo capace di garantire la stabilità politica proprio perché guidata da un unico reggente, che, illuminato dalla sapienza filosofica, gestisce il potere legislativo (Mon. I, XIV 7), esecutivo (Mon. I, XIII 7 e II, II 1) e giudiziario (Mon. I, X 5), e sovraintende su tutti i territori dell’impero. La presenza di un monarca unico non esclude tuttavia la possibilità che esistano formazioni politiche minori, come comuni, signorie e principati, destinate all’amministrazione di territori più piccoli (Mon. I, XIV 5-7):28 in ogni realtà sociale, a partire dalla famiglia, è necessario che ci sia una figura di riferimento che amministri la res publica e garantisca la coesione tra gli individui che la compongono. Gli stessi principi unitari, che sono alla base delle teorie politiche del De Monarchia, erano già stati espressi nel De vulgari eloquentia, in cui il poeta ricerca, attraverso l’analisi dei volgari municipali italiani, un’unica lingua capace di riassumere in
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Cfr. Componimento B2, 2-4 in Brugnolo, Le iscrizioni in volgare cit., p. 385. Cfr. Componimento B3, 1-2, in Ibidem. 27 Cfr. Dante Alighieri, Monarchia, a cura di P. Gaia, in Opere minori, vol. II, Torino, Utet 1986, pp. 473-479. 28 Ivi, p. 485; F. Bruni, Italia. Vita e avventure di un’idea, Bologna, Il Mulino 2010, p. 85. 26
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sé tutta l’esperienza poetica della penisola. Dante individua questa lingua nel volgare usato da alcuni poeti illustri, e ne indica le principali qualità. Tra le caratteristiche elencate due sembrerebbero collegare l’utilizzo della nuova lingua agli organi di potere. Dante infatti parla di volgare aulico e curiale, dunque destinato a essere parlato nella reggia e nei luoghi di amministrazione della giustizia. Tuttavia il poeta non si trattiene dal lamentare un’assenza di tali istituzioni in Italia: l’aula è vuota perché manca un monarca unico, e così pure la curia (De vulgari eloquentia I, XVIII 4-5). Se l’Italia avesse una reggia il volgare sarebbe parlato in quel luogo, perché come nell’aula si amministra il potere in virtù del bene comune di tutti i cittadini così il volgare italiano è destinato alla medesima comunione (I, XVIII 2-3). Dunque in parte l’universalità della lingua appare legata all’universalità politica del reggente. È interessante notare come nella definizione del concetto di bene comune e di giustizia Dante utilizzi un’immagine cara alla tradizione figurativa medievale: quella della Giustizia che regge in mano i piatti della bilancia per calibrare i giudizi e discernere il bene dal male.29 La stessa figura è presente nell’Allegoria del Buon Governo di Siena, in cui l’immagine della Giustizia è rappresentata con al lato i due piatti della bilancia, che simboleggiano, secondo la tradizione aristotelica, le due parti che la compongono: quella Distributiva, con cui distribuisce a ciascuno secondo i meriti ricevuti, e quella Comutativa con la quale regola gli scambi commerciali.30 La Iustizia è ispirata dalla Sapientia, rappresentata nelle vesti di una figura alata che la sormonta, e genera la Concordia, che è invece raffigurata ai suoi piedi come una donna con in grembo una pialla, simbolo di equità. Il concetto aristotelico della giustizia illuminata dalla sapienza nell’amministrazione del bene comune è espresso anche nel De Monarchia: come abbiamo visto, nella definizione della felicità terrena che può essere raggiunta solo per mezzo della società civile, Dante fa esplicito riferimento alla sapienza filosofica che guida l’ingegno umano (Mon. I, III – IV); inoltre nel descrivere il monarca ideale lo caratterizza come uomo privo di passioni negative e di vizi, ma dotato di tutte le qualità morali e predisposto unicamente all’esercizio delle virtù (Mon. I, XI 8-20). L’immagine ideale del reggente illuminato ritorna anche nell’Allegoria del Buon governo, in rappresentanza del governo comunale senese. La figura di monarca, posta al lato destro della scena, appare ispirata dalle tre virtù teologali (fede, carità e speranza) e circondata dalle personificazioni delle quattro virtù cardinali (fortezza, prudenza, temperanza e giustizia), dalla virtù della magnanimità e dalla pace, che pur non essendo una qualità del regnante è il primo effetto di questo governo ideale. Un ulteriore parallelo tra imago pittorica, testo letterario e tradizione politica locale si potrebbe riscontrare nell’icona di Romolo e Remo allattati dalla lupa romana, posta ai piedi del Monarca. Secondo il mito delle origini della cittadina
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De vulgari eloquentia I, XVIII; cfr. anche Bruni, Italia cit., p. 80. Cfr. L’Allegoria del buon governo, in Ambrogio Lorenzetti cit., p. 46.
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toscana Siena sarebbe stata fondata dai figli di Remo e, per tale ragione, avrebbe scelto la lupa come simbolo araldico.31 Il tema delle origini romane di Siena, ricorrente in altre opere presenti nel Palazzo Pubblico (si pensi al perduto ciclo di affreschi raffiguranti Storie romane dello stesso Lorenzetti (1337), all’Attilio Regolo di Simone Martini (1330),32 e alla quattrocentesca sala degli Uomini illustri romani di Taddeo di Bartolo), si inserisce nell’ottica di recupero del mito della romanità promosso dall’arte e dalla letteratura pre-umanistica. Anche Dante, infatti, individua proprio nel modello imperiale romano l’illustre precedente storico dello stato ideale che ha immaginato, in cui la fonte primaria del benessere e della pace è costituita dalla giustizia, intesa come diritto che, in quanto sommo bene, non si origina da sé ma viene da Dio: l’idea, già espressa nel quarto trattato del Convivio, viene ripresa da Dante nel secondo libro del De Monarchia e nel canto VI del Paradiso, dove il modello romano è rappresentato dal governo di Giustiniano, che ricostituì l’unità territoriale e istituzionale dell’impero. Com’è possibile notare l’idea del governo unitario, fondato su un sistema di valori di riferimento comuni a tutti gli uomini, è alla base della concezione politica trecentesca, che si trova espressa tanto negli affreschi del Buon governo quanto nelle opere di Dante. Se è ipotizzabile un contributo delle teorie dantesche nel processo di unificazione nazionale italiana, meno nota è la fortuna letteraria e politica degli affreschi di Lorenzetti in Italia e in Europa. Diversi sono gli esempi di Buon governo letterario che descrivono la società ideale modellata sull’esempio senese: dai sonetti sulla pace e sulla guerra di Franco Sacchetti (1397) al testo Dulce bellum inexpertis di Erasmo da Rotterdam (1515),33 in cui l’elogio della società civile, guidata dalla giustizia e dominata dalla pace e dalla concordia umana, si estende all’ambito della politica europea.
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Cfr. Donato, La «bellissima inventiva» cit., p. 27. Per la datazione cfr. ivi, pp. 23 e 27. 33 Sulla presenza dell’influenza delle didascalie del Buon Governo nell’opera di Franco Sacchetti (Libro delle Rime) ed Erasmo da Rotterdam si veda ancora il saggio di Maria Monica Donato, La «bellissima inventiva» cit., p. 38. 32
III. I periodi della letteratura degli Italiani
FRANCESCO MARTILLOTTO L’Italia unita nell’opera di Flavio Biondo
Negli anni in cui Alfonso V d’Aragona faceva di Napoli un centro artistico e culturale svolgendo una costante azione propulsiva nella ripresa degli studi geocartografici,1 la cultura umanistica, sulla base anche della «riscoperta» di Strabone (favorita dalla traduzione latina della Geographia curata da Guarino Veronese)2 e più in generale della geografia dell’antichità, giungeva con il forlivese Flavio Biondo alla percezione dello spazio geografico della penisola: «esiste dunque anzitutto l’Italia, entro di essa esistono diciotto regioni, escluse le isole, e finalmente entro ciascuna regione innumerevoli città e borghi».3 Con l’Italia illustrata, che iniziò a circolare in una prima edizione manoscritta nel 1453, il Biondo si faceva, allora, interprete dell’unità storica italiana, di una comune coscienza culturale e civile, benché fosse consapevole che, al di là delle tradizioni unitarie, della portata nazionale della rivoluzione umanistica, la penisola era divisa e discorde poiché profondi apparivano i contrasti regionali e marcate le differenze municipali. Un duplice piano dunque, perché da una parte il Biondo effettuò, secondo Denys Hay, «il più abile tentativo del Rinascimento di considerare l’Italia come unità»,4 dall’altra, la sua opera
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Cfr. P. Gentile, La politica interna di Alfonso V d’Aragona nel Regno di Napoli dal 1443 al 1450: documenti tratti dall’Archivio di Stato di Napoli, Montecassino, Tipografia di Montecassino 1909 e B. Croce, Storia del regno di Napoli, Bari, Laterza 1966. 2 Cfr. R. Descendre, Dall’occhio della storia all’occhio della politica. Sulla nascita della geografia politica nel Cinquecento (Ramusio e Botero), in Nascita della storiografia e organizzazione dei saperi, a cura di E. Mattioda, Firenze, Olschki 2010, p. 155-179; A. Diller, The Textual Tradition of Strabo’s Geography, Amsterdam, Hakkert 1975; R. Sabbadini, La traduzione guariniana di Strabone, in Il libro e la stampa, Bullettino ufficiale della Società Bibliografica Italiana, III (1909), fasc. 1, pp. 5-16. 3 C. Dionisotti, Regioni e letteratura, in Storia d’Italia, a cura di R. Romano e C. Vivanti, vol. V, Tomo II. I documenti, Torino, Einaudi 1973, pp. 1375-1395. 4 D. Hay, Profilo storico del Rinascimento italiano, introduzione di E. Garin, Firenze, Sansoni 1966, p. 50. L’Umanesimo e l’Italia unita
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divenne come ha scritto Carlo Dionisotti «il testo costituzionale del moderno regionalismo italiano».5 Secondo Francesco Bruni, invece, quest’ultima affermazione andrebbe rovesciata valutando l’opera del Biondo come quella che «con una visione tanto audace quanto innovativa individua, nella frastagliatissima Italia quattrocentesca, uno spazio unitario, fatto di paesaggio indagato analiticamente nel presente ed interrogato nella storia». E continua togliendo all’umanista forlivese l’etichetta di studioso interessato solo alle antichità italiche: Non è vero, infatti, che Biondo muova da una visione antiquaria, distaccata dall’oggi: la grandezza dell’opera sta, al contrario, nella capacità di leggere l’Italia nella sua stratificazione storica, nel raccordare i nomi di luogo (delle città ma anche dei fiumi o dei monti) quattrocenteschi con quelli, spesso diversi, tramandati dalle fonti antiche, storiche e geografiche e letterari, nell’individuare le linee di continuità tra il paesaggio coevo e quello antico.6
Lo stesso autore, d’altronde, nella Prefazione spiega bene questo concetto di dipendenza tra la situazione del suo tempo e le fonti antiche: poiché dunque [..] in questa età nostra sono risorte molte arti buone e specialmente lo studio della eloquenza e delle buone lettere, e conseguentemente un certo ardente desiderio di sapere i fatti antichi e le istorie passate, ho voluto tentare se, per quanto mi sento informato delle cose dell’Italia, possa rinnovellare i nomi degli antichi popoli, e luoghi di lei con dare insieme autorità e luce alle nuove città, alle ruinate, alle disfatte, quella vita che può darlesi della memoria, e finalmente vedere se io possa alle tenebre delle cose dell’Italia dare qualche luce.7
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C. Dionisotti, Regioni e letteratura cit., p. 1386. Si veda dello stesso anche Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi 1967, pp. 179-199. Sul Biondo cfr. almeno R. Fubini, Flavio Biondo, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. X (1968), pp. 536-559; Id., Storiografia dell’Umanesimo in Italia da Leonardo Bruni ad Annio da Viterbo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2003; R. Cappelletto, ‘Italia illustrata’ di Flavio Biondo, in Letteratura Italiana. Le opere, diretta da A. Asor Rosa, vol. I, Dalle origini al Cinquecento, Torino, Einaudi 1992, pp. 681-712 e della stessa autrice anche «Peragrare ac lustrare Italiam coepi». Alcune considerazioni sull’‘Italia illustrata’ e sulla sua fortuna, in La storiografia umanistica, vol. I, Messina, Sicania 1992, pp. 181-203, P. Viti, Umanesimo letterario e primato regionale nell’«Italia illustrata» di Flavio Biondo, in Studi filologici, letterari e storici in memoria di Guido Favati, a cura di G. Varanini-P. Pinagli, Padova, Antenore 1977, vol. II, pp. 712-732. 6 F. Bruni, Edizioni di testi e storiografia: a proposito di due riedizioni parziali dell’«Italia illustrata» di Flavio Biondo e della ‘Descrittione di tutta Italia’ di Leandro Alberti, in «Giornale storico della letteratura italiana», vol. CLXXXIV (2007), fasc. 607, pp. 399-422: 401. Dello stesso autore si veda anche Italia. Vita e avventure di un’idea, Bologna, Il Mulino 2010, pp. 147-164, dedicate all’umanista forlivese. 7 Cito, con interventi grafici e sulla traduzione, da Roma ristaurata, et Italia illustrata di Biondo da Forli. Tradotte in buona lingua volgare per Lucio Fauno, Venezia, Michele Tramezzino 1542, c. III. I periodi della letteratura degli Italiani
L’Italia unita nell’opera di Flavio Biondo
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Appare chiaro allora che, nelle intenzioni del suo autore, l’opera non doveva essere soltanto un catalogo geografico, ma puntava a rappresentare l’immagine di una Italia nuovamente unita, che opponeva alle lacerazioni interne ed alle divisioni politiche la fiducia nella recuperata latinitas e nella cultura umanistica comune ai dotti di ogni regione. Era l’orgoglio di chi sentiva di appartenere ad un’avanguardia impegnata nel recupero di una tradizione culturale che dagli antichi greci e latini giungeva fino al suo secolo, e costituiva un monito per gli uomini ed i governi del Quattrocento. L’Italia illustrata era, insomma, come scrive ancora il Dionisotti, il «documento di una cultura che si era fatta consapevole pienamente ed interprete della diversità e dell’unità insieme storica dell’Italia, una cultura cioè che ha ormai tradotto in collaborazione discorsiva il solitario profetico e polemico appello nazionale di Dante e del Petrarca».8 Una visione, quella del Biondo, che faceva leva sulla individuazione di un territorio costituito dall’Italia continentale del presente, di una relazione dinamica tra passato e presente che esige una ininterrotta comparazione proprio per individuare la continuità e la discontinuità in quella che è la storia delle città, degli uomini e del paesaggio, per poter fissare in una rassegna sistematica gli uomini che per un motivo o per l’altro sono degni di essere ricordati, nati nei centri maggiori e minori. Su quest’ultimo punto occorre chiarire meglio la portata dell’operazione che compie il Biondo: mentre i nomi dei luoghi sono cambiati o si sono trasformati, nel caso degli uomini illustri conta il criterio di unificazione dell’origine. In tal caso, ad esempio, scrivendo di Assisi, il Biondo la ricorda come la città natale di san Francesco, ma subito dopo ci sono i versi di Properzio nei quali ne è menzionata la posizione; oppure ancora Sulmona è ricordata come la patria di Ovidio e di Pier da Morrone, monaco benedettino. Persone vissute a distanza di secoli e prive di rapporti tra di loro vengono accostate dalla continuità topografica e, abitando lo stesso paesaggio italiano, sono almeno per questo motivo messe sullo stesso piano. Dall’opera esce, complessivamente, il disegno di una Italia vista come entità viva, soprattutto per le regioni centro settentrionali che conosce meglio. Attingendo a fonti antiche e medievali (Plinio, Solino, Tolomeo, Pomponio Mela, l’Anonimo Ravennate), basandosi su informazioni e descrizioni raccolte dai contemporanei (chiedeva spesso notizie dirette come nel caso di Antonio Becca-
64r. Sulla traduzione di Lucio Fauno (Giovanni Tarcagnota da Gaeta) si veda D. Defilippis, Riscritture del Rinascimento, Bari, Adriatica Editrice 2005, pp. 11-42. Le edizioni di riferimento sono: Biondo Flavio, Italy Illuminated, Libri I-IV, a cura di J. A. White, vol. I, Cambridge, Mass.-London, The I Tatti Renaissance Library, Harvard University Press 2005 e Blondi Flavii forliviensis De Roma triumphante libri decem… Romae instauratae libri tres, Italia illustrata; Historiarum ab inclinato Romano imperio decades tres. Omnia multo quam antea castigatiora, Basilea, Froben 1531, 2 voll. 8 C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana cit., p. 189. L’Umanesimo e l’Italia unita
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delli per il Regno di Napoli),9 su appunti personali di viaggio, su materiali raccolti personalmente (dalle lettere apprendiamo che nel 1448 raccoglieva quelli sulla regione ligure con la quale iniziava l’opera), il Biondo, muovendosi fra ricerca storico-archeologica e vero e proprio studio geografico, diede vita ad un’opera che è tra le più interessanti dell’umanesimo italiano e, anche se non ottenne la fortuna editoriale sperata, va detto che conteneva in sé le moderne nozioni di geografia generale, regionale e locale, ponendo le basi per diventare certamente un «modello» di geografia storica. Cito a questo proposito un articolo di Rinaldo Rinaldi che mostra puntualmente, procedendo ad una lettura in parallelo tra l’Italia illustrata e i Commentarii del Piccolomini (papa Pio II), le tante analogie tra le due opere suffragate da precisi riscontri testuali.10 Un secolo dopo, Leandro Alberti citava rispettosamente il Biondo nella sua densa Descrittione di tutta Italia, una nuova Italia illustrata, riveduta, corretta ed integrata. Anche per l’Alberti vige il bisogno, ed insieme l’ambizione, di rovesciare gli schemi medioevali della descrizione esclusivamente locale, e di dare, similmente al Biondo, una illustrazione della regione italiana nella sua totalità e con la sua teorica unità.11 Con quest’opera l’umanista forlivese, pur predominando in lui la tendenza a tornare al passato, oltre a rivalutare la funzione della geografia, tese soprattutto ad ammodernare l’immagine della penisola; e bisogna riconoscere che il suo tentativo, compiuto in un periodo in cui le nuove conoscenze concorrevano a modificare il quadro tradizionale trasmesso dalla geografia antica, riuscì per larga parte. Anche la descrizione del Mezzogiorno, benché incompleta, appare più «moderna», in particolare quando prevale l’informazione diretta rispetto a quella libresca e antiquaria. Nell’Italia illustrata non vi era traccia alcuna di Roma poiché la trattò ampiamente nella Roma instaurata (scritta tra il 1444 e il 1446):12 qui tentò di ricostruire, col
9
Cfr. B. Nogara, Scritti inediti e rari di Flavio Biondo, Roma, Tipografia Poliglotta Vaticana 1927 [ristampa anastatica 1973], p. CXXII e ss. 10 R. Rinaldi, L’Italia «romana» del Piccolomini, in «Interpres», n. XX (2001), pp. 158-179. 11 Sull’Alberti si vedano: L. Gambi, Per una rilettura di Biondo e Alberti, geografi, in Il Rinascimento nelle corti padane. Società e cultura, a cura di P. Rossi, Bari, De Donato 1977, pp. 259-275; G. Petrella, L’officina del geografo. La «descrittione di tutta Italia» di Leandro Alberti e gli studi geografico-antiquari tra Quattro e Cinquecento, Milano, Vita e Pensiero 2004; F. Bruni, Edizioni di testi e storiografia: a proposito di due riedizioni parziali dell’‘Italia illustrata’ di Flavio Biondo e della ‘Descrittione di tutta Italia’ di Leandro Alberti cit. 12 Su questa opera cfr. A. M. Brizzolara, La Roma instaurata di Flavio Biondo. Alle origini del metodo archeologico, «Atti della Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, Memorie, Classe di scienze morali», LXXVI (1979-80), pp. 29-74. Alcuni passi della Roma instaurata furono editi criticamente in R. Valentini-G. Zucchetti, Codice topografico della città di Roma, IV, Fonti per la storia d’Italia, XCI, Roma 1953, pp. 237-255; ora si vedano Flavio Biondo, Rome III. I periodi della letteratura degli Italiani
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sussidio dei classici e delle iscrizioni, l’antica topografia dell’Urbe imperiale, la ragguagliò alla moderna e narrò le vicende degli edifici rovinati o scomparsi. Soprattutto però voleva legare la Roma dei Cesari alla Roma dei Papi, la Roma temuta per la forza delle sue armi alla Roma venerabile in tutto il mondo per i benefici della religione. Nella parte conclusiva dell’opera, infatti, il paragone tra la Roma antica e quella moderna conduce alla presentazione della seconda come erede della prima: se Roma, identificata con la curia, vede ridotto il suo dominio territoriale, tuttavia, la sua gloria e la sua autorità poggiano su un «solidiori fundamento», un più «solido fondamento», quello di essere cioè la sede della religione cristiana e la dimora del papa, il «dittatore perpetuo» e vicario del sommo imperatore Gesù Cristo. È il terzo ed ultimo libro che contiene questa interessante riflessione sul ruolo di Roma: E quantunque siamo così affezionati al nome Romano che, dalla religione in fuora, non è cosa che abbiamo in maggiore reverenza, non ci lasciamo però così levare di piè dalla passione che non veggiamo quanto sia grande la differenza dello stato, della maestà e della potenza di Roma già rispetto a quel che ora si vede; e al contrario non siamo noi dell’opinione di coloro che così hanno per niente lo stato delle cose di Roma di oggi come se ogni memoria di lei se ne fosse andata via con le legioni, con i consoli, col senato, con le bellezze e con gli ornamenti del Campidoglio e del Palatino. È vitale certamente, è vitale ancora la gloria e la maestà di Roma e fondata in più solido fondamento, benché non sia così ampia come prima, ed ha bene ancora oggi Roma un suo ascendente sopra i regni e sopra le molte nazioni a conservazione ed aumento del quale non occorrono gli eserciti, né la cavalleria, né la fanteria.13
Insomma, nel processo di identificazione tra Impero e curia, ne vien fuori una Roma creatrice della spirituale unità italica («sedes, arx atque domicilium» della religione cristiana) dinnanzi al mondo, ed Eugenio IV, che non nascondeva la stima per l’umanista forlivese, accettando la dedica dell’opera rendeva l’intento dell’autore ancora più visibile.14 Stesso copione nella Roma triumphans in cui, dopo aver ribadito il concetto della funzione pacificatrice e civilizzatrice dell’impero romano, conclude l’opera confrontando le magistrature romane con la gerarchia ecclesiastica elencando i papi originari dei diversi continenti e i cardinali del suo tempo che
restaurée, tome I, livre I, edition, traduction, présentation et notes par A. Raffarin-Dupuis, Paris, Les Belles Lettres 2005 e Biondo Flavio, Rome restored, edited by M. Laureys-W. McCuaig, Cambridge, Mass.-London, The I Tatti Reinassance Library, Harvard University Press 2005. 13 Roma ristaurata, et Italia illustrata di Biondo da Forli. Tradotte in buona lingua volgare per Lucio Fauno cit., c. 60v. 14 E. Marino, Eugenio IV e la storiografia di Flavio Biondo, in «Memorie Domenicane», nuova serie, IV (1973), pp. 241-287. L’Umanesimo e l’Italia unita
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provenivano dai paesi più disparati per affermare che ciò era la dimostrazione che «Romanae olim reipublicae similem esse ecclesiasticam rem Romanam», cioè che la realtà della Chiesa romana è simile alla repubblica romana di un tempo.15 L’assunzione di una prospettiva nazionale e l’attento esame di un gran numero di fonti e testimonianze, così come lo studio del passato si rapportava sempre alla situazione contemporanea, erano caratteristiche già evidenti in un altro vasto ed ambizioso progetto iniziato nel 1435, le Historiarum ab inclinazione Romani imperii Decades. L’ottica nella quale si inquadra l’opera è, ancora una volta, in un certo senso, come detto sopra, «nazionale», propria di uno storico pontificio che si muove lungo le direttrici ideologiche dell’umanesimo curiale. Essendo la ricostruzione del passato finalizzata all’interpretazione del presente, si instaura il nesso (esplicitato, come si è visto, nella Roma instaurata) tra Impero romano e curia, alla quale è attribuita la stessa missione storica universale. Il Biondo, rinunciando a partire dalle origini con una rivendicazione dell’autonoma dignità della storia contemporanea e ancor più con un orizzonte nazionale e non cittadino (si pensi al modello municipale delle Storie fiorentine di Leonardo Bruni o in generale al fatto che gli umanisti rimasero generalmente fedeli ad un modello storiografico ancorato alla visione cittadina, cortigiana e dinastica), fonda una nuova prospettiva storiografica ben riassunta in una lettera di Lapo da Castiglionchio del 10 aprile 1437 che aveva letto e valutato un primo blocco delle Decades (oltre che a Lapo, il testo era stato inviato a Francesco Barbaro, a Giovanni Corvini e a Leonello d’Este).16 In questa l’umanista andava esponendo i criteri teorici e metodologici che probabilmente aveva appreso dallo stesso autore: tra questi il fatto di essersi rivolto agli eventi moderni affinché gli uomini e il loro operato potessero essere sottoposti al giudizio dei contemporanei e l’aver indirizzato l’attenzione agli eventi di tutta l’Italia, che è poi la filigrana comune di tutta l’opera del Biondo. La sua ricerca si presenta, per la sua ampiezza e per la vastità di temi affrontati, come un fondamentale punto di svolta nella storia dell’antiquaria e come un modello per la ricerca successiva: la ricostruzione degli aspetti monumentali, istituzionali, religiosi, di costume, giuridici, archeologici, della civiltà classica, tocca nel
15 Su questa opera si veda M. Tomassini, Per una lettura della ‘Roma triumphans’ di Biondo Flavio, in M. Tomassini-C. Bonavigo, Tra Romagna ed Emilia nell’Umanesimo. Biondo e Cornazzano, presentazione di G. M. Anselmi, Bologna, Clueb 1985, pp. 11-80. 16 Cfr. M. Regoliosi, «Res gestae patriae» e «res gestae ex universa Italia»: la lettera di Lapo di Castiglionchio a Biondo Flavio, in La memoria e la città. Scritture storiche tra Medioevo ed Età Moderna, a cura di C. Bastia e M. Bolognani, responsabile culturale F. Pezzarossa, Bologna, Il Nove 1995, pp. 273-305 e M. Miglio, Una lettera di Lapo da Castiglionchio il Giovane a Flavio Biondo: storia e storiografia nel Quattrocento, in «Humanistica Lovaniensia», XXIII (1974), pp. 1-30 poi in Id., La storiografia pontificia del Quattrocento, Bologna, Pàtron 1975, pp. 31-59.
III. I periodi della letteratura degli Italiani
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corpus delle sue opere non solo finalità storico-conoscitive, prettamente ancorate ad un ambito scientifico che poteva essere asettico, ma anche etico-conoscitive onde riproporre alla società moderna quei valori che l’antichità incarnava. La sua opera, dalle Decades alla Roma instaurata, dall’Italia illustrata alla Roma triumphans, si collega a quella volontà di rinascita culturale che anima anche altre opere dell’umanesimo e si adagia su oggetti di ricerca che richiedano una trattazione molto ampia: le vicende storiche dell’Italia e dell’Europa, la topografia e le tradizioni romane, la descrizione storico-geografica dell’Italia, gli fornivano materiale ideale per mettere in evidenza il cammino degli eventi e soprattutto per mostrare con chiarezza la comune identità culturale, dalla cui coscienza potesse nascere e svilupparsi con vigore un atteso processo di renovatio.
L’Umanesimo e l’Italia unita
DANIELE PETTINARI Quale «patria» per la nostra lingua? Lo spazio letterario come veicolo per la codificazione linguistica nel Cinquecento
Non è cosa di poco studio, anzi di molto e molto, il voler discernere drittamente a chi donare, o pure a chi render si debba questa cotanto bella lingua, con che da trecento anni in qua tante leggiadre rime, tante onorate prose si sono scritte. Conciossiacosachè altri volgare, altri italiana, altri cortigiana, altri fiorentina, altri toscana la stimi.1
Così, in apertura del dialogo intitolato Il Cesano, l’umanista senese Claudio Tolomei offre uno spaccato rappresentativo di quella serie di accesi dibattiti, confronti serrati e scontri polemici che ebbe luogo tra letterati nel corso del Cinquecento, e in particolare nel primo trentennio, che è confluita nell’etichetta critica di “questione della lingua” e così comunemente conosciuta sino ad oggi, con il rischio che ad occuparsi di tale filone della trattatistica rinascimentale siano rimasti i soli linguisti o storici della lingua italiana. Le istanze, di tipo linguistico ma anche storico-letterario, di cui molte personalità dell’epoca si fecero interpreti, erano condotte sul terreno di battaglia, quindi dispiegate soppesate e messe a confronto, attraverso lo scambio di un complesso di pubblicazioni, che assunsero in prevalenza le forme della scrittura epistolare o del dialogo di impronta classicistica – generi letterari particolarmente congeniali all’argomentazione retorica, di matrice ciceroniana, delle diverse posizioni messe in campo – incentrate a dirimere la questione relativa a quale lingua comune si dovesse adoperare in Italia. «Questa cotanto bella lingua», dunque, a inizio secolo doveva ancora superare lo scoglio della frantumazione linguistica propria delle multiformi esperienze letterarie quattrocentesche, specchio delle «lingue» parlate sul territorio italiano, che
1
C. Tolomei, Il Cesano, de la lingua toscana, in Il Castellano di Giangiorgio Trissino ed il Cesano di Claudio Tolomei. Dialoghi intorno alla lingua volgare ora ristampati con l’epistola dello stesso Trissino intorno alle lettere nuovamente aggiunte all’alfabeto italiano, Milano, G. Daelli e C. Editori 1864, pp. 5-6. L’Umanesimo e l’Italia unita
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avevano dato vita a «una cultura policentrica» sì «ricca e di alto livello», ma diffusa capillarmente attraverso la pratica scritta di «volgari l’uno diverso dall’altro e tutti virtualmente su un piano di pari dignità»2. L’ottimismo palesato dal Tolomei, che sembra indicare di fatto una lingua comune legittimata da trecento anni di scritture poetiche e prosastiche di alto livello, potrebbe essere indotto dal fatto che già dalla metà del Quattrocento la diffusione delle tre Corone e la formazione di coinè regionali lasciavano intravedere all’orizzonte la possibilità della “costruzione” di una comune lingua letteraria. E in effetti, sebbene nella realtà mancasse ancora una piena legittimazione umanistica della letteratura volgare,3 l’unico spazio comune fra i vari centri territoriali italiani era proprio quello che veniva offerto dalla letteratura, ovvero da una lingua che assumesse il ruolo di veicolare messaggi, di natura prevalentemente scritta, uniformati ad uno standard ancora tutto da ricercare e mettere alla prova, che consentisse un grado di produzione e ricezione al più alto livello di dignità all’interno delle classi colte e aristocratiche dell’epoca. Difatti, per raggiungere un così ambizioso obiettivo, le classi dirigenti italiane e gli scrittori che di esse fanno parte o ad esse sono collegati aspirano […] a fare della letteratura uno strumento di aggregazione e di comunicazione esemplare, valido per l’intero orizzonte nazionale, unica risposta possibile alla disgregazione sociale e politica del paese.4
Dunque i dibattiti e le polemiche sorti intorno al nome da assegnare alla potenziale lingua comune d’Italia – se volgare italiana cortigiana fiorentina o toscana – capace di imporsi come lingua letteraria, o al più come mezzo di espressione del gentiluomo contemporaneo, mettono in gioco l’identità italiana non solo e non tanto sotto un profilo linguistico, ma anche e soprattutto culturale, sociale e in definitiva politico. Tale progetto risulta tanto più urgente se si considerano almeno due fattori che hanno segnato profondamente la compagine italiana tra la fine del XV e la metà del XVI secolo: il primo riguarda le invasioni straniere nella nostra penisola che diedero luogo alla lunga parabola delle guerre d’Italia (1494-1559), e la conseguente fine dell’indipendenza degli Stati italiani; il secondo fa riferimento all’enorme diffusione della stampa e alle conseguenze che da tale invenzione derivarono nell’ambito della produzione e diffusione dei testi così prodotti. Quale altra occasione si offriva, pertanto, proprio nel corso della progressiva perdita delle li-
2
L. Rossi, P. Marongiu, Breve storia della lingua italiana per parole, Firenze, Le Monnier Università 2005, p. 123. 3 Cfr. M. Tavoni, Il Quattrocento, in Storia della lingua italiana, a cura di F. Bruni, Bologna, Il Mulino 1992. 4 G. Ferroni, Il Classicismo e la fondazione dei nuovi modelli, in Storia della Letteratura italiana, Milano, Einaudi 1991, p. 91. III. I periodi della letteratura degli Italiani
Quale «patria» per la nostra lingua?
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bertà politiche, su un cupo sfondo prospettico che sembrava preludere alla finis Italiae, per ricercare sicurezza e continuità su un terreno culturale comune che consentisse una piena affermazione del primato culturale italiano su scala nazionale e poi europea? Quale occasione più propizia per tentare, grazie alla stampa, di uniformare la varietà degli usi grafici delle diverse coinè regionali italiane e proporre una compagine linguistica sovrammunicipale, il cui combinato disposto rendesse la lingua più agevolmente compresa e i libri a stampa in volgare più appetibili sul nascente mercato editoriale? Entrando ora nel merito specifico del dibattito sulla lingua, stabiliremo convenzionalmente come terminus a quo il 1524: non tanto per assenza di battito o carenza di testi sull’argomento anteriormente a tale data – mi basti ricordare l’Apologia di Serafino Aquilano (1504) di Angelo Colocci e le Regole grammaticali della volgar lingua (1516) di Giovan Francesco Fortunio – quanto perché viene data alle stampe, per l’appunto nel ’24, l’Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana di Giovan Giorgio Trissino. Tale lettera, piuttosto breve e per la verità non particolarmente brillante, sarebbe stata però destinata ad incidere nella società dell’epoca in quanto costituì, per così dire, un “detonatore” delle molteplici istanze che covavano sotto la cenere del tessuto aristocratico italiano, innescando una serie inaspettata di reazioni. Difatti dalla lettura delle risposte all’Epistola, da quelle più scopertamente polemiche a quelle con un profilo più indiretto, si possono facilmente dedurre le diverse opinioni dispiegate sull’argomento dai letterati coevi, accomunate da una veemenza di toni e posizioni che palesano nel modo più evidente la rilevanza su più fronti della questione trattata e la pressante ricerca di modelli da emulare. L’Epistola, dedicata dal Trissino al papa mediceo Clemente VII, proponeva una riforma ortografica che prevedeva l’adozione, nell’alfabeto italiano, di alcune lettere greche5 per rappresentare fonemi altrimenti non distinguibili. La proposta di tale innovazione, a suo parere, si era resa necessaria per «illuminare ed aiutare» la pronunzia italiana a trovare una precisa corrispondenza grafematica nella scrittura, laddove essa appariva «debole, e manca».6 E per dare prova della concreta realizzabilità della sua proposta, non solo in senso culturale ma anche più concretamente
5 «Adunque le lettere che abbiamo distinte, ed all’alfabeto aggiunte, sono cinque; cioè tre di grandissima necessità, e aperto, w aperto, e z ottusa, ovver simile al g, e due di necessità minore; due di distinzione utile assai; cioè j consonante, e v consonante; […] Pare, che ancora nella pronunzia del s qualche differenza si trovi, la quale con un solo s, e con due da molti si distingue […] a che si potrebbe però facilmente provvedere, distinguendo lo " longo, dallo s antico» in G. Trissino, Delle lettere nuovamente aggiunte nella lingua italiana, in Il Castellano di Giangiorgio Trissino ed il Cesano di Claudio Tolomei cit., p. XV. 6 G. Trissino, Delle lettere nuovamente aggiunte nella lingua italiana cit., pp. IX-X.
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editoriale, l’autore fece stampare la Sofonisba e altri suoi scritti, con impresse le lettere da lui ritrovate, per i tipi di Lodovico degli Arrighi Vicentino. Le pubblicazioni dirette a smentire l’utilità del ritrovato trissiniano videro la luce nell’arco di pochi mesi. Mi basti menzionare la Risposta all’epistola del Trissino, delle lettere nuovamente aggiunte alla lingua volgare fiorentina (1524) di Lodovico Martelli, il Discacciamento delle nuove lettere, inutilmente aggiunte nella lingua toscana (1524) di Agnolo Firenzuola, e Il Polito, delle lettere nuovamente aggiunte nella volgar lingua (1525), stampato sotto lo pseudonimo di Adriano Franci ma in realtà opera di Claudio Tolomei. Ebbene, per i numerosi detrattori della proposta trissiniana rifiutare la riforma ortografica significava porsi a difesa della nascente tradizione italiana negli anni in cui si stavano elaborando e diffondendo i nuovi modelli classicistici di Bembo e Castiglione. Il Firenzuola, ad esempio, nell’ambito dell’accusa rivolta al Trissino di aver corrotto l’alfabeto latino dall’originaria semplicità e chiarezza, mediante l’aggiunta di «inconvenienti tanto più […] da fuggire quanto minor bisogno ci dà cagione di seguitargli»,7 inserisce due novelle di stampo bernesco, volte a dimostrare l’inutilità, anzi il danno, che tale innovazione avrebbe prodotto. La prima presenta la vicenda di un tal «grossolano» che, volendo leggere un testo piuttosto agevole nei contenuti ma «stampato con questo nuovo impaccio» delle lettere riformate, quando vide quegli caratteri così fatti, tutto si spaurì, e deponendo lo scritto da una banda, disse: o chi diavol lo saprebbe mai leggere! poiché gli è mezzo greco e mezzo latino: e volendolo rendere a quello che gnelo aveva venduto, e colui non lo rivolendo, vennero a parole, e dalle parole a’ fatti: in modo che il povero uomo fu percosso malamente dal venditore in una guancia, e imparò a dir male degli omicroni.8
L’altro racconto, scritto con indubbio intento parodico caricato dall’inserzione di doppi sensi osceni, vede protagonista una donna «pregna», alla quale non solo la gravidanza ma anche la lettura «suole essere sovente cagione di farle lo stomaco molto svogliato». Difatti l’esecuzione orale del testo esprime un maldestro tentativo di riprodurre la pronuncia esatta delle lettere riformate dal Tolomei, di modo che quando la giugneva a quegli o aperti, allargava la bocca in modo, che gran parte si furava della sua beltade, e quando arrivava a quegli chiusi, con una bocca aguzza sportava il mento in fuori, che pareva pur la più contraffatta cosa al mondo.9
7
A. Firenzuola, Discacciamento delle nuove lettere, inutilmente aggiunte nella lingua toscana, in Opere, Milano, Soc. Tipografica de’ Classici Italiani 1802, vol. I, p. 210. 8 Ivi, p. 214. 9 Ivi, p. 219. III. I periodi della letteratura degli Italiani
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Anche il più austero e prudente Tolomei, sotto le mentite spoglie di Adriano Franci, non risparmia critiche all’Epistola quando il Polito, personaggio che dà il titolo al dialogo del 1525,10 trovandosi a conversare con Francesco Mandoli, fidato amico del Trissino, assiste alla ricusazione del giovane Marcantonio Pannilini, il quale introduce la tematica della discussione raccontando del suo tentativo di scrivere una lettera adottando il dispositivo delle nuove lettere: Sforzaimi di por li omeghi e li omicronni ai luoghi loro: ne la qual cosa io tanta fatica durai e tanto facilmente m’inviluppano, trascorrendo spesse volte ne l’antico scrivere, ch’in molto tempo ch’io vi spesi, non fu però ch’io scrivessi se non molto poco: e quello ancora tutto schizzato, e mal composto; di che incominciai a dolermi del Trissino, che ci haveva senza bisogno alcuno recati addosso questi nuovi affanni.11
Per di più nel prosieguo del dialogo, il Tolomei, sempre per bocca del Polito, si spinge sino a defraudare il Trissino della sua invenzione, rivelando che, più di dodici anni prima della pubblicazione dell’epistola, «l’Accademia nostra di Siena [si tratta di quella degli Intronati] ne fu prima inventrice» ma «istimò meglio essere sopportare i vecchi modi, che con nuovi alfabeti tutta Italia conturbare». Bisogna pertanto considerare come la carica aggressiva di tali inserti stia a dimostrare il “movimento tellurico” che la questione della lingua aveva scatenato nonché l’urgenza percepita dagli umanisti rinascimentali di definire limiti e confini entro cui codificare un sistema di norme a cui la lingua italiana doveva sottostare: ne andava di mezzo la sopravvivenza dell’Italia, se non altro nell’accezione di «nazione culturale». Non si può non sottolineare, tra le altre cose, come i titoli che appaiono sul frontespizio delle varie risposte indirizzate al Trissino contengano già la chiara indicazione delle posizioni dei vari autori, le cui convinzioni trovano espressione in ben definite proposte linguistiche, che sono inevitabilmente anche scelte di tipo politico, non presentate però in maniera autonoma ma attraverso la parossistica deformazione del titolo dell’Epistola, che diede scandalo, oltre che per il ritrovamento delle lettere, anche per la definizione inusuale di «lingua italiana»: così per
10 La prima edizione dell’opera risale al 1525 e porta nel frontespizio la seguente dicitura De le lettere nuouamente aggiunte, libro di Adriano Franci da Siena. Intitolato il Polito, stampata in Roma, per Lodouico Vicentino, et Lautitio Vicentino 1525. La seconda, edita nel 1531, inverte l’ordine delle parole rispetto alla prima edizione intitolandosi difatti Il Polito di Adriano Franci da Siena, delle lettere nuovamente aggiunte nella volgar lingua, con somma diligenza corretto et ristampato, impressa in Vinegia, per Nicolo d’Aristotile detto Zoppino 1531. 11 C. Tolomei, Il Polito di Adriano Franci da Siena, delle lettere nuovamente aggiunte nella volgar lingua, con somma diligenza corretto et ristampato, impressa in Vinegia, per Nicolo d’Aristotile detto Zoppino 1531.
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tutta risposta le lettere vengono nuovamente aggiunte alla «lingua toscana» per il Fiorenzuola, alla volgar lingua (che è quella toscana) per il Tolomei, alla «lingua volgare fiorentina» per il Martelli, alla «nostra lingua» (da intendersi come fiorentina) per il Machiavelli. Ad offrire una sintesi, riflessa nella dignità della scrittura letteraria, di queste ed altre posizioni si presta Il Cesano, dialogo edito solo nel 1555 su iniziativa personale del Giolito, autore della lettera dedicatoria indirizzata allo stesso Tolomei, con il quale sembra scusarsi per la stampa non autorizzata, ma scritto già nel 1525 se diamo credito alla tesi formulata dalla Castellani Pollidori12 che smentisce, adducendo elementi ben fondati, le ipotesi del Rajna. Ebbene questo dialogo fa emergere in maniera cristallina le varie proposte linguistiche: da una parte le opinioni del Bembo, del Castiglione e del Trissino – assertori dell’unità sostanziale della lingua in riferimento all’uso sociale che ne fanno rispettivamente il volgo, chiamato a determinare la «lingua naturale»; le corti, impegnate in un’operazione di selezione e raffinamento finalizzata alla realizzazione di una «lingua artificiale» dei colti; i cittadini d’Italia che essenzialmente si comprendono tra loro «quantunque sia qualche differenza tra ’l Napolitano e ’l Fiorentino, tra ’l Milanese e ’l Veneziano, tra ’l Genovese e il Romagnuolo»13 –; dall’altra parte le posizioni di Alessandro de’ Pazzi e di Gabriele Cesano – portavoce l’uno delle posizioni del Martelli, l’altro del Tolomei – sostenitori del primato, su un piano squisitamente letterario, del fiorentino o, al netto di qualche localismo, del toscano. Si profila così una competizione vera e propria tra toscani e non toscani.
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Cfr. C. Tolomei, Il Cesano de la lingua toscana, ed. critica a. c. di O. Castellani Pollidori, Firenze, Olschki 1974. 13 Si riportano qui di seguito alcuni stralci significativi delle differenti opinioni presenti in C. Tolomei, Il Cesano cit., a cominciare dal Bembo, che sostiene una tesi piuttosto bizzarra rispetto alle idee in materia linguistica che ci aspetteremmo di sentir pronunciare dalle sue labbra: ciò sta ad indicare che il Tolomei, mentre scriveva il suo dialogo, non conosceva, o comunque non aveva utilizzato (ma ciò è meno probabile) le tesi espresse nelle Prose della volgar lingua (1525): «Se primieramente i vocaboli piglian forza dall’uso, se l’uso è di quelli facitore, governatore e disfacitore, chi mi negherà cotale essere il vero e proprio vocabolo di questa lingua, conciossiacosachè così il comune uso la chiami, così le donne, così gli uomini, così i fanciulli, così i vecchi» (p. 12); il Castiglione smentisce questa tesi asserendo che la lingua naturale parlata dal volgo, «dalle maestre mani de’ divini ingegni aiutata, ella s’è d’ogni spina liberata, d’ogni macchia lavata, d’ogni bruttezza mondata; e sbandita del regno suo l’umiltà de’ vocaboli, la sordezza delle parole, l’asprezza delle testure, le dissonanze degli accenti, il fastidio del profferire, ha voluto tutta bella e casta abitare tra le dotte lingue degli uomini, la quale perciò cortigiana si chiama, che da quelli che nelle corti viveano, prima fu dalla puzza del volgare idioma tolta via, e di questo suo soavissimo odore ampiamente ripiena» (p. 28); il Trissino dichiara l’unità di fatto della lingua italiana perché, «quantunque sia qualche differenza tra ’l Napolitano e ’l Fiorentino, tra ’l Milanese e ’l Veneziano, tra ’l Genovese e il Romagnuolo, non è però, che l’un l’altro intender non possa» (pp. 18-19). III. I periodi della letteratura degli Italiani
Quale «patria» per la nostra lingua?
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Interessante l’occasione che dà luogo alla conversazione e fa da cornice al Cesano: «Trovandosi una fiata tra l’altre molti uomini dotti (come io intendo), e finite le vivande, di uno in un altro ragionamento trascorrendosi, accadde parlar di quel libro di Dante della Volgare eloquenza».14 Una conversazione quanto mai attuale dal momento che il trattato dantesco, rimasto sepolto tra la polvere di qualche biblioteca per due secoli, era stata ritrovato, messo in circolazione e poi volgarizzato (Vicenza 1529) dal Trissino, ma da lui non firmato per motivi di convenienza: probabilmente il volgarizzamento di un’opera era ritenuto un compito indegno per un umanista del suo calibro. Ebbene tale scoperta venne fortemente messa in discussione: si dubitava dell’autenticità dell’opera (visto che mancava il riscontro dell’originale), della paternità dantesca (si contestava l’idea di un trattato in difesa della dignità del volgare scritto in latino, e per di più contrastante le posizioni espresse da Dante nel già noto Convivio), e soprattutto della fedeltà del volgarizzamento del Trissino, accusato di aver manipolato a suo modo il testo o addirittura di aver perpetrato un falso. Accuse che ritroviamo riportate nel Castellano, dialogo scritto dallo stesso Trissino, che lo diede alle stampe nel 1529, quando la polemica stava gradualmente scemando e l’autore poteva togliersi lo sfizio di rispondere punto per punto ai vari detrattori: primi fra tutti i difensori ad oltranza della lingua toscana incarnati, nel dialogo, dalla persona di Filippo Strozzi, alle cui accuse risponde puntualmente Giovanni Rucellai, nominato da papa Clemente VII custode di Castel Sant’Angelo (è lui infatti il castellano che dà il titolo all’opera), portavoce delle posizioni dell’autore. Ebbene lo Strozzi, dopo aver duramente criticato il Trissino per aver tentato di «assegnare nuova patria alla nostra lingua, cercando di torle quello che egli non gli ha dato»15 – vale a dire il nome di «italiana» ad una lingua che sarebbe dovuta risultare dalla sintesi dei migliori idiomi regionali, selezionati e purificati nel lavacro delle corti – accusa il castellano di non poter far valere l’autorità di Dante nella difesa dell’italica loquela, perché a suo dire il libro della Volgare Eloquenzia non era opera dell’Alighieri. A ben vedere «era una supposizione assurda, ma che faceva comodo a quelli che nella scottante questione della lingua repugnavano alla tesi del Trissino e che, facendosi essi stessi forti dell’autorità di Dante, volevano a ogni costo impedire che questa, inaspettatamente, risultasse favorevole alla parte avversa».16 Mi basti ricordare, tra i sostenitori della tesi della fiorentinità della lingua, il Machiavelli presunto autore del Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, il quale – avendo preso il fermo proposito di «sgan-
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C. Tolomei, Il Cesano, de la lingua toscana, in Il Castellano di Giangiorgio Trissino ed il Cesano di Claudio Tolomei cit., p. 9. 15 G. Trissino, Il Castellano, in Ivi, p. 10. 16 C. Dionisotti, Trissino, Gian Giorgio in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana 1984, vol. V, p. 724. L’Umanesimo e l’Italia unita
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nare»17 Dante in merito alla definizione del volgare come lingua illustre, cardinale, aulica e curiale – afferma «che non c’è lingua che si possa chiamare o comune d’Italia o curiale, perché tutte quelle che si potessino chiamare così, hanno il fondamento loro dagli scrittori fiorentini e dalla lingua fiorentina».18 Dunque il Trissino, confermando la sua idea di una lingua italiana e cortigiana, rivendica una posizione, sconfitta dalla storia, che si rivelava minoritaria già quando nel ’29 pubblicava Il Castellano, dato che le Prose della volgar lingua di Bembo erano state date alle stampe quattro anni prima e circolavano già da tempo. Adducendo a sua difesa l’autorità del De vulgari eloquentia e di Dante, l’umanista vicentino intendeva recuperare non solo la «dottrina di una lingua e letteratura volgare, ma non dialettale, aristocratica e aulica, comune all’aristocrazia e alle corti di tutta Italia» ma anche «il miraggio di una letteratura italiana che, pur sviluppandosi secondo i modelli classici raccomandati dalla nuova scuola umanistica, riconoscesse in Dante, non nell’amoroso Petrarca e nel lascivo Boccaccio, il suo primo e maggiore maestro di lingua e poesia».190 Trissino, come Dante, «sa vedere in un’Italia politicamente e linguisticamente divisa […] un unitario spazio letterario, oltre che geografico» rappresentato, in assenza di «aula» e di «curia», da una lingua viva, dell’uso, «a tutta Italia comune».20
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«Cavare altrui d’inganno con vere ragioni»: il significato del verbo, usato dal Machiavelli (ma da me coniugato in un’altra forma rispetto all’originale), è stato desunto dal lemma dedicato nel Vocabolario degli accademici della Crusca, Firenze, Manni 1729-1738, IV ed. 18 N. Machiavelli, Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, ed. critica a. c. di B. T. Sozzi, Torino, Einaudi 1976. Tale opera, scritta tra il 1524 e il 1525, fu pubblicata per la prima volta solo nel 1739 in appendice a B. Varchi, L’Ercolano. Numerose sono state le attribuzioni autoriali date all’opera; oggi, a seguito degli studi eseguiti, si ritiene che possa essere stato effettivamente scritto dal Machiavelli. 19 L. Rossi, P. Marongiu, Breve storia della lingua italiana per parole cit., p. 70. 20 G. Trissino, Il Castellano, in Il Castellano di Giangiorgio Trissino ed il Cesano di Claudio Tolomei cit., p. 23. III. I periodi della letteratura degli Italiani
POESIA E POLITICA FRA DUECENTO E CINQUECENTO
GABRIELE BALDASSARI Poesia politica ed encomiastica nel canzoniere Costabili
Tradizionalmente la poesia politica viene trattata con un’attenzione più storica che letteraria. I testi vengono letti ed esaminati con l’intento di chiarire i riferimenti alla realtà del tempo, identificando personaggi, destinatari, occasioni, e di definire i contenuti ideologici e la posizione dell’autore. Naturalmente non è possibile negare l’importanza dell’applicazione dello studio storico ai testi letterari; tuttavia si ha l’impressione che la presenza di argomenti politici o estranei alla materia principale della lirica, quella amorosa, porti spesso a sottovalutare le componenti formali e a utilizzare in misura marginale la strumentazione peculiare degli studi letterari e filologici, che invece può rivelarsi assai efficace per comprendere proprio il significato storico e ideologico dei testi. Il mio contributo si sofferma sulle liriche di carattere latamente politico presenti nel canzoniere del cosiddetto “anonimo Costabili”, portando alcune novità che sono emerse da un’attenzione privilegiata, anzi quasi esclusiva, al testo e al codice che lo contiene, dal momento che il mio lavoro (svolto presso l’Istituto italiano di Scienze Umane sotto la guida di Stefano Carrai) mirava a offrire la prima edizione critica dell’opera, ora in preparazione per la stampa. L’applicazione dei metodi ormai tradizionali nell’indagine filologica e nell’analisi critica di un canzoniere d’autore – lo studio delle varianti, la ricostruzione delle stratificazioni redazionali del macrotesto e dei singoli testi, l’analisi di connessioni interne ed esterne ai componimenti – ha aperto numerose piste da seguire, invitando ad allargare lo sguardo naturalmente al contesto storico e politico, in un fruttuoso interscambio, di cui qui si portano risultati comunque ancora passibili di approfondimenti e messe a punto. Poiché il canzoniere Costabili è noto soprattutto agli studiosi della letteratura quattrocentesca in volgare (grazie specialmente a Marco Santagata, Antonia Tissoni Benvenuti, Giorgio Dilemmi, Tiziano Zanato e Italo Pantani, e all’articolo di una giovane studiosa, Irene Verziagi),1 è senz’altro utile richiamare qui i caratteri principali dell’opera. 1
Cfr. M. Santagata, La lirica feltresco-romagnola del Quattrocento (1984), in Id.-S. Carrai, La liri-
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Si tratta di una corposa raccolta, che contiene 506 testi sicuramente di un unico autore, divisi tra 493 componimenti nei metri petrarcheschi canonici di sonetto, canzone e sestina, e una sorta di appendice di 13 capitoli, quadernari (serventesi) e ternari. Il canzoniere è tradito dal ms. Additional 10319 della British Library, adespoto e anepigrafo.2 Il codice è approdato a Londra all’inizio dell’Ottocento,3 dopo essere stato in possesso, per buona parte del Settecento, di un abate friulano, Domenico Ongaro.4 Grazie all’Ongaro il Quadrio aveva dato notizia di questa raccolta nel secondo volume Della storia, e della ragione d’ogni poesia, dove forniva una fantasiosa identificazione dell’autore con «quel Bartolommeo Costabili, che visse al servigio di Alfonso di Este Duca di Ferrara; e che accusato di congiura ordita contra il medesimo Duca, fu però decapitato sulla piazza di Ferrara circa il 1533».5
ca di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, FrancoAngeli 1993, pp. 43-95; A. Tissoni Benvenuti, La tipologia del libro di rime manoscritto e a stampa nel Quattrocento, in Il libro di poesia dal copista al tipografo (Ferrara, 29-31 maggio 1987), a cura di M. Santagata e A. Quondam, Modena, Panini 1989, pp. 25-33; G. Dilemmi, “L’amico del Boiardo” e il canzoniere per la Fenice (1996), in Id., Dalle corti al Bembo, Bologna, Clueb 2000, pp. 3-17; M.M. Boiardo, Amorum libri tres, a cura di T. Zanato, Torino, Einaudi 1998, passim (ora in edizione profondamente rinnovata: Novara, Interlinea 2012); T. Zanato, Il nome dell’amata da Petrarca ai petrarchisti, in Verso il centenario. Atti del seminario di Bologna 24-25 settembre 2001, a cura di L. Chines e P. Vecchi Galli, Firenze, Le Lettere 2004 [«Quaderni petrarcheschi», XI (2001)], pp. 273-296; Id., Il Canzoniere di Petrarca nel secondo Quattrocento: analisi dei sonetti incipitari, in Francesco Petrarca: umanesimo e modernità, a cura di A. De Petris e G. De Matteis, Ravenna, Longo 2008, pp. 53-111; I. Pantani, «La fonte d’ogni eloquenzia». Il canzoniere petrarchesco nella cultura del Quattrocento ferrarese, Roma, Bulzoni 2002, pp. 349-404; I. Verziagi, Per Costanza Costabili, la Fenice, in Gli ‘Amorum libri’ e la lirica del Quattrocento. Con altri studi boiardeschi, a cura di A. Tissoni Benvenuti, Novara, Interlinea 2003, pp. 81-102. 2 Descrizioni molto sintetiche del ms. in List of additions to the manuscripts in the British Museum in the years 1836 to 1840, London, The Trustees of the British Museum 1843; A. Palma di Cesnola, Catalogo dei manoscritti italiani esistenti nel museo britannico di Londra, Torino, Tipografia L. Roux e C. 1890, p. 38, n° 499; P.O. Kristeller, Iter Italicum, IV. Alia itinera, II. Great Britain to Spain, Leiden, Brill 1989, p. 88. 3 Il codice appartenne all’immensa biblioteca di sir Richard Heber: cfr. Biblioteca Heberiana. Catalogue of the library of the late Richard Heber, XI. Manuscripts, London, 1836, p. 23; sulla figura di Heber, S. De Ricci, English Collectors of Books & Manuscripts (1530-1930) and their marks of ownership, Cambridge, At the University Press 1930, pp. 102 ss. 4 Su di lui, cfr. Cenni biografici dei letterati ed artisti friulani dal secolo IV al XIX raccolti dal conte Francesco di Manzano, Udine, 1884-1887 (rist. anast. Bologna, Forni 1966), p. 144; C. Moro, Tracce della biblioteca di Domenico Ongaro. Le edizioni confluite nella raccolta Bartolini di Udine, in Una mente colorata. Studi in onore di Attilio Mauro Caproni in onore dei suoi 65 anni, promossi, raccolti, ordinati da P. Innocenti, curati da C. Cavallaro, Manziana, Vecchiarelli 2007, pp. 1135-1150. 5 F.S. Quadrio, Della storia, e della ragione d’ogni poesia, II, Milano, Francesco Agnelli 1741, pp. 224-225. III. I periodi della letteratura degli Italiani
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In realtà una simile identificazione non ha alcun fondamento, come già osservava l’estensore ottocentesco di alcune Notizie ora anteposte alla raccolta. Il canzoniere si colloca in tutt’altro contesto, certamente quello della Ferrara degli anni Sessanta, tra Borso d’Este e l’affacciarsi di Ercole come successore. Due sono gli eventi databili con sicurezza a cui si fa riferimento nel canzoniere: la peste che colpì Ferrara nel 1463, mietendo parecchie vittime e perdurando per circa un anno, e il ferimento di Ercole d’Este nella battaglia della Molinella del luglio 1467. Tuttavia, come si vedrà, ci sono ragioni per spingersi oltre il 1470, ritoccando così la datazione ormai invalsa, che colloca la raccolta, o meglio la vicenda, tra il 1453 e il 1468, sulla base principalmente dei “tre lustri” di cui parla il son. 492.6 Vale la pena spendere subito qualche riga sui testi dedicati alla peste, e in particolare sulle due canzoni 258 e 266, di cui mi sono già brevemente occupato in un articolo comparso sulla “Rassegna europea di letteratura italiana” nel 2010, dedicato alla fortuna del Petrarca politico prima di Machiavelli.7 Le due canzoni sono infatti perfette riproduzioni metriche rispettivamente di Spirto gentil (RVF 53) e di Italia mia (RVF 128): replicano lo schema della stanza e del congedo e il numero di stanze dei modelli petrarcheschi, che vengono imitati sul piano testuale, lessicale e sintattico in luoghi-chiave: il congedo in 258 (dove a tacer d’altro il ritratto di Borso, «duca excelso, non de lui / pensoso, ma de’ mei feroci morsi» è esemplato su quello del «cavalier ch’Italia tutta honora, / pensoso più d’altrui che di se stesso» di Spirto gentil, sempre ai vv. 100-101); l’incipit in 266 («Ben che, dogliosa mia ciptà infelice, / l’affanno aspro ch’io sento / per le mortal tue piaghe indarno sia», versi per i quali è superfluo allegare il celebre attacco della canzone all’Italia). Nel corpus preso in considerazione dal recente repertorio di Guglielmo Gorni,8 l’unico autore che replichi esattamente l’aspetto metrico di entrambe le canzoni politiche maggiori di Petrarca è Iacopo Sannazaro (in O fra tante procelle invitta e chiara, su Spirto gentil, e Incliti spirti, a cui Fortuna arride, su Italia mia), cioè l’autore a cui – a detta dello stesso studioso – si deve riconoscere «la coerente e programmatica ambizione di realizzare, nelle sue rime, un rigoroso petrarchismo metrico».9 Le due canzoni dell’anonimo sono dunque un esempio particolarmente significativo del suo “petrarchismo”, che presenta d’altra parte caratteri peculiarmente quattrocenteschi, tra cui debiti notevoli, a livello macro e microtestuale, nei confronti di
6 Cfr. I. Verziagi, Per Costanza Costabili… cit., pp. 89-91, che esprime la necessità di usare cautela nell’assumere questa datazione. 7 G. Baldassari, Prima della citazione del ‘Principe’. Fortuna del Petrarca politico nella lirica quattrocentesca, «Rassegna europea di letteratura italiana», 35 (2010), pp. 67-100. 8 Repertorio metrico della canzone italiana dalle origini al Cinquecento (REMCI), censimento di G. Gorni, edito per cura sua e di M. Malinverni, Firenze, Cesati 2008. 9 G. Gorni, Ragioni metriche della canzone. Tra filologia e storia (1973), in Id., Metrica e analisi letteraria, Bologna, il Mulino 1993, pp. 207-217: 214.
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Giusto de’ Conti. Più in generale esse testimoniano l’importanza di Petrarca come auctoritas in campo “civile” e come modello per l’inserimento della materia non amorosa in un canzoniere e mostrano la solidarietà che lettori e autori percepivano quasi spontaneamente tra le canzoni politiche dei Fragmenta, che devono essere viste come un autentico ciclo.10 Il problema maggiore posto dal nostro canzoniere, e che ne ha provocato una vera e propria rimozione, secondo Tissoni Benvenuti,11 è rappresentato dall’identità dell’autore. Un importante suggerimento potrebbe venire dalla prima carta della raccolta nel ms. Add. 10319, che oggi risulta piuttosto deteriorata, senza che però sia compromessa la visibilità dei quattro stemmi che vi campeggiano: due purtroppo restano non identificati, mentre si deve alla competenza di Italo Pantani l’accostamento degli altri due alla famiglia Contarini, veneziana ma ben insediata a Ferrara, anche se l’indicazione non ha ancora portato frutti utili all’attribuzione della raccolta.12 Un dato certo, e tale da funzionare finora come unico elemento di designazione sul piano onomastico, è invece la vicinanza alla famiglia Costabili. È ormai acclarato che a questa famiglia apparteneva non l’autore, ma la donna amata dal poeta, o meglio, secondo una precisazione che ritengo importante, la figura femminile principale della raccolta, il cui nome – come si evince da diversi testi – era chiaramente Costanza.13 I Costabili erano una famiglia potentissima nella Ferrara dell’epoca. Nell’incompiuto Teatro genealogico del Maresti, si legge: «Se bene numerose sono state le Famiglie grandi, e potenti in Ferrara, non credo però che alcuna habbia avanzata la Nobilissima Famiglia de’ Costabili».14 Durante l’età di Borso Paolo Costabili e, dopo la sua morte, Rinaldo, fecero parte ad esempio del consiglio segreto del duca.15 Difatti Paolo è quasi certamente uno dei personaggi ritratti nelle
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Questa la tesi da me argomentata in «Unum in locum». Strategie macrotestuali nel Petrarca politico, Milano, Led 2006; e cfr. l’art. cit. alla n. 7. 11 A. Tissoni Benvenuti, La tipologia del libro di rime… cit., p. 27. 12 I. Pantani, «La fonte d’ogni eloquenzia»… cit., p. 356 n. 16. 13 A parte i giochi su costanza e incostanza dell’amata, è decisivo l’incrocio tra 226, 65 «tolto pur te hai de tre l’una Constanza», dove si enuncia il nome della donna pianta in questo testo, e 330, 63-65, dove questa stessa donna ricompare in sogno, dichiarando di essere «quella / che fu per nome e per amor già equale / a la fenice vaga», cioè all’amata del poeta, per cui anche quest’ultima si chiamerà Costanza. 14 A. Maresti, Teatro geneologico et istorico dell’antiche e illustri famiglie di Ferrara, 3 tt., in Ferrara, nella Stampa Camerale 1678-1708 (rist. anast. Sala Bolognese, Forni 1993), parte III, p. 173. 15 Cfr. la scheda sul mese di Marzo di M. Toffanello, in Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, a cura di S. Settis e W. Cupperi, Modena, Panini 2007, p. 252, e per l’importanza e le funzioni del consiglio segreto, W.L. Gundersheimer, Ferrara estense. Lo stile del potere, Modena, Panini 2005, p. 96. III. I periodi della letteratura degli Italiani
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scene della vita di corte e di Ferrara nel ciclo dei Mesi di Schifanoia,16 e si può ricordare con Marco Folin, che «Tra i patrizi, la famiglia Costabili era di gran lunga la beneficiaria del maggior numero di feudi» da parte degli Este.17 Dall’esame del ms. Additional 10319, che è con ogni probabilità un idiografo costellato da cima a fondo di numerosissimi interventi dell’autore, è emersa una variante molto interessante, che riguarda proprio l’appartenenza (o la pertinenza) della donna amata alla famiglia Costabili. Nella seconda terzina del son. 179, «a Dio rimante; e tu, Constabil casa, / dove già spesso vidi sua belleza / de un mirabil splendore oltra misura», constabil (con la minuscola nel manoscritto) deriva dalla parziale rasura e dal ritocco di un originario constante. È questo il primo elemento nuovo emerso dalla mia ricerca che mi preme mettere in rilievo qui. Esso suggerisce che l’autore deve aver avvertito in un secondo momento l’esigenza di chiarire l’identità dell’amata. Ciò potrà essere dovuto a diverse ragioni: forse a quella di ribadire il ruolo preminente di Costanza, in un canzoniere in cui da un certo punto in poi le figure femminili si moltiplicano, o forse alla volontà di attestare la propria vicinanza alla sua potente famiglia. Tale vicinanza è dichiarata anche da un gruppo di testi, i sonetti 317-318 e la canz. 319, che piangono la morte di un «Constabil de gran pregio», il quale – come ha credibilmente osservato Pantani – non sarà da identificare con il famoso Paolo appena ricordato (morto nel 1469), ma forse con Obizzo Costabili, pianto da Tito Strozzi in un testo, «probabilmente risalente al 1463-64», non compreso nell’Aldina, e quindi neppure nell’edizione di Anita della Guardia, che speriamo sarà presto sostituita da quella di Tissoni Benvenuti.18 La prossimità alla famiglia Strozzi e a Tito Vespasiano in particolare è uno dei dati salienti e più noti del nostro canzoniere: le canzoni 226 e 330 sono dedicati infatti a Costanza dal Canale, morta di peste nel 1463 e compianta, con il nome di Philliroes, in un’elegia degli Eroticon libri (VI 10). Tito è ricordato, direttamente o indirettamente, più volte.19 A quanto già noto al riguardo, posso aggiungere ora un importante elemento. Ai nn. 362-64, troviamo un trittico di sonetti che riguardano (362) o sono indirizzati (363-364) a un unico personaggio. I primi due sonetti ci dicono che costui si chiama Filippo ed è toscano. Il terzo sonetto, anch’esso di corrispondenza, svela l’identità del destinatario con la tecnica dell’acrostico. Le iniziali dei quattordici versi compongono infatti il nome PHELIPO LAPCCIN, sicché il
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Cfr. la scheda di M. Toffanello cit. sopra, p. 253. Cfr. M. Folin, Rinascimento estense. Politica, cultura, istituzioni di un antico stato italiano, RomaBari, Laterza 2004, p. 72 n. 69. 18 Cfr. I. Pantani, «La fonte d’ogni eloquenzia»… cit., p. 356 n. 15; A. Tissoni Benvenuti, Prime indagini sulla tradizione degli ‘Eroticon Libri’ di Tito Vespasiano Strozzi, «Filologia italiana», I (2004), pp. 89-112. 19 Cfr. I. Verziagi, Per Costanza Costabili… cit., pp. 96-97. 17
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«Toscan Phylippo» non dovrà essere identificato con Filippo de Vadis de Pisis, cui hanno pensato, indipendentemente l’uno dall’altra, Pantani e Verziagi,20 ma con il fiorentino Filippo Lapaccini,21 un rimatore almeno lievemente più noto, sul quale comunque occorre portare nuova luce, data la frammentarietà delle notizie in nostro possesso, e dato che quanto a tutt’oggi esiste su di lui richiede una revisione profonda,22 come emerge anche dai lavori condotti da Maria Silvia Rati, che sta attendendo all’edizione critica del corpus del Lapaccini.23 La presenza di testi indirizzati a Filippo Lapaccini si spiega bene pensando che costui fu autore di un pometto in terzine dedicato all’armeggeria di Bartolomeo Benci, una sorta di corteggiamento cavalleresco messo in scena a Firenze durante il carnevale del 1464 in onore di Marietta Strozzi,24 quella stessa Marietta che
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Cfr. I. Pantani, «La fonte d’ogni eloquenzia»… cit., p. 357 e I. Verziagi, Per Costanza Costabili… cit., pp. 97-98. 21 L’acrostico potrebbe essere completato ipotizzando che la prima c dipenda da una correzione del testo al momento del suo inserimento nella raccolta (il v. 11 suona «che ardisca judicar de dui perfecti»). 22 In più punti imprecisa è ad esempio la voce Lapaccini (Lapaccino; Lapacino), Filippo di P. Falzone, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXIII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana 2004, pp. 693-695. 23 Cfr. M.S. Rati, Problemi di variazione in un poeta tardoquattrocentesco: Filippo Lapaccini e il ‘Certamen inter Hannibalem et Alexandrum ac Scipionem Aphricanum’, presentata all’XI Congresso della Società Internazionale di Linguistica e Filologia italiana (Napoli, 5-7 ottobre 2010): ringrazio l’autrice per la gentilezza con cui mi ha concesso la lettura della sua relazione prima della pubblicazione degli atti, e Andrea Canova per alcune indicazioni bibliografiche su Lapaccini, messe a frutto nell’introduzione alla mia edizione. 24 Il poemetto si legge nel t. II della raccolta dei Lirici toscani del Quattrocento, a cura di A. Lanza, Roma, Bulzoni 1975, che contiene la canzone dell’Isoldiano (Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 1739) L’excelsa fama toa pel mondo sparsa; i sonetti Bongianni, i’ fu’ l’altr’ier messo in prigione e Di Luca Pitti ho visto la muraglia, tràditi dalla ben nota miscellanea di Filippo Scarlatti (studiata da E. Pasquini, Il codice di Filippo Scarlatti (Firenze, Biblioteca Venturi Ginori Lisci, 3), «Studi di filologia italiana», XXII [1964], pp. 363-580) e dal ms. della Biblioteca Ambrosiana, C 35 sup.; il sonetto Lieto prendea riposo ad una fonte, che si trova nel ms. II.1.11 della Biblioteca Civica Berio di Genova e nel ms. H.XI.54 della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena. In un regesto personale e sommario, segnalo che in quest’ultimo ms. si trova anche il sonetto di proposta Spirto gentile, ingegno ornato e divo, a cui rispondono Antonio di Tuccio Manetti e Feo Belcari (Lanza pubblica solo la risposta del secondo, però dal ms. Magliabechiano VII 690, nel t. I, nella sezione dedicata al Belcari). Sempre nel codice senese si leggono le corrispondenze di Filippo con gli oscuri Galeotto da Rimini e Francesco Cagnoli (per cui cfr. F. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico, Firenze, Le Lettere 1977, p. 684). Su Marietta e sull’armeggeria, cfr. in particolare P. Ventrone, Simonetta Vespucci e la metamorfosi dell’immagine della donna nella Firenze dei primi Medici, in G. Lazzi – P. Ventrone, Simonetta Vespucci. La nascita della Venere fiorentina, Firenze, III. I periodi della letteratura degli Italiani
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sarebbe andata in sposa nel 1471 al grande amico e favorito di Borso, Teofilo Calcagnini, e che figura come la destinataria, insieme a Ginevra Strozzi, della canz. 22 e del son. 60 del secondo degli Amorum libri, finendo per presentarsi come un nume tutelare della sezione del canzoniere boiardesco posta tra i due testi e forse anche del terzo libro.25 Non sembra un caso che le iniziali dei primi cinque versi del son. 362 compongano il nome MARIA. I tre sonetti, che sembrerebbero fare riferimento proprio al poemetto per l’armeggeria, danno quindi ulteriore rilievo ai rapporti del nostro autore con la famiglia Strozzi, e individuano allo stesso tempo un motivo di vicinanza al Boiardo degli Amorum libri che si aggiunge a quelli già messi in luce in studi precedenti.26 Come si vede, dunque, già da un esame ravvicinato del codice emergono alcuni elementi importanti, che possono aiutare a comprendere meglio le vicende del testo, anche in relazione a quelle dell’autore. Il profilo di quest’ultimo, come è già stato detto in particolare da Verziagi,27 rifacendosi a parole di Tissoni Benvenuti, appare assimilabile per appartenenza sociale (probabilmente la «piccola aristocrazia terriera emiliana») e funzioni (probabilmente «diplomatico-militar-cortigiane») a quello di un personaggio come Nicolò da Correggio. Per ricostruirne l’identikit sono fondamentali i frequenti spostamenti registrati nella raccolta, che toccano senz’altro Venezia, Firenze (131), Roma e Napoli (342); attraversano in più occasioni un inospitale paesaggio montuoso (si veda 107-118 e 333-334), e tracciano anche una idrografia dell’Emilia, che oltre al Po (120-121; 210-211; 271), coinvolge diversi corsi d’acqua: in ordine di apparizione, Scoltenna (250), Secchia (252), Tresinaro (255), Reno (332), Panaro e Foscaia (403-404), così da far pensare tal-
Polistampa 2007, pp. 5-59; M. Martelli, Nota a Naldo Naldi, ‘Elegiarum’, I 26 54, «Interpres», III (1980), pp. 245-254; P. Orvieto, Carnevale e feste fiorentine del tempo di Lorenzo de’ Medici, in Passare il tempo. La letteratura del gioco e dell’intrattenimento dal XII al XVI secolo. Atti del Convegno di Pienza, 10-14 settembre 1991, Roma, Salerno 1993, t. I, pp. 161-188; F. Cardini, L’acciar de’ cavalieri. Studi sulla cavalleria nel mondo toscano e italico (secc. XII-XV), Firenze, Le Lettere 1997, pp. 123-133. Cfr. anche L. Fabbri, Alleanza matrimoniale e patriziato nella Firenze del ’400, Firenze, Olschki 1991; Id., Da Firenze a Ferrara. Gli Strozzi tra casa d’Este e antichi legami di sangue, in Alla corte degli Estensi. Filosofia, arte e cultura a Ferrara nei secoli XV e XVI. Atti del Convegno internazionale di studi, Ferrara, 5-7 marzo 1992, Ferrara, Università degli Studi 1994, pp. 91-108. Colgo l’occasione per ringraziare Lorenzo Fabbri, con cui ho avuto proficui scambi utili per la mia ricerca. 25 Cfr. Zanato in M.M. Boiardo, Amorum libri tres cit., ad loc. 26 Al riguardo, cfr. soprattutto G. Dilemmi, ‘L’amico del Boiardo’… cit.; il commento di T. Zanato a M.M. Boiardo, Amorum libri tres cit.; G. Baldassari, Presenze delle disperse petrarchesche negli ‘Amores’ di Boiardo, in Estravaganti, disperse, apocrifi petrarcheschi. Gargnano del Garda (25-27 settembre 2006), a cura di C. B. e Paola Vecchi Galli, Bologna, Cisalpino 2007, pp. 419-450: 443-446. 27 I. Verziagi, Per Costanza Costabili… cit., p. 93. Poesia e politica fra Duecento e Cinquecento
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volta – è un’idea embrionale che mi permetto di suggerire in questa sede – che le attività dell’autore possano avere anche a che fare con le opere di controllo delle acque dei signori estensi. Evidente è anche il rapporto di subalternità, direi di netta subalternità, a un “signore”, fin dalle prime fasi della raccolta: lo documentano i testi in cui il poeta lamenta di essere stato «sbandito» da «quel signore / nel cui bel pecto ogni virtù riposa» e di essere costretto «de habitare altrove […] da chi n’ha forza in mano» (44), che potrebbe essere allusione a un esilio non solo metaforico; o passaggi che sottolineano l’attesa di guadagni e “avanzamenti di carriera” (102, 12-14; 103, 9-11) o sottolineano la repentinità della missione e la necessità di rispondere prontamente ai «rechiami» del «signor excelso» (143), il quale «in vano / non lasserà col tempo el mio sperare» (144, 3-4). Emergono dunque i segni di una condizione incerta, facilmente soggetta a possibili rovesci, per cui i componimenti di carattere encomiastico saranno stati dettati e condizionati anche da ragioni di opportunità contingenti. Su questo piano, come su quello dei contatti al di fuori di Ferrara del nostro autore, oltre al gruppo di sonetti che rimandano al fiorentino (poi però passato al servizio dei Gonzaga) Lapaccini, desta interesse una canzone che richiederebbe un’attenzione specifica, la numero 385, scritta in morte di una donna, che sicuramente non è l’amata o una delle amate del poeta. Antonia Tissoni Benvenuti, secondo quanto riportato da Irene Verziagi,28 ha suggerito che si tratti di Dorotea Gonzaga, morta nell’aprile del 1467 e pianta anche da altri, tra cui Nicolò da Correggio (Rime extravaganti XXXVI, Morta è quella aurea e diva Doritea). Dorotea in effetti è la candidata più credibile, se non l’unica che possa essere presa in considerazione. Essa fu la sfortunata protagonista di una lunga vicenda, che la vide prima promessa sposa di Galeazzo Maria Sforza al posto della sorella Susanna, poi vittima delle macchinazioni del signore di Milano, che con la prospettiva di alleanze matrimoniali più vantaggiose cercò un pretesto per sciogliere il vincolo, esigendo che Dorotea fosse sottoposta a visite mediche giudicate umilianti dai Gonzaga.29 La giovane, essendo destinata a diventare moglie di un duca, è perfetta nel ruolo di «… collei che de mondane / cose caduche e vane / esser dovea duchessa» (vv. 133-35). Difficilmente il titolo di “duchessa” sarà stato usato senza un preciso riferimento.30 In ogni caso, il testo è scritto quasi certamente per una donna non fer-
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Cfr. ivi, p. 94. Cfr. M. Bellonci, Piccolo romanzo di Dorotea Gonzaga, «Nuova Antologia», CDXXII (1942), pp. 36-45 e 92-99. Un racconto sintetico delle vicende legate al fidanzamento tra Galeazzo Maria e Dorotea è in R. Signorini, Opus hoc tenue. La camera dipinta di Andrea Mantegna. Lettura storica iconografica iconologica, Mantova, Artegrafica Silva Parma 1985, pp. 4752. 30 Un’alternativa che ho preso in considerazione è che il personaggio compianto possa 29
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rarese.31 Sembra improbabile infatti l’identificazione con una supposta fidanzata di Borso o di Ercole. Di Borso è ben nota la castità, o quantomeno il tentativo di fare della castità uno degli elementi fondamentali della propria immagine,32 ed è certo che egli non volle complicare ulteriormente le già intricate questioni dinastiche degli Estensi, per cui si hanno notizie molto incerte di suoi possibili figli.33 Per quanto concerne Ercole, pare che non vi siano trattative matrimoniali che lo riguardano prima della presa del potere e del fidanzamento con Eleonora d’Aragona. Proprio il fidanzamento tra Ercole ed Eleonora è uno degli elementi chiave per leggere e comprendere l’ultimo gruppo di testi della raccolta che si riferiscono a un evento storico: la battaglia combattuta il 23 luglio del 1467 presso Molinella, nel territorio bolognese, in cui Ercole d’Este fu ferito da un colpo di schioppo, mentre combatteva al soldo della repubblica di Venezia nell’esercito di Bartolomeo Colleoni, contro un’alleanza che comprendeva il ducato di Milano, Firenze e il regno di Napoli. Nella canz. 409 del canzoniere Costabili parla probabilmente la città di Ferrara in persona, raffigurata come una madre che piange la sorte del figlio e che chiede a Giove di ridare a quest’ultimo la salute. Nei seguenti 410 e in 411 il poeta deplora invece l’accanirsi dei nemici (cioè, secondo il mito, Giunone, Eolo ed Euristeo), scontenti perché il principe estense si sta avviando alla guarigione. A questo trittico si riallaccia un testo successivo, il son. 450, che, data anche la
essere l’effettiva duchessa di Milano, Bianca Maria Visconti, vedova di Francesco Sforza, morta il 24 ottobre 1468 a Cremona; il Diario ferrarese dall’anno 1409 sino al 1502 di autori incerti, a cura di G. Pardi, 2 voll., Bologna, Zanichelli 1928-1937, I, pp. 52-53 attesta la costernazione provata da Borso, che era legato da amicizia a Bianca Maria, e il coinvolgimento nelle manifestazioni di lutto di Paolo Costabili e Nicolò Strozzi, cioè di due insigni rappresentanti delle famiglie più vicine al nostro poeta. Tuttavia, per limitarsi al passo che ho citato, sia l’imperfetto dovea (da intendere come un condizionale) sia l’insistenza, per quanto topica, sulla crudeltà di una morte prematura (cfr. ad es. i vv. 70-72: «… i fati / che troppo l’han per tempo e a torto priva / de la innocente sua terrestre diva») portano a escludere la candidatura di Bianca Maria. 31 Non affronto qui il problema dell’identificazione della voce che parla nel testo, in prima persona e al femminile. Credo comunque che la soluzione più probabile sia che si tratti della città di Mantova personificata (se è giusta l’ipotesi proposta). 32 Cfr. M. Folin, Borso a Schifanoia: il Salone dei Mesi come “speculum principis”, in Il Palazzo Schifanoia a Ferrara cit., pp. 9-49: in particolare pp. 17; 25-27; 309. 33 L. Chiappini, Gli Estensi. Mille anni di storia, Ferrara, Corbo 2001, pp. 158-159 scrive che «da un documento incontrovertibile dell’Archivio Estense si apprende di una sua figlia Bartolomea, avuta da Maddalena Anzeleri sua ancella e già prossima alla pubertà nel 1453, e da altro dello stesso Archivio parrebbe doversi dedurre l’esistenza di un figlio. In ogni caso appare assai significativa la costumatezza da lui pretesa ed imposta all’ambiente di Corte, in genere così equivoco e compromesso». Poesia e politica fra Duecento e Cinquecento
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distanza nella raccolta dai precedenti, potrebbe riferisi alla prima uscita pubblica e al primo viaggio di Ercole dopo il ferimento, nell’aprile del 1468, viaggio che ebbe come destinazione Venezia.34 Ora, nei limiti imposti in questa sede, a me preme rilevare soprattutto che questi testi, e in particolare il son. 450, costituiscono una chiara presa di posizione a favore della successione di Ercole a Borso: Ercole è «collui / che al buon duca de Athene perregrino / dé succeder nel regno per destino» (450, 1-3). All’altezza del 1467-’68, la questione della successione a Borso era tutt’altro che chiara. In lizza si trovavano come noto Ercole, appunto, che era figlio legittimo di Nicolò III, e nato, come Sigismondo, dal terzo matrimonio del marchese d’Este, e Nicolò di Leonello, figlio del “principe-umanista” che lo stesso Nicolò III aveva nominato proprio erede universale. Nel 1471 i due si contesero il ducato. Ercole riuscì a prendere il potere grazie al decisivo appoggio dei Veneziani e al fatto che Nicolò si era allontanato da Ferrara e si era recato a Mantova, presso i Gonzaga, suoi parenti per parte di madre.35 La presa di posizione dell’ignoto autore a favore di Ercole non stupisce pensando al Boiardo dei Pastoralia e dei Carmina in Herculem, secondo il titolo finalmente adottato da Francesco Tissoni, il quale, rilevando che tra i sostenitori di Nicolò di Leonello figurava ad esempio un personaggio insigne della cultura estense come Battista Guarino, parla di «una scelta di campo» da parte di Boiardo, di un vero e proprio «impegno politico», un impegno manifestato anche dagli Epigrammata, che celebrano la sconfitta della “vela” di Nicolò di Leonello ad opera del “diamante” di Ercole, probabilmente nel 1471.36 Nel caso del nostro autore, però, si può sospettare che il suo appoggio a Ercole non sia stato così precoce e incondizionato, o quantomeno che egli abbia sentito l’esigenza di accreditare e ribadire la propria antica fedeltà a Ercole stesso dopo che questi era divenuto il nuovo duca di Ferrara. Sono due gli elementi che mi inducono a formulare questa ipotesi. Innnanzitutto, i testi 409-411 e 450, così come la canz. 385, fanno parte di una sequenza di
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Cfr. per queste vicende i racconti contenuti in Diario ferrarese… cit., pp. 48-50, e L.A. Muratori, Delle antichità estensi ed italiane, testi introduttivi di A. Vecchi e M. Vellani, 2 voll., Vignola, Cassa di Risparmio di Vignola 1987-88, II, p. 220. 35 Per una ricostruzione delle vicende dinastiche, cfr. J. Fair Bestor, Gli illegittimi e beneficiati della Casa estense, in Storia di Ferrara, VI, Il Rinascimento. Situazioni e personaggi, coordinamento scientifico di A. Prosperi, Ferrara, Corbo 2000, pp. 78-101: 78-80; E. Milano, Casa d’Este dall’anno Mille al 1598, in Gli Estensi, prima parte. La Corte di Ferrara, a cura di R. Iotti, Modena, Il Bulino 1997, pp. 9-93: 55. 36 Cfr. M.M. Boiardo, Pastoralia, Carmina, Epigrammata, a cura di S. Carrai e F. Tissoni, Novara, Interlinea 2010, pp. 181 e 265. III. I periodi della letteratura degli Italiani
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111 componimenti (382-492),37 che ha tutta l’aria di essere l’esito di una giunta a una prima redazione compiuta del canzoniere. All’altezza dei sonetti 380 e 381 si trova infatti un duplice congedo, con l’invio del «libreto» all’amata, e con il saluto a un pubblico di donne, «dive mie».38 L’impressione è confermata dal fatto che gli ultimi 111 testi presentano alcuni tratti comuni e distintivi. Si ha sia un esplicitarsi della pluralità di figure femminili sia una crescita significativa dei testi occasionati da piccoli doni, come fiori o frutti.39 Siamo cioè già proiettati nel clima della lirica “cortigiana” per eccellenza, con la sua spicciola occasionalità mondana. Anche sul piano metrico, si registra una significativa variazione nella distribuzione degli schemi dei sonetti.40 Ora, la presenza dei testi per Ercole in questa zona della raccolta potrebbe essere legata semplicemente a un crescente coinvolgimento dell’autore nelle vicende pubbliche dello stato estense, così come a una sua immersione progressiva in un clima cortigiano. Difatti i componimenti non amorosi sono concentrati nella seconda metà della raccolta: le canzoni sulla peste come detto sono ai nn. 258 e 266; vi sono poi i tre testi per la morte del «Constabil de gran pregio», posti ai nn. 317-319; e la canz. 385, la serie 409-411, il son. 450, nonché i sonetti per Lapaccini ai nn. 362-364.41 Un’ipotesi più audace potrebbe essere suggerita però dal secondo elemento su cui mi preme porre l’attezione. Nella quinta stanza della canz. 409 (vv. 61-75), si auspica che Ercole possa ricevere presto la sposa divina che gli era stata promessa, cioè, secondo il classico parallelismo encomiastico con l’Ercole mitico,42 Ebe (con grafia latineggiante e ipercorrettismo Hebbe):
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A parte va considerato il son. 493, aggiunto molto tardi dall’autore stesso, con l’intento, a mio avviso, di dotare la raccolta di una conclusione più compiuta. 38 Cfr. I. Pantani, «La fonte d’ogni eloquenzia»… cit., p. 373; T. Zanato, Il nome dell’amata… cit., p. 295. 39 Cfr. G. Dilemmi, ‘L’amico del Boiardo’… cit., p. 6; I. Pantani, «La fonte d’ogni eloquenzia»… cit., p. 379 n. 63. 40 Lo schema prevalente ABBA ABBA CDE CDE, che prima toccava una frequenza del 46,85%, da 382 in avanti scende fino al 34,86%. Al contrario il secondo schema, ABBA ABBA CDE DCE, passa dal 27,67% al 31,19%, e il quarto, ABBA ABBA CDC DCD, addirittura dall’1,37% al 7,34%. La fronte a rime alternate, prima presente solo a 183, nella giunta è utilizzata in ben cinque occasioni (nello spazio di trentun sonetti, da 432 a 462). 41 A questi testi occasionali si può aggiungere il son. 391, che pone un quesito amoroso a un poeta di nome Ercole (cfr. I. Pontani, «La fonte d’ogni eloquenzia» cit., p. 356 n. 11; I Verziaghi, Per Costanza Costabili cit., p. 90 n. 39). 42 Cfr. perlomeno A. Tissoni Benvenuti, Il mito di Ercole. Aspetti della ricezione dell’antico alla corte Estense nel primo Quattrocento, in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova, Editoriale Programma 1993, I, pp. 773-792; T. Matarrese, Il mito di Ercole a Ferrara nel Quattrocento tra letteratura e arti figurative, in L’ideale classico a Ferrara e in Italia nel Rinascimento, a cura di P. Castelli, Firenze, Poesia e politica fra Duecento e Cinquecento
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Ma poi che, o rectore alto de le stelle, cum molti giuramenti manifesti a me già promettesti dar triumphi e per donna Hebbe a costui, e poi che sol tu sei quello che presti salute a’ corpi e a l’alme topinelle, e già che per le belle tue gratie giù dal Cielo infuse in lui el se seppe sì ben da’ primi dui casi guardare, hor che più tardi e aspecti in dargli la promessa dea per sposa? Aciò che l’angososa mia vita torni a’ soi felici effecti, più non tardare hormai. Deh, monstra presto la tua possanza al mio cor tristo e mesto!
Il testo si riferisce a un fidanzamento già avviato, che sta subendo un ritardo, e poiché si parla dell’unione del semidio Ercole con una dea, Ebe, viene naturale pensare al matrimonio con Eleonora d’Aragona, che implicava l’imparentamento con una casata così importante come quella che regnava su Napoli. Del resto, come ho già detto, non si ha notizia di alcun altro fidanzamento di Ercole. In realtà, allo stato attuale, non sembra neanche che all’altezza del 1467-1468 ci potesse essere qualche accordo per un matrimonio con Eleonora: allora Ercole era ben lontano da poter garantire un ducato a una futura moglie; inoltre, come si è visto, era molto vicino a Venezia, mentre aveva qualcosa da farsi perdonare dagli Aragona, alla cui corte aveva vissuto dal 1445 al 1460, per appoggiare poi con un voltafaccia le rivendicazioni francesi sul regno di Napoli, e quindi Giovanni d’Angiò, e tornare a Ferrara con Sigismondo nel 1463, quando le ambizioni filofrancesi di Borso si erano rivelate vane.43 Per di più Eleonora, come Dorotea, fu al centro di una complessa vicenda che ancora una volta chiama in causa gli Sforza. Nel 1465, a quindici anni, essa si sposò a Napoli con Sforza Maria Sforza, il figlio di Francesco, con l’accordo che il matrimonio sarebbe stato consumato a Milano qualche mese dopo. Ciò però non avvenne perché le trattative tra i due Stati non vennero perfezionate, anche a causa della successione di Galeazzo Maria Sforza al ducato di Milano. Alla fine entrambe
Olschki 1998, pp. 191-203; C. Montagnani, Fra mito e magia: le ambages dei cavalieri boiardeschi, «Rivista di letteratura italiana», VIII (1990), pp. 261-285; B. Guthmüller, Ercole e il leone nemeo. Bucolica e politica nelle ‘Pastorali’ di Boiardo (2008), in Id., Mito e metamorfosi nella letteratura italiana. Da Dante al Rinascimento, Roma, Carocci 2009, pp. 192-207. 43 Cfr. T. Dean, voce Ercole I d’Este, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana 1993, pp. 97-107. III. I periodi della letteratura degli Italiani
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le parti convennero per un annullamento. Solo nel 1472, a quanto pare, si avviarono e perfezionarono le trattative per un matrimonio tra Eleonora ed Ercole d’Este, piano che prevedeva che quest’ultimo venisse coinvolto in una politica di pace con Milano e che incontrò qualche difficoltà sia perché Sforza Maria acconsentì alla rinuncia solo il 12 ottobre 1472, sia perché Ercole «che aveva qualche motivo di attrito con gli Sforza, in principio si mostrò alquanto riluttante ad aderire all’impegno, garantito peraltro personalmente dal re Ferdinando, di una politica di pace e distensione con Milano»; per cui «i patti matrimoniali furono firmati solo il 1° nov. 1472».44 Insomma, la canzone 409 dell’anonimo sembra recare il segno di un evento ben posteriore alla battaglia della Molinella. Non penso che essa possa essere stata composta ex novo nel 1472 o dopo, come se fosse stata scritta nel 1467 o 1468. Più probabilmente sarà stata ritoccata, magari per l’inserimento nel canzoniere, in un momento in cui all’autore parve opportuno aggiungere un’allusione e un segno di partecipazione alle vicende matrimoniali di Ercole. Questa ipotesi trova riscontro in un dato testuale quasi inequivocabile: gli ultimi due versi della quarta stanza («e ben che ciò cum gloria sua sia facto, / pur non di meno a morte io l’ho piagato», vv. 59-60) e il primo della sesta («Facta non è sua miserabil piaga», v. 76) si richiamano così strettamente e per un elemento – la piaga di Ercole – così significativo nel testo, da far pensare che fossero originariamente a contatto e che la quinta stanza sia frutto di un’aggiunta posteriore. L’idea che l’autore abbia avvertito nel corso del tempo l’esigenza di rimarcare la propria “appartenenza” politica per ragioni di opportunità, come la vicinanza ai Costabili e la propria fedeltà a Ercole, è dunque favorita da diversi elementi testuali: dalla variante del son. 179 alle probabili stratificazioni redazionali di un sigolo testo – la canz. 409 – così come della raccolta intera. Un ulteriore dato a favore di questo quadro potrebbe venire dal son. 388, che si trova dunque sempre nella “centuria” finale: Deh, perché adesso usar tanta dureza,
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Cfr. P. Messina, voce Eleonora d’Aragona, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana 1993, pp. 404-410. Come ho detto, nella canz. 409 viene data la parola probabilmente alla città di Ferrara in persona, che parla come fosse la madre di Ercole, tuttavia è singolare che testimonianze antiche ci dicano che il fidanzamento del futuro duca fu sollecitato proprio dalla madre, Rizzarda di Saluzzo, la terza moglie di Niccolò III d’Este, che allontanata da Ferrara da Leonello nel 1443, vi fece ritorno solo dopo che Ercole ebbe preso il potere, morendo poco più tardi, nel 1474 (cfr. L. Olivi, Delle nozze di Ercole I d’Este con Eleonora d’Aragona, In Modena, coi tipi della società tipografica Antica Tipografia Soliani 1887). Poesia e politica fra Duecento e Cinquecento
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ingrata nympha, e sì turbato aspecto al poverel tuo servo, dal cui pecto mai non serà ch’el manchi tua adorneza? A che gli prieghi soi senza altereza non exaudire? A che el tuo buon subiecto tractar in tal maniera, e d’altro effecto esser che non parea la tua belleza?
Come in molte altre occasioni, il poeta chiede all’amata di abbandonare il proprio sdegnoso e crudele atteggiamento. Tuttavia, in questo caso la ragione di tanta sofferenza potrebbe non essere una donna. I versi qui citati compongono in acrostico la parola DIAMANTE. Naturalmente potrebbe trattarsi di un nome di persona, ma si può almeno suggestivamente pensare che il poeta alluda qui all’impresa di Ercole, l’impresa del diamante, celebrata nella stessa canz. 409. Sicché, sotto l’apparenza di un testo amoroso, potrebbe celarsi la testimonianza di una qualche difficoltà con il signore estense. Se così fosse, avremmo una conferma ulteriore del fatto che l’analisi del testo, in tutte le sue componenti, è il modo migliore per comprendere anche ciò che sta al di là del testo stesso.
III. I periodi della letteratura degli Italiani
CANZONIERI DELL’ITALIA RINASCIMENTALE
DAVIDE ESPOSITO Autobiografismo e intertestualità nel canzoniere di Domizio Brocardo
Il canzoniere di Domizio Brocardo (1380ca-1457ca), poeta padovano attivo nella prima metà del Quattrocento, è una delle prime raccolte di rime post-petrarchesche organicamente strutturate con l’obiettivo di costituire un liber unitario, dall’impianto narrativo saldo e ben riconoscibile, seppur con alcune incoerenze che emergono, a tratti, lungo la storia da esso delineata. Le tappe che ne scandiscono la storia ricalcano, in buona parte, l’itinerario dei Rerum vulgarium fragmenta (d’ora in poi, RVF), al cui modello il Brocardo si accosta anche sul piano linguistico, rivelandosi, sulla base dei riferimenti cronologici a nostra disposizione, come uno dei primi protagonisti di «quell’incontro decisivo con Petrarca […] avvenuto, all’inizio del secolo, in Toscana e nel Veneto»,1 e che coinvolse rimatori come Buonaccorso da Montemagno il Giovane, Niccolò Tinucci e Mariotto Davanzati, l’aretino fiorentinizzato Rosello Roselli e il veneziano Marco Piacentini. Si tratta di una serie di autori che con la loro attività poetica hanno dato vita a una vera e propria «avanguardia petrarchista di metà ’400»,2 all’interno della quale emerge con evidenza il ruolo pioneristico svolto da Domizio. Considerando infatti che i testi in morte della figlia Ziliola, gli ultimi del canzoniere brocardesco (e dunque tra gli ultimi da lui composti, fatti salvi quelli in morte della «cara consorte», scomparsa anni dopo), non possono che risalire a tempi immediatamente successivi a quel tragico
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Cfr. M. Santagata, Dalla lirica cortese alla lirica cortigiana. Appunti per una storia, in M. Santagata – S. Carrai, La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Franco Angeli 1993, pp. 11-30, a p. 18; lo studio è stato ripubblicato con il titolo Dalla lirica “cortese” alla lirica “cortigiana” in M. Santagata, I due cominciamenti della lirica italiana, Pisa, ETS 2006, pp. 87-113. 2 Cfr. I. Pantani, Le corrispondenze poetiche nell’avanguardia petrarchista di metà ’400, in Il petrarchismo: un modello di poesia per l’Europa, a cura di F. Calitti e R. Gigliucci, Roma, Bulzoni 2006, vol. II, pp. 305-327. Canzonieri dell’Italia rinascimentale
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evento, verificatosi il 10 ottobre 1428 («Mille vintotto e quattrocento […] / di decimo d’ottubrio incontinente, / Morte colse quel fior», CXV O, vv. 1, 3-4),3 e che la corrispondenza poetica con Malatesta Malatesti (LVIIa-LVIII), morto nel 1429, deve essere ovviamente collocata in tempi anteriori, risulta subito evidente come la sua opera sia da considerarsi, almeno in gran parte, anteriore a quella del maggior poeta petrarchista della prima metà del secolo, Giusto de’ Conti di Valmontone, la cui produzione «rimanda […] prevalentemente alla seconda metà degli anni ’30».4 L’opera del Conti, tra l’altro, ha notevolmente influenzato quella di un altro cultore quattrocentesco della forma-canzoniere, Matteo Maria Boiardo,5
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Le citazioni dal canzoniere di Domizio Brocardo sono prelevate dal testo da me provvisoriamente approntato in vista dell’edizione critica, da cui riprendo anche la numerazione dei vari componimenti. Concentrandomi sull’area della tradizione a cui appartengono i quattro testimoni complessivi della raccolta (1. Milano, Biblioteca Trivulziana, 1018 [T1]; 2. Parigi, Bibl. Nationale, Ital. 1084 [PN]; 3. Pesaro, Bibl. Oliveriana, 666 [O]; 4. Siena, Bibl. Comunale, I. VII. 15 [S]) ho potuto constatare, dal confronto tra gli errori che li caratterizza, la presenza di un archetipo x da cui derivano due rami, uno rappresentato dal solo O, l’altro da T1, y, dal quale a loro volta discendono T1 e z, capostipite di S e PN, rispetto ai quali T1 risulta di gran lunga più affidabile. Dal confronto tra T1 e O è emersa la maggiore autorevolezza del primo, al quale ho deciso di affidarmi come manoscritto di riferimento; ho optato per la lezione di O solamente nei pochi casi in cui essa si è dimostrata manifestamente superiore a quella di T1. Tra i testimoni parziali della raccolta, in tutto ventiquattro, particolarmente degno di nota risulta il ms. 541 della Biblioteca Universitaria di Padova [P], in cui abbiamo ben 69 testi brocardeschi, tre dei quali trascritti due volte con alcune varianti (per un totale di 72 componimenti); il manoscritto, grazie a una sottoscrizione del copista delle poesie di Domizio, rimanda a un termine cronologico non successivo al 24 agosto 1432 (naturalmente per quanto riguarda la sezione brocardesca, trattandosi di una miscellanea). 4 Cfr. I. Pantani, «La fonte d’ogni eloquenzia». Il canzoniere petrarchesco nella cultura poetica del Quattrocento ferrarese, Roma, Bulzoni 2002, p. 205, n. 89. Un’ulteriore prova in questa direzione ci è fornita, tra l’altro, da una trascrizione autografa della nota obituaria di Laura del Petrarca realizzata dal Brocardo in data 18 dicembre 1433, conservata dal ms. 7.5.27 della Biblioteca Capitular y Colombina di Siviglia (c. 13r), così sottoscritta dal poeta: «Suprascripta omnia ut iacent scripta sunt manu propria famosissimi vatis laureati domini Francisci Petrarce in custostia [sic] Virgilii eiusdem scripti eiusdem manu propria cum Servio circumquaque in libraria civitatis Papie de verbo ad verbum prout iacent que omnia ad eternam rei memoriam hic trasscripssi ego Domitius de Brocardis manu mea propria de anno Domini 1433 die veneris XVIII mensis decembris» (cfr. P. O. Kristeller, Iter Italicum, Londra, The Warburg institute, Leiden [ecc.], E. J. Brill 1989, vol. IV, p. 628 a). 5 Cfr., al riguardo, P. V. Mengaldo, La lingua del Boiardo lirico, Firenze, Olschki 1963, pp. 336-39, e passim; I. Pantani, L’amoroso messer Giusto da Valmontone. Un protagonista della lirica italiana del XV secolo, Roma, Salerno Editrice 2006, p. 109 e n. 49; T. Zanato, Giusto e gli ‘Amorum libri’ di Boiardo, in Giusto de’ Conti di Valmontone. Un protagonista della poesia italiana del ’400, Atti del I Convegno nazionale di studi, Valmontone, 5-6 ottobre 2006, a cura di I. Pantani, Roma, Bulzoni 2008, pp. 243-282. III. I periodi della letteratura degli Italiani
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ricco anch’egli, come vedremo tra poco, di memorie brocardesche. L’opera di Domizio appare dunque snodo cruciale per comprendere il fenomeno dell’imitazione petrarchesca in area veneto-padana, oltre che nei comprensori limitrofi che a quell’area geografica facevano riferimento. A riprova, per un primo sondaggio sulla fortuna delle sue rime, può essere utile presentare una rapida rassegna di citazioni e riprese di espressioni brocardesche, qui limitata a un campione di dieci testi liberamente selezionati all’interno del canzoniere del Brocardo:6 Sonetto I: 1 «Quando vede inchinar dal nostro polo»: cfr. Conti, 15, 1 «Quando dal nostro polo sparir sole». 14 «ma par che a pianger ognor pur m’ingegni»: cfr. Conti, 85, 8 «che par che a pianger sempre mi condanni». Sonetto VI: 2 «che hai la mia vita posta in bando»: cfr. Conti, 36, 66-67 «così m’ha posto in bando / d’ogni sperar costei del ciel Sirena»; 65, 12 «Ma lei, che d’ogni ben mi tiene in bando»; Poliziano, Rime, LXIX, 6 «ch’i’ son per dare alla mia vita bando»; Boiardo, Innamoramento de Orlando, II, III, 3, v. 6 («per sempre il pone della vita in bando»); II, XXIV, 26, v. 7 («era abattuto, de la vita in bando»). Sonetto X: 11 «ch’io non posso fuggir, né posso aitarme»: cfr. Boiardo, Amorum libri, II 32, 2 («né più posso fugir né aver diffesa»); III 3, 9 («Io no posso fugir, né fugir voglio»). Sonetto XIV: 4 «nogliosa e indisolubel salma»: cfr. I. Sannazaro, Sonetti e Canzoni, XLI, 82 «La vita, a lei noiosa e grave salma» (ma cfr. anche RVF LXXI, 79-80 «la qual ogni altra salma / di noiosi pensier’ disgombra allora»; CCLXXVIII, 13 «per far me stesso a me più grave salma»). Ballata XXXIII: 1 «Volzi omai toa pietate al mio tormento»: cfr. Lorenzo de’ Medici, Selve, I, 2 «abbiate omai pietà del mio tormento». 3-4 «e con toa pace aqueta il mio lamento. / Volzi i begli occhi a la mia crudel guerra»: cfr. Boiardo, Amorum libri, I 25, 15-16 «come alcia li ochi bei / per donar pace a la mia lunga guerra». 10 «mal che mal consento»: cfr. Conti, 143, 39 «che a tanto mal consenti». Sonetto XXXVIII: 10 «caduta ogni speranza»: cfr. Boiardo, Amorum libri, III 23, 3-4 «quella speranza che sì ben fioriva / come caduta è mo’ di tanta alteza!». «speranza […] ignuda»: cfr. I. Sannazaro, Arcadia, Prosa X, 11 «d’ogni speranza ignuda». Madrigale XLII: 6 «perché non lice omai passar il varco»: cfr. Boiardo, Amorum libri,
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Per la ricerca delle fonti e per l’analisi sulla fortuna del canzoniere brocardesco ho utilizzato i seguenti archivi elettronici: LIZ. Letteratura italiana Zanichelli, CD-Rom dei testi della letteratura italiana, a cura di P. Stoppelli ed E. Picchi, vers. 4.0, Bologna, Zanichelli 2001; ATL. Archivio della tradizione lirica. Da Petrarca a Marino, a cura di A. Quondam, Roma, Lexis 1997, ai quali rimando per le edizioni dei testi di volta in volta citati qui di seguito e nel resto dell’intervento, ad eccezione del Bucolicum carmen di Francesco Petrarca, assente in tali archivi e per il quale cito dall’edizione di T. T. Mattucci, Pisa, Giardini 1971. Segnalo inoltre che per le citazioni di Giusto de’ Conti, pur seguendo la più recente edizione disponibile (Il canzoniere, a cura di L. Vitetti, Lanciano, Carabba 19332), adotto la numerazione dei testi anticipata (in vista della prossima edizione critica) da Italo Pantani, L’amoroso messer… cit., pp. 225-31, mentre per il canzoniere boiardiano traggo le citazioni da M. M. Boiardo, Amorum libri tres, a cura di T. Zanato, Torino, Einaudi 1998. I corsivi sono tutti miei. Canzonieri dell’Italia rinascimentale
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III 14, 13 «che rotto ha il varco e il mio passar ingombra». 10 «lieto si gode, e brama star ardente»: cfr. Conti, 147, 2 «lieta si gode nell’amato ardore». Sonetto LVII: 5 «Già fui misero amante»: cfr. L. de’ Medici, Canzoniere, CXVII, 1. Sonetto LXXIII: 4 «che a meza notte un chiaro dì mi face»: cfr. A. Poliziano, Stanze per la giostra, I, 95, v. 3: «che chiaro giorno a meza notte accende». Sonetto CXXIII: 13 «[…] nogliosa e grave salma»: cfr. I. Sannazaro, Sonetti e Canzoni, XLI, 82 «La vita, a lei noiosa e grave salma».
Una così significativa presenza nel panorama lirico quattrocentesco merita sicuramente la nostra attenzione, evidenziando la necessità di un lavoro di recupero della produzione poetica brocardesca, priva nella sua quasi totalità di una qualsiasi edizione a stampa. Essa consta, alle nostre conoscenze attuali, di 132 componimenti: 109 sonetti, 2 canzoni, 5 sestine, 14 ballate e 2 madrigali (secondo un’architettura metrica che quindi ricalca, nelle dovute proporzioni, quella dei RVF). Essi vengono a costituire, in particolare nella successione dei testi tràdita dal manoscritto 1018 della Biblioteca Trivulziana di Milano (T1, il codice di riferimento per la mia edizione critica), una raccolta lirica che può essere suddivisa in tre sezioni: 1. La prima, che comprende i testi I-LXIII, racconta, sulla base del modello petrarchesco, l’amore del poeta per una donna di nome Galatea, ovviamente non corrisposto e continua fonte di sofferenza per il poeta; la donna, il cui nome compare in realtà solo nel componimento XXVI («Galatea, del mio petto il tuo bel nome / uscirà quando a l’aere i venti […] / mancheranno […]», vv. 1-4), muore nel sonetto LXIII («è levata da terra, e quei iocondi / pensier ch’i’ ebbi per lei, morte sospinse», vv. 3-4). 2. Dal testo successivo (LXIV, Quando l’orgoglio de la bella Lia) fino al CVI, vediamo Domizio già impegnato nell’amore verso un’altra donna, Lia, che entra subito in scena con il suo nome.7 Il rapporto con questa seconda amata è complesso, articolato: fatto per lo più di aspirazioni petrarchescamente deluse, ma anche, sulla base del modello boccacciano (cfr., in particolare, il Ninfale fiesolano) di contatti perfino carnali. Due aspetti meritano di essere subito evidenziati: la storia con Lia si conclude con il tradimento di quest’ultima («[…] questa ingrata ad altro amante spira. / Io veggio i traditori occhi falaci / rivolti altrove, e già da me diversi. / Per altrui langue e per altrui sospira, / per me son spinte l’amorose faci: / or maledetti sian tutti i miei versi!», CIV, 9-14),8 e con l’allontanamento del poeta da lei («ma la
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Il nome di Lia tornerà nei testi LXV, LXVI, LXXXII, CXX, XCIV O e XCVI O. Attraverso il tema della gelosia e del tradimento è possibile rintracciare una sorta di filo rosso che lega, con precisi riscontri testuali, il canzoniere del Brocardo a quelli del Conti e del Boiardo. Basta confrontare questi versi di Domizio con Giusto de’ Conti, 83, 9-11 («In questo il tempo perdo immaginando, / finché un pensier geloso il cor mi strugge, / che questa 8
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doglia infinita / de esser lontan da chi me ha tolto il core, / tien la mia vita priva / de ogni diletto», CVI, 23-26);9 una conclusione particolarmente amara, considerando che in ben due casi Lia viene qualificata come «consorte»: anche se «dura» nel sonetto LXVI (v. 10), «crudel» nell’LXXXVI (v. 3).10 3. La sezione che chiude la raccolta, e che non a caso il ms. T1 apre con la dida-
ingrata per altrui sospire»; corsivi miei), e con Matteo Maria Boiardo, Amorum libri, II 33, 5-11 («Pur vedo mo’ che per altrui sospira, / questa perfida falsa e traditrice; / pur mo’ lo vedo, né inganar me lice, / ché l’ochio mio dolente a forza il mira. / Hai donato ad altrui quel guardo fiso / che era sì mio ed io tanto di lui / che per star sieco son da me diviso?»; corsivi miei), per rendersi conto di come Domizio sia stato l’iniziatore di una triangolazione citazionale fervida di sviluppi per tutta la lirica quattrocentesca, in cui il tema in questione assume un rilievo notevole (sul tema della gelosia nella letteratura italiana del Quattrocento e del Cinquecento, tra gli studi più recenti, cfr. P. Cherchi, A dossier for the Study of Jeaulosy, in Eros and Anteros: the medical traditions of love in the Renaissance, a cura di D. A. Beecher e M. Ciavolella, Ottawa, Dovehouse 1992, pp. 123-134, e S. Prandi, «Ne le tenebre ancor vivrò beato»: variazioni tassiane sul tema della gelosia, in Mappe e letture. Studi in onore di Ezio Raimondi, a cura di A. Battistini, Bologna, il Mulino 1994, pp. 67-83; la dinamica intertestuale attiva tra i due passi appena ricordati di Giusto e Boiardo è già stata messa in luce, senza però riferimenti al ruolo di Domizio, da T. Zanato, Giusto e gli ‘Amorum libri’ di Boiardo cit., pp. 247-248). Segnalo, inoltre, che il sintagma contiano «pensier geloso» (v. 10) è anch’esso di derivazione brocardesca (cfr. XCIV, 9 «geloso pensier», nato in Lia nei confronti del poeta mentre poco dopo, come abbiamo visto, sarà lei a tradirlo), e che il verso 14 del sonetto CIV del Brocardo ha ispirato l’explicit di un altro sonetto del Conti, il XXXVII (cfr. i vv. 12-13 [corsivi miei]: «Che maledetta sia ogni mia fatica / le rime e i versi del mio lasso ingegno»). 9 I versi della canzone CVI appena citati sanciscono, in maniera definitiva (si tratta infatti dell’ultimo testo della sezione dedicata a Lia), una separazione che era stata già prospettata dal sonetto LXXIX, 1-2, 5 («El se aproxima el dì del mio dolore, / ché ’l se ne va la mia madonna cara / […] / El se parte el mio bene, e quello amore»), dopo che il sonetto LXXVIII, 9-11, vedeva il poeta impegnato a chiedersi «qual fallo o qual peccato è che conduce / a la amorosa morte i giorni mei». Per quanto riguarda il tema del distacco del poeta dalla sua amata, bisogna rilevare che esso è presente anche nel canzoniere di Giusto de’ Conti (cfr., in particolare, i sonetti 92 e 107), il quale poteva evidentemente ricavarlo, oltre che dai sonetti di lontananza dei RVF del Petrarca e dalle Rime e dalla narrativa predecameroniana del Boccaccio (Filocolo, Filostrato, Teseida, Elegia di madonna Fiammetta: cfr., su questo aspetto, G. Natali, La lezione di Boccaccio, in Giusto de’ Conti di Valmontone… cit., pp. 157-176, a pp. 159160), dall’opera del Brocardo. 10 «Io piango spesso, e dico a la mia Lia: / «Io moro!» […] / Onde ben vedo che dal signor mio, / né da la bella mia dura consorte, / non trovo pace […]» (LXVI, 3-4, 9-11); «questo mi fa la mia crudel consorte, / che tanto amai, per far quella immortale» (LXXXVI, 3-4). Va peraltro detto che anche Galatea, sempre a dimostrare l’atteggiamento sdegnoso della donna verso il poeta, è in un caso invocata con l’esclamazione «Oh mia dura consorte!» (XLIII, 64). Canzonieri dell’Italia rinascimentale
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scalia MORTIS,11 si propone come la più decisamente innovativa, poiché in essa il poeta piange la scomparsa non solo della «cara consorte» (CVII-CVIII, CXCXIV), ma anche del piccolo figlio Francesco (CIX) e dell’amata figlia Ziliola (CXV-CXXIII): con un originale subentrare del tema degli affetti familiari, propriamente autobiografico, a conclusione di un canzoniere d’amore. Come abbiamo in parte già accennato, ciascuna di queste tre sezioni si caratterizza per una cifra tematica e stilistica diversa, con conseguente variazione delle fonti utilizzate in relazione al variare della figura femminile al centro dell’attenzione, secondo un cammino di graduale allontanamento dalla fonte petrarchesca: se Galatea, a partire già dal nome, può essere facilmente accostata alla Laura del Petrarca (la quale, in Bucolicum carmen, XI, è appunto adombrata sotto il nome della ninfa amata da Polifemo), Lia, invece, presenta alcuni tratti decisamente boccacciani. Basterà porre a confronto due sonetti (nell’ordine, il XXVI e il LXV) dedicati a queste due donne per rendersi conto della distanza che le separa, in particolare sul piano delle fonti utilizzate per la loro rappresentazione: Galatea, del mio petto il tuo bel nome uscirà quando a l’aere i venti e al cielo nebbia, a la terra la rugiada e ’l gelo mancheranno, e al mio cor l’usate some. Ma spero cangiar prima e volto e chiome che da la nova forma del bel velo trove pietate, e quel ch’altrui mal celo si volga in pace da un suo «quanto» o un «come». Perché omai son ben presso al decimo anno ch’io vo seguendo lei de riva in riva, per volger soa durezza in qualche pace. Ma il mio Signor d’ogni sperar mi priva; ella il consente e sdegna la mia face, sì che non fia mia vita altro che afanno.12
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È bene subito segnalare, tuttavia, che dal confronto delle maiuscole della didascalia, scritta in capitale, con le iniziali delle strofe (anche queste in capitale), emerge con evidenza che essa è stata introdotta da una mano diversa rispetto a quella che ha trascritto le rime. Inoltre, lo spazio tra i testi CVI e CVII, fra i quali questa didascalia è stata aggiunta, è lo stesso che separa sempre gli altri componimenti del manoscritto: questo ci induce a concludere che essa non abbia nulla a che fare con l’architettura originaria del codice (al contrario del titolo che apre la sezione in morte della figlia Ziliola, «De morte Ziliole filie sue, Virginis pudicissime», vergato dalla stessa mano che ha copiato i testi). 12 Schema metrico: sonetto su 5 rime di schema ABBA ABBA CDE DEC. Varianti: 5 spero cangiar prima] pria spero cangiar O; 8 o un] o O; 9 Perché] Pero che O; son ben] son III. I periodi della letteratura degli Italiani
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Quel sacro, aventuroso e dolze loco, ove correndo gionsi la mia Lia, sempre in memoria dentro al cor mi fia, col mio Signor, al qual vittoria invoco. Le lacrime del duol, che a poco a poco sì caldamente di begli occhi uscia, femmi sentir, col lamentar ch’i’ udia, qual sia la fiamma del mio ardente foco. Poi che se vide in libertà sicura da le mie brazze, ov’io l’avea ristretta, ritenne il pianto, et io la mia ventura lodai del dolze mal che mi diletta; lei, cum fronte serena, ardente e oscura, soridendo giuroe farne vendetta.13
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O; decimo] setimo O. 1-2 «Galatea…uscirà»: cfr. F. Petrarca, Bucolicum carmen, XI, 98-99 «Tum nostro, Galathea, tuum de pectore nomen / Exibit». «bel nome»: cfr. RVF CLXXXVII, 13, CCXCVII, 13. 2 «a l’aere i venti»: cfr. RVF CCXVIII, 10. 2-4 «e al cielo / nebbia […] mancheranno»: cfr. RVF CXLIV, 2 («quando ’l ciel fosse più de nebbia scarco»); «la rugiada e ’l gelo»: cfr. RVF CXXVII, 59. 5 «spero…chiome»: cfr. RVF XXX, 25 («I’ temo di cangiar pria volto et chiome»). 6 «nova forma»: cfr. RVF CC, 6, CCXIV, 10. «bel velo»: cfr. RVF CXXVI, 39, CXXVII, 62, CXCIX, 12, CCCII, 11; F. Petrarca, Trionfi, TE, 142. 7 «trove pietate»: cfr. RVF I, 8. «quel…celo»: cfr. RVF CXCV, 8 «l’alta piaga amorosa, che mal celo». 8 «si volga in pace»: cfr. RVF CV, 67 («in pace vòlto»). 9 «ben presso al decimo anno»: cfr. RVF L, 55. 10 «seguendo lei»: cfr. RVF LIV, 4, CCCXIII, 7-8; F. Petrarca, Trionfi, TC III, 110. «de riva in riva»: cfr. RVF XXX, 29. 11 «volger soa durezza»: cfr. G. Boccaccio, Decameron, III, 6, 22 «voltata la sua durezza»; S. Serdini, Rime, LXXI, 72 «volger tua durezza». «qualche pace»: cfr. RVF CLXIV, 8. 14 «sì…afanno»: cfr. RVF CCCLXVI, 84 «non è stata mia vita altro ch’affanno». 13 Schema metrico: sonetto su 4 rime di schema ABBA ABBA CDC DCD. Apparato critico: 6 di] dei O. 1 «sacro…loco»: cfr. RVF CCXLIII, 14. 3 «sempre…fia»: cfr. F. Petrarca, Trionfi, TE, 140 «che la memoria anchora il cor accenna»; Vincenzo da Rimini, in Poesie musicali del Trecento, madr. I, 4 «Vostro dolor nel cor me fa memoria». 5 «Le lacrime del duol»: cfr. F. Sacchetti, Le sposizioni di Vangeli, Die IV, 9. 5-6 «che a poco a poco / […] uscia»: cfr. G. Boccaccio, Ninfale fiesolano, 181, v. 5. 7 «col…udia»: cfr. RVF CLVII, 6 «e ’l dolce amaro lamentar ch’i’ udiva». 8 «fiamma del […] foco»: cfr. G. Guinizzelli, Poesie, XVII, 11; Dante, Convivio, I, 12, 1. «ardente foco»: cfr. RVF CCCLII, 5. 9 «Poi…sicura»: cfr. G. Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia, IV, 262 «e in sicura libertà vivere». 10 «brazze…ristretta»: cfr. G. Boccaccio, Ninfale fiesolano, 242, vv. 1-2 «Africo tenea stretta nelle braccia / Mensola sua […]», 295, v. 5 «più stretta con le braccia allor la prende». 11 «ritenne il pianto»: cfr. Cino da Pistoia, Poesie, CXI, 31 «che dentro ritener non posso il pianto»; G. Boccaccio, Filocolo, I, 41 «non può ritenere in sé l’amaro pianto»; Id., Filostrato, IV, 14, vv. 7-8 «ma con fatica pur dentro ritenne / l’amore e ’l pianto […]», V, 12, v. 4 «né ritener poté la donna il pianto», V, 64, v. 4 «che ritener non posso dentro il pianto». 12 «dolze mal»: cfr. RVF CLXXXII, 10, CCV, 2, CCCXXI, 5. «mal…diletta»: cfr. RVF CCXXXIII, 11. 13 «fronte serena»: cfr. RVF CCXX, Canzonieri dell’Italia rinascimentale
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Mentre il sonetto XXVI si presenta come un sapiente mosaico di citazioni dai RVF (degno di nota, fra i vari riscontri, quello del v. 9, in cui un’informazione di carattere, per così dire, autobiografico, viene fornita attraverso un evidente richiamo a RVF L, 55 [«ben presso al decim’anno»]), nel quale si integra alla perfezione l’attacco mutuato da Bucolicum carmen, XI, 98-99 («Tum nostro, Galathea, tuum de pectore nomen / Exibit»), il sonetto LXV, oltre a proporci una figura femminile molto più mossa e caratterialmente complessa rispetto a Galatea, si distingue per alcune significative citazioni dal Boccaccio, in particolare ai vv. 5-6 e 10, dove il Ninfale fiesolano diviene l’opera di riferimento per la descrizione della leggera violenza operata dal poeta nei confronti di Lia (cfr., per i vv. 5-6, l’ottava 181, v. 5 e, per il v. 10, l’ottava 242, vv. 1-2), mentre il Filocolo (I, 41) e il Filostrato (IV, 14, vv. 7-8), al v. 11, forniscono il modello, anche linguistico, per la rappresentazione della donna che trattiene il pianto (portando con sé il riferimento a Cino da Pistoia, Poesie, CXI, 31). Soffermiamoci ora sulle due figure femminili che caratterizzano la sezione relativa agli affetti familiari, la «consorte» e la figlia Ziliola. Si tratta delle due donne sicuramente più originali rispetto al magisterio del Petrarca, nei cui RVF non troviamo alcun cenno di amore coniugale né tanto meno di amore paterno. Partiamo dunque dal sonetto che apre la sezione in morte della «consorte», il CVII, di cui trascrivo di seguito le quartine: Già vixi asai contento de mia sorte, senza alcun pianto e senza alcun sospiro; or de lacrime vivo, e de martiro, e rimedio al mio mal fora la morte. A pianger nacqui mia cara consorte, che al cor mi spense un sì dolze desiro; da i begli occhi ebbi un sì pietoso giro, che ancor par che me sani e riconforte.14
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In un contesto in cui l’autobiografia si veste, come già a XXVI, 9, di panni petrarcheschi (basti considerare i vv. 1-2, costruiti su RVF CCXXXI, 1-2, e il v. 5, i cui due emistichi si richiamano, nell’ordine, a RVF CXXX, 6 e a RVF CCCXI, 2), tanto più rilevante appare la memoria boccacciana del v. 4 (per il quale cfr. Filocolo, I, 29, oltre a Ninfale fiesolano, 186, vv. 7-8), che conferma la significativa presenza del Certaldese tra le fonti del Brocardo. Allo stesso modo importante è la citazione, nella dittologia verbale che chiude il v. 8, da un poeta come Francesco di Vannozzo (cfr. Rime, LXXIX, 10-11), padovano come Domizio, il quale in questo caso dimostra dunque una discreta attenzione verso la tradizione poetica della sua città, fortemente influenzata, tra l’altro, dalla lezione del Petrarca, che tra Padova e Arquà passò gli ultimi anni della sua vita (dal 1368 al 1374, anno della sua morte), dopo una breve permanenza negli anni 1361-62. Nell’ordinamento del canzoniere brocardesco, il testo successivo al CVII in cui compare nuovamente l’appellativo «consorte» è il CXVI (anche qui accompagnato dall’aggettivo «cara»), che ci proietta direttamente nella sezione in morte della figlia Ziliola: Cara consorte, le lusinge sante e i bei costumi de la figlia cara e’ chi fia mai che ti gli mostri, e chiara cum quella fede de sì calda amante? Morta è colei che ebbe tutte quante sue cure in noi, e diligenzia rara; gita ne è quella che la stanza amara lassciò de le fatiche suoe cotante. E noi ha lassati qui, miseri e soli, a pianger la sua morte e i nostri danni, di doglia e di memoria il cor pascendo. Io, poi che Morte tolto ha i miei figlioli, a l’empia mia fortuna l’arme rendo, che fu l’amaro fin di mei dolzi anni.15
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Schema metrico: sonetto su 5 rime di schema ABBA ABBA CDE CED. Varianti: 3 che] chi T1; ti] tu O; 9 ha lassati] lassati ha O. 1 «Cara consorte»: cfr. RVF CCCXI, 2. 2 «i…cara»: cfr. C. Davanzati, Rime, Son. L, 2-3 «come suoi figli possa mantenere / in bei costumi […]», Son. LI, 2 «in mantener suo figlio costumato / di bei costumi […]». Per «bei costumi» cfr. anche Dante, Convivio, Tratt. II, 10, 4, IV, 3, 3, IV, 3, 4, IV, 10, 1, IV, 10, 2; G. Boccaccio, Filocolo, I, 5, II, 19, III, 10, IV, 45, IV, 50. 9 «E…soli»: cfr. RVF CCCXXI, 9 «Et m’ài lasciato qui misero et solo». 10 «la…danni»: cfr. G. Boccaccio, Filocolo, IV, 86 «o morte o gravissimo danno»; Id., Ninfale fiesolano, 269-270 «[…] il qual cagione / sarai della mia morte e del mio danno»; Id., Decameron, II, 5, 45 «non senza suo gran danno o morte». 11 «di doglia…pascendo»: cfr. RVF CCCV, 11 «di tua memoria et di dolor si pasce». Per «di memoria il cor pascendo» cfr. anche RVF CCCXXXI, 10-11 «Sol memoria m’avanza, / et pasco ’l Canzonieri dell’Italia rinascimentale
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Davide Esposito
Mentre le quartine, più legate al motivo autobiografico della morte della figlia, appaiono decisamente svincolate da richiami ad altri autori della nostra tradizione lirica (escludendo, naturalmente, la già sottolineata marca petrarchesca iniziale, «cara consorte» [cfr. RVF CCCXI, 2]), le terzine rivelano una sapiente intelaiatura petrarchesca, anche qui mescidata con qualche apporto boccacciano. Infatti, sul piano della dinamica intertestuale, bisogna rilevare come in questi ultimi sei versi tutte le citazioni dai RVF riguardino testi che ne compongono la sezione in morte, accomunando in pratica la dipartita della figlia Ziliola a quella di Laura. In questo modo, il motivo autobiografico del lutto familiare elabora originalmente il suo linguaggio dal Canzoniere, qui utilizzato alla stregua di un vero e proprio formulario lirico che il Brocardo dimostra di saper maneggiare con estrema cura, applicandolo a un contesto tematico così lontano dal modello petrarchesco.
gran desir sol di quest’una». 12 «poi…figlioli»: cfr. G. Boccaccio, Ninfale fiesolano, 251, vv. 6-7 «O Morte […] / […], poi che tolto m’hai ogni mia gioia». 13 «a…rendo»: cfr. RVF CCCXXXI, 7-8 «[…] et l’arme rendo / a l’empia et violenta mia fortuna». Per «empia fortuna» cfr. anche RVF CXVIII, 7. 14 «che…anni»: cfr. RVF CCCXIV, 8 «Questo è l’ultimo dì de’ miei dolci anni». «l’amaro fin»: cfr. F. Sacchetti, Rime, LIII, 87 («amara fin»). «dolzi anni»: cfr. anche RVF CCCLIII, 13 «col membrar de’ dolci anni et de li amari» (dove troviamo l’associazione lessicale di «amaro» e «dolce» che il Brocardo riutilizza, in forma di raffinata contrapposizione, in questo v. 14); F. Petrarca, Extrav., XIX, 12. III. I periodi della letteratura degli Italiani
MAURO MARROCCO La ‘Gelosia del Sole’ di Girolamo Britonio
La Gelosia del Sole (da ora GdS) del lucano Girolamo Britonio, stampata una prima volta a Napoli nel 1519 e, in un’edizione descripta della princeps napoletana, a Venezia nel 1531, si pone quale opera di un certo rilievo prospettico nella storia del petrarchismo meridionale in quanto canzoniere a stampa in un periodo regressivo oltre che della forma canzoniere della stessa editoria volgare napoletana.1 Difatti, uno sguardo al catalogo editoriale napoletano testimonia l’esilità della produzione volgare finita in tipografia nel primo trentennio del secolo, la quale esilità diviene quasi completa assenza nel caso della lirica, che tra le Opere (1509), contenenti la definitiva forma dell’Endimione, di Cariteo e i Sonetti e Canzoni (1530) di Sannazaro annovera unicamente, nel 1519, proprio la GdS.2 All’origine di questa
1 Opera volgare intitolata Gelosia del Sole, Napoli, Sigismondo Mayr 1519; Opera volgare di Girolamo Britonio di Sicignano intitolata Gelosia del Sole, Venezia, Marchio Sessa 1531. Sull’opera cfr. M. Grippo, La ‘Gelosia del sole’ di Girolamo Britonio, in «Critica Letteraria», XXIV (1996), fasc. I, pp. 5-55; M. Romanato, Per l’edizione della ‘Gelosia del sole’ di Girolamo Britonio, in «Italique: Poésie Italienne de la Renaissance», XII (2009), pp. 33-71; G. Britonio, Gelosia del Sole. Edizione critica, tesi di dottorato di Mauro Marrocco discussa presso la «Sapienza» Università di Roma il 19 maggio 2011. Per la biografia dell’autore cfr. la voce di G. Ballistreri, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. XIV (1972), pp. 347-349. 2 Per la mappatura geografica e cronologica dei volumi stampati in volgare, cfr. I. Pantani (a cura di), La biblioteca volgare, vol. 1 Libri di poesia, in Biblia. Biblioteca del libro italiano antico, diretta da A. Quondam, Milano, Editrice Bibliografica 1996 e, esclusivamente per la lirica, N. Cannata, Il canzoniere a stampa (1470-1530). Tradizione e fortuna di un genere fra storia del libro e letteratura, Roma, Bagatto 2000. Questo il catalogo delle edizioni a stampa napoletane del primo decennio del Cinquecento: Sannazaro, Arcadia, Sigismondo Mayr 1504; J. F. Caracciolo, Amori, Ioanne Antonio de Caneto 1506; Cariteo, Opere (con la prima forma dell’Endimione),
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assenza della lirica c’è l’arretramento della letteratura volgare, il quale è principalmente legato alla crisi della corte aragonese della seconda metà del XV secolo travolta dalle traumatiche vicende di inizio Cinquecento, ciò che non poteva ovviamente non condizionare gli esiti di una letteratura elettivamente connessa alle strutture della corte, in un periodo in cui l’intellettualità napoletana recuperava più forti ragioni identitarie nel culto pontaniano e nella conseguente «nuova moda del latino».3 La stessa adozione della «forma canzoniere» da parte di Britonio si rivela peculiare in quanto modalità incompiuta in Cariteo e Sannazaro, oltre che contraria alla tendenza della seconda decade del secolo, anche al di fuori di Napoli, a strutturare i libri di rime secondo forme più aperte, antologiche.4 Se al fondo della abiura, con modalità differenti, del canzoniere amoroso da parte di Cariteo e Sannazaro s’è vista la più generale napoletana «crisi del genere lirico»5 in seguito alla crisi della società cortigiana, sulla quale, «come un rampicante»,6 quella letteratura si era sviluppata, la rinata fiducia nelle possibilità del canzoniere amoroso testimoniata dalla GdS sta ad indicare che in parte quel tessuto si era ricomposto, che un possibile pubblico era stato riconosciuto nella corte ischitana, cui Britonio fu legato nei suoi anni napoletani al servizio di Francesco Ferrante d’Avalos e nella quale si consuma quasi per intero la sua esperienza di poeta lirico.7 L’opera, dedicata a Vittoria
Ioanne Antonio de Pavia 1506; De Jennaro, Pastorale, Napoli, Ioan Antonio de Caneto 1508; Tutte le Opere di Cariteo (tra le quali la seconda e definitiva forma dell’Endimione), Sigismondo Mayr 1509. In realtà, il catalogo a stampa napoletano resta assai esile fino a tutta la terza decade: J. Mazza, Tractato per vtile & deletabile nominato amatorium […], Caterina Mayr 1517; Fioretti di frottole barzellette capitoli strambotti e sonetti libro secondo, Antonio de Caneto 1519; Britonio, Trionfo nel quale Partenope sirena narra e canta gli gloriosi gesti del gran marchese di Pescara, Evangelista di Presenzani 1525; G. Bordoni, Incomencia il deuoto libro chiamato Recitoria Virginis […], Antonium marinum dictum Rothi Francigenam 1529. 3 Cfr. C. Dionisotti, Appunti sulle rime di Sannazaro, in «Giornale storico della letteratura italiana», C (1963), 160, pp. 161-211, citazione a p. 191; per un quadro d’insieme della letteratura napoletana di inizio Cinquecento, cfr. anche M. Santagata, La lirica aragonese, Padova, Antenore 1979. Essenziali, anche se per lo più pertinenti al biennio 1530-50, gli studi confluiti in T. R. Toscano, Letterati corti accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, Napoli, Loffredo 2000 e, con qualche escursione nella seconda metà del secolo, Id., L’enigma di Galeazzo di Tarsia. Altri studi sulla letteratura a Napoli nel Cinquecento, Napoli, Loffredo 2004. Per un inquadramento generale, cfr. anche N. De Blasi, A. Varvaro, Napoli e l’Italia meridionale, in Letteratura Italiana, Storia e geografia, vol. II L’età moderna, t. I, Torino, Einaudi 1988, pp. 235325, in part. pp. 290-315; T. R. Toscano, Linee di storia letteraria dal regno aragonese al viceregno spagnolo, in G. Pugliese Carratelli (a cura di), Storia e civiltà della Campania. Il Rinascimento e l’Età Barocca, Napoli, Electa 1993, pp. 413-439. 4 Cfr. N. Cannata, Il canzoniere a stampa… cit., pp. 93-124. 5 Cfr. M. Santagata, La lirica aragonese cit., pp. 296-341. 6 C. Dionisotti, Appunti… cit., p. 194. 7 Britonio giunse alla corte degli Avalos, dopo esser stato al servizio di Roberto II III. I periodi della letteratura degli Italiani
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Colonna, riflette gli ideali di una casata, quella degli Avalos, che, ambiziosa di affermarsi quale grande centro di fruizione ed elaborazione di modelli culturali, si proponeva come «punto di riferimento e di riaggregazione […] dei quadri intellettuali letteralmente disorientati (Sannazaro insegna) in seguito al tramonto della dinastia aragonese»;8 la GdS non manca così di celebrare Ischia quale nuovo Parnaso, luogo nel quale si rinnova, grazie al mecenatismo di Vittoria, l’età aurea delle lettere.9 Per strutturazione metrico-tematica la GdS, situata ad un’altezza strategica nel processo di canonizzazione del classicismo volgare, si pone ad un livello di elevata assunzione del modello dei Rerum Vulgarium Fragmenta (da ora RVF), anche se talvolta vissuto ad uno stadio di esteriore velleità mimetica più che profondamente risentito. È però da sottolineare il peso che un’analisi complessiva delle modalità liriche della GdS assegna, integralmente con l’imitazione del modello petrarchesco, all’assorbimento largo della tradizione petrarchista del Quattrocento, soprattutto per quanto riguarda i cortigiani Tebaldeo, Serafino Aquilano, oltre ai tre grandi aragonesi Caracciolo, Cariteo e Sannazaro. Una cifra stilistica peculiare, soprattutto per quanto riguarda la fortuna della poesia britoniana, è una certa tendenza alla «locuzione artificiosa» rilevata particolarmente a proposito della tecnica del sonetto, per l’appunto lodata da Federico Meninni per la «cultura e tessitura delle rime dei ternari», in linea con la tendenza (non solo) meridionale all’evoluzione epigrammatica del metro.10 Già la selezione e la distribuzione dei metri individua il forte impegno struttura-
Sanseverino principe di Salerno e della plurimamente compianta Eleonora d’Aragona principessa di Bisignano (cfr. GdS, CCLXXXV, CCXCVII, CDXXVII, CDXXXVIII), intorno al 1512. Dopo la morte di Francesco Ferrante (1525) inizia un periodo non facilmente ricostruibile della sua biografia; lo si ritrova attivo a Roma sotto i pontificati di Paolo III e Giulio III, ove divenne prevalentemente scrittore latino. 8 T. R. Toscano, Due «allievi» di Vittoria Colonna: Luigi Tansillo e Alfonso d’Avalos, in Id., Letterati corti accademie… cit., pp. 85-120, citazione a p. 112. 9 «Vanne, Gravinio, e con fervente affetto, / nel bel scoglio ch’el mar bagna e circonda, / segui Nettuno e l’aura a te seconda, / che non poco è conforme al tuo concetto. / Ivi tu chiar vedrai, con vero effetto, / che sol quel luogo d’ogni grazia abonda / e pregio argumentare ogni erba, ogni onda / conveniente al tuo sincero petto. / Ivi risorgon l’acque chiare e conte / del bel Cefiso e la più ascosa vena / del Caballino e consacrato fonte. / Così invaghito d’aria più serena, / dirai Vettoria aver converso il monte / un novo a noi Parnaso, un’altra Atena» (GdS, CLXXIV). Per un profilo della corte ischitana, cfr. A. Giordano, La dimora di Vittoria Colonna a Napoli, Napoli, Tipografia Melfi & Joele 1906; S. Thérault, Un cenacle humaniste de la Renaissance autour de Vittoria Colonna chatelaine d’Ischia, Firenze-Parigi, Edizioni Sansoni Antiquariato-Librairie Marcel Didier 1968, P. Giovio, Dialogo degli uomini e delle donne illustri del nostro tempo, a cura di F. Minozio, Torino, Aragno 2011. 10 La citazione proviene dal giudizio sulla tecnica britoniana del sonetto di F. Meninni, Il ritratto del sonetto e della canzone, a cura di C. Carminati, Lecce, Argo 2002, 2 voll., I p. 62. Per il sonetto-epigramma ed il suo peculiare sviluppo nella poesia meridionale, cfr. E. Raimondi, Il Canzonieri dell’Italia rinascimentale
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le della GdS: 345 sonetti, 43 canzoni, 20 sestine di cui 7 doppie, 37 madrigali, 7 ballate, 2 terze rime di cui 1 con settenario al mezzo,11 metri di solida tradizione petrarchesca tra di loro alternati (si veda, per contrasto, la distribuzione omometrica e la relativa povertà dei metri nelle rime del contemporaneo Colantonio Carmignano).12 Il canzoniere è strutturato in due parti con 357 testi nella prima e 97 nella seconda; ad inizio seconda parte si leggono 9 testi, tutti con metri lunghi (terza rima, sestina e canzone), che formano una sezione per molti versi autonoma.13 Le due parti del libro sono caratterizzate da una non omogenea distribuzione dei testi di corrispondenza: essi ricoprono infatti il 12,6% della prima parte, mentre arrivano quasi al 30% nella seconda che risulta così maggiormente digressiva rispetto al vettore principale del canzoniere, la storia amorosa.14 Il proemio è chiara variazione a partire da RVF, I:
petrarchismo nell’Italia meridionale, in Atti del Convegno Internazionale sul tema Premarinismo e Pregongorismo (Roma, 19-20 aprile 1971), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei 1973, pp. 95123; per l’analisi degli esiti di elevato tecnicismo formale in direzione manieristica della lirica meridionale del secondo Cinquecento restano fondamentali G. Ferroni-A. Quondam (a cura di), La locuzione artificiosa: teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’eta del manierismo, Roma, Bulzoni 1973 e A. Quondam, La parola nel labirinto: societa e scrittura del Manierismo a Napoli, Bari, Laterza 1975. 11 Per quanto riguarda la distribuzione percentuale dei metri il modello petrarchesco è seguito nella preminenza del sonetto (76%), che però registra nella GdS una sensibile flessione a vantaggio della canzone (9,47% a fronte del 7,9% dei RVF), della sestina (4,4% nella GdS; 2,5% nei RVF) e, soprattutto, del madrigale (8,15% nella GdS; 1,1% nei RVF), la terza tipologia metrica nel canzoniere britoniano, il metro meno usato nei RVF, dato che si allinea alla particolare fortuna del metro nelle rime di Sannazaro (7,8% tenendo conto anche delle Disperse). 12 La sequenza dei metri nelle opere di Carmignano: Le cose vulgare (Venezia, Georgio di Rusconi 1516): 85 sonetti, 20 capitoli, 1 sonetto, 4 ecloghe alternate con intercalate 1 canzone e 2 sestine, 10 sonetti spirituali, 1 composizione in rimalmezzo; Operette (Bari, Gilliberto Nehou francese in le case de santo Nicola 1535): 98 sonetti, 20 terze rime, 1 sonetto, 4 ecloghe con alternate 1 canzone e 2 sestine, 1 sonetto, 15 terze rime, 36 sonetti, 1 terzina, 1 canzone, 2 terze rime, 1 ecloga, 13 terze rime (alla prima segue una prosa), 3 sonetti, 3 terze rime, 1 componimento con rimalmezzo, 1 ecloga con alternata 1 canzone, 5 terze rime, 28 sonetti, 3 terze rime, 11 sonetti (una prosa dopo il primo), 1 componimento con rimalmezzo, 3 terze rime, 2 sonetti; in entrambe le edizioni si intervallano ai componimenti poetici passi in prosa (3 nelle cose vulgare, 5 nelle Operette); per i dati cfr. C. Mauro, Le cose vulgare (1516) e le Operette (1535) di Colantonio Carmignano: un primo confronto, in «Critica letteraria», XXVII (1999), fasc. II, 103, pp. 225-46. Id., Colantonio Carmignano: strategie organizzative dalle Cose vulgare (1516) alle Operette (1535), in «Critica letteraria», XXVII (1999), fasc. IV, 105, pp. 62773; su Carmignano cfr. anche C. Mutini, Carmignano, Colantonio, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. XX, (1977), pp. 423-26. 13 La sezione è separata dalla rubrica «fine de gli continuati solitari ragionamenti» (c. CLXIXv della princeps). III. I periodi della letteratura degli Italiani
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Qualunque ascoltarà miei vari danni, miei vari accenti sparsi in versi e ’n rime, miei vari ardor non fia ch’a pien non stime quante ebbi varie pene e vari affanni. E però spero ch’altri non condanni o biasme il suon delle mie voci prime, perché non ebbi il dir chiaro e sublime come il sol che abbagliommi da’ prim’anni, ne’ quai vissi in tormenti e tanti e tali, che ’n poco spazio in quella età divenni essempio d’infiniti e vari mali. E ben dir posso che dal dì ch’io venni in questa vita, morte de’ mortali, altro che doglia al cor mai non sostenni.
Il sonetto tende a «laicizzare» il modello petrarchesco stemperandone la forte tensione morale in direzione mondana, come, ad esempio, nelle terzine finali: il sonetto britoniano, lungi dalla ricusazione della vanità del «breve sogno» dei desideri deliranti dell’uomo, più topicamente (ma anche banalmente) si sofferma sul dolore come elemento inscindibile dalla passione amorosa. La reclamata solidarietà affettiva con il lettore si svolge allora non nella ricerca di «pietà», di comprensione da parte di chi conosce i fallaci sentimenti umani ed i suoi inevitabili portati, ma nella preoccupazione riguardo alla fortuna delle proprie rime e nel timore dell’inadeguatezza rispetto al loro oggetto, la donna celebrata. Il lessico petrarchesco, ovviamente ripreso e variato, risulta così semanticamente depotenziato, come nell’uso banalmente inflazionato di «vario» rispetto al «vario stil» di RVF, I 5 o come nell’adozione in posizione rilevata nell’incipit di «ascoltarà», mera «memoria automatica dell’esordio petrarchesco Voi ch’ascoltate…».15
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Continuando a ragionare sui numeri, una notazione curiosa è offerta dal fatto che se ai 357 componimenti della prima parte si aggiungono i 9 della compatta sezione dei «continuati ragionamenti» di inizio seconda parte si ha il totale di 366, forse non casuale richiamo ai RVF. 15 R. Gigliucci (a cura di), La lirica Rinascimentale, Roma, Istituto poligrafico e zecca dello Stato 2000, p. 439. La premura metapoetica di Britonio sembra inscriversi, tra l’altro, nella tendenza meridionale ad investire i testi proemiali della discussione sulle ragioni e sulla sorte della poesia riscontrabile nei napoletani Caracciolo, Cariteo e, soprattutto, Sannazaro: l’incipit degli Amori (Sole lo infermo difalcar la doglia, in J. F. Caracciolo, Amori, Napoli, Antonio de Caneto 1506, c. Ir) rivendica, infatti, allo sfogo lirico la funzione che per l’«infermo» ha il lamento (la considerazione della poesia-sfogo è alla base di GdS, II); Cariteo apre il suo Endimione dichiarando la legittimità, in una valutazione positiva della passione, del suo desiderio amoroso e, dunque, del suo canto; Sannazaro, infine, il cui proemio è il più perspicuamente metapoetico, recrimina la possibilità sprecata, proprio a causa dei «sospir» e «affanni» Canzonieri dell’Italia rinascimentale
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All’origine della passione c’è l’assalto primaverile di Amore al protagonista (quattordicenne, come rivelato in CXVIII) per mezzo della bellezza della donna, che sola riuscì a vincerne il cuore in passato tetragono (III-VIII), secondo la topica fenomenologia dell’innamoramento. Dopo l’esposizione proemiale, IX introduce la vicenda della «gelosia del Sole» che il canzoniere, dopo altre diverse allusioni (XVII, XXI), espone per esteso nella canzone XXX: la donna amata, che un sonetto a Sannazaro (CCXVII) rivela essere Clizia, ha in passato ceduto all’amore del Sole, dal quale è stata però tradita, per cui ella ora disdegna le rinnovate lusinghe dell’antico amante fedifrago: Questo [il Sole] a guisa d’acceso e fido amante scendendo in giù, fuor del suo proprio regno, con sua mentita fiamma lusingando mi fo sempre davante; ma poi che a torto il fei del mio amor degno, senza curar più di mia vita dramma mancando alla sua fé mi prese a sdegno. Né fuggitivo errante cervo fuggì giamai veltro né laccio, né fiero ingannator con false larve s’ascose mai con sì veloci passi, né dianzi il suo splendor unqua non sparve, quando è nel Tauro, ancor pruina o ghiaccio, come ei per monti e sassi, lasciando la mia vita a morte in braccio, né di sua fé gli increbbe o d’altrui impaccio. (GdS, XXX 65-80)
Il Sole è così avversario del poeta amante, onde l’intreccio di gelosie e sospetti su cui si costruisce la vicenda: il soggetto lirico è geloso del Sole (CCXXVI, CCCXXVII etc.) ed aborre il giorno perché arreca il suo odiato rivale (LV, XCVII, CIX etc.); ma anche il Sole lo è nei suoi confronti e, invidioso, ostacola il poeta intento a mirare la comune amata (XXXIX, CLXII, CCXLIV etc.), oppure giunge, in un vertice concettistico, a prestare i suoi raggi alla sorella luna per poter spiare la donna anche di notte (CCXXXI), ed allora proprio il potere dell’astro, che per l’appunto può continuamente seguire l’amata, è oggetto delle lamentele del geloso soggetto lirico (CCXXVI). La radicale eliofobia porta così il soggetto amante a desiderare la notte, che è il tempo del riposo dagli affanni in quanto non vi splende il rivale (XLIX, CIX etc.), e la predilezione per i notturni lunari è infatti uno dei motivi maggiormente diffusi nel canzoniere. La stessa donna amata è a volte
(Sonetti e canzoni, I 4, in J. Sannazaro, Sonetti e Canzoni, in Id., Opere volgari, a cura di A. Mauro, Bari, Laterza 1961) cui s’è ridotta la sua musa, di assurgere all’immortalità poetica. III. I periodi della letteratura degli Italiani
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oggetto della stizza del poeta amante, che le rimprovera, allorché ella mostri segni di cordialità nei confronti del rivale, l’abbandono dello sdegno dovuto al fedifrago (CCXLVII, CCCVII). A questa trama si accompagna la topica invidia dello splendore maggiore della donna (CLXVI) da parte del Sole (per cui cfr. RVF, XXXVII 81-82 e CLVI 5-6). Una risoluzione della vicenda si legge nella riepilogativa terza rima (CCCLVII) che chiude la prima parte del libro, in cui il poeta ricorda al rivale, invitandolo a desistere dal suo costume di inseguire, come già fu per Dafne, amori impossibili, l’ormai irreparabile disprezzo della comune amata nei suoi confronti. Sul piano narrativo, questa vicenda non sembra sempre perfettamente amalgamarsi col resto dei testi amorosi, che sembrano per lo più esporre, ignorando e talvolta contraddicendo la «gelosia del Sole», un più canonico racconto a due protagonisti, il poeta-amante e la donna amata. La diegesi lirica si muove tra stasi contemplative della bellezza muliebre, petrarchescamente declinata, e analisi degli stati interiori del poeta, oscillanti tra l’accettazione (più o meno piacevole) delle pene e la disperazione, nell’ineluttabile realtà ossimorica della passione amorosa. Un andamento narrativo è naturalmente garantito dai cronotopi della vicenda che ne fissano alcune tappe anniversario: oltre ai già riferiti marcatori dell’innamoramento primaverile e dell’età del poeta, il soggetto lirico indugia sul «decim’anno» (XXXI) della passione e ne offre una breve cronistoria in CDL. Diversi gruppi testuali predicano il poeta lontano dalla donna (XXXVII-XXXVIII, CXXXII-CXXXIV, CLXXVICLXXIX etc.), lontananza, che può essere dall’amante colmata con il ricordo o il pensiero (CLXXXV, CCXX etc.); ma è sovente il sogno l’unico possibile momento di incontro con l’amata (CLXXVI, CCCXLIX, CCCLXVII etc.). Nella sequenza di testi che alternano diversi temi si offrono gruppi che indugiano su singoli motivi, quali il ritratto (CLIV-CLV e CCCXLII-CCCXLIV) o il pianto della donna (CCXICCXIII), insieme ad altri che, autorizzati da Petrarca, trovano notevole diffusione nella lirica cortigiana, come il motivo del velo (cfr. XXVII, XXXIV, CXXVI etc.), dello specchio (CLXIII), dell’uccellino (CXXXVII, CXLVIII etc.) L’amante deluso e sconsolato per la crudeltà dell’amata, si ritira in luoghi solitari per sfogare, al di fuori del consorzio civile, le proprie pene. Il tema, ovviamente diffuso nel canzoniere, monopolizza l’intera sezione ad inizio seconda parte (CCCLVIII-CCCLXVI), «sorta di canzoniere nel canzoniere».16 La risoluzione della passione non è però nella prospettata elegia solitaria, ma nel pentimento e nella rivalutazione morale della vicenda amorosa che concludono il canzoniere con una preghiera alla Vergine, riproduzione fedele, fin nei più particolari dettagli metrici, della chiusa petrarchesca (CDLIV). La chiusura con preghiera alla Vergine risulta particolarmente significativa alla luce della rarità, sotto quest’aspetto, della sequela dei RVF da parte dei libri di rime rinascimentali, che al «punto Omega»
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M. Grippo, La ‘Gelosia del sole’ di Girolamo Britonio cit., p. 21.
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prediligono sì la canzone, «non però, come si è tentati di credere, o si ripete per inerzia, una canzone alla Vergine»; anzi, oggetto della preghiera finale è, per lo più, il Signore, come in Boiardo, Bembo, Della Casa.17 Per quanto riguarda il peculiare sviluppo narrativo dell’opera, cioè la curiosa trama che coinvolge l’io lirico in un amore triangolare, non può essere accantonata l’ipotesi che dietro il racconto vi sia un’allusione, ovviamente sublimata, all’amore di Britonio verso Vittoria Colonna ed all’inevitabile gelosia nei confronti del marito Francesco Ferrante. D’altronde, le cronache non mancano di offrire un’immagine di facile libertino del marchese di Pescara, ciò che giustificherebbe il racconto del tradimento del Sole/Ferrante ai danni della donna/Vittoria.18 Forse però, più che un movente narrativo – la cronaca, più o meno sublimata, della corte di Ischia –, ciò che ingenera il dubbio che potesse essere da Ferrante accettato un dileggiamento tanto scoperto da parte di un suo cortigiano che gli tributa peraltro lodi nel resto del canzoniere,19 sembra più attiva nella costruzione della diegesi della GdS la tendenza ad una modalità lirica caratterizzata da arditezza metaforica e concettistica tendente a drammatizzare nuclei metaforici presi «alla lettera» e piegati ad illustrare «una breve situazione», insomma a creare quadretti narrativi a partire da emblemi.20 Ad ispirare il racconto britoniano, oltre al motivo petrarchesco dell’in-
17
Cfr. G. Gorni, Il libro di poesia nel Cinquecento, in Id., Metrica e analisi letteraria, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 193-203, in part. pp. 199-201; la citazione a testo è a p. 199. In ambito napoletano le cose non sono molto differenti: non hanno una chiusura prettamente penitenziale gli Amori di Caracciolo e l’Endimione, che inizia e finisce con un discorso sulla poesia; i Sonetti e canzoni di Sannazaro, al di là dei correlati problemi filologici, registrano nella sezione finale un capitolo (XCIX), preliminare ai due ultimi ternari funebri, di lamentazione sul corpo di Cristo; con un gliommero al crocifisso chiude entrambe le edizioni delle proprie rime Colantonio Carmignano; una canzone alla Vergine «per la salute e sanità» del principe di Capua è invece il penultimo testo delle Rime di De Jennaro. 18 «[…] in un sottile gioco metaforico, il sole potrebbe anche essere Francesco Ferrante, e allora il poeta sarebbe geloso proprio del consorte di Vittoria e viceversa», M. Grippo, La Gelosia del sole di Girolamo Britonio cit., p. 36. 19 Cfr. GdS, CCCLXXIX, CDXI etc. 20 G. Parenti, Benet Garret detto il Cariteo, Firenze, Olschki 1993, p. 88. Sempre sulla tensione ad un’esasperazione cronachistica degli emblemi petrarcheschi, ma nel contesto del concettismo di fine XVI secolo, si veda il seguente giudizio di A. Martini, Ritratto del madrigale poetico fra Cinque e Seicento, in «Lettere italiane», XXXIII (1981), 4, pp. 529-548, p. 544: «In fondo la lirica concettista e lo stesso Marino spesso si limitano a prendere alla lettera i traslati del Petrarca, anche i più diffusi, e a svilupparne tutte le possibilità logiche, con un’indifferenza palese verso il loro senso, portandoli fino al grottesco e al surreale. Le metafore e le antinomie petrarchiste (questa vita e questa morte che riempiono sia lo spazio letterale, sia lo spazio musicale del madrigale) dominano sempre la poesia lirica, ma prendono una strana consistenza fisica, del tutto in disaccordo con la natura intellettuale assai astratta della lingua poetica del Petrarca». In ambito partenopeo può essere esemplificativo di tale procedimento l’adozioIII. I periodi della letteratura degli Italiani
La ‘Gelosia del Sole’ di Girolamo Britonio
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vidia del sole per la maggiore luminosità della donna (cfr. RVF, XXXVII 82-83; CLVI 5-6 etc.), sembra lo stesso mito dafneo. Si prenda, ad esempio, GdS, IX: Costei c’or meco, Apollo, onori et ami fu pria tua donna, or t’è crudel nemica, che per memoria della ingiuria antica conven che ’l mio amor pregi e ’l tuo disami. Indarno a lei mercé piangendo chiami, che, come quella del tuo mal fia amica, la cui membranza ancora in te rintrica l’arbor che fior non perde mai né rami, quanto a te fu pietosa in l’altra etade tanto or vedrassi qui risorta in vita albergo inespugnabil d’onestade. Che speri più, se fu da te schernita, non per più degna, ma menor beltade, quando col sommo onor spense la vita?
Alla base pare esserci, assiologicamente ribaltata, la situazione di RVF, XXXIV: Apollo, nel testo petrarchesco esortato a sgombrare l’aria «dal pigro gelo e dal tempo aspro e rio» (5) per difendere «l’onorata e sacra fronde» (7), nella ricerca, all’insegna dell’unico comune amore Dafne-lauro-Laura, d’una solidarietà affettiva tra il dio ed il poeta, è qui, invece, invitato a prender coscienza dell’inimicizia che la donna ormai gli porta, in quanto traditore della sua fede. La visione antagonistica del Sole, alla base di questo sonetto e di tutta la GdS, è d’altronde supportata dalla stessa mitopoiesi petrarchesca: In mezzo di duo amanti honesta altera vidi una donna, et quel signor co lei che fra gli uomini regna e fra li dèi: et da l’un lato il Sole, io da l’altro era. Poi che s’accorse chiusa da la spera de l’amico più bello, agli occhi miei tutta lieta si volse, e ben vorrei che mai non fosse inver’ di me più fera. Subito in allegrezza si converse la gelosia che ’n su la prima vista per sì alto adversario al cor mi nacque. A lui la faccia lagrimosa et trista un nuviletto intorno ricoverse: cotanto l’esser vinto li dispiacque. (RVF, CXV)
ne del senhal Calamita da parte di Carmignano a partire dall’epiteto di RVF, CXXXV 30 «dolce calamita» (cfr. Mauro, Colantonio Carmignano… cit., p. 632). Canzonieri dell’Italia rinascimentale
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Mauro Marrocco
La tendenza della GdS a mediare Petrarca con il petrarchismo Quattrocentesco, che può essere riconosciuta quale modalità privilegiata dello stile lirico di Britonio, sembra qui attiva nell’estremizzazione dello spunto petrarchesco dell’ultima terzina del sonetto precedente, che genera così tutta una serie di reazioni del Sole di fronte allo scorno della donna che gli preferisce il rivale: Un giorno uscendo fulgido e lustrante l’alto adversario mio fuor d’oriente vago di sé mirava intentamente la donna nostra ch’era a lui davante. Poi, per mostrarsi assai più fido amante che fu già in prima e d’ardor vero ardente, sgombrò d’intorno a sé visibilmente ogni importuna e folta nube errante. Ella, poscia ch’a pien di lui s’accorse, con l’onestà ch’al volto se l’offerse gli desiati sguardi indietro torse; e quel ch’un tanto scorno non sofferse, con sua istessa vergogna si soccorse e delle usate nubi si coverse. (GdS, CCXVIII)21
In estrema sintesi, la «gelosia del Sole» pare originarsi da un’estenuazione cronachistica degli sviluppi possibili a partire dalla costellazione mitologica dafnea, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di una visione antagonistica di Apollo/sole come in RVF, CXV, e dalla metafora topica del sole invidioso dello splendore della donna; ciò unitamente all’adozione del senhal e del mito di Clizia, una Clizia rediviva e moralizzata non più disposta all’antico errore, come il poeta stesso ricorda al rivale: Ben devresti esser del suo amor disciolto
21
Cfr. P. J. De Jennaro, Rime, II LIII (in Rime e lettere, a cura di M. Corti, Bologna, Commissione per i testi di lingua 1956); Niccolò da Correggio, Rime, CCXCVIII (in Opere, a cura di A. Tissoni Benvenuti, Bari, Laterza 1969); M. M. Boiardo, Amorum libri tres, CLVII (nell’edizione a cura di T. Zanato, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2003). Significativo in questo contesto un sonetto sannazariano che interpreta fenomeni metereologici quali reazioni del cielo geloso dell’amante che contempla la donna: «Stando per meraviglia a mirar fiso / quel sol che mi consuma in fiamma e ’n gelo, / ratto un tuon folgorando uscì dal cielo, / per farmi privo ond’era sì diviso. / Qual nova invidia è nata in paradiso, / acciò che inanzi tempo io cangi il pelo? / Or non basta la guerra del bel velo, / che sì spesso me vieta gli occhi e ’l viso? / Ma ’l cor, che stava desioso e intento / ai dolci raggi de’ bei lumi onesti, / poco curava i tuon, la pioggia e ’l vento; / e fra tanti terrori atri e funesti seco dicea per duol, non per spavento: “tant’ire son negli animi celesti?”», Sonetti e Canzoni, LXXVII. III. I periodi della letteratura degli Italiani
La ‘Gelosia del Sole’ di Girolamo Britonio
pensando al duro passo ov’ella advenne, sadisfatto al tuo amor, s’ingrato e stolto; e se poi in vita sua beltà rivenne, qual ragion vuol che t’ame, rimembrando il duro strazio che per te sostenne? (GdS, CCCLVII 85-90)
Canzonieri dell’Italia rinascimentale
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TRADUZIONI E VOLGARIZZAMENTI NEL
CINQUECENTO
MARIA CATAPANO Per l’edizione del ‘Canzoniere’ di Giovanni da Falgano
Di Giovanni Falgano, autore di cui mi sono ampiamente occupata negli ultimi anni, sono state messe in luce,1 le notevoli capacità ermeneutiche e traduttive, essendo stato egli essenzialmente un interprete di testi greci.2 Ma poiché a lui si
1
A. Porro, Volgarizzamenti e volgarizzatori di Drammi euripidei a Firenze nel Cinquecento, in «Aevum. Rassegna di scienze storiche linguistiche e filologiche», LV (1981), 1, pp. 493-499; Giovanni da Falgano, Ippolito, Ecuba, Christus patiens: volgarizzamenti inediti dal greco / Giovanni da Falgano; saggio introduttivo ed edizione critica a cura di L. Caciolli, Firenze, Olschki 1995; A. Cardillo, Longino, ‘Libro della altezza del dire’ (Per l’edizione di un volgarizzamento di Giovanni da Falgano), in «Macramè». Studi sulla letteratura e le arti, Napoli, Liguori 2010, vol. I, pp. 91-137; M. Catapano “Dalla traduzione al volgarizzamento: il caso di Giovanni da Falgano” in «Macramè». Studi sulla letteratura e le arti cit., pp. 137-145; Ead., “Tra le tecniche traduttive del’’500. Giovanni da Falgano”, in La letteratura degli italiani. Centri e periferie in Atti del XIII Congresso ADI, Pugnochiuso 2009; Ead., Demetrio, Peri; eJpmenei;a": volgarizzamento di Giovanni da Falgano, di prossima pubblicazione. 2 Le opere volgarizzate da Falgano sono tramandate da manoscritti in gran parte autografi conservati in prevalenza presso la Biblioteca Nazionale di Firenze: Ms. II I,191 Christus patiens; Ms. II III, 42-45 Di Falgano traduzione Delli dii gentili di G. G. Giraldi; Ms. II, IX, 22, Libro di Luciano del modo di comporre la Historia; Ms. Magl. VI, 33, Traduzione del Libro dell’altezza del dire di Pseudo-Longino; Ms. Magl. VII, 189, Battaglia dei ranocchi e dei topi di Omero; Ms. Magl. VIII, 46, Miscellanea. Di Falgano contiene soltanto il volgarizzamento dell’Hecuba alle cc. 238279; Ms. Magl. XII, 48, De’ misteri di Giamblico tradotto di greco in latino da Marsilio Ficino e di latino in toscano da Giovanni da Falgano; Ms. Strozzi XV, 199, Mercurio Esculapio tradotto di greco in latino da Apuleio e di latino in toscano da Giovanni di Niccolò da Falgano; Ms. Palatino, 373, Le opere e i giorni; Scudo di Heracle; Teogonia; Tavola della genealogia delli dii secondo che la racconta Hesiodo nella Teogonia; Ms 2798, La Caccia di Pietro Angeli da Barga con lettera di dedica ad Alessandro Pucci e al Granduca di Toscana. Quest’ultimo manoscritto è conservato presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze. Traduzioni e volgarizzamenti nel Cinquecento
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Maria Catapano
devono traduzioni sì di testi di retorica3 ma ancor più di tragedie classiche, soprattutto di Euripide4 ed il primo volgarizzamento della favola di Ero e Leandro, egli ebbe modo, pur occupandosi di traduzioni, di esercitare una attività versificatoria che, dopo una prima fase che coincide con la morte di Cosimo I, cui dedica un sonetto ed una canzone dai toni fortemente encomiastici e celebrativi,5 trova la sua ragion d’essere nelle rime raccolte nei manoscritti Palatino 226 e Palatino 227. Questi manoscritti, entrambi conservati presso la Biblioteca Nazionale di Firenze e a tutt’oggi inediti, possono essere considerati, a buon diritto, i due tomi del canzoniere di Giovanni Falgano, anche se in realtà sono il risultato di successivi accorpamenti. Il Manoscritto Palatino 226, infatti, è formato da tre quaderni giustapposti a formare un solo codice che una mano moderna, a matita, ha definito Tomo I, legandolo indissolubilmente al successivo. La numerazione è continua e tiene conto anche delle carte non vergate, in più vi sono tre fogli di guardia due all’inizio e uno alla fine: sul primo vi è la già menzionata iscrizione Tomo I, sul secondo, che è già parte integrante del primo opuscoletto ma non è numerato, la mano dell’autore ha scritto Canzone di Falgano. Le carte vergate sono in tutto 64 e la numerazione moderna tiene conto solo di queste. Nel nostro resoconto noi faremo riferimento alla numerazione antica. Il primo quaderno si estende da carta 1 a carta 5, in esso si legge solo la canzone Sopra il Gelsomino di Spagna: O tremolante fior che di corona che si compone di nove strofe ed un congedo di cinque versi. Il secondo quaderno si estende da carta 7 a carta 49, tuttavia le carte 7; 17-21; 39-41; 49 non sono vergate. In esso troviamo la canzone Dea, che da saggia testa in testa vaga; la canzonetta Allo Halcyone per ottenere Serenità; una lettera di dedica a Jacopo Corsj, firmata con la sigla G. F. e datata al 14 di Maggio del 1588, seguono la Canzone Quest’aria, ch’a me tiro che canta le lodi del defunto Giulio Corsi, fratello del dedicatario della lettera e alcuni sonetti, i cui titoli, nell’ordine, sono i seguenti: Sonetto contr’alle Spugne; Sonetto contr’al sospetto; Sonetto contro allo scherno; Sonetto contr’a quelli che chiuggono; Per prego all’obblio Sonetto; Per prego alla Necessità Sonetto; Per prego alla Verità Sonetto. Di poi troviamo le canzoni O dj voltj, et di cuorj insiem’ accoltj e La Virtù Duce, Contessa Fortuna. Il terzo quaderno, il cui specchio di pagina è più ampio, comprende le carte 5073. Si apre con una lettera di dedica a Pietro Strozzi, datata al 5 di Maggio 1578 e firmata con la sigla G. F. Con essa Falgano invia a Strozzi l’elogio funebre da lui
3
Sull’argomento cfr. M. Catapano, Demetrio volgarizzato: Giovanni Falgano in La letteratura italiana a Congresso. Bilanci e prospettive del decennale1996-2006, Atti del X Congresso ADI, Lecce, Pensa Multimedia 2008. 4 Cfr. Ead., Il mare come confine tra Sesto e Abydo, in Rotte, confini, passaggi, Atti del XIV Congresso ADI, Genova 2010, in corso di stampa. 5 Cfr. Ead., Giovanni Falgano: Rime in morte di Cosimo I de’ Medici, in Gli scrittori d’Italia. Il patrimonio della tradizione letteraria come risorsa primari, Atti del XI Congresso ADI, Napoli 2007. III. I periodi della letteratura degli Italiani
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pronunciato in occasione della morte di Giovanna D’Austria. Questo componimento in prosa, che altrimenti non ci sarebbe pervenuto, è utile per stabilire la fonte di ispirazione di Falgano per i componimenti successivi, tutti dedicati alla defunta granduchessa: un componimento elegiaco; la canzone Hetruria già felice e un Sonetto Per esser madre, io moro in’ duro campo. A carta 73 recto sono riportati due versi latini; sul verso della stessa due distici in greco antico. Il codice Palatino 227 consta anch’esso di tre quaderni giustapposti con diverso specchio di pagina: si tratta di 107 carte secondo la numerazione antica apposta, probabilmente, dalla stessa mano dell’autore. Non sono vergate ma comprese nella numerazione le carte 10-14; 23; 56-73; 87; 104; 107; vi sono, poi, tre fogli di guardia, due all’inizio e uno alla fine. Sul secondo si legge l’iscrizione Tomo 2, probabilmente riportata da una mano moderna, la stessa forse che riporta una numerazione continua che non tiene conto delle carte non vergate. Anche in questo caso si farà riferimento alla numerazione antica. Il primo quaderno si estende da carta 1 a carta 81 e si apre con una lettera, priva di data e firma, indirizzata a Francesco Rucellai, al quale il nostro dedica la canzonetta che segue, il cui titolo, Canzone sopra gli uccelli di passo, si legge sul verso della medesima carta 1; segue la canzone S’al nome per cuj suona di 15 strofe e un congedo di 6 versi. Alle carte 24-55 recto si legge il volgarizzamento in versi dell’epillio di Ero e Leandro di Museo. Il primo quaderno del codice si chiude con la canzone O Saggissima Atene. Il secondo opuscoletto si estende da carta 82 a carta 87 e contiene unicamente la canzone O dj nostra età fiore che consta di nove strofe ed un congedo di tre versi. Il terzo quaderno, che si estende da carta 88 a carta 107, si apre con una lettera datata 4 luglio 1584 con la quale il nostro dedica a Nicola Orsini conte di Pitignano la canzone il lode della ragione, Te d’ogni imperator imperatrice. È interessante poi rilevare che in lode della ragione il nostro si cimenti anche nella composizione di versi in latino ed in greco. Infatti, sul recto della carta 103, si legge il componimento In rationem che consta di tre ben congegnati distici elegiaci, a seguire un componimento in greco antico, ei" to;n logon wdhv di quattro strofe, che si conclude sul verso della medesima carta. Il canzoniere di Falgano, che si chiude con una canzone significativa, O alati poeti, di quattro strofe ed un congedo di cinque versi, si può datare solo grazie alle lettere di dedica menzionate, pertanto l’attività di questo poeta sembra concludersi alla fine degli anni ’80 del XVI secolo. Qualche riserva sulla capacità compositiva di Falgano è stata avanzata da Antonio Palermo, studioso e catalogatore dei manoscritti della biblioteca Palatina, il quale, nel 1853, esponeva un suo giudizio sui versi coi quali l’accademico traduce l’epillio di Ero e Leandro di Museo e le opere di Esiodo, a suo dire poco originali e troppo legati a stilemi classici6. 6
A. Palermo, I manoscritti Palatini di Firenze, I, Firenze, 1853, pp. 413-415.
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Anche Francesco Trisoglio7 si è espresso alquanto negativamente sulle doti del Falgano versificatore che egli definisce «il re delle zeppe», alludendo all’abitudine del nostro di infarcire di versi suoi le traduzioni da Euripide ed Esiodo. Ma, come si vede, i due studiosi tenevano conto di lavori di traduzione: quando invece il sentimento e l’ispirazione non sono vincolati a testi esistenti il nostro è capace di produrre versi assai apprezzabili. Si veda, ad esempio, la canzone in lode di Jacopo Corsi di cui riportiamo la prima strofa: Quest’aria ch’a me tiro, A l’Amicizia, onde mi vien io rendo Quasi in breve sospiro Che morso dal dolor troppo comprendo, Che morta è l’Amicizia e la Virtute Insieme con un germe che n’è svelto Sul primo fior, e per lo ciel è scelto. Un germe svelto n’è d’alma salute Nel qual beando l’una et l’altra insieme, pago il desir facea certa la speme.
Certo l’accostamento di «desire» e «speme» non è originale: nel XVI secolo vi ricorrono in tanti da Tasso a Michelangelo, alla cortigiana veneziana Veronica Franco, ma l’averli accostati in modo così ben congegnato è opera del solo Falgano. Da apprezzare ancora il bagaglio culturale che lo porta a scrivere, intrecciando latinismi e riferimenti classici, «Insieme con un germe che n’è svelto / Sul primo fior, e per lo ciel è scelto», soluzione, questa, che fa pensare al frammento menandreo «ojn oiJ qwoi; fi;lou'sin ajpoqnhvscei nevo"». (111 K.-Th) Bellissima è poi la descrizione fisica che Falgano dà dell’estinto: dopo averne cantato, nella seconda strofa, le lodi come atleta, di lui ci dice: «Egli membruto sotto nere chiome / Et viril volto il bel finissim’oro / Spargea dell’alma in ogni alto lavoro». Ricorrendo al dantesco «membruto»8 Falgano caratterizza il giovane come figura potente e virile che si ingentilisce per l’uso di quel «finissim’oro» metafora che va a descrivere l’infinita gentilezza d’animo del Corsi. Ma anche in vita Falgano dovette avere molti detrattori se, ad un certo punto, scrive il sentito Sonetto contr’allo scherno: Scherno, che ’n crocj, e ’n retj occhiute tienj Huomini buoni, e saggi disocchiatj
7 F.T risoglio, Emerge un nuovo umanista interprete del dramma greco: Giovanni da Falgano, in «International Journal of the classical Tradition», vol. 3, 1997. 8 If XXXIV; Pg VII.
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E ’i lor lavori con sudor opratj Divorando, li scuori, et scapi et svenj; Contr’a te strido. Et dico che i serenj Delle tempeste mie tuoi giorni nati, Quei risi su le mie lachryme infiammati Chiaman per te l’incendj, i ferri ‘i freni Non sej tu più che ingiuria ingiurioso? Non più che selva d’assassinj madre? Non,qual Stronphade, nido dell’Harpye? Imitar te non voglio che fastoso Non son, qual tu. Ma stimo ognuno che, ladro, Schiere d’uccelli fuggo. Et voglio die.
Credo che l’autore avrebbe voluto indirizzare il sonetto ad un suo preciso detrattore ma la sua posizione sociale non glielo consente e, di conseguenza, ricorre ad un artificio retorico per non incappare nell’ira di chi potrebbe distruggerlo. Ma ciò che a noi importa è soprattutto la lingua usata dal nostro: nella prima quartina, il primo verso si apre con una personificazione e un’apostrofe allo scherno che crocifigge «uomini buoni e saggi disocchiati», espressione con cui probabilmente l’autore intende alludere al cieco, saggio, Tiresia, tenendoli stretti in reti occhiute. Qui l’autore fa uso della paronomasia con il ricorso ad un aggettivo e un participio del quale dovevano contendersi la paternità il nostro autore e Marcello Adriani il Giovane che ne fa uso nel suo coevo volgarizzamento degli opuscoli di Plutarco.9 Interessante ancora, dal punto di vista lessicale, il quarto verso «Divorando li scuori et scapi et sveni», in cui la triade verbale, posta in climax ascendente, si apre con il termine «scuorare» legato polisindeticamente prima al verbo «scapare», per il quale Falgano attinge al linguaggio popolare dei pescatori,10 poi al già barocco «svenare», di fatto abusato nel secolo successivo. Nella seconda quartina il primo emistichio «Contr’a te strido», logicamente legato alla prima strofa, chiude l’apostrofe. Meno interessante, a livello lessicale, è la seconda parte del sonetto che insiste, invece, con largo uso di riferimenti classici, sulla sua poca fortuna presso i contemporanei. Ma, nonostante non avesse avuto riscontri esaltanti, Falgano rivendica fortemente la sua appartenenza alla schiera dei poeti come dimostra la canzone, cui accennavo dianzi, O alati poeti, che, come abbiamo detto, chiude il suo canzoniere. La prima strofa, infatti, recita come segue:
9
Opuscoli di Plutarco volgarizzati da M. Adriani nuovamente confrontati col testo e illustrati a cura di F. Ambrosoli, Milano, Tipografia de’ fratelli Sonzogno 1825-1829, vol. VI, p. 144. 10 Dizionario della lingua italiana, Bologna, Stampe de’ Fratelli Masi 1824, vol. VI, p. 498, ad vocem. Traduzioni e volgarizzamenti nel Cinquecento
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O alati poeti Che con Zephyri dolci et fiori et fronde Sopr’amatissim’onde Amor conduce lieti Alle nostre fiorite amate sponde E ’nfin che verde si mantien la selva Per versar in amore Versate con le voci il nostro cuore Ma sì tosto che Borea diselva Vostri frondosi alberghi aprite l’ale Per cangiar olt’amor col ben il male In van con voi me ’n volo Che se ben vi simiglio Che se ben fuggo assiderato Polo Se ben selv’amo e ’n selva versi figlio La selv’ è meco e ’l vern’è nel suo ciglio.
Sintomatici sono questi ultimi due versi che dipingono una figura triste di letterato povero, ma sicuramente dotato, che attende ancora che i suoi versi siano riportati alla luce.
III. I periodi della letteratura degli Italiani
«QUESTO STRANO E INTERESSANTE SEICENTO»
GIUSEPPE ALONZO L’antiaccademismo dei satirici secenteschi: un’anti-geografia italiana
Se è indubbio il rilievo propulsivo esercitato dalle accademie rispetto alla diffusione e alla concentrazione della produzione culturale nel Seicento,1 è altrettanto fuori discussione che questo fitto reticolato accademico fosse, fin presso i contemporanei, al centro di un dibattito che ne andava evidenziando le criticità e le distorsioni. Vi concorrevano, com’è intuibile, non solo i troppo spesso forti legami tra le accademie e i potentati locali, che inesorabilmente ne limitavano o perlomeno indirizzavano la libertà di azione intellettuale e di gusto, ma anche le dinamiche interne, condizionate da favoritismi, cortigianerie, nepotismi, e in generale da un progressivo misconoscimento del merito per l’accesso all’istituzione e alle sue cariche di governo. In tal senso, nei contributi più critici, le accademie finivano per apparire regolate da strutture paragonabili a quelle delle corti, sclerotizzate e gerarchizzate piuttosto che aperte al dibattito critico-intellettuale, nonché dilaniate da conflitti sia intestini sia reciproci.
1
Non è scopo di queste pagine fornire un quadro completo del problema e della bibliografia pregressa, anche relativamente alle vicende biografiche degli scrittori citati. Per quanto riguarda questi ultimi aspetti, si rimanda fin d’ora a U. Limentani, La satira nel Seicento, Milano-Napoli, Ricciardi 1961. Quanto invece allo sviluppo delle istituzioni accademiche e del rapporto tra esse ed i letterati, si veda in generale S. Ricci, Nota introduttiva, in Storia della letteratura italiana, XIII, La ricerca bibliografica e le istituzioni culturali, diretta da E. Malato, Roma, Salerno 2005, pp. 659-686. In questa breve rassegna ci si limiterà ad affrontare alcuni scrittori significativi della “satira regolare” secentesca, lasciando a futuri e imminenti studi più ampie prospezioni su figure di spicco come Bartolomeo Dotti e Lodovico Sergardi. Le citazioni sono dunque tratte solo da: S. Rosa [1615-1673], Satire, a cura di D. Romei e J. Manna, Milano, Mursia 1995; J. Soldani [1579-1641], Satire, Firenze, Albizzini 1751; B. Menzini [1646-1704], Satire, Milano, Società Tipografica de’ Classici Italiani 1808; L. Adimari [16441708], Satire, Amsterdam, Roger 1716. «Questo strano e interessante Seicento»
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Giuseppe Alonzo
Alcuni tratti fondanti dell’antiaccademismo sono intrinseci alla produzione satirica del secolo, cioè fanno parte dell’articolato ma iterativo sistema di riprovazioni morali rivolte ai meccanismi sociali nel loro complesso: la conflittualità tra i letterati, tacciati di vane ambizioni cortigiane piuttosto che di sani principi di verità; la figura stessa del letterato-segretario, condizionato dalle esigenze del principe e non da velleità artistiche né tantomeno morali; la mercificazione della produzione a stampa, le cui ambizioni appaiono del tutto formalizzate e avulse dal messaggio; alcuni eccessi di ordine teorico e stilistico propugnati da singoli consessi, come il purismo o il secentismo radicale. La critica dei satirici secenteschi al mondo accademico parte costantemente da presupposti morali, e pertanto si radica anche su precise questioni di diffusione del testo: manoscritta e sovente clandestina quella delle satire, istituzionalizzata e curata tipograficamente quella di provenienza accademica. Ma non è tutto: a questo è necessario aggiungere il rapporto non di rado personalmente conflittuale tra i satirici del secolo e le accademie contemporanee, il che, almeno per tratti, tende a palesare l’antiaccademismo di questi scrittori non più come insofferenza moralistica, bensì come astio soggettivo. Inoltre, com’è noto, tanto a Roma quanto a Firenze – centri di maggiore produzione satirica – l’osmosi tra accademia e corte, sia sul piano del condizionamento del gusto sia a livello d’ingerenza politica, era consistente, come dimostrano le vicende degli Umoristi in età barberiniana e dell’Accademia Fiorentina sotto Cosimo III. Questo influsso, esercitato più o meno direttamente e raffinatamente dai potenti, avrebbe dato facile adito ai satirici di biasimare nell’accademia le medesime distorsioni culturali e cooptative ravvisabili in una qualsiasi struttura di corte. Il fatto che la critica antiaccademica dei satirici secenteschi fosse in parte influenzata dai rapporti personali con le principali istituzioni italiane di tal sorta è in nuce evidente nei componimenti di Rosa. I biasimi rosiani all’intero sistema letterario di moda, infatti, sembrano non intaccare seriamente gli ambiti accademici, che rimangono sostanzialmente esclusi dalla sferza delle Satire: e, non a caso, Rosa fu non solo in stretto contatto, anzi membro, di rinomate accademie romane (San Luca, Intrecciati, Umoristi, Fantastici), ma fu egli stesso propulsore dell’accademia fiorentina dei Percossi. Quando Rosa entra nel merito delle conflittualità accademico-letterarie, lo fa mettendo in scena scontri personalistici piuttosto che diatribe istituzionali: nell’Invidia, ad esempio, alcuni scarni versi antiaccademici (in cui è facile intravvedere una sferzata agli stessi Umoristi cui Rosa era affiliato) sono introdotti da una alleviante e generica tirata contro i poeti moderni («tra lor con ostinati oltraggi / si tendon gli scrittor insidie e inciampo», V 281-282), che sfocia addirittura in una estenuante e anodina trafila ipercolta di liti tra letterati, attinte alla classicità grecolatina. Così stemperata, la puntata antiaccademica appare moderata anche dalla scelta «impersonale» di Rosa, che lascia il ritratto critico degli Umoristi avvolto tra le «nubi» e il «velen» di una Roma cortigiana e invischiata nella pubblica invidia: III. I periodi della letteratura degli Italiani
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Ma più del tuo velen sentono il baco i dotti d’oggidì; mira le nubi come di Roma il ciel rendono opaco. (Rosa V 334-336)
Sullo sfondo di questo attacco, com’è noto,2 si trovano i rapporti conflittuali tra Rosa e il sarzanese Agostino Favoriti, designato qui con il nomignolo di «Sciribandolo» e come «duce» delle «squadre» dell’Invidia (V 367-369): costui, segretario cardinalizio e Umorista a sua volta, fu in contrasti con Rosa almeno dal 1652, quando la satira era in fase preparatoria. Il conflitto, però, esplose nella prima metà del 1654, allorché – compiuta l’impresa dell’Invidia – gli attacchi dei detrattori a Rosa si fecero da poetico-teorici a personali. I livori con il Favoriti, personalità di notevole influenza alla corte romana, dovettero indurre il satirico a rilevare nel proprio componimento finanche un eccesso di fiele («mi bisogna più che lo sprone adoperare il freno»), e – ciò che appare teoricamente più rilevante – a temerne non solo l’impossibilità di qualsiasi incidenza pubblica, ma persino la probabilità di un danno privato: È ben vero che l’ellezione della satira accennatavi mi riescì in riguardo del sogetto di soverchio aspra e consparsa di punture, a segno tale che temo di buttar via il tempo per non esser soggetto da potermene prevalere con l’altri, e di pericoloso per questo cielo.3
Ancor più interessante, in termini di teoria e poetica della satira, appare una terzina, non vergata nell’autografo vulgato dal Cesareo ma presente nelle redazioni precedenti, in cui l’Invidia è prudentemente designata come «satira insieme, e apologia bizzarra»:4 non prettamente un’invettiva mossa dal fiele, bensì un’apologia, con intento difensivo piuttosto che biasimevole o correttivo. Gli attacchi al Favoriti, tuttavia, rimasero, e ciò costò a Rosa non solo un’istanza di esclusione dagli Umoristi, ma anche i sospetti infondati che egli non fosse l’autore delle satire. Queste dicerie sono al centro di una satira antirosiana intitolata Purgatorio e composta da Emilio Sibonio, accademico Intrecciato e Infecondo, appassionato del Tasso, amico del Favoriti, segretario di Sforza Pallavicino e sodale del Bernini. In realtà, Rosa in prima persona era al corrente fin dal 1654 di questa satira e di chi fosse il suo autore, dacché, in una lettera al Ricciardi del gennaio 1657, Rosa racconta persino di essere venuto alle mani con «un certo Emilio Sibonio secretario di
2
U. Limentani, La satira nel Seicento cit., pp. 195-200; la lite nacque dalla diffusione di un libello manoscritto fatto circolare dal Favoriti, in cui si stroncava la tragedia Costantino di Giovan Filippo Ghirardelli, giovane amico di Rosa. 3 S. Rosa, Lettere, 146, a cura di G.G. Girotto e L. Festa, Bologna, Il Mulino 2005, p. 163. 4 U. Limentani, La satira nel Seicento cit., p. 196 e n.. «Questo strano e interessante Seicento»
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cardinale, compositore d’una satira fatta in stil dantesco, il quale ne ha tocche da me quanto meno se lo pensava».5 La satira aveva una struttura «dantesca»: il satirico, infatti, raccontava di aver vissuto, in un sogno, l’avventura di Dante nel purgatorio, e di aver incontrato, in questa sede, l’anima del vero autore delle satire di Rosa, cioè il frate predicatore Reginaldo Sgambati. Questi intenta una requisitoria contro Rosa, accusandolo appunto di avergli sottratto le opere e di averne dato lettura come fossero sue, simulando attraverso aggiunte e corruttele una produzione propria. Quel che più conta è, però, la replica del Sibonio-Sgambati alla questione antiaccademica del Rosa. La mimesi dantesca, infatti, comportava un problema: come potevano essere sinceramente attribuite al frate predicatore le acri invettive di Rosa contro l’establishment curiale e accademico romano? La risposta è data dallo stesso Sgambati, che fa una specie di palinodia su ciò che avrebbe scritto, giustificando i «suoi» caustici versi come reazione ai cattivi consigli dello stesso Rosa: questi, infatti, lo avrebbe convinto che l’accademia fosse un ambiente malsano, e il frate, colto da umano sconforto per cui ora chiede perdono, avrebbe reagito componendo una satira antiaccademica indignata come l’Invidia. Non a caso, in questa requisitoria-apologia Sibonio-Sgambati cita proprio i versi dell’Invidia dietro cui Rosa aveva celato gli Umoristi, cioè quelle «nubi» che offuscavano il cielo di Rosa.6 La critica antiaccademica – e, nello specifico, antiumorista – di Rosa appare insomma dettata, da un lato, da spunti moralistici di ordine generale, correlabili al tema stesso della satira, cioè l’invidia; dall’altro lato, da motivi personali, che oscillano tra l’invettiva e l’apologia senza uscire da una dialettica sostanzialmente individuale. D’altro canto, nell’Invidia, anche i rimanenti e sporadici accenni di satira antiaccademica sembrano ricollegarsi a una critica di costume piuttosto scialba, e non tanto ad una serrata riprovazione della vuota solennità istituzionale di tali consessi culturali. Ne è valido esempio il sarcasmo iperletterario con cui Rosa schernisce i nomi accademici dei membri, costringendoli, da solenni quali si propongono, al rango di più modesti e grotteschi «margutti», pur attraverso un mero avvitamento poetico e senza chiari intenti critici: Or, congiunti a costui, certi margutti, tra lor conformi di costumi e genio, gli applausi di ciascun vorrian distrutti; si tiene ognun di lor Febo e Cilenio e con nomi al Liceo noti e a l’uom saggio Temistio un si fa dir, l’altro Partenio. (Rosa V 442-447)
5
S. Rosa, Lettere, 208 cit., p. 230. Si fa riferimento ad A. Borzelli, Una satira contro Salvator Rosa, Napoli, Casella 1910, pp. 17-18. 6
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Anche in questo frangente, tuttavia, referenti diretti dell’attacco satirico sono i libelli seguiti a quello del Favoriti sul Costantino del Ghirardelli,7 e dunque, ancora una volta, la satira antiaccademica si smorza nel caso particolare e personale, nella diatriba specifica, e pare avulsa da un messaggio morale e correttivo di ordine più libero e generale. Lo stesso formalismo accademico tipico delle solennità e delle adunanze appare assente tra i bersagli delle satire di Rosa, dove pure il tema l’avrebbe concesso, dacché la critica – ad esempio – al più becero purismo ben si confaceva a una teoria linguistico-espressiva schietta, diretta e veritativa come quella altrove sostenuta. Il convenzionalismo moderno stigmatizzato dal satirico, infatti, si declina in una critica di ordine più complessivo e sistemico, che, partendo dall’ormai trita invettiva contro gli eccessi delle stampe e la loro scarsa accuratezza a dispetto dei presupposti puristici con cui vengono pubblicate («usan cotanti scrupoli e rigori / sopra una voce, e poi non si vergognano / di mille sciocchi e madornali errori», II 493-495), sfocia in un pur originale biasimo agli stereotipi paratestuali del moderno sistema letterario: le poesie di elogio e soprattutto di autoelogio che si apponevano nelle carte iniziali delle edizioni a stampa con riconoscimenti ostentati e affettatamente velati sotto il nome d’«Incerto»: chi dice che scorrette e licenziose andavan le sue figlie e però vuole maritarle co’ torchi e farle spose; un altro poscia si lamenta e duole ch’un amico gli tolse la scrittura e l’ha contro sua voglia esposta al sole; quest’ampiamente si dichiara e giura che, visti i parti suoi stroppiati e offesi, per paterna pietà ne tolse cura; questi, che per diletto i versi ha presi per sottrarsi dal sonno i giorni estivi e ch’ha fatto quel libro in quattro mesi. Oh che scuse affettate, oh che motivi! (Rosa II 505-517)
La stessa autoreferenzialità del sapere ufficiale e l’assenza di una sincera ricerca critica avevano mosso la sferza di Soldani nella satira Sopra l’ipocrisia. Nell’ambito di una similitudine «dantesca», che non lesina al modello trecentesco né echi sintattici né lessicali («grifagno»), il tipico letterato moderno viene tratteggiato in atteggiamento totalmente conservatore e convenzionale. Caratteristiche dell’intellettuale
7 Il significato degli pseudonimi qui allusi è ricostruito da Jacopo Manna in S. Rosa, Satire cit., p. 308.
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soldaniano appaiono, infatti, la refrattarietà a qualsiasi innovazione critica e, conseguentemente, l’attacco sistematico a chiunque le proponga uscendo dal seminato della tradizione consolidata e, quel che è peggio, invadendo il campo di un sapere «privatizzato»: Qual grifagno falcon gira veloce sopra la macchia, acciocché il tordo alzando, mostri quant’è negli artigli feroce; tal l’insolente letterato, quando un esce dal saper fuor della pesta, sta in sull’avviso tuttavia appostando in che modo di brocco egli lo investa, ché vuol libero il campo, e ché nessuno ardisca por con lui la lancia in resta. (Soldani II 111-119)
Anche nel caso di Soldani, tuttavia, l’azione satirica non investe pienamente l’ambito accademico, ma rimane, come avverrà in Rosa, sul piano di un biasimo alle consuetudini più generali. D’altro canto, come Rosa, Soldani stesso fu vicino a varie accademie, a partire da quella Fiorentina (fin dal 1597), ma anche agli Alterati, di cui fu reggente, senza trascurare i Pastori Antellesi, esperienze in parte condivise con un altro satirico, sia pure di stampo «oraziano», cioè Michelangelo Buonarroti il Giovane. Inoltre va segnalato il contatto con Galilei, amichevolmente sostenuto nella satira Contro i peripatetici e dunque escluso – ma per una sorta di personalismo in bono più che per un’adesione piena e teorica al suo copernicanesimo – dai biasimi a quel mondo accademico di cui lo scienziato era pur sempre esponente di spicco, essendo peraltro distante l’esperienza antiaccademica del Capitolo contro il portar la toga. Nella parte finale del secolo, com’è noto, si assiste ad un ulteriore processo di deterioramento delle istituzioni accademiche secentesche tradizionali, ormai pressoché incapaci di nuovi impulsi innovativi e, insieme, prive della condivisa credibilità di istituzioni di pregio come gli Oziosi, gli Umoristi o gli Incogniti del primo Seicento. Inoltre, non va trascurato il fatto che tra i satirici di fine secolo – e ne è esempio principe Benedetto Menzini – non manchino casi di intellettuali più o meno giustificatamente emarginati dalle cerchie accademiche, e in tale prospettiva ancor più propensi di un Rosa o di un Soldani ad intrecciare il fiele della rivalità personale alla sferza antistituzionale. L’esperienza accademica del sacerdote fiorentino fu, com’è noto, amara e difficoltosa: epurato dallo studio pratese nel 1677, fu tenuto fuori da quello pisano, che era tra le sue aspirazioni nell’incarico di lettore, nonostante l’aiuto di Francesco Redi. Negli anni Ottanta e Novanta gli fu rifiutata, nonostante la reiterata richiesta, una cattedra all’Università di Padova. Solo dopo l’approdo a Roma, Menzini trovò una dimensione accademica più stabile, entrando in Arcadia e conservando relazioni con l’Accademia Fiorentina, con la Crusca e con gli Apatisti. Qualche malumore III. I periodi della letteratura degli Italiani
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gli fu causato dalla morte di Cristina di Svezia, ma ciò non ostò alla prosecuzione delle attività accademiche romane, anche oltre la stretta necessità di sussistenza. Nel profluvio satirico del Menzini prearcade l’antiaccademismo appare particolarmente veemente, sia in quanto satira di costume e di corte, sia in quanto critica più generale e penetrante all’interpretazione asfittica e autoreferenziale del sapere. Spinte cui, come si è accennato, vanno aggiunti i livori, le contese e le alleanze di cui Menzini fu vittima, perdendo ad esempio il primo incarico a Prato, oppure entrando in conflitto con l’ormai maturo Rosa per via della propria familiarità con il Favoriti. Tutto questo, insomma, conferma che l’esperienza delle numerose satire menziniane va collocata in un’epoca in cui il fiele contro le accademie e gli atenei settentrionali era ancora vivace, e comunque precedentemente alla partenza per Roma: solo allora il rapporto tra Menzini e le istituzioni accademiche avrebbe marcato un’evoluzione positiva, e avrebbe tratteggiato la figura di un nuovo intellettuale, disposto alla riflessione teorica e poetica piuttosto che alla contestazione. Buona parte dell’antiaccademismo menziniano ha come bersaglio le attitudini cortigiane delle istituzioni culturali. All’accademia, dunque, Menzini riserva una stigmatizzazione in primo luogo generale, strettamente collegata alle invettive rivolte alla corte di Cosimo III. Corte e accademia, nelle loro liturgie, non appaiono più distinguibili, e al loro reciproco riflesso pare adeguarsi anche il satirico, che si scaglia personalisticamente contro illustri membri della seconda per evidenziarne, nella prima, l’opportunistico carrierismo. Per Menzini è, soprattutto, il caso di Antonio Magliabechi: erudito, accademico, bibliotecario, ma soprattutto cortigiano, che pende dagli sguardi di un «padrone» ed è per questo deprivato di libertà critica; degno, insomma, non dell’insegnamento, bensì di un uditorio acritico («che ha fede in lui») e asservito alla sua figura, in quanto rappresentante del potere più che della cultura (Menzini VIII 139-147). L’inconcludenza dell’istituzione accademica non dipende, come in questo caso, dalla soggezione direttamente esercitata dal potere politico e dalla corte. Dipende anche dall’ignoranza dei membri, o meglio dalla loro concezione, come al solito, superficiale ed estetica del dibattito culturale. È chiaro che quanto più il Magliabechi (lo «Sciupa») assurge a polo negativo di questa inanità solenne (anche attraverso la derisione della sua bibliofilia), tanto più Menzini, e in generale i letterati ingiustamente emarginati dall’accademia, emergono come poli positivi di una cultura vivida e stimolante, ma soprattutto autenticamente colta. Altro bersaglio della satira antiaccademica menziniana è «Curculione», cioè Giovanni Andrea Moniglia, medico di corte e professore a Pisa, nonché autore di un’ampia produzione drammatica. Attraverso la figura di Curculione – che è oggetto di una satira più vivace e grottesca di quella, astiosa, riservata a Magliabechi – Menzini mette in scena non solo la solennità cortigiana dell’accademia (dal baciamani ad un «dottorevolissimo assiuolo» al «ferrajolo» di galileiana memoria), ma soprattutto l’ipocrisia che ne regola i meccanismi. E non si tratta, come nei satirici di metà secolo, di un’ipocrisia genericamente moralistica, bensì di un’alterazione della realtà sistematicamente affettata dai professori dello studio: «Questo strano e interessante Seicento»
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E quel, rinvolto poi nel ferrajolo, dice, alle due, e ’l baciamano rende al dottorevolissimo assiuolo. E queste son le brighe e le faccende ch’hanno costor; poi dicon grossi e tronfi che la cattedra scotta a chi l’ascende. (Menzini III 211-216)
L’università e l’accademia, insomma, appaiono come il regno di tronfi cortigiani ormai inerti perché «arrivati», cooptati per aderenze e non per competenze, e così staccati dalla realtà da alterarla non solo nell’approccio culturale, ma anche sociale: lo dimostrano, come si nota, le caricature degli abbigliamenti e delle livree accademiche, da ricondurre ai costumi carnevaleschi che anche un satirico tardo e settentrionale come Bartolomeo Dotti attribuirà alle liturgie tipiche di tali istituzioni. L’intera satira undicesima – di un Menzini più maturo e pronto a una «satira d’interni» – mette in scena un serrato dialogo tra un «Poeta» e un «Interlocutore» durante un’attesa in anticamera, cioè il tipico contesto di chi ambisce all’udienza e alla posizione. A farsi aspettare («io son qui, che è quattr’ore», irrompe il «Poeta», XI 23) è sì un «signore», probabilmente Cosimo III, ma il fatto che in anticamera sieda appunto un letterato dà all’ambiente tutti i caratteri di un’accademia cortigiana moderna. L’interlocutore, ad esempio, amaramente consapevole che al «Poeta» venga riservata un’attesa così sferzante, dato che è fine conoscitore del «valor de’ fiorentini ingegni» (XI 5). Bisogna sopportare, sostiene inoltre, che un principe, anzi il «padrone», possa «il Tasso disprezzare, amar gli Arlotti» (XI 21). Oltre al topos della poesia bistrattata a corte, dunque, emerge qui, performativamente e in forma dialogata, l’esclusione del letterato dai consessi cortigiani meno distinguibili dalle istituzioni accademiche che ne sono promanazione. Non a caso, i conflitti cortigiani cui si fa riferimento poco oltre sembrano contrasti poetici a suon di tenzoni e sferzate, oltretutto elevate da personaggi il cui pseudonimo richiama i diavoli danteschi, e quindi la tradizione letteraria. Tra l’altro, dietro a Ciriatto è ravvisabile il Magliabechi, mentre dietro al Troncio il Moniglia, a ulteriore conferma che, in questi versi, Menzini rimuginava più specificamente contro l’accademia che contro la corte: Per veder come spesso si accapiglia Ciriatto e Sannuto, e come il Troncio smerda Parnaso in versi e lo scompiglia? (Menzini XI 106-108)
Lungi dal rappresentare un motore critico del paese e, in prospettiva, un’avanguardia intellettuale per la corte, l’accademia risolve dunque al proprio interno lo scambio culturale, in un gioco autoreferenziale di autori, libri e lettori che si cono-
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scono, si ritrovano, si concedono ipocrite attestazioni di stima e si scambiano ossequiose recensioni: E pria mi dice: Amico, il freno togli d’ogni rispetto, e giudica severo, come se fosser de tuoi propri fogli. E ’l dice sì, che par che dica il vero, e ch’io mi sia nuovo Quintilio e Tucca, da Augusto eletti al nobil ministero. Ma in vero egli ha l’ambizione in zucca, e se modesto il pungo, e se ’l censuro, con un guardo sdegnato ei mi pilucca. (Menzini IV 211-219)
Sempre dall’ambiente fiorentino proviene la satira dell’Adimari, che però, piuttosto che un astio nei confronti del potere ingerente, rivela nei confronti dell’accademia una riprovazione morale di ordine più generale. Adimari, del resto, non è scrittore della contestazione (le Satire non mancano di encomi a Cosimo III), bensì è satirico essenzialmente moralistico, neppure animato da livori personali: considerate anche le sue origini aristocratiche, di contro a quelle più umili di Menzini, Adimari visse, anche durante la trasferta mantovana, tra gli onori dei principi, chiudendo la propria carriera allo studio fiorentino, ove subentrò al Redi come professore di lingua toscana, e rimanendo affiliato ad accademie di rilievo come quella Fiorentina, la Crusca, gli Apatisti, i Concordi di Ravenna, e infine l’Arcadia, dal 1691. Generica, moralistica e indeterminata quanto quella di Menzini era puntuale e, in sostanza, personale, la satira di Adimari, anche nei suoi riflessi antiaccademici, riporta al clima di metà secolo. Appena drammatizzato è un episodio presente nella prima satira, laddove si mette alla berlina la consuetudine delle letture accademiche, in cui il commento e l’elogio di quanto recitato rappresentano un momento obbligato dell’adunanza, indifferentemente dalla reale qualità del prodotto (Adimari I 403-423). Benché Adimari si cimenti in una derisione abbastanza serrata di certi costumi accademici – soprattutto l’ampollosità iperbolica delle lodi – l’oggetto della riprovazione è sempre e solo lo stesso: non l’accademia in sé, bensì il degrado morale dell’umanità, che ha effetti sulla produzione letteraria, sviata e scaduta, e sulla critica accademica, ipocrita e adulatrice, e per questo incapace di impostare un credibile sistema di valori. Il giudizio di valore e di merito, cioè, è inficiato dal «giocare in casa» dei membri che si cimentano in letture dal successo a dir poco scontato: Ma lo scorno e il dolor vien poi da tergo al solenne minchion che al plauso crede, di cui lieto risuona il proprio albergo. (Adimari I 430-432)
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Nella dialettica tra Verità e Bugia che anima la terza satira, invece, emerge un antiaccademismo «storico», cioè collegato al topos satirico secentesco del degrado dell’oggi rispetto all’aurea classicità. Oggi, nell’apocalissi adimariana, le accademie sono disinteressate ad un indirizzo unitario di ricerca, e soprattutto, anche al loro interno, non sono più regolate da saggezza e competenze, bensì dal saper parlare con destrezza, cioè dal mettere l’eloquenza a disposizione di un’affettata sicurezza retorica, e non della ricerca e della trasmissione della verità (sullo sfondo c’è la trita avversione dei satirici ai moduli retorici del secentismo): Altri princìpi delle cose furo ne’ tuoi portici un tempo, ed altri or sono, ché a suo modo ognun parla, e il fa sicuro […]. Or l’ignuda Bugia senza velame ne’ campi filosofici combatte, e l’argivo saper sfida a certame. Nuove accademie a suo capriccio ha fatte, quivi ciò che di saggio unqua s’udio nelle accademie antiche ella ribatte […]. La nostra età filosofar più degno nella Bugia ritrova, e il mondo ammira dove il falso è maggior, maggior l’ingegno. (Adimari III 927-951)
Un aspetto, tuttavia, che è ben presente nell’Adimari, può rappresentare una spiegazione più fondata e comprensibile dell’antiaccademismo dei satirici secenteschi. Si tratta, cioè, della questione del merito. La critica ai sistemi organizzativi del sapere, in altre parole, deriva dalla presa di coscienza che la società moderna riconosce possibilità di realizzazione e carriera a competenze tutt’altro che scientifiche o letterarie, bensì a capacità di altra natura – fisiche o virtuosistiche – che sono oggetto, per naturale reazione, del biasimo morale del satirico. L’accesso alle strutture del potere, e dunque anche alle istituzioni culturali, è determinata dai gusti degeneri del pubblico contemporaneo, che relega la produzione intellettuale più impegnativa a un ruolo marginale anche nei processi decisionali e accademici. In tal senso, il pubblico si trova in perfetta sintonia con il potente nell’emarginare pericolosi soggetti critici dalla sfera ufficiale e istituzionale dello stato. Questa dinamica, pur indiretta, spiega la prospettiva moraleggiante che gli scrittori qui presi in esame forniscono della questione accademica: una questione che, pur non trattata in modo esplicito, ha a che vedere con il merito intellettuale quale requisito prospettato ma non realizzato per l’accesso a tali istituzioni. L’esempio principe, nell’Adimari, è quello delle cantatrici. L’invettiva del satirico contro tale pratica e contro il suo dilagante successo tradisce, pur nel livore moralistico, una chiara concezione del «merito»: il merito è una fatica slegata dalla prestazione fisica e soprattutto dal feedback di un pubblico ampio. È piuttosto una virtù che il potere non riconosce, così come non lo riconosce il popolo (Adimari III. I periodi della letteratura degli Italiani
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parla, va ricordato, da una prospettiva nobiliare), mentre la prestazione canora non lo è, se non, appunto, in quanto manifestazione fisica di un virtuosismo e di un diletto (e qui, ovviamente, subentra la riprovazione morale): Dir che è virtude il canto, è un dir che uguale sia la dura fatica al fral diletto, le tenebre alla luce, al bene il male […]. Ma che il cantar di donna in mezzo al grido d’effeminato stuol che cieco appalude, atto sia virtuoso, il sento e rido. (Adimari IV 505-507)
La critica di Adimari, come si vede, risulta filo-accademica (si noti il «sudor delle cattedre», che Menzini bollava come affettazione dei professori), ma si schiera, benché genericamente e topicamente, contro un potere sordo alla cultura e interessato alle cantanti, che peraltro rappresentavano un più che vieto bersaglio dei satirici del secolo. Sarebbe parziale, tuttavia, sostenere che l’antiaccademismo secentesco sia esclusivamente antiprofessorale. Gli esempi d’altro stampo certo non abbondano, dato che il docente, così come il gerarca dell’accademia, rappresenta il potere, l’establishment esclusivista e ingiusto da colpire. Si prenda però in esame l’Ambrogiuolo dell’Acciano (1651-1681), un capitolo di carattere epistolare dedicato ad Ambrogio Acciano, conterraneo e omonimo dello scrittore. Il capitolo dell’Acciano, pur inscrivendosi in un sistema di valori e di espressioni burlesco e faceto più che satirico, presenta innegabili tratti d’invettiva, peraltro trascesi dal livello personale a una dimensione più generale: quella, cioè, della satira contro lo studente pedante e ignorante. «Ambrogiuolo» è un laureando in medicina che interpreta gli studi e l’università esattamente come suggerito dalle gerarchie istituzionali. Vi governa l’apparenza, la recita, la vacuità, il mero titolo, e lo studente, quanto più prono, vi si adegua: volea, per parer medico valente, girne a Salerno e ’l privilegio trarne sol quattro cuius recitando a mente […]! Fe’ farsi una bizzarra, adorna vesta per parer più pomposo al dottorato, e poi serbarla per il dì di festa.8
Al carnevalesco della discussione di laurea, che richiama moduli affini in Dotti
8 G. Acciano, L’Ambrogiuolo, 118-125, in Rime, a cura di L. Montella, Alessandria, Edizioni dell’Orso 1998, p. 49.
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e Sergardi, si sostituisce però, ben presto, la struttura odeporico-bernesca del tragitto del laureando dall’Irpinia – ciò che ne tradisce le origini zotiche – a Salerno. Tanta pompa, infatti, è accompagnata da un prelato e da un asinello, correlativo “apologale” e apuleiano dell’ignoranza del futuro medico: E seguendo Ambrogiuol i soliti usi di rimenarsi la lezione a mente, gìa con la bocca aperta e gli occhi chiusi […]. Anastagio ascoltavalo e dicea: – Replicate quel passo, io non l’intendo; quest’altro sì sta bene e ben si stea, ma, ser Ambrogiuolo, ve’, state in cervello, di voi non venga qualche nuova rea. –9
La scenetta di viaggio riproduce, abbassandola, la liturgia universitaria: allo studente si sostituisce il pedissequo «Ambrogiuolo», mentre al professore subentra significativamente il sacerdote di provincia, Filippo Anastagi – abbassato ad «Anastagio» sul modello dell’Onesti boccacciano – rappresentante di una cultura sì stantia e iterativa, ma perfettamente in linea con le esigenze dello studente. Studente e «docente» concordano di fatto con quell’aridità a compartimenti stagni che i satirici del secolo riprovavano all’università contemporanea. Questa volta, però, la satira resta confinata al caso del discente che, in tutti i suoi limiti, mal cela quello che resta appunto un sospetto: che, cioè, la sua ignoranza acritica e innocua risulti esattamente aderente a quanto l’asfittica accademia richiede. L’animalità dell’apologo subentra subito dopo, e rappresenta certamente il culmine del bernesco corporeo su cui il capitolo si struttura. Come da tradizione esopica, infatti, di fronte all’insensatezza e all’incoscienza dell’uomo, l’asino si dimostra particolarmente «intento al ragionar» di «Ambrogiuolo» e del prelato. Capisce che si tratta di disquisizioni mediche, ma soprattutto ne comprende la qualità e la profondità: L’asin, che di natura era indisposto, e preso avea la man di varie erbette emollienti un lubrico composto, tosto che a quel parlar l’orecchio mette, e ode ch’è di medicina, intento al ragionar più ch’altr’asino stette; e, preso ch’eran medici argomento, per far vedergli i suoi peccanti umori, la coda alzata e fatto un po’ di vento,
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Ivi, 214-229, pp. 52-53. III. I periodi della letteratura degli Italiani
L’antiaccademismo dei satirici secenteschi
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dal suo liquido ventre mandò fuori l’accolta feccia, e dalla barba in giuso empiè Mastro Ambrogin d’erbette e fiori.10
La reazione dell’animale è fisiologica (anzi, si potrebbe definirla «veterinaria», in quanto si offre per una sorta di esame clinico), ma tradisce chiaramente il messaggio del narratore: nello sterco non viene sepolto solo l’establishment, l’accademia maldestramente e iterativamente rappresentata dall’umile «Anastagio», ma anche lo studente, il laureando pronto, nell’ideologia dell’ipse dixit e dell’ignoranza più lambiccata, ad inserirsi nel contesto istituzionale che ciò richiede. Dunque, rispetto al lustro liturgico e all’autoreferenziale privilegio intellettuale reclamizzato dagli istituti culturali secenteschi, ne vengono sistematicamente contestati i meccanismi produttivi e cooptativi e se ne svela e ridicolizza la più vacua enfasi formalistica, vuota sia nei presupposti teorici sia negli intenti di divulgazione culturale. Di questa degenerazione, insomma, si biasima non solo la dimensione pubblica, l’asservimento al potente o i deteriori princìpi di selezione – che corrompono e sviliscono la funzione etica e civile dello scrittore al cospetto della comunità – ma anche la dimensione privata, cioè la conseguente intima involuzione del letterato, incapace di distinguere, immerso com’è tra le ambizioni accademiche e i vuoti conflitti istituzionali, il confine tra la tutela delle proprie prospettive di carriera e di mercato e la garanzia della propria integrità e dignità intellettuale.
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Ivi, 238-249, p. 53.
«Questo strano e interessante Seicento»
DOMENICO CAPPELLUTI Un esempio di scena gesuitica del Seicento napoletano: le tragedie di Leonardo Cinnamo
Il teatro tragico praticato nelle scuole rette dalla Compagnia di Gesù nel periodo che intercorre tra la seconda metà del XVI secolo e la prima metà del XVIII è strettamente legato ai canoni di ordine retorico e pedagogico definiti dalla Ratio studiorum e pertanto vive degli impulsi scenici dell’eloquentia corporis, diretta discendente dell’actio oratoria ciceroniana.1 I gesuiti curano attivamente il teatro inserendolo a pieno titolo tra le attività dei collegi attuando una pedagogia della parola finalizzata al dominio del mezzo linguistico. A partire dal Collegio Romano la pratica si estende a tutti i collegi dell’Ordine legandosi ai momenti più significativi della vita scolastica; sotto un aspetto meramente pedagogico, la rappresentazione teatrale educa gli studenti ad affrontare il pubblico, ad affinare le capacità declamatorie e ad interiorizzare i contenuti per raggiungere una complessiva crescita personale.2 Su queste premesse l’allievo è chiamato a farsi attore per trasfigurare sul palco le doti oratorie acquisite durante il corso di studi sfruttando il canale teatrale come banco di prova prima di cimentarsi nel «Gran teatro del Mondo», il gioco politico di un secolo riconosciuto come tra i più turbolenti della storia europea. Proprio in quanto prodotti della vita
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La Ratio atque institutio studiorum Societatis Iesu è il documento che stabilisce le regole relative alla formazione degli alunni nei collegi gesuiti, una vera e propria carta pedagogica dell’Ordine. Il problema di dotare gli istituti retti dalla Compagnia di una legge organica riguardante l’insegnamento viene affrontato già da Ignazio di Loyola nella parte IV delle Costituzioni della Compagnia di Gesù, ma l’ordinamento degli studi viene elaborato dopo la sua morte e pubblicato a Napoli nel 1599 sotto il titolo di Ratio studiorum (cfr. F. M. Sirignano, L’itinerario pedagogico della Ratio studiorum, Napoli, Luciano 2001, pp. 27-33; A. Bianchi (intr. e trad. a cura di), Ratio atque institutio studiorum Societatis Iesu, Milano, BUR 2002). 2 M. Fumaroli, Les jésuites et la pédagogie de la parole, in M. Chiabò, F. Doglio (a cura di), I gesuiti e i primordi del teatro barocco in Europa, Roma, Torre d’Orfeo 1995, pp. 46-49. «Questo strano e interessante Seicento»
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dei collegi fruiti all’interno degli stessi e, quindi, svincolati dai canoni del commercio e della professione, i testi teatrali gesuitici, quasi sempre manoscritti, inventariati e riordinati nelle biblioteche sono in numero davvero esiguo rispetto alla mole dell’effettiva produzione delle scuole, soprattutto a partire dagli inizi del Seicento.3 Ciò comporta l’estrema difficoltà nel reperire fonti e materiali riguardanti il fenomeno anche se il lavoro d’inventario resta il passo fondamentale per ricostruire un momento fondamentale della storia letteraria spesso trascurato anche in virtù dei pregiudizi sull’effettivo valore di un genere bollato come scolastico e privo di intrinseca pregnanza artistica. Tesi, questa, che non rende giustizia ai testi legati a questa tipologia di dramma, come ci conferma l’analisi di un manoscritto conservato presso a Biblioteca Nazionale di Napoli che ha tramandato due tragedie del padre Leonardo Cinnamo, Santo Eudossio e Melitone.4 Si tratta del manoscritto XIII E 49 segnalato già da Francesco Colagrosso nella sua opera del 1901, Saverio Bettinelli e il teatro gesuitico, un miscellaneo, cartaceo che consta di complessive 154 carte scritte in recto e verso e reca in frontespizio la data 1647; tuttavia è ipotizzabile che esso conservi la produzione drammaturgica del Collegio dei Nobili di Napoli dell’anno 1642 poiché il testo ci informa che il Melitone fu rappresentato nel carnevale del 1642 e, in mancanza di una simile indicazione relativa al Santo Eudossio, possiamo congetturarne la messa in scena per la festa della consegna dei premi tenutasi alla fine dello stesso anno, considerando il fatto che la Ratio raccomanda due rappresentazioni teatrali annuali da tenersi appunto a carnevale e alla chiusura dei corsi. Il Santo Eudossio presenta uno specchio mediamente di 19 linee scritte in un tratto spigoloso rispetto al Melitone, il cui tratto tondeggiante compreso in uno specchio di 18 linee indica la presenza di due copisti diversi che hanno trascritto separatamente le opere poi unite, verosimilmente nel 1647, data in cui Cinnamo è ormai lontano da Napoli. I soggetti di queste tragedie si collocano all’interno del dramma martirologico che, dagli inizi del XVII secolo, si sovrappone al dramma biblico fino a soppian-
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A tal proposito F. Colagrosso scrive: «Del teatro gesuitico poco si ha a stampa, molto è andato perduto e molto giace inedito nelle biblioteche. […] Quanta materia di studio per chi volesse mostrarci l’affaccendarsi di que’ Padri a metter su rappresentazioni per i loro allievi […]», F. Colagrosso, Saverio Bettinelli e il teatro gesuitico, Firenze, Sansoni 1901, pp. 6-8. 4 Leonardo Cinnamo nasce a Nola (alcune fonti invece lo definiscono napoletano o capuano) nel 1609, ed entra a far parte della Compagnia di Gesù nel 1623. Dal 1640 al 1642 è professore di retorica e Padre Confessore al Collegio dei Nobili di Napoli che abbandona nel 1643 per le missioni indiane. Muore a Serigapatam nel 1676. Sulla figura di Leonardo Cinnamo si rimanda a G. Caprile, L’apostolo del Mysore. P. Leonardo Cinnamo della Compagnia di Gesù (1609-1676), in «Le Missioni della Compagnia di Gesù», anno XXVIII, num. 3, Venezia, Fantoni 1942. III. I periodi della letteratura degli Italiani
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tarlo definitivamente all’interno della produzione teatrale gesuitica. Tratti dal martirologio romano nella versione post-conciliare approvata da Gregorio XIII nel 1586, i protagonisti, protomartiri cristiani del periodo delle persecuzioni del IV secolo, sono il perfetto esempio di soggetto pio e sacro raccomandato dalla Ratio.5 Tuttavia, più che l’aderenza alla rigidità della normativa pedagogica, è interessante notare l’impronta particolare con cui Cinnamo connota i suoi personaggi e le sue opere modellati secondo le riflessioni teoriche raccolte dal padre Tarquinio Galluzzi nel suo trattato, Rinovazione dell’antica tragedia e difesa del Crispo, edito a Roma nel 1633 e certamente influente nell’ambiente gesuitico napoletano proprio negli anni in cui vedono la luce le tragedie in questione.6 Sulla scia teorica del professore del Collegio Romano, Cinnamo tenta di operare nella sua scrittura drammaturgica una cristianizzazione del classicismo di matrice aristotelica incentrata sulle direttive tridentine e basata sull’effettiva necessità di una poetica tragica rinnovata dall’esaltazione dei valori di una christiana Republica.7 Così Cinnamo porta in scena eroi in grado di assecondare il principio galluzziano secondo il quale la tragedia dovrebbe stimolare nel pubblico un sentimento di imitazione originato dalle scelte estreme del protagonista; pertanto Eudossio e Melitone sono l’esempio classico del soldato fedele allo Stato alla cui difesa e gloria consacra la vita. Ma il conflitto tragico nasce quando la fede in Cristo diventa elemento stridente nella vita di questi eroi che lo Stato chiede di assorbire in toto. In quel caso, qualora si vadano a toccare le verità di fede e i precetti dettati da Dio, qualora lo Stato voglia travalicare il limite istituzionale e trasformarsi in autorità assoluta assoggettando anche l’anima del singolo che appartiene solo a Cristo, diventa giusta la ribellione, ma solo se trasfigurata in testimonianza di fede. In quel
5 La Ratio nell’edizione del 1599 fissa i limiti dell’attività teatrale dei collegi. La regola 13 del Rettore afferma: «tragediarum et comediarum quas non nisi latinas, ac rarissimas esse oportet, argumentum sacrum sit ac pium», cfr. F. M. Sirignano, Gesuiti e giansenisti. Metodi e modelli educativi a confronto, Napoli, Liguori 2004, p. 87. 6 Tarquinio Galluzzi (1574-1649), docente di retorica al Collegio Romano e allievo illustre, insieme a Famiano Strada, del più grande drammaturgo della Compagnia di Gesù, Bernardino Stefonio, è stato uno dei maggiori teorici della poetica teatrale gesuitica. Nella sua opera, Rinovazione dell’antica tragedia e difesa del Crispo (Roma, Stamperia Vaticana 1633) tenta di conciliare il dramma martirologico coi precetti aristotelici operando una vera e propria cristianizzazione del classicismo. A tal proposito si veda R. Giulio, Di Fedra il cieco furor. Passione e potere nella tragedia del Settecento, Salerno, Edisud 2000, pp. 31-43. 7 L’interpretazione del Galluzzi, ripresa poi da Cinnamo, è di stampo nettamente platonico. Infatti nella Rinovazione Galluzzi considera la tragedia utile alla respublica perché «cagiona un aborrimento contro a quella spietata tirannide, e una confermatione de’ spettatori nella religione e nella virtù, per cui cagione il personaggio della tragedia sofferisce di suo volere tormento e morte», cfr. T. Galluzzi, Rinovazione… cit., p. 60.
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caso l’eroe diventa il martire che professa la sua fede a costo della vita, in un sublime ed estremo slancio in Cristo. Cinnamo ci pone di fronte ad una perfetta sintesi di aderenza ai dettami controriformisti e precettistica gesuitica. Le sue tragedie prendono intrinsecamente posizione anche rispetto alle critiche mosse dai detrattori del dramma gesuitico sul piano dell’effettiva tragediabilità del martire cristiano.8 I profili di Eudossio e Melitone non rispondono al principio aristotelico della mezzanità: si tratta di personaggi completamente innocenti ed ingiustamente perseguitati che intendono stimolare nello spettatore non una catarsi basata sulla pietà e sul terrore bensì una sorta di ammirazione che sfocia in un sentimento di emulazione. In questo modo i personaggi sono funzionali al meccanismo tragico perché la catarsi viene sostituita dall’imitatio. I modelli eroici sono proporzionati alla fede cristiana e legati alle teorie di Galluzzi attraverso questo tentativo di rinnovare la tragedia antica ed originaria con una tragedia cristiana che si fonda sull’esaltazione dell’atto sublime e magnanimo proprio perché compiuto nel totale abbandono in Cristo al cui culmine l’angoscia della catastrofe si muta in momento gioioso e la morte diventa trionfale passaggio alla gloria eterna. Anche la retorica classica viene cristianizzata: al modello ciceroniano di orator che governa mediante la parola eloquente (vir bonus dicendi peritus) si sovrappone il modello borromiano di oratore che governa non gli uomini ma le anime (vir catholicus dicendi peritus).9 Cinnamo riproduce sulla scena una sorta di figura del Christus orator il cui Verbo si esprime attraverso un’eloquenza sciolta e fiorita in cui l’amore per la forma, lungi dal tradire un peccato di vanità, è un atto di devozione a Dio. La sua comunicatività si avvale di uno stile atto a persuadere attraverso il movere ricorrendo a una serie di grazie formali e legittima l’arte oratoria cristiana come strumento privilegiato di espressione e trasmissione delle verità di fede; tutto ciò eleva l’eloquenza alla dignità di funzione sacerdotale ed apostolica. La forbita veste retorica che ammanta le due opere balza immediatamente agli occhi: intarsiate di reminiscenze classiche ed altisonante sentenziosità, Santo Eudossio e Melitone rappresentano una summa dell’educazione morale e retorica impartita dal professore napoletano che spicca per abilità drammaturgica e perizia letteraria nel suo tentativo di conciliare anche posizioni tra loro lontane. Infatti le opere del gesuita napoletano rispondo-
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A questo proposito già Galluzzi con la Rinovazione si era impegnato in difesa della poetica di Bernardino Stefonio attaccato dai suoi detrattori sul fatto che i protagonisti delle sue tragedie non rispondessero al canone di mezzanità imposto dalla Poetica aristotelica. Soprattutto affronta l’argomento nella Difesa del Crispo (cfr. T. Galluzzi, Rinovazione… cit., pp. 107-124). 9 M. Fumaroli, L’età dell’eloquenza. Retorica e «res literaria» dal Rinascimento alle soglie dell’epoca classica, Milano, Adelphi 2002, passim. III. I periodi della letteratura degli Italiani
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no al tentativo di recupero delle forme classiche della tragedia e, contemporaneamente, stimolano il gusto barocco che si nutre di una forte dimensione spettacolare rimarcata dal sapiente utilizzo delle componenti musicali, coreutiche e scenografiche.10 Ogni atto, ad esempio, è suggellato da un coro in endecasillabi e settenari che, in un crescendo di musica, canto ed effetti scenici acuiva la presa emotiva della rappresentazione sul pubblico avvicinando questo genere teatrale al melodramma, spettacolo eletto dell’epoca barocca. La musica si inserisce nei momenti di maggior intensità emozionale, quando lo spettatore è più propenso a lasciarsi andare al sentimento di emulazione suscitato dagli eroi sulla scena. Una funzione diversa è attribuibile agli intermezzi (probabilmente inseriti in un momento successivo alla stesura delle tragedie) ai quali Cinnamo attribuisce la funzione di alleggerimento dell’azione principale dello spettacolo, offrendo una sorta di pausa emotiva agli spettatori con la rappresentazione di brevi vicende nelle quali prevale un’allegoria esplicitamente moralistica. Indubbiamente, però, una scelta molto forte è operata dall’autore rispetto alla lingua: il volgare viene preferito all’aulico latino, in un drastico distacco dalle direttive della Ratio che impone tragedie versificate e rigorosamente in latino (Regola 13 del Rettore); la scelta di Cinnamo risulta, dunque, coraggiosa, perché legata ad una immediata fruibilità e scorrevolezza dei testi che mostra una piena consapevolezza del limite reale che un teatro modellato sull’esempio dei grandi drammaturghi dell’Ordine (Tuccio e Stefonio su tutti, attivi al Collegio Romano nell’ultimo scorcio del XVI secolo e noti anche in ambiente napoletano) avrebbe potuto avere nella città partenopea. L’eccessiva lunghezza delle opere, la staticità dell’azione e la magniloquenza della veste retorica della lingua classica lontana dall’immediata fruibilità che il pubblico napoletano richiede, sono problemi ai quali Cinnamo si rapporta e risponde pur restando fedele ai calchi senechiani e ossequiando la Ratio. Quindi si tratta di opere ricche di scene esemplari ed infarcite del più vasto campionario di affetti scenici11 raf-
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Del resto anche al Collegio dei Nobili si offrivano, solo ed esclusivamente nei momenti di tempo libero, lezioni di canto e strumenti musicali come si evince chiaramente dal Sommario degli Statuti del Collegio dei Collegio dei Nobili di Napoli riportato in C. Belli, La fondazione del Collegio dei Nobili di Napoli, in C. Russo (a cura di), Chiesa, assistenza e società nel Mezzogiorno moderno, Galatina, ed. Congedo 1994, p. 263. 11 La poetica gesuitica degli affetti scenici, summa delle acquisizioni del teatro gesuitico secentesco (Cfr. G. Zanlonghi, Teatri di formazione. Actio, parola e immagine nella scena gesuitica del Sei-Settecento a Milano, Milano, Vita e Pensiero 2002, p. 251) è stata trattata da Dominique De Colonia, De arte rhetorica libri quinque, lectissimis veterum auctorum aetatis aureae, perpetuisque exemplis illustrati. Accessere in hac novissima editione Institutiones poeticae, auctore p. Josepho Juvencyo, Venezia, Tip. Viezzeri 1788. Il manuale del Colonia valorizzava gli affetti e la capacità della parola di suscitarli e controllarli, riconoscendo ampio spazio alla psicologia della comunicazione. «Questo strano e interessante Seicento»
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finati dall’eroica tensione dei protagonisti, anche i dialoghi dei personaggi e la fabula risultano ammantati di una patina di leggerezza formale più gradita all’ambiente napoletano che non si traduce affatto in minor cura del particolare. Se ci riferiamo alla lingua, ebbene essa nulla perde della sentenziosità del latino articolandosi in lunghi periodi ipotattici scanditi da un lessico selezionato e sintomatico di perizia linguistica bene amalgamata con la padronanza degli artifici retorici e la versatilità nella scrittura scenica dimostrata dall’autore. Se invece analizziamo l’aderenza ai canoni aristotelici, è possibile notare l’elasticità di Cinnamo che, pur attenendosi al criterio di verosimiglianza, si dimostra meno fedele al rispetto delle unità. Allo stesso modo riesce a svincolarsi abilmente anche da alcune restrizioni della Ratio, come il divieto di presentare personaggi femminili (tale norma viene aggirata mediante l’artificio del travestimento, portando in scena donne che, per decenza o necessità, indossano abiti maschili) o il divieto di basare la trama sull’amore passionale e sensuale (che Cinnamo trasfigura in amore coniugale, materno o in esempio di amicizia tenera e mielosa). Con questi artifici il nostro autore riesce a rendere le tragedie meno aride; ma se nella lingua e nella struttura le opere trovano una sintesi unificante, diverso è lo stimolo che l’una e l’altra forniscono attraverso la parola teatrale. Il Santo Eudossio sfrutta maggiormente l’eloquenza e la retorica connesse ad un movimento centrifugo che allontana i personaggi per poi riunirli in un luogo principale, quindi invertendosi al suo culmine. L’anteprima della tragedia è un elogio alla tensione al martirio come caratteristica del buon soldato di Cristo capace di non piegarsi di fronte al dolore ed alle sofferenze assurgendo a vette mistiche. L’azione rappresenta un crescendo di patetico abbandono ad un destino ineluttabile, al culmine del quale vi è la morte, senza spazio alcuno per il colpo di scena. Si tratta della rappresentazione di un percorso di fede che lo spettatore è invitato ad intraprendere che utilizza gli affetti per esaltare il martirio come obiettivo di un itinerario di edificazione morale che, attraversando varie fasi (la lotta assidua e costante contro le forze del Male destinate inesorabilmente alla sconfitta), si esplica nel messaggio ultimo dell’opera, ossia la militanza nella fede in Cristo. Il Melitone vive molto di più della comunicatività delle immagini rappresentate, privandosi quasi totalmente di dinamicità interna e diventando, a tratti, quasi statica al punto da perdere in spettacolarità ciò che tende ad acquistare in termini emozionali. Emblematico è il ruolo di Irene, madre del protagonista Melitone, spesso figura della Mater Dei pronta a salvare, convertire e perdonare. L’autore gioca anche nel presentare i personaggi attraverso punti di vista differenti, quelli reali e quelli creati dall’inganno e dall’errore generati dal malinteso. Il filo conduttore della tragedia è, comunque, la discesa (o sarebbe meglio dire l’ascesa) verso la morte nella quale i valorosi soldati capeggiati da Melitone vengono precipitati a causa della loro fede, in un repentino mutamento di fortuna (dalla gloria della vittoria alla condanna per infamia passano poche battute). Proprio questo repentino tracollo degli uomini che sfilano come eroi che hanno difeso l’Impero e, subito dopo, sfilano come condannati a morte per tradimento rende ancor più forte l’impatto emoIII. I periodi della letteratura degli Italiani
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tivo sul pubblico, stimolandone il desiderio d’imitazione. L’elemento prettamente patetico della tragedia è costituito dal rapporto madre/figlio, reso conflittuale e problematico dalla trama ma che si scioglie, nell’ultima scena della tragedia, in una toccante trasfigurazione dell’iconografia della Pietà, con la donna che tiene tra le braccia il figlio morente. Proprio il finale è la parte più poetica della tragedia, carica di un’intensità struggente nel rimando all’immagine cristologica della Vergine che accoglie il Figlio ai piedi della Croce in un roboante silenzio che contrasta con una fabula sostanzialmente priva di sussulti. I due drammi di Leonardo Cinnamo sono le prime tra le opere rappresentate al Collegio dei Nobili di Napoli: dalla data di fondazione dell’istituto (1634) a quella di rappresentazione delle tragedie (1642) passano solo otto anni e, quindi, si può affermare che esse abbiano tracciato le linee guida di tutta la produzione elaborata nei decenni successivi.12 Esse rappresentano il primo incontro tra le regole gesuitiche e la realtà napoletana, poli tra i quali Cinnamo si pone in qualità di mediatore. La sua visione del teatro non si discosta eccessivamente dalla coeva produzione, soprattutto del Collegio Romano (con il quale i gesuiti napoletani ebbero una fitta corrispondenza epistolare testimoniata dalle innumerevoli lettere spedite da ed alla Provincia Napoletana conservate nell’Archivio Romano della Compagnia); tuttavia proprio in quelle piccole differenze che si riscontrano emerge l’influsso della realtà partenopea e dei fermenti teatrali di una città storicamente fertile sotto questo aspetto. Il manoscritto XIII E 49 è testimonianza di questa situazione magmatica alla quale l’autore compiacente si adegua portando in scena un connubio sapiente di classicismo gesuitico ed ascendenze locali, senza tralasciare la globale tendenza ad una spettacolarità di stampo barocco che emerge, come detto, in particolare negli intermezzi, corollario alla sentenziosità oratoria ed alla forbita retorica tipica dei Collegi della Compagnia di Gesù. Precursore del dramma gesuitico dell’ambiente napoletano, Cinnamo è autore paradigmatico per la comprensione di un fenomeno che proprio a Napoli assume sfaccettature particolari ed interessanti, a tratti dinamiche e innovative rispetto ad ambienti molto più statici e vincolati al canone classicista. Le sue tragedie sono un piccolo ma significativo tassello utile ad una corretta ricostruzione della scrittura drammaturgica gesuitica, ancora poco investigata per quanto interessante.
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Tra le opere più importanti rappresentate al Collegio dei Nobili di Napoli negli anni successivi si sottolineano i drammi di Francesco Zuccarone (1621-1656), il Demetrio (1651) e il Leone armeno (1666) riportati in Rosanna Spirito (a cura di), Il Demetrio, Salerno, Gutenberg 2003 e in Ead. (a cura di), Il Leone armeno, Salerno, Edisud 2007. «Questo strano e interessante Seicento»
L’ITALIA DEGLI UMANISTI
VALENTINA MARCHESI «Poi che la patria così vole»: Pietro Bembo, la crisi italiana e la genesi dell’‘Historiae Venetae’ (1527-1530)
Nel saggio La guerra d’Oriente nella letteratura italiana del Cinquecento, originariamente edito su «Lettere italiane» nel 1964 (e poi raccolto, tre anni più tardi, nel suo vol. Geografia e storia della letteratura italiana), Carlo Dionisotti scolpiva con un inciso memorabile il tornante storico del 1530: Si spiega che chi, come ad esempio Pietro Bembo, si era nel 1526, pur dopo la battaglia di Pavia, indotto a scrivere un sonetto sull’eccidio dell’esercito ungherese nella battaglia di Mohács e sul dilagare dei Turchi nella pianura danubiana, restasse l’anno dopo senza parole di fronte al Sacco di Roma, e a maggior ragione si astenesse in seguito dal motivo poetico della crociata, che anche un veneziano appartenenente all’ordine gerosolimitano non poteva, in quelle circostanze, fare a meno di sentire come inutilmente evasivo. […] Se intorno al 1530 questa neutralità letteraria, al di là e al di sopra degli eventi, sempre più s’imponeva generalmente in Italia, anche là dove per forza di cose una neutralità politica non era possibile, tanto più essa si imponeva a Venezia dove […] la politica stessa della Repubblica sempre più fermamente si ispirava a una regola e a un ideale di pace. Anche e proprio per questo, intorno al 1530, apparve chiaro in Italia che a Venezia, non a Firenze o a Roma, doveva far capo la nuova letteratura.1
Dionisotti riportava così all’attenzione, comprendendoli in un più ampio disegno, alcuni testi di Bembo, vestigia di quella fase durante la quale quest’ultimo «dal 1525 al 1530 lavorò intensamente all’impresa di una nuova letteratura e di una nuova società letteraria in Italia», compiendo su di sé lucida opera di resistenza alla tempesta della storia.2
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C. Dionisotti, La guerra d’Oriente nella letteratura veneziana del Cinquecento, in «Lettere italiane», XVI (1964), pp. 233-250; poi nel suo vol. Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi 1967, pp. 201-226: 209, 212. 2 Id., Bembo, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, VIII, Roma, Istituto della EnL’Italia degli umanisti
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Valentina Marchesi
Il 1530 è infatti, per Bembo, l’anno in cui vedono la luce per la prima volta le Rime e, su altro versante, le opere latine, che – finalmente divulgate – disegnavano un lungo e tortuoso tratto della biografia del loro autore, dal De Aetna al De Virgilii Culice al De Urbini Ducibus, con la chiosa de imitatione a giustificare ex tunc le scelte linguistiche e stilistiche del letterato veneziano. Ma il 1530 è anche l’anno in cui, per Bembo, la ragion di stato apre nuovi orizzonti nella vocazione individuale, quando egli, per vincolo amicale, si trova a sostituire Andrea Navagero nel non facile e delicato incarico di storiografo della Repubblica di Venezia. Non facile – questa incombenza – non solo perché lo portava a riannodare i fili del passato, a livellare e conciliare i conflitti con la patria; ma anche (e forse soprattutto) perché lo induceva a interrogarsi circa un diverso rapporto con la storia. Certo – questo si può affermare con certezza – la promozione a Venezia rappresentava una preziosa freccia al suo arco (arco restaurato di latinista), in un momento in cui a Roma le cose non sembravano volgere a suo favore, non soltanto per la crisi strutturale dovuta al sacco del ’27, ma finanche per la rottura con Giovan Matteo Giberti, datario di Clemente VII, e il declino dei suoi alleati in Curia. In queste circostanze, lascia Roma e si ritira a Padova. Ma come arrivava Bembo a questa nuova e conclusiva stagione della sua vita? quale animo e quali intenti, quale opinione verso il presente lo riportavano a Venezia, dopo aver assistito – tra il 1526 e il 1527 – al sovvertimento di un ordine politico e diplomatico, che coinvolgeva tanto Venezia quanto l’Europa intera? E ancora: quale significato e quale valore attribuiva all’idea di una “patria”? La sezione conclusiva delle Rime può in tal senso costituire un utile punto di partenza, non ancora sondato. Vi si scoprono alcune implicazioni per così dire etiche, che bucano la superficie della tematica amorosa e petrarchesca prevalente nel canzoniere. Il primo brano è un sonetto del 1526 rivolto, attraverso il Giberti, a papa Clemente VII (l’incipit recita La nostra e di Giesù nemica gente), che per il tono di crescente fremito restituisce il senso di un frangente ormai irreparabile, della viva percezione del pericolo imminente delle istituzioni così come della bandiera cristiana. Lo spunto alla riflessione era offerto nel 1526 dalla battaglia di Mohács (nell’estremo sud dell’Ungheria), che segnava un ulteriore punto a favore dell’offensiva turca in Europa (dopo la caduta di Rodi, nel 1521, e la resistenza incerta della Germania oltre che dell’Ungheria stessa). Si tratta di un sonetto – scrive al Giberti – generato dallo «sdegno che io ho preso della vittoria che ’l Turco ha sopra l’Ungheria a questi dì avuta».3 Nelle due terzine finali è contenuta un’accorata
ciclopedia italiana 1966; ora in Id., Scritti sul Bembo, a cura di C. Vela, Torino, Einaudi 2002, pp. 143-169: 159. 3 P. Bembo, Lettere, II, a cura di E. Travi, Bologna, Commissione per i testi di lingua 1987, p. 386 (714). III. I periodi della letteratura degli Italiani
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invocazione al pontefice affinché «raffreni e domi / l’empio furor con la sua santa spada» (vv. 9-10). La nostra et di Giesù nemica gente, c’hor lieta, come fosse un picciol varco, l’Istro passando, in parte ha l’odio scarco sovra quei che la fer già sì dolente; di cui trema il Tedesco, e ’n van si pente, ch’al ferro corse pigro a l’oro parco, et vede incontro a sé riteso l’arco c’ha Rhodo et l’Ungheria piagate et spente; tu, che ne sembri Dio, raffrena et doma l’empio furor con la tua santa spada sgombrando ’l mondo di sì grave oltraggio, et noi di tema che non pèra et cada sopra queste Lamagna, Italia et Roma: et direnti Clemente et forte et saggio.4
E fin qui arrivavano le legittime preoccupazioni. Ma il Bembo, come altri, non poteva prevedere l’onda anomala (tanto più dal suo ritiro a Padova) che di lì a pochi mesi avrebbe investito l’Italia e con essa Roma. Che il suo intuito, e la sua volontà, non potessero spingersi al di là del riconoscere la minaccia all’orizzonte – come già suggeriva Dionisotti – è provato d’altronde anche da un altro sonetto, di qualche mese posteriore, indirizzato al Giberti stesso, Mentre navi e cavalli e schiere armate.5 Qui – insieme alla schietta dichiarazione di una difficoltà a interpretare l’attualità – s’intravedono una forte implicazione personale, e la riaffermazione di una vita di studi e di meditazione che lenisca almeno in parte la ferita del presente, il venir meno di una sicurezza di luoghi e di sedi di cultura offuscati dal rumore della politica e della storia. Mentre navi et cavalli et schiere armate che ’l ministro di Dio sì giustamente move a ripor la misera et dolente Italia et la sua Roma in libertate, son cura de la vostra alta pietate, io vo, signor, pensando assai sovente cose ond’io queti un desiderio ardente di farmi conto a più d’un’altra etate. Dal vulgo intanto m’allontano et celo
4
P. Bembo, Prose e Rime, a cura di C. Dionisotti, Torino, Einaudi 19662 [19601], p. 596; P. Bembo, Le rime, I, a cura di A. Donnini, Roma, Salerno Ed. 2008, pp. 312-314 (126). 5 P. Bembo, Prose e Rime cit., p. 599; Id., Le rime, I cit., pp. 319-322 (130). L’Italia degli umanisti
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là dov’io leggo et scrivo, e ’n bel soggiorno partendo l’hore fo picciol guadagno. Peso grave non ho dentro o d’intorno; cerco piacer a Lui che regge il cielo; di duo mi lodo e di nessun mi lagno.6
A spingere definitivamente il Bembo verso Venezia giungeva, nel maggio del 1529, l’improvvisa morte di Andrea Navagero. La candidatura del Bembo nel posto che, prima del Navagero, era stato di Marcantonio Sabellico, viene avanzata dal nipote Giovan Matteo e dall’amico Giovan Battista Ramusio, dopo che – nella primavera del 1529 – il Navagero si era gravemente ammalato, lasciando presagire, per sé, sorti non liete. Al Navagero Bembo dedica un distico (i due sonetti Navagier mio, ch’a terra strana volto e Anime, tra cui spazia or la grande ombra) nella sezione delle rime in morte, dove a lui, «dotto» emulo degli antichi, è reso il merito di «giovar a la patria» con le «palme latine».7 Che tra Bembo e Navagero dovesse correre un vivo scambio intellettuale si evince peraltro già dai versi latini di quest’ultimo, dove Bembo occupa, insieme a Paolo da Canal (sul cui ruolo nei circoli veneziani occorrerebbe, a tutt’oggi, più di un sondaggio), una posizione tutt’altro che defilata.8 Ma se per recuperare dati puntuali occorrerà rifarsi alle Iscrizioni veneziane del Cicogna, dove l’ampio elenco dei commenti agli autori classici rende già ragione del lungo dialogo col Bembo, si potrà però intanto affermare che il Navagero era rimasto per tutta la vita, almeno nominalmente (come noto l’incarico affidatogli fu ampiamente disatteso), uomo pubblico, uomo e patrizio di Venezia; degno, in questo, della più alta stima da parte di Pietro, che pur aveva scelto un percorso diverso. Ciò non toglie che nella dirimente antologia di Rime diverse, edita da Giolito a Firenze nel 1545, il Navagero avesse un suo posto come poeta di cose d’amore (con sei brani in tutto).9 Come ricorda tuttavia Cian, nel XIV capitolo del suo Decennio, alle ragioni amicali si aggiungevano anche quelle della storia maggiore, poiché nell’autunno del 1529 letterati e politici, e Bembo stesso, si erano radunati a Bologna intorno a papa Clemente VII e all’imperatore Carlo V, lì convenuti per discutere dell’emergenza europea, nonché per la grandiosa incoronazione dell’imperatore in San Petronio.10
6 C. Dionisotti, La guerra d’Oriente cit., pp. 208-210; R. Righi, «Otium» e «negotium»: i due poli dell’inconscio bembiano, in «Studi e problemi di critica testuale», 56 (1998), pp. 95-117. 7 P. Bembo, Prose e Rime cit., pp. 632-633. 8 G. Cotta-A. Navagero, Carmina, Torino, Res 1991, pp. 60-61. La princeps, postuma, è del 1530 (Andreae Naugerii Patricii Veneti Orationes duae carminaque nonnulla, Impressum amicorum cura quam potuit fieri diligenter, Venetiis, Joan. Tacuini 1530). 9 E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, VI/1, Bologna, Forni 1970 [= Venezia 1842], pp. 169-173 (4). 10 V. Cian, Un decennio della vita di m. Pietro Bembo (1521-1531), Torino-Roma, Loescher
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Nel frattempo, nel giugno del 1529, il Ramusio aveva scritto al Bembo dell’incarico lasciato vacante dal Navagero. A metà del 1530, dopo varie traversie, Bembo tornava a Venezia, e nelle parole di una lettera del 29 settembre al nipote Giovan Matteo e al Ramusio si legge tutta la consapevolezza dell’imminente svolta (il decreto di nomina porta la data del 26 settembre): di un ritorno alla patria che – morto il padre Bernardo, interlocutore epistolare di tutti gli eventi della storia veneziana; morti gli amici (Luigi da Porto, tra gli altri, oltre al Navagero) – pesava sulle sue sole spalle. E non era più, come ai tempi del distacco, mera questione di destino, o di scommessa da contrapporre alle vie tracciate dalla nobiltà e dal Senato veneziani: ma era, integralmente, questione di politica, di strategia individuale e di situazione collettiva. Né rappresentava, per Bembo, un impiego forzato, o una scelta di comodo: e la decisione, pur sofferta e resa più grave dalla salute e dalla sorte incerte (la malattia che lo colse nel luglio del 1530 fu solo all’origine di un periodo per lui negativo), di votarsi al presente, o all’immediato passato della storia d’Italia e della patria sua, rappresentava invece il segno di un’avvenuta maturazione. Il segno, forse, della coscienza del ruolo che gli spettava ormai nella storia, e per la storia. L’«aristocrazia dell’ingegno»,11 alla quale si era votato venti e più anni prima, importava ora l’idea di fare un passo indietro e di essere non più forse protagonisti assoluti, ma personaggi comprimari di uno scenario in cui non più singolarmente dominabili (e per ciò interpretabili) apparivano le variabili e i fattori in gioco. E se per giunta Roma taceva, era Venezia a offrirgli una temporanea sistemazione, insieme all’occasione per ricucire sontuosamente, e da par suo, lo strappo giovanile. Nella già citata lettera ai suoi due sostenitori, scritta da Padova, la consapevolezza della chiamata risulta – così come nelle Rime – temperata da qualche perplessità, nonché dal velato rimpianto per una vita di studi che non intende sacrificare. Dio vel perdoni, […] poi che avete procurato che mi sia interrotto questo mio dolce ozio, e quelli studi che m’eran più cari e grati che ogni degnità e grandezza. Però che
1885, pp. 140-152. Ma si v. almeno D. Perocco, Uno storico mancato, un viaggiatore involontario: il caso di Andrea Navagero, in Forma e parola. Studi di italianistica in memoria di Fredi Chiappelli, Roma, Bulzoni 1992, pp. 327-339; G. Cozzi, Cultura politica e religione nella «pubblica storiografia» veneziana del ’500, in «Bollettino dell’Istituto di Storia della Società e dello Stato», V-VII (1963-1964), pp. 215-294, ora nel suo vol. Ambiente veneziano, ambiente veneto. Saggi su politica, società, cultura nella Repubblica di Venezia in età moderna, Venezia, Marsilio 1997, pp. 13-86; F. Romanini, «Se fussero più ordinate, e meglio scritte…». Giovanni Battista Ramusio correttore ed editore delle Navigationi et viaggi, Roma, Viella 2007, 1-43. 11 C. Dionisotti, Chierici e laici (originariamente, con alcune varianti, col titolo Chierici e laici nella letteratura italiana del primo Cinquecento, in Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento, Atti del Convegno di Storia della Chiesa in Italia [Bologna, 2-6 settembre 1958], Padova, Antenore 1960, 167-85), nel suo Geografia e storia della letteratura italiana cit., p. 80. L’Italia degli umanisti
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io certo sono che abbiate fatto quanto avete e saputo e potuto a questo fine. La qual cosa nondimeno io piglio da voi con quella mano che io debbo, e non dubito che fatto l’abbiate ad ottimo fine. Ma pure io non viverò più così libero e così quieto come io facea, a questa servitù e in questo mare mettendomi. […] Non saprei negare alla patria mia cosa alcuna che ella così instantemente e onoratamente mi richiedesse. E a dirvi il vero, sopra tutto m’ha a ciò messo la Serenità del Prencipe, che m’avete amenduni scritto così amorevolmente avere e disposta e ordinata la materia. Piglierò adunque questo non leggier carico, poi che così ha voluto chi sopraporre mi può ogni peso. E crediate che non è lieve impresa lo scrivere istorie a chi cerca dar di sé buon conto.12
Scrivendo al solo nipote Giovan Matteo «all’ultimo di Settembrio MDXXX», commentava poi assai più liberamente: «Arei voluto starmi in pace, ma poi che la patria così vole, o più tosto voi così avete voluto, pazienza»: ma è la «patria», non altri; la patria di un vincolo oneroso eppure irrinunciabile.13 Sono riflessioni, e preoccupazioni, che affiorano ancora dalle Rime, e in particolare da tre sonetti rivolti ad altrettanti interlocutori per così dire non accidentali, ossia Carlo Gualteruzzi, Girolamo Querini e Francesco Maria Molza. Dalla tessitura di questi versi, scritti tra il 1530 e il 1535, trapela una filigrana tutta politica e civile: l’abbandono della poesia volgare e d’amore (al fedele Gualteruzzi), l’ascesa al cardinalato (a Girolamo Querini, nipote di quel Vincenzo – prematuramente scomparso nel 1514 – che era stato rivale, oltre che amico, del Bembo), e poi finalmente (al Molza) il senso scoperto del ritorno a Venezia. Poiché se al Gualteruzzi (forse nel 1534) avrebbe scritto: «A tal opra [cioè alla Storia] in disparte ora son volto, / che per condurla più spedito a riva, / ogni altro a me lavoro ho di man tolto»;14 fa poi al Molza professione di lavoro umile e nuovo, quando gli confessa: «Tacquimi già molt’anni, e diedi al tempio / la mal cerata mia stridevol canna, / e volsi a l’opra [sempre la Storia], che lodate, il core».15 Si tratta, in quest’ultimo caso, della risposta del Bembo (Se col liquor che versa, non pur stilla) a un sonetto, Bembo che dietro a l’onorata squilla, che il Molza gli aveva inviato chiedendogli di interrompere la composizione della storia veneziana per dedicarsi nuovamente alla poesia.16 La risposta del Bembo, pur leggermente dissimulata, non lasciava adito a dubbi:
12
P. Bembo, Lettere, III cit., p. 185 (1152). Ivi, p. 187 (1154). 14 P. Bembo, Le rime, I cit., pp. 348-349 (146). 15 Ivi, pp. 351-353 (148). 16 Delle poesie volgari e latine di Francesco Maria Molza corrette, illustrate, ed accresciute colla vita dell’autore scritta da Pierantonio Serassi, I [Contenente le cose altre volte stampate], In Bergamo, Appresso Pietro Lancellotti 1747, p. 201. Il sonetto del Bembo ora in P. Bembo, Le rime, I cit., pp. 350352 (148). 13
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decideva, in quel momento, di voltare pagina. «Volsi a l’opra, che lodate, il core»: forse con alcuni rimpianti, ma certamente nella coscienza di un nuovo compromesso di vita e di studi. L’incarico da storiografo entrava dunque nell’autobiografia in versi, nel diagramma delle Rime, a pieno titolo, al fine di fornire esatta rappresentazione della fase più matura della vita e della carriera del suo autore. Bembo ci arrivava con la consapevolezza che fossero, quelli, anni di riflessione, non di sperimentazione; della ricerca di certezze, o della soluzione di problemi immediati, non di abdicazione alle ragioni di una storia comune. Si trattava di dare prova di sé in latino, e di scendere nell’agone di un impegno preciso: non la militanza politica o diplomatica (quale aveva scelto, e pagato sulla sua pelle, Baldassarre Castiglione), ma il racconto di un presente o di un recente passato, altrimenti lasciato in balia della tempesta; altrimenti privato di un’interpretazione solida e convincente, magari problematica, talvolta onestamente negativa, ma certamente tesa a rintracciare i fondamenti e i valori di un’identità comune. Di Venezia e del Veneto, e di un’Italia percepita – con i parametri del tempo (e sotto l’egida della Roma pontificia) – quale ipotesi di un senso culturale e morale, ancor prima che politico. Nasceva così la Storia di Venezia, che ripercorre le vicende della storia italiana (non solo veneta e veneziana) dal 1487 al 1513, in dodici libri: un’opera che assumeva agli occhi del suo autore il senso di un’investitura non peregrina, così come si legge nell’incipit del primo libro: Urbis Venetae res annorum quattuor et quadraginta scribere aggredior, non iudicio aut quod ita mihi libuerit, sed quodam quasi fato vel certe casu. Nam cum Andrea Naugerio, cui haec publice cura tradita fuerat, in legatione Gallica vita functo, decemviri a me collegii decreto petiissent, ut, quando is moriens sua scripta comburi iussit, ipse ea in re atque munere patriae meam opem requirenti ne deessem, pudore verecundiaque recusandi ad variam atque multiplicem, quodque vere possum dicere, multo maxime operosam scriptionem me contuli, annos natu sexaginta; ut, nisi reipublicae exstaret postulatio, merito me homines reprehendant id aetatis ausum tantum onus sustinere; bella enim plurima propeque continentia atque maxima, cum ab Italiae, Germaniae, Galliae, Hispaniae populis et regibus, tum a Turcarum imperatoribus excitata, vel terra vel mari gesta, sunt scribenda; quorum quodque iustum totius historiae volumen atque separatum posse conficere, quam uno omnia comprehendi atque contineri, nemo non dixerit. Multa praeterea domi vel senatus consulta, vel leges, vel iudicia illustria, vel novi magistratus, multi hospitio reges liberaliter accepti, multi honores dis immortalibus habiti, multae prodigiorum domi forisque praedictiones, tempestatum ac siderum mirae vicissitudines, huius temporis memoriam exemplis innumerabilibus referserunt; quae colligere et mandare litteris nec amantis otium animi est, nec minimae industriae.17
17 P. Bembo, History of Venice, I, edited by R.W. Ulery jr., Cambridge (Mass.)-London, Harvard Univ. Press 2007-2009, che si basa (pur in assenza di una precisa disamina critica) sull’edizione del testo latino apparsa a Venezia nel 1551.
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Nel rimarcare (non iudicio aut quod ita mihi libuerit) che l’impresa non nasceva da una scelta individuale, sentiva altresì di obbedire a un destino suo proprio (sed quodam quasi fato vel certe casu). La scelta di fermare la narrazione all’altezza del 1513 e dunque al proprio esordio come segretario del papa era già una forma d’indipendenza rispetto alle consegne istituzionali, che avrebbero voluto una narrazione di più lungo periodo; ma, in fondo, quell’opera chiudeva anche il cerchio di un impegno nelle lettere classiche, latine e greche, e in questo rappresentava il più alto riconoscimento delle sue imprese. Nell’anno, poi, in cui erano finalmente consegnate alle stampe le sue maggiori prove nella lingua di Roma. Fu l’ultima, e grandiosa, fatica della sua vita, tanto diversa – per spirito e intenzioni – dalla produzione letteraria di cui aveva dato in precedenza prova: opera in un latino severo e composto, che tuttavia non escludeva il coinvolgimento e la passione del suo autore, se è vero che in limine mortis, tra il 1544 e il 1546, Bembo volle volgerla in volgare, pur non facendo in tempo a vederla pubblicata (uscì a Venezia, con le cure di Carlo Gualteruzzi e di Giovanni Della Casa, nel 1552, mentre l’originale latino era uscito a Parigi e a Venezia nel 1551). Fu un lavoro che non risparmiò al Bembo delusioni e aggiustamenti, poiché il progetto e la scrittura dell’opera furono sottoposte da un lato al controllo dei Riformatori dello Studio di Padova, dall’altro alla censura del Consiglio dei Dieci: ne risultarono tagli, modifiche, scorci non previsti dall’autore eppure necessari alla salvaguardia della ragion di Stato, e dell’immagine intera di Venezia. Di questa difficoltà, quasi una ferita istituzionale interna all’opera, si accorse per primo Iacopo Morelli pubblicando nel 1790 il testo volgarizzato della Storia nella versione originale di Bembo (un regesto delle correzioni sarebbe poi stato tentato, ancora nel 1883, da Emilio Teza).18 Ma ancora nel 1718 l’opera era fatta circolare in un’edizione ufficiale, quella degli storici di Venezia, in dieci volumi: e lì, di nuovo, la fisionomia autentica dell’opera era soverchiata dalle stesse ragioni politiche che ne avevano permesso l’esistenza.19 Il Bembo, pur dissimulando, accusava il colpo. In una lettera non datata, ma collocabile alla metà dell’ottobre del 1530 (sulla strada «tra Padova e Venezia»), scriveva al Ramusio, suo vicario nell’impresa: «Quelli che dicono che io non scriverò questa benedetta Istoria vederanno, spero assai tosto, quello che non vogliono.
18 Della Istoria Vinitiana di m. Pietro Bembo cardinale da lui volgarizzata libri dodici ora per la prima volta secondo l’originale pubblicati, In Vinegia, Per Antonio Zatta 1790; E. Teza, Correzioni alla ‘Istoria veneziana’ di Pietro Bembo proposte dal Consiglio dei Dieci nel 1548, in «Annali delle Università toscane», 18 (1888), pp. 75-93; F. Lagomaggiore, L’Istoria viniziana di M. Pietro Bembo, in «Nuovo archivio veneto», 7-9 (1904-1907), pp. 65-98. 19 Degl’istorici delle cose veneziane, i quali hanno scritto per pubblico decreto, Venezia, Appresso il Lovisa 1718, 10 voll.: nel secondo vol.; brevemente A. Del Ben, Le due ‘Storie Venete’ del Bembo, in «Aevum», LXXVIII (2004), 3, pp. 719-724.
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E già ho incominciato fatiche a questo fine. Ancora che io vorrei che essi avessero questo carico più tosto che averlo io, e saria contento che essi fossero in ciò contenti».20 Qui, nella risposta a distanza a «quelli che dicono» (i Riformatori e il Consiglio), c’è tutto l’orgoglio del personaggio di fronte agli ingranaggi della diplomazia ufficiale. Probabilmente Bembo pensava di poter trarre qualche beneficio, in termini di autonomia compositiva e di visibilità, dalla nomina proprio tra il 1528 e il 1530 dell’antico amico Niccolò Tiepolo tra i Riformatori di Padova, salutata in un’altra epistola volgare come una boccata d’ossigeno nella redazione dell’opera.21 Quella fu l’occasione in cui il rapporto tra i due – il Tiepolo era stato tra i firmatari delle Leggi della Compagnia degli Amici, poi dedicatario del De Urbini Ducibus – si rinsaldò: certo è che Bembo confidava di trovare nell’amico un punto d’appoggio per mantenere, sull’opera, quel controllo che viceversa gli organismi istituzionali pretendevano di sottrargli. E certo è, al contrario, che nel 1548, all’indomani della morte del Bembo, le Lacrime pubblicate in onore del defunto da Agostino Beaziano sarebbero state offerte e dedicate, e pubblicamente, proprio al Tiepolo: mossa, questa, che doveva evidentemente obbedire a un legame ben noto di fronte alla comunità veneziana.22 Un racconto irto di difficoltà, quello della Storia, perché difficili erano allora le circostanze storiche e culturali, e quella sintesi non lirica doveva forse, e anche, rappresentare una risposta alla crisi italiana. Vi entravano questioni spinose per Venezia, dal rapporto con l’autorità pontificia e in special modo con Giulio II, al problema del dominio di Terraferma, infine alla disfatta di Agnadello: e Bembo doveva dimostrare un uso non ingenuo e non attaccabile del chiaroscuro. Erano in larga parte fatti che aveva vissuto da protagonista, e in prima linea (come l’ambasceria a Venezia nel 1514 per conto di Leone X): e da qui gli veniva certamente un’attenzione agli aspetti umani e psicologici per così dire della politica che traspare a più riprese dalla superficie dell’opera. Dalla complessa ricostruzione delle vicende storiche, belliche, militari venivano d’altra parte chiariti i rapporti di forza di un trentennio decisivo per la storia italiana: e il distacco dell’autore rispetto a uomini, che erano stati tanto protagonisti delle vicende veneziane quanto sodali della sua esperienza personale (da Vincenzo Querini, nei confronti del quale – livellando i dissidi giovanili – spende parole di autentica stima, nel libro VII, rievocando la sua ambasceria presso l’imperatore Massimiliano nel 1507; al duca Guidubaldo di Montefeltro suo ospite),
20
P. Bembo, Lettere, III cit., p. 193 (1166). Ivi, p. 470 (1450). 22 V. Marchesi, Pietro Bembo, la crisi italiana e la genesi dell’‘Historiae Venetae’ (1527-1530). Con appunti sulla tradizione delle rime di Niccolò Tiepolo, in «Aevum», LXXXV (2012), 3, in corso di stampa; M. Frapolli, «Quand’io sarò spento e sotterra». I pianti lirici in morte del Bembo e il ruolo di Domenico Venier, in «Filologia e critica», XXXIV (2009), II, pp. 161-205. 21
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conferiva a quell’opera la dignità risoluta necessaria a un momento di crisi e di rilancio. Si trattava di illuminare vicende respirate e vissute direttamente; e di mostrare il ruolo della Serenissima, la sua peculiare e insopprimibile identità politica e culturale. A ciò valgano due esempi, sintomatici sebbene non esaustivi: il ritratto di Urbino e della successione, a Urbino, tra Guidubaldo e Francesco Maria Della Rovere, che apre il libro VII, e l’inquadramento problematico (nel successivo, l’VIII) della capitolazione di Agnadello, alla quale – a tempo debito – aveva dedicato alcune lettere al padre Bernardo, in latino, che si distinguono per la lucidissima analisi politica e la conoscenza non ovvia delle dinamiche belliche.23 Qui, come in numerosi altri casi, più che l’accesso alla documentazione messagli a disposizione dal Consiglio (come i Diarii del Sanudo),24 contano i materiali epistolari, serbatoio di esperienze e di rapporti ai quali Bembo attinge a piene mani per la redazione dell’opera. Alcune epistole volgari testimoniano come Bembo, tra il marzo 1528 e l’agosto 1531, si servisse dell’aiuto del Ramusio per procurarsi copia di testi classici: Cicerone, Celso, Plinio, Livio.25 La partitura dell’opera rivela infatti un sapiente intarsio di fonti latine, all’interno della struttura annalistica della narrazione, e una studiata simmetria interna, già messa alla prova nelle precedenti opere latine, a partire dal già citato De Urbini Ducibus. Dal dialogo in lode dei duchi di Urbino (XX 4-5) sono prelevate, ad esempio, le tessere relative al racconto, che occupa il libro VI (35-41), del colpo di mano del Valentino e del ritratto dei duchi, Elisabetta e Guidubaldo.26 Era sforzo, quello della Storia di Venezia, che costava al Bembo non poche «fatiche» – sono le sue parole al Ramusio27 – e lo poneva in una posizione socialmente e culturalmente rilevata. Ma se a quella proposta, che veniva direttamente dal Consiglio dei Dieci, non si poteva opporre rifiuto o giustificazione di sorta, che non suonasse come prova di ostile superbia, Bembo vi scorgeva altresì l’occasione per fornire onesta e nuova riprova del proprio valore e (non ultimo) di quel latino ciceroniano che aveva promosso e sul quale continuava a scommettere (nel 1536 frattanto decideva di pubblicare i brevi scritti a nome di Leone X). Accettandola, ancora una volta, sentiva di assecondare le curve del proprio destino («destino» di tenace costruzione di sé, come sottolineano – senza soluzione di continuità – tanto Cian quanto Dionisotti), dando ampio corso a un racconto che proponesse, dall’angolo particolare di Venezia, un’idea di patria e, con quest’ultima, un’idea d’Italia. 23
Se ne veda brevemente un commento in P. Bembo, I Duchi di Urbino cit., pp. 28-32. Recentemente A. Caracciolo Aricò, Marin Sanudo il Giovane: le opere e lo stile, in «Studi veneziani», LV (2008), pp. 12-85. 25 I testi furono pubblicati, dal ms. Marc. It. X 143, in Lettere inedite di Pietro Bembo a Giovan Batista Ramusio, a cura di L. Dall’Oste-G. Soranzo,Venezia, Antonelli 1875 [Opuscolo per nozze Dionisi-Bembo], pp. 18-23; su cui il riscontro con P. Bembo, Lettere, III cit., ad voces. 26 P. Bembo, I Duchi di Urbino. De Urbini Ducibus liber, ed. critica, traduzione e commento a cura di V. Marchesi, Bologna, Emil 2010, pp. 15-19, 207-215. 27 P. Bembo, Lettere, III cit., p. 193 (1166). 24
III. I periodi della letteratura degli Italiani
SEBASTIANO VALERIO La ‘Canzone de Italia’ di Giovanni Tommaso Filocalo
Tra le poche certezze sulla biografia di Giovanni Tommaso Filocalo vi è che nacque a Troia, oggi in provincia di Foggia, in un anno imprecisato, nell’ultimo quarto del XV secolo,1 presumibilmente tra il 1485 e il 1497. Ciò che con certezza sappiamo, è che il ruolo che l’intellettuale pugliese recitò nella Napoli del primo Cinquecento fu importante e che fu lettore di umanità presso lo Studio napoletano dal 1524 al 1541, tranne alcuni brevi periodi,2 in sostanza fino alla chiusura della cattedra, voluta dal viceré Pietro da Toledo. Dei suoi lavori filologici su Persio, Stazio, Plinio il vecchio, Orazio e altri autori classici, non avanza nulla, se non lo sbiadito e incerto ricordo di uno zibaldone che Bartolomeo Chioccarelli sosteneva di aver letto ancora alla fine del ’700 e le lodi rivolte al suo insegnamento da Aulo Giano Anisio, Girolamo Carbone e Antonio Minturno.3 Ben presto, forse subito dopo il precoce trasferimento a Napoli, entrò a servizio dei d’Avalos, promotori di un importante circolo culturale in quegli anni,4 a cui
1
La questione dell’anno di nascita è affrontata da A. Della Rocca, L’umanesimo napoletano del primo Cinquecento e il poeta Giovanni Filocalo, Napoli, Liguori 1988, pp. 47-50. Ritiene che il Filocalo sia nato nel 1490 Vincenzo Meola (V. Meola, Introduzione a Poemetto di Gio. Filocalo da Troia nella nascita del 3. Marchese del Vasto e 2. di Pescara e del Vasto, s.d. e s.l. [ma comunque dopo il 1785, secondo la scheda riportata da SBN]), mentre Della Rocca sposta la data di nascita del poeta troiano ad alcuni anni prima, in considerazione del fatto che il Filocalo venne elogiato da Girolamo Carbone, nell’elegia ad Agostino Nifo come autore già maturo nel 1512. Secondo la voce, curata per il DBI da Angela Asor Rosa, la nascita invece risalirebbe al 1497. 2 Cfr. C. De Frede, I lettori di umanità nello studio di Napoli durante in Rinascimento, Napoli, L’Arte Tipografica 1960, pp. 151-162. Il Filocalo cessò dall’insegnamento tra il 1529 e il 1531 e nel biennio 1536-38. 3 Cfr. A. Della Rocca, L’umanesimo napoletano… cit., pp. 49-51. 4 Sulla cultura napoletana di quel periodo rimando al fondamentale saggio T.R. Toscano, L’Italia degli umanisti
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spesso fece riferimento nelle sue opere Filocalo, rimanendo comunque legato anche ai feudatari di Troia e in modo particolare a Troiano Cavaniglia e al figlio di questi, Diego.5 Dell’attività poetica del Filocalo si ricordano alcuni poemetti in latino, lingua che egli sembrò decisamente prediligere: si segnala in primo luogo un lungo carme in esametri, pubblicato nel 1531, in nascita del primogenito di Alfonso d’Avalos,6 di cui si ribadisce la fedeltà alla monarchia spagnola e a Carlo V, con l’auspicio di un’azione contro i Turchi, che verrà ribadita nella Canzone de Italia, come vedremo, e con la lode di Vittoria Colonna, vedova del marchese di Pescara, Francesco Ferrante D’Avalos, di cui si ricordano le eroiche azioni in un momento drammatico per la «misera Italia», come ebbe a definirla il poeta pugliese.7 Risuonano, in questo carme, anche parole contro quel nemico francese che i d’Avalos,8 spagnoli che avevano saputi farsi italiani e unire così due grandi popoli e le loro virtù culturali e belliche, avevano combattuto nelle recenti guerre d’Italia, il cui vanus furor era stato già sconfitto da Cesare, come viene ricordato:9 un assunto, questo, che si inseriva perfettamente e forse non troppo originalmente nella topica della letteratura encomiastica filo-spagnola di quegli anni ma che segnala, proprio in quanto reazione alle invasioni straniere e rivendicazione di una storia identitaria, in qualche modo quello che Chabod definì il «profilarsi di una patria comune», in cui «il termine patria è già carico di quella forza sentimentale, passionale, morale, che lo contrassegna nell’età moderna».10 Anche il carme composto per il ritorno di Ferrante Sanseverino da una missione condotta presso Carlo V e pubblicato nel 1532 si inserisce nel medesimo contesto11 e celebra ancora il successo contro i Francesi.
Letterati corti accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, Napoli, Loffredo 2000. 5 Su Troiano Cavaniglia cfr. la voce sul DBI, curata da F. Petrucci. 6 Il carme (Iohanni Philocali Troiani Genethliacum carmen in diem natale Ferdinandi Francisci, Alphonsi filii Avali et Mariae de Aragonia opus dicatum Constatntiae Avalae principi Francavillae), venne edito dal Sultzbach nel 1531: cfr. P. Manzi, Annali di Giovanni Sultzbach (Napoli 15291544 – Capua 1547), Firenze, Olschki 1970, pp. 31-32, §8. In appendice furono editi degli epigrammi dello stesso Filocalo e un epigramma In carmen genethliacum Philocali del conterraneo Filippo Pellenegra. Il carme venne quindi edito in V. Meola, Poemetto… cit., pp. 17-51. Sulla produzione poetica del D’Avalos cfr. T.R. Toscano, Letterati corti accademie… cit., pp. 85-120. 7 Genethliacum carmen c. 4r: «cum magnis ignibus omnis / Italia arderet misera, ac furialibus armis». Il giovane D’Avalos avrebbe riassunto in sé le virtù belliche del padre e dello zio. 8 Sulla famiglia d’Avalos cfr. F. Luise, I D’Avalos, Napoli, Liguori 2006. 9 I. Philocali Genethliacum carmen… cit., c. 3r. 10 F. Chabod, Scritti sul Rinascimento, Torino, Einaudi 1967, p. 658. 11 In reditum illustrissimi Ferrandi Sanseverini, Salerni Principis, e Gerania, carmen panegyricum Ioannis Philocali Troiani, Napoli, Sultzbach 1532. Cfr. P. Manzi, Annali cit., p. 45, § 20. III. I periodi della letteratura degli Italiani
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In questo panorama politico e culturale si situa la composizione della Canzone de Italia, una delle poche opere (quattro in tutto, a quanto risulta) in cui l’umanista pugliese usò il volgare. Bisogna in primo luogo dire che, se oggi siamo in grado di leggere questa lirica, è davvero un caso. Pietro Manzi, negli Annali di Giovanni Sultzbach, scriveva che l’unica copia a lui nota dell’opuscolo era conservata presso la Biblioteca della Società di Storia Patria di Napoli, «miracolosamente scampata alla furia dell’ultima grande guerra, giacché trovavasi nel Castello del Maschio Angioino, quando questo venne colpito dalle bombe nel 1943»,12 e ancora oggi risulta l’unica copia censita in SBN. Anche questa copia è andata nel frattempo perduta e se ne conserva una trascrizione, a dire il vero non troppo precisa, fatta tra fine Settecento e primi dell’Ottocento dall’erudito Agostino Gervasio, presso la Biblioteca dei Girolamini di Napoli,13 ma, davvero provvidenzialmente, resta un’ulteriore copia dell’opuscolo di Sultzbach presso la Harward University. Tale opuscolo non riporta l’anno di pubblicazione e così il primo problema al cui cospetto ci si ritrova è la datazione dell’opera e della stampa. Nell’interessante lettera prefatoria, indirizzata al patrizio napoletano Scipione Piscicelli, Filocalo ricorda che la composizione era stata «da me già duo anni sono scritta, nel venir de l’imperatore in Italia».14 La circostanza riportata sembra così doversi ricondurre o alla venuta di Carlo V in Italia nel 1529, quando poi ottenne l’incoronazione da parte del Papa a Bologna (nel febbraio del 1530), o a quella del 1535, quando giunse in Italia dopo aver sconfitto a Tripoli il pirata Khayr al-Dìn, soprannominato il Barbarossa, al fine di consolidare gli assetti politici italiani e di incontrare il nuovo papa, Paolo III, che era salito al soglio di Pietro nel 1534.15 Nel primo caso, la pubblicazione dovrebbe farsi risalire al 1531, nel secondo al 1537. Nella copia manoscritta lasciata dal Gervasio, al termine della canzone, appare
12
P. Manzi, Annali… cit., p. 73, § 47. Con collocazione s.m. 28.4.41. Su Agostino Gervasio cfr. R. Giglio, L’epistolario inedito di Agostino Gervasio in «Critica Letteraria», XII (1984), pp. 285-353; A. Altamura, Agostino Gervasio e gli studi umanistici dell’Ottocento, in «La Capitanata», I, 6 (1964), pp. 41-44; A. Bellucci, La corrispondenza archeologica e letteraria di Agostino Gervasio, in «Asprenas», XII (1965), pp. 213-224. 14 G. Filocalo, La canzone de Italia opra del Philocalo da Troia, Napoli, Sultzbach, s.d. 15 Per la biografia di Carlo V mi limito a segnalare alcuni titoli recenti: A. Kohler, Carlos V, 1500-1558. Una biografia, Madrid-Barcellona, Pons Historia 2000; K. Brandi, Carlo V, Torino, Einaudi 20013; P. Merlin, La forza e la fede. Vita di Carlo V, Roma-Bari, Laterza 2004. Per quanto riguarda il viaggio in Italia del 1535, cfr. il quasi coevo G. Rosso, Istoria delle cose di Napoli sotto l’imperio di Carlo V scritta per modo di Giornali, Napoli, Giovanni Gravier 1770 [I ed: Napoli, Montanaro 1635] e ancora G.A. Summonte, Historia della città e Regno di Napoli, Napoli, appresso Gio. Giacomo Carlino, & Antonio Pace 1599. Sulla presenza di Carlo V a Napoli e sulle implicazioni culturali di questa presenza cfr. ancora T.R. Toscano, Letterati corti accademie… cit., pp. 245-263. 13
L’Italia degli umanisti
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una data, 1531, frutto delle congetture dell’erudito napoletano. Lo stesso Della Rocca, che al Filocalo ha dedicato una monografia, accetta questa datazione senza riserve,16 mentre Carlo De Frede ipotizza una datazione della stampa successiva al 1536,17 che porta Manzi, negli Annali dell’editore Sultzbach, a spostare al 1537 la stampa della canzone. In verità mancano elementi decisivi sia dal punto di vista testuale che da quello paratestuale per datare con certezza l’opera che, ideologicamente, non si discosta molto dal Genethliacum carmen del 1531 e che comunque risente in maniera forte del periodo di guerre che avevano turbato l’Italia negli anni ’20, con un accenno sicuramente presente al sacco di Roma del 1527. Una flebile indicazione forse può venire dal congedo della canzone: Canzon, tu te ne andrai Là ’ve Carlo in Hispagna, che riguarda Italia lenta, et tarda, Et di darli soccorso si consiglia Con sua santa famiglia Quell’anima leggiadra, et pellegrina, che a tante nove glorie il ciel destina.
In effetti, Carlo V non fece ritorno in Spagna dopo il viaggio in Italia del 152930, mentre è attestata una sua presenza in Spagna nel 153718 e, se dovessimo prestare fede a quanto l’autore consiglia alla sua opera, di andare in Spagna dall’imperatore, bisognerebbe dar credito alla datazione più tarda, per quanto sia comunque strano che nella canzone non si faccia un cenno esplicito al passaggio di costui da Napoli. Ad ogni modo la canzone si situa, con i limiti che possiede per il suo tono encomiastico, ma anche per l’originalità del suo modo di rivisitare i topoi letterari, in quella prospettiva più «nazionale» che «nazionalistica» che Carlo Dionisotti individuò come problema centrale della letteratura italiana del primo Cinquecento, quando sostenne, a testimonianza del coinvolgimento della cultura letteraria nei processi politici, drammaticamente vivi di quegli anni, che «querele e invocazioni in prosa e in rima fanno largo accompagnamento alla eroica chiusura del Principe machiavellico»,19 a cominciare dalla ripresa di quell’auspicio, con cui chiudeva Machiavelli il suo trattato, che si verificasse «quel detto del Petrarca», tratto appun-
16
A. Della Rocca, L’umanesimo napoletano… cit., p. 81. C. De Frede, I lettori di umanità… cit., p. 154. 18 Ne rende testimonianza il Corpus documental de Carlos V, ed. M. Ferandez Alvarez, vol. I: 1516-1539, Salamanca, Ed. Univ. Salamanca 1972. 19 C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi 1967, pp. 45-46. 17
III. I periodi della letteratura degli Italiani
La ‘Canzone de Italia’ di Giovanni Tommaso Filocalo
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to dalla Canzone all’Italia che è e resta il modello chiaramente privilegiato dell’opera del Filocalo. Interessante è quanto si legge nella lettera prefatoria al Piscicelli, che fu un valente uomo d’arme al fianco di Carlo V. Il Filocalo scrive, scusandosi di non aver ancora dedicato nulla al nobile napoletano: Et in vero, era giusto, che hormai del vostro valore havessi alcuna cosa scritto et l’harei fatto, se non che mentre non piaccio a me stesso, ne le cose a tal fine tentate, ho voluto espettare, che le Muse più sicure, potessino tanto alto volare. Alhora, et in latino, come io più soglio, cercarò honorarvi, in sì fatto modo, che le genti riputaranno questa penna, se non molto pregiata, almeno non molto ingrata, et ad. V.S.E. me accomando.
Filocalo scrittore volgare non «piace a se stesso» e attende Muse più sicure che gli consentano di volare in alto: e le Muse più sicure sono quelle latine, che lo scrittore pugliese si vanta di praticare più frequentemente e con maggiore successo. È la testimonianza di una lenta, contrastata ma anche inesorabile affermazione del volgare nel cuore della cultura umanistica napoletana, che deve ricorrere al volgare, nonostante momenti di incertezza e ripensamenti, anche sotto la spinta del circolo promosso dai d’Avalos.20 Ma la scelta del volgare ha qui anche un senso ulteriore, è un chiaro omaggio a Petrarca e alla sua canzone all’Italia e a quel petrarchismo che si stava facendo in modo veloce «lingua nazionale», dettando temi e modi espressivi.21 E in effetti l’incipit stesso della canzone di Filocalo sembra voler amplificare il senso dell’ineffabilità del sentimento nei confronti della nazione, quel «parlar… indarno» che Petrarca metteva a principio della sua canzone. Filocalo sembra contrarre un debito piuttosto importante con petrarchismo cortigiano quattrocentesco, a cominciare da Giusto de’ Conti,22 che viene significa-
20
T.R. Toscano, Letterati corti accademie… cit., p. 112: «Una serie di indizi autorizzano la formulazione dell’ipotesi che negli anni compresi tra il 1525 e il 1538 […] Alfonso d’Avalos sia stato l’animatore di una corte che di fatto assicurò la continuità della letteratura volgare a Napoli, senza per questo disdegnare vicinanza e familiarità del ultimi pontaniani esclusivamente dediti alla poesia latina». Su questa fase della cultura napoletana e sul passaggio tra latino e volgare cfr. pure C. Dionisotti, Appunti sulle rime del Sannazaro, «Giornale storico della Letteratura Italiana», CXL (1963), pp. 161-211. 21 Cfr. Lessicografia a Napoli nel Cinquecento, a cura di D. Defilippis e S. Valerio, Bari, Adriatica 2007; F. Tateo, L’umanesimo meridionale in Letteratura Italiana, Bari, Laterza 1981; N. De Blasi-A.Varvaro, Napoli e l’Italia meridionale, in Letteratura Italiana, Storia e geografia, vol. II, t.1: L’età moderna, Torino, Einaudi 1988 pp. 235-325. 22 Diverse le edizioni dell’opera poetica di Giusto de’ Conti nel secolo XVI, a cominciare dall’edizione veneziana del 1531, ma del suo canzoniere circolavano tre incunaboli, il primo dei quali risale al 1472. Cfr. la voce Giusto de’ Conti sul DBI, curata da P. Procaccioli. L’Italia degli umanisti
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tivamente richiamato in apertura della prima stanza e della seconda. La serie di domande retoriche con cui si apre il componimento («Chi darrà agli occhi miei de’l pianto i fiumi?») vengono, a cominciare dal verso incipitario, dalla canzone 74 del Canzoniere di Giusto de’ Conti («Chi darà agli occhi miei sì larga vena / di lagrine»), ma con una immediata conversione del dolore sentimentale, che caratterizza quell’opera, in un dolore che ha la propria fonte nella situazione politica e civile di un’Italia, che veniva dal disfacimento del fragile equilibrio quattrocentesco e aveva patito un ormai lungo periodo di instabilità e violenza, culminato col sacco di Roma. E così, a principio della seconda stanza, quel «almo, gentil paese»,23 che in Giusto de’ Conti era petrachescamente il luogo dove dimorava «il suo tesoro», il suo amore, diventa il «più leggiadro, et gentil almo paese» che il sole illuminasse, quell’Italia che aveva saputo, nel corso della sua storia, far convivere Saturno e Giano, dando vita ad un’età dell’oro difesa e alimentata, in maniera quasi ossimorica, dalla potenza bellica. Il confronto tra grandezza del passato e miseria del presente attraversa la canzone di Giovanni Tommaso Filocalo da parte a parte e un’Italia, che assume talvolta le fattezza della Laura di Petrarca, si presenta calata «in nere tenebre» o avvolta da una «nebbia atra, e ’mportuna», che richiama alla memoria simili passi di Petrarca o Sannazaro, ma che affonda le radici significativamente nel Bellum civile di Lucano (1, 541):24 una situazione che la priva della speranza di «di tornar al tuo primo valore». Il dolore per tale condizione veniva alimentato anche dalla considerazione che l’Italia … gli antichi di quei c’hor ti fan guerra (se l’historia non erra) tenne fra mille ceppi, et tra catene.
Il Canzoniere petrarchesco viene ovviamente richiamato anche nei suoi «frammenti» politici, come ad esempio nel caso in cui l’impero italiano viene definito «bello imperio afflitto», così come Annibale in RVF 102, 5 aveva ridotto l’impero romano25. Significativo è inoltre il riuso di un elemento tratto da uno dei sonetti «politici» del Canzoniere, quando il pianto e il sospiro del poeta richiama il pianto e il sospiro che Petrarca esprimeva al cospetto della decadenza di Roma, trasformatasi in «Babilonia falsa et ria, / per cui tanto si piange et si sospira». Non è solo il Canzoniere di Petrarca concorre a formare il tessuto di questa lirica, ma anche i Trionfi hanno un ruolo importante. Quando ad esempio Filocalo scrive:
23
Giusto de’ Conti, Canzoniere, 122, 4. Cito questa e altre opere secondo i testi presenti in . 24 F. Petrarca, RVF, 66, 1; I. Sannazaro, Sonetti e canzoni, 47, 13. 25 F. Petrarca, RVF, 102, 5: «et Hanibàl, quando a l’imperio afflitto». III. I periodi della letteratura degli Italiani
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Sempre del sangue tuo mirabil sete hebber le genti barbaresche, et strane, ma fe lor voglie vane26 i tuoi figliuoli invitti, et i chiari spirti,
è chiaro l’utilizzo del Triumphus mortis I 41-43, brano in cui la Morte rivendica la sua potenza, dichiarando di aver condotto «al fin la gente greca / e la troiana, a l’ultimo i Romani… / e popoli altri, barbareschi e strani». La morte di coloro che avevano difeso l’Italia, il fatto che nessuno ne avesse raccolto l’eredità faceva sì che, per Filocalo: tu se’ fatta inerme, et quel iniquo germe sorgendo, ha posto tua corona al fango, ond’io dì, et notte mi consumo, et piango.
Il volgare, spesso privo di eleganza del Filocalo, risulta animato, oltre che da riprese petrarchesche, da spunti che vengono dall’Arcadia di quel Sannazaro, che pure non l’aveva avuto in grande stima,27 come nel caso in cui il lamento per la perdita delle antiche glorie («né ti può donar Marte / più le tue antiche glorie,28 et li trophei,») richiama l’ecloga 6 dell’Arcadia in cui si legge il lamento per la perdita dell’età dell’oro, qui accostata alla crisi dell’Italia: Ov’è ’l valore, ov’è l’antica gloria? u’ son or quelle genti? Oimè, son cenere, de le qual grida ogni famosa istoria.
E, tuttavia, il «caldo desio» che Laura accendeva in Petrarca, «quando sospirando ella sorride»,29 si accendeva ora, per Filocalo, al pensiero di un’Italia che potesse tornare in qualche modo in possesso del suo «scettro honorato». Ma qui, quando il lamento per le sorti dell’Italia lascia spazio all’encomio di Carlo V e all’esaltazione del suo impero, erede di quello romano, ecco emergere forte la scrittura dantesca, con un ampio ricorso ai canti politici della Commedia, a cominciare dalla rappresentazione dell’impero come aquila che vola in cielo, immagine che apre il canto VI
26
F. Petrarca, Triumphus mortis, 1, 43-45. Per i rapporti tra il Filocalo e il Sannazaro cfr. A. Della Rocca, L’umanesimo napoletano… cit., p. 50. 28 Cfr. I. Sannazaro, Arcadia, ecl. 6, 34: «Ov’è ’l valore, ov’è l’antica gloria? / u’ son or quelle genti? Oimè, son cenere, / de le qual grida ogni famosa istoria». Ma vedi anche A. Poliziano, Stanze, 2, 3,1: «L’antica gloria e ’l celebrato onore». 29 F. Petrarca, RVF, 127, 52-54. 27
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del Paradiso. Il modello dantesco risuona nella canzone del Filocalo ancora quando l’Italia viene ritratta «come nave», che «i venti / hor quinci, hor quindi pingon fra l’onde», analogamente «alla nave sanza nocchiere in gran tempesta» di Purg. VI, 7678. Altre tessere dantesche si incontrano, quando si designa la perduta età dell’oro con le prime «ghiande» di Purg. XXII, 149 o ancora quando tornano le «membra vive» di Purg. XXV, 90, per fare solo alcuni esempi; tuttavia è interessante notare la prospettiva storica che si apre a conclusione dell’opera del Filocalo. Il riscatto d’Italia passa attraverso il recupero di quell’alloro imperiale, che l’Italia aveva perso, da parte di Carlo V, nuovo Cesare, nuovo fondatore dell’impero, che ne riscatta l’onore e che può restituire all’Italia l’onore e il «riso», dopo tanto dolore patito. La funzione di Carlo V è provvidenziale: ipostasi di Dio in terra, uomo dal «cuor gentile» e di grande «intelletto», «giusto» e «pietoso», dotato, insomma, di tutte quelle virtù che l’Italia sembrava aver smarrito in quel drammatico primo scorcio del Cinquecento. E poco importa che non sia un monarca «italiano», giacché il suo essere italiano sta proprio nel catalogo di virtù che sono a lui attribuite, che corrispondono a quelle che avevano illustrato la classicità latina,30 anche perché, come nota amaramente lo scrittore pugliese, «nessuno a tant’opra si desta». L’azione di Carlo V è dunque fatale, voluta da Dio, e al suo fianco c’è Alfonso d’Avalos, il suo braccio armato, a cui è riservato spazio notevole. Se Cesare, Carlo V, è il prescelto per dare nuova luce all’impero, all’Italia e alla cristianità tutta, Alfonso d’Avalos è il «secondo», sua diretta emanazione e difensore della fede, come era stato difensore di Roma quando si era astenuto, con le sue truppe, dal partecipare al sacco di Roma nel 1527. Il loro compito era quello di riscattare Roma dal suo degrado («essendo hor sì sommersa / ogni sua pompa, ogni sua gloria al basso», scrive Filocalo), di richiamarla «al viver dolce, et bello»,31 ma anche di volgere … anchor le squadre al sepolcro di Christo
come già Petrarca auspicava nel Triumphus fame I, 142-144: («Gite superbi, o miseri cristiani / consumando l’un l’altro, e non vi caglia / che ’l sepolcro di Cristo è in man de’ cani!»), quando ricordava la fama di Goffredo di Buglione. E questo è un elemento che potrebbe, anch’esso, indurci a preferire una datazione più alta della canzone di Filocalo, vicina cioè ai fatti del 1535.
30
Lo «scettro onorato», caduto nel fango, viene riscattato dall’«honore» di cui si cinge l’imperatore e la corona d’alloro, che l’Italia aveva, viene ora cinta da Carlo V. 31 Anche in questo caso è possibile sentire l’eco di Par. XV, 130-132, in cui il modello di retta vita civile è proposto da Cacciaguida. III. I periodi della letteratura degli Italiani
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Carlo V ha comunque un ruolo provvidenziale e Filocalo scrive, rivolgendosi all’Italia: Questi sia a noi Pastor, questi sia ’l padre C’hanno i profeti tuoi predetto innanzi.
La mente corre alle diverse profezie dantesche e in modo specifico a quella che chiudeva il primo canto dell’Inferno. Tuttavia non può non tornare in mente un’altra profezia che all’umanista meridionale non doveva sfuggire, quella che Giovanni Pontano anni prima aveva affidata nel Charon al personaggio di Eaco che, rivolgendosi a Minosse, affermava: «haud multis post seculis futurum auguror ut Italia, cuius intestina te odia male habent, Minos, in unius redacta ditionem resumat imperii maeiestatem».32
32
G. Pontano, Dialoghi, a cura di M. Previtera, Firenze, Sansoni 1943, p. 32.
L’Italia degli umanisti
CLAUDIA CORFIATI Il nostos di Sincero: riflessioni sull’Arcadia
Sull’Arcadia come luogo o paesaggio letterario sono state spese pagine importanti di critica e dagli studiosi dell’antichità classica interessati in particolare a spiegare e definire l’origine di questo mito topografico, e da coloro che hanno studiato e studiano gli epigoni moderni del genere bucolico, diffrattosi dopo la riscoperta umanistica in forme diverse, dalla poesia latina e volgare all’ecloga rappresentativa, al dramma pastorale, al romanzo. Alla luce di quanto è stato scritto legittimamente si può affermare che l’Arcadia – non la regione montuosa e inospitale del Peloponneso, ma la patria dei migliori cantori bucolici – sia un luogo letterario di origine italiana.1 Durante il Quattrocento in particolare fu elaborato e sperimentato nella pratica della scrittura pastorale un percorso che in maniera progressiva portò al recupero del paesaggio teocriteo e virgiliano nella sua interezza, senza rinunciare tuttavia nella maggior parte dei casi all’allegorismo di matrice petrarchesca. È chiaro che l’ambiguità era nella matrice stessa del genere, ma gli umanisti riuscirono in qualche modo a sublimarla: la geografia dei luoghi bucolici che si coglie in questi testi è spesso qualcosa di più di un dato scenografico. In Italia la poesia pastorale rinasce con una impronta fortemente politica e con una connotazione di «denuncia», e quindi impregnata di forte biografismo: è inevitabile che a poco a poco i luoghi, le campagne dall’essere paesaggio muto o mitico, stereotipato o personificato come nel Bucolicum carmen di Petrarca o in quello di Boccaccio, prendano forma e nomi e affiorino nelle loro specificità dai ricordi degli autori. Boiardo dà inizio ai suoi Pastoralia immaginando che l’Arcade dio Pan in persona, trasferitosi
1
La bibliografia sul genere pastorale è molto ampia: segnalo soltanto per il periodo classico G. Jachmann, L’Arcadia come paesaggio bucolico, in «Maia», n. s., V (1952), 3-4, pp. 161-174 e per l’età moderna M. Corti, Il codice bucolico e l’Arcadia di Jacobo Sannazaro, in Ead., Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli 1969, pp. 281-304. L’Italia degli umanisti
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Claudia Corfiati
in Italia a seguito dell’invasione dei Turchi, accolga poco lontano dalle porte di Modena il neofita Pemano, gli consegni la zampogna che un tempo Titiro aveva suonato per lui e lo guidi verso la città, fornendogli in chiusa indicazioni stradali ben precise. Spigolando tra i versi di autori meno noti o meno frequentati gli esempi di questo tipo si potrebbero moltiplicare.2 In questa sede tuttavia intendo offrire soltanto alcune riflessioni su quello che fu il momento in un certo senso conclusivo del percorso, ovvero il capolavoro di Jacopo Sannazaro. A differenza di quanto accade in Virgilio, il suo modello principe, e in buona parte della produzione classica e medievale, il poeta partenopeo sembra lucidamente distinguere Arcadia e Italia; bisogna interrogarsi tuttavia, come già faceva Danielle Boillet,3 su quando e come si giunse a questa forma di coscienza topografica o di «distacco» e quali ne sono le conseguenze a livello di interpretazione dell’opera. Ovvero perché Sincero ha voluto rappresentare le sue egloghe nella barbara regione del Peloponneso e non in Italia, come gli consentiva o gli imponeva tutta la tradizione italiana antecedente? Se pensiamo alla lunghissima storia della composizione del prosimetro4 possia-
2
Purtroppo una buona parte della poesia pastorale latina e volgare del Quattrocento non gode di un’edizione moderna per cui la bibliografia critica è tuttora scarsa o datata, mentre più interessanti sono gli studi su singoli personaggi (come ad esempio il Boiardo) o sugli sviluppi più tardi ed europei di questo genere. 3 D. Boillet, Paradis perdus et retrouvé dans l’Arcadie de Sannazaro, in Ville et campagne dans la littérature italienne de la Renaissance. II. Le courtisan travesti, Paris, Université de la Sorbonne nouvelle 1977, pp. 11-140; ma si veda anche F. Tateo, Le paysage dans la prose bucolique de Sannazaro, in Le paysage à la Renaissance, Actes du colloque international de Cannes (1985). Études réunies et publiées par Y. Giraud, Fribourg (Suisse), Editions Universitaires 1988, pp. 135-146 : 4 Manca a tutt’oggi un’edizione che renda conto delle fasi redazionali, per cui, a meno che non si ricorra al confronto con il volume per molti aspetti benemerito, ma filologicamente discutibile, di Michele Scherillo (Torino, Loescher 1888), è arduo ricostruire il percorso di perfezionamento, anche formale, dell’opera del Sannazaro. A partire dall’edizione curata da Enrico Carrara (Torino, UTET 1926) fino all’ultima in ordine di tempo per Les Belles Lettres (a cura di F. Erspamer, Paris 2004), si è scelto esclusivamente un testo della princeps curata da Pietro Summonte nel 1504. Sulla storia della tradizione ricordo gli ultimissimi titoli: A. Caracciolo Aricò, Critica e testo. L’avventura della prima edizione dell’‘Arcadia’ di Jacopo Sannazaro, in Saggi di linguistica e letteratura in memoria di Paolo Zolli, a cura di G. Borghello, M. Cortellazzo e G. Padoan, Padova, Antenore 1991, pp. 507-522; A. Ch. Marconi, La nascita di una Vulgata: l’Arcadia del 1504, Roma, Vecchiarelli editore 1997; M. Riccucci, Una silloge bucolica tardo-quattrocentesca. Il codice Marciano it. Zanetti (60), in «Rinascimento», II s., XXXIX (1999), pp. 371408; M. Riccucci, «Il neghittoso e il fier connubio». Storia e filologia nell’‘Arcadia’ di Jacopo Sannazaro, Napoli, Liguori 2001; G. Villani, Ancora sul testo dell’‘Arcadia’: come fare l’edizione, in La Serenissima e il Regno. Nel V centenario dell’‘Arcadia’ di Iacopo Sannazaro, Bari, Cacucci 2006, pp. 729-752. III. I periodi della letteratura degli Italiani
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mo rilevare prima di tutto che in nessuno dei testi della fase redazionale così detta primitiva vi è un riferimento alla geografia d’Arcadia: anzi l’allusività politica ivi presente (come era per i versi di Jacopo De Jennaro) non può che rimandare alla campagna napoletana. Nella prima ecloga l’unico riferimento geografico-mitologico è alla ribellione dei «Giganti in Flegra», come ad una delle catastrofi che potrebbero trovare indifferente il malinconico pastore innamorato. La stessa cosa vale per la seconda, dove il solo toponimo presente è nel nome della bella Tirrena amata da Uranio, aggettivo che rimanda, secondo tradizione, alla Toscana o alle terre che si affacciano genericamente su quel mare; nella sesta ugualmente manca qualsiasi riferimento geografico. Nel Libro pastorale nominato Arcadio invece è chiaro fin dal proemio che non si sfugge al dato topografico: la «sommità di Partenio, non umile monte della pastorale Arcadia»5 è il luogo in cui ha inizio l’avventura del lettore (non del protagonista, che si fa vedere poco e niente come una guida timida e silenziosa per le prime cinque stazioni, per poi presentarsi in tutta la sua concretezza storica di esule napoletano a partire dalla sesta). E se il nome Partenio suggerì ad alcuni interpreti una possibile allusione all’omonimo monte dell’Irpinia, gli altri indizi sparsi nelle prose della prima Arcadia sembrano non lasciare alcun dubbio: nella IV Logisto ed Elpino sono «ambiduo d’Arcadia»,6 come gli «Arcades ambo» della VII virgiliana;7 nella V Opico conduce il gruppo di pastori all’Erimanto, monte e fiume d’Arcadia, e quindi alla tomba di Androgeo, presso la quale Sincero confesserà il suo esilio e produrrà, quasi per un processo di diffrazione, le due storie d’amore di Carino e di Clonico, entrambe ambientate nei boschi del Peloponneso. La tappa successiva è il Menalo, monte sacro a Pan, e il tempio custodito dal venerabile Enareto. È notevole in questo percorso quasi circolare, anzi direi a spirale, che l’unico a tentare una fuga sia proprio Clonico: estraneo al gruppo di pastori che segue Opico egli infatti si muove su di un asinello verso una non altrimenti definita città alla ricerca dei rimedi di una vecchia «sagacissima maestra di magichi artifici»,8 e viene intercettato e ricondotto in Arcadia. Dopo aver riposato una notte non nel familiare villaggio, ma in un «chiuso vallone»,9 il gruppo si dirige infatti al tempio di Pan, dove si consumerà il tempo delle ultime due stazioni (IX e X), prima del ritorno. Negli ultimi paragrafi della X prosa i pastori, sempre guidati da Opico, si congeda-
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I. Sannazaro, Arcadia, a cura di F. Erspamer, Milano, Mursia 1990, p. 56. Ivi, p. 88. 7 Questa connotazione della provenienza dei due pastori parrebbe superflua in un contesto «arcadico»: è decisamente più giustificabile o necessaria su di una scena italica come quella delle egloghe di Virgilio. 8 I. Sannazaro, Arcadia cit., p. 148. 9 Ivi, p. 148. 6
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no da Enareto e si spostano nuovamente verso casa, una casa che tuttavia non raggiungono concretamente perché si fermano lungo strada in un piano, in un «boschetto fresco»,10 ai piedi di un colle ove si intravvede la tomba di Massilia. Non resta che raggiungere il sepolcro della madre di Ergasto e concludere lì il viaggio con un canto recitato non a caso da Selvaggio (come era stato per la prima egloga) e da Fronimo, quel «sovra tutti i pastori ingegnosissimo»,11 che aveva registrato sulla corteccia di un faggio il canto di Ergasto all’inizio della VI prosa. Nel Libro pastorale nominato Arcadio il lettore aveva già avuto modo di incontrare il luogo topico del sepolcro del pastore nella quinta stazione, lì dove, a conclusione della prima metà dell’opera, in posizione centrale e soprattutto con rimando numerico alla V ecloga di Virgilio di analogo argomento funebre, si erano ricordate le benemerite gesta di Androgeo.12 In decima stazione dunque è difficile pensare ad una ripetizione, a meno che questa non abbia una funzione molto particolare. È noto che si identifica la Massilia madre di Ergasto con Masella Santo Mango, madre del poeta, e considerando l’abilità con cui il Sannazaro riesce a coniare i nomi dei personaggi della sua opera è difficile credere altrimenti.13 In questa ultima stazione tuttavia vi è una particolare congiunzione di astri letterari: prima di tutto aggiunge una solenne sacralità al racconto l’eco del VII idillio teocriteo, dove il cittadino Simichida nel percorso dalla città di Cos ad una festa rustica in onore di Demetra incontra, nelle vicinanze della tomba di Brasila, il pastore Licida e lo sfida al canto.14 Ma è da alcune pagine ben più vicine al Sannazaro che a mio giudizio riceviamo un più arguto suggerimento di interpretazione: si tratta del lungo excursus storico archeologico sull’Italia del De bello Neapolitano di Giovanni Pontano e in particolare del luogo dedicato alle antiche popolazioni della Campania, pagine sulle quali ha dato un contributo fondamentale Francesco Tateo.15 L’autore infatti, tra i primi lettori dell’Arcadia, se dobbiamo credere ai versi di Hend. I 11, si sofferma naturalmente sulle origini della città di Napoli alludendo alla leggenda della sirena Partenope e del suo sepolcro (leggenda canonizzata nella Cronaca di Partenope):
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Ivi, p. 177. Ivi, p. 106. 12 Figura sulla quale probabilmente bisognerebbe tornare a interrogarsi se è vero che insieme ad Opico e Meliseo è l’unico personaggio d’Arcadia ricordato nella Elegia (III 2) a Cassandra Marchese Quod pueritiam egerit in Picentinis. 13 Sull’onomastica si veda in ultimo F. Tateo, Filologia e immaginazione nell’onomastica sannazariana, in «Il Nome nel testo», VI (2004), pp. 210-222 e A. Caracciolo Aricò, Per Opico e per Tirsi, in «Lettere Italiane», LIX (2007), 2 pp. 236-250. 14 Cfr. C. Vecce, Sannazaro e la lettura di Teocrito, in La Serenissima e il Regno… cit., pp. 685696. 15 F. Tateo, Le origini cittadine nella storiografia del mezzogiorno, in Id., I miti della storiografia umanistica, Roma, Bulzoni 1990, pp. 59-80. 11
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proditum tamen est memoriae, atque ita hominum opinio tenuti, unius ex eis [Sirenis] conditum sepulcrum editiore in colle ad ultimum maris sinum dedisse colli nomen, vocatumque illum ex eo Parthenopen, quod nomen post fuit etiam urbis eius, quae nunc est Neapolis.16
Partenope non era stata per lo storico tuttavia una sirena ma una «matrona», che come altre nella storia aveva governato su quelle terre e il luogo plausibile in cui si trovava la sua sepoltura era un colle visibile dal mare a chi venisse da Sud prima di entrare nel golfo di Napoli provenendo dalla penisola sorrentina: Itaque sepulcrum ipsum indicio est Parthenopen colli imperitasse, qui subjectae imminebat stationi, atque ad sinus ipsius caput, eque regione Surentum spectabat, quae Sirenum ipsarum sedes tunc esset. Quem ad locum, quod naves quendam quasi in portum applicarent, collis ipse frequens erat habitatoribus, aeque ab accolis, ac nautis celebratus, isque obliterato priori nomine, post in matronae memoriam, atque ab eius sepulcro Parthenope agnominatus.17
Possiamo aggiungere anche un’altra suggestione storica: come ha sottolineato la Boillet, la descrizione del giardino curatissimo che circonda la piramide, il sepolcro di Massilia, potrebbe rimandare ai lavori di abbellimento della città realizzati da Ferrante a metà degli anni ottanta.18 E perché non interrogarci anche sul significato della nave/uccelliera, «fatta solamente di vimini e di fronde di viva edera, sì naturalmente che avresti detto: “Questa solca il tranquillo mare”»?19 Cosa ci fa una nave in Arcadia? E per giunta una nave che torna, dal momento che viene presentata come se andasse incontro alla «bella piramide» con le siepi che la circondano, a mo’ di mura? Credo che a questo punto sia lecito pensare che questo così bel sepolcro di Massilia alluda alla tomba della madre patria Partenope. È sicuramente un’allusione obliqua, indiretta, banale da un certo punto di vista ma anche elaborata: il monumento non ha qui quel gusto un po’ selvaggio e «pagano» dell’«alto sepolcro» di Androgeo (che non ci viene descritto),20 ma bensì la ricercata e artificiosa bellezza delle architetture e dei giardini rinascimentali. Se fin dall’origine il Sannazaro avesse previsto nella struttura narrativa di dedicare un capitolo intero alla descrizione dei giochi funebri in onore di Massilia (prosa XI) ed un ulteriore ultimo capitolo (non le chiamo più stazioni a ragion veduta) al miracoloso viaggio di ritorno di Sincero a Napoli, questa paginetta potrebbe essere annoverata semplicemente tra le tante ecfraseis nelle quali si esercita
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J. Pontani Historiae Neapolitanae, Napoli, Gravier 1769, p. 142. Ivi, p. 143. 18 Cfr. D. Boillet, Paradis perdu cit., p. 117. 19 I. Sannazaro, Arcadia cit., p. 179. 20 Ivi, p. 99. 17
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il genio del poeta, ma dal momento che non è stato così, quale che sia stato lo iato di tempo che separa il Libro pastorale nominato Arcadio dall’Arcadia del 1504, la questione assume una certa importanza. Nella prima versione della storia il lettore sa bene che il pastore narrante è tornato a casa, e lo sa perché viene detto esplicitamente nel prologo che lui davanti ad un pubblico di pastori (ovvero nell’Arcadia napoletana di buona tradizione italiana) ha intenzione di «racontare le rozze ecloghe da naturale vena uscite, così di ornamento ignude exprimendole come sotto le dilettevoli ombre, al mormorio de’ liquidissimi fonti, da’ pastori di Arcadia le udii cantare»;21 e sa pure che non è importante come e quando sia tornato, dal momento che anche Virgilio nel narrare di Gallo non ci parla di un viaggio ma semplicemente testimonia l’intenzione dell’amico di perdersi nelle selve tra il Menalo e il Partenio in compagnia delle ninfe, dei pastori e dello stesso Pan («Interea mixtis lustrabo Maenala Nymphis/ aut acres venabor apros; non me ulla vetabunt/ frigora Parthenios canibus circumdare saltus», Buc. X 55-57), intenzione suggerita dal commosso accorrere delle divinità pastorali al suo lamento (fenomeno registrato anche dal Sannazaro nel Proemio: «a le quali [rozze ecloghe] non una volta ma mille i montani idii da dolcezza vinti prestarono intente orecchie, e le tenere ninfe, dimenticate di perseguire i vaghi animali, lasciarono le faretre e gli archi appiè degli alti pini di Menalo e di Liceo»).22 Di Gallo conosciamo soltanto la delusione e la sua estraneità al mondo bucolico e la sua dolorosa passione, così di Sincero. Eppure già in questa fase dell’elaborazione dell’opera Sincero torna a Napoli: lo fa nel momento in cui fa coincidere l’ultima stazione con la visita alla tomba di una famosissima matrona, lo fa nel momento in cui fa in modo che Opico suggerisca a Selvaggio (che aveva aperto la scena nella prima ecloga recitando: «A dire il vero, oggi è tanta l’inopia / di pastor che cantando all’ombra seggiano, / che par che stiamo in Scizia o in Etiopia»),23 di cantare il «nobile secolo, il quale di tanti e tali pastori si vedeva copiosamente dotato; con ciò fusse cosa che in nostra età ne era concesso vedere e udire pastori cantare fra gli armenti, che dopo mille anni sarebbono desiati fra le selve»;24 lo fa infine quando – proprio per cantare questo «nobile secolo» in contraddittorio con Fronimo – Selvaggio deve emigrare d’Arcadia in Italia: «Amico, io fui tra Baie e ’l gran Vesuvio, / nel lieto piano, ove col mar congiungesi / il bel Sebeto, accolto in picciol fluvio».25 Anche Selvaggio fugge dalla sua patria a causa di un amore infelice, perché in fin dei conti il poeta amante è per definizione petrarchesca ramingo e
21
Ivi, p. 54. Ivi, p. 54-55. 23 Ivi, p. 60. 24 Ivi, p. 177. 25 Ivi, p. 182. 22
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solitario, ma il suo destino è diverso da quello di Gallo o di Sincero. «Cerca l’alta cittade ove i calcidici / sopra il vecchio sepolcro si confusero»:26 questo gli era stato detto e dunque la sua meta non poteva che essere Napoli, le terre abitate – come ricordava il Pontano – dagli Opici, dai Cumani, dai Calcidici e poi dai Greci e dai Romani, ma prima ancora sepoltura di Partenope e – non dimentichiamolo – anche di Virgilio, secondo una nota tradizione popolare. È inutile riprendere quanto efficacemente è stato detto anche di recente sull’allusività storica e tutta italiana del canto del Caracciolo riportato da Selvaggio:27 aggiungo soltanto una nota. Selvaggio racconta: «così prese a cantar sotto un bel frassino, / io fiscelle tessendo, egli una gabbia»;28 Virgilio chiudeva la sua decima ecloga così: «Haec sat erit, Divae, vestrum cecinisse poetam, / dum sedet, et gracili fiscellam texit hibisco». L’ultimo componimento in entrambi i casi è stato composto nel mentre il poeta mantovano e quello napoletano intrecciavano fiscelle, entrambi alludono esplicitamente al buio che si avvicina e ad un congedo. Come Virgilio, il poeta narrante della X ecloga, anche il poeta partenopeo amico del Sannazaro è in patria (che potremmo immaginare sia per entrambi Napoli), trattenuto o meno e non ha in progetto alcun viaggio (come Gallo o Melibeo): tuttavia la differenza sta nel fatto che il suo canto è interrotto, non è compiuto, è quasi sospeso dal sopraggiungere della notte e la prima Arcadia si conclude con un rimprovero nei confronti dell’«empie stelle» che hanno impedito al primo e ultimo pastore di questo romanzo, Selvaggio/Sincero, di ascoltare di più: Ma l’empie stelle ne vorrei riprendere, né curo già se col parlar mio crucciole; sì ratto fer dal ciel la notte scendere che, sperando udir più, vidi le lucciole.29
Gli ultimi quattro versi non a caso potrebbero essere stati pronunciati e dal narratore, a conclusione del suo resoconto, e dall’Arcade, anche lui tornato in qualche modo in patria. Di fatto in questo modo il Libro nominato Arcadio ha inizio sulla sommità del Partenio e si conclude sotto un bel frassino in quell’Arcadia napoletana e italiana, cui il Boccaccio aveva dato tanto spazio nel suo Bucolicum carmen (dalla descrizione
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Ivi, p. 183. Si veda in ultimo M. Riccucci, «Il neghittoso e il fier connubio»… cit., E. Fenzi, L’impossibile Arcadia di Iacopo Sannazaro, in «Per leggere», XV (2008), pp. 157-178 e Id., Arcadia X-XII, in Travestimenti. Mondi immaginari e scrittura nell’Europa delle corti, a cura di R. Girardi, Bari, Edizioni Pagina 2009, pp. 35-70. 28 I. Sannazaro, Arcadia cit., p. 184. 29 Ivi, p. 192. 27
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delle selve partenopee devastate da un crudele Polifemo nella IV egloga al lamento di Calcidia/Napoli nella successiva, ma anche nella VI), ma che apparentemente il Sannazaro si era rifiutato di cantare. Apparentemente, perché in questa prima scrittura il distacco dall’esperienza pastorale dell’autore e protagonista dell’avventura è esclusivamente temporale: anche se non ci viene detto in alcun modo da quanto tempo egli è in esilio volontario lontano dalla città, è evidente che il contrasto non è tra Italia e Grecia, ma tra Napoli e un mondo bucolico «napoletano» descritto sulla scorta della X ecloga Virgiliana, ravvivato da toponimi arcadici recuperati da quei versi (Menalo e Partenio), cui il nostro ha voluto aggiungere il ricordo – carico di miti e forse anche di altri significati – dell’Erimanto, monte cupressiferus, secondo l’appellativo attribuitogli da Ovidio, famoso per il terribile cinghiale ucciso da Ercole, ma anche per l’incontro di Arcade con la madre/orsa Callisto (Met. II 496-507), oltre che per il fatto che il fiume omonimo si getta – così recita Plinio (Nat. Hist. IV 21) – nell’Alfeo, suggerendo quasi una via di fuga dall’Arcadia verso la Sicilia di Aretusa. È come se il Sannazaro avesse voluto correggere l’ambiguità del genere bucolico rinunciando al travestimento e rappresentando tuttavia in quella realtà topograficamente altra, attraverso lo strumento dell’allusione se non dell’allegoria (cosa che rende ardua spesso l’interpretazione), dietro la maschera d’Arcadia, la Napoli degli anni Ottanta: non il poeta si maschera dunque, ma il suo contesto. «Non sempre il testo rispetta la destinazione dei luoghi», aveva osservato a suo tempo Marco Santagata.30 In questa prospettiva il distacco non dovrebbe manifestarsi se non come indizio di una distanza temporale. Questa è segnata dal fatto che Sincero racconta di un passato in cui ha assistito, primo spettatore e lettore, all’Arcadia, ma ancor più dall’ultimo racconto nel racconto, quello di Selvaggio, che riferisce di essere stato una volta, quindi prima di questa primavera arcadica celebrata dai pastori tra il 21 e il 23 aprile, a Napoli. Riportando in un ordine razionalmente cronologico le vicende «narrate» nel romanzo, Selvaggio va a Napoli per quello che si rivela alla fine un viaggio di formazione, Caracciolo, principe della civiltà partenopea, predice l’arrivo di una brutta stagione, il cittadino napoletano Sincero sofferente per amore – su suggerimento del Gallo virgiliano, potremmo aggiungere – va in Arcadia per qualche tempo (siamo in aprile), infine Sincero è a Napoli e riferisce ai pastori napoletani i dieci canti. Alla fine di questa prima parte cogliamo che il movimento del protagonista o dei protagonisti non è circolare (come quello di un qualsiasi viaggio: potremmo ricordare anche solo quello di Silvano nella X petrarchesca), ma elicoidale e non vi è mai «ritorno» al punto di partenza. Alla luce di quanto detto è chiaro che la nuova Arcadia ha in sé qualcosa di diverso, in parte essa conferma alcune idee dell’autore da giovane, fornendo a mio
30 M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore 1979, p. 372.
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parere chiavi di lettura utili a comprendere le oscurità della prima redazione, in parte però le mette in discussione e le supera. L’irrompere prepotente dell’epica nei giochi per l’anniversario della morte di Massilia, oltre a costituire un facile intermezzo che riconvoca davanti al lettore ad uno ad uno tutti i pastori protagonisti della prima Arcadia (stratagemma già realizzato in forma più leggera nella VIII ecloga), cui si aggiungono pochissimi nomi, apre la strada alla conclusione e costituisce nuovamente un segnale per il dotto spettatore: Ergasto parla come Enea sulla tomba di Anchise (siamo nel V libro dell’Eneide), come l’eroe che sta per arrivare ormai sulle coste della Campania. Ma ancor più visibili sono gli indizi presenti nel canto funebre, che è il secondo recitato da Ergasto in Arcadia: ad un certo punto infatti il pastore si rivolge ad un «ben nato aventuroso fiume», sull’identificazione del quale i critici si interrogano dubbiosi. Ma tu, ben nato aventuroso fiume, convoca le tue ninfe al sacro fondo, e rinnova il tuo antico almo costume. Tu la bella sirena in tutto il mondo facesti nota con sì altera tomba: quel fu ’l primo dolor, quest’è il secondo.31
Erspamer si rifiuta di credere, con il Carrara, che con la sirena Sannazaro intenda la patria Partenope, per una questione topografica: è impossibile a suo parere che Ergasto dall’Arcadia invochi il piccolo fiume Sebeto per chiedergli di rinnovare la gloria, che fu già della sirena, per la madre Massilia, e di innalzare il suo «rozzo» stile. Eppure la sua proposta del 1990 di identificare questo fiume con l’Acheloo, il «padre» delle sirene, è poco convincente. Anzi a conferma del fatto che Ergasto qui si stia rivolgendo proprio al Sebeto (che non dimentichiamo era un fiume che aveva la sua foce nella città di Napoli nell’antichità, e probabilmente divideva Palepoli da Neapoli, ma all’epoca del Sannazaro già aveva fatto perdere le sue tracce nel sottosuolo)32 abbiamo tutto il racconto del viaggio sotterraneo di Sincero nella prosa successiva, un viaggio che è verso il Sebeto pronto quasi a rispondere alle preghiere di Ergasto per il tramite del Sannazaro. La sua risposta è l’annuncio di un lutto, di una perdita, che sottrae per sempre al poeta l’oggetto glorioso dei suoi futuri versi.33
31
I. Sannazaro, Arcadia cit., p. 209. Cfr. G. Boccaccio, De montibus, silvis, fontibus, etc.., a cura di M. Pastore Stocchi, Milano, Mondadori 1998, p. 1971 e ad esempio le pagine dedicate alla «questione» Sebeto in G. A. Summonte, Historia della città e regno di Napoli, Napoli, All’insegna della Sirena 16752, pp. 234240. 33 Ma cfr. anche J. Sannazarii Poemata, Padova, Giuseppe Comino 1751, p. 56: «In gremio Phyllis recubat Sirenis amatae / Consurgis gemino felix Sebethe sepulchro». 32
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A questo punto si innesca tuttavia nel lettore una curiosa necessità di disambiguazione: Massilia infatti è presentata dal poeta in questi versi in maniera più esplicita rispetto a prima come una seconda Partenope. Ovvero – mi permetto un sillogismo – se la tomba di Partenope individuava l’antica Napoli (quella che lo stesso Pontano ricorda come Palepoli), la tomba di Massilia indica la Neapoli, anzi qualcosa di più, la rifondazione dell’antica città, il suo rinascimento. La celebrazione di Massilia è la celebrazione della gloria della Napoli moderna, celebrazione che avviene su di un sepolcro. Ed è proprio qui che si coglie lo scarto tra la prima e la seconda redazione dell’opera: nella nuova Arcadia il tema della morte e del pianto diventa dominante, dalla XI ecloga fino al Congedo alla Sampogna passando per quel dodicesimo capitolo che narra l’incontro a Napoli del protagonista con un nuovo ultimo sepolcro, quello sul quale si dispera Meliseo per la bella Filli, omaggio e riscrittura del Melisaeus pontaniano, ma anche constatazione di una decadenza politica che solo il Sannazaro dell’esilio poteva ormai ritenere ineluttabile e che il Summonte riprende in maniera opportuna nella sua prefazione, denunciando l’abbattersi della «adversa fortuna» sulle res Neapolitanae. La tomba di Filli, clonata dal sepolcro di Massilia perché rendesse più esplicite allusioni che potevano rimanere nell’ombra, chiude tristemente il viaggio di Sincero: l’autore ha negli ultimi due capitoli d’Arcadia riscritto di fatto le ultime due stazioni, come dimostrano gli innumerevoli rimandi e simmetrie. Nel far questo ci ha svelato, più o meno consciamente, quello che era il modo in cui lui dopo un certo lasso di tempo, mutatis mutandis, leggeva la sua opera ancora inedita. In conclusione la descrizione del viaggio dell’eroe nelle viscere della terra (viaggio che ha tutte le caratteristiche di un sogno) determina solo apparentemente il distacco tra il mondo cantato e raccontato e la realtà partenopea: in verità esso non fa che accentuare e sottolineare e forse, dal punto di vista di Sincero, esplicitare l’illusorietà di questa distanza. L’ultima ecloga infatti nell’omaggio dichiarato nei confronti del Pontano e dei due amici napoletani che pubblicheranno l’Arcadia del 1504, nella sua palese modernità dunque, che rinuncia sia al modello classico sia a quello petrarchesco, viene inserita nel libro quasi per un confronto con i versi d’Arcadia, un confronto che è in aperta contraddizione con quanto veniva detto nel Proemio e con la storia stessa di Sincero, che qui esplicitamente si fa lettore e critico della letteratura partenopea. Non di un nostos alla fine si trattava, ma di una riscrittura ardita e in alcuni punti problematica di un genere letterario, partendo dal presupposto del suo superamento a livello sia stilistico sia storico, come già rilevava Tateo.34 Il luogo di partenza erano i canti bucolici di Virgilio e il primo viaggio di Sincero si costruiva e si con-
34 Esemplari le pagine dedicate al Sannazaro in F. Tateo, Tradizione e realtà nell’Umanesimo italiano, Bari, Dedalo Libri 1967, pp. 11-109.
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sumava sull’interpretazione di quell’ultima X ecloga. Ma se nella prima redazione l’equilibrio si manteneva sul filo dell’enigma, le «rivelazioni» dell’ultima stesura dell’Arcadia hanno creato a mio giudizio uno sbilanciamento in senso e autobiografico e encomiastico. Forse l’autore, noto per la sua raffinata acribia, resosi conto delle ambiguità, non solo topografiche, del Libro pastorale e forse non condividendo più la novitas che lo aveva entusiasmato da giovane, ha voluto sperimentare nelle carte aggiunte una soluzione netta e radicale: la proposta va accettata in quanto tale. Non esiste tuttavia per un’opera – si potrebbe chiosare – un filologo peggiore del suo autore.
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IV. Il “carattere” del popolo, dei letterati, degli eroi, tra vecchia e nuova Italia
Giuseppe Garibaldi Giuseppe Mazzini
GIUSEPPE GARIBALDI
GIULIA IANNUZZI Il popolo italiano nei romanzi di Garibaldi: raffigurazioni, analisi sociali, strategie testuali
Negli anni seguenti la battaglia di Mentana, tra 1869 e 1879, Giuseppe Garibaldi firmò una cospicua produzione scritta che conta oltre a delle Memorie e a un Poema autobiografico, quattro romanzi veri e propri – Clelia ovvero il governo dei preti, Cantoni il volontario, I Mille, Manlio –,1 nei quali si trova una peculiare mescolanza tra invenzione, autobiografia, memorialistica storica.2 Vogliamo quest’anno proseguire un lavoro di lettura critica, cominciato in occasione del Congresso ADI 2010 con l’evidenziazione di moduli tipici del romanzo popolare in Cantoni e della loro interazione con la cronaca della storia recente, cogliendo l’occasione offerta dal titolo del convegno di quest’anno – La letteratura degli italiani. Gli Italiani della letteratura – per una ricognizione del tema del popolo e del popolare in tutti i romanzi di Garibaldi. Tale tema risulta infatti un osservatorio ideale per mettere in luce le idee che l’autore sceglie di affidare alla
1
Per i romanzi le citazioni sono tratte dalle seguenti edizioni: G. Garibaldi, Cantoni il volontario, Milano, Kaos 2006; Id., Clelia o il governo dei preti, Progetto Manuzio, www.liberliber.it 2003, edizione elettronica in formato pdf., tratta dall’edizione Torino, MEB 1982, ristampa anastatica dell’edizione Milano, Fratelli Rechiedei 1870; Id., I Mille, Progetto Manuzio, www.liberliber.it 2010, edizione elettronica in formato .odt, tratta dall’edizione Torino, Camilla e Bertolero 1874; Id. Manlio. Romanzo contemporaneo, Napoli, Guida editori 1982. D’ora in poi le citazioni riprenderanno i soli titoli e i numeri di pagina. 2 La Prefazione a Clelia è datata Caprera, 15 dicembre 1969; Clelia fu cominciato nel ’67 e finito l’anno seguente; Cantoni fu composto tra ’68 e ’69, I Mille venne iniziato nel ’71, Manlio scritto con pause tra ’76 e ’79. Cfr. M. J. White, Vita di Giuseppe Garibaldi, Milano, Treves 1893, II, pp. 78, 259; M. Milani, Garibaldi romanziere, in A. Benini, e P. C. Masini (a cura di), Garibaldi cento anni dopo. Atti del convegno di studi garibaldini, Bergamo, 5-7 marzo 1982, Firenze, Le Monnier 1983, pp. 84-103; A. Scirocco, Garibaldi. Battaglie, amori, ideali di un cittadino del mondo, Roma-Bari, Laterza 2001, pp. 379, 382-383. Giuseppe Garibaldi
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pagina, i moventi e gli strumenti della scrittura, il suo pubblico ipotetico. In queste opere narrative mostreremo esistere una centralità della funzione ideologica della letteratura tipicamente risorgimentale nei suoi intenti pedagogico-popolari, che li rende ottima espressione di quel tipo di romanzo popolare definito da Gramsci «a carattere spiccatamente ideologico-politico, di tendenza democratica legata alle ideologie quarantottesche» che ha in Sue e Hugo i suoi modelli.3 Apparirà evidente come l’uso della scrittura, e più specificamente della narrazione e del romanzesco, prolunghino, in Garibaldi, l’attività civile, politica, militare. Senza dare per scontata una generale conoscenza dei romanzi garibaldini – assenti nelle principali storie letterarie come in molti studi e antologie dedicate alla memorialistica del Risorgimento,4 ne vogliamo ricordare brevissimamente i temi fondamentali. In tutti e quattro i romanzi la mescolanza di memoria e invenzione romanzesca è caratterizzante: Clelia è ambientato negli ultimi anni Sessanta dell’Ottocento e, assieme a episodi della fallita campagna dell’Agro romano, presenta un intreccio di finzione in cui, nel ’66, trecento coraggiosi preparano un’insurrezione a Roma che verrà poi rimandata a tempi più maturi, un’eroina è insidiata da un monsignore e un manipolo di eroi si da alla macchia e finisce per unirsi a un gruppo di briganti patrioti, con cui combatteranno a Villa Glori e al lanificio Ajani. Cantoni rievoca invece i fatti storici del ’49, con un protagonista ispirato a un personaggio realmente esistito – il volontario forlivese Achille Cantoni. Anche nel secondo romanzo non manca una trama romantica di invenzione con l’amore tra Cantoni e la bella Ida, aggregatasi ai volontari travestita da ragazzo rapita da un lussurioso prete, liberata e quindi caduta a fianco del suo uomo a Mentana. Ne I Mille si trovano, frammiste alla rievocazione memoriale-storica, vicende d’invenzione con al centro Marzia e Ida – partite con i Mille, il malvagio gesuita Corvo, la misteriosa contessa N. Infine in Manlio il protagonista ripercorre le tracce di Garibaldi in Sud America compiendo imprese parallele (e con l’inserzione, per altro, di rievocazioni memoriali vere e proprie), e l’ultima parte mostra il futuro riscatto delle terre italiane irredente attorno al 1900. Personaggi e trame d’invenzione mettono in scena, come vedremo meglio più avanti, tutti i moduli narrativi
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A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi 1954, p. 110. La definizione gramsciana è richiamata anche in M. Milani, Garibaldi romanziere cit., p. 101. Nella biblioteca personale di Garibaldi a Caprera i romanzi Hugo sono una presenza importante nella sezione narrativa, v. T. Olivari, I libri di Garibaldi, in «Storia e Futuro», I, 1, aprile 2002, disponibile in versione .pdf sul sito www.storiefuturo.com. 4 L’assenza si prolunga nelle principali collane di letteratura italiana da fine Ottocento al secondo Novecento, cfr. C. Caruso, Garibaldi letterato, in S. Teucci (a cura di), Aspettando il Risorgimento. Atti del Convegno di Siena 20-21 novembre 2009, Firenze, Franco Cesati Editore 2010, pp. 217-233. IV. Il “carattere” del popolo, dei letterati, degli eroi, tra vecchia e nuova Italia
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più tipici del feuilleton – rapimenti, fughe, agnizioni, sotterranei e catacombe, viaggi per mare con naufragi e attacchi di pirati, duelli, e via dicendo. Accanto al livello memoriale e a quello romanzesco, la voce del narratore costituisce un terzo binario di lettura non meno caratterizzante: il narratore garibaldino ama esporre idee politiche, giudizi morali, tirate anticlericali, rievocazioni e così via, fatto che talvolta può rappresentare un’interruzione dell’azione, sfilacciando la struttura narrativa, mentre talaltra infonde alla pagina tutta la personalità dell’autore e contribuisce sostanzialmente all’interesse della narrazione.5 Non solo il narratore non muta tra le diverse opere, ma vien fatto coincidere con l’autore implicito e con l’autore reale, spia della spontaneità che caratterizza la scrittura garibaldina e che rende i romanzi preziose testimonianze a riguardo delle idee di Garibaldi (assicurandoci che il narratore valga a tutti gli effetti come portavoce ideologico dell’autore), ma che il lettore più accorto vivrà anche come spia di scarsa consapevolezza, scarsa padronanza degli strumenti della scrittura. Per fare un solo esempio citiamo il problema dell’autorappresentazione del Generale nei sui romanzi come personaggio: l’uso della terza persona testimonia lo sforzo di un’autorappresentazione distaccata (il Generale si ritrae come personaggio tra gli altri), riservando l’uso della prima persona all’io narrante; ma l’autore reale non riesce a mantenere tale distacco, cosicché a tratti affiora l’uso della prima persona per esprimere il punto di vista del personaggio nella storia. Interessante notare come si passi, nell’arco dei romanzi, dalla prevalenza del tentativo oggettivante a un memorialismo aperto: dal personaggio del Solitario in Clelia, alle oscillazioni tra «il Generale» e «io» in Cantoni, sino ad arrivare alla completa coincidenza tra io narrante ed io narrato ne I Mille e alle aperte inserzioni memoriali in Manlio. Nelle rappresentazioni e nelle riflessioni sul popolo italiano il narratore è diviso tra due istanze fondamentali e contrastanti: portato irresistibilmente a deprecarne la partecipazione troppo scarsa alle varie campagne militari per l’unità e la mancata sollevazione di massa a fianco dei Volontari,6 d’altra parte il narratore mette a fuoco con chiarezza le condizioni di estrema indigenza e ignoranza da cui dipende anche l’assenza dalle guerre di indipendenza. La situazione di grave subalternità del
5 In Manlio si esemplificano assai bene entrambe le possibilità: mentre nei primi capitoli, di ambientazione italiana, le osservazioni del narratore sulla politica nazionale ed europea risultano piuttosto slegate dalle vicissitudini del protagonista, nei capitoli sudamericani le descrizioni degli usi e della vita quotidiana degli allevatori e dei nativi abitanti della foresta sono fra i presupposti dell’azione e non ne spezzano il ritmo. 6 Cfr. in Cantoni: all’entrata dei Volontari in Bologna, il narratore preannuncia la fine tragica della campagna romana del ’67 «grazie all’indifferenza di questo nostro popolo, sin ora almeno molto esaltato a scialacquare spettacoli e dimostrazioni, ma parco e restio nell’aiutare i fratelli militanti contro lo straniero» (p. 27).
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popolo italiano consegue senza dubbio dalla gestione del potere ed è dunque responsabilità delle classi che lo detengono. Monarchi, nobili, possidenti, clero conducono una vita di lussi e opulenza alle spalle dei molti che lavorano, privi di ogni diritto. Nel controllo delle coscienze è indubbiamente il clero ad avere un ruolo centrale. Classe parassita per definizione, dalla quale l’autore attinge per i suoi antagonisti più negativi e contro cui il narratore indirizza strali frequenti e apertissimi. Il narratore dei romanzi garibaldini spesso argomenta su un piano generale ciò che i racconti mettono in scena nel particolare (e alla parola del narratore sono inoltre del tutto solidali quelle dei suoi eroi positivi, sostanzialmente indistinguibili da lui per idee e per linguaggio). Da I Mille portiamo un esempio in cui il rammarico sfocia nei toni forti dell’indignazione (p. 73): Quando si pensa che tutte queste belle popolazioni dell’Italia sono oggi così depresse ed umiliate – 25 milioni d’individui che hanno i ladri in casa – senza aver nemmeno il coraggio di lamentarsene! – Vergogna! E si millanta valore italiano – capi guerrieri, prodi eserciti. – Via! via! nascondete quella fronte macchiata dagli sputi stranieri!
Il tema del potere e dell’incapacità dei governi della penisola è cruciale. Ne I Mille e in Manlio non verranno risparmiate critiche durissime anche ai governi sabaudi post unitari, e, anzi, le osservazioni sulla gestione della cosa pubblica saranno sempre più improntate a un pessimismo di fondo sull’animo umano, alla constatazione che ad ascendere ai vertici del potere sono naturalmente gli individui più ambiziosi e privi di scrupoli.7 Alla constatazione scoraggiante del passato recente e della situazione presente del popolo italiano, Garibaldi risponde in parte con un programma politico repubblicano, socialisteggiante,8 internazionalista, in parte con un atteggiamento libertario non privo di tendenze anarchiche – realizzato, nel concreto romanzesco, da memorabili figure di briganti positivi. Sul primo fronte è evidente anche la delusione per il prevalere dell’opzione moderata nel governo piemontese post unitario. Esemplare la Prefazione a I Mille, romanzo il cui dichiarato intento testimoniale si
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Cfr. I Mille cit., p. 108. Orvieto cita soprattutto il socialismo utopico di Saint-Simon tra i riferimenti del Generale: P. Orvieto, Buoni e cattivi del Risorgimento. I romanzi di Garibaldi e Bresciani a confronto, Roma, Salerno Editrice 2011, p. 158. Ugolini riduce invece il peso del socialismo saintsimoniano nella formazione giovanile del Generale: R. Ugolini, La formazione culturale di Garibaldi, in S. Bonanni (a cura di), Garibaldi: cultura e ideali. Atti del LXIII congresso di storia del Risorgimento italiano (Cagliari, 11-15 ottobre 2006), Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano 2008, pp. 87-118. 8
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colloca consapevolmente all’interno di un conflitto delle interpretazioni e delle memorie a riguardo della spedizione e del ruolo dei Volontari nella liberazione del meridione: […] Perseguitino pure l’Internazionale, cioè la miseria da loro creata e mantenuta – spargano pure sulla superficie dell’Italia, colla solita intenzione di corromperla, i soliti agenti del corruttore supremo di Roma – ed invece di costruire degli Ospizi d’asilo per i tanti condannati a morir di fame in questo inverno di carestia, comprino pure delle nuove tenute di caccia per divertirsi – e nuovi palazzi vescovili – vedremo come se la intenderanno colla fame della moltitudine.9
E ancora, pochi paragrafi dopo, nella tirannide e nel cattivo governo vengono additate le cause del malessere popolare e di fenomeni di ribellione, come, in certa sua parte, anche quello del brigantaggio.10 La presenza del brigantaggio è, nei romanzi di Garibaldi, di particolare interesse. In Clelia i protagonisti che cospiravano per una sollevazione Roma, si rifugiano nelle campagne laziali e si uniscono alla banda del brigante Orazio. Nel corso del romanzo si opera una graduale ma chiara trasformazione della banda di briganti in combattenti per l’indipendenza italiana – sostanzialmente Volontari – tanto che, negli ultimi capitoli, la storia di finzione trascolora in cronaca del recente passato, con i personaggi coinvolti nello scontro presso il lanificio Ajani e nella battaglia di Villa Glori, dove perdono eroicamente la vita, martiri della patria, i protagonisti maschili del romanzo.11 Tra i briganti si trovano fuorilegge e banditi fuggiti alla giustizia, bande prezzolate assoldate dal clero contro il governo italiano, ma anche uomini incapaci di sottostare ai soprusi di un potere ingiusto, tirannico, parassitario, come Orazio e Talarico in Clelia o Gasparone ne I Mille, quest’ultimo esplicitamente paragonato al Robin Hood inglese.12 In un recente lavoro Paolo Orvieto ha messo in luce esaustivamente i molti addentellati del tema del brigantaggio nei romanzi con la realtà storica (individuando i modelli realmente esistiti dietro ai personaggi garibaldini) e con un immaginario che era già andato costituendosi nella letteratura ottocentesca soprattutto straniera, attorno alla figura romantica del brigand italien, e che Garibaldi mostra di conoscere, da I Masnadieri di Schiller (1782), al Rob Roy di Walter Scott (1817), dal Guerrazzi de Il Marchese di Santa Prassede e di Paolo Pelliccioni (rispettivamente del ’53
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I Mille cit., pp. 7-8. Ivi, p. 10. 11 Clelia o il governo dei preti cit., in particolare nel cap. LXXV. 12 Si veda ivi, l’esemplare cap. XXIII, e ne I Mille cit., il cap. XXVIII. Il paragone tra Gasparone e Robin Hood è a p. 101. 10
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e del ’64), all’Alexandre Dumas di Masaniello (1845) e Cento anni di Brigantaggio nelle provincie meridionali (1863).13 Non possiamo inoltre non pensare a un’ispirazione autobiografica nel periodo vissuto come disertore dalla marina sabauda negli anni Trenta.14 All’avversione per una classe dirigente corrotta, non impegnata, dopo l’unità, a sanare le antiche sperequazioni tra ricchi e poveri, si somma quella verso una gestione della giustizia in cui troppo spesso la quantità di norme va di pari passo col controllo del popolo e con una parzialità sempre favorevole al potente, che fa rimpiangere una vita più semplice, selvaggia e libera.15 Forte dunque nei romanzi garibaldini e in quanto di politico essi esprimono, l’elemento libertario. Quanto alla ricetta più adatta a sanare una società italiana decaduta e afflitta da tanti mali, l’idea della repubblica è affermata con convinzione, accanto però a quella della dittatura. Il narratore garibaldino sostiene a più riprese l’idea di un periodo di dittatura – sul modello di quella effettivamente assunta dal Generale in Sicilia nel ’61, che pare il rimedio possibile laddove i parlamenti restano preda di bizantinismi, inconcludenza, corruzione.16 A completare il quadro della visione politica del narratore garibaldino, nelle sue grandi linee, dobbiamo nominare anche un elemento massonico rilevante, presente in special modo nell’idea di un’Unione Europea con funzioni di arbitrato internazionale.17 L’idea va di pari passo con una professione di pacifismo, ma per così dire «selettivo»: laddove un popolo debba rovesciare una tirannide e una nazione riconquistare la sua indipendenza, l’uso della forza resta indispensabile. Massonica è anche quella religione del Vero e di una ragione suprema che il narratore contrappone alla religione menzognera utilizzata dal clero per turlupinare i più semplici.18 Preso in esame il problema degli italiani nei romanzi garibaldini dal punto di vista tematico, vorremmo ora soffermarci sul livello dell’invenzione e della costruzione narrativa, per mostrare quali siano le modalità della costruzione ideologica in queste prove letterarie.
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P. Orvieto, Buoni e cattivi del Risorgimento cit., pp. 227-229, 256, 270. A. Scirocco, Garibaldi. Battaglie, amori, ideali di un cittadino del mondo cit., cap. II. 15 Per un brano esemplare v. Manlio cit., pp. 253-254. 16 In Clelia l’idea è attribuita a un personaggio – il Solitario – che costituisce un chiaro alter ego dell’autore medesimo, Clelia o il governo dei preti cit., p. 67. 17 Ivi, p. 69. In Manlio al tema dell’arbitrato internazionale sono dedicate osservazioni brevi ma frequenti (pp. 239-241, 244, 258). 18 Per il rapporto di Garibaldi con la massoneria italiana vedi F. Conti, Da Ginevra al Piave. I liberi muratori e il pacifismo democratico, in Id., Massoneria e religioni civili. Cultura laica e liturgie politiche fra XVIII e XX secolo, Bologna, Il Mulino 2008, pp. 101-132. 14
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Cominciamo dai protagonisti: gli eroi dei romanzi garibaldini sono patrioti, impegnati nella lotta per la libertà e l’indipendenza dei popoli. Assommano qualità positive nell’aspetto fisico e nella stoffa morale, illustrate col riferimento importante ai modelli classici romani,19 combattono per l’indipendenza italiana e, in molti casi, vanno incontro a una fine gloriosa di martirio per la patria. In Clelia, Cantoni e I Mille, i protagonisti si presentano come primi inter pares: Attilio e Muzio (Clelia), Cantoni, Nullo e P. (I Mille), combattono sempre a fianco degli altri Volontari, non sono maggiormente presenti in termini quantitativi e gli atti di eroismo non li innalzano al di sopra dei compagni; sono piuttosto i Volontari nel complesso a presentarsi come un gruppo eletto. In Clelia ai compagni congiurati si aggiungono via via altri briganti, in una serie di degni coprotagonisti. Manlio fa parziale eccezione, staccandosi dagli altri tre romanzi per questa come per altre caratteristiche. Il modello del personaggio Manlio non è più, infatti, la figura del volontario cui il narratore rende un tributo alla memoria, Manlio fonde la proiezione futura del figlio di Garibaldi (il nome è quello dell’ultimo figlio avuto da Francesca Amorosino) con la figura di Garibaldi stesso, e il romanzo ne segue la formazione e la vita. Manlio risulta così distinto da una centralità narrativa condivisa solo, nella seconda metà del romanzo, da Elvira, degna sua compagna di vita, dietro alla quale difficilmente non si ravviserà il modello reale di Anita Garibaldi. Anita ispira probabilmente le eroine femminili anche negli altri romanzi – Clelia, Silvia, Aurelia e Giulia20 in Clelia, Ida in Cantoni, Lina e Marzia ne I Mille. Personaggi femminili eccezionalmente forti, di donne combattenti e innamorate, capaci di sacrificare la propria vita sul campo di battaglia e grazie alle quali amore e patria si saldano in un binomio tipico e irresistibile. L’altro modello di figura femminile – la donna traviata e perduta – coniuga gli stilemi propri del romanzo nero e di una narrazione risorgimentale in cui la costruzione dell’identità nazionale prende a prestito termini e senso di appartenenza dall’ambito della famiglia. Nei romanzi garibaldini la donna che col raggiro o con la forza sia divenuta preda delle libidini di un gesuita – l’antagonista tipico – non trova possibilità di riscatto, è destinata a una vita di angoscia o di follia, o a lasciarsi morire di stenti (Camilla in Clelia e Rosa in Manlio). Diverso il caso della contessa N. ne I Mille, favorita di monsignor Corvo e segreta agente delle sue trame, dopo una corruzione avvenuta in età precoce. Sorta di dumasiana Milady, la contessa è segretamente solidale alla causa patriottica e vi aderirà, con una definitiva conversione, nel corso del romanzo. Ricorre d’altronde il tema della donna insidiata, perseguitata (Clelia, Ida in Cantoni, Marzia ne I Mille,
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Cfr. descrizioni di Cantoni (Cantoni il volontario cit., p. 19), Clelia e Attilio (Clelia o il governo dei preti cit., p. 5) e Manlio (Manlio cit., p. 4). 20 Dietro al personaggio dell’inglese Giulia, si può forse scorgere anche l’amica e biografa Jessie White Mario. Giuseppe Garibaldi
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Rosa in Manlio) che, assieme a quello della donna perduta, vanta evidentemente una tradizione nel romanzo nero ottocentesco, ma anche in quel ricco filone iniziato, sullo scorcio del Settecento, dalla Clarissa di Richardson.21 Presente a Garibaldi è certamente anche il modello manzoniano, alluso puntualmente nelle scene del rapimento e della cattività di Ida in Cantoni, di cui abbiamo già trattato dettagliatamente in un precedente intervento. I veri cattivi dei romanzi garibaldini sono esponenti del clero, preti e gesuiti soprattutto, che realizzano nelle loro figure quell’anticlericalismo argomentato in generale dal narratore. Parassiti del popolo, nemici del nascente Stato italiano, questi preti e cardinali sono schiavi di libidini e appetiti, insidiano le donne, si servono della confessione come mezzo di controllo, dell’inganno, della violenza. Nei diversi romanzi queste figure di antagonisti sono declinate con alcune differenze: don Gaudenzio in Cantoni è, sin dal nome, preda di voglie smodate che lo spingono a continui tentativi di possedere Ida, e ad altrettanti fallimenti, quasi comici nella loro sfortuna. Procopio in Clelia si scoprirà, con agnizione da manuale, padre della ragazza da lui concupita con l’inganno, e si toglierà la vita gettandosi da una finestra; don Pancrazio in Manlio ricomparirà più volte dopo essere stato creduto morto, con vari colpi di scena nella più classica tradizione feuilletonistica, e si presenterà come seduttore abile, controparte di personaggi femminili meno saldi nello sprezzo della tentazione e in generale di una concezione della donna meno compattamente salvifica e positiva, com’era più spesso stata nei romanzi precedenti. La distinzione tra bene e male, tra eroi e antagonisti, è manichea, e certo i personaggi di questi romanzi, come ha giustamente notato Laura Nay,22 sono “tipi” in senso chatmaniano – il narratore si occupa poco della loro vita interiore, i cui moti semplici rispecchiano i valori fondamentali della patria, della libertà, dell’amore, sempre intrecciati indissolubilmente tra loro. Amore e patria si saldano anche nelle stesse vicende di cui questi eroi sono protagonisti, in trame costituite da una mescolanza particolarissima di fatti storici del recente passato italiano (e sudamericano in Manlio) e schemi tipici del romanzo d’appendice. Alcuni ne abbiamo già nominati, come il tema della donna perseguitata o corrotta (presente in tutti i romanzi), quello dell’amore contrastato, del rapimento (Cantoni), dell’incesto (Clelia), la presenza di agnizioni e di travestimenti e smascheramenti che costituiscono sorprendenti colpi di scena (la scoperta della parentela tra Procopio e Camilla in Clelia; la scoperta che Ida è una ragazza da parte di Cantoni, o quella di don Gaudenzio travestito da donna durante una dimostrazione a Ravenna in Cantoni; le molte ricomparse di don Pancrazio in
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Riferimento suggerito in L. Nay, Giuseppe Garibaldi. L’eslege del romanzo italiano, in S. Bonanni (a cura di), Garibaldi: cultura e ideali cit., pp. 195-224. 22 Ivi, p. 221. IV. Il “carattere” del popolo, dei letterati, degli eroi, tra vecchia e nuova Italia
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Manlio). Ma molti altri ne possiamo ancora citare: i primi tre romanzi centrano le vicende attorno a fatti di guerra – e di grande efficacia sono sempre le scene di massa e battaglia –, cui si aggiungono duelli (quello tragico tra Ramorino e Risso in Cantoni), dimostrazioni popolari (a Ravenna, sempre in Cantoni), sortite e combattimenti di guerriglia (nelle campagne romane in Clelia, in Sud America e in Italia in Manlio). In Manlio sono inoltre presenti tutti gli elementi più tipici del romanzo di avventura per mare – tempeste, naufragi, attacchi dei pirati –, e in paesi esotici – con la descrizione di popoli lontani e delle loro usanze, della favolosa foresta amazzonica con gli immensi fiumi pluviali, le fiere pericolose, le tribù di selvaggi. Da un repertorio gotico sono invece tratte, oltre ai personaggi dei preti malvagi che contano precedenti eccellenti già in Lewis e Radcliffe, alcune ambientazioni tipiche: il convento con le catacombe, dove si celano sale di tortura e ossari in cui si si trovano i resti dei figli illegittimi dei religiosi spietatamente soppressi, descritti con indugio sugli elementi ripugnanti e orridi, sia in Cantoni che in Clelia; i sotterranei di Roma, ma anche la cupa rocca di San Leo dove viene portata Ida dopo il ratto (Cantoni), le rovine del Colosseo descritte in una notte tempestosa come sfondo di una riunione dei congiurati in Clelia. Tipici di un repertorio appendicistico sono poi i racconti a incastro, dove il narratore lascia la parola a personaggi che raccontano la propria storia. Estremamente riusciti quelli dei volontari Brusco, Nello e Carbonin in Cantoni e quello del monarca della foresta Colombo in Manlio. I fatti storici al centro dei romanzi, già ricordati più sopra, sono raccontati dal narratore con appello frequente alla memoria personale, alla veridicità e a tutta l’urgenza di una testimonianza diretta. L’istanza memoriale è infatti un movente importante e dichiarato come la prima motivazione della scrittura nella prefazione ai romanzi storici premessa a Cantoni e a Clelia, nella prefazione e nell’incipit de I Mille, a più riprese nel corso di tutti i romanzi.23 Il fronte romantico, dell’invenzione romanzesca, segnalato dall’autore nella prefazione ai romanzi storici come quello più debole della propria scrittura, si affianca e si intreccia con quello storico-testimoniale con l’evidente intento di raggiungere un pubblico più vasto di quello a cui si potevano prevedibilmente rivolgere le Memorie, scritte tra ’71 e ’72.24 Garibaldi, nella decisione di cimentarsi con la scrittu-
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In Cantoni, I Mille e Manlio soprattutto ricorrono appelli alla memoria, a non dimenticare gli eroi e i martiri della patria, le imprese, le battaglie, i nomi degli uomini, talvolta con apostrofi dirette ai lettori e sottolineando la missione memoriale della scrittura. 24 Manca sinora uno studio dettagliato del successo dei romanzi al momento dell’uscita. Secondo Milani Clelia fu il più celebre, come proverebbero due edizioni e una ristampa in Italia nel corso del ’70, cinque edizioni francesi, quattro inglesi, tre americane, la traduzione in dieci lingue (Clelia esce dapprima a Londra per i tipi di Cassel, solo in seguito a Milano per Giuseppe Garibaldi
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ra di romanzi si rivolgeva consapevolmente a un pubblico popolare,25 ossia borghese, nella presa d’atto che le masse contadine del paese versavano in una condizione di eccessiva arretratezza e ignoranza. L’intento di persuasione ideologica, dichiarato, subentrava laddove il momento storico impossibilitava a un’azione diretta sul campo («Non potendo operare altrimenti, ho creduto ricorrere all’opera della penna […]»).26 Dunque nell’opera narrativa di Garibaldi si mischiano esigenze differenti, che finiscono per trovare peculiari forme di interazione: cronaca e testimonianza, romanzo autobiografico, romanzo storico, romanzo popolare nero e avventuroso prestano il loro contributo alla causa risorgimentale, consacrando la memoria delle imprese che hanno costruito l’unità d’Italia, spronando le nuove generazioni al completamento dell’opera, proponendo le idee dell’autore quanto all’identità del nuovo popolo e ai suoi problemi. Se pure la consapevolezza con cui l’autore si cimenta nella scrittura romanzesca è probabilmente maggiore sul piano ideologico che su quello letterario,27 certo il tentativo evidenzia un’idea della letteratura, del suo potenziale, come centrale nel processo di unità, unico strumento in grado di far fronte insieme alla necessità di memoria storica, di critica del presente e di slancio ideale verso un futuro del Paese e dei suoi cittadini ancora in larga parte da costruire.
Rechiedei, probabilmente per la maggior difficoltà incontrata nel trovare un editore in Italia data la carica anticlericale dell’opera). Cantoni esce a Milano per Politti nel ’70. I Mille fatica a trovare un editore, forse per l’asprezza polemica dei contenuti politici. Esce nel ’74 per Camilla e Bartolero di Milano. L’edizione e la fortuna de I Mille risentono della particolare valenza politica del romanzo: una campagna di sottoscrizioni in Italia e Francia, comitati per la sua diffusione, aspri dibattiti dopo l’uscita, in particolare dati gli attacchi anti-moderati e anti-mazziniani, oltre che anti-sabaudi. Il libro frutta al Generale la considerevole somma di 21.000 lire. I Mille avrà cinque edizioni in Italia fino al ’77, comparirà in Portogallo, Francia, Olanda, ma non in Inghilterra (M. Milani, Garibaldi romanziere cit., pp. 98, 101; M. Quadrio, Il libro dei Mille del generale Giuseppe Garibaldi, Milano, tipografia di Giuseppe Golio 1879). 25 «Io scrivo per il popolo cioè per le classi inferiori della nazione» in G. Garibaldi, Scritti e discorsi politici e militari, a cura della R. Commissione, Edizione nazionale degli scritti di G. Garibaldi, Bologna, Cappelli 1937, vol. III (1868-1882), p. 331. 26 Prefazione ai miei romanzi storici, in Cantoni il volontario cit. 27 Abbiamo accennato sopra soprattutto ai problemi relativi alla voce narrante e al ritmo narrativo, ma a proposito della costruzione narrativa si potrebbero menzionare problemi anche maggiori, soprattutto in Clelia, dove l’ultima parte pare composta di capitoli semplicemente giustapposti. Altre incertezze si possono registrare sul piano stilistico e formale – dall’uso di formule stereotipe alle oscillazioni grafiche, alle incertezze sull’uso delle doppie e così via. IV. Il “carattere” del popolo, dei letterati, degli eroi, tra vecchia e nuova Italia
MARINA PALADINI MUSITELLI Memoria e rappresentazione dell’impresa garibaldina tra mitizzazione e dissacrazione
In questo intervento, che vuol essere un piccolo contributo ad un lavoro collettivo impostato nel dottorato di ricerca dell’indirizzo Italianistico della Scuola Dottorale in Scienze Umanistiche dell’Università di Trieste, mi limiterò ad abbozzare un sommario confronto tra la memorialistica dell’impresa dei Mille e la rappresentazione che di quella campagna dettero alcuni tra i maggiori scrittori meridionali tra fine Ottocento e primo Novecento. L’ipotesi che rende interessante questo confronto si basa sulla constatazione che quella spedizione, oltre ad essere un episodio risolutore del processo di unificazione della nostra penisola, costituì, grazie alla particolare ricostruzione che di quell’impresa alcuni dei suoi protagonisti offrirono alla riflessione degli italiani, una componente essenziale dell’elaborazione della memoria storica del processo risorgimentale e, di conseguenza, della formazione della coscienza nazionale degli italiani. Proprio perché si trattò di una narrazione maturata a posteriori, a più di vent’anni di distanza da quegli avvenimenti, in un diverso clima politico dunque, e con finalità che miravano a salvaguardare la coesione nazionale di fronte alle tante contraddizioni irrisolte, essa è parte significativa di quel processo di nazionalizzazione delle masse, di cui ha parlato e scritto così efficacemente Mario Alberto Banti;1 un processo che si impone con rinnovata urgenza negli anni che seguono la cosiddetta rivoluzione parlamentare, anni dominati dal fenomeno del trasformismo e dal riacutizzarsi del pericolo sovversivo, ma soprattutto dalla convinzione che l’unico modo grazie al quale la classe dirigente borghese avrebbe potuto garantire una certa stabilità era quello del mantenimento dell’ordine pubblico e dell’esclusione dal
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Cfr. M.A. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, Santità e Onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi 2000. Giuseppe Garibaldi
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Marina Paladini Musitelli
gioco politico di tutte le forze sociali alternative, a favore, invece, di un coinvolgimento nella gestione del potere delle classi dominanti del Mezzogiorno. Era la rinuncia anche per la borghesia meridionale ad ogni rivendicazione di carattere democratico. Una svolta sancita dalla riforma elettorale del 1882 che all’allargamento del suffragio contrappone la scomparsa di schieramenti politici riconoscibili sulla base di posizioni differenziate e l’assunzione di un deciso indirizzo conservatore.2 Se a queste osservazioni aggiungiamo che Garibaldi, con la sua difesa di Digione e con il suo appoggio alla Comune parigina, era divenuto una delle bandiere della rivoluzione internazionale, capiamo meglio l’urgenza per le classi dominanti di sottrarre le masse alle sirene della rivoluzione sociale. E forse anche quella di recuperare in chiave nazionale e liberale la figura di Garibaldi. Da questo punto di vista è molto istruttivo il confronto tra l’immagine dell’impresa siciliana consegnata da Ippolito Nievo alle pagine del diario o alle lettere ai familiari e quella che emerge dalla memorialistica garibaldina degli anni 80. Poetasoldato, emblema di un’intera generazione di giovani intellettuali di estrazione per lo più borghese, appartenenti alle regioni del Nord o del centro della nostra penisola, votati senza riserve alla difesa della libertà e al riscatto di una patria dai forti connotati ideali, Ippolito Nievo, pur nei limiti di un sintetico promemoria qual è il Giornale della spedizione o delle affettuose divagazioni delle lettere alla cugina, ci restituisce l’eccezionalità di quell’impresa, fondata sull’ardore di quei giovani volontari, privi per lo più di disciplina militare, ma forti della loro fiducia nel generale e della loro incoscienza. Ne esce il quadro di un’impresa combattuta senza risorse, con scarsità di uomini, di mezzi, e di denaro, con il solo appoggio di «bande campagnole […] composte per la maggior parte di briganti emeriti»,3 il cui successo appare spesso agli stessi volontari un miracolo. Nella rievocazione degli anni Ottanta quei fatti e quelle battaglie che portarono i Mille da Quarto al Volturno sono, invece, ormai parte di una sfolgorante epopea popolare, funzionale, tra l’altro, a vincere la paura di veder disgregata quell’Italia che grazie al contributo e ai sacrifici di molti era stato possibile realizzare. Trarrò i pochissimi esempi con cui cercherò di dimostrare come agisce la rielaborazione postuma della memoria di quell’impresa dalle due opere più note della memorialistica garibaldina, che sono, tra l’altro, anche i testi dotati di maggior pregio letterario: Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille di Giuseppe Cesare Abba (che videro la luce tra il 1880 e il 1882 in due edizioni successive con una ultima parte aggiunta nella terza edizione del 1891)4 e I Mille di Giuseppe Bandi pubblicato nel 1886.
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Cfr. E. Ragioneri, La storia politica e sociale in Storia d’Italia, vol. IV, Dall’Unità a oggi 3, Torino, Einaudi 1976, pp. 1741-1742. 3 I. Nievo, Lettere garibaldine a cura di A. Ciceri, Torino, Einaudi 1961, p. 27. 4 Cfr. C. Scarpati, Storia delle ‘Noterelle’ in G.C. Abba, Scritti gribaldini, Edizione Nazionale delle Opere di G. C. Abba, vol. I, Brescia, Morcelliana editrice 1983. IV. Il “carattere” del popolo, dei letterati, degli eroi, tra vecchia e nuova Italia
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A differenza del diario di Nievo, nelle Noterelle dell’Abba i garibaldini vi sono raffigurati come una eletta comunità di uomini dotati di straordinarie virtù non solo militari; come i leggendari cavalieri antichi il loro comportamento è sempre ispirato a generosa magnanimità anche e soprattutto verso i nemici. Da questo punto di vista particolarmente significativa è l’insistenza con cui il corpo dei volontari garibaldini viene rappresentato come coraggioso difensore della civiltà, nella sua funzione, cioè, di moderatore della rabbia vendicatrice del popolino, quando non addirittura di giustiziere dei loro delitti, come nel caso dell’episodio di Bronte. Nella rappresentazione dei fatti di Bronte sembra quasi che l’Abba non abbia voluto risparmiare al lettore alcuno dei particolari più choccanti della violenza esercitata dal popolo inferocito, mentre abbia voluto avvolgere di sacralità il doveroso esercizio della giustizia esercitato dagli ufficiali garibaldini, proprio per dimostrare quanto penoso e difficile questo compito potesse essere. Si spiega in questo modo sia l’incipit dell’episodio di Bronte: «Bixio in pochi giorni ha lasciato mezzo il suo cuore a brani, su per i villaggi dell’Etna scoppiati a tumulti scellerati. Fu visto qua e là, apparizione terribile», sia l’insistenza finale sulla dolcezza dei garibaldini e sul loro dolore: A Bronte, divisione di beni, incendi, vendette, orgie da oscurare il sole, e per giunta viva a Garibaldi. Bixio piglia con sé un battaglione, due; a cavallo, in carrozza, su carri, arrivi chi arriverà lassù, ma via. Camminando era un incontro continuo di gente scampata alle stragi. Supplicavano, tendevano le mani a lui, agli ufficiali, qualcuno gridando: Oh non andate, ammazzeranno anche voi! Ma Bixio avanti per due giorni, coprendo la via de’ suoi che non ne potevano più, arriva con pochi: bastano alla vista di cose da cavarsi gli occhi per l’orrore! Case incendiate coi padroni dentro; gente sgozzata per le vie; nei seminari i giovanetti trucidati a piè del vecchio Rettore; uno dell’orda è là che lacera coi denti il seno di una fanciulla uccisa. «Caricateli alla baionetta!» Quei feroci sono presi, legati, tanti che bisogna faticare per ridursi a sceglier i più tristi, un centinaio. Poi un proclama di Bixio è lanciato come lingua di fuoco: «Bronte colpevole di lesa umanità è dichiarato in istato d’assedio: consegna delle armi o morte: disciolti Municipio, Guardia Nazionale, tutto: imposta una tassa di guerra per ogni ora sin che l’ordine sia ristabilito». E i rei sono giudicati da un Consiglio di guerra. Se(sic) vanno a morte, fucilati nel dorso con l’avvocato Lombardi, un vecchio di sessant’anni, capo della tregenda infame. Fra gli esecutori della sentenza v’erano dei giovani dolci e gentili, medici, artisti in camicia rossa. Che dolore! Bixio assisteva cogli occhi pieni di lagrime.5
Il significato di questa ricostruzione, e l’importanza attribuita alla repressione delle rivolte scoppiate nei villaggi dell’interno della Sicilia potrebbero sfuggirci se
5
G.C. Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille in Scritti garibaldini cit., pp. 422-
423. Giuseppe Garibaldi
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non ricordassimo, come già aveva fatto Piero de Tommaso negli anni Settanta,6 che la gran parte dei memorialisti, anche coloro che si mantennero fedeli alla fede repubblicana e al convincimento democratico come Giulio Adamoli o Eugenio Checchi, cercarono di imbrigliare la tensione rivoluzionaria di quell’esperienza che essi sentivano difficile da integrare nel processo di unificazione nazionale. Significativa è anche la diversità di prospettiva con cui viene rappresentato a distanza di tempo il discusso passaggio di consegne, a Napoli, tra Garibaldi e il re Vittorio Emanuele. Se nel diario e nelle lettere di Nievo si palesa la frustrazione per l’infelice conclusione della spedizione: – «Una sì bella epopea eroica – scrive a Bice – finire così con un Decreto di S. M.’! Ne serberò eterno rancore al Conte di Cavour» –,7 frustrazione solo in parte mitigata dalla compassione per il re,8 la consegna da parte di Garibaldi a Vittorio Emanuele del regno delle due Sicilie strappato al re di Napoli appare, nella rievocazione che Abba ne fa nella terza edizione delle Noterelle, un atto di non comune generosità e dedizione agli interessi superiori della patria: Sono quasi seicento anni, Carlo d’Angiò veniva in qua da Roma segnato e benedetto dal Papa, e si pigliava la corona di Manfredi, tra i morti di Benevento. Il papa gliela aveva data, purché se la fosse venuta a prendere. Ma oggi un popolano, […] generoso come non sarà mai nessuno, semplice come Curio Dentato, delicato come Sartorio, anche fatastico come lui e sprezzatore come Scipione, in nome del popolo strappa la corona al re di Napoli e dice a Vittorio Emanuele: È tua! –9
Disinteresse personale, difesa del valore della vita, sottomissione alle finalità prioritarie della patria: questi i valori che questo testo vuole glorificare e riproporre anche a chi in quegli anni, scoraggiato, forse non riusciva a vederne o capirne l’utilità. La ricostruzione dell’Impresa dei Mille da parte di Giuseppe Bandi – definita la più fedele riproduzione dell’animo con cui la grande maggioranza dei Mille seguì Garibaldi – conferma le tendenze individuate. Bandi, mazziniano e repubblicano, dopo essersi congedato dall’esercito regolare in cui era entrato dopo la conclusione della spedizione dei Mille, aveva fondato e diretto due giornali avvicinandosi pro-
6 P. de Tommaso, Quel che videro. Saggio sulla memorialistica garibaldina, Ravenna, Longo editore 1967. 7 I. Nievo, Lettere garibaldine cit., p. 105. 8 «Il Re è qui da ieri acclamato, portato in spalla, venerato, adorato, ecc.,ecc. È il solo galantuomo in una turba di bricconi e di coccodrilli. Povero diavolo! Mi fa compassione, quanto e più di noi. Se giungerà a far l’Italia non sarà certo merito di coloro che gli stanno attorno», Ivi, p. 114. 9 G.C. Abba, Da Quarto al Volturno… cit., pp. 452-453.
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gressivamente a posizioni conservatrici tanto da essere oggetto di un attentato mortale da parte di un anarchico. Pubblicando nel 1886 a puntate le sue memorie dapprima sul «Messaggero» di Roma, poi sul «Telegrafo» di Livorno egli mise al centro della sua ricostruzione, ricca di vivace concretezza, le questioni irrisolte del rapporto tra repubblicani e monarchici e della mancata partecipazione alla vita del paese delle classi popolari. Bandi nel ricostruire preparazione e sviluppi dell’impresa siciliana non tace i contrasti e le diffidenze reciproche che oppongono Garibaldi a Cavour e non nasconde le accuse di tradimento che molti volontari rivolgono al Generale per aver ceduto al Re. Ma su questo sfondo giganteggia il ritratto di un uomo sereno, forte. dotato di quella «pacatezza di modi» e di quella «osservanza scrupolosa della giustizia», che sono più «proprie del filosofo che del soldato»,10 capace, di conseguenza, di sacrificarsi per il bene superiore della patria. Vidi Garibaldi pochi momenti innanzi che partisse; – scrive Bandi rievocando la conclusione dell’Impresa – era calmo e sorridente, secondo il solito, ma qualche suo detto rivelò ciò che ognun di noi sentiva in cuor suo: lasciava Napoli, contento di sé stesso e di noi, ma tutt’altro che soddisfatto del modo con cui l’avean trattato coloro che erano onnipotenti presso il re, e che potevano chiamarsi i nuovi padroni. / In quell’ora memoranda, egli m’apparve più grande che mai: Garibaldi, tornato povero e privo d’ogni autorità, simile ai grandi del tempo antico, umili dopo i trionfi e contenti della propria gloria, era più nobile e più ammirando del dittatore e del capo d’un esercito.11
Nell’opera del Bandi bontà e gentilezza d’animo ispirano, d’altronde, il comportamento del generale anche quando il compito delle camicie rosse è quello di far rispettare la giustizia e impedire ruberie e atti di vandalismo. Dopo aver ordinato di arrestare e fucilare come cani i contadini che entrati a Milazzo si erano dati alle razzie, con un contrordine,12 Garibaldi si accontenta, infatti, di consegnarli alla guardia del campo, né il deferimento al Consiglio di guerra di un capitano che per ben due volte manca di eseguire un suo ordine riesce a tradursi in una effettiva condanna. Non è un caso che a questa pacifica disposizione d’animo si sottragga solo Bixio, tanto idolatrato dall’Abba quanto criticato dal Bandi per la bizzarria del suo carattere. Coerente con questa rilettura dei fatti appare il tentativo di Giuseppe Bandi di attribuire a Garibaldi la volontà e la capacità di mediare tra le due anime del Risorgimento: la liberale e monarchica e quella repubblicana e democratica.
10
G. Bandi, I Mille. Introduzione e note storiche a cura di L. Russo, Messina-Firenze, D’Anna editrice 1960, p. 273. 11 Ivi, pp. 324-325. 12 «Non li fate fucilare, ve’ […]. Strapazzateli ben bene e consegnateli alla guardia del campo», ivi, p. 236. Giuseppe Garibaldi
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L’episodio dell’incontro a Napoli tra Mazzini e Garibaldi coronato da un lungo abbraccio, da «affettuose lacrime»,13 da lunghi ragionamenti e dall’assicurazione del Bandi stesso a Mazzini che Garibaldi non era «uomo da lasciarsi menar pel naso da nessuno» – affermazione che sanziona la grandezza di Garibaldi non solo come uomo d’azione, ma anche e soprattutto come uomo di Stato –, ne è una dimostrazione.14 La grandezza di Garibaldi come statista, la sua lungimiranza politica che a buon diritto ne fa agli occhi del Bandi uno dei padri della patria, in questo superiore a Mazzini, consiste proprio nel riconoscimento dei limiti delle proprie forze e nella conseguente accettazione dell’inevitabilità dell’opzione plebiscitaria. Ciò che il Bandi dice a Mazzini deluso per l’atteggiamento rinunciatario di Garibaldi ne è la conferma più esplicita: Capisco bene quel che ella vuol dire; secondo lei, Garibaldi dovrebbe tenere in mano ad ogni costo l’autorità dittatoriale per esser padrone di fare impeto su Roma e poi su Venezia, e quindi, magari Dio, giù giù fino al golfo del Quarnero che chiude Italia e bagna i suoi termini… Ma con tutto il rispetto e l’amore che le porto, le dico francamente che certe cose è assai più facile il dirle che il farle.15
Bandi non tace la delusione e la sofferenza di Garibaldi, ma ricorda che la sua prima preoccupazione fu quella di compiere «la liberazione e l’unificazione della patria senza pregiudizio alcuno di partito o di setta», persuaso, com’era, che non fosse possibile fare l’Italia senza disfare le sette. A fermare sul Volturno Garibaldi, non fu, infatti, per Bandi, l’obbedienza all’ingiunzione del re, ma la sua straordinaria saggezza politica e l’amore che ebbe, grandissimo, per la patria e che in lui prevalse su qualunque altro sentimento. In questa riflessione postuma si compie dunque quella trasfigurazione della figura di Garibaldi da picaro della rivoluzione a nume tutelare della patria alla cui definizione contribuirono, tra gli altri, Giosué Carducci con alcune poesie delle Odi barbare e lo stesso Edmondo De Amicis con quella pagina così significativa del diario di Cuore in cui il padre di Franti commentando la morte di Garibaldi spiega al figlio chi fosse Giuseppe Garibaldi e cosa avesse rappresentato e continuasse a rappresentare per l’Italia. Oggi è un lutto nazionale. Ieri sera è morto Garibaldi. Sai chi era? È quello che affrancò dieci milioni di Italiani dalla tirannia dei Borboni. […]. Era grande, semplice e buono. Odiava tutti gli oppressori, amava tutti i popoli, proteggeva tutti i deboli; non aveva altra aspirazione che il bene, rifiutava gli onori, disprezzava la morte, ado-
13
Ivi, p. 288. Ivi, pp. 289-290. 15 Ivi, p. 307. 14
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rava l’Italia. Quando gettava un grido di guerra, legioni di valorosi accorrevano a lui da ogni parte: signori lasciavano i palazzi, operai le officine, giovanetti le scuole per andar a combattere al sole della sua gloria. In guerra portava una camicia rossa. Era forte, biondo, bello. Sui campi di battaglia era un fulmine, negli affetti un fanciullo, nei dolori un santo.16
Se la memorialistica garibaldina ci offre l’epopea di quell’impresa a fini come abbiamo visto di rafforzamento dei valori unitari e come argine all’avanzata del socialismo, i grandi romanzieri siciliani della seconda metà dell’Ottocento e del primo Novecento ne attuano invece una rilettura demistificante e in alcuni casi paradossalmente rovesciata. Inizierò da Verga. Di spiriti liberali, di estrazione sociale borghese –anche se appartenente al ceto dei piccoli proprietari terrieri-, di convinzioni profondamente unitarie, Verga fece parte della Guardia Nazionale e dovette quindi condividere gli ideali dell’impresa garibaldina, ma nello stesso tempo, da siciliano, avvertire le tante contraddizioni di quella guerra di liberazione. Permettetemi a questo proposito un piccolo inciso. Già Salvatore Francesco Romano nel suo Momenti del Risorgimento in Sicilia17 aveva fatto presente che per domare le rivolte contadine, quella di Bronte compresa, si era fatto ricorso alla Guardia Nazionale dei paesi vicini e nel caso di Bronte proprio a quella di Catania, fatto che aveva finito col trasformare quel corpo di volontari nato per favorire e difendere l’unificazione italiana in un corpo di difesa dei diritti dei proprietari terrieri, eterni avversari delle rivendicazioni contadine. Una decisione politica e un episodio – la feroce repressione della rivolta di Bronte, villaggio alle falde dell’Etna – che non dovettero essere estranei alla decisione di Verga di lasciare la Guardia Nazionale. La novella La libertà è, da questo punto di vista, un osservatorio significativo, anche se negli anni ha diviso intellettuali e studiosi sulla sua interpretazione. Anche Carla Riccardi nella prefazione ai due volumi di novelle degli Oscar Mondadori sottolinea la coincidenza di date tra la composizione della novella Libertà (febbraio 1882) e la data di pubblicazione dell’edizione delle Noterelle dell’Abba presente nella biblioteca verghiana (IV° edizione uscita a Bologna nel 1882), ipotizzando che la suggestione a trattare quell’argomento scabroso Verga l’avesse potuta ricavare dalla lettura del testo dell’Abba, dalla ricostruzione, cioè, discussa e discutibile, fatta dall’Abba della rivolta e della repressione di Bronte.18
16
E. De Amicis, Cuore in Id., Opere scelte, a cura di F. Portinari e G. Baldissone, Milano, Arnoldo Mondadori editore 1996, pp. 344-345. 17 S.F. Romano, Momenti del Risorgimento in Sicilia, Messina-Firenze, D’Anna 1952. 18 Cfr. C. Riccardi, Introduzione a G. Verga, Tutte le novelle, vol. I, Milano, Arnoldo Mondadori editore, Oscar Classici 12 1994, pp. XXIV-XXV. Giuseppe Garibaldi
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Se la prospettiva ideologica, l’appartenenza di classe, la posizione politica accomunano i due autori, diversa è però la rappresentazione di quei tragici fatti. Verga attraverso la sua ricostruzione coglie infatti la contraddizione di quella liberazione e ne fa il motore della novella. Tanto i garibaldini che i contadini siciliani inneggiano alla libertà, ma per i primi questa parola significa liberazione dalla dominazione straniera e realizzazione di una nazione italiana, per gli altri significa divisione e distribuzione delle terre e lotta degli oppressi contro gli oppressori, che, ai loro occhi, sono i proprietari terrieri e i loro rappresentanti. L’elenco delle colpe degli oppressori poste in bocca ai contadini in rivolta non potrebbe essere più esplicito. – A te prima, barone, che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! – […] – A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! – A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! – A te sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!19
La ferocia dei villani, però, aizzata dall’odore del sangue che ubriaca, prende di mira senza alcuna distinzione colpevoli e innocenti. La rivolta assume aspetti bestiali che il narratore cerca ancora di giustificare quando la vittima è il reverendo che mentre «predicava l’inferno per chi rubava il pane» teneva in casa l’amante «che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l’inverno della fame, e riempiva la Ruota e le strade di monelli affamati»20 o quando ad alimentare la rabbia bestiale c’è una fame atavica, senza possibilità di riscatto. In un crescendo infernale di violenza bruta l’ira dei rivoltosi finisce col riversarsi senza alcuna pietà anche su vittime inermi e innocenti. E poco importa che si tratti della baronessa che aveva fatto barricare il portone e ordinato ai campieri di sparare per vendere cara la pelle; di fronte alla sacralità della maternità e dell’infanzia nessuna violenza poteva essere giustificabile agli occhi del lettore borghese, tanto meno quella descritta soffermandosi su particolari tanto orrorosi. Violenze, per di più, gratuite se, – come aggiunge il narratore – ora che era venuto il momento «di spartirsi quei boschi e quei campi», altri «avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli!».21 Se questa morale si può ascrivere al pessimismo materialistico di ascendenza darwiniana, non va, però, sottovalutato il ruolo che sull’effetto che la novella produce ha il giudizio, volutamente ambiguo, che il narratore dà dell’atteggiamento e delle decisioni di Bixio. Osservati dall’alto quei giovani in camicia rossa, appaiono al narratore stanchi, curvi sotto il peso del fucile arrugginito, mentre il generale che li precede sproporzionatamente piccino sopra il suo gran cavallo nero. Una pro-
19
G. Verga, Libertà in Id., Tutte le novelle cit., p. 319. Ivi, pp. 319-320. 21 Ivi, pp. 322-323. 20
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spettiva questa, scorciata, grazie alla quale Verga esprime da un lato il senso di lontananza ed estraneità delle popolazioni locali rispetto alle truppe garibaldine, dall’altro lo scoramento dei volontari che si preparano a svolgere un compito così lontano ed estraneo ai loro ideali. Ma di Bixio, intemperante e rissoso, se pur paterno con i suoi soldati, il narratore popolare sottolinea sopratutto la frettolosità e. potremmo dire, il cinismo degli ordini. «E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono»,22 dove in alcun modo, neppure agli occhi di un lettore inorridito dalla ferocia di quella strage, quella sommaria frettolosa e casuale giustizia poteva suonare come un atto di vera giustizia, tanto più che negli stessi mesi dell’82 Bixio stesso, in una seduta parlamentare espressamente dedicata a chiarire le sue responsabilità, si era preoccupato di respingere ogni possibile accusa precisando che nessuno era stato messo a morte senza processo. Il particolare del nano sostituito al pazzo del villaggio fu chiamato in causa da Sciascia proprio per dimostrare la mistificazione che Verga avrebbe volutamente operato sulla verità storica, al fine cioè di velare la crudezza e l’arbitrarietà della decisione di Bixio.23 Questa sostituzione a me è invece sempre sembrata un modo per sottolineare maggiormente la superficialità e la contradditorietà di quell’atto di apparente giustizia, se la forza e la prestanza fisica dovevano darsi per scontati in atti di tale violenza. Ma è tutta la cosiddetta giustizia borghese, i suoi riti, le sue leggi ad esser messa in discussione dalla prospettiva del narratore popolare. Confrontata con la giustizia sostanziale che i contadini si attendevano dalla rivoluzione nazionale e che per loro non poteva che tradursi nella distribuzione delle terre, essa si rivela, infatti, un ennesimo sopruso ai loro danni. Il quadro delle riletture dell’impresa garibaldina non può non chiamare in causa Luigi Pirandello: innanzitutto il suo romanzo I vecchi e i giovani, in cui attraverso le vicende di Caterina Laurentano, del marito Stefano Auriti, del figlio Roberto e di Mauro Mortara, fedele servitore del principe Gerlando Laurentano, padre di Caterina e patriota della prima ora, l’autore fa rivivere tutte le tappe della spedizione siciliana. Egli lo fa, però, attraverso il filtro degli affetti familiari, grazie ad una prospettiva cioè che ne illumina i sacrifici silenziosi e sconosciuti. Si susseguono così la partenza da Quarto di Stefano Auriti con il figlio dodicenne, la sua morte nella battaglia campale di Milazzo tra le braccia del Mortara, la fedeltà del giovane Roberto al generale che seguirà nella conquista di Roma e ad Aspromonte, dove sarà catturato e imprigionato: vicende ed episodi che, messi a confronto con il deterioramento cui erano andate incontro anno dopo anno le illusioni risorgimentali, finiscono, e non a caso, col far apparire velleitari anche quegli atti di eroismo.
22
Ivi, p. 323. L. Sciascia, Verga e la libertà, in Id., La corda pazza. Torino, Einaudi 1970. In quel testo lo scrittore notava inoltre come Verga avesse omesso di citare tra i rivoltosi l’avvocato Lombardo. 23
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È la lezione, d’altronde, che si può ricavare dall’episodio finale del romanzo quando Mauro Mortara indossata la camicia rossa con le sue medaglie e incontrati i soldati inviati a reprimere la rivolta dei Fasci siciliani sente di dover contribuire a ristabilire l’ordine messo in pericolo da quelle insurrezioni. A chi lo mette in guardia dal rischio di essere catturato dagli stessi militari italiani risponde: «Io, dai soldati d’Italia?» E corse per unirsi a loro. / Una gioja impetuosa, frenetica, gli ristorò le forze che già cominciavano a mancargli: ridiede l’antico vigore alle sue vecchie gambe garibaldine; l’esaltazione diventò delirio; sentì veramente in quel punto d’esser la Sicilia, la vecchia Sicilia che s’univa ai soldati d’Italia per la difesa comune, contro i nuovi nemici.24
Al lettore rimane impressa l’immagine, tragica, di un illuso, incapace di capire la realtà di oggi e forse anche quella di ieri, a cui il piombo dei fucili italiani non dà neppure il tempo di intuire questa amara verità. Questa lettura demistificante ha il suo esito paradossale in un altro testo pirandelliano, ancor più tardo:.una novella della raccolta La mosca significativamente intitolata Le medaglie. È la storia di Sciaramé un povero vecchio, vedovo, con una figliastra a carico, che trova un po’ di sollievo dalle pene di cui è costellata la sua vita nelle ricorrenze delle feste nazionali, «allorché con la camicia rossa scolorita, il fazzoletto al collo, il cappello a cono sprofondato fin su la nuca, recava in trionfo le sue medaglie garibaldine del Sessanta. / Sette medaglie!»25 Di quelle vicende, «di Calatafimi e dell’entrata di Garibaldi a Palermo e di Milazzo e del Volturno», quando lo forzano a parlare egli parla con accorata tristezza, ricordando «gli episodii pietosi, i morti, i feriti senza alcun’esitazione e senza mai vantarsi».26 Al pianterreno di casa sua Sciaramé ospita il Circolo dei reduci garibaldini dove si riuniscono i vecchi volontari dell’Impresa dei Mille e dove capita sempre più spesso, per amoreggiare con la figliastra, un giovane che ha combattuto con Menotti Garibaldi in Grecia e che gli anziani vorrebbero allontanare. Il giovane cui viene negata l’adesione al circolo, e di conseguenza rifiutato il titolo di autentico garibaldino, si vendica svelando che del sodalizio che l’ha respinto fa parte qualcuno che in realtà non solo non è mai stato garibaldino, non solo non ha mai preso parte ad alcun fatto d’arme, ma ora indossa la camicia rossa e si fregia di ben sette medaglie che non gli appartengono perché guadagnate dal fratello morto eroicamente a Digione. Non è, però, per millanteria o per volontà di imbrogliare che Sciaramé esibisce
24
L. Pirandello, I vecchi e i giovani in Id., Tutti i romanzi, Milano, Arnoldo Mondadori editore 1966, p. 89. 25 Id., Le medaglie in Id., Novelle per un anno, vol. I, Milano, Arnoldo Mondadori editore 6 1966, p. 755. 26 Ivi, p. 759. 4
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quelle medaglie. Le sue ragioni, esposte in un sofferto monologo interiore, sono lì a convincere il lettore del suo diritto a fregiarsene. Lo aveva seguito davvero quel suo fratellino minore, a cui aveva fatto da padre; lo aveva raggiunto davvero, con l’asinello, prima di Calatafimi, e scongiurato a mani giunte di tornarsene indietro, a casa, in groppa all’asinello, per carità, se non voleva farlo morire dal terrore di saperlo esposto alla morte, ancora così ragazzo! Via! Via! Ma il fratellino non aveva voluto saperne, e allora anche lui, a poco a poco, fra gli altri volontarii, s’era acceso d’entusiasmo ed era andato. Poi però alle prime schioppettate….No, no, […], quantunque la paura fosse stata più forte di lui, non sarebbe mai scappato, sapendo che il suo fratellino, là, era intanto nella mischia e che forse in quel punto, ecco, gliel’uccidevano. Avrebbe voluto anzi correre, buttarsi nella mischia anche lui, e anche lui farsi uccidere, se avesse trovato morto Stefanuccio. Ma le gambe, le gambe! Che può fare un povero uomo quando non sia più padrone delle proprie gambe? Per due, davvero, aveva patito, patito in modo da non potersi dire, durante la battaglia e dopo. Ah, dopo, fors’anche più! quando, sul campo di battaglia, aveva cercato tra i morti e i feriti il fratellino suo. Ma che gioja, poi nel rivederlo, sano e salvo! E così lo aveva seguito anche a Palermo, fino a Gibilrossa, dove lo aveva aspettato, più morto che vivo, parecchi giorni: un’eternità! A Palermo, Stefanuccio, per il coraggio dimostrato, era stato ascritto alla legione dei Carabinieri genovesi, che doveva poi essere decimata nella battaglia campale di Milazzo. Era stato un vero miracolo, se in quella giornata non era morto anche lui, Sciaramé. Acquattato in una vigna, sentiva di tratto in tratto, qua e là, certi tonfi strani tra i pampini; ma non gli passava neanche per la mente che potessero esser palle, quando, proprio lì, sul tralcio dietro al quale stava nascosto…Ah, quel sibilo terribile, prima del tonfo! Carponi, con le reni aperte dai brividi, aveva tentato di allontanarsi; ma invano; ed era rimasto lì, tra il grandinare delle palle, atterrito, basito, vedendo la morte con gli occhi, a ogni tonfo. / Li conosceva dunque davvero tutti gli orrori della guerra; tutto ciò che narrava, lo aveva veduto, sentito, provato; c’era stato insomma davvero, alla guerra, quantunque non ci avesse preso parte attiva.27
Paradossalmente con questa immagine diseroicizzante dell’impresa dei Mille, Pirandello sembra suggerirci che del titolo di garibaldino e delle medaglie al valore può fregiarsi a maggior diritto chi pur, senza atti d’eroismo militare, ha vissuto sulla propria pelle e con la propria sofferenza le conseguenze di quelle guerre, come è accaduto ai siciliani: chi, forse, proprio per questo, è riuscito a preservare quelle memorie dalla mitizzazione destinata inevitabilmente a falsificarle.
27
Ivi, pp. 771-772.
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ANDREA LANZOLA ‘I Mille’ di Giuseppe Bandi: un autentico romanzo storico
Esattamente come Ippolito Nievo e Giuseppe Cesare Abba, il livornese Giuseppe Bandi (1834-1894) godeva di particolare attenzione da parte del pubblico di lettori a lui coevi, essendo stato testimone oculare dei preparativi per la campagna di Sicilia e della spedizione dall’aprile 1860 fino alla presa di Gaeta da parte dell’esercito regolare di Vittorio Emanuele II (novembre dello stesso anno), che siglava anche il definitivo congedo del Dittatore dall’attività militare e diplomatica svolta per e in nome del monarca. Lui stesso molti anni dopo avrebbe pubblicato a puntate gli storici eventi sulla Gazzetta livornese e su Il Telegrafo, i due giornali toscani di cui era divenuto proprietario nonchè direttore dopo l’abbandono dell’attività militare e di cui stava ormai progettando una stesura unitaria in volume, non solo come testimonianza ma anche come possibile strumento guida per una intensa battaglia politica che lo aveva condotto, tra gli anni settanta e ottanta dell’ottocento, a guardare con diffidenza e timore i nuovi impeti socialisti e anarchici, e che gli sarebbe anche costata la vita (sarebbe infatti stato pugnalato proprio a Livorno dall’anarchico Oreste Lucchesi il primo di luglio del 1894). L’improvvisa morte gli rese impossibile realizzare il desiderio di vedere edito il solo suo testo che, per qualità, stile e contenuti, è definibile ancora oggi un capolavoro, e che, steso nel 1886, avrebbe visto la luce postumo soltanto nel 1903. Bandi, figlio di un funzionario del governo granducale toscano, laureato in legge, già arrestato e condannato al carcere a soli 24 anni a per aver protetto tre mazziniani ricercati, si era arruolato nel 1859 in occasione della seconda guerra di indipendenza, e l’anno seguente, mentre si trovava ad Alessandria in qualità di sottotenente del 34° Reggimento fanteria, aveva ricevuto l’invito da Garibaldi stesso a partecipare alla spedizione contro i Borboni in sud Italia. Ma è lo stesso autore a narrare, all’inzio del suo romanzo, questo importante episodio da cui scaturisce l’inizio del rapporto di conoscenza col generale, non prima tuttavia d’aver paternamente reso edotto il lettore in merito al suo proposito letterario e ai suoi fini:
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Andrea Lanzola
[…] t’ammonisco di non pretendere da me più che non possa darti un modesto gregario di quella schiera; il quale ascriverà a sua ventura se per la grande dimestichezza in cui lo tenne a que’ giorni (per la sua benevolenza) il duce dei Mille, potrà narrarti qualche coserella, che non si trova nelle moltissime storie che de’ suoi casi si scrissero e si scrivono oggi più che mai. […] Racconto a te come racconterei a’ miei figlioletti, nel cantuccio del focolare, in quelle serate d’inverno, nelle quali si novella patriarcalmente, more majorum. Né ti dorrai se il mio racconto ti parrà smilzo, perché faccio proposito di non raccontare se non quel che vidi ed udii; e tu capirai bene che io non potevo aver occhi ed orecchi per veder e udir tutto. Ma sii certo che io non aggiungerò una frangia alla nuda e santa verità, […] non ti metterò in capo d’aver da me un briciolo di più di quel che sta scritto fra gli scarabocchi del mio taccuino, che han già passati gli anni della coscrizione.1
Preambolo, questo, che si rivela importante per focalizzare subito l’impostazione complessiva del romanzo: Bandi è un narratore puntuale, razionale ed efficiente tanto quanto lo era come ex aiutante in campo di Garibaldi; chiarezza di stile, linguaggio colloquiale, narrazione avvincente di stampo giornalistico sono i mezzi che l’autore utilizza per registrare gli avvenimenti intercorsi fra l’aprile e il dicembre del 1860 in Sicilia così come egli stesso li vide e percepì senza tralasciare alcunché, almeno a detta sua. Colpiscono subito, fin dalle prime pagine, alcuni elementi che accompagnano il lettore dall’inizio alla fine dell’opera: l’onnisciente presenza dell’autore che descrive con abbondanza di dettagli e minuzia psicologica ogni fatto, desiderando restituire al lettore – a differenza del più mistico, trasognato ed umile Abba delle Noterelle2 – un vero e proprio film con personaggi, luoghi, ed eventi reali perché tali sono stati; a ciò si aggiunge uno stile sagace, divertente, in cui non si perde occasione per inserire il motto di spirito o di gusto dialettale, il gergo popolare, e in cui si tenta di
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G. Bandi, I Mille, Messina-Firenze, D’Anna 1960, p. 19. Si veda anche la più recente riedizione (G. Bandi, I Mille: quei ragazzi che andarono con Garibaldi, Viterbo, Nuovi equilibri / Stampa alternativa 2009. Scarna e approssimativa si rivela ancora oggi la bibliografia sul garibaldino toscano e per lo più ferma al primo trentennio del secolo scorso. Si vedano in particolare A. Cristofanini, Giuseppe Bandi. Vita aneddotica, Firenze, Bemporad 1934 e B. Croce, Letteratura garibaldina, in «La Critica», XXXVI (1938), pp. 340-343. 2 In merito alle Noterelle di Abba, al loro rapporto con i romanzi e la letteratura coeva si veda anche il recente contributo di Q. Marini, Il romanzo dei Mille: ‘Da Quarto al Volturno’ di Giuseppe Cesare Abba, esposto al Convegno Internazionale di Studi «Il romanzo del Risorgimento» (Bruxelles, 4-6 maggio 2010) di cui gli Atti sono tuttora in fase di pubblicazione. Marini, mettendo a confronto la scrittura di Abba con quella di Bandi, definisce quest’ultima «di taglio giornalistico, tesa tra pamphletismo e protagonismo. Le sue pagine sono ancora utili allo storico, ma restano pagine di cronaca, ancorché aperte a qualche squarcio romantico, come quello di Garibaldi ritto sullo scoglio di Quarto» (p. 150). IV. Il “carattere” del popolo, dei letterati, degli eroi, tra vecchia e nuova Italia
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ricostruire con volontà quasi filologica le diverse parlate dei personaggi, soprattutto di quella del generale. Infine, la fiducia incondizionata dell’autore nella figura quasi sacra ma al tempo stesso umanissima di Garibaldi e la costante presenza del melodramma. Bandi, grande appassionato di opera, non perde infatti occasione per fornire paragoni e spiegazioni servendosi del linguaggio, dei personaggi e delle vicende appartenenti al mondo dell’opera lirica, dai capolavori più conosciuti a quelli minori ma all’epoca celeberrimi, restituendo così ai lettori l’immagine di un mondo e di una cultura fortemente permeata di questo elemento, di una frequentazione assidua del teatro da parte di tutti i ceti sociali; Bandi canticchia, i soldati ripetono cori o arrangiamenti di arie, lo stesso Garibaldi intona qualche brano operistico per incitare i propri soldati a continuare la loro missione senza paura, ben consapevoli che ogni giorno potrebbe anche essere l’ultimo. Il romanzo si articola in tre grandi parti o sezioni: Da Genova a Marsala, Da Marsala a Palermo, Da Palermo a Capua. A seguito del proemio introduttivo, l’autore inizia a narrare subito di come avvenne la sua conoscenza con Garibaldi nel ’59, dove il generale ha occasione di notare le qualità del giovane ufficiale d’ordinanza e la sua buona volontà nell’appoggiare la rivolta in nome dell’unità italiana. La fedeltà di Bandi al suo generale e l’autentico legame affettivo verso di lui si comprendono benissimo quando egli narra del momento in cui Gusmaroli, vecchio amico di Garibaldi, alla fine di aprile del 1860 gli comunica in segreto ad Alessandria che il generale lo richiede con urgenza: Udendo queste parole saltai su come una molla; volli dimandare, volli sapere, ma il vecchio Gusmaroli fu muto come una tomba, e senza permettermi di andare a casa, mi trasse difilato alla stazione, e mi fe’ salire in una carrozza di seconda classe.3
Dopo esser giunto a Genova e aver incontrato Bixio e Garibaldi, Bandi è travolto dall’emozione più intensa: Non chiusi un occhio per tutta la santa notte. Udendo il respiro del generale che dormiva, rammentai la bella scena dell’Ettore Fieramosca, dove il caporale Boscherino, trovandosi al buio con Cesare Borgia, tremava nel sentirlo respirare, come se si fosse trovato a tu per tu con un leone. Garibaldi non era Cesare Borgia, né io il Boscherino; pure, nel trovarmi così presso a quel meraviglioso uomo, di cui tutto il mondo parlava, un sentimento ineffabile di stupore mi prese, che mi mandava in visibilio.4
Risulta evidente fin da subito la volontà dell’autore di presentare i propri ricordi con una prosa che si ispiri alle narrazioni dei più noti romanzi storici del tempo –
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Ivi, p. 20. Ivi, pp. 22-23.
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spesso citati così come le opere storiografiche di celebri studiosi – soprattutto per dipingere i protagonisti in una sorta d’immagine trasfigurata dalla realtà al culto mitico. I primi capitoli sono abbondanti ma scorrono veloci: Garibaldi, fisso a Villa Spinola presso Quarto, appronta i preparativi per la spedizione che si mostra inizialmente assai poco realizzabile. Bandi narra scrupolosamente tutti i suoi incontri con molti di coloro che sarebbero stati suoi compagni pochi giorni dopo. Ecco come ne presenta alcuni, con efficacissimi tratti d’abile narratore d’avventura e di scaltro giornalista, per bocca del generale Ascoli: Vedi – diceva – vedi quel bell’uomo dalla faccia allegra, che sta sbracciando, e predicando? Quello è il La Masa. Nel 1849 venne a Roma con centi prodi, e aveva in capo un elmo d’argento col pennacchio bianco. Lo chiamavano il generale Enea, e parrebbe tale davvero, se lo mettessimo in mezzo alle fiamme, con Anchise sulle spalle e i Penati in braccio. Quell’altro che pare un profeta, e che conta con gli occhi imbambolati i punti delle mosche nel soffitto, è il colonnello Sirtori, che fece cose di fuoco in Venezia. Era prete, e in Parigi dette in ciampanelle […]. Guarda quello là, col naso rosso e coi capelli arruffati: è Montanari. Costui ha girato tutte le carceri della cristianità; lo imprigionarono persino nel Belgio; è un bravo ingegnere, dicono, ma è più cospiratore che altro.5
Compaiono poi di seguito Agostino Bertani, Adelaide Cairoli con i figli, Menotti Garibaldi, mentre il progetto della partenza sembra inizialmente sfumare. Poi, a spezzare volutamente la cronaca, ecco giungere un ricordo, una memoria: l’emblematico il saluto del volontario Schiaffino che, parendo sfumata del tutto l’ipotesi di partire, si congeda deluso dal generale: Schiaffino gli si avvicinò, dicendo con voce tremante: «Dunque…addio, generale». «Addio. E…dove andate, Schiaffino?». «Da mia madre, che m’aspetta…». «Non restate a cena con noi?». «No, non potrei mangiare…Addio, generale». E gli occhi gli si empirono di lacrime. «Che cuore!» – esclamò Garibaldi – «Vedete che cos’è l’amor di patria! Costui avrebbe preferito il farsi ammazzare alla gioia di vedere la povera sua madre, che lo aspetterà piangendo. Bravo giovane! M’ha l’aria d’un eroe». E Schiaffino un eroe fu davvero, e lo vedemmo a Calatafimi contendere pertinacemente a quattro cacciatori borbonici i brani della gran bandiera donata a Garibaldi dalla città di Valparaiso finché rotto da più colpi mortali non spirò l’anima generosa tra le pieghe del disputato vessillo.6
Il breve ritorno ad Alessandria serve a Bandi, ugualmente deluso, per sapere che la spedizione in realtà è tornata a galla. Corre così nuovamente in stazione e prende il primo treno per Genova giungendovi nel tardo pomeriggio. L’arrivo a
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Ivi, pp. 24-25. Ivi, p. 30. IV. Il “carattere” del popolo, dei letterati, degli eroi, tra vecchia e nuova Italia
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Villa Spinola lo consola: Garibaldi è a tavola e sta cenando, gli offre di persona un bicchiere di vino per brindare alla buona sorte dell’impresa ancora in nuce (è infatti la sera del 30 aprile 1860). Il ritratto di Garibaldi, pochi minuti prima della partenza da Quarto la sera del 5 maggio, è certo una delle descrizioni più accurate e preziose offerteci dall’autore, dove arte narrativa avvincente e realtà storica si intrecciano con efficacia, trasformando per la prima volta l’uomo di carne ed ossa in eroe d’avventura: Alle otto e mezzo in punto, si spalancò finalmente la porta della stanza di studio, che era rimasta chiusa, per buon tratto, e comparve nella sala Garibaldi. Aveva indosso la solita camicia rossa, e il puncho sulle spalle. Salutati piacevolmente quanti erano nella sala, scese giù e si fece innanzi pel lungo viale, su cui stavano schierate alcune centinaia di volontari. Al lume del crepuscolo, che fu limpidissimo in quella sera, si vide il bello e maschio volto dell’eroe, animato da un insolito brio; si sarebbe detto che Garibaldi avea già un piede in Palermo ed un altro a Napoli. […] Io veggo ancora quella nobile figura ritta, in atteggiamento scultorio, là sulla punta dello scoglio, sotto il quale lo aspettavano i remiganti coi remi in aria. La brezza della sera agitava le pieghe del suo puncho; e col cappello in mano stava guardando attonito la gente che gli facea corona, e che era muta al par di lui. Garibaldi e quanti gli stavano attorno, sentirono in quel momento quanto fosse grande la poesia del silenzio.7
Bandi sigla a questo punto una sorta di fine prologo del romanzo, e si avvia a cominciarlo sul serio utilizzando la metafora, a lui particolarmente cara, dell’opera lirica («Era terminata la sinfonia, e s’entrava davvero sul palcoscenico per dar principio al primo atto»).8 La narrazione del viaggio viene utilizzata anche come espediente per presentare altri partecipanti alla spedizione che, assieme al generale, si trasformano in veri eroi da romanzo, offrendo al lettore un quadro da ammirare: Ventisei anni sono scorsi, ma ho tuttora vivo dinanzi agli occhi lo spettacolo della bella e buona compagnia, nella quale il mio destino mi aveva spinto. Cominciando dalla gran palandra nera e dal cappello a cilindro del Sirtori, e andando giù giù sino alle fogge di vestire ad uso Ernani, tutti i modelli del figurino, vecchio e nuovo, v’erano rappresentati. Crispi con uno sprònchete stretto stretto, che mostrava le corde; Carini col berretto da viaggio all’inglese, e un soprabituccio spelacchiato e corto corto; Calona, vecchio siciliano dai capelli bianchi, con uno sgargiante abito rosso e un gran cappello nero alla Rubens, con una lunga, ondeggiante penna di struzzo. Poi, il canonico Bianchi, mezzo vestito da canonico, e parecchi giovani della Lombardia, vestiti all’ultima moda; e uniformi di linea e dei cacciatori delle Alpi, e costumi da marinaio e una gran folla di camicie rosse, che formavano, con la loro massa vivace, il fondo del quadro. […] La moglie del Crispi (di poi non più moglie), vestita in dimessi panni,
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Ivi, p. 50. Ivi, p. 75.
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giuocava a scopa coll’antico parroco Gusmaroli, vecchio dai capelli lunghi e bianchissimi, dal volto rubizzo e dagli occhi di gatto, del quale Garibaldi soleva dire aver veduto rare volte in sua vita uomo più valoroso.9
Il viaggio procede: Garibaldi compone versi per un coro da insegnare ai volontari e chiede a Bandi di unirli ad un motivo musicale semplice e orecchiabile (verrà scelto un coro della Norma belliniana), con l’intenzione di creare una sorta di seconda Marsigliese per la liberazione della Sicilia. La musica si rivela così per la seconda volta latrice di importanti significati e momenti storici. Lo sbarco a Marsala offre l’occasione all’autore per mettere in luce un altro elemento centrale della sua riflessione, ossia l’importanza della sorte che avrebbe assistito Garibaldi e i Mille per tutta la durata della campagna siciliana, soprattutto nei momenti più difficili e incerti. Tale elemento si rivela ancor più significativo dal momento che una delle prime sensazioni dei volontari nel lasciare la città il giorno seguente per addentrarsi nell’interno verso Salemi sarà il comprendere d’essersi sbagliati tanto in merito alla percezione del tipo di guerra e di lotta da dover portare avanti quanto circa i progetti stessi del generale: Credettero molti, e lo credetti anch’io sino alla mattina del dì 12 di maggio, che il nostro condottiero […] avesse in animo di intraprendere su per le montagne quella guerra guerriata o piccola guerra come si chiama oggi, che stanca, alla lunga, gli eserciti regolari ed è opportunissima a sollevare i popoli […]. Nessuno avrebbe sognato mai che ei si mettesse diritto sulla via di Palermo, con quella audacia con cui vi si mise, e che parve tanto più inaspettata, in quanto le cose di Sicilia volgevano contrarissime alla sua aspettazione!10
La seconda parte del romanzo entra nel vivo della campagna siciliana che sarà narrata sempre, a detta dell’autore, «con linguaggio semplice e piano e senza concedermi d’elevare lo stile oltre la misura che mi sarebbe possibile mantenerlo alto».11 La figura del generale si conferma come stella polare per i volontari che diventano sue braccia, gambe e testa. Accanto alle ricche descrizioni dei paesaggi, Bandi offre ai lettori il ricordo dei siciliani che si fanno incontro ai volontari per accoglierli e registra alcune delle loro frasi, spesso in sgrammaticato dialetto, fra cui spiccano il grido dei cittadini di Salemi – «Viva Cicilia! Viva la Taglia!»12 – che scuote e sveglia gli animi dei volontari garibaldini come anche lo storpiato slogan «Morte al Barbone!».13 A coronare d’oro questi inni, Bandi rammenta la voce del
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Ivi, p. 78. Ivi, p. 115. 11 Ivi, p. 119. 12 Ivi, p. 127. 13 Ivi, pp. 131-132. 10
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neo Dittatore che la mattina del 15 maggio, nella solitudine della propria stanza, canta a voce spiegata la cabaletta «Quella soave immagine» della Gemma di Vergy di Donizetti, presago annunzio di vittoria.14 In queste pagine l’attenzione dell’autore si sofferma anche sul problematico rapporto fra il generale e i religiosi, da molti descritto come spesso infelice e teso. Bandi sfata tale comune considerazione, riconoscendo la poca simpatia di Garibaldi per preti o frati, ma sottolineandone il rispetto massimo e la stima qualora mostrassero qualità intellettive, apertura mentale e condivisione d’intenti con i volontari. Proprio questo suo rispetto farà sì che alcuni sacerdoti si accoderanno all’esercito dei Mille, tra cui Fra Pantaleo, che si metterà al servizio del generale quale emulo fedele dell’indimenticato Ugo Bassi. Calatafimi vede la prima decisiva vittoria dei volontari, confermando la teoria garibaldina per cui il fucile non sarebbe altro se non il manico della baionetta che egli tiene saldo in mano gridando: «Italiani, qui bisogna morire!».15 Bandi se la caverà con una ferita alla gamba che lo farà «vagellare su pei peri»16 costringendolo a fermarsi e a ricongiungersi al neo Dittatore soltanto a Palermo, dove grandi saranno i problemi da affrontare per le trattative con i Borboni e con gli stessi garibaldini che reclameranno a voce spiegata le proprie paghe. Ma Garibaldi si occuperà come sempre di tutto, assistito dal proprio genio e dalla sorte benigna, senza mai dimenticare di visitare e assistere anche i feriti ospiti in residenze private.17 L’inizio della terza ed ultima parte del romanzo vede l’arrivo a Palermo della brigata guidata dal capitano Giacomo Medici, amico e sostenitore di Garibaldi, che divide l’esercito su vari fronti. Bandi seguirà lo stesso Medici a Messina, mentre Bixio si recherà ad Agrigento e il generale Türr sarà destinato a Catania. La sanguinosa battaglia di Milazzo (20 luglio 1860), vinta quasi per miracolo, aprirà la strada al passaggio in Calabria (8 agosto 1860) in direzione del Volturno, dove si giocherà l’ultima, decisiva parte del conflitto sotto le mura di Capua, finché l’esercito regolare di Vittorio Emanuele II non giungerà a sancire la vittoria conclusiva. Ma il clima rispetto a maggio è già totalmente mutato: Garibaldi comprende ancor meglio
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Ivi, p. 146. Ivi, p. 166. 16 Ivi, p. 177. 17 A Palermo, dopo la fuga dei Borboni, Garibaldi pronunzia anche un discorso molto significativo. Cfr. ivi, p. 211: «L’eroe liberatore s’alzò, e venne sul balcone. Nel vederlo, la folla innumerevole tacque come per incanto […]. Dovrei io ripetere ciò che egli disse?… Ho ancora negli orecchi, e più nel cuore, il suono della sua voce, ma non rammento che sette o otto parole: “Popolo di Palermo, popolo delle barricate, col quale ho diviso speranze, pericoli e gloria!…Popolo che lasciasti rovinare le tue case, innanzi di piegare il capo alle ignominiose proposte dei tiranni, eccoti libero!”. Mi saprà male il lettore se a questo punto io faccio fine al capitolo? Certi momenti solenni non c’è lingua, non c’è pennello che valgono a ridirli». 15
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come la presa di Palermo e la liberazione della Sicilia non possano essere elementi sufficienti per convincere i militanti borbonici ad unirsi a loro, lottando tutti insieme in nome di un’unità territoriale e di un solo popolo: Da Reggio su su per la Calabria fin presso Cosenza, non si vedevano se non torme di borbonici, che vagavano per la campagna, sordi a qualunque preghiera, a qualunque rampogna, e irremovibili, nel proposito di volersene tornare alle loro case. Garibaldi pianse più d’una volta nel vederli, e non si stancava mai di ripetere: – Peccato! Che bei soldati sarebbero! Che bel marciare sarebbe con questa gente alla volta di Roma!18
L’arrivo a Napoli ai primi di settembre assicura il secondo presidio forte, dopo Palermo, per Garibaldi e per i volontari. A Napoli, il generale incontrerà anche Mazzini, un episodio che Bandi ricorda in maniera commossa pur precisando come «ciascun di essi ebbe forse paura di dover correre il rischio di sacrificare all’altro qualche raggio della sua gloria e d’apparir secondo accanto a lui. Però è vero che Garibaldi non sdegnò esser secondo a Vittorio Emanuele, mentre Mazzini non volle esser secondo a nessuno».19 Memorabile è tuttavia nel ricordo di Bandi ciò che il generale gli rispose di getto quando lui stesso gli ebbe letta la lettera del grande genovese: «Dite a Mazzini, – ripigliò Garibaldi con voce commossa – ditegli che lo accoglierò come un fratello deve accogliere un fratello».20 Bandi stesso avrà l’incarico di avvisare Mazzini della pronta accoglienza da parte di Garibaldi, ricordando poi nel libro quell’incontro e le parole dell’esule al fine di convincerlo a consigliare il dittatore perché non si facesse «cogliere al laccio da Cavour e da Napoleone».21 Il morale di Garibaldi e dei volontari sembra risollevarsi quando sotto le mura di Capua tedeschi, polacchi, ungheresi si uniscono tutti insieme per vincere l’ultimo baluardo borbonico, una misera consolazione in confronto a ciò che il generale aveva sperato per gli italiani. Ma l’esercito regolare di Vittorie Emanuele II è ormai in arrivo, e il 2 novembre la città verrà definitivamente espugnata. Garibaldi, che non avrebbe voluto bombardarla e mettere a repentaglio più vite del necessario, si arresta e capisce che la sua missione è giunta a conclusione. Sono forse le pagine più toccanti dell’intero libro, che l’autore narra con estremo coinvolgimento: – Vedete, – mi disse – vogliono bombardare a tutti i costi, e io me ne vado via perché non ho cuore di assistere a tanto barbaro spettacolo. Nessuno deve avere diritto di chiamarmi bombardatore. – E strettami la mano, salutò i volontari, gridando loro con
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Ivi, p. 259. Ivi, p. 287. 20 Ivi, p. 288. 21 Ivi, p. 289. 19
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quella sua voce che innamorava: – Addio, figliuoli, addio. – I volontari ruppero tosto le righe, e colle armi in mano gli furono attorno, e tutti volean baciargli la mano, o per lo manco le vesti o le stoffe, ed ei dovette spronare il cavallo e spingerlo al galoppo, per liberarsi da quell’affettuoso tumulto.22
Ma la delusione più cocente doveva ancora giungere, la stessa che avrebbe rattristato anche Abba nell’ultimo paragrafo delle Noterelle: In que’ giorni ci fu detto che re Vittorio sarebbe venuto a vederci; infatti, stemmo una mezza giornata intiera sotto le armi e schierati in quell’ordine che si poté migliore, per aspettare la visita del re d’Italia; ma la sera tornammo agli alloggiamenti senza che egli ci avesse visti. Ben è certo che il re avea fisso di venire a farci una visita, e ci sarebbe venuto veramente, se certi gran sapientoni che avea d’intorno, non gli avessero dimostrata la sconvenienza di quella visita, facendogli chiaro che non era degno di un re percorrere a cavallo le file di que’ nuovi sans culottes, e di far loro festa, quasi che fossero soldati suoi. Garibaldi si afflisse non mediocremente di questo fatto, ma non ne accagionò mai il re; anzi, disse ripetute volte: «Povero re, vedete che cosa gli fanno fare!….Ma la più grande e amara delusione che ebbe, fu quella del veder dileguato il suo bel sogno dell’affratellamento delle camicie rosse coi cappotti turchini per seguitare la guerra. Quell’anima generosa non sapea capacitarsi che colla resa di Capua avesse a finire il còmpito suo, e che colla presa di Gaeta avesse a terminarsi la guerra e si dovessero deporre le armi, lasciando il papa a Roma e gli austriaci a Venezia. Perciò, negli ultimi giorni che rimase tra noi, lo vedemmo triste e taciturno, e non si udirono da lui se non parole dalle quali traspariva un acerbo rammarico, contenuto, a gran stento, nel cuore. Per l’ultima volta, egli vide quel suo piccolo, ma glorioso esercito, il giorno 6 di novembre, quando lo adunò sulla gran piazza di Caserta per dargli il suo addio. Ma egli non ci disse addio, ci disse arrivederci. E diecimila voci gridavano: «A marzo! A marzo! […] Però, se il re non degnò d’una sua parola le povere camicie rosse, senza le quali e’ non sarebbe entrato in Napoli trionfando, un saluto nobilissimo ce lo dette il nostro Garibaldi».23
Le ultime pagine del romanzo sono dedicate, quasi a stregua d’epilogo, alle personali riflessioni dell’autore in merito a fatti, eventi ma soprattutto alla figura del generale e dei suoi più stretti collaboratori, quasi come se egli non riuscisse a staccarsi dai ricordi della gioventù e dal suo eroe tanto amato. In realtà, queste pagine sollevano lo spirito del lettore per prepararlo, in qualche modo, al «contraccolpo» finale. L’ultimo, brevissimo paragrafo racchiude infatti un misterioso, sconvolgente punto interrogativo, conclusione e al tempo stesso inizio di una nuova, decisiva riflessione: Qui finisce il mio racconto, per la buona ragione che null’altro avrei da raccontare.
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Ivi, p. 319. Ivi, p. 321.
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Dirò soltanto che mi imbarcai in Napoli col mio battaglione la sera del 22 dicembre, sopra un bel piroscafo che avea nome Principe Umberto. Il capitano Dodero lo comandava in viaggio a dispetto del cattivo tempo che faceva e di quel peggiore che minacciava, e insiem con noi escì dal porto un altro piroscafo che si chiamò Ercole. Sull’Ercole salirono parecchi volontari e il colonnello X, che recava a Genova le carte dell’Intendenza dell’esercito meridionale. Escimmo dal porto, sobbalzati dalle onde furiose e ben tosto si fe’ notte. Col venir della notte la burrasca crebbe a dismisura, e non andò molto che diventò tempesta; sicché giunti che fummo all’altezza di Gaeta il capitano Dodero ebbe […] di volger la prua e ricondurci in Napoli, dove tornammo sul far del giorno, più morti che vivi. L’Ercole non ricomparve dinanzi a Napoli, né lo accolse Genova nel suo porto; nessuno ha mai saputo in quali paraggi inghiottissero le onde la sventurata nave e la gente sventuratissima che v’era sopra. La tempesta durò furiosa per tutto il giorno dipoi, ma nel terzo giorno posò e noi tornammo ad imbarcarci sul Principe Umberto, che ci condusse sani e salvi a Livorno la sera della Vigilia di Natale.24
Per tutto il romanzo un solo nome non compare mai, quello di uno dei più importanti fra i volontari garibaldini: Ippolito Nievo, citato significativamente anche da Abba nelle Noterelle.25 Bandi congeda dunque il lettore con un inquietante, invisibile punto interrogativo: sarebbe dunque proprio Nievo il misterioso «colonnello X» che si imbarca sull’Ercole per portare a Genova le carte contabili di Palermo? Nella realtà storica il disastro dell’Ercole avviene parecchi mesi dopo, durante la notte fra il 3 e il 4 marzo 1861, qui invece siamo a dicembre dell’anno precedente, quando Bandi fa realmente ritorno a Livorno, ma il riferimento parrebbe indubitabile. Se ciò fosse vero, in un attimo tutto il romanzo del giornalista livornese potrebbe assumere la prospettiva d’una cronaca accuratamente selezionata e parziale, nonostante le assicurazioni di fedeltà storica professate in più occasioni dall’autore; assumerebbe anzi la dimensione dell’annunzio di qualcosa che è ben conosciuto ma si tace per mettere sull’attenti qualche edotto lettore in merito a scottanti verità ancora da rivelare, magari destinate ad una successiva pubblicazione. Forse anche per questo, pochi anni dopo, Bandi verrà messo a tacere. Sarà forse impossibile in futuro, come lo è stato sino ad ora, gettare ulteriore luce sulla
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Ivi, p. 352. Cfr. G. C. Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei mille, Firenze, Vallecchi 1925, pp. 44-45: «Nievo è un poeta veneto, che a ventott’anni ha scritto romanzi, ballate, tragedie. Sarà il poeta soldato della nostra impresa. Lo vidi rannicchiato in fondo alla carrozza, profilo tagliente, occhio soave, gli sfolgorava l’ingegno in fronte», e p. 85: «Ippolito Nievo va solitario sempre, guardando innanzi lontano, come volesse allargare a occhiale l’orizzonte». Cito da un’edizione storica per rinviare anche al significativo saggio introduttivo in essa contenuto: L. Russo, L’opera di Abba e la letteratura garibaldina, pp. IX-LX. Cfr. anche G. C. Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei mille, Brescia, Morcelliana 1983-2001, vol. I. 25
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morte di Nievo e sulle cause che fecero colare a picco l’Ercole quella notte del 3 marzo 1861, ma senza dubbio questo paragrafo finale rammenta ai lettori quanto ci possa essere di vero e oscuro nella storia se pure la si narri con la sapiente freschezza d’un abile narratore d’avventure per ragazzi, e soprattutto come un memoriale della campagna di Sicilia, in apparenza umile e modesto, possa d’improvviso trasformarsi in autentico romanzo storico del Risorgimento italiano.
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GIUSEPPE MAZZINI
LUCA BELTRAMI Giuseppe Mazzini critico letterario sull’«Indicatore genovese»
Questa comunicazione nasce a margine di un lavoro più ampio condotto presso il Dipartimento di Italianistica dell’Università di Genova sotto la guida del professor Quinto Marini, dedicato alla pubblicazione degli scritti sul romanzo di Giuseppe Mazzini e altri saggi letterari dell’autore sulle principali questioni della critica romantica e risorgimentale. Il progetto di un’edizione commentata degli scritti letterari mazziniani – già inseriti nel corso del Novecento nella monumentale raccolta degli Scritti editi ed inediti promossa dall’Edizione Nazionale, ma oggi meritevoli di un ulteriore approfondimento critico – è una delle iniziative promosse all’interno del Prin 2008 sulla cultura del Risorgimento nei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, suddiviso in ambito genovese, oltre all’interesse su Mazzini, nelle ricerche sui reazionari, sugli esuli in Inghilterra e sul teatro seguite dai professori Stefano Verdino, Giuseppe Sertoli e Livia Cavaglieri. Il Prin, coordinato a livello nazionale dal professor Giulio Ferroni, ha unito l’Università La Sapienza di Roma e le Università di Genova e Bergamo, quest’ultima sotto la guida di Matilde Dillon Wanke, nell’obiettivo di evidenziare la centralità della letteratura e del teatro nel processo costitutivo dell’identità italiana attraverso convegni, giornate seminariali e pubblicazioni scientifiche. La collaborazione di Mazzini all’«Indicatore genovese», riproposto in edizione anastatica nel 2007 da Emilio Costa e Leo Morabito,1 si innesta quindi in un discorso più ampio, che coinvolge l’intera impostazione critica dell’intellettuale e si intreccia con la sua vicenda biografica e politica. Secondo quanto sostiene l’autore
1 Le successive citazioni dal periodico sono appunto tratte dall’«Indicatore genovese» in edizione anastatica (Savona, Sabatelli 2007) introdotta da una plaquette a cura di E. Costa e L. Morabito.
Giuseppe Mazzini
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nel testo introduttivo al primo volume della raccolta daelliana dei suoi scritti, la presa di coscienza della questione politica avviene proprio negli anni della formazione letteraria e scaturisce nell’aprile del 1821 in seguito a un casuale incontro con i proscritti piemontesi giunti al porto di Genova per imbarcarsi verso la Spagna.2 Nell’appassionata lettura di Foscolo, Mazzini trova inoltre conferma della «connessione delle lettere col viver civile» e matura la convinzione che ogni discorso letterario sia anche, necessariamente, politico.3 Il «pensiero» è costantemente finalizzato all’«azione» e quando quest’ultima è resa impossibile dalle contingenze storiche, non resta che agire attraverso la letteratura. L’impegno critico di Mazzini nell’«Indicatore genovese» è dunque la prima tappa della strenua militanza politica che sarà condotta nei decenni successivi. Intraprendere un’iniziativa editoriale nella Genova del tempo era però tutt’altro che semplice. Il monopolio culturale era infatti nelle mani del conservatorismo classicista e la censura governativa era attenta a soffocare le voci più sovversive. Tuttavia, a partire dal maggio 1828 si era diffuso in città un settimanale di annunci mercantili edito da Ponthenier, che Mazzini riesce presto a mutare in un giornale di approfondimento letterario e in un avamposto in difesa del Romanticismo. «Esciva allora in Genova», scrive l’autore, «un giornaletto d’annunzi mercantili; e doveva, in virtù di non so quale prescrizione governativa, limitarsi a quella angustissima sfera. Era l’Indicatore genovese. Persuasi il librajo ad ammettere annunzi di libri da vendersi, coll’aggiunta di due o tre linee quasi a definirne il soggetto, e m’assunsi di scriverle. Fu quello il cominciamento della mia carriera di critico».4 I dati sulla tiratura della stampa mazziniana mostrano però quanto fosse difficile mantenere economicamente un giornale,5 ma, nonostante i vari problemi,
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G. Mazzini, Scritti editi e inediti [d’ora in poi SEI], Milano, Daelli 1861, I (Politica I), p. 13. La citazione è tratta da uno scritto più tardo, ovvero dall’introduzione mazziniana all’edizione luganese degli Scritti politici di Foscolo, ora in G. Mazzini, Scritti editi ed inediti [d’ora in poi Scritti], XXIX (Letteratura V), p. 161. La funzione civilizzatrice della letteratura è inoltre al centro dell’orazione inaugurale al corso pavese del 1809 di Foscolo, ora raccolta insieme alle altre lezioni in U. Foscolo, Orazioni e lezioni pavesi, a cura di A. Campana, Roma, Carocci 2009, pp. 81-122. 4 SEI, I (Politica I), p. 20. 5 L. Balestreri, Dati sulla tiratura e la diffusione dei giornali mazziniani, in «Rassegna storica del Risorgimento», XXXVII, fasc. I-IV (gennaio-dicembre 1950), pp. 46-54. Sul giornalismo mazziniano si vedano anche Ead., Breviario della storia del giornalismo genovese, Savona, Sabatelli 1970, pp. 43-48; Ead., Avventure e disavventure di gerenti di periodici mazziniani, in «Rassegna storica del Risorgimento», XXXIX, fasc. I (gennaio-marzo 1952), pp. 48-56; R. Carmignani, Storia del giornalismo mazziniano (1827-1830), Pisa, Domus Mazziniana 1959; G. Tramarollo, Il giornalismo mazziniano: dalla stampa clandestina al primo quotidiano, in Atti del II Congresso nazionale di storia del giornalismo, Trieste, 18-20 ottobre 1963, Trieste, Comitato provinciale di Trieste 1966, pp. 181-191; L. Ravenna, Il giornalismo mazziniano. Note ed appunti, Firenze, Le Monnier 1939. 3
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l’«Indicatore» riesce a imporsi come una voce alternativa nel panorama della critica letteraria del tempo e a suscitare persino l’attenzione dell’«Antologia» di Vieusseux, che in alcune occasioni dà notizia del periodico genovese e dei suoi articoli più brillanti. Mazzini, appena ventitreenne, è l’ispiratore di un gruppo di giovani «romantici tutti», fieramente avversi alla cultura pedante delle accademie e alle «imitazioni fredde» dei poeti d’Arcadia.6 Sono ormai passati circa dieci anni dalla prima polemica classico-romantica condotta nel 1818 dal «Conciliatore» ed è trascorso ancora più tempo dall’invito a tradurre i testi stranieri mosso da Madame de Staël sulla «Biblioteca Italiana», tuttavia la contesa nella quale insieme a Mazzini si trovano coinvolti in prima linea Giuseppe Elia Benza, Filippo Bettini, Lorenzo Damaso Pareto – tutti intellettuali che meriterebbero un adeguato approfondimento da parte della critica – è aspra e tutt’altro che pacificata. Specialmente nei primi numeri del periodico, che esce con cadenza settimanale, gli articoli letterari faticano a imporsi tra gli avvisi commerciali,7 ma con il passare dei mesi gli annunci delle novità editoriali o degli spettacoli teatrali abbandonano il loro taglio rapido ed essenziale e si fanno più argomentativi, raggiungendo lo spessore di veri e propri saggi critici, spesso suddivisi in puntate. L’adesione al Romanticismo, inteso come un movimento di rottura nei confronti del passato, viene quindi caricato delle idee risorgimentali e il dibattito sulle opere romantiche è il veicolo per diffondere le proprie convinzioni politiche: «l’indipendenza in fatto di letteratura non era se non il primo passo a ben altra indipendenza: una chiamata ai giovani perché ispirassero la loro alla vita segreta che fermentava giù giù nelle viscere dell’Italia».8 Aperti all’europeismo culturale e favorevoli alle traduzioni dei testi stranieri, i giovani mazziniani guardano spesso oltre confine e, nel quarto numero dell’«Indicatore genovese», danno ad esempio notizia di un’opera fondamentale del Romanticismo europeo come il Cromwell di Hugo.9 La prefazione al dramma, ovvero una lunga dissertazione sulla poetica romantica in cui l’autore ammette la rappresentazione dell’orrido e del brutto nell’arte, è infatti, insieme all’introduzione all’Hernani, una vera e propria dichiarazione programmatica del nuovo gusto letterario. Tuttavia, negli anni Trenta Mazzini avrebbe constatato con amarezza come i propositi manifestati in quell’occasione da Hugo non fossero stati confermati dalla sua
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SEI, I (Politica I), p. 17. Le colonne dell’«Indicatore» sono dedicate principalmente all’economia e alla giurisprudenza, contengono avvisi agli artigiani e ai naviganti, rubriche dedicate alle scoperte mediche e scientifiche e annunci dei viaggiatori giunti in città, delle vendite immobiliari e dei prezzi correnti delle mercanzie. 8 SEI, I (Politica I), p. 20. 9 «L’Indicatore genovese», n. 4, 31 maggio 1828, p. 11. 7
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evoluzione artistica e Hugo fosse ormai un assertore della formula dell’«arte per l’arte», che rivendicava il primato della funzione estetica dell’opera su quella politica. Il giudizio su Hugo sarà confermato negli anni Trenta dalla delusione di Mazzini verso l’intero movimento romantico, che non dimostrerà la coesione necessaria per fondare la letteratura dell’avvenire, sebbene abbia avviato efficacemente il processo di emancipazione dalla cultura accademica e classicista. I redattori del giornale genovese si mostrano aggiornati anche in materia filosofica, sostenendo le teorie eclettiche di Cousin e Guizot. La fede nel divenire progressivo dell’uomo, già anticipata dalla teoria della perfettibilità indefinita di Condorcet e condivisa dal «Conciliatore», dal «Globe» di Leroux, dalla «Revue encyclopédique» e da intellettuali come Madame de Staël, trova infatti un nuovo impulso grazie alla mediazione degli eclettici, che i mazziniani leggono trasmettendosi ricopiate le poche pagine che riescono a rimediare. La recensione di Pareto al Cours de l’histoire de la philosophie, attraverso cui Cousin aveva proposto la via del juste milieu tra la filosofia della storia di Herder, conosciuto da Mazzini nella traduzione francese di Edgar Quinet, e Vico, la cui ricezione nel primo Ottocento è fortemente influenzata dall’interpretazione di Jules Michelet, dimostra tutto l’entusiasmo dei giovani genovesi. Anche in questo caso, però, la delusione è cocente quando Cousin – l’«apostolo fervido d’un progresso che non doveva arrestarsi» – si schiera a sostegno della causa orleanista di Luigi Filippo e partecipa attivamente all’instaurazione della Monarchia di Luglio. In campo letterario, Mazzini e i suoi sodali si dimostrano da subito convinti estimatori del romanzo storico, affermatosi definitivamente in Italia nel 1827 con le edizioni dei Promessi sposi e della Battaglia di Benevento, nonché dei numerosi volumi pubblicati sulla scia delle opere di Walter Scott. In ritardo sulla polemica romantica propugnata a suo tempo dal «Conciliatore», l’«Indicatore genovese», il cui primo numero esce il 10 maggio 1828, può invece intervenire con tempestività nel pieno del dibattito critico sul romanzo storico. Il primo articolo di Mazzini compare proprio nel numero inaugurale, ed è appunto dedicato al nuovo genere letterario. Si tratta di una breve recensione alla Fidanzata ligure di Carlo Varese ed è però una netta stroncatura dell’opera.10 Dal rapido trafiletto emergono con sufficiente chiarezza le riserve, condivise anche da Tommaseo e Zajotti, sulla genericità della ricostruzione storica e sociale degli usi liguri, sull’eccessiva staticità della macchina romanzesca, sulla freddezza dello stile e sulla mancanza di originalità dei personaggi, cavati di peso dai modelli di Cooper e Scott. Il dato più interessante consiste nell’adozione del modello scottiano come metro di paragone per verificare la tenuta del romanzo. L’insufficienza dell’opera
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Ivi, n. 1, 10 maggio 1828, p. 2, poi in Scritti, I (Letteratura I), pp. 27-28. IV. Il “carattere” del popolo, dei letterati, degli eroi, tra vecchia e nuova Italia
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di Varese si mostra infatti nel confronto con i quadri di costume dipinti dallo scrittore di Edimburgo, il cui nome è significativamente evocato a esordio della recensione, mentre la predilezione per l’autore di Ivanhoe e Kenilworth è confermata nello scritto sulla Bella fanciulla di Perth, di poco posteriore.11 Se gli Essay by Sir Walter Scott, recensiti l’11 ottobre,12 non entusiasmano Mazzini, la piena fiducia all’opera scottiana è confermata nell’importante saggio sul trattato di Zajotti intorno al Romanzo in generale, ed anche dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, dove Ivanhoe e gli altri eroi sono chiamati a dimostrare come nel romanzo possano felicemente accoppiarsi «esattezza storica e vivo interesse di casi ideali».13 La posizione di Zajotti, ostile al romanzo storico, è nota, così come la sua preferenza per il romanzo descrittivo, o di costume. Proponendo non tanto la difesa dei Promessi sposi quanto la difesa dell’intero genere, Mazzini promuove invece il romanzo storico per la sua capacità di superare i limiti costitutivi della storia ufficiale e di afferrare «tutti quei particolari, tutte quelle minuzie», ovvero «gli spazi intermedi» delle province e delle campagne che sarebbero destinati all’oblio se non trovassero un «interprete» nella ricostruzione ideale della storia.14 Come già osservava Sansone Uzielli in un articolo pubblicato sull’«Antologia» nel marzo 1824,15 il romanzo diventa quindi un utile supporto alla storia nella ricostruzione dei fatti più minuti, opera perciò bene chi, seguendo l’esempio di Walter Scott, intesse i suoi romanzi sulle vicende di «individui ideali» calati in scenari storici autentici e colloca in alcuni personaggi dell’epoca in secondo piano rispetto all’azione principale. Discorrendo sull’ufficio del critico e polemizzando sulle inconsistenti obiezioni di pedanti e accademici, Mazzini non entra però nel merito della discussione sui Promessi sposi se non per giustificare l’autore – che pure ha assemblato un romanzo troppo sbilanciato a favore della parte storica – e per ammettere, pur attenuandolo, il giudizio negativo di Zajotti sul «difetto d’interesse e calore dei personaggi». Il rilievo, avanzato anche da due critici su posizioni radicalmente differenti come Tommaseo e il recensore dei Promessi sposi sulla «Vespa»16, è però tutt’altro che marginale e in
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Ivi, n. 10, 12 luglio 1828, p. 34, poi in Scritti, I (Letteratura I), pp. 49-51. Ivi, n. 23, 11 ottobre 1828, p. 86, poi in Scritti, I (Letteratura I), pp. 101-103. 13 Ivi, nn. 5-6-7, 7-14-21 giugno 1828, pp. 14-15, 18, 22-23, poi in Scritti, I (Letteratura I), pp. 31-41. 14 Ivi, p. 33. 15 S. Uzielli, Del Romanzo storico, e di Walter Scott, in «Antologia», XXXIX (marzo 1824), pp. 118-144. 16 Si vedano N. Tommaseo, I Promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII […], in «Antologia», LXXXII (ottobre 1827), pp. 101-119 e la recensione del romanzo, forse di Felice Romani, in «Vespa», I (1827), fasc. I, pp. 17-20; fasc. II, pp. 38-43; fasc. III-IV, pp. 96103. 12
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Mazzini sembra suggerire una certa presa di distanza nei confronti dell’indole cattolica e rassegnata di Manzoni, che anticipa il discorso sui limiti della scuola manzoniana argomentato più compiutamente nei saggi sul Marco Visconti e sul Moto letterario in Italia. Accordata la preferenza al romanzo storico, l’atteggiamento dell’«Indicatore genovese» riguardo al romanzo descrittivo non è tuttavia ostile, come dimostra un saggio edito sul numero del 4 ottobre 1828, firmato con la sigla Y, insolita per Mazzini e collocato dai curatori dell’Edizione Nazionale tra gli scritti di dubbia attribuzione.17 Il romanzo storico rimane però il genere che meglio può esprimere i patimenti e le aspirazioni della società dell’epoca e l’opera che più di altre è in grado di suscitare l’entusiasmo di Mazzini è la Battaglia di Benevento di Guerrazzi, recensita nell’agosto 1828.18 Il nome dell’autore livornese non è nuovo per i lettori dell’«Indicatore», infatti, nei numeri del 19 e del 26 luglio, Benza aveva già recensito il dramma I Bianchi e i Neri, ponendo di fatto le basi per la futura collaborazione nell’«Indicatore livornese». Le impressioni positive suscitate dall’opera teatrale sono confermate da Mazzini nella recensione alla Battaglia di Benevento. Guerrazzi, come Dante, è un’«anima di fuoco», nutrita «di quel magnanimo sdegno che è la Musa dei forti» e la sua voce sa emettere un grido di rampogna capace di «rompere il sonno a’ giacenti» attraverso uno stile fortemente retorico. L’autore si mantiene infatti al centro della scena, la sua parola racconta e perora, il suo stile declamatorio premia o punisce i personaggi che animano l’intreccio. Questo atteggiamento costituisce però anche uno dei difetti dell’opera, infatti il carattere individuale dello scrittore appare troppo esibito e il suo pensiero anima un numero eccessivo di personaggi, più simili a uomini contemporanei che a figure del XIII secolo. Il rilievo più grave riguarda però l’impostazione del romanzo, troppo sbilanciato a favore della storia a scapito della parte ideale. La scelta di promuovere i personaggi storici a protagonisti dell’intreccio, invece di introdurli sullo sfondo della vicenda secondo il metodo di Scott, presta dunque il fianco alle accuse dei classicisti sull’infedeltà del romanzo nei confronti della verità storica e la Battaglia di Benevento deve incassare le critiche delle riviste più conservatrici. Oltre ad altre osservazioni più specifiche, Mazzini biasima soprattutto l’indole disperata dell’autore e il suo atteggiamento scettico nei confronti dell’umanità e della storia. Nella Battaglia di Benevento Guerrazzi sembra infatti considerare solo gli aspetti più cupi dell’esistenza, ma questa predilezione, esteticamente giustificata da
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Del romanzo descrittivo dei costumi, in «L’Indicatore genovese», n. 22, 4 ottobre 1828, pp. 82-83, poi in Scritti, I (Letteratura I), pp. 401-404. 18 «L’Indicatore genovese», nn. 16-17, 23 e 30 agosto 1828, pp. 59, 62-63 e poi in Scritti, I (Letteratura I), pp. 75-85. IV. Il “carattere” del popolo, dei letterati, degli eroi, tra vecchia e nuova Italia
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Hugo nella prefazione al Cromwell, non può essere ammessa sul piano morale se è priva di «un guardo di speme nell’avvenire» e se non cova «un nobile fine di miglioramento». La colpa di Guerrazzi non consiste dunque nell’«aver dipinto il delitto negro, com’è veramente», ma nell’aver insistito sui temi della rovina e della sciagura, rinunciando a infondere la speranza nell’animo del lettore. L’impuntatura mazziniana sull’indole fatalista di Guerrazzi si conferma anche nei successivi scritti dedicati al romanziere e sembra suggerire le prime tensioni di un rapporto che, dopo gli eventi storici del 1849, sarà destinato a raffreddarsi. Del resto, a partire dal saggio del 1835 sul Marco Visconti, Mazzini evidenzierà la necessità di raccontare le condizioni presenti degli intellettuali perseguitati e costretti all’esilio e ciò determinerà la crisi del romanzo storico come genere letterario davvero efficace nello sviluppo della letteratura dell’avvenire. La critica mazziniana sull’«Indicatore genovese» non si arresta tuttavia su questo tema, ma affronta molti altri argomenti. Mentre gli articoli sulla Poesia estemporanea, sugli Annali e sulla Bibliografia italiana mostrano l’attenzione dell’autore anche per generi distanti da quelli solitamente promossi, l’interesse di Mazzini nei confronti del teatro, confermato più avanti dal lungo saggio sul Dramma storico, si concretizza in questo periodo nella recensione ai Trent’anni, o la vita d’un giuocatore di Victor Ducange. L’articolo necrologico su Vincenzo Monti è invece l’occasione per tributare un sincero omaggio al poeta appena scomparso ma anche per esprimere un forte rammarico per l’ingratitudine della patria nei confronti di Foscolo, le cui spoglie giacevano allora in Inghilterra. La riflessione sul tema viene in seguito approfondita da Filippo Bettini, che dedicherà un ampio saggio in tre puntate ai profili dei due poeti.19 Mazzini e il suo periodico sono costantemente coinvolti nella disputa letteraria di quegli anni. Oltre agli articoli sul romanzo storico, sono numerose le circostanze in cui l’«Indicatore genovese» scende in prima linea nella contesa letteraria. Sul fronte romano è necessario rispondere alle accuse del «Giornale arcadico», che pubblica una lettera in cui Carlo Botta definisce i romantici «traditori della patria» perché favorevoli all’imitazione dei modelli stranieri. Mazzini, condividendo lo sdegno espresso da Tommaseo sull’«Antologia», compone l’articolo intitolato Carlo Botta, e i romantici, nel quale respinge le accuse con vibrante tono polemico.20 Questa netta presa di posizione vale al critico il primo vero contatto con gli ispiratori, pur «timidi» ma «d’animo italiano», dell’«Antologia», che ristampano il saggio sulla loro rivista, elogiandone apertamente l’iniziativa. L’intervento mazziniano non è tuttavia isolato e si colloca in una fitta rete di allusioni polemiche che coin-
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Tutti questi articoli sono ora reperibili nell’edizione anastatica dell’«Indicatore genove-
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Ivi, n. 14, 9 agosto 1828, pp. 50-51, poi in Scritti, I (Letteratura I), pp. 63-66.
se».
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volge anche Benza, pronto a difendere i romantici e confutare gli attacchi di Botta nella recensione alla Sposa di Messina di Schiller, e Bettini, che in un articolo dell’ottobre 1828, prende le mosse da una secca censura delle novità letterarie da parte del «Giornale arcadico» per riaccendere la polemica contro coloro che «gridano al sacrilegio con indegni modi contro i Romantici».21 Sempre nel quadro dei difficili rapporti tra l’«Indicatore» e la rivista romana, spicca la diatriba sulle Prose di Salvatore Betti, dove il collaboratore dell’«Arcadico» aveva espresso riserve sulle tendenze culturali più innovative. Il volume, benevolmente recensito da Domenico Vaccolini sul periodico classicista, subisce la rapida bocciatura di Tommaseo sull’«Antologia» e l’ironica stroncatura di Mazzini sull’«Indicatore», dove il consueto invito ai giovani a leggere il volume viene beffardamente rovesciato nel finale dalla veemente esortazione a dedicarsi a ben altra missione letteraria.22 Intanto, sul fronte interno genovese, si conduce una polemica ancora più serrata contro il «Giornale ligustico», baluardo del classicismo ligure. La rivista è ispirata da un autorevole esponente del conservatorismo cattolico locale, il padre barnabita Giambattista Spotorno, che mostra una straordinaria vis polemica nei saggi solitamente firmati con il nome arcadico di Albo Docilio dall’antico nome latino di Albisola, sua città natale. Anche per Spotorno l’autorità di Carlo Botta è un’utile trincea dalla quale scagliare strali contro i romantici, ma diversamente dal «Giornale arcadico», lo spunto polemico viene da una pagina della Storia dei popoli italiani, da cui si cita un’invettiva contro la «setta de’ Romantici». L’apparato accusatorio di Spotorno, ricalcando l’accusa di Botta di tradire la patria con lo studio delle letterature straniere e spingendosi persino a denunciare la possibile svolta eversiva dei sostenitori del Romanticismo, è tutt’altro che ingenuo, e molto acutamente rileva nella polemica letteraria un movente politico, tanto che, in una delle numerose censure delle novità editoriali, il barnabita definisce il Romanticismo «una pazzia nell’ordine sociale».23 Considerando contraddittoria l’intenzione romantica – e mazziniana – di costruire una letteratura nazionale su modelli non italiani come Scott, Schiller, Goethe e Byron, il «Giornale ligustico» provoca i romantici definendoli «giovani nemici delle cose patrie» e, nella certezza che essi non avrebbero fornito la loro «vera definizione» perché impediti da «gravi motivi», li accusa larvatamente di segretezza e cospirazione. Le differenze ideologiche sono notevoli anche sul piano culturale. Lo prova, ad
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Si vedano le recensioni di G.E. Benza alla Sposa di Messina di Schiller, in «L’Indicatore genovese», nn. 29-30, 22-29 novembre 1828, pp. 111-112, 115-116 e di F. Bettini al «Giornale arcadico», in ivi, n. 23, 11 ottobre 1828, pp. 86-87. 22 Ivi, n. 21, 27 settembre 1828, pp. 77-78, poi in Scritti, I (Letteratura I), pp. 89-93: «Prosatori del secolo XIX! – altra è la vostra missione; ma né freddi concettini, né parolette leggiadre possono adempirla» (p. 93). 23 «Giornale ligustico», II, fasc. V (settembre-ottobre 1828), pp. 518-521. IV. Il “carattere” del popolo, dei letterati, degli eroi, tra vecchia e nuova Italia
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esempio, il diverso giudizio sulla Storia della Letteratura antica e moderna di Schlegel tradotta in italiano da Francesco Ambrosoli. L’opera viene tenuta in grande considerazione da Mazzini, per il quale – sebbene l’autore abbia ceduto a un eccessivo sentimento nazionalistico nella rivalutazione dell’epoca medievale – il vincolo di radice vichiana «che annoda in un popolo le istituzioni, le lettere e i progressi della civiltà» colloca felicemente lo studio di Schlegel sul sentiero percorso da Madame de Staël, Sismondi, Ginguené e Salfi.24 Al contrario, si legge una stroncatura netta sul «Giornale ligustico», che liquida l’opera definendola «un compendio che l’antica letteratura e la moderna vuol chiudere in due tometti».25 Risulta scontata la tenace avversione dei classicisti liguri anche nei confronti del romanzo storico. Se il giudizio sui Promessi sposi esprime un implicito dissenso, che si evince dalla rapidità dell’articolo e dall’evidente imbarazzo con cui Spotorno accenna ai difetti dell’opera, la recensione alla Battaglia di Benevento si conclude con la netta convinzione che i «savj Italiani» «getteranno lungi dalle lor mani questo nuovo libro».26 Censurando la scelta di Guerrazzi, peraltro criticata anche da Mazzini, di promuovere i personaggi storici a protagonisti dell’intreccio narrativo, il «Giornale ligustico» imputa al romanziere la «gravissima colpa» di aggiungere ai fatti veri «particolarità favolose, o tratte dalla fantastica ignoranza del popoletto» nel riprovevole intento di «corrompere artatamente la storia» e «avvelenare una fonte». Il giudizio scettico di Guerrazzi sulla società umana è poi l’altro elemento che non sfugge al recensore, così, anche per Spotorno, «il nostro Romanziere vede gli uomini tutti d’un colore: perfidi, superbi, vili», poiché la sua «vivace immaginazione» è «travolta dalla lettura di Byron» e non ravvisa nell’uomo altro che «la perfidia e la disperazione». Oltre al disaccordo sulle questioni letterarie, emergono anche numerosi attriti di carattere ideologico e l’«Indicatore genovese» cerca di rispondere colpo su colpo alle offensive e passare al contrattacco. Lo scontro viene portato avanti soprattutto da Pareto, che in un articolo del 23 agosto rilancia le censure portate da Salfi alla Storia letteraria della Liguria osservando come Spotorno si sia scagliato addosso al critico con una vivacità che «somiglia al mal umore di chi abbia perduta la propria causa».27 Ancora Pareto, in un breve articolo della settimana seguente, confuta un saggio uscito sul «Giornale ligustico» elogiativo di quello che lui definisce lo «spirito retrogrado» del barnabita, suscitando la risposta del «Ligustico» nel numero del luglioagosto 1828.28
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«L’Indicatore genovese», nn. 27-28, 8-15 novembre 1828, pp. 102-103, 107-108, poi in Scritti, I (Letteratura I), pp. 113-114. 25 «Giornale ligustico», II, fasc. IV (luglio-agosto 1828), pp. 379-385. 26 Ivi, pp. 396-399. 27 «L’Indicatore genovese», n. 16, 23 agosto 1828, p. 58. 28 Ivi, n. 17, 30 agosto 1828, p. 62. Per la risposta del «Ligustico» si veda il vol. II, fasc. IV (luglio-agosto 1828), pp. 343-353. Giuseppe Mazzini
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La fase più acuta della polemica sembra iniziare quando, a fine luglio, l’«Indicatore genovese» inserisce tra gli Annunzi di opere nuove «gli ultimi aneliti d’un giornale Colombiano» e dei suoi «mille e uno associati».29 Poi, a settembre, la situazione precipita. Pareto compone infatti un saggio fortemente critico nei confronti del professore universitario Carlo Leoni, vicino, per cultura e ideologia, a Spotorno30 e, nello stesso numero del 6 settembre, vengono anche pubblicati Alcuni perché sulla Pubblica Istruzione firmati con la sigla K., dietro alla quale è plausibile ipotizzare, come già fecero i curatori dell’Edizione Nazionale, lo stesso Mazzini.31 Nell’articolo, K. solleva il delicato problema dell’educazione scolastica invocando un radicale ammodernamento degli insegnamenti: è un attacco alle istituzioni religiose, che pure in quel secolo offrivano un fondamentale lavoro di educazione e di assistenza, ma è in primo luogo un attacco a Spotorno, direttore delle scuole pubbliche nel 1821 e stimato maestro di retorica. Il trafiletto suscita la reazione del barnabita, che esprime il proprio risentimento in una lettera A’ Signori Direttori del Giornale Ligustico provocando un inasprimento dei toni che non poteva sfuggire ai censori,32 probabilmente sollecitati dallo stesso Spotorno. Il 24 novembre il marchese Gian Carlo Brignole Sale, soprintendente alla Pubblica Istruzione, scrive quindi al conte Barbaroux, segretario di gabinetto del re, per denunciare come il pensiero dei mazziniani non sia sempre affine a quello del governo. L’«Indicatore» riceve un’ammonizione ufficiale, ma i redattori del giornale rilanciano la posta, inviando al censore il programma per il 1829, che propone di trasformare l’«Indicatore genovese» in una rivista dichiaratamente letteraria raddoppiandone la periodicità. Il censore ritiene opportuno far pressioni sul governo torinese affinché ponga sotto stretto controllo la rivista e la sua premura sancisce di fatto la chiusura del giornale. La difesa del Romanticismo e la fiducia nell’avvento di una letteratura europea, ovvero gli elementi fondamentali annunciati nel programma del 1829,33 verranno quindi sviluppati nei saggi successivi, editi sull’«Indicatore livornese» e sull’«Antologia». Per Mazzini intanto si avvicinano i giorni in carcere al Priamar di Savona e il lungo esilio. L’impegno letterario è ormai destinato a sacrificarsi in nome della lotta politica.
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«L’Indicatore genovese», n. 12, 26 luglio 1828, p. 44. Ivi, nn. 18-19, 6-13 settembre 1828, pp. 65-67 e 70. 31 Ivi, n. 18, 6 settembre 1828, p. 68, poi tra gli scritti mazziniani di dubbia attribuzione in Scritti, I (Letteratura I), pp. 396-398. 32 Per la ricostruzione dei fatti si vedano A. Neri, La soppressione dell’«Indicatore Genovese», in Biblioteca di Storia italiana recente (1800-1870), Torino, Bocca 1910, vol. III, pp. 331-370; F. Della Peruta, Conservatori, liberali e democratici nel Risorgimento, Milano, Angeli 1989, pp. 71-108. 33 Il manifesto sarà pubblicato per la prima volta in Id., Due scritti sconosciuti di Mazzini, in «Bollettino della Domus mazziniana», XVII (1971), 1, pp. 29-36. 30
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V. Il cosmopolitismo degli Italiani
Gli Italiani all’estero e il loro contributo alle idee risorgimentali Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
GLI ITALIANI ALL’ESTERO E IL LORO CONTRIBUTO ALLE IDEE RISORGIMENTALI
MONICA VENTURINI Per una cartografia della letteratura postcoloniale italiana. ‘I confini dell’ombra’ di Alessandro Spina: «scrivere per la posterità»
Vede, uno scrittore che vive in Africa scrive davvero solo per la posterità. A. Spina, 6 aprile 1964, Carteggio
La Libia è per l’Italia, dall’inizio dell’avventura coloniale, quell’altrove che raccoglie in sé molteplici, nonché sfuggenti, significati – terra da conquistare o meglio riconquistare, quarta sponda, posto al sole, luogo reale e insieme metaforico, campo di battaglia prima e orizzonte-promessa per il futuro poi – in grado di concorrere all’elaborazione di un complesso immaginario, ben leggibile nella produzione giornalistica che va dall’inizio del Novecento alla guerra di Libia e alla Grande guerra, per giungere al ventennio fascista fino alla seconda guerra mondiale. Il rapporto Libia-Italia – e questo oggi si rivela tristemente ancor più vero – si dispiega nel tempo di un secolo, portando con sé una serie di problematiche, questioni e conseguenze che richiedono un’indagine «a tutto campo», necessariamente pluridisciplinare, non solo di tipo storico-sociologico. Nel circoscrivere il campo ad un ambito specificamente letterario, si limiterà l’analisi in quest’occasione all’opera di uno scrittore arabo-italiano, Alessandro Spina, autore di un intero ciclo di undici opere dedicate all’Africa, pubblicato nel 2006 dalla casa editrice Morcelliana, dal titolo I confini dell’ombra1 (il primo racconto qui con il titolo Il capitano Renzi era apparso nel 1954 su «Nuovi Argomenti»). Nato nel 1927, Alessandro Spina – uno pseudonimo – vive in Libia fino al 1940, quando si trasferisce in Italia, a Milano, dove rimane fino al 1953, per poi tornare in Africa per oltre venticinque anni fino al 1979. Gli undici tomi del ciclo (romanzi e raccolte di racconti) sono tutti ambientati in Cirenaica, la provincia orientale della Libia, dal 1911 al 1964, un vero e proprio unicum nel panorama della letteratura italiana novecentesca:
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A. Spina, I confini dell’ombra. In terra d’oltremare, Brescia, Morcelliana 2006.
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Sono undici [opere] e formano uno straordinario affresco che sarà anche la storia di un Paese, anzi di due, la Libia e l’Italia, dal periodo della conquista giolittiana passando per il regime fascista, fino agli anni postcoloniali, con tutte le miserie sul colonialismo e le presunzioni occidentali, ma mai strizzando l’occhio al terzomondismo politicamente corretto. Ma è anche e soprattutto una ricchissima commedia umana che ha la lussureggiante luminosità di un Durrell e l’angosciata essenzialità di un Camus, di tutti coloro cioè che hanno portato sotto i cieli terribilmente puri dell’Africa la lucida disperazione occidentale, ma hanno saputo anche ravvivare la disincantata razionalità europea con la vitalità dell’Oriente e del Sud. Così, Spina è potuto diventare uno dei pochi veri scrittori internazionali del Novecento, capaci di uscire fuori dalla trascendenza dell’ombelico italiano.2
Romanzo storico, «commedia umana», ciclo di ampio respiro, disegno fitto di richiami, documenti, citazioni: I confini dell’ombra, opera della complessità e della modernità, non lascia dubbi sulla vastità e la coesione di una struttura che rispecchia il mondo sociale, offrendo una vitale giustificazione alla narrazione. Non a caso tra gli autori prediletti, più volte citato nel Diario di lavoro, dove si trovano le riflessioni dello scrittore, in una sorta di percorso perfettamente parallelo rispetto al ciclo africano, vi è Lukács: Georgy Lukács è l’unico scrittore marxista che abbia contato nella mia formazione, che appartenga alla mia storia. Due libri mi fecero profonda impressione: Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna e i suoi saggi sui grandi narratori dell’800. Lukács è stato per me […] a un tempo il compagno e l’autre (ideologico) per eccellenza.3
Mann,4 Hofmannsthal, Kleist sono i modelli più volte citati sia da Spina che dalla critica; di certo, alle spalle questo scrittore ha, per scelta e vocazione, una costellazione di «padri» non italiani ma europei. Forte, infatti, è la polemica nei confronti dell’ambiente letterario italiano e di una parte considerevole della produzione nazionale: nel diario giudizi negativi possono trovarsi riferiti a Cassola, Vittorini, al neorealismo.5
2 3
A. Ascoli, Spina, uno scrittore nascosto nel deserto, «Il Giornale», 3 luglio 2007. A. Spina, Diario di lavoro. Alle origini de ‘I confini dell’ombra’, Brescia, Morcelliana 2010, p.
25. 4 Si veda C. Campo-A. Spina, Carteggio, Brescia, Morcelliana 2007, lettera XXVI, 25 novembre 1962, p. 39: «Quasi sempre io sento con Thomas Mann, una identificazione assoluta, senza residui – ho cioè l’impressione di esprimermi e quindi, semmai, di scrivere, non di leggere – quale neppure scrittori forse di lui più grandi come Proust riescono a darmi». 5 Si veda A. Spina, Diario di lavoro cit., p. 66: «Una persona, sia uomo politico che scrittore, come pure nelle più diverse professioni, si definisce anche rispetto a chi trova in scena con lui (non da lui scelti, ahimè). Definizione, o identità, che si raggiunge per due vie, ben distinte: illustrando il debito verso i maestri, o gridando inorriditi (nel mio caso leggendo Bacchelli –
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Scrittore-industriale estremamente appartato rispetto alla scena culturale italiana – nonostante la stima di personaggi, oltre a Cristina Campo di cui resta il prezioso Carteggio, come Anna Banti, Vittorio Sereni, Attilio Bertolucci, Claudio Magris, Alberto Moravia, Giorgio Bassani – Spina vive in prima persona, e la sua biografia lo dimostra, una particolare tensione, o meglio contraddizione, tra la sua origine, la sua vita di industriale in Libia e quella di scrittore «tra due mondi», nessuno dei quali in realtà si farà mai veramente pubblico di lettori: Malgrado la Cirenaica sia stata una colonia italiana, la cultura italiana è estranea al paese, e non lo condiziona. Se non ci fosse questa contraddizione (lo scrittore che appartiene a una civiltà e vive in un’altra), il diario e la mia vita qui sarebbero diversi. Il senso della vita (e del diario) sta in questa tensione.6
La stessa contraddizione si riflette nell’opera, dove il senso di un contrasto insanabile è la nota dominante di molti testi; non a caso, infatti, l’autore ricorda nella Postfazione a I confini dell’ombra: «Nulla è fecondo e vitale come l’inconciliabile».7 Nell’opera che niente ha del «pamphlet anticoloniale» o del romanzo-manifesto, benché, come nota Margherita Pieracci Harwell, «sia perfettamente vero che il colonialismo ne esce condannato più che dai pamphlets degli ufficialmente engagés»,8 ordine e contraddizione, diacronia e sincronia convivono. Se l’ordine dato al disegno complessivo, infatti, è di tipo cronologico, rigidamente scandito in tre diverse sezioni (I. La conquista coloniale, di cui fanno parte Il giovane maronita, Le nozze di Omar e Il visitatore notturno; II. L’età coloniale, dove si trovano Storie di ufficiali, Nuove storie di ufficiali, Storie coloniali e Nuove storie coloniali; III. La liberazione che comprende La commedia mentale, Ingresso a Babele, Le notti del Cairo e La riva della vita minore) tre momenti che ripercorrono fasi storiche distinte, la narrazione, però, non presenta lo stesso ordine: la scrittura si fa carico dell’ombra che ogni personaggio calato nella storia porta con sé. Come sostiene Pietro Gibellini nell’ampia introduzione al ciclo, la storia si intreccia alle «questioni private», ai destini individuali in un movimento continuo che oscilla tra diverse prospettive e differenti «messe a fuoco». Il rapporto Italia-Libia con tutte le sue ambivalenze e problematiche fa da contraltare alle crisi vissute dai personaggi, mai coerenti, mai lineari: ciò crea continue e segrete corrispondenze che conferiscono alla narrazione
Mal d’Africa e gli altri romanzi? Un cimitero di frasi –, Tecchi, i romanzi di Comisso, Cassola, o Sardegna come un’infanzia di Vittorini): questo non sono io! (secondo la drammatica frase di Musil, nel Giovane Torless)». 6 Ivi, p. 37. 7 A. Spina, Postfazione, in Id., I confini dell’ombra cit., p. 1242. 8 M. Pieracci Harwell, Cristina Campo, Alessandro Spina e una purissima costellazione, Roma, Ed. Studium 105, Luglio/Agosto 2009, pp. 565-633. Gli Italiani all’estero e il loro contributo alle idee risorgimentali
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uno spessore «storico», anche se i fatti storici non vengono quasi mai descritti o direttamente riportati. D’altra parte, il realismo al quale Spina mira – lo dice lui stesso nel Diario – è sì vicino a quello della grande tradizione europea, ma si rivela poi sui generis, estraneo a categorie preesistenti. Ciò è particolarmente evidente nella elaborazione di personaggi, primi fra tutti gli ufficiali presenti nell’intero ciclo – si pensi ai racconti di Storie di Ufficiali, ma anche al capitano Martello de Il Giovane Maronita – i quali portano sulla pagina la contraddizione, il senso tragico della guerra e del non potersi sottrarre al proprio destino individuale: Un amico mi ha chiesto perché insisto sulla figura dell’ufficiale. Le ragioni sono tante e di vario peso, futili o importanti, riassumiamo: ricordi infantili, in colonia i militari erano il ceto egemone, occupava il proscenio; […] l’ufficiale, almeno in colonia, negli anni Trenta, viveva, al Circolo per esempio come a corte […]; la vita militare risuscita la vita di ieri, in tutti i romanzi dell’Ottocento compaiono gli ufficiali, assenti invece nella letteratura oggi; […] la divisa […] permette di avere o di fingersi una regola, ciò che è essenziale per rappresentare un personaggio; la fedeltà giurata permette poi di rimettere in scena… il Fato: quando il capo – il duce, il re… – sbaglia, gli si va dietro, tutta l’Italia combatté la guerra fascista: l’essere consapevole dell’insensatezza di tutto e il dovere di obbedire, sostituiscono il Fato del dramma greco.9
Se l’accusa di manierismo o di poca verosimiglianza è stata mossa allo scrittore, forse non del tutto a torto, soprattutto a causa del linguaggio usato dagli ufficiali spesso impegnati in eleganti e forbite conversazioni salottiere, è però innegabile che gli ufficiali, definiti non a caso da Spina, «estranei allo stile nazionale», senza più alcuna vera ideologia – Patria o libertà – per la quale combattere, si trovano in un mondo ridotto in rovine,10 dove l’unica vera certezza è la morte. La ragione che li anima è più un meccanismo insano che un ragionamento vero, più un «arrovellarsi» sterile che un pensiero fattivo. Nulla di eroico li connota, se non l’idea ricorrente e inevitabile della morte, presenza ineludibile in molte pagine dell’autore: Cosa fanno i miei personaggi se non tormentare il passato? In Italia in genere lo si rimpiange, non lo si tormenta – una pochezza. Gli ufficiali ragionano troppo? Ma è una ragione sterile e disperata, non eroica. Avrei potuto raccontare tutte le balle eroiche che volevo e nessuno avrebbe detto niente: ma i distinti ufficiali sconfitti (e sconfitti per tante ragioni, non c’è solo il Duce, c’è magari… la situation humaine, il destino, mentre il diavolo se la ride da qualche parte) irritano.11
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Ivi, p. 73. Si veda P. Gibellini, Il deserto di Spina, «Humanitas», anno LXV, maggio-giugno 2010, pp. 375-380. 11 Ivi, p. 69. 10
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Il salotto, che in certi casi rimanda apertamente ad un cotê più ottocentesco che novecentesco, dove spesso gli ufficiali si trovano a dialogare e a intrecciare relazioni, diventa un palcoscenico perfetto, dove ricreare un microcosmo calato nella storia con tutti i riflessi e le trasformazioni del momento vissuto. Se è vero che la stessa Cristina Campo criticava in qualche modo l’ambientazione di molti racconti (nel seguire la stesura di Storie di Ufficiali), usando brontolare, come ricorda Spina,12 «salotti, salotti!…», è altrettanto certo che questa particolare ambientazione si lega alla scelta del romanzo storico e all’obiettivo più volte dichiarato dall’autore di rendere la conversazione, e dunque il dialogo tra i personaggi, il centro focale di tutta la narrazione. Il tono alto e l’eccesso di dialogo,13 che ad una prima lettura, possono facilmente risultare dei limiti della scrittura di Spina, sono in realtà parte del disegno generale e concorrono a caratterizzare i personaggi, fino alla dismisura e all’inverosimile. Metafora della regola,14 figura nodale della poetica e della posizione politica di Spina, l’ufficiale calca la scena, abitato da un senso d’irreversibile condanna e schiacciato da contrastanti forze che non permettono né l’amor patrio, né una vile fuga: Mi scrive che nei racconti sente l’assenza dell’Africa. Bravissima! È un «effetto» cercato con estrema cura e, forse, discrezione, riserbo. Alla radice di questi racconti c’è una scelta politica precisa, la condanna dell’atteggiamento italiano in questo paese: gli italiani vivevano qui come se il paese non avesse radici, volevano tutto distruggere o, i migliori consideravano gli indigeni il nulla. Ho orrore dei letterati italiani tutti fascisti prima e tutti antifascisti poi. Non ho nessuna voglia di fare anch’io della demagogia e dell’opportunismo (anche se «sinceri»). Se gli ufficiali vivevano ignorando gli indigeni ebbene gli indigeni non compariranno mai nei racconti: è il modo più netto, più sobrio e, mi sembra, più serio di far pesare la loro presenza. Naturalmente, chi se ne accorgerà? Cristina Campo e due o tre altri: mi basta.15
Anche la scelta del genere merita un chiarimento; il fatto che un autore, che potremmo definire «tra due mondi», poiché la sua origine e la sua vita, nonché la sua formazione, si dividono tra Libia e Italia, scelga il romanzo storico e un intero ciclo di opere per narrare uno spaccato storico preciso, un’epoca che vede i due Paesi attraversati da un diverso destino, è tutt’altro che un elemento marginale.
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Si veda A. Spina, Diario di lavoro cit., p. 61. Ivi, p. 65. 14 Si veda A. Spina, Postfazione in Id., I confini dell’ombra cit. 15 A. Spina in C. Campo-A. Spina, Carteggio, Brescia, Morcelliana 2007; la lettera a cui si fa riferimento è la seguente: lettera LV, 3 giugno 1963, p. 79. Si ricorda che personaggi libici compaiono nella prima parte del ciclo, sono invece assenti nella seconda, per comparire nuovamente nella terza. 13
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Non solo, ma Spina tiene a sottolineare, a proposito del Giovane Maronita, quasi la nascita di un nuovo genere, che chiama «romanzo del Terzo Mondo», ad indicare l’opera che letteralmente «apre» il discorso capitale della nostra epoca, «come lo era nella Russia di Tolstoj il problema dei contadini».16 È soprattutto l’ottica a subire una profonda trasformazione: viene qui elaborato un genere che, attiguo al romanzo storico, porta sulla pagina sia la natura dei rapporti tra scrittore e società, sia gli insanabili contrasti di un’intera epoca. Quest’opera segna una trasformazione radicale, non solo nella percezione problematica e direi «moderna» del rapporto Italia-Libia, ma soprattutto nella volontà di recupero memoriale e di «attualizzazione» di uno spaccato storico decisivo per la coscienza nazionale di noi contemporanei. Alcuni aspetti, in particolare, sono da sottolineare: in prima istanza, la visione fortemente allegorica della narrazione, nell’ambito della quale il paesaggio si carica di un senso di spaesamento che si tinge di tragico. Così, non solo il paesaggio, ma anche i confini e la luce17 si trasformano in Spina nei segni di un mondo che sfugge alla conoscenza, abitato da un’insanabile contraddizione: Il sole era opprimente, ma dal mare saliva una brezza sonora, sembrava il corrispettivo invisibile della piana, continuo – come la musica, talvolta che è movimento, incanta la nostra immobilità, seduti nei recessi profondi di un palco, o in una stanza chiusa. […] Non si vedeva nessuno su quella striscia grigiastra, né una macchina, né un uomo: come fosse progettata per fantasmi.18
In seconda istanza, il valore conferito alla testimonianza e all’analisi di tipo politico: la narrazione diventa lo strumento con il quale indagare la Storia alle spalle, analizzando stereotipi e «decostruendo» modelli e figure ancora presenti in tempi recenti. I personaggi – dagli ufficiali al conte o la contessa (Le nozze di Omar), al mercante (Semereth de Il giovane maronita), alla giovane sposa (Zulfa de Il giovane maronita) – proiettano sulla pagina i rappresentanti di diverse forze sociali che si confrontano, senza mai ricadere in fissi stereotipi o desunti clichés, ma anzi i personaggi per primi chiedono al lettore uno sforzo interpretativo particolare che trova spazio poi in molteplici possibili letture. Se Cristina Campo parla, a proposito di Giugno ’40, di «indifferenza per il letto-
16
A. Spina, Diario di lavoro cit., p. 49. Cfr. C. Campo-A. Spina, Carteggio cit. È interessante notare che il titolo originario dell’opera omnia di Spina doveva essere La posterità dell’ombra. Si veda il seguente saggio sul Carteggio: M. Pieracci Harwell, Cristina Campo, Alessandro Spina e una purissima costellazione cit., pp. 565-633. 18 A. Spina, Sulla riva in Ventiquattro storie coloniali in Id., I confini dell’ombra. In terra d’oltremare cit., p. 419. 17
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re»,19 è innegabile però che poi tale apparente distanza si trasformerà in un rapporto sì conflittuale, ma estremamente vitale. La contemporaneità, concetto che sempre suscita in Spina riflessioni, attacchi, polemiche, troverà spazio come referente dell’opera solo più avanti. Ne Il Giovane maronita, infatti, si inaugura una particolare tecnica. Ogni capitolo si apre con una citazione che informa il lettore della vicenda pubblica: documenti, articoli di giornale, romanzi vengono citati in corsivo con l’indicazione della fonte. Questa modalità, come afferma lo scrittore nella Postfazione a I confini dell’ombra, moltiplica i piani della narrazione20 e crea una pluralità di voci nella quale il lettore è chiamato all’interpretazione. Spina, infatti, a proposito del romanzo, afferma: Il romanzo chiede la collaborazione del lettore, tutto diverso dai romanzi anemici che affliggono il mercato. Proprio grazie alle citazioni, che sono spesso chiave di lettura, ogni lettore può farsi un’idea diversa del romanzo o leggerlo andando per conto suo su una strada particolare.21
L’indifferenza per il lettore e il disprezzo del pubblico appaiono più una «maschera» – termine pirandelliano spesso utilizzato da Spina nel Diario – che una realtà. Inquieto per la sua posizione scomoda di scrittore appartato («Qui si vive come in un’altra epoca», afferma in una lettera a Cristina Campo del 22 maggio 1962),22 «quasi esule» si potrebbe dire, e amareggiato per i molti rifiuti delle case editrici e i giudizi non sempre positivi di una parte del mondo intellettuale italiano, Spina chiede, in realtà, una partecipazione maggiore al suo lettore, l’espressione di una coscienza critica che non sentiva ormai più esserci in Italia. Anche perché, scritta in italiano, per un pubblico italiano, l’opera di Spina – e Il giovane maronita, rifiutato dalla Einaudi nel 1970 e poi pubblicato da Rusconi l’anno successivo, ne è un perfetto esempio – rivoluzionava la visione di un’epoca e di un Paese: È un romanzo che calpesta troppe cose, il passato nazionale, la distinzione europea fra destra e sinistra, l’eurocentrismo, l’ossessione della lotta di classe, il far trionfare sempre nei fatti nazionali il bene (per decenni: la Resistenza dopo il fascismo), mentre il mio romanzo si apre con proclama imperiale di Caneva e finisce con il mesto dispaccio di Cadorna dopo la disfatta di Caporetto: tutto contraddice la rettorica
19 Si veda C. Campo-A. Spina, Carteggio cit., lettera I, 13 febbraio 1961, p. 9. Si veda poi su questo argomento la lettera in cui Spina afferma che Bassani era stato il primo a mettere in rilievo tale aspetto: «Bassani fu il primo, quando gli portai Giugno ’40, a farmi notare «l’indifferenza per il lettore», messa in rilievo da lei nella prima lettera che mi scrisse quando ancora non ci conoscevamo», lettera XVII, 27 febbraio 1962, p. 29. 20 A. Spina, Postfazione in Id., I confini dell’ombra cit., p. 1249. 21 Ibidem. 22 A. Spina in Carteggio cit., p. 32.
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nazionale nelle sue molteplici e conflittuali sette. Sono ardimenti che si pagano: il lettore rifiuta tutto senza neppure sapere perché rifiuta.23
Più che di indifferenza, si tratta dunque di un forte senso di estraneità verso tutto ciò che è contemporaneo unito, però, ad una consapevolezza profonda riguardo alla propria passione letteraria e al valore politico-sociale che la scrittura può assumere: se il rapporto tra scrittore e società si è irrimediabilmente rotto, quello tra scrittore e lettore vive una crisi ancora in grado di dare frutti e di avere sviluppi inattesi. I segni di tale crisi sono evidenti in queste parole di Spina: Sono anche molto amareggiato, curioso come «così vecchi» si riesca ancora a essere così delusi e offesi! L’unica costante «benedizione» è stata la possibilità di scrivere. […]. (D’altronde non riesco più ad appassionarmi al destino del mio lavoro dopo la pubblicazione. Anni fa, ho sofferto «una volta per tutte» in una certa occasione. Adesso basta. Così l’insuccesso della pubblicazione di Tempo e corruzione nella mia vita non conta. Ma c’è davvero qualcosa che conta fra tutto quello che si fa in Italia oggi?! Certe volte si dispera, come ci fosse capitato in sorte un tempo che non è il nostro!).24
In un tempo che «sembra non essere il nostro», Spina dà vita, dunque, ad un corpus di opere tramite una tecnica fortemente allegorica con la quale non si intende rappresentare realisticamente il mondo quale esso è, ma l’intento è al contrario quello di darne una visione, che includa dunque non solo ciò che è reale, ma anche ciò che è possibile. Un mondo nel quale la parola, vero centro dell’intera opera, si fa azione e crea forse le basi per una nuova letteratura polifonica e pluricentrica, anche se pur sempre «degli italiani».
23 24
Ibidem. A. Spina in C. Campo-A. Spina, Carteggio cit., lettera XCVII, 1963, p. 140. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
ROBERTA DELLI PRISCOLI L’inquieta poesia di Niccolò Tommaseo: i canti patriottici
Il trattato Dell’Italia, che disegna articolatamente il programma civile, morale, politico di Niccolò Tommaseo, è a fondamento dei canti patriottici del poeta, che da quelle pagine ricevono luce e di quelle riflessioni si configurano come la versione lirica.1 Appare, perciò, utile una sia pur rapida disamina di alcune parti del trattato, per delineare il quadro chiaro delle idee che sono sottese alle poesie di tono politico. L’opera sta a mezza strada tra i primi scritti di Mazzini, da una parte, il Primato di Gioberti e le Speranze d’Italia di Balbo, dall’altra. La falsa intitolazione di Opuscoli inediti di fra’ Girolamo Savanarola esprime efficacemente quello spirito cattolico e repubblicano di cui tutta l’opera è pervasa e di cui Savanarola è il tipo più rappresentativo e il simbolo più insigne. Il binomio di religione e libertà è il fondamento del progetto di riscatto politico e morale dell’Italia. «E tutto quanto ha di grande l’Italia – scrive Tommaseo nel dialogo terzo del libro quarto Dell’Italia – o è religione o è di religione effetto; o è repubblica o di repubblica avanzo».2 Tommaseo ripetutamente propone il programma di una riscatto civile e morale del popolo italiano, che dovrà essere protagonista della liberazione d’Italia. Convinta e ferma è la sua opposizione a qualsiasi intervento straniero in aiuto della causa italiana, se non siano garantite condizioni di alleanza che vietino allo straniero di imporre il suo dominio in Italia; in particolare, mette in guardia gli italiani contro la Francia, additata come la patria dell’asso-
1
Il trattato Dell’Italia vide la luce a Parigi nel 1835, presso l’editore Laforest. Edizione recente: N. Tommaseo, Dell’Italia libri cinque, a cura di G. Balsamo-Crivelli, Torino, UTET 1920-1921, 2 voll.; ristampa anastatica, con Postfazione di F. Bruni, Alessandria, Edizioni dell’Orso 2003. 2 N. Tommaseo, Dell’Italia libri cinque cit., II, p. 24. Gli Italiani all’estero e il loro contributo alle idee risorgimentali
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lutismo monarchico, della violenza rivoluzionaria, dell’imperialismo napoleonico, del laicismo anticristiano.3 Sulla necessità dell’educazione politica del popolo discute diffusamente nel dialogo quarto del libro quarto, dove afferma che le idee politiche, fondate sull’autentico sentimento religioso e sulla schietta verità evangelica, devono essere insegnate ai fanciulli già dai genitori.4 Nell’ultimo capitolo della parte quarta del libro quinto del trattato,5 Tommaseo, rivolgendosi direttamente agli italiani, ribadisce fermamente che «non è libertà senza Cristo»6 e che solo la dottrina cattolica può avviare a perfezione l’umanità; per dottrina cattolica intendendo «non i preti soldati, carnefici, re, ma l’umiltà sapiente, l’unità spontanea, l’infaticabile amore». Su questi principi si fonda il «cristianesimo sociale», di cui Tommaseo colloca gli inizi nella sua epoca, ritenendo che nei precedenti diciotto secoli non si siano manifestati che saggi e preludi di quel cristianesimo. Nella prospettiva tommaseana il cristianesimo sociale è la fase più avanzata di quel cattolicesimo liberale, che egli condivideva con Antonio Rosmini, vagheggiando una chiesa fedele al messaggio evangelico, distaccata dai beni terreni e dal potere temporale, sollecita unicamente del bene spirituale dei popoli. Fondamentale per conoscere le idee tommaseane sulla rivoluzione è, nel libro quarto del trattato, il dialogo terzo che è significativamente intitolato Delle rivoluzioni secondo il Vangelo.7 Fede e libertà sono gemelle, poiché Dio è libertà, verità, amore. La libertà dell’uomo cristiano si fonda tutta sull’amore, evangelicamente inteso come amore di Dio e del prossimo.8 In generale Tommaseo è contrario alle rivoluzioni violente, fomentate da cospiratori che speculano sulla miseria materiale e morale del popolo, agitando chimeriche idee di utilità e benessere.9 Le rivoluzioni sono lecite, nobili, proficue, solo se la religione ne sia l’ispiratrice e il coronamento, lontano da ogni strage e violenza. Nel citato dialogo Delle rivoluzioni secondo il Vangelo Tommaseo enuncia una regola certa che consente di stabilire
3
Ivi, II, p. 248. Cfr. G. Melli, Identità nazionale e appartenenza religiosa nei Canti popolari toscani corsi illirici greci di Tommaseo, in F. Bruni (a cura di), Niccolò Tommaseo: popolo e nazioni. Atti del Convegno internazionale di Studi nel bicentenario della nascita di Niccolò Tommaseo. Venezia, 23-25 gennaio 2003, Roma-Padova, Editrice Antenore 2004, I, pp. 273-275. Successivament, dopo gli avvenimenti del 1848, cambiò opinione e scrisse che la Francia aveva il diritto e il dovere di dare aiuto agli italiani: cfr. P. Prunas, L’Antologia di Gian Pietro Viesseux. Storia di una rivista italiana, Roma-Milano, Società Dante Alighieri 1906, pp. 341-342. 4 Cfr. N. Tommaseo, Dell’Italia libri cinque cit., II, pp. 48-58. 5 Ivi, II, pp. 249-255. 6 Il corsivo è dello stesso Tommaseo. 7 Ivi, II, pp. 24-48. 8 Ivi, II, pp. 19, 26, 29. 9 Ivi, I, pp. 69-72. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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quando una rivoluzione sia necessaria e giusta: «Quando le vie soavi non giovino, e sia chiaro il diritto, e chiara la probabilità del poterlo rivendicare, allora il resistere è bello». E, poco più avanti ribadisce:10 Giova ripeterlo. Quando la causa sia giusta, quando non disperato l’evento, quando il male che si mira a respingere o non tanto leggero che non meriti rivoluzioni, o non sia da rivoluzioni irrimediabile, allora al cristiano adoperare la forza non è delitto, come non è delitto respingere l’omicida. La Bibbia, la storia ecclesiastica, porgono esempi e molti ed illustri di principi fiaccati, di popoli ribellanti: e i Gesuiti stessi li approvano.
Il primo capitolo, Assunto, del libro secondo, La nazione, è un lucido e articolato compendio delle idee di Tommaseo sulle condizioni necessarie per una rivoluzione legittima ed efficace. In primo luogo, le «assonnate moltitudini» devono essere risvegliate e rese partecipi dei progetti di rinnovamento. La causa delle sventure italiane non è soltanto nei principi, ma anche nei sudditi, che nella loro grande maggioranza non sono preparati a scuotere il giogo di principi tiranni, mentre pochi di essi, i più irrequieti, si illudono di potere da soli liberare l’Italia «da mezzanotte all’aurora».11 Nel libro quarto del trattato Tommaseo torna ancora sulla necessità del coinvolgimento democratico del popolo nella scelta delle istituzioni politiche.12 Il popolo è chiamato a esprimere liberamente la sua volontà sulla forma di governo che intende dare allo stato: monarchia o repubblica.13 Pur propendendo per la forma repubblicana, Tommaseo non esclude la monarchia, purché sia costituzionale ed elettiva; un regime monarchico di tal genere poco differisce dalla forma di governo repubblicana.14 Tra stato unitario e stato federale opta decisamente per una costituzione federale:15 Dialetti, fisionomie, razze, suolo, costumi, storia; ogni cosa ci avverte quanto sia impresa difficile comporre l’Italia in quella materiale unità politica la qual riesce da ultimo sì comoda al governo de’ despoti. […] credo che i beni della unità si potrebbero dalla federazione ottenere, e i mali della federazione potrebbero non essere dalla unità tolti via. Dico che la federazione darebbe i beni tutti della unità.
Sono queste le idee politiche, morali e religiose sottese ai canti patriottici di Tommaseo, tra cui ha una posizione di rilievo la canzone L’Italia, scritta nel 1834 a
10
Ivi, II, pp. 37, 39. Ivi, I, pp. 63-66. 12 In particolare nella parte quarta, capitolo XX, intitolato Repubblica (II, pp. 231-236). 13 Ivi, II, pp. 231-232. 14 Ivi, II, p. 234. 15 Ivi, II, pp. 227-228. 11
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Firenze, qualche settimana prima della partenza del poeta per il volontario esilio in Francia: nelle Confessioni ha la data del 6 gennaio 1834;16 nel Diario intimo, alla data 10 gennaio, si legge: «Scrivo la canzone L’Italia» e, alla data 24 maggio, a Parigi, è annotato: «Correggo i versi all’Italia. Noto le idee nuove che mi si affacciano».17 Tutta la poesia trae linfa vitale dall’ispirazione cristiana e dalle ricorrenti reminiscenze bibliche.18 Già l’incipit ha una movenza biblica: «Sola, inerme, tramortita / giaci, o donna delle genti». L’aggettivo «Sola» e l’espressione «donna delle genti», riferiti all’Italia, sono un calco dello stico 1,1 di Lamentationes: «Quomodo sedet sola / Civitas plena populo? / Facta est quasi vidua / Domina gentium».19 L’autore biblico allude a Gerusalemme, la città santa, che, dopo la conquista babilonese, da signora delle genti è diventata solitaria, come una vedova; Tommaseo trasferisce le immagini bibliche all’Italia, che, a somiglianza della città di Gerusalemme assoggettata e spopolata da Nabucodonosor, è asservita allo straniero e orbata della sua dignità e libertà. I versi successivi presentano l’Italia come una donna «ancora attraente, martirizzata e resa più fascinosa – proprio secondo i gusti del Tommaseo – dall’aver troppo vissuto, dall’aver ceduto alle febbri, che erano insieme esaltazione e tormentoso rimorso. Prima la facevano sentirsi più viva; adesso la rendono più abbattuta, fanno terribile il suo languore».20 Il termine «languor», che nella traduzione tommaseana del Salmo 102, rende il latino «infirmitates», qui assume un’accezione più spirituale,21 rinviando piuttosto al Quia amore langueo del Cantico dei cantici, richiamato dal Debenedetti.22 Attraverso la prospettiva biblica Tommaseo collega l’idea dell’amore cristiano e fraterno fra gli uomini all’amore «più egoistico e privato, proprio della sua sensualità erotico-misticheggiante».23
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N. Tommaseo, Confessioni, Edizione critica a cura di A. Manai, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali 1995, p. 50. 17 N. Tommaseo, Diario intimo, a cura di R. Ciampini,Torino, Einaudi 19463, pp. 168 e 1193. 18 Sull’aspetto cristiano e biblico delle liriche del Tommaseo, cfr. G. Debenedetti, Niccolò Tommaseo. Quaderni inediti, Milano, Garzanti 1973, pp. 15-16, 92, 101-102, 114-115, 187-189, 205. 19 Il corsivo è mio. 20 G. Debenedetti, Tommaseo cit., p. 197. 21 Cfr. N. Tommaseo, Opere, a cura di A. Borlenghi, Milano-Napoli, Ricciardi 1958, p. 8, nota ai vv. 59-60. La Vulgata ha: «Qui sanat omnes infirmitates tuas (Ps. 102,3)»; Tommaseo traduce: «ch’ogni tuo languor ti toglie, / ti riduce in sanità», N. Tommaseo, Opere cit., p. 307. 22 G. Debenedetti, Tommaseo cit., p. 197. La traduzione «quia amore langueo» è della Vulgata 2,5; 5,8. 23 Id., Tommaseo cit., p. 196. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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L’ultima strofa, ad una approfondita analisi del testo, si rivela ricca di riecheggiamenti biblici, che, una volta riconosciuti, rendono chiaro il significato dei versi, altrimenti oscuro. «Tu la campa dai suoi figli, / dagli amici e dagli amanti» (vv. 4243): il poeta prega Iddio di proteggere l’Italia dai suoi figli, dagli amici, da coloro che l’amano. Alcuni testi veterotestamentari hanno ispirato questi due versi: le già citate Lamentationes (1,2), a proposito di Gerusalemme, scrivono: «Omnes amici eius spreverunt eam, / et facti sunt inimici».24 Il comportamento infido dei figli e degli amanti trae origine da altri passi biblici: Ieremias 4,30 «Contempserunt te amatores tui»; 30,14 «Omnes amatores tui obliti sunt tui». Il primo versetto si riferisce ai nemici invasori che Gerusalemme, presentata come una cortigiana, invano tenta di sedurre e intenerire; il secondo versetto allude alla defezione dei regni alleati, sui quali Israele contava.25 È interessante osservare come anche Tommaseo, in questa poesia, ci presenti l’Italia in figura femminile e, più precisamente, nelle vesti «di una delle donne avvilite e peccatrici, delle donne cadute, che accendono più specialmente l’amore del Tommaseo».26 Per il topos dei figli che insorgono e operano contro i genitori, si possono richiamare, in particolare, questi testi biblici: Michaea 7,6 «Quia filius contumeliam facit patri, / Et filia consurgit contra matrem suam», Proverbia 17,25 «Ira patris filius stultus, / Et dolor matris quae genuit eum». Il libro dell’Ecclesiastico, poi, chiaramente ammonisce: «Et a filiis tuis cave» (32,26): il «cave» della Vulgata diventa, nei versi di Tommaseo, invocazione al Signore perché protegga l’Italia dal comportamento iniquo dei suoi amici, figli, amanti. La poesia ha il suo centro ideale nel profondo anelito religioso di Tommaseo, che già dalla seconda strofa affida al Padre le sorti dell’Italia, intrecciando al motivo patriottico il sincero sentimento cristiano. In questa prospettiva, in cui il canto patriottico si tramuta in inno sacro, il poeta proclama che la salvezza dell’Italia può compiersi più per l’aiuto divino che per l’opera dei suoi figli. Il motivo dell’amore evangelico, ampiamente sviluppato nel trattato Dell’Italia, diventa qui il sentimento che affratella nell’unità della fede e preserva dalle deviazioni legate ad un improvvido e temerario agire politico. Grazie all’amnistia concessa dall’imperatore Ferdinando I, in occasione della sua incoronazione a Milano come re del Lombardo-Veneto, Tommaseo, nel settembre del 1839, poté tornare in Italia e trasferirsi a Venezia. Qui fu arrestato il 18
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Cfr. Lam. 1,19: «Vocavi amicos meos, / Et ipsi deceperunt me». Tutte le citazione bibliche sono fatte secondo il testo della Vulgata, con cui Tommaseo aveva grande familiarità. 25 Cfr., ancora, Ieremias 22,20.22, dove gli «amatores» sono i pastori di Gerusalemme che periranno o andranno in schiavitù: cfr. Geremia, a cura di A. Penna, in La Sacra Bibbia, a cura e sotto la direzione di Mons. S. Garofalo, vol. II, Casale Monf., Marietti 1964, p. 811. 26 G. Debenedetti, Tommaseo cit., p. 196. Gli Italiani all’estero e il loro contributo alle idee risorgimentali
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gennaio 1848 in seguito ad un discorso pronunciato all’Ateneo veneto il 30 dicembre 1847, in cui chiedeva al governo la libertà di stampa. In carcere compose tre canti, La carcere, La carcere. A Enrico Stieglitz e Nella carcere, dei quali il primo fu scritto nel mese di gennaio, il secondo nel mese di febbraio, il terzo porta la data del 5 marzo. I tre componimenti costituiscono un trittico, che ha come tema centrale la proclamata vittoria dello spirito, libero e incoercibile, sulle miserie e sofferenze materiali del carcere. Nella prima poesia la fede religiosa e le suggestioni ispirate dall’assidua lettura della Bibbia contribuiscono efficacemente a creare un’atmosfera di serenità spirituale e alleviano la sofferenza del carcere, dando al prigioniero la serena coscienza della propria elevatezza morale.27 Sebbene in carcere, Tommaseo si sente spiritualmente più libero di prima, poiché Dio lo conforta e lo consola: «Sono ignote ai cuor superbi / le delizie che tu serbi, / o Signore, all’uomo oppresso» (vv. 6-8).28 Questi versi riecheggiano il motivo, largamente diffuso nell’Antico Testamento, dell’uomo giusto che il Signore soccorre nelle avversità; in particolare, traggono ispirazione dal Salmo 93,19: «Secundum multitudinem dolorum meorum in corde meo, / consolationes tuae laetificaverunt animam meam».29 Il poeta soffre non per sé, ma per la sua partecipazione al dolore degli altri, in modo pacato e scevro da incontrollate passioni; l’equilibrio e la luce interiore gli danno le ali per volare in alto verso magnanimi pensieri, come la rondine, che, dopo avere sfiorato l’acqua del fiume, si leva in alto a salutare il sorgere e il tramontare del sole. Ma la luce, che illumina il prigioniero, non tramonta mai, poiché è irradiata dal Signore e il giorno di Dio non conosce declino. A proposito dei vv. 16-27 il Borlenghi30 ha richiamato a confronto due Salmi tradotti da Tommaseo, 102,11-12 e 18,6-7; un riecheggiamento biblico si può cogliere anche nell’immagine del giorno inestinguibile del Signore, che si configura come metafora della luce della Sapienza divina, così celebrata nel libro della Sapienza: «Et invocavi, et venit in me spiritus sapientiae; / et praeposui illam regnis et sedibus, / […] et proposui pro luce habere illam, / quoniam inestinguibile est lumen illius».31 Come nella poesia, Esilio volontario, composta a Marsiglia nel 1834, il poeta si
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Nei due mesi di carcere Tommaseo terminò la traduzione dei quattro Evangeli, pubblicata successivamente: I Santi Evangeli, col comento che da scelti passi de’ Padri ne fa Tommaso d’Aquino, traduzione di Niccolò Tommaseo, Milano, Civelli 1866. Ora la traduzione è nel volume VI dell’«Edizione Nazionale delle Opere di Niccolò Tommaseo», a cura di R. Ciampini, Firenze, Sansoni 1973. Ristampata in I Vangeli nella traduzione di Niccolò Tommaseo, a cura di C. Angelini, Torino, Einaudi 1991. 28 N. Tommaseo, Opere cit., p. 31. 29 Cfr. Ps. 33,19; 85,17; Is. 57,15. 30 N. Tommaseo, Opere cit., p. 32. 31 Sap. 7,7-8.10. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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rifugia sotto le ali dei ricordi, così qui, nella solitudine del carcere, Tommaseo ha la gioia di presenze interiori: «l’alte rimembranze, / le instancabili speranze, / l’ardue gioie, e il pio doler» (vv. 33-35). Questi pensieri e sentimenti prendono figura di «colombe innamorate», che penetrano attraverso le tristi inferriate e volano sul capo del prigioniero. Anche le colombe sono una ricorrente immagine biblica, come annota il Borlenghi,32 che cita i Salmi 54,7 e 67,14 nella versione di Tommaseo; a questi luoghi biblici si può aggiungere il Cantico dei Cantici, in cui la donna amata è ripetutamente paragonata a una colomba (2,14; 4,1; 5,2; 6,9). Dopo avere evangelicamente elevato una preghiera a Dio per i suoi nemici e per i suoi amici, Tommaseo, ancora una volta, proclama la libertà del suo pensiero, che vola senza incontrare ostacoli, come le colombe e gli uccelli che liberi si muovono nel cielo: «Salve, o Sol, che le pareti / di mia stanza ignude allieti, / o colombe, o vaghi uccelli, / che nel sol volate snelli / via per liberi sentier, / non v’invidio: il mio pensiero / via per libero sentiero / vola anch’esso» (vv. 46-53). L’immagine del pensiero, che pur in carcere vola libero, è stata certamente suggerita a Tommaseo da Tertulliano, che nel trattato Ad martyras scrive: «Etsi corpus includitur, etsi caro detinetur, omnia spiritui patent vagare spiritu, spatiare spiritu».33 Nei vv. 53-54, «riverente / dell’insonne e del languente / s’inginocchia all’origlier», il termine «languente» prende il significato di «ammalato» in sintonia con il versetto di Giovanni 11,1, che la Vulgata traduce: «Erat autem quidam languens Lazarus a Bethania», e Tommaseo nella sua traduzione dei Vangeli così volge in italiano: «Or era malato certo Lazzaro di Betania».34 Nel chiuso del carcere Tommaseo sente le voci e i canti di coloro che passano
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N. Tommaseo, Opere cit., p. 33. Ad martyras 2,9; «Sebbene il corpo sia in prigione, sebbene la carne sia contenuta (nei ceppi), allo spirito tutto è aperto: vaga con lo spirito, passeggia con lo spirito», Tertulliani ad martyras, Prolegomeni, testo critico, traduzione e commento di A. Quacquarelli, Roma, Desclée 1963, p. 75. Tertulliano era ben noto a Tommaseo, che nel trattato Dell’Italia libri cinque cit., vol. II, p. 26, scrivendo: «Cristo, liberatore comune, comune amico», riprende un’espressione tertullianea: «(Christus) omnibus aequalis, omnibus rex, omnibus iudex, omnibus Deus et Dominus est», Adversus Iudaeos, 7, 9. «comune amico» corrisponde a «omnibus aequalis». Già Balsamo-Crivelli, in nota, aveva segnalato l’imprestito da Tertulliano, senza, per altro, precisare la fonte. Per un altro imprestito tertullianeo nel carme latino ad Adolfo Palmedo, cfr. P. Mastandrea, Origini europee e fratellanza dei popoli nel poemetto latino al Palmedo (1839), in N. Tommaseo, Scintille, a cura di F. Bruni con la collaborazione di E. Ivetic, P. Mastandrea, L. Omacini, Fondazione P. Bembo – Guanda 2008, p. 614. 34 Cfr. Io. 5,3: «multitudo magna languentium», che Tommaseo puntualmente traduce: «quantità molta d’infermi». Nel latino della Vulgata, con cui Tommaseo aveva grande familiarità, ricorrono i termini «langueo», «elanguesco», «languor», «languidus», con riferimento alla sfera semantica della malattia: cfr. Is. 1, 5; 33, 24; Ecclesiasticus 18, 21; 1 Mach. 6, 8. Cfr. la citata traduzione del Salmo 102, in cui «infirmitas» è tradotto da Tommaseo con «languor». 33
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sotto le finestre, e ad essi, con sentimento fraterno, augura gioie pure e innocenti. La poesia si conclude con la ripresa della prima strofa, che costituisce il tema conduttore di tutto il componimento: «Nella mesta prigionia / son più libero di pria. / Ha la carcere il suo vanto, / ha la sua dolcezza il pianto, / ha la pena i suoi piacer». Le altre due poesie scritte nel carcere sono elaborate sugli stessi moduli sentimentali e ideali. Nel più ampio componimento La carcere. A Enrico Stieglitz l’ordito tematico si arricchisce di un motivo nuovo, il conforto che al prigioniero viene dall’affetto dimostratogli da Stieglitz.35 Tommaseo aveva conosciuto il poeta tedesco Heinrich Wilhelm Stieglitz sul vapore in navigazione lungo le coste dalmatiche durante un viaggio alla fine di ottobre del 1839, e di lui parla spesso nel Diario intimo, nella sezione relativa agli anni 1839-1846 trascorsi a Venezia, rievocando i frequenti incontri, le passeggiate e le conversazioni su tematiche d’arte e sulla letteratura tedesca.36 In questa poesia Stieglitz appare come l’amico fedele che si reca, coraggiosamente e frequentemente, a far visita in carcere al prigioniero, dimostrandogli, come mai prima in altre occasioni, la sincerità del suo affetto. Nell’opera Venezia negli anni 1848 e 184937 e nell’edizione del 1867 del Dizionario estetico38 Tommaseo rievoca le visite in carcere fattegli da Stieglitz, che, alludendo al significato tedesco del suo nome («cardellino»), paragonava se stesso all’uccellino che veniva ad affacciarsi alle sbarre della cella. Nel Dizionario estetico Tommaseo, con maggiore precisione, scrive che il paragone con il cardellino era stato fatto dallo Stieglitz durante la visita fattagli il 17 marzo 1848, il giorno stesso dell’insurrezione della città contro il governo austriaco. Il particolare del cardellino, che viene a posarsi sulle sbarre della finestra del carcere,39 ha un suggestivo riscontro nei versi 51-54 della poesia: «E grazie rendo all’uccellin che degna / sulla finestra mia l’ali sue snelle / chiudere; e sento le colombe fide / scuoter le penne e mormorar d’amore». Accanto al tubare delle colombe si leva dal ponte sottostante, a conforto del prigioniero, il favellio dei pescatori di Chioggia (vv. 48-50).40
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In N. Tommaseo, Opere cit., pp. 34-37. Id., Diario intimo cit., pp. 321, 326-329, 332, 403. Cfr. la lettera inviata a Gino Capponi da Venezia l’8 aprile 1840, in N. Tommaseo, Opere cit., p. 970. 37 Id., Venezia negli anni 1848 e 1849. Memorie storiche inedite. Con aggiunta di documenti inediti e prefazione e note di P. Prunas, vol. I, Firenze, Le Monnier 1931, pp. 226-227. 38 Dizionario estetico di Niccolò Tommaséo, Quarta ristampa con correzioni e giunte molte di cose inedite, Firenze, Successori Le Monnier 1867, col. 877, s.v. C. Rovani. Cent’anni. – Romanzo. 39 Cfr. N. Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 8949 cit., I, pp. 226-227. 40 Ivi, I, pp. 419-420, Tommaseo, a tale proposito, scrive in una giunta: «e il presidente del tribunale, signor Abram, uomo non duro ma di strana goffaggine, fraintese anche questi (sc. versi); e si credette che io nella notte tenessi colloqui coi poveri navicellai di Chioggia giacenti 36
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Nella seconda parte della poesia il tema dominante è la bellezza del creato, che risplende più fascinosamente nel vari colori del cielo, ora coperto da un velo di nubi, ora radioso nella luce del sole, ma sempre fonte di dolci pensieri e sentimenti al prigioniero, che, guardando con il suo fioco occhio, attraverso la finestra della cella, i vari aspetti del cielo, intesse con questo un silenzioso dialogo e così attinge pace e serenità. Il tema della bellezza delle opere di Dio è di origine biblica: ricorre frequentemente soprattutto nei Salmi e nell’Ecclesiastico, dove è variamente sviluppato il motivo del «Caeli enarrant gloriam Dei».41 Tommaseo trae ispirazione specialmente da Ecclesiasticus 42,15-43,37, dove l’autore biblico canta la gloria di Dio nella natura. Il v. 93 «Ma chi de’ fiumi conterà le stille?» è un’evidente parafrasi di Ecclesiasticus 1,2: «Arenam maris, et pluviae guttas, et dies saeculi quis dinumeraverit?». La chiusa della poesia. «come fanciul che dal nuotato fiume / torna cantando, e vede al ciel salire / tra ’l verde il fumo dell’umil capanna», si tinge di colore virgiliano: «il fumo dell’umil capanna» è una suggestiva rimodulazione del v. 82 della prima Egloga: «et iam summa procul villarum culmina fumant». Il terzo componimento del trittico, Nella carcere, scritto il 5 marzo 1848, è un sonetto nel quale il poeta, parlando a se stesso, si prospetta un futuro più amaro e infelice della presente prigionia. Il carcere veneto, nella dolente visione di Tommaseo, si presenta come metafora di un carcere universale, che è il mondo stesso, nel quale molti uomini, pur avendo genitori e figli, sono soli: «Tutta la terra è di prigione un loco. / Quanti sgannati cuor, divisi e soli / come in deserto! e tienli in ghiaccio e in fuoco / sdegno e spavento: ed han madre e figliuoli». Il primo di questi versi, con la percezione della vita trascorsa in solitudine come in un carcere, esprime per il prigioniero un motivo di conforto, che si allarga e rafforza nella prospettiva cristiana dell’amore fra gli uomini, fondato sulla comune figliolanza divina. Nel dipingere la terra come un carcere Tommaseo trae ispirazione da un passo di Tertulliano, che, rivolgendosi ai martiri, in carcere in attesa del verdetto del giudice, così scrive: «Nec vos hoc consternet, quod segregati estis a mundo. Si enim recogitemus ipsum magis mundum carcerem esse, exisse vos e carcere, quam in carcerem introisse, intelligemus».42 Tommaseo prende l’avvio dall’immagine del mondo come carcere, ma poi procede in modo nuovo e originale: se per lo scrittore cristiano il carcere sottrae i cristiani ai pericoli e alle seduzioni del mondo e li prepara alla gloria del martirio, per il poeta l’esistenza dell’uomo è essa stessa
sulla riva del Ponte della Paglia. Li fece sfrattare di lì; né io sentii più nei silenzii notturni le voci, il cui suono, senza intenderne il senso, mi faceva compagnia nella mia solitudine». 41 Ps. 18, 1. Cfr. Ps. 91, 5-6; 101, 26; 103, 24: 110, 2; 138, 14. 42 Ad martyras 2,1. Accanto al riferimento tertullianeo non è da escludere una suggestione scespiriana: «Hamlet: Denmark’s a prison. / Rosenkrantz: Then is the world one», Amleto II, 2, 243-244. Gli Italiani all’estero e il loro contributo alle idee risorgimentali
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solitudine e sofferenza, come il carcere per il prigioniero; dalle pene della vita e del carcere può affrancarsi solo colui che apre il suo animo al colloquio interiore con Dio nello spirito di amore per tutti gli uomini. I patimenti sono strumento di purificazione e di elevazione, mentre sono da compiangere coloro che godono della prosperità indisturbata dei malvagi: «Quanta turba non vedi a piè ti giaccia / di schiavi e di signor? La gran famiglia / che Iddio ti diè (se pur sei degno) abbraccia: / e a Dio parla con essi, e benedici; / e di meglio patir ti riconsiglia; / e, s’hai lagrime ancor, piangi i felici». Così si chiude questa poesia, sul tema biblico dell’apparente felicità dei potenti e dell’aiuto che Dio concede agli umili.43 Agli anni dell’esilio a Corfù, dove il poeta si era rifugiato dopo la caduta della Repubblica di S. Marco nell’agosto del 1849, risale la poesia A Venezia: il Tommaseo la inviò a Gino Capponi con lettera dell’11 luglio 1851. Il carteggio tra i due amici, nei mesi di luglio, agosto, settembre di quell’anno, mostra i suggerimenti proposti da Capponi e le modifiche introdotte dal poeta e, al tempo stesso, chiarisce il senso preciso di alcuni versi mediante il richiamo di un verso di Orazio e di due passi delle Georgiche virgiliane.44 Spira in tutta la poesia un tono di mestizia e di sconforto, a cui risponde, come in una composizione contrappuntistica, l’appello all’aiuto divino e, in particolare, a S. Marco, il santo eponimo e protettore della sfortunata Repubblica. Nelle prime strofe la Repubblica di S. Marco appare personificata in tre immagini, suggerite da plastiche comparazioni.45 Il nome di Venezia sorge come il nuotatore che, travolto dalle onde, vince il mare avverso ed esce dal pelago tra lo stupore e gli applausi del mondo; Venezia si congiunge in nozze con l’onore, così come la sposa esce dalla gondola e va incontro all’uomo amato; come una madre povera e sola nutre con il suo lavoro i figli, così il popolo veneziano ha donato sangue e oro, accettando la fame come sorella. Dopo la caduta della repubblica i veneziani, di nuovo sottoposti all’Austria, si sono ritrovati esuli in terra patria. Nelle strofe ottava e nona Tommaseo dà voce commossa ai suoi sentimenti di amore e fedeltà alla città di Venezia, che egli considera sua patria ideale: ad essa egli offre quel poco di vita che ancora gli resta e il fioco lume dei suoi occhi, su cui incombe la cecità. Spira in questi versi un caldo afflato lirico, che trasfigura in autentica poesia la passione patriottica. L’ode si chiude cin un’accorata invocazione a S. Marco e agli angeli celesti perché da essi venga la salvezza alla sua Venezia, alla Venezia di Tommaseo, che, sebbene vinta, con il suo eroico agire e la sua
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Cfr. Ecclesiasticus 10,17; Is. 40, 23; Ps. 106, 40-41; 114, 6; 137, 6; 149, 4. Cfr. le note di A. Borlenghi ai vv. 41-44 in N. Tommaseo, Opere cit., pp. 42-43. 45 Sull’uso e abuso di personificazioni nella poesia tommaseana, cfr. G. Debenedetti, Tommaseo cit., pp. 68, 189-190. 44
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nobile compostezza nella sventura, assurge ad una grandezza spirituale di gran lunga superiore al violento potere dei re e diventa motivo di vergogna per i vincitori. Tutta la lirica è permeata di un’aura di religiosità pacata e grave, di mestizia oscillante tra l’infinito rimpianto e la sublime speranza, di magnanima malinconia che nasce dal dolore vivo per la patria oppressa. In questi sentimenti è la profonda unità poetica del carme.
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NIKICA MIHALJEVIĆ Un Italiano in Dalmazia precursore del Risorgimento: l’abate vicentino Bernardino Bicego
0. Riassunto L’abate Bernardino Bicego visse a Spalato per dodici anni lavorando come professore nel seminario arcivescovile spalatino, passando poi a Zara, dove si fermò per un breve periodo. Tra i suoi allievi il più famoso fu di certo Niccolò Tommaseo, ma vi troviamo anche lo spalatino Stipe Ivačić e altri. Durante questo soggiorno Bicego scrisse alcune opere didascaliche, tra le quali I contorni di Spalato, poemetto in tre canti, che attira l’attenzione sia per l’interesse che l’autore dedica alla Dalmazia sia per l’insegnamento che vuole impartire agli abitanti di questo territorio invitandoli a migliorare le condizioni difficili ed arretrate dell’agricoltura. Inoltre, l’opera rivela l’interesse dell’autore non solo nei confronti delle condizioni economiche nella Dalmazia, ma soprattutto mette in rilievo l’importanza storica della regione e le risorse potenziali della zona. Pubblicato nel 1814, il poemetto precede di mezzo secolo il Risorgimento in Dalmazia, ma la sua originalità non sta soltanto nello spronare i Dalmati a utilizzare meglio le strutture agrarie; dietro questo insegnamento si rivela il desiderio di risvegliare il sentimento patriottico negli abitanti di questa terra ed un invito indiretto a scoprire la propria patria. In questo senso l’opera dell’autore italiano appare sull’orizzonte letterario cronologicamente prima di un’opera monumentale croata, Storia della Dalmazia di Ivan Katalinić, in cui si fa appello ai Dalmati perché utilizzino di più la loro lingua, e non quella ufficiale imposta dal governo straniero. L’opera di Bicego precede quest’opera di ben vent’anni, dimostrando che un autore italiano, offrendo agli abitanti della Dalmazia gli esempi italiani, ha contribuito a suo modo al risveglio nazionale del sentimento patriottico in Dalmazia.
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Nikica Mihaljević
1. Introduzione L’abate Bernardo Bicego,1 nato nel 1771 e morto nel 1836, come ci ricorda Mate Zorić,2 fu il professore di Niccolò Tommaseo nel seminario spalatino (dove studiò, come lo rammenta Tommaseo,3 tra altri, anche Ugo Foscolo), e dove insegnò, secondo Zorić, a partire dal 1807 (probabilmente Zorić avrà preso l’informazione sulla data dell’arrivo di Bicego dal Dizionario biografico di Ljubić), mentre Tommaseo puntualizza che Bicego vi arrivò nel 1810.4 Bicego si fermò a Spalato, ci sembra dalle fonti, per ben 12 anni, per passare poi a Zara, dove rimase soltanto per un breve periodo.5 Durante il suo soggiorno in Dalmazia scrisse alcune opere di carattere didascalico, ma tra di esse le più importanti sono il poemetto Avvertimenti morali e letterari a’ suoi scolari dalmatini (1813), il poemetto in tre canti I contorni di Spalato (1814) e il poemetto Itinerario da Nona a Narenta per S. M. Francesco I (1818).6 Diversi autori menzionano quanto Bicego abbia contribuito alla formazione del giovane Tommaseo7 e il Tommaseo stesso ricorda quest’uomo non dimen-
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L’opera letteraria di Bernardino Bicego è oggetto di ricerca anche di Tonko Maroević nel suo intervento al Convegno «Il Classicismo in Dalmazia» tenutosi a Spalato nel giugno del 2011, dove Maroević analizza l’opera di Bicego Avvertimenti morali e letterari a suoi scolari dalmatini. 2 M. Zorić, Književni dodiri hrvatsko-talijanski, Split, Književni krug 1992, pp. 369-370. Qui Zorić indica soltanto l’anno della morte dell’abate. 3 «Il seminario di Spalato a tutta la provincia fecondo, che accolse scolaro Ugo Foscolo nel penultimo decennio del secol passato, sul principio del nostro invocava maestri italiani, tra gli altri Bernardino Bicego di Vicenza», N. Tommaseo, Via facti. La Croazia e la fraternità, Trieste, Colombo Coen 1861, p. 15. 4 Vedi la nota 8. 5 «Dopo dodici anni dipartitosi da questa città, per breve tempo trattenevasi nel ginnasio di Zara, quindi in qualità di prefetto governava quel di Legnago, poscia le veci di direttore nei licei, sosteneva prima di Udine e poi di Vicenza stessa, dove moriva nel 1836». (Š. LJubić, Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia, Vienna, Lechner – Zara, Battara e Abelich 1856, p. 32.) Ljubić rileva che Bicego scrisse anche orazioni in lingua latina e italiana. 6 Tra questi, nella sua opera Bibliografia della Dalmazia e del Montenegro Giuseppe Valentinelli menziona soltanto gli ultimi due, cfr. G. Valentinelli, Bibliografia della Dalmazia e del Montenegro, Bologna, Zagabria, coi tipi del dr. Ljudevito Gaj 1855. 7 «Altro suo maestro fu l’abate Bernardino Bicego, vicentino, che passò poi insegnante nel ginnasio di Legnago, e da ultimo, nel gennaio del 1827, direttore del Liceo di Udine. […] Amò sempre molto il Tommaseo, e lo seguì, finché visse, nella sua attività letteraria, gioì dei suoi primi trionfi, e cercò di non farsi dimenticare da lui. […] I primi passi del T. nella difficile via delle lettere lo colmarono di gioia; lo vedeva già famoso e grande, e gli pareva che qualche piccolo raggio di quella gloria gli appartenesse, e chiedeva senz’altro che il T., in quello che scriveva, si ricordasse di lui», R. Ciampini, Studi e ricerche su Niccolò Tommaseo, Roma, Edizioni di storia e letteratura 1944, pp. 51-52. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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ticando di menzionare il merito del famoso vicentino nei suoi primi studi, mettendo il rilievo che l’abate ci teneva soprattutto a sviluppare negli allievi l’amore verso il sapere.8 Tommaseo non dichiara quanto Bicego abbia contribuito a incitare il suo sentimento patriottico, anche se questa simpatia verso la Dalmazia di Bicego, come lo attesta l’autore stesso, è stata molto forte.9 Dalle sue opere risulta che Bicego si sia talmente affezionato alla Dalmazia, che non poteva non parlarne più volte, cercando di far apprezzare ai Dalmati non soltanto le bellezze naturali della zona, ma anche le potenzialità agrarie. Ma prima di tutto l’occhio di Bicego è rivolto verso il patrimonio storico-culturale della Dalmazia il quale tende ad essere trascurato e dimenticato dai suoi abitanti. A partire dal 1807, Bicego è un residente della Dalmazia che la osserva con occhio attento, non lasciandosi sfuggire nulla, ma il suo patrimonio culturale italiano inevitabilmente gli fa in continuazione paragonare la Dalmazia con la patria. Di conseguenza, nell’opera di Bicego sono frequentemente ravvisabili i commenti su come alcuni atteggiamenti, soprattutto nell’ambito agrario, sarebbero impossibili in Italia. Questo intervento si pone lo scopo di dimostrare che attraverso l’opera I contorni di Spalato l’abate vicentino cerca di approfittare degli insegnamenti agricoli per rivolgersi ai Dalmati riguardo il fatto che dovrebbero diventare coscienti della tradizione e delle specificità della loro terra, le quali li accomunano, mentre loro le tendono a dimenticare e a trascurare. In questo senso l’opera letteraria del vicentino assume l’importanza anche fuori del contesto letterario, nel contesto sociale, e rappresenta un valoroso insegnamento al popolo della Dalmazia prima del periodo storico del Risorgimento dalmata. 2. I contorni di Spalato Il poemetto I contorni di Spalato è dedicato a Radoš Ante Michieli Vitturi, autore
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«A questo seminario diedero dal 1810 novella vita Bernardino Bicego vicentino, e Pietro Bottura veronese; che, insieme con Niccolò Didos, G. Tochich, Spiridione Carrara, dalmati di sapere e di virtù, sanamente allevarono più generazioni, che tuttavia li rammentano benedicendo. A Bernardino Bicego, che sapeva, alternando la lode arguta col biasimo destatore, la famigliare piacevolezza con la inaspettata non brusca severità, scuotere gli animi insieme con le menti, ed infondere ciò che val più d’ogni sapere, l’amor del sapere; a Bernardino Bicego io debbo il primo avviamento nel difficile cammino delle lettere liberali», N. Tommaseo, Dizionario estetico, Firenze, Le Monnier 1867, p. 380. 9 «/ In quella parte, ch’all’Illirio in grembo / Tra le braccia del Tizio, e del Narone / Come in amplesso di perenne amore / Stretta sen giace, e che Dalmazia ha nome; / Posta è la bella; e a me sì cara sponda», B. Bicego, I contorni di Spalato, Zara, Antonio e Luigi Battara 1814, p. 5. Gli Italiani all’estero e il loro contributo alle idee risorgimentali
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del Saggio epistolare sopra la reppublica della Dalmazia pubblicato nel 1777. Con questa dedica, a Michieli Vitturi viene riconosciuto di aver avuto dei meriti per aver sottolineato tra i primi la gloria della Dalmazia e le sue peculiarità nonché si preannuncia il tono del poemetto avvertendo i lettori che nei versi successivi l’attenzione verrà posta sulla specificità della Dalmazia e sulle caratteristiche che la differenziano da altre zone. Il poemetto, in cui non mancano i neoclassicismi caratteristici per i versi ottocenteschi di altri autori italiani, si apre con la descrizione della posizione geografica di Spalato, situata ai piedi del colle Marjan.10 L’autore sostiene, citando Plinio, che proprio nella zona intorno al colle vi siano state delle miniere d’oro delle quali, con il tempo, si sono perse le traccia. È il primo di una serie di elogi che, lungo il poema, Bicego fa nei confronti della Dalmazia. Questo elogio colpisce l’attenzione soprattutto quando nei versi successivi l’autore fa riferimento agli scavi di Savona, descritti nello stato di completa trascuratezza, mentre, secondo Bicego, dovrebbero rappresentare la magnificenza della storia della Dalmazia. Le parole scelte dall’autore hanno lo scopo di colpire il lettore («il solo tratto d’orrore», «spavento», «orrendo spettacolo») perché, evocando l’ambientazione simile a quella cimiteriale, Bicego intende far rammentare ai Dalmati che, se le battaglie del passato hanno distrutto Salona, ciò non significa che gli abitanti di questo territorio devono dimenticare la gloria di Salona la quale conferma la lunga tradizione di questo popolo. Dall’inizio del poemetto l’autore pone in rilievo che la terra in Dalmazia, nonostante il lavoro dei contadini, rimane arrida e che i suoi abitanti dovrebbero impegnarsi più assiduamente nel coltivarla. D’altra parte, proprio lo stato attuale delle condizioni agrarie conferma, secondo Bicego, il carattere poco intrapredente dei Dalmati. L’esempio delle viti che vengono coltivate in modo tale che serpeggiano per terra e non sollevate da terra come, invece, è il caso tra gli agricoltori in Italia, offre la possibilità all’autore di dimostrare che gli abitanti della Dalmazia non conoscono i modi per coltivare le viti i quali incrementerebbero la produzione agricola. Ma la vite è, allo stesso tempo, il simbolo del Dalmata stesso, in quanto da sola non è capace di sollevarsi in alto e proteggere i suoi frutti dagli animali e insetti, ma ha bisogno del sostegno di un altro albero o di un attrezzo fatto da uomo. Così anche il Dalmata ha bisogno del modello da seguire e dell’aiuto per migliorare la propria situazione. Perciò Bicego menziona i vigneti di Chioggia che «possono servir di modello a tutti quei popoli, che vogliono compensar colla loro industria i difetti della Natura […]».11 Usando la metafora della vite, Bicego richia-
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«Essa come appendice di quel colle, / Ch’un tempo forse per feconda vena / Del bel metallo, che agli umani sguardi / Sì dolce brilla, ancor aureo s’appella, / Con l’elevato petto all’Adria in riva / Soavemente si dilunga, e stende». Ibidem 11 Questi esempi l’autore li cita nella nota 4 al Canto primo, ivi, p. 27. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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ma l’attenzione del lettore12 per fargli cambiare atteggiamento, ma allo stesso tempo sottolinea a quali pericoli è esposto il Dalmata, ovvero lo avverte che, se non protegge i frutti del suo lavoro, cioè il patrimonio della propria terra, altri popoli potranno approfittare di quel patrimonio che da sempre è il bersaglio dello straniero. Facendo quest’ osservazione, l’autore rammenta che non sempre bisogna seguire i modi e i metodi dei propri avi13 ma conviene seguire prima di tutto la ragione e, cercando di ottenere più profitto dal proprio lavoro, seguire coloro che in quel lavoro sono migliori. Queste idee illuministiche Bicego combina con l’esempio dell’armonia ravvisabile in natura, dove gli animali si impegnano a riscuotere quanto più sia possibile a proprio favore, non lasciando nessuno spreco.14 Ricorda che la natura dell’uomo è tale che non gli permette di essere persistente nel fare e seguire gli errori,15 ma il suo intelletto lo richiama all’ordine per non accontentarsi mai ma cercare sempre di migliorare. È un altro invito ai Dalmati di non ripetere gli errori del passato ma di, seguendo il modello di chi vive nelle condizioni economiche migliori di loro, organizzarsi per migliorare anche la propria situazione. I Dalmati, secondo Bicego, non possono dare la colpa al passato e alle situazioni storiche, ma devono volgere lo sguardo verso un altro futuro, dando a se stessi la possibilità di cambiare il contesto in cui vivono. A proposito, Bicego consiglia di imitare «un popolo ai Numi prediletto»…16 non esprimendo chiaramente a chi si riferisse. Tuttavia, subito dopo fa’ una serie di elogi all’Italia definendola migliore nel settore agricolo17 e si rivolge direttamente ai Dalmati chiedendo a loro di essere più ragionevoli e di imparare da questo modello,18 nonché di risultare meno assoggettati al proprio carattere e alla propria indole restia ai cambiamenti,19 perché il momento storico che stanno vivendo chiede da
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«Lasci egli, al sozzo crocitante corvo / Di sempre satollar l’ingorde voglie / D’abbominoso pasto, e lasci al turpe / Putido scarafagio il vil costume / Di là sempre strisciarsi, dove guardo / Se non è immondo, penetrar non osa», ivi, p. 16. 13 «E che giova, che tal fosse degli Avi / La pigra rustichezza?», Ibidem. 14 «Imiti l’uomo l’ingegnosa pecchia, / Che dai fior più fragranti il miglior suco / Con sollecita cura delibando», Ibidem. 15 «Tal sia dell’uomo lo studio, e di Natura, / Non degli error seguace, attento osservi / Sempre l’opre migliori», ivi, p. 17. 16 Ibidem. 17 «Ah! Dolce Italia, ah mio nido, che sempre / Del più caldo desio m’agiti il cuore, / Chi fia, che de’ tuoi campi le dilizie / Pareggiar osi, e a te l’onor contenda / Della bella divina agricoltura?», Ibidem. 18 «Sì, da te apprenda il Dalmata ingegnoso, / Fatto più docil di ragione al grido, / L’arte di collocare i bei vigneti», ivi, p. 18. 19 Nella nota 5 al Canto primo Bicego si chiede quale sarebbe la ragione di un tale atteggiamento che contribuisce anche a distruggere la frutta: «Ma sì poca è la cura che vi si presta, che se na va distruggendo la stirpe, anzi che propagarla. Dunque agli Spalatrini non piacciono Gli Italiani all’estero e il loro contributo alle idee risorgimentali
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loro l’apertura nei confronti delle innovazioni nel campo della scienza e della tecnica. Ma quando l’autore invita i Dalmati a scegliere l’Italia come modello da seguire,20 essendo consapevole delle potenzialità che vi sono in Dalmazia, in realtà li vuole invogliare di seguire le idee prerisorgimentali in Italia con le quali si vuole rendere un popolo cosciente dei propri valori e del proprio patrimonio storico-culturale. Il canto primo del poemetto termina così tra la descrizione delle abitudini dalmate nelle quali Bicego trova le somiglianze con le abitudini dei Turchi, molto diverse da quelle italiane, e il riferimento ai Sepolcri di Foscolo21 (pubblicati sette anni prima di questo poemetto) con il quale si vuole scuotere i Dalmati rammentando che la madre terra va rispettata, perché da essa l’uomo è nato e sotto terra tornerà.22 Il canto secondo si apre con i toni più placati rispetto al canto primo e qui Bicego descrive, con i frequenti riferimenti alle figure mitologiche, le grandezze storiche nonché gli importanti aspetti geografici della Dalmazia. Parte così dalla storia di Diocleziano, per arrivare a parlare di altre cittadine importanti nella storia della Dalmazia, come Epezio e Almissa. Bicego chiama Diocleziano il «saggio» e con una sineddoche sottolinea quanto grande fu il potere di Diocleziano,23 ma allo stesso tempo utilizza il riferimento all’imperatore romano per dare l’importanza alla città di Spalato, ovvero al Palazzo di Diocleziano, dal quale in seguito si sviluppa la città e dove proprio Diocleziano scelse di vivere abdicando dal trono.24 Tuttavia, il governo di Diocleziano ricorda l’assolutismo di Napoleone, e perciò i Dalmati potrebbero imparare che storicamente erano sottomessi ai governi stra-
le buone frutta? Anzi io ne conobbi pochi, che ne sieno sì ghiotti. Qual è dunque la ragione, che in un clima sì adatto, e in fondi tanto benigni non vogliono indursi a coltivar le piante fruttifere?», ivi, p. 28. 20 «Ah! se fia, ch’ei ti scelga a sua maestra, / Quanto belle saran, quanto mai ricche / Queste fertili sponde», ivi, p. 18. 21 «se pia la terra / Che lo raccolse infante e lo nutriva, / Nel suo grembo materno ultimo asilo / Porgendo, sacre le reliquie renda / Dall’insultar de’ nembi e dal profano /Piede del vulgo», U. Foscolo, Dei sepolcri, in Liriche scelte. I sepolcri e le grazie, Firenze, Sansoni 1964, p. 62. 22 «Ah! vi destate, insani, vi destate: / Ogni dovizia, ogni più bel tesoro / Dalla terra si tragge, a lei dobbiamo / Il riposo, e la vita, ella ci accoglie / Nel suo sen nascenti», B. Bicego, I contorni di Spalato cit., p. 21. 23 «Con quella man, ch’al barbaro Oriente / Più volte apparve fulmine di guerra». (ivi, p. 32.) Questi versi ricordano alcuni versi dell’ode di Manzoni, Il cinque maggio, scritta sette anni dopo questo poemetto: «Dall’Alpi alle Piramidi, / Dal Manzanarre al Reno, / Di quel securo il fulmine / Tenea dietro al baleno», A. Manzoni, Il cinque maggio, in Poesie e tragedie (a cura di Alberto Frattini), Brescia, Editrice La Scuola 1981, pp. 309-310. 24 «Riconoscilo, è questo il vago loco, / Che tanto piacque al gran Diocleziano, / Ch’ogni desio di palme, e di comando / Nel magnanimo cor spegner poteo», ivi, p. 32. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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nieri e che non dovrebbero assoggettarsi mai più ad un tale dominio. Nonostante invitandoli ad uscire dall’oscurità del passato, l’autore pone l’attenzione del lettore sull’importanza storica delle cittadine lungo la costa. Così scrive di Epezio (l’odierna Stobreč) rimpiangendo che «Già le barbarie, e il tempo de’ superbi / Palagj, e templi, e delle ferme torri / Che quivi forse, opra d’illustri fabbri, / E di regal ricchezza, a’ dì migliori / Alto sorgean, ne scancellaro ogn’orma»,25 mentre di Almissa (l’odierna Omiš) ricorda come nel passato era il covo dei pirati.26 Ma parlando della rilevanza storica delle cittadine l’autore approfitta per riprendere a lodare anche altre richezze dalmate,27 e si sofferma più a lungo sul panorama avvenente che offrono le isole davanti a Spalato. La descrizione delle isole si apre con la figura mitologica di Artemide, attraverso la quale il poeta vuole cantare la bellezza desolata di questi posti, che abbondano di lepri e altri animali selvaggi. L’abbondanza dei frutti e degli animali sulle isole gli ricorda che la natura è benigna nei confronti dell’uomo, ma è l’uomo che non sa come trattarla: essa provvede al benessere dell’uomo, ma lui la ignora. Dai versi risulta chiaro il riferimento all’indolenza del popolo dalmata28 che, secondo l’autore, essendo incolto, non sa riconoscere in essa tutto quello che la natura procura per l’uomo e davanti a tutti i beni della natura rimane assopito: «E l’uomo intanto / Della sublime sua natura in onta / Sen giace in braccio a sconoscenza, e dorme?»29 Il lettore non può non notare che l’autore approfitta dell’elenco dei prodotti che si possono ottenere coltivando la terra dalmata per parlare dello stato apatico del Dalmata,30 cercando di destarlo sottolineando l’invidia che gli abitanti della Dalmazia potrebbero suscitare in altri
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Ivi, p. 37. «L’antico di pirati orrido nido, / Dove il Cetina con lo stanco flutto / Negli abissi del mar cerca riposo», ivi, p. 39. 27 Bicego descrive le bellezze del fiume Žrnovnica con queste parole: «Per lo mezzo la parte un fiumicello / D’acqua perenne, e nel maggior suo vano / Per alcun tratto con tranquilli flutti / Il mare lo penetra, che mescendo / L’onde salse alle dolci, in larga copia / Pesci v’accoglie di sapor prestante», ivi, p. 37. 28 «O ingegno di natura! in quante forme, / Quanto benigna tu dell’uom provedi / Ai bisogni, e aî diletti in questa parte / D’occulto Mondo, in cui sembra che mai / Abbia spinto i suoi guardi alma gentile, / Alma amica alle muse, alma, che i Numi / Soglion scevrar dal volgo», ivi, p. 42. 29 Ivi, p. 44. 30 Nella nota 7 al Canto secondo l’autore rimprovera fortemente gli spalatini per il loro carattere ozioso e negligente: «Ma il monte, detto Margliano, quel monte, che Diocleziano avea consacrato a Diana, […] che questo monte oggi non sia più, che un nudo nudissimo scoglio, a riserva d’un breve tratto verso mezzogiorno, dove si coltivano con alcuni vigneti gli ulivi, questo veramente rimprovera, non so se io dica il genio neghittoso, e distruttore degli Spalatini», ivi, p. 59. 26
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popoli se si svegliassero: «/ O fortunati abitator, se noti / Fosservi i vostri beni! un sol momento, / Ch’alla ragione docili voleste / Prestare orecchio, e volgere le pupille / Alla luce, onde altrove Agricoltura / Tanto rifulge, e qual parte del mondo / Oserebbe con voi mescer suoi vanti?»31 Anche Bicego sottolinea il suo desiderio di poter vivere su una delle isole coltivando la terra, mentre, invece, è condannato a poter soltanto osservarle da lontano. Però, dietro questa sua brama si rivela il disgusto per lo stato in cui si trova l’ambiente che, invece, circonda l’autore, ovvero il palazzo di Diocleziano,32 in quanto trascurato dal volgo che non sapeva prendersene cura. Il canto secondo finisce, attraverso i riferimenti foscoliani, con il ricordo della peste a Spalato, avvenuta, come leggiamo nel testo, trent’anni prima che l’autore scrisse questi versi, e la quale causò tante vittime. Con la descrizione della peste che colpì Spalato Bicego vuole rammentare che non tutto nella vita dipende dalla volontà dell’uomo. Allo stesso tempo, nel ricordo della peste si rivela il tono religioso che Bicego non dimentica di dare al poemetto: gli ultimi versi rappresentano un inno alla gloria divina ripetendo che l’uomo deve accettare anche le disgrazie perché la giustizia divina regna sopra tutti e tutto. Il canto terzo, dopo le riflessioni pacate del canto secondo, riprende i toni più battaglieri come quelli presenti nel canto primo, per chiudere il discorso iniziale con una struttura circolare. Ora, dopo aver cantato del modo errato con il quale i Dalmati coltivano la terra, e dopo aver elencato le sciagure e altri ostacoli che rendono la situazione in agricoltura ancora più complicata, l’autore si impegna nel dare gli ultimi consigli e insegnamenti ai Dalmati per assoggettare il loro destino. Più volte nel canto terzo si ripete la parola «patria», con la quale si sottolinea che l’amore nei confronti della patria dovrebbe essere un sentimento che unisce e avvicina i Dalmati. Subito all’inizio del canto terzo l’autore si rivolge alla Società Economica di Spalato, la quale aveva lo scopo di promuovere l’ambiente agricolo, commerciale e meccanico, per convincere i membri di questa società che non possono sottostare agli agricoltori, ma li devono persuadere con maestria che l’insegnamento che i contadini hanno ricevuto dai loro avi non sempre è quello migliore, a tal punto che gli indocili villani cambino atteggiamento. L’invito «Da voi, sì, da voi deve aver principio / Il desiato cangiamento»33 rivolto agli intellettuali dalmati in realtà ha lo scopo di migliorare le condizioni economiche della Dalmazia e di utilizzare nel migliore dei modi il patrimonio naturale ed agrario. Bicego parla del cambiamento, cosciente che la situazione in Dalmazia ha urgentemente bisogno di
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Ivi, p. 45. «Ah! più non trovo, / Che il tristo avanzo di pochi archi infranti, / Cadenti merli, e logorate mura», ivi, p. 47. 33 Ivi, p. 63. 32
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innovazione e rinnovamento, e non solo al livello agrario ed economico. Anche in questi versi l’autore usa i toni forti e mette ancora una volta in antitesi i Dalmati assonnati ed inerti contro la loro patria che si trova in difficoltà: «Essi, che di lor opre, e lor virtudi / Porger denno ai minor modello, e scrota, / A lor dotta indolenza avviticchiati / Russar la note, e sbadigliar il giorno, / Quando la patria se ne muor di stento?».34 L’autore vi critica di nuovo il modo con il quale i Dalmati coltivano la terra rilevando che è giusto che arrossiscano quando esaminano il loro lavoro: «/ Guardate un poco, e debito rossore / Di voi vi prenda […]».35 In più, l’autore non riesce a nascondere la sorpresa davanti al fatto che i bachi da seta tempo fa venivano coltivati in Dalmazia e invece oggi non si trova la minima traccia di questo bruco, come anche rimane stupito del fatto che all’albero di gelso non viene prestata l’attenzione nella coltivazione di questo frutto. Bicego canta del gelso menzionando le figure mitologiche, come la coppia di Piramo e Tisbe, per attribuire ancora più importanza a questa «divina pianta»36 la quale, invece, riferendosi ai Dalmati, viene «da voi negletta».37 Oltre a ciò, il canto terzo offre delle descrizioni interessanti di altre abitudini dei Dalmata, come, ad esempio, quelle che riguardano le costruzioni in cui abitano.38 Queste descrizioni servono all’autore soprattutto per volgere l’attenzione al modo sbagliato in cui i Dalmati si rapportano con tutto il loro ambiente circostante; così l’autore subito passa a porre le domande, ancora una volta, a cosa serve avere qualcosa, se non lo si sa utilizzare a modo proprio: «/ Suoi pascoli che giovani, se in frutto / Se n’ha gregge meschin di rozzi velli, / Onde in vano si spende ogni travaglio? / Che sí v’accieca? Qual sì fero ingegno / A non curare del lanuto gregge / L’util vi spinge?»39 Bicego è cosciente che il commercio delle pelli può rappresentare una risorsa molto importante per la Dalmazia,40 e non capisce come mai non se ne rendono conto anche gli abitanti, dato che non curano a modo gli animali e quindi la pelle che ne traggono rimane ruvida e mal fatta. Oltre a ciò, dando l’esempio delle fabbriche di ferro e di carta che in Italia sono costruite
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Ivi, p. 66. Ivi, p. 70. 36 Ivi, p. 71. 37 Ivi, p. 75. 38 «Mal legate paglie / Sono il suo tetto, o dai ciglion dei monti / Poche scaglie divelte, onde fra i gessi / Che le dividon venti e piogge, e nevi / Possono penetrarvi a lor talento, / Ed investir la terra, su cui dorme / L’uomo disteso», ivi, p. 76. 39 Ibidem. 40 Nella nota 5 al Canto terzo troviamo un’osservazione molto critica a proposito del commercio a Spalato: «La Dalmazia fa tuttora un commercio di pelli […]. Eppure a Spalato un pajo di scarpe costa il doppio che a Venezia, e senza la pretesa che sieno ad uso di Parigi, di Milano, o di Vienna», ivi, p. 92. 35
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sui fiumi, invita i Dalmati di seguire questo modello, sottolineando che in Dalmazia sul fiume Jadro ci sono solo alcuni mulini e potrebbero, invece, esserci diverse fabbriche. Bicego ribadisce che Dio fa i doni all’uomo, ma l’uomo non li sa apprezzare e accettare, com’ è il caso nella produzione della carta.41 Anche in questo caso, l’autore, per attirare l’attenzione del lettore, cerca di alzare i toni per far capire ai Dalmati che il loro benessere dipende soltanto da loro stessi: «/ Ah! Spalato, ah! infingarda, o quante frutta / A tuo gran stento dell’ingegno altrui / Pagar tu devi, e che potriano pure / Maturar ne’ tuoi campi […] Nulla a te manca, purchè in te si desti / Del buon volere la presente fiamma».42 Il canto terzo finisce con l’ultimo invito rivolto ai cittadini di Spalato di svegliarsi e di cambiare la situazione in cui si trovano, nonché di dimenticare che stanno pagando le colpe dei propri avi, i quali non sapevano accettare i cambiamenti: Spalato, udisti? aimè, che d’un sospiro Tu mi rispondi, e sugl’immoti lumi Cotai grosse spuntar lagrime io veggio, Che ben intend quanto dir vorresti A tua discolpa. Ah! taci, e lo passato Non rammentarmi: in nobile silenzio Filial riverenza ricoprire Deve le colpe degli estinti padri.43
In questi versi Bicego fa un invito diretto ai Dalmati a non guardare più il passato ma volgere lo sguardo verso il futuro, diversamente da come si sono comportate le generazioni precedenti. Chiaramente, quest’appello non riguarda soltanto la stiuazione economica in Dalmazia, ma prima di tutto il carattere dei Dalmati e la loro titubanza nell’accettare le innovazioni e nel cambiare la situazione presente. 3. Conclusione Anche se a prima vista il poema di Bicego sembra soltanto didattico, una lettura più approfondita rivela che le intenzioni di Bicego superavano il semplice insegnamento del come migliorare le condizioni agrarie in Dalmazia, ma piuttosto avevano lo scopo di rendere coscienti i Dalmati della specificità del loro popolo e delle potenzialità della loro terra. Così si scopre l’interesse di questo importante vicenti-
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«E qual poteano far dono più gentile / All’Uom gli Dei, che la difficil arte / D’imitare il Papiro», ivi, p. 82. 42 Ivi, p. 84. 43 Ivi, p. 87. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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no nei confronti della terra dalmata, l’amore che lo legava a questa terra, nonché la voglia di contribuire al risveglio della coscienza nazionale. A questo, poi, ci arriveranno alcuni scrittori dalmati come Stipe Ivačić e Niccolò Tommaseo, ma per riscoprire lo stesso interesse nelle loro opere dovremo aspettare altri vent’anni.
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IDENTITÀ NAZIONALE E COSMOPOLITISMO PRIMA E DOPO L’UNITÀ
COSTANZA GHIRARDINI Dal gusto «nostro» al gusto «alemanno»: la prospettiva di Aurelio de’ Giorgi Bertola
Aurelio de’ Giorgi Bertola può essere certamente considerato uno tra i letterati più attenti agli influssi europei del secondo Settecento. Egli seppe interpretare con spirito critico ciò che si andava elaborando oltre le Alpi, confine geografico di un’Italia ancora da costruire, ma fortemente percepita come entità culturale autonoma in opposizione a modelli letterari di altre nazioni: colse così elementi fondamentali per l’approfondimento della propria poetica e forse anche per la ricerca di uno spazio definito e di rilievo nel mondo affollato delle Lettere. Oggi infatti non lo ricordiamo solamente per la qualità delle sue opere, ma ci colpisce anche l’interesse dimostrato sia in veste di traduttore, sia di critico della letteratura tedesca. Una predilezione, quella per il Parnaso alemanno, che Bertola coltivò fin dalla giovane età, come dimostrano i suoi esordi letterari: già nel 1774, ventunenne, egli pubblicò Le quattro età della donna, traduzione del poema di F. G. Zachariae, la sua prima traduzione e appena un paio di anni più tardi apparvero ulteriori versioni in italiano di testi in lingua tedesca.1 Fu quindi nel biennio ’74-’76 trascorso tra i colli senesi, e fondamentale per la sua formazione culturale,2 che iniziò ad approfondire
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In Studi su Aurelio Bertola nel II centenario dalla nascita, Bologna, STEB 1953, pp. 285-319 sono segnalate le seguenti opere: Le quattro età della donna, traduzione del poema di F.G. Zachariae, Firenze 1774; Due Canti di un poema tedesco. In: Biblioteca salanense, di Firenze 1776; Due idilli di Gessner, tradotti dall’alemanno, in «Antologia Romana», III (1777), pp. 225 e 233; Ode di Gessner, tradotta in sestine, in «Antologia Romana», III (1777), p. 407; Scelta d’Idilli di Gessner, tradotti dal tedesco, Napoli, presso Fratelli Raimondi MDCCLXXVII; Poesie diverse tradotte dall’alemanno. In: Per le nozze del conte Francesco Piccolomini e contessa Francesca Bertozzi, Napoli, Raimondi 1777; Ode alemanna, in «Gazzetta dei Semplici», 1777; Lettera di Gessner, tradotta dall’alemanno, in «Antologia Romana», gennaio 1778. 2 Alessandra Di Ricco ha dimostrato come gli anni senesi abbiano contribuito alla matura produzione letteraria del Bertola: L’esordio poetico: le Notti Clementine in Un europeo del Settecento. Aurelio de’Giorgi Bertola riminese, a cura di A. Battistini, Ravenna, Longo Editore 2000. Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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gli studi di germanistica e probabilmente con finalità di vario genere, non unicamente volte al puro piacere letterario. In tale periodo Bertola appare infatti concentrato ad investire tutto il tempo libero dagli impegni della vita religiosa nel tentare di porre le basi per un futuro percorso da uomo di Lettere, possibilmente oltre le mura dell’abbazia di Monte Oliveto, come dimostra il carteggio tenuto coll’abate senese Gian Girolamo Carli.3 Sembra lecito ipotizzare che proprio le conoscenze nell’ambito della letteratura tedesca e conseguentemente il contributo innovativo che poteva portare al «Giornale letterario» di Siena abbiano esercitato un ruolo importante nella collaborazione con Giuseppe Pazzini Carli, editore del periodico; l’attività giornalistica rappresentava inoltre un’ulteriore opportunità per varcare i confini ormai angusti della piccola città toscana, in quanto la distribuzione del giornale pare toccasse numerose e importanti centri della penisola: Pisa, Firenze, Modena, Bologna, Milano, Venezia, Palermo e infine Roma.4 A tal proposito è rilevante il seguente avviso del giornale, nel quale traspare l’intento autopromozionale del Bertola, oltre ad una chiara indicazione di poetica: Delle Notti di Young traduzione di Giuseppe Bottoni, seconda edizione […] Siena presso Luigi e Benedetto Bindi. 1775 […] Ha la Francia a quest’ora dei Pensieri Notturni. La Germania vanta le solitudini del Barone di Cronegk. Anche l’Italia ha le sue Notti Clementine, moltiplicate recentemente in varie edizioni.5
Del «Giornale letterario» Bertola fu il primo direttore, dal gennaio all’aprile 1776, definendo fin dal numero iniziale la linea editoriale, fissata soprattutto attraverso i suoi contributi, cospicui anche dopo la partenza per Napoli: La Germania vanta nel giro di pochi lustri tanti gran poeti d’ogni genere, quanti ne
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Gian Girolamo Carli fu nominato segretario perpetuo dell’Accademia Reale di Mantova, perciò nel 1774 si trasferì nella città lombarda. Le lettere del Bertola al Carli sono conservate nella Biblioteca Comunale di Siena e sono state pubblicate da Franco Betti, Lettere inedite dell’Abate Bertola a G.G. Carli, in «Forum Italicum», X (1976), pp. 100-119. Una dichiarazione esplicita dei propositi del Bertola è riportata nella seguente, p. 109: «S’Ella poi lo vede eseguibile, gradirei che per mezzo di alcun amico, come per esempio del Sigr Nicoletti, per la posta di martedì prossimo passasse il Poemetto nelle mani degli autori delle Efemeridi. Di più desidero ch’essi sappiano che lo scrittore n’è Aurelio De’ Giorgi Bertola Riminese Olivetano. Mi perdoni questa piccola vanità, e l’attribuisca solo alla necessità ch’io tengo di uscire un poco dal fondo dell’oscurità, comunque ciò avvenga». 4 Per una dettagliata ricostruzione storica sui due anni di vita del giornale si rimanda a R. Pasta, Il «Giornale letterario» di Siena (1776-1777) ed i suoi compilatori, in «Rassegna Storica toscana», XVI (1978), pp. 93-135. 5 «Giornale letterario» di Siena, I, aprile 1776, p. CCXIII. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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può vantare in più secoli qualunque più colta nazione. Se si eccettuano alcune belle versioni di Gessner e di Wieland che ci ha date il sig. Abate Giulio Perini, gli Italiani non conoscono ordinariamente le ammirabili produzioni poetiche dei Tedeschi, che sulle traduzioni poco fedeli dei Francesi. Noi inseriremo sovente in questi fogli un saggio in nostra lingua dei migliori poeti di quella nazion fioritissima. Nulla per ora avevamo in ordine: essendoci però capitata alle mani una versione di alcuni bei versi dell’Anacreonte Germanico Gleim, la quale favorisce il nostro disegno, non ne vogliamo privare il pubblico.6
L’esordio del «Giornale letterario» rivelava già la via che sarebbe stata percorsa nell’esplorazione della letteratura tedesca negli anni a seguire. In primo luogo è dichiarato l’interesse per l’epoca contemporanea, sottintendendo lo straordinario e repentino progresso, rispetto ad un passato non sempre glorioso, che sarà analizzato ampiamente nel Saggio storico critico sulla poesia alemanna pubblicato nel 1779 all’interno della Idea della poesia alemanna; inoltre la definizione di Gleim come «Anacreonte Germanico» fornisce un’indicazione sulla scelta di genere e soprattutto di gusto che si colloca all’interno di una precisa tradizione, certo rivisitata dalla sensibilità del poeta riminese e su cui si tornerà più avanti. Infine da queste poche righe affiorano il confronto polemico con la Francia e la questione relativa alle modalità di traduzione, tema scottante e ineludibile nel secolo del cosmopolitismo, a cui fu dedicata maggior attenzione in un successivo intervento sempre pubblicato sul giornale. Difatti nel dicembre dello stesso 1776 Francesco Zacchiroli, nuovo direttore e amico del suo predecessore, pubblicò una lettera del Bertola da Napoli, che ripresenta più distesamente i punti enucleati sopra e anticipa parte delle riflessioni sviluppate nella successiva Prefazione dell’Idea della poesia alemanna: Lettera del P. Giorgi Bertola al Giornalista Napoli 24. Decembre 1776 I primi fogli del vostro giornale ci diedero un saggio di poesia tedesca nella maniera di Anacreonte; e ci fecero sperare la continuazione di questi fiori stranieri, che i francesi sono stati assai più solleciti e industriosi di noi a trapiantar fra di loro. Mi lusingo di secondarvi in qualche modo, facendo vostro l’idillio del celebre Kleist, che ho cercato di vestire all’italiana con molta fedeltà, se non con molta grazia. Mi son proposto egualmente la più scrupolosa esattezza nel trasportare in versi sciolti la Morte di Abele di Gessner con parecchi idillj dello stesso delicatissimo poeta, e alcune delle migliori poesie di Haller, di Wieland, di Hagerdon, e di Cramer. Se si trattasse di una lingua più famigliare che non è la tedesca, piegherei a credere anch’io, che il primo pregio della traduzione dovesse essere l’eleganza: ma per far gustare all’Italia tutte le bellezze della poesia tedesca vi fa d’uopo più assai la fedeltà, che non di eleganza; la quale sarà sibbene capace di formar un quadro di colorito seducente; non mai però un disegno netto, onde porre sott’occhio tutte le finezze dell’originale.7
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Ivi, p. LII. Ivi, II, p. CCCXCV.
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In questi anni senesi Bertola pare dunque maturare e sviluppare la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, probabilmente anche in previsione di una carriera di letterato che di lì a poco si sarebbe concretizzata nel trasferimento a Napoli, coll’incarico di professore di storia e geografia all’Accademia di Marina. Aveva infatti acquistato una certa notorietà grazie alla pubblicazione de Le Notti Clementine: ma l’accoglienza ricevuta da Antonio di Gennaro, duca di Belforte, e l’assidua frequentazione dei circoli tra Posillipo e Mergellina lasciano pensare ad un qualche rapporto tra i suoi giovanili studi da germanista, in particolare l’attenzione per gli idilli di Gessner, e la spiritualità massonica del tardo illuminismo napoletano. Questo legame si profila attraverso l’analisi della prima produzione lirica del Bertola nella città partenopea:8 i moduli arcadici della tradizione italiana vengono rinnovati attraverso un racconto del paesaggio in chiave filosofica e morale, che si arricchisce di valenze massoniche, grazie anche al recupero delle conoscenze di mineralogia acquisite nella città toscana;9 un racconto inoltre che reinterpreta il mito dell’età dell’oro, tema centrale in quel mondo letterario tedesco a cui il Nostro aveva rivolto da tempo l’attenzione. Gli Idyllen di Gessner, pubblicati nel 1756, e i Neue Idyllen del 1772, opere fondamentali nel dibattito sul genere pastorale tra teorici e autori di lingua tedesca, illustravano infatti un modello di società ideale, e insieme potenzialmente realizzabile, in un’epoca attraversata da repentini cambiamenti economici e di conseguenza sociali. Il poeta svizzero recuperava dunque l’età dell’oro come cornice di un mondo fondato su principi etici quali la compassione e la socievolezza, coltivati e consolidati grazie ad un contatto diretto e profondo con la natura, in perenne trasformazione, ma governata da un ordine provvidenziale; il locus amoenus, come un giardino delimitato da una siepe o un ruscello, rappresentava allora la meta, il traguardo di una passeggiata intrapresa da anime unite nell’esercizio di virtù morali.10 Contenuti questi che riflettevano certamente i valori di una cerchia massonica. L’Idea della poesia alemanna si rivela in tal modo il punto di arrivo di un percorso importante nella formazione giovanile del Bertola, dell’esperienza senese e di quella napoletana. Le due principali direttrici dell’opera, ovvero la scelta di una materia
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Si considerino: L’Estate, a S.E. Antonio di Gennaro ecc. Ticofilo Cimerio. In Lucca, presso Giuseppe Rocchi 1777; Le delizie autunnali. Al signor Duca di Belforte; Mergellina a S.E. Giovanni Giuseppe Conte di Wilzeck, Napoli, 1778; Nuove Poesie Campestri e Marittime, precedute da un Ragionamento sulla poesia Campestre, Genova, 1779; Le quattro parti del giorno-Marittime per musica, Napoli, 1779. 9 Su questo cfr. A. Di Ricco, Tra idillio arcadico e idillio «filosofico». Studi sulla letteratura campestre del ’700, Lucca, Maria Pacini Fazzi editore 1995; F. Fedi, Artefici di numi. Favole antiche e utopie moderne fra Illuminismo ed Età napoleonica, Roma, Bulzoni editore 2004. 10 M. Pirro, Anime floreali e utopia regressiva. Salomon Gessner e la tradizione dell’idillio, Pasian di Prato, Campanotto editore 2003. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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ancora da esplorare in profondità11 per i letterati italiani e contemporaneamente il confronto con la tradizione italiana, emergono con evidenza fin dalla dedica a D. Giovandomenico Berio: «A.S.E. il Signor D. Giovandomenico Berio Nobil Patrizio Genovese Marchese di Salsa, Signore della Città di Montemarano e delle terre di Vulturana e di Pardisi ec. a voi sta dunque il decidere se questo libro sia per essere caro all’Italia» e continua «Se il mio libro ha alcun pregio, egli è la novità della materia».12 La Prefazione, nella quale l’autore dà scrupolosamente conto dei suoi intenti, mostra l’oscillazione derivata dai suddetti propositi. Da un lato si riscontra la volontà di un’apertura critica alla letteratura europea, scevra dai pregiudizi sulla lingua tedesca che sembravano dominare il mondo italiano delle Lettere. A questo proposito Bertola dichiara di tentare una minuziosa comparazione «per rapporto agli antichi e agli Italiani, e per rapporto ai Francesi e agl’Inglesi soprattutto»13 (l’accostamento della letteratura italiana a quella greco-latina annuncia già una precisa concezione della nostra tradizione), e inoltre auspica una più facile e spedita comunicazion di letteratura […]: onde e Italiani e Alemanni emuli, amici, concittadini andassero d’ora innanzi insieme ad incontrare con maggior sicurezza e soddisfazione quella gloria e quella felicità, che dispensano sempre le arti e le lettere, quando son lungi i pregiudizj, e tacciano le passioni.14
Una prospettiva che rispecchiava lo spirito cosmopolita del secolo e che venne dilatata e rafforzata da un passo della recensione dell’Amaduzzi sulle «Efemeridi letterarie di Roma»: se i seguaci di Apollo amassero di considerarsi piuttosto cittadini del mondo, che Italiani, o Francesi, il lustro della poetica monarchia sarebbe in proporzione dell’estensione de’ suoi confini.15
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Un contatto con il mondo di lingua tedesca era già stato avviato dagli anni Cinquanta e Sessanta in area veneta e napoletana; inoltre la prima traduzione italiana di un testo poetico tedesco ad essere stampata fu La primavera di Kleist, ad opera di Giampietro Tagliazucchi nel 1755 e nel 1774 uscì nella Nuova raccolta di opuscoli scientifici e filosofici (tomo XXV) di Angelo Calogerà e Fortunato Mandelli a Venezia il Saggio sopra la poesia alemanna di Giambattista Corniani; infine si ricorda che la versione italiana dei primi due canti del Messias di Klopstock di Giacomo Zigno è datata 1771. Per approfondimenti si rimanda a Il Settecento tedesco in Italia. Gli italiani e l’immagine della cultura tedesca nel XVIII secolo, a cura di G. Cantarutti, S. Ferrari e P. M. Filippi, Bologna, Il Mulino 2001; La cultura tedesca in Italia 1750-1850, a cura di A. Destro e P. Maria Filippi, Bologna, Pàtron Editore 1995. 12 A. de’ Giorgi Bertola, Idea della poesia alemanna, Napoli, presso i Fratelli Remondini 1779. 13 Ivi, p. XI. 14 Ivi, p. XIII. 15 «Efemeridi letterarie di Roma», 1779, p. 342. Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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D’altro canto le pagine della Prefazione lasciano trasparire una certa difficoltà a rendere fruibili per il pubblico italiano, per il quale l’espressione poetica si traduceva quasi unicamente in metri peculiari di una consolidata tradizione, forme ed immagini della lingua tedesca che «non erano più quelle tosto che si dava loro il giro e il carattere della versificazione italiana». Bertola chiariva quindi il suo modus operandi, giustificando in primo luogo l’uso della prosa, avversato dai detrattori di Gessner, per le odi e «le altre poesie sublimi», in quanto esse «reggono […] per la energia dei sentimenti e delle figure»; al contrario assoggettando ad una trasposizione in versi italiani le poesie pastorali e anacreontiche, che secondo la sua opinione preservavano «maggiore affinità con l’indole della Greca poesia», per concludere: «che sarebbono mai ridotte alla prosa le canzonette più gentili e più spiranti grazie e soavità?».16 Tale programma rimase invariato anche nella successiva Idea della bella letteratura alemanna (1784), in cui l’abate si limitò ad aggiungere testi (in particolare il numero degli idilli di Gessner passò da sei a ventisette) e a corredarli di numerose note, che rivisitano in maniera alquanto estesa i temi trattati nella Prefazione del 1779: l’analisi della letteratura tedesca condusse così Bertola ad un’ampia riflessione sul valore e i pregi di quella italiana. Tale approdo trova un antecedente nelle dodici pagine premesse da Giampietro Tagliazucchi alla traduzione della Primavera di Kleist. L’intento iniziale del modenese, tracciare un breve quadro della poesia tedesca contemporanea, si trasforma presto in un encomio dei nostri autori che svela un disegno antifrancese, fatto proprio anche da Bertola in questa sede e ripreso nuovamente qualche anno più tardi nel Saggio sopra la favola.17 Le critiche sollevate dai Francesi fin da inizio secolo, del resto, avevano sollecitato in più parti della penisola quello che Franco Arato, nel descrivere il lavoro di Andrea Rubbi per gli Elogj italiani, definisce «patriottismo letterario antifrancese», ben individuabile anche alle origini di altre opere contemporanee, come la seconda edizione delle Vitae Italorum allestita dal Fabroni.18 Bertola reagì a queste provocazioni d’oltralpe prospettando un connubio solidale tra letterati di lingua tedesca e italiani, senza però concedere il primato letterario ai primi, come è sottolineato in queste brevi, ma significative righe del Saggio storico critico sulla poesia alemanna:
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Le citazioni del paragrafo sono tratte da: A. Bertola, Idea della poesia alemanna cit., p. xiii. A. de’ Giorgi Bertola, Saggio sopra la favola. Aggiunta con una Raccolta di favole ed Epigrammi, Pavia presso Bolzani 1788, pp. XIII-XIV: «Il Cavaliere di Jaucourt con una franchezza degna di un enciclopedista afferma che il pregio di ben raccontare è esclusivamente proprio de’ Francesi: dimenticò che noi abbiamo narrato aureamente con Boccaccio, con Sacchetti, con Firenzuola, con Machiavello, con Castiglione e con più altri uomini di tale sfera; e che le più belle novelle francesi son tolte dalle opere di que’ nostri sommi maestri». 18 F. Arato, La storiografia letteraria nel Settecento italiano, Pisa, Edizioni Ets 2002, p. 252. 17
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Non è già che gli Alemanni vadano provveduti come noi di un linguaggio poetico; ne vanno però provvedutissimi in paragon de’ Francesi che non ne godono di sorta alcuna.19
La letteratura italiana, fin dalle prime pagine del Saggio ed in innumerevoli luoghi, è citata quale incomparabile modello per tutte le esperienze europee, in quanto diretta erede della civiltà greca e latina.20 Nella ricostruzione della nostra tradizione attraverso le note di commento ai singoli componimenti, nel Saggio storico-critico e nel Ragionamento sulla poesia pastorale Bertola esaminò difatti gli autori italiani maggiormente impegnati a rielaborare la grazia naturale dei classici antichi (in particolare di Anacreonte, di Teocrito, di Orazio e di Virgilio), circoscrivendo in tal modo anche il panorama dei generi illustri alla poesia pastorale e ai poemetti didascalici. Per il Cinquecento sono allora orgogliosamente menzionati Ariosto, paragonato a Virgilio nell’arte di creare similitudini,21 Marco Gerolamo Vida e Gerolamo Fracastoro, che nei loro poemi didascalici in lingua latina avevano sapientemente ovviato al rischio della monotonia (ravvisato ne Le quattro età della donna di Zachariae) ricorrendo all’«artifizio degli episodj, così famigliare agli antichi»;22 non mancano poi il Tasso, apprezzato in particolare per l’Aminta,23 senza tralasciare la
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A. de’ Giorgi Bertola, Idea della bella letteratura alemanna, in Lucca presso Francesco Bonsignori 1784, I, p. 44. 20 Cito a titolo esemplificativo alcuni dei numerosi passi: «Si potrebbe dir senza ombra di dubbio che a questo piacere [di confrontare letterature di diversi paesi] abbiano un singolar diritto gl’Italiani, i quali nell’istituir paragoni siffatti, ritrovano i germi letterarj che la lor patria tramandò a tutti i moderni, e chiamano ad esame il vario frutto de’ doni suoi»; Bertola riferendosi a Martin Opitz, che considerava il riformatore della poesia alemanna, commentava: «I Greci e i Latini offersero alla sua mente tutta la luce de’ modelli più grandi, e gl’Italiani l’arte d’imitarli e di emularli. Da quelli e da noi prese egli le prime sicure norme del buongusto, dandosi a tradurre. E per parlare del teatro, ei ridusse in bei versi, e corredò di note giudiziosissime l’Antigona di Sofocle, le Trojane di Seneca, e la Dafne del nostro Rinuccini»; infine: «E intendo poi anche meglio che gl’Italiani non han mestieri di modelli; essi che ne han somministrato a tutte le moderne nazioni in tutte le belle cose», ivi, I, pp. 3,22; II, p. 173. 21 «Oltre alla grazia e all’inimitabile armonia de’ versi, le idee accessorie della similitudine Virgiliana sono di una squisitezza sorprendente. Il solo Ariosto fra tutti i moderni si è avvicinato a questo merito degli antichi; anzi ha saputo talvolta accoppiarlo con quello che agli antichi è mancato», ivi, II, p. 64. 22 «L’artifizio degli episodj così famigliare agli antichi, quell’artifizio di tessere legami invisibili, che graziosamente attacchino tra di loro infinite cose, sembra in generale alquanto trascurato dagli oltremontani. I nostri Cinquecentisti che latinamente scrissero, han saputo al più alto grado distinguersi; questa specie di bellezze spargendo nei lor poemi didascalici: e Vida e Fracastoro fra gli altri ben possono in questa parte stare a fronte de’ classici antichi», ivi, II, pp. 144-145. 23 «Due o tre Idilj e non più ha scritto Gessner dell’indole di questo, in cui il dialogismo è Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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Gerusalemme liberata, Gabriello Chiabrera – cui l’autore accostò certe movenze poetiche di Günter, potenziale Orazio tedesco –24 mentre un ritratto di Gravina, a dire il vero abbastanza critico, emergeva nella comparazione con Gottsched.25 La presa di distanza dalla produzione poetica di uno dei principali promotori dell’Arcadia traspare altresì nelle Osservazioni sopra Metastasio, pubblicate sempre nel 1784, dove tuttavia Bertola tributa al letterato il merito dell’aver combattuto gli eccessi barocchi e aver contribuito al ritorno del buon gusto nella lirica italiana.26 Tra i poeti contemporanei, oltre a Metastasio che trova posto accanto a Tasso e Gessner, quasi a comporre una triade di eccellenza,27 compaiono Rolli e Frugoni,28 l’abate Roberti, Girolamo Pompei, Bartolomeo Lorenzi, del quale è particolarmente apprezzato il poemetto Della coltivazione de’ monti;29 infine Bettinelli e Giuseppe
di una grazia incomparabile, di una grazia particolare ignorata, pare a me, a Teocrito ugualmente che a Virgilio. Al solo Tasso da cui potrebbe averla ricopiata, il poeta di Zurigo; sì, al solo Tasso fu famigliare; la sparse egli in alcune scene del suo divino Aminta», ivi, II, p. 67. Parlando di Cronegk Bertola affermava: «Internatosi sempre più nella cognizione letteraria della nazione [italiana], la quale fece aprir gli occhi all’Europa, ne divorò le opere classiche: seppe conoscer la suprema eccellenza dell’immortale Torquato; e innamoratosi di quel famoso episodio della Gerusalemme tanto ingiustamente censurato, quanto è sovranamente toccante e peregrino, ne trasse di là una seconda tragedia Olindo e Sofronia, che non potè esattamente condurre a fine», ivi, I, p. 58. 24 «Ben potea costui [Günter] aspirar alla gloria di dar per tempo in se un Orazio alla nazione, se avesse voluto moderar colla ragione gl’impeti dell’ingegno. […] Si alza egli in alcune odi sublimissimamente; e slanciasi talvolta con una rapidità di poco inferiore a quella del nostro Chiabrera», ivi, I, p. 36. 25 «Trovo anzi in Gottsched una perfetta immagine del nostro Gravina, cioè una specie di entusiasmo per certi autori favoriti, deboli tragedie, e assai maggior merito nello scrivere in prosa che non in versi», ivi, I, p. 39. 26 A. de’ Giorgi Bertola, Osservazioni sopra Metastasio, a cura di G. P. Maragoni, Roma, Vecchiarelli Editore 2001, pp. 31-32: «a quel tempo era risorto di fresco in Italia il buongusto poetico; che a siffatto risorgimento avea il Gravina contribuito soprammodo; […] indi verso i vent’anni già morto il Gravina godè Metastasio di abbagliare di più moderne vesti i suoi ridenti prodotti, e li consecrò all’armonia teatrale». 27 «Siffatti contrasti di sensazioni metà piacevoli e metà tristi, agitan la nostra anima in senso contrario, e fan sempre una profonda impressione. L’arte di ben condurli però quanto è importante per tutte le Belle-Arti, altrettanto è malagevole. L’han conosciuta meglio degli altri Orazio, Tibullo, Tasso, Metastasio, e Gessner», A. de’ Giorgi Bertola, Idea della bella letteratura alemanna cit., II, p. 75. 28 «Rolli e Frugoni han lavorato alquante miniature campestri vere ed amene soprammodo», ivi, II, p. 5. 29 «E chi, per venir pure a dì nostri, non chiamerà fino e gentile il dettaglio del Sig. Abate Roberti, del Sig, Girolamo Pompei, del Sig. Bartolomeo Lorenzi, che a ricopiar la natura appresero da Greci? (a). V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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Luigi Pellegrini, in quanto autori di versi sul Vesuvio, tema ritenuto oltremodo poetico, tanto da suggestionare Opitz, ma inspiegabilmente trascurato dal Parnaso italiano.30 Nel tracciare questo quadro di sintesi della storia delle nostre Lettere, secondo le direttrici della grazia e del gusto, definito «la perfetta cognizione delle bellezze della natura e dell’arte accoppiata alla dilicatezza del sentimento»,31 Bertola non volle in ogni caso sottrarsi al confronto con Dante, di cui certo riconosceva l’ingegno, senza però apprezzarne pienamente le forti tinte. Un giudizio simile investiva altresì i versi di Michelangelo: il netto chiaroscuro, tratto caratteristico della produzione di entrambi i poeti, non si accordava difatti con la gradazione coloristica, requisito fondamentale dell’ideale poetico del riminese, ben messo in luce da Camerino.32 Dante allora, nonostante la grandezza e la venerazione che gli andavano attribuite, mancava di un «estro più moderato» al confronto con Opitz, il quale «era anche più fornito di gusto»,33 e l’estro pittorico che Michelangelo aveva riversato sulla carta non sovrastava le pennellate d’inchiostro con le quali il poeta-pittore di Zurigo componeva i propri idilli.34 Del resto Isabella Teotochi Albrizzi nel ritrarre l’abate affermò:
(a) […] Nulla forse ha di più bello l’Italia nel genere didascalico, del Poema del Sig. Lorenzi sulla Coltivazione delle Montagne]», ivi, II, p. 21. 30 «(c) È singolar cosa che il riformatore della poesia Alemanna abbia pensato di scrivere un poema sul Vesuvio, e che niuno della sovrana schiera del Parnaso Napoletano, e niun altro famoso spirito d’Italia fino a Bettinelli, siasi invaghito di un argomento il più poetico forse di quanti ve n’ha, e il più capace di eccitare entusiasmi straordinari. Bettinelli non ha composto sul Vesuvio che circa quaranta versi, laddove ei descrive il suo viaggio a Napoli: ma che divina cosa non sono eglino mai que’ quaranta versi? e non vagliano per un lungo poema? Quando io scriveva questo Saggio, non aveva ancora veduto un poemetto sul Vesuvio tuttavia inedito del Sig. Abate Pellegrini Veronese, poemetto sparso da capo a fondo di bellezze veramente originali», ivi, I, p. 23. 31 Ivi, I, p. 117. 32 G. A. Camerino, «[…] una maniera che la pittura mal sa ricopiare». Bertola e il gusto letterario dell’ultimo Settecento, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLXVI (1999), 3, pp. 341354. 33 «Chi ha analizzato i primi quadri della poesia di varie nazioni, e gli ha trovati per l’ordinario grandi, robusti, veementi come Omero, Dante ec… si darà forse a credere che Opitz fosse naturalmente di tempre cosiffatte. Ma no: era egli di un estro più moderato; di un fuoco meno impetuoso, e più diffuso, più uguale. Egli avea del genio senza dubbi, ma era anche più fornito di gusto. La poesia di Opitz non abbonda di pennellate forti, di contorni fantasticamente sontuosi; ma è rivestita quasi sempre di un colorito dolce, è finita, è economizzata: non è già un rapido torrente che inonda; è un fiume di corso regolato e tranquillo», A. Bertola, Idea della bella letteratura alemanna cit., I, p. 25. 34 «Vero è Michelangelo, Agostino Caracci, e Salvator Rosa poesia scrissero; ma né i pochi Sonetti del primo, benché assai belli, né il Sonetto di Agostino, né le satire di Rosa sarà certamente chi voglia mettere a confronto cogl’Idilj di Gessner», ivi, II, p. 26. Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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Gli autori dilicati e morbidi gli piacciono più che i forti e severi. Tacito, Dante, il Machiavelli, l’Alfieri increspano troppo i dilicati suoi nervi, quasi gli spezzano.35
La linea italiana fin qui descritta e la rivendicazione della sua superiorità giustificano la selezione dei poeti tedeschi, l’esigenza di trasporre in versi anche i brani originariamente in prosa (come avviene per gli idilli di Gessner, nonostante Bertola apprezzasse la prosa poetica dello svizzero) e gli interventi sulla traduzione, più volte segnalati in nota e approvati pienamente dal suo maestro-recensore Amaduzzi: L’arricchire una lingua colle grazie d’un’altra è cosa, che fatta con prudenza, e parsimonia, può portare del bene; e quello dalle versioni si debbe aspettare.36
Indicativa della linea poetica prediletta dal Bertola è la presenza delle canzonette di Gleim, delle quali la prima in ordine di apparizione si intitola Anacreonte.37 Il commento riservato al poeta nel Saggio puntualizza in quale modo Gleim si fosse ispirato al lirico greco, realizzando quella «dolce semplicità», che diffondono i versi del «vecchio Tejo»; ma allo stesso tempo sottolinea: Questi [Anacreonte] inoltre va quasi sempre spargendo i suoi fiori sulla filosofia con una disinvoltura incantatrice: Gleim moralizza assai meno.38
Il nostro abate infatti ravvisava nelle lettere in generale e nella poesia in particolare un veicolo di trasmissione di valori morali, tra i quali certamente erano compresi anche ideali massonici, che la letteratura tedesca era stata ampiamente in grado di accogliere, come emergeva con evidenza dalla produzione di Gessner39 e dalle odi di Klopstock o dei meno noti Richey, Ramler e Denis.40 Il suo apprezza-
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I. Teotochi Albrizzi, Ritratti, a cura di G. Tellini, Palermo, Sellerio 1992, p. 135. «Antologia romana», 1777, III, p. 225. 37 L’incipit di tale lirica recita: «Anacreonte mio precettore/sol canta Bacco, sol canta Amore», A. Bertola, Idea della bella letteratura alemanna cit., I, p. 146. 38 Ivi, I, pp. 67-68. 39 «In questa [età dell’oro] l’immortale Gessner ha l’azion trasportata de’ suoi idilj; […] presentandoci non già le puerili chimere de’ fiumi che scorron latte […] ma un’immagine incantatrice della innocenza e della felicità, che gli antichi patriarchi godevano»; «Egli è vero che la immaginazion del lettore non può ordinariamente aggiugner nulla alle sue [di Gessner] pitture, il nostro spirito però sulla traccia delle sue idee si apre, si estende, ed acquista, se lice l’espressione, una piega più regolare e più nobile», ivi, II, pp. 3, 27. 40 Per esemplificare si riporta un passo del commento all’ode di Ramler intitolata Tolomeo e Berenice in occasione delle nozze del real principe di Prussia: «La passione più attaccata alla parola, che non al pensiero, la purezza e l’energia della frase, la sveltezza del verseggiare sono pregj che 36
V. Il cosmopolitismo degli Italiani
Dal gusto «nostro» al gusto «alemanno»
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mento per le lettere alemanne nasceva principalmente dall’«arte difficilissima di ben mettere in versi la verità; e la morale soprattutto»,41 dalle idee e dai pensieri che questi testi trasmettevano, ma non concerneva totalmente la forma in cui talvolta erano presentati, tanto che al termine dell’Idillio pescatorio di Kleist annotava: La maniera in cui esso è scritto non è punto nuova fra gli Alemanni; nuova bensì in qualche modo può sembrar fra noi, che avvezzi siamo a tutt’altro tuono nelle nostre pescatorie. Alcuni troveran forse con ragione che Filete è un poco troppo filosofo: egli è vero che i suoi sentimenti si partano nel fondo della natura più semplice, ma a questa natura che sa produrli è straniera l’arte di abbellirli.42
Bertola era intervenuto sulle traduzioni allo scopo di attenuare i «concetti bizzarri ed epigrammatici», le «espressioni caricate»,43 le «immagini gigantesche»,44 per presentare agli italiani quell’attitudine alla filosofia, «l’ottimo fondo» della lirica alemanna, che se limata dall’arte non correva il rischio di trasformarsi in «cupa metafisica», come al contrario era avvenuto per l’ode A Dio di Klopstock.45 Questo aspetto della poesia tedesca era il motivo principale della poca considerazione che essa raccoglieva in gran parte della penisola, il pericolo contro il quale Bertola era stato caldamente messo in guardia, fin dalle prime prove di traduzione, da due suoi cari maestri già citati, Gian Girolamo Carli e Metastasio. In una lettera di risposta al senese, l’allora monaco olivetano ammetteva di essersi allontanato dal «buon gusto» degli Italiani e dei Latini, influenzato proprio dalle «idee gigantesche dei Tedeschi»;46 sempre alla metà degli anni Settanta il poeta della corte viennese invitava il giovane esordiente a non alterare il suo stile seguendo l’esempio di «dot-
brillano singolarmente nel testo: la versione dovee quindi necessariamente languire. Le bellezze di puro sentimento, tanto più se sono molto inerenti a quelle della lingua, saranno sempre intraducibili», ivi, I, p. 206; questo altro brano è riferito all’ode di Denis In morte dell’imperatrice Regina Maria Teresa d’Austria: «Quanto all’ode in morte di Maria Teresa, vi è sparsa per entro mozion di affetti e maestà di pensieri; e somma energia e arditezza di voci e di frasi, di cui diffido di aver impresso le tinte equivalenti nella mai traduzione», ivi, I, p. 264. 41 Ivi, I, p. 114. 42 Ivi, I, p. 126. 43 Ivi, I, p. 193. 44 Ivi, I, p. 214. 45 «Io quasi disperava di poter tradurre la seconda: tanto è essa avvolta in quella cupa metafisica, ch’è la favorita del sublimissimo autore della Messiade», ivi, I, p. 201. 46 Betti, Lettere inedite cit., p. 110: «Egli è verissimo: i libri oltremontani hanno corrotto assai quel po’ di buon gusto che io aveva appreso dai nostri e dai latini. Soprattutto le idee gigantesche dei Tedeschi, per i quali mi appassionai nell’imprendere lo studio della lor lingua, hanno pregiudicato incredibilmente alla mia fantasia». Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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Costanza Ghirardini
tissimi ma nuvolosi scrittori», così dopo aver letto l’«anacreontica alemanna», la versione di Gleim uscita sul «Giornale letterario» di Siena, si congratulava di certo col traduttore, ma non con lo scrittore tedesco, avendo il primo ingentilito ed arricchito il testo con «un più armonioso idioma».47 Bertola, in seguito a queste sollecitazioni, non abbandonò tali studi, all’opposto, si impegnò a riabilitare la letteratura tedesca contemporanea seguendo le avvertenze degli stimati consiglieri: rivestì i testi più rappresentativi della sua rinascita alla maniera italiana, ricercando amenità, semplicità, delicatezza e grazia, temperando gli eccessi, eliminando infine ogni pensiero «troppo indocile a passar nella nostra lingua».48 L’intervento non riguardò esclusivamente le odi, di difficile versificazione per la robustezza delle immagini (come è chiarito nella Prefazione del 1779) e di conseguenza tradotte in prosa, ma investì persino i quadretti campestri tratteggiati finemente dal venerato Gessner, non indenni ad esempio «dal falso lume del portentoso».49 La tradizione che Bertola aveva eletto come ideale raffigurazione di un paese, unito, oltre che da una precisa connotazione geografica, da un patrimonio fondato sulla classicità, si ergeva, proprio in qualità delle sue illustri e lontane radici culturali, a modello naturale e incomparabile di un’altra realtà, anch’essa politicamente disgregata, che all’epoca trovava coesione nella lingua e nella letteratura, quale quella tedesca. L’assenza di un «punto d’unione politico»,50 citando le parole dell’autore, ha un certo rilievo nell’Idea della bella letteratura alemanna: essa si configura come la causa più plausibile di alcune carenze letterarie, in particolare riguardanti il genere teatrale, che all’epoca erano imputate ad entrambe le aree considerate. In questo modo Bertola difendeva nuovamente i letterati italiani dalle critiche avanzate dai francesi, scongiurando che la responsabilità delle difficoltà in cui versava il teatro potesse essere accordata alle scarse capacità dei nostri scrittori. Egli infatti sosteneva che «Gli Alemanni sono riguardo al teatro in una situazione non molto dissomigliante da quella degl’Italiani» e proseguiva: La società nazionale influisce nel teatro, e questo in quello. E lo spirito della società nazionale e il gusto ristretti in un gran centro fomentano anche normalmente l’emulazione, alzano quasi un tribunale, a cui o non si può o non si vuole disubbidire, e dettano una norma. […] Quali capi d’opera del teatro francese sono usciti dal seno delle provincie?51
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P. Metastasio, Lettere, in Tutte le opere, a cura di B. Brunelli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore 1952-1954, V, p. 378. Lettera del 18 marzo 1776. 48 A. de’ Giorgi Bertola, Idea della bella letteratura alemanna cit., I, p. 264. 49 Ivi, II, p. 16. 50 Ivi, I, p. 115. 51 Ibidem. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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Si spiega così il suo entusiasmo per l’iniziativa di Federico V di Danimarca, che accolse a Copenaghen le «Muse alemanne» disperse per il nord Europa, prodigandosi soprattutto in favore di una rinascita del teatro, come per l’Italia aveva tentato di fare, senza purtroppo raggiungere gli esiti sperati, l’Accademica Deputazione di Parma, al servizio del duca Ferdinando di Borbone. La collaborazione tra sistema politico e Lettere era vantaggiosa secondo Bertola anche in senso opposto: le opere dei poeti e in generale degli artisti, se dotate di un carattere morale o «nazionale» potevano giovare all’intera comunità52 e stimolare lo spirito di appartenenza ad un popolo, sentimento che iniziava ad affiorare in particolar modo nei paesi dove non esisteva una precisa corrispondenza tra cultura, lingua e stato. Era il caso dei poeti alemanni che avevano saputo favorire attraverso le «poesie guerriere» lo «spirito del governo», lo «sviluppo de’ caratteri e de’ costumi» ed in particolare delle Canzoni di un’amazone di Weisse, a proposito del quale Bertola chiosava: «Il Signor Gleim non ha cantato che per li Prussiani: Il Signor Weisse per tutti gli Alemanni».53
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«Eppure quando il sistema politico si associ alle arti; quando il governo si faccia dar mano da esse, allora è veramente che le impressioni del bello e del grande venuteci per mezzo de’ pittori, scultori, poeti son tutte basi, per dir così, della pubblica felicità e della privata», ivi, I, p. 109. 53 Ivi, I, p. 214. Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
MARTA REBAGLIATI ‘1944’: Umberto Saba e la ricerca dell’identità italiana attraverso i classici
1. Su questo trafficante amalgama di persone così etnicamente diverse (vi sono, oggi ancora, triestini che hanno nel sangue dieci dodici sangui diversi; ed è questa una delle ragioni della «nevrosi» particolare ai suoi abitanti) la lingua e la cultura italiana fecero da cemento; s’imposero per un processo affatto spontaneo. Ma lingua e cultura a parte, Trieste fu sempre, per ragioni di «storia naturale» dalle quali le città come gli individui non possono evadere, una città cosmopolita. Era questo il suo pericolo, ma anche il suo fascino.
Con queste parole tratte da Inferno e paradiso di Trieste (1946),1 Umberto Saba scolpisce la città natale, crogiolo di etnie, ma sostanzialmente «una» per tramite linguistico. E, tra le righe, si coglie quel tenace rapporto ossimorico del poeta con Trieste, cara (in senso leopardiano) «succursale dell’inferno»,2 proverbialmente «varia di razze e di costumi»,3 poli-centrica o a-centrica, ma avvertita ancor più italiana nel contesto dell’occupazione alleata o, prima del 30 aprile 1945, nazista. Quanto
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Cfr. U. Saba, Inferno e Paradiso di Trieste (1946), in Id., Tutte le prose, a cura di A. Stara, con un saggio introduttivo di M. Lavagetto, Milano, Mondadori 2001, p. 983; miei i corsivi. È risaputo che Saba intervenne nell’acceso dibattito sulla questione triestina schierandosi contro l’annessione alla Jugoslavia e dubitando del fatto che Trieste potesse divenire Territorio libero; esito possibile, questo, solo nel caso in cui «gli uomini fossero ragionevoli (adulti cioè invece di bambini e cattivi bambini) e che gli italiani e gli slavi comprendessero che le distanze sono fatte per essere superate e che, se convivere bisogna, meglio è convivere con reciproca soddisfazione». Va ricordato che ad occupare l’incipit di Inferno e paradiso è una favoletta allegorica con protagoniste Austria (un ricco banchiere) e Italia (una bella donna) unite da una stessa lingua. 2 Cfr. la lettera di Saba alla moglie Lina, «Milano, 3 aprile 1946», che si legge in U. Saba, Atroce paese che amo, a cura di G. Lavezzi e R. Saccani, Milano, Bompiani 1987, p. 47. 3 Cfr. U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Id., Tutte le prose cit., p. 114. Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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alla difesa dell’italianità a livello politico-sociale, in territorio triestino, rimangono illuminanti le pagine di Angelo Ara e Claudio Magris,4 a cui si deve la felice definizione dell’italiano di Trieste come «italiano speciale, la cui italianità era il frutto d’una continua lotta anziché un pacifico dato acquisito».5 A questo dissidio non sfugge Saba, poeta scisso per antonomasia,6 influenzato dal «dialogo sovranazionale»7 della Trieste mitteleuropea – è innegabile il potere d’attrazione di Weininger, Nietzsche8 e Freud – e, nello stesso tempo, legato all’Italia delle Lettere. Gli epistolari non fanno che confermare il “conflitto” tra senso di appartenenza e di esclusione da una “patria” in ugual misura poetica e territoriale.9 Interessa ora dare conto, per brevi cenni e focalizzando l’attenzione su due soli
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Cfr. A. Ara, C. Magris, Trieste: un’identità di frontiera, Torino, Einaudi 20073. «La difesa dell’italianità di Trieste, a livello politico-sociale, contro le forze slovene e le tesi filo-jugoslave o indipendentistiche è stata tenace negli anni. […] era forte la volontà della città di restare italiana», pur nel pluralistico articolarsi delle forze politiche che caratterizza la ripresa democratica»; e ancora, «la difesa dell’italianità di Trieste è il motivo che unisce la maggioranza della popolazione italiana, rivelandosi ancora più forte delle differenze ideologiche», ivi, p. 162. 5 Ivi, p. 17. 6 Cfr. U. Saba, Preludio e fughe, Secondo congedo: «O mio cuore dal nascere in due scisso, / quante pene durai per uno farne! / Quante rose a nascondere un abisso!» Le citazioni sono tratte da U. Saba, Tutte le poesie, a cura di A. Stara, Introduzione di M. Lavagetto, Milano, Mondadori 20049 (prima ed. 1988). 7 Cfr. A. Ara, C. Magris, Trieste: un’identità di frontiera cit., p. 12. 8 Il Nietzsche della Gaia scienza, quel «Nietzsche psicologo che tante verità intuì dell’anima umana» (U. Saba, Tutte le prose cit., p. 198), presiede alla creazione delle Scorciatoie e di Ernesto, come ha osservato Maria Antonietta Grignani nel saggio Varianti di Saba: archetipi e dinamiche testuali, in Umberto Saba, Trieste e la cultura mitteleuropea, Atti del Convegno, Roma 29 e 30 marzo 1984, a cura di R. Tordi, Milano, Mondadori 1986, pp. 143-146. Sull’«attraversamento» del filosofo tedesco, già tra il 1905 e il 1912, cfr. nello stesso volume R. Tordi, Le gocce d’oro di Saba e di Nietzsche (ivi, pp. 315-325). Sul versante della lirica, altro riferimento cardinale è l’Heine del Buch der lieder, letto nella traduzione «petrarcheggiante» di Bernardino Zendrini (E. Heine, Il Canzoniere, 1865; terza e definitiva edizione, in gran parte rifatta, Milano, Brigola 1879; la quarta edizione, postuma, in due volumi, fu pubblicata a Milano, Hoepli 1884, con incluso il saggio critico Heine e i suoi interpreti in cui Zendrini non risparmia note polemiche al Carducci traduttore da Heine; la copia presente nella biblioteca sabiana è l’«edizione popolare» uscita a Sesto San Giovanni, Madella 1911, che ripristina la prima traduzione del 1865, come puntalizza Giuseppe Savoca in Saba e il ‘Canzoniere’ tra i suoi padri Petrarca e Leopardi, in «La modernità letteraria», I (2008), p. 97, nota 1). Per un suggestivo contatto con una “immagine-racconto” nella giovanile Erlebnis di Loris Hofmannsthal cfr. P. V. Mengaldo, Un trittico per Saba, in «La lingua italiana», V (2009), p. 111. 9 Sempre chiarificatrice la lettera a Pier Antonio Quarantotti Gambini, datata «Trieste, 23 febbraio 1948»: «[i miei detrattori, ex fascisti, nazisti e gente simile] sanno benissimo che sono italiano, cento volte più italiano di loro, e che, se fosse dipeso da me, l’Italia non avrebbe né conquistata Lubiana né perduta Trieste. Sono infinitamente vili ed abbietti. […] se i V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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testi esemplificativi, di come l’aspirazione a un’identità italiana si traduca fattivamente, nella produzione lirica del triestino, in selezione di modelli “consacrati” e fedeltà a quel «filo d’oro della tradizione»10 che il Saba autodidatta dispiega nelle prove d’esordio e giovanili, come patente nobilitante. Il poeta “periferico”, in cerca dell’alloro italiano, attinge a un nutrito “serbatoio” letterario, esplicitamente indicato: Dante e Petrarca visti in ottica contrastiva,11 Alfieri e Parini,12 il Foscolo dei sonetti e delle Odi13 e l’«onesto» Manzoni,14 il vate Carducci ma anche il secon-
jugoslavi avessero avuto un poeta della mia statura (oh, anche assai meno!) che avesse cantato Trieste in slavo come io l’ho cantata in italiano, diverso sarebbe stato il loro contegno nei confronti di quell’ipotetico poeta. La verità è forse questa: i triestini sono così poco sicuri della loro italianità, che non possono ammettere che un grande poeta italiano sia uscito da loro», U. Saba, P.A. Quarantotti Gambini, Il vecchio e il giovane. Carteggio 1930-1957, a cura di L. Saba, Milano, Mondadori 1965, p. 117. 10 Cfr. la prefazione al Canzoniere 1921, Ai miei lettori, ora in U. Saba, Tutte le prose cit., p. 1129. 11 Sulla dialettica tra Dante e Petrarca, che equivale alla dicotomia di «vita» e «morte», «poesia» e «letteratura», Saba si esprime più volte, sia in Storia e cronistoria del Canzoniere («Dante ha sbagliato più, e più spesso, del Petrarca; ciò non toglie che questi stia al primo come una candela al sole», in U. Saba, Tutte le prose cit., p. 119), sia nei carteggi: si veda la lettera a Giuseppe De Robertis «Milano, 22 settembre 1946»: «La mia poesia con tutti [i] suoi difetti (specialmente giovanili, che io sono il primo a non ignorare) sarà veduta nella sua giusta luce appena quando l’Italia avrà ritrovato la parte migliore di se stessa. Ma quel giorno è ancora lontano; io non lo vedrò certamente, e forse non lo vedrà nemmeno lei. Fino a quel giorno i valori “letterari” avranno sempre la prevalenza sui valori “poetici”; tradotto in alcuni termini questo vuol dire che si preferirà sempre la menzogna alla verità; più esattamente ancora un sogno voluto (almeno in gran parte) sognare (Petrarca) e un sogno sognato veramente (Dante)», cfr. U. Saba, La spada d’amore. Lettere scelte 1902-1927, a cura di A. Marcovecchio, presentazione di G. Giudici, Milano, Mondadori 1983, pp. 175-176. La bilancia pende a favore di Dante anche nella lettera a Vladimiro Arangio-Ruiz di due anni dopo («Trieste, 8 giugno 1948», ivi, p. 199): «Quell’uomo che fu una delle piaghe d’Italia (diremo meglio uno dei più schietti rappresentanti delle itale piaghe), sarà stato grande al suo tempo; oggi, a me almeno, dice assai poco. Ci sento qualcosa di falso, di voluto (di un amore voluto provare e non provato in effetto) che confina […] addirittura col pornografico. […] Dante è così grande che, se si mettessero sopra un piatto della bilancia tutti i poeti di tutti i tempi e di tutti i paesi e sull’altro Dante, credo che vincerebbe ancora Dante». Cfr. infra, nota 43. 12 «Io amo moltissimo il Parini; sono uno dei pochi ad amarlo […] (Quando ho detto che amavo molto il Parini, non alludevo proprio al Giorno, ma alle sue Odi e alle sue Canzonette)» in U. Saba, Primissime scorciatoie (1934-1935), num. 27 in Id., Tutte le prose cit., pp. 881-882. 13 Cfr. la Scorciatoia 141 sul sonetto Per la morte del padre in U. Saba, Tutte le prose cit., pp. 6668. Cfr. lettera a Giuseppe De Robertis, «Milano, 22 settembre 1946»: «il declino del Foscolo incominciò coi Sepolcri (che sono ancora belli) e si accentuò e si compì colle Grazie. Il grande Foscolo, il Foscolo che mette i brividi è il Foscolo dei Sonetti e delle Odi (dai Campi Elisi il poeta mi dà – ne sono certo – ragione)», cfr. U. Saba, La spada d’amore cit., p. 176. 14 Il rinvio è al noto saggio Quello che resta da fare ai poeti (1911), riprodotto in U. Saba, Tutte Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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do Ottocento minore se non “minimo”,15 e, in capo all’elenco, Leopardi16 sublime maestro di purezza essenziale, ammirato per la fusione perfetta di preziosità e termini di uso comune. Sulla pluralità delle fonti di questo rivoluzionario «pio verso il passato»17 la critica ha fatto opportunamente luce in più occasioni, con spogli sistematici e analisi raffinate. Preme ricordare, in questi appunti sul concetto di italianità in Saba, come
le prose cit., pp. 674-681. Interessanti alcune annotazioni di Saba nella missiva succitata a Vladimiro Arangio-Ruiz: «Il Manzoni è uno scrittore immenso nella sua prosa (i Promessi sposi sono un romanzo abbietto; ciononostante è il romanzo ottocentesco che ha più probabilità di rimanere. Quel “Renzo”, quella “Lucia”, quel “cardinale Borromeo”, quali orrori: peggio che il pio Enea e il bello Iulo di Virgilio, eppure…). Delle sue poesie amo molto l’improvvisato “Cinque maggio”; una grande ispirazione; che il linguaggio da libretto d’opera nel quale è scritto incrina appena». 15 «Vi si trovano […] tracce di poeti che Saba si sarebbe offeso di sentire rinfacciare: per esempio, il Tommaseo, anche per certe inflessioni e modi di pronunciare propri del veneto dell’altra sponda adriatica, vi si trova dell’Aleardi, dello Zanella, un po’ di scapigliatura, parecchio del Betteloni, parecchio anche del non amato Pascoli», G. Debenedetti, Saba, in Id., Poesia italiana del Novecento. Quaderni inediti, Milano, Garzanti 20005 (prima ed. 1974), p. 128. Per l’incidenza della poesia realista di fine Ottocento, di autori come Betteloni, Stecchetti, Graf, Ferrari, Zanella, Picciòla, cfr. anche le note che corredano l’ed. critica del Canzoniere 1921, a cura di G. Castellani, Milano, Mondadori 1981 e, per il profilo metrico, le osservazioni di Antonio Girardi in Metrica e stile del primo Saba 1900-1912, in «Rivista di Letteratura Italiana», II (1984), 2, pp. 243-295, ora in Id., Cinque storie stilistiche. Saba, Penna, Bertolucci, Caproni, Sereni, Genova, Marietti 1987, pp. 1-48. 16 Molteplici studi testimoniano la trasparente influenza di Leopardi su Saba, dalla prima produzione alla fase «parnassiana» di Cuor morituro (1925-1930), sino alla poesia ornitologica di Uccelli (1948) e Quasi un racconto (1951): senza pretesa di esaustività, cfr. E. Caccia, Lettura e storia di Saba, Milano, Bietti 1967, pp. 341-342, passim; i rilievi di G. Castellani nel Canzoniere 1921 cit., e quelli di R. Negri, in Leopardi nella poesia italiana, Firenze, Le Monnier 1970, pp. 8798, uniti a un brano di Storia e cronistoria, al racconto Le polpette al pomodoro, alle poesie La vetrina e La brama, emblematiche per l’intreccio di teoria freudiana e Ciclo di Aspasia (ivi, pp. 241250). Per una visione globale cfr. G. Lonardi, Leopardismo. Saggio sugli usi di Leopardi dall’Otto al Novecento, Firenze, Sansoni 1974; più puntuale e convincente nell’esame dei prestiti leopardiani il contributo di C. Milanini, «Il filo d’oro». Appunti su Saba e Leopardi, in Studi vari di lingua e letteratura italiana in onore di Giuseppe Velli, a cura di G. Barbarisi, Milano, Cisalpino 2000 («Quaderni di Acme», 41), pp. 809-825. Infine, cfr. M. Lentzen, «Un classico, maturato in un ambiente romantico». Umberto Saba e Giacomo Leopardi (in Saba extravagante. Atti del Convegno internazionale di studi, Milano, 14-16 novembre 2007, a cura di G. Baroni, in «Rivista di letteratura italiana», XXVI (2008), 2-3, pp. 89-93) e il ricco volume di M. Paino, La tentazione della leggerezza. Studio su Umberto Saba, Firenze, Olschki 2009, che illustra, con pregevoli affondi, la rimodulazione della leopardiana antitesi tra levità e dolore esistenziale. 17 Cfr. U. Saba, Cuor morituro, La vetrina, v. 51: «il poeta ch’è pio verso il passato». V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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scrivere nella lingua della tradizione nazionale e trarre linfa dal più alto magistero poetico, fosse una precisa scelta di campo nella Trieste asburgica fino al 1918, volta più al «mercatare» che alla letteratura, come lamenta Scipio Slataper nella prima delle Lettere triestine pubblicata su «La Voce» dell’11 febbraio 1909:18 «Trieste […] aveva l’anima troppo bassa, direnata dal senso economico […] Perciò la storia di Trieste è ghiaccia: senza uno slancio di idealità, senza bisogno d’arte, senza affetto allo spirito. Incatenata dalla smania di guadagno non seppe guardar mai lontano».19 Come reazione all’arretratezza Saba sceglie il “saccheggio” e la riformulazione del patrimonio illustre d’Italia, con una tale costanza che si può ammettere – le parole sono di Andrea Zanzotto –20 che «la tradizione è tutta sacralizzata e resterà tale; Saba attinge alla tradizione come a un passato prenatale». 2. Circoscrivendo il discorso, i due volti dell’italianità, quella letteraria conquistata in serrato e ininterrotto dialogo con gli auctores antichi e moderni, e quella intesa come senso civico e sentimento nazionale, sembrano convergere nel manipolo di poesie di 1944, penultima sezione del Canzoniere (1900-1945), Roma, Einaudi, 1945. Composta di sole cinque liriche, varie per statuto formale e dalla qualità estetica talora incerta, 1944 si pone sotto il segno della letterarietà, in attrito con la materia prosastica – la rappresentazione popolare in un teatro a liberazione avvenuta, un reduce di guerra disoccupato (chiaro alter ego) a zonzo per le strade, un vecchio camino –, sullo sfondo di una Firenze tra macerie e sangue. Ritorna, seppur ridotta, la contaminatio degli esordi come riaffermazione delle radici liriche e ancoraggio alle “fondamenta” italiane, ancor più cogente in un momento di clandestinità coatta. L’ebreo esule, nascosto in quella città a lui «ostile» negli anni vociani21 e ora
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Questa, insieme alle altre quattro Lettere triestine uscite su «La Voce» del 1909, nei numeri del 25 febbraio, 11 e 25 marzo, 22 aprile, è stata raccolta in S. Slataper, Scritti politici, a cura di G. Stuparich, Milano, Mondadori 1954 (I Quaderni dello «Specchio»). L’articolo citato, Trieste non ha tradizioni di coltura, si legge alle pp. 11-17. 19 Sull’arretratezza del côté letterario triestino d’inizio secolo G. Debenedetti ha più di una riserva, come pure E. Caccia (Lettura e storia di Saba cit., pp. 356-357). Una tradizione locale era pur attecchita: «nell’ultimo scorcio del secolo passato e nei primi decenni del ’900, questa città «bastarda», cresciuta troppo in fretta e senza tradizioni, aveva avuto la breve fioritura di una cultura sua propria, quasi senza legami con la cultura veneta», G. Voghera, Gli anni della psicoanalisi, Pordenone, Studio tesi 1980, p. 122. 20 Cfr. A. Zanzotto, Per Saba, in Id., Scritti sulla letteratura, a cura di G.M. Villalta, Milano, Mondadori 2001, vol. I, p. 364. 21 Cfr. U. Saba, Autobiografia X, vv. 12-14: «A Giovanni Papini, alla famiglia / che fu poi Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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ospitale, sembra trovare la personale risposta alla barbarie nella rivisitazione dei classici. Proprio sull’intreccio di reminescenze leopardiane e autobiografismo spinto poggia la poesia d’apertura della sezione, Avevo, pubblicata sull’Organo del Comitato Toscano di Liberazione, la «Nazione del Popolo», il 9 ottobre 1944 insieme a Teatro degli Artigianelli, secondo elemento di un dittico che equilibra elegia ed epica.22 Il ritorno alla sorgente del poeta-«salmone» – per adottare la metafora debenedettiana –23 si qualifica, in Avevo, come reimmersione di stampo freudiano nel mito familiare e nei suoi simboli, e anche come ripristino della distensione narrativa24 dopo la rarefazione epigrammatica, «modernista», di Parole (1933-34) e Ultime cose (1935-1943). Il timbro scarno della lirica anni Trenta-Quaranta lascia il posto a un ritmo salmodiante («Avevo il mondo per me», «Avevo una famiglia», «Avevo una bambina»), memore, in piccolo, della celebre litania di A mia moglie in Trieste e una donna. Il ritorno è soprattutto al “padre” Leopardi, con un collage di tessere dagli Idilli su cui varrà la pena soffermarsi in quanto prelievi con valore centripeto e identitario, non ridotti a memoria inerte. Partiamo dal metro. Il disegno geometrizzante della canzone ricorda la partitura chiusa di A Silvia con le sue sei stanze disuguali, sigillate da un settenario e con modulazione rimica ariosa (in Saba più ridotta e rigida, benché non sistematica). Un’analogia, questa, possibile per l’accorpamento delle prime due strofe di Avevo in una sola, con stacco grafico interno. Una sorta di nartece – «breve preludio» lo definisce l’esegeta Giuseppe Carimandrei –25 al rimembrare nostalgico della Trieste
della «Voce», io appena o mai / non piacqui. Ero fra lor di un’altra spece». Si consideri anche la lettera a Francesco Meriano, datata «Roma, 8 febbraio 1916»: «l’odio che provo per gli scrittori della Voce e per tutti i cattivi scrittori è qualcosa di feroce e di medioevale, vedo rosso e stringo in pugno una frusta a nove corde coi flagelli impiombati!», U. Saba, La spada d’amore cit., p. 78. 22 Un intreccio lasciato in eredità dal Romanticismo, come ricorda Caccia: «la fusione tra l’epica e la lirica era già avvenuta, d’altra parte, con la poesia romantica», E. Caccia, Lettura e storia di Saba cit., p. 276. 23 Cfr. G. Debenedetti, Quest’anno…, in Id., Intermezzo, Milano, Mondadori 1963, p. 53: «[…] Terremmo dietro al salmone che, per andare a compiere il suo atto più vitale: l’amore fecondante, intraprende un cammino opposto al corso delle acque: dal mare ai fiumi ai torrenti ai laghi di montagna, fin quasi alle sorgive». 24 «Un dimesso, semplice sciogliersi della parola, senza ambizioni e senza raffinatezze formali» (E. Caccia, Lettura e storia di Saba cit., p. 276), dopo un dettato reso asciutto dal dolore della guerra, non è che l’esigenza espressiva del momento, a tragedia compiuta. Purtuttavia la «narrazione squallida […], in sé desolata e quasi rassegnata» delle vicende (ibidem) è riscattata dalla gabbia formale (la canzone) e dalla densità dei rinvii intertestuali. 25 Cfr. U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Id., Tutte le prose cit., p. 312. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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perduta, che si snoda dalla terza alla settima stanza. L’armoniosa “libertà” dell’archetipo leopardiano, nella petrarchesca alternanza di endecasillabi e settenari, s’irrigidisce nell’isometria endecasillabica spezzata solo dalla coda settenaria del ritornello («Tutto mi portò via il fascista abbietto | e il tedesco lurco», vv. 26, 37, 45, 55). Si profila dunque una «normalizzazione» del modello già sperimentata nelle poesie a tre strofe di Trieste e una donna.26 Contribuiscono all’orchestrazione rigorosa l’anafora in appicco di strofa (quasi un residuo delle coblas capdenals), il rêfrain e la rima baciata fissa tra terzultimo e penultimo verso,27 nonché le simmetrie costruttive sparse (dalle dittologie alla scansione bimembre dei versi).28 Passando al dettaglio, spesseggiano immagini, prestiti di lemmi e sintagmi da Leopardi, in certi casi al limite del calco scolastico29 e spesso ripescati dal primo Saba. In questo modo, attraverso il recupero di un confronto esibito e di un’adesione emotiva al modello d’elezione, “si chiude il cerchio”. Il leopardismo che salda giovinezza e maturità lirica di Saba racchiude, dunque, in un disegno anulare, un percorso poetico, ed è al contempo segno di quell’irresistibile e connotante coazione a ripetere del triestino. Accanto alla ripresa della “vulgata”, che si arresta alla grana lessicale, si hanno riscontri più complessi, magari concomitanti: coincidenze prosodiche, affinità di ritmo e sintassi.
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Si riscontra un assetto metrico per certi versi affine a questo nella lirica Intorno a una casa in costruzione, Trieste e una donna, composta di tre strofe, rispettivamente di undici, dieci e sette versi, quasi tutti endecasillabi, fatta eccezione per l’ultimo del primo e del terzo segmento: una clausola ora settenaria (v. 11) ora quinaria (v. 28), che spezza il ritmo. 27 È evitata la combinatio come in A Silvia, dove però è il settenario che chiude ciascun «movimento» a rimare con un verso appena precedente. Cfr. L. Blasucci, Genesi e costruzione di A Silvia (1997), ora in Id., Lo stormire del vento tra le piante, Venezia, Marsilio 2003, pp. 134-139. 28 Si osservi l’equilibrio interno dissimulato: 13vv. (4+9), 13vv., 11vv., 8vv., 10vv., 8vv., con un procedere a coppie imperfetto per poco (un verso di scarto tra quarta e sesta stanza). Al di là di questa simmetria esterna, che compensa l’asimmetria tra le due porzioni testuali (descrizione-rievocazione), si nota anche un’impostazione del discorso su due tempi (passato della memoria e presente della delusione) che, pur in altra modalità, contrassegna Le ricordanze. A segnare un tracciato circolare, collegando prima e seconda parte del testo, è l’idea della morte e della gratificante «corrispondenza d’amorosi sensi». L’indebolirsi della fede («Vien meno anche la fede | nella morte, che tutto essa risolva») diventa perdita definitiva («Tutto ci portò via il fascista abbietto, | anche la tomba – e il tedesco lurco»). 29 Si riattiva qui quella tendenza giovanile a inserire leopardismi «senza filtro». Mengaldo riassume con efficacia: «[in Saba] gli antichismi più accentuati sono, un po’ come in Svevo, idealmente scorporabili, tanto sono acerbi», P. V. Mengaldo, La poesia del Novecento, in Letteratura italiana, letterature europee, Atti del Congresso nazionale dell’ADI, Padova-Venezia, 18-21 settembre 2002, a cura di G. Baldassarri e S. Tamiozzo, Roma, Bulzoni 2004, p. 124. Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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Consideriamo le intersezioni nel primo segmento. L’affacciarsi alla finestra conserva qualcosa dell’atteggiamento contemplante che avvia Le ricordanze («Vaghe stelle dell’Orsa […] E ragionar con voi dalle finestre / Di questo albergo ove abitai fanciullo», vv. 1-5); una movenza già impressa nell’incunabolo sabiano A una stella, vv. 1-2 («Io seggo alla finestra; / e parlo, come un tempo, alla mia stella»),30 apparso sulla «Brigata» nell’aprile 191731 e ripubblicato, certo non a caso, a distanza di quasi trent’anni, il 23 dicembre 1946, su «La Fiera Letteraria». Il «biancheggiare» dello spicchio della luna (v. 5) aggetta scopertamente sul tenue «Al biancheggiar della recente luna» de Il sabato del villaggio, v. 19. Ma è nella seconda lassa che s’addensano gli stilemi leopardiani: l’interrogazione protratta e l’inserto allocutivo richiamano la «tonalità mossa e patetica»32 della prima strofa di A Silvia. In più, se nell’apostrofe all’amico prigioniero («Ricordi, / tu dei miei giovani amici il più caro», vv. 17-18) Saba fa scattare il “cortocircuito” – previa modernizzazione lessicale – col celebre incipit «Silvia, rimembri ancora»,33 nella domanda accorata sul perché del nascere e soffrire («Perché, madre, / m’hai messo al mondo?», Avevo, vv. 7-8) fa risentire la voce del «pastore errante»: «Ma perché dare al sole, / Perché reggere in vita / Chi poi di quella consolar convenga?» (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 52-54).34 Medesima è l’amara coscienza del dolore, in Saba più contratta, senza l’anafora che incrementa il pathos. Da ultimo, quel “tu” anaforico, sull’asse verticale, ai vv. 18-19, non può non rievocare le insistite istanze fatiche del recanatese. Il nodo è davvero fitto. A seguire, ai vv. 19-20, il ribattuto «non pure / so dove sei, né se più sei» sembrerebbe adombrare l’ubi sunt de Le ricordanze riferito a Nerina («Dove sei gita», «Ove sei che più non odo / la tua voce sonar», vv. 138,
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La lirica – trascritta in U. Saba, Tutte le poesie cit., pp. 884-885, e riportata in Storia e cronistoria del Canzoniere come prova dell’alta incidenza del verbo leopardiano («il processo assimilativo al maestro è così impressionante da far pensare ben più ad un’immedesimazione amorosa che ad una banale imitazione», ivi, p. 419) – presumibilmente è stata composta da Saba nell’autunno del 1902, a diciannove anni, e non a diciassette. Cfr. U. Saba, Il Canzoniere 1921, a cura di G. Castellani cit., p. XIV. 31 Inserita nella serie Le mie prime poesie (Trieste 1900-1902) verrà ripubblicata qualche anno più tardi in «Orizzonte italico» (gennaio-febbraio 1924) con la data «Trieste, 1902». Cfr. le note di A. Stara in U. Saba, Tutte le poesie cit., p. 1133-1134. 32 P.V. Mengaldo, Giacomo Leopardi: A Silvia, in Id., Attraverso la poesia italiana, Roma, Carocci 2008, p. 154. 33 Rifluito già nell’attacco della giovanile Lettera ad un amico pianista studente al Conservatorio di Liegi 1 («Elio, ricordi il bel tempo gentile»), che colleziona prestiti vistosissimi da Leopardi. 34 Cfr. la domanda finale dell’Islandese alla Natura: «a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?», G. Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese, in Id., Opere, a cura di S. Solmi, Milano-Napoli, Ricciardi 1956, vol. 52, tomo I, p. 536. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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144-145).35 E ancora, frammenti di verso possono innescare analogie forse più “epidermiche” ma ugualmente incisive: se al v. 28 «È viva ancora, ma al riposo inclina» riattiva la clausola di Amore e morte, v. 74 («Tanto alla morte inclina / d’amor la disciplina».), al v. 39 «Di me vedevo in lei la miglior parte» sembra appoggiarsi, per il sintagma aggettivale in uscita e l’accento sull’io in attacco, su «E di me si spendea la miglior parte» (A Silvia, v. 18).36 Con la nota a margine di un’evoluzione, del trapasso dalla chiusura soggettiva di segno negativo37 all’individuazione nell’altro – la figlia Linuccia – del meglio di sé. Singolare anche un caso di “sovrimpressione”: «D’altri tempi / al ricordo doloroso il cuore / si stringe» (vv. 32-34) sembrerebbe contaminare «altro tempo, fanciullo, altra stagione» (Le ricordanze, vv. 148-149) con «che sempre stringe / il core dogliosamente» (Consalvo, vv. 36-37). Il «gesto finale, sobriamente neoclassico»,38 di indicare tomba e morte in A Silvia, ai vv. 62-63 («la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi di lontano») si carica di vis polemica e amarezza. Su tale ipotesto leopardiano “rifratto”, si innesta il vistoso calco dantesco del rêfrain «Tutto mi portò via il fascista abbietto / e il tedesco lurco», grido del popolo fiorentino di cui l’io si appropria.39 Il sintagma espressivo («il tedesco lurco»), che dà veemenza alla denuncia del doppio nemico, è chiaramente tratto da Inf. XVII, vv. 19-22 («Come talvolta stanno a riva i burchi / […] / e come là tra li Tedeschi lurchi / lo bivero s’assetta a far sua guerra»), sebbene si possa ammettere l’anello intermedio dei versi di Carducci:40 dalla proposta del nudo aggettivo sostantivato
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A livello di microprocessi si veda il sovrapporsi di «Tanta / luce» (vv. 15-16) su «pura / luce», Le ricordanze, vv. 45-46. 36 Un poeta legato “a filo doppio” a Saba, Vittorio Sereni, trasporterà questo verso, come citazione corsivata, quintessenza dell’“antico” e del “diverso”, nel contesto industriale del poemetto degli Strumenti umani, Una visita in fabbrica IV, 14-17 «[…] Salta su / il più buono e il più inerme, cita: E di me si spendea la miglior parte / tra spasso e proteste degli altri – ma va là – scatenati». Indiscutibile l’effetto di straniamento suggerito dalla sovrapposizione di registri distinti (il sublime e il colloquiale), graficamente marcati. 37 Cfr. l’incipit di sapore petrarchesco della lirica Piccole ingiustizie, composta nel settembre 1902 e destinata a introdurre, con titolo mutato (Fra chi dice d’amarmi), il Canzoniere 1921: «Mesto e incompreso, fra una gente ostile, / io consumo la dolce età migliore» (vv. 1-2; cfr. U. Saba, Tutte le poesie cit., p. 882). 38 Cfr. P.V. Mengaldo, Una lettura di ‘A Silvia’, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXVII (2010), 618, p. 201. 39 «Un motivo popolare che, nei primi giorni della liberazione, correva le vie desolate di Firenze, che si poteva, per così dire, coglierlo da ogni bocca», U. Saba, ‘Storia e cronistoria del Canzoniere’, in Id., Tutte le prose cit., p. 311. 40 Se in questo caso Carducci è l’anello intermedio del “tragitto” citazionale, in un testo di Trieste e una donna, Il poeta, è polo antitetico e fonte imprescindibile: «“Il poeta” sa un poco di risposta polemica alla poesia omonima di Giosuè Carducci. […] Forse non di una polemica Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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in Juvenilia, LXXXIX. Magenta, vv. 5-6 («Già fuoco e ferro orribilmente in volta / Percuote i lurchi come turbin fosse») alla maggior aderenza alla matrice dantesca – per la comparsa, in posizione forte, di referente teutonico e rapacità ferina – nella patriottica Canzone di Legnano, Il Parlamento III, vv. 22-24 («La primavera in fior mena tedeschi / Pur come d’uso. Fanno pasqua i lurchi / Ne le lor tane, e poi calano a valle»). L’omaggio scoperto al «divino poeta» implica una significativa risemantizzazione41 e si pone come marchio di italianità che, nel rintocco periodico, rinnova la figura sabiana del kuklos, dell’«eterno ritorno» nietzscheano. La dimensione “narcisistica”, che l’anafora di «Avevo» e l’insistenza sul pronome di prima persona accentuano, si allarga così in un respiro corale, se non universale.42 L’incontro di autobiografismo memoriale e pluralità in senso epico-nazionale rinforza quell’identificazione, per affinità di destino, che Saba in esilio a Firenze ricerca col fiorentino exul immeritus.43
(peggio ancora di una polemica in versi) si può parlare, quanto della ripresa di uno stesso tema da parte di un poeta così remoto dal Carducci per carattere, sensibilità, clima nel quale visse», U. Saba, Storia e cronistoria…, in Id., Tutte le prose cit., pp. 158-159. 41 Il riutilizzo complesso di materiali danteschi, che prescinde dalla citazione tout court, è indagato da Luigi Scorrano (Presenza verbale di Dante nella letteratura italiana del Novecento, Ravenna, Longo 1994, pp. 113-125), che, nel suo ampio spoglio (riprese di lemmi, calchi rimatici, sottili rifacimenti di passi), menziona il ritornello di Avevo. Sull’argomento cfr. G. Di Paola Dollorenzo, Dantismo e dantismi di Saba, in Saba extravagante cit., pp. 203-206. 42 Così intende anche Wafaa el Beih nel suo Il ‘Canzoniere’: storia di un pellegrinaggio irrequieto, in Saba extravagante cit., pp. 102-103: «Avevo raccoglie tutta l’esperienza di Saba superando i limiti individuali in un orizzonte universale in cui tutti piangono la perdita di case, parenti e città. La totalità dell’anima del poeta si esprime in questo lungo lamento poetico insicuro di trovare conforto neanche nella morte». Questa interpretazione avalla quella suggerita da Saba-Carimandrei: «Si può ben dire che, scrivendo “Avevo”, Saba “pianse e cantò per tutti”», U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Id., Tutte le prose cit., p. 311. 43 L’associazione ideale a Dante costituisce un leitmotiv che può evidenziare il nesso tra parola poetica ed esaltazione della vita: «Perché venga l’ora sua, perché venga l’ora di Saba, bisogna che l’Italia abbia prima ritrovata se stessa, la parte migliore della sua tradizione. Occorre, in una parola, un altro Risorgimento e che – come accadde appunto nel Risorgimento – i valori petrarcheschi (che sono legati a quelli della morte) cedano un’altra volta davanti ai valori danteschi (che sono quelli della vita)», U. Saba, Storia e cronistoria… in Id., Tutte le prose cit., p. 253. Questo dantismo in funzione antipetrarchesca, ben attestato, come già visto, nell’epistolario («La mia poesia vincerà, ma perché gli italiani la comprendano, bisogna che sieno nuovamente in un periodo di ascesa e che – come al tempo del Risorgimento – amino più Dante e meno Petrarca», lettera a Lina, «Milano, 18 Marzo 1946», in U. Saba, Atroce paese che amo cit., p. 41), compare, un po’ in tralice ma non senza significato, nel finale della stessa Storia e cronistoria: cfr. l’articolo Poesia delle gioie e delle pene d’amore di G. Piovene e A proposito di Saba di P.A. Quarantotti Gambini. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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Completano il reticolo citazionale l’intarsio dall’Adelchi («ansia / pietà» vv. 3031, cfr. Adelchi, coro Atto IV, vv. 13-14 «Sgombra, o gentil, dall’ansia / mente i terrestri ardori»)44 e l’inflessione foscoliana che ha, come epicentro, A Zacinto: il «diverso esiglio» dell’Ulisse omerico sdoppiato in «Oscuri / esigli e lunghi»;45 il dono del canto alla propria terra: «Tu non altro che il canto avrai del figlio, / o materna mia terra» vicino a quel «[…] Mia / perché vi nacqui, più che d’altri mia […] per sempre a Italia la sposai col canto»;46 l’«illacrimata sepoltura» equivalente alla «tomba» sottratta da fascisti e nazisti. Ecco dunque dimostrato, a grandi linee, come in un singolo campione lirico si incontrino i poeti prediletti, assimilati nella prassi poetica e qui allusi in modo solo apparentemente esteriore, per verba. Non manca, come contraltare alla densità letteraria, la decisa impronta sabiana visibile sia nei tratti stilistici denotativi, quali le riprese strutturali, talvolta con sfumatura oratoria,47 e la sintassi «ad inversione aspra»48 o involuta, sia nei motivi tematici-iconici: il tòpos, di ascendenza pascoliana, delle nuvole che transitano in
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Il ricorso ad «ansia» aggettivo, in contre-rejet, è già stato rilevato da F. Brugnolo ne Il ‘Canzoniere’ di Umberto Saba, in Letteratura Italiana. Le Opere, a cura di A. Asor Rosa, IV. Il Novecento, I. L’età della crisi, Torino, Einaudi 1995, p. 60. 45 L’identificazione di Saba con Ulisse inizia a configurarsi a partire dal Piccolo Berto (19291931), quando in Partenza e ritorno il poeta rievoca il nòstos fanciullesco a casa della «fida nutrice» slava: «alla sua cara Itaca Ulisse / non ebbe forse un più lieto ritorno / del mio, di Berto in Via del Monte». L’assimilazione è ammessa in Storia e cronistoria (in U. Saba, Tutte le prose cit., p. 287): «Nella figura di quell’astuto greco egli si è più volte (non sappiamo se a torto o a ragione; probabilmente più a torto che a ragione) “eroicizzato”». Restano emblematiche Cuore della raccolta Parole, Mediterranea e Ulisse di Mediterranee. Cfr. G. Mazzoli, ‘Mediterranee’. Gli sguardi di Saba sull’antico, in Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea, Atti della terza giornata di studi Sestri Levante, 24 marzo 2006, a cura di E. Narducci, S. Audano, L. Fezzi, Pisa, Edizioni ETS 2007, pp. 43-45. 46 Sul “canto” di Foscolo Saba si era soffermato già ai tempi della prima guerra mondiale, abbozzando un elogio e una parentela: «È sì dolce per me, Ugo, il tuo canto»; «Fra il mio labile verso ed il tuo eterno, / dove un mondo s’innova, un’alba luce, / ascose altrui, care assonanze io scerno» (Poesie scritte durante la guerra, A Ugo Foscolo, vv. 1, 12-14, lirica presente nel Canzoniere 1919 e 1921, poi espunta, ora in U. Saba, Tutte le poesie cit., p. 864). Da non trascurare la ripresa verbale, unita a variatio sinonimica nel soggetto reggente («un mondo», «tutto»), in Avevo, vv. 8-9 («Che ci faccio adesso / che sono vecchio, che tutto s’innova»). Cfr. anche la possibile eco dantesca nella voce verbale “lucere”: p.e. Inf. II, v. 54 «Lucevan li occhi suoi più che la stella». 47 Per l’anafora come segno di transizione cfr. la Sesta fuga ma soprattutto l’iterazione di «Si fa notte» che ritma La visita, “canzone libera” della sezione Varie che chiude il Canzoniere 1945. 48 Cfr. G.L. Beccaria, Poesia di Saba, in Umberto Saba, Trieste e la cultura mitteleuropea cit., p. 25, poi in Id., Le forme della lontananza, Milano, Garzanti 2001 (prima ed. 1989), p. 40. Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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cielo («Guardo nel cielo nuvole passare», v. 4);49 la moglie affaccendata («il fuoco alimentare a scarse legna» cfr. Trieste e una donna, Nuovi versi alla Lina, v. 150 «e tu quasi aggiungevi legna al fuoco»); il suggestivo gioco di sguardi tra padre e figlia (vv. 39-42);50 la «scontrosa grazia» di Trieste tradotta nel solito contrasto di cielo e mare («tra i monti / rocciosi e il mare luminoso»);51 i “cari” loci deputati (il negozietto e il cimitero degli ebrei, quel «camposanto / abbandonato» di Tre vie descritto ora come foscoliano “giardino”).52 L’infratestualità e l’intertestualità – vale a dire, la rete di relazioni interne ed esterne al corpus sabiano53 – denunciano un doppio recupero del passato, letterario e biografico, che chiarisce il rapporto, ora di nuovo solido, tra soggetto e tradizione letteraria (Leopardi e Dante, i due modelli), il vincolo tra l’io e la sua triestinità psicologica, ormai fusa col sentimento “patrio”. 3. Alla spia dantesca intensificata di Avevo rispondono, circolarmente, i prelievi dalla nota «ballatetta» cavalcantiana Perch’i’ no spero di tornar giammai – citazioni più esornative che emotivamente sentite54 – nell’explicit di 1944, che libera, in forma di
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Per la nuvoletta, «icona sabiana della leggerezza» (M. Paino, La tentazione della leggerezza… cit., p. 130), si vedano le primissime Ammonizione, vv. 1-2 («Che fai nel ciel sereno | bel nuvolo rosato»; la poesia che inaugura Canzoniere 1919) e Lettera ad un amico pianista studente al conservatorio di…, vv. 39-40 («Così spezzarsi, dileguar si vede / nube in cielo rosata»), poi Sopra un mio antico tema. La fonte comune è Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, vv. 36-39 di Leopardi: «come vapore in nuvoletta accolto / sotto forme fugaci all’orizzonte, / dileguarsi così quasi non sorta» (riscontro già presente in F. Brugnolo, Il ‘Canzoniere’ di Umberto Saba cit., p. 61). 50 Lo sguardo azzurrino di Saba (Autobiografia III, v. 5) si specchia in quello di Linuccia, «bambina […] / con gli occhi grandi colore del cielo», Cose leggere e vaganti, Ritratto della mia bambina, vv. 1-2; e ancora «bambina / dagli occhi azzurri» in Autobiografia XII, vv. 3-4. 51 Cfr. il panorama di Trieste e una donna: da «Trieste, nova città, / […] / che di tra il mare e i duri colli senza / forma e misura crebbe» (Verso casa, vv. 5-8) a «cara città, dal golfo luminoso alla montagna / varia d’aspetti in sua bella unità» (L’ora nostra, vv. 11-13). 52 Cfr. U. Foscolo, Dei sepolcri, vv. 114-129 (la visione lieta delle «urne» antiche) e vv. 130131 (gli «orti / de’ suburbani avelli» d’Inghilterra). È preciso il rinvio a U. Saba, Trieste e una donna, Tre vie, vv. 30-33: «[…] il vecchio cimitero / degli ebrei, così caro al mio pensiero, / se vi penso i miei vecchi, dopo tanto / penare e mercatare, là sepolti». Per l’immagine della madre che riposa nel cimitero cfr. Id., Poesie dell’adolescenza e giovanili, Lettera ad un amico pianista…, v. 45: «Pace la tua madre giù nel cimitero». 53 Per una chiara definizione dei due fenomeni (l’intratestualità e l’intertestualità) cfr. E. Pasquini, Intertestualità e intratestualità nella Commedia dantesca. La tradizione del Novecento poetico, Bologna, CUSL 1993, p. 39 n. 54 Stanchezza e retorica indeboliscono la riuscita estetica, a detta di Carimandrei. La ripresa da Cavalcanti avrà maggiore incidenza nei Versi livornesi di Giorgio Caproni, prima sezione de Il seme del piangere (Milano, Garzanti 1959), per i quali si rinvia al saggio di A. Borghesi, A V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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congedo, una Dedica, un ringraziamento a Firenze liberata. Dopo il richiamo all’esule Dante, è la volta dell’esule Cavalcanti. L’attacco non modifica quello dell’originale, e il sintagma in enjambement ai vv. 78 («gentile / sangue»)55 riaggancia, con l’aggettivo di colore stilnovista, la «gentil natura» di Cavalcanti. Ma forse soccorre, per quanto lontana dall’accezione etica qui intesa, la celebre invocazione petrarchesca «Latin sangue gentile» della canzone All’Italia (RVF CXXVIII, v. 76), apostrofe “canonizzata” dalla triade di fine Ottocento-inizio Novecento, Carducci-Pascoli-D’Annunzio.56 E la parola di Dante riaffiora immancabilmente, di nuovo, nel nesso tra «canti» e «lai» del v. 3 dove scatta, immediata, la memoria acustica che riporta a Inf. V, v. 46 «E come i gru van cantando lor lai». Dante e Cavalcanti, dunque, chiusi in un girotondo, in quella figurasimbolo ampiamente sfruttata dal poeta triestino. In un organismo ben congeniato, per quanto non etichettabile come macrotesto, poesia in limine e testo di chiusura tracciano una cornice che fa scivolare la drammatica contemporaneità storica nell’antico e insieme ribadisce la fedeltà di Saba al proprio mondo (Trieste) e al proprio passato letterario (Dante-Leopardi), nonostante la pesantezza del clima bellico o forse, a maggior ragione, per via di quel contesto di sofferenza. Se non risulta una sovrainterpretazione, la letteratura può esser vista, in questo frangente, con una singolare valenza salvifica57 e come, ancora una volta, strumen-
lezione di leggerezza: Caproni tra Dante e Guido, in «Belfagor», LXI (2010), 6, pp. 667-687. Per il «cavalcantismo sottile, acuto, che va al di là della semplice intertestualità e dell’appropriazione di un determinato tema», cfr. anche L. Somelli, Un «esperimento cavalcantiano» (e dantesco): i ‘Versi livornesi’ di Giorgio Caproni, in «Filologia e critica», XXVIII (2003), 3, pp. 443-457. L’attacco della stessa Perch’i no spero di tornar giammai costituisce il titolo, specchiato anaforicamente nell’incipit, del testo incipitario di Il seme del piangere, Perch’io, costruito con vario materiale cavalcantiano, su cui riflette Somelli (ivi, pp. 443-445). La «ballatetta», traccia intertestuale che soggiace all’intera sezione, affiora scopertamente nell’attiguo Preghiera (cfr. «Anima mia, leggera / va’ a Livorno, ti prego», vv. 1-2; l’epiteto «leggera», l’imperativo in appicco di verso, la precisazione del luogo da raggiungere, il concorso di apostrofatio e fictio personae – frequente in più unità poetiche – sono tutte reminescenze schiette da Cavalcanti). 55 «Gentile» conta dieci occorrenze nel Canzoniere 1919: Lettera ad un amico pianista…, vv. 1 e 65 («Elio ricordi il bel tempo gentile»; «Con te il buon tempo rivivrei gentile»); Fra chi dice d’amarmi, v. 11 («passa e non guarda il mio gentil lavoro»); Il fanciullo, v. 12 («che in altro tempo e più gentil contrada»); Nuovi versi alla Lina, XIII, v. 2 («Scordala, che sarà cosa gentile»), Vita di guarnigione, vv. 60-62 («per te li ho fatti, per una gentile / donna che aspetta […]»); Favoletta, v. 4 («gentil capretta»); L’amorosa spina, v. 35 («Del ben che il tuo gentile atto mi fece»); Piccole ingiustizie, v. 3 («e celo, vergognando ogni gentile»); L’invasore, v. 12 («gaio soldato, gentile invasore»). 56 Cfr. Carducci, Juvenilia, San Martino, v. 9; Pascoli, Odi e inni, Inno a Mazzini VI, v. 26; D’Annunzio, Elettra, Al re giovine, v. 100 e La notte di Caprera XIX, V. 9; Alcyone, Al commiato, v. 164 e Merope, Canzone del sangue, v. 168. 57 Cfr. anche la palingenesi in U. Saba, 1944, Dedica, v. 9: «Si rifece per te l’anima pura». Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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Marta Rebagliati
to di “fratellanza”. La renovatio parte dal singolo (l’io lirico) e abbraccia l’intero (la popolazione italiana) in un movimento d’apertura che ha in sé l’impronta del Saba più “assetato” di umanità.
Avevo
Dedica
Da una burrasca ignobile approdato a questa casa ospitale, m’affaccio – liberamente alfine – alla finestra. Guardo nel cielo nuvole passare, biancheggiare lo spicchio della luna,
Perch’io non spero di tornar giammai fra gli amici a Trieste, a te Firenze questi canti consacro e questi lai. 5
Palazzo Pitti di fronte. E mi volgo vane antiche domande: Perché, madre, m’hai messo al mondo? Che ci faccio adesso che sono vecchio, che tutto s’innova, che il passato è macerie, che alla prova 10 impari mi trovai di spaventose vicende? Viene meno anche la fede nella morte, che tutto essa risolva. Avevo il mondo per me; avevo luoghi del mondo dove mi salvavo. Tanta 15 luce in quelli ho veduto che, a momenti, ero una luce io stesso. Ricordi, tu dei miei giovani amici il più caro, tu quasi un figlio per me, che non pure so dove sei, né se più sei, che a volte 20 prigioniero ti penso nella terra squallida, in mano al nemico? Vergogna mi prende allora di quel poco cibo, dell’ospitale provvisorio tETTO. Tutto mi portò via il fascista abbietto ed il tedesco lurco. Avevo una famiglia, una compagna; la buona, la meravigliosa Lina. È viva ancora, ma al riposo inclina più che i suoi anni impongano. Ed un’ansia pietà mi prende di vederla ancora, in non sue case affaccendata, il fuoco alimentare a scarse legna. D’altri tempi al ricordo doloroso il cuore si stringe, come ad un rimorso, in pETTO.
Come t’amavo in giovanezza! Folli che abitavano te, t’han fatta poi difforme a tutti i miei pensieri, ostile.
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Ma di giovani tuoi vidi gentile sangue un agosto rosseggiar per via. Si rifece per te l’anima pura. M’hai celato nei dì della sventura. 1944
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GUIDO CAVALCANTI, Rime, xxxv Perch’i’ no spero di tornar giammai, ballatetta, in Toscana, va’ tu, leggera e piana, dritt’ a la donna mia, che per sua cortesia ti farà molto onore.
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Tu porterai novelle di sospiri piene di dogli’ e di molta paura; ma guarda che persona non ti miri che sia nemica di gentil natura: ché certo per la mia disaventura tu saresti contesa, tanto da lei ripresa che mi sarebbe angoscia; dopo la morte, poscia, pianto e novel dolore.
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Tu senti, ballatetta, che la morte mi stringe sì, che vita m’abbandona; e senti come ’l cor si sbatte forte
V. Il cosmopolitismo degli Italiani
‘1944’: Umberto Saba e la ricerca dell’identità italiana Tutto mi portò via il fascista abbietto ed il tedesco lurco. Avevo una bambina, oggi una donna. Di me vedevo in lei la miglior parte. Tempo funesto anche trovava l’arte di staccarla da me, che la radice vede in me dei suoi mali, né più l’occhio mi volge, azzurro, con l’usato affETTO. Tutto mi portò via il fascista abbietto e il tedesco lurco.
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Avevo una città bella tra i monti rocciosi e il mare luminoso. Mia perché vi nacqui, più che d’altri mia che la scoprivo fanciullo, ed adulto per sempre a Italia la sposai col canto. Vivere si doveva. Ed io per tanto scelsi fra i mali il più degno: fu il piccolo d’antichi libri raro negoziETTO. Tutto mi portò via il fascista inetto ed il tedesco lurco.
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Avevo un cimitero ove mia madre riposa, e i vecchi di mia madre. Bello come un giardino; e quante volte in quello mi rifugiavo col pensiero! Oscuri esigli e lunghi, atre vicende, dubbio quel giardino mi mostrano e quel lETTO. Tutto mi portò via il fascista abbietto – anche la tomba – ed il tedesco lurco.
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per quel che ciascun spirito ragiona. Tanto è distrutta già la mia persona, ch’i’ non posso soffrire: se tu mi vuoi servire, mena l’anima teco (molto di ciò ti preco) quando uscirà del core. Deh, ballatetta mia, a la tu’ amistate quest’anima che trema raccomando: menala teco, nella sua pietate, a quella bella donna a cu’ ti mando. Deh, ballatetta, dille sospirando, quando le se’ presente: «Questa vostra servente vien per istar con voi, partita da colui che fu servo d’Amore». Tu, voce sbigottita e deboletta ch’esci piangendo de lo cor dolente, coll’anima e con questa ballatetta va’ ragionando della strutta mente.
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Voi troverete una donna piacente, di sì dolce intelletto che vi sarà diletto starle davanti ognora. Anim’, e tu l’adora sempre, nel su’ valore.
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ANTONIO R. DANIELE Stranieri in patria: Alberto Moravia e Dino Buzzati fra identità e canone
Moravia e Buzzati, scrittori dissimili per tante ragioni, hanno avuto il comune destino di guadagnare migliori consensi e apprezzamenti fuori dai nostri confini più che nei consessi delle patrie lettere. Essi, per la verità, sono in buona compagnia, ma sono stati scelti per l’occasione in quanto emblemi di fenomeni culturali che meritano – a nostro giudizio – un debito approfondimento. Dopo la lunga stagione di successi editoriali cui, naturalmente, ha fatto seguito una corposa bibliografia critica, Alberto Moravia ha via via perduto appeal, in specie dopo la sua morte. E questo è di per sé un fatto singolare se consideriamo che nelle dinamiche mitopoietiche occidentali la morte contribuisce di solito a consacrare il nume tutelare degli artisti, qualche volta ben oltre i loro stessi meriti. Le cifre sono eloquenti: in vent’anni, dal 1990 in poi, gli studi italiani dedicati allo scrittore romano sono poco più di trenta (si tralasciano, ovviamente, quelli occasionali o di scarso rilievo scientifico).1 Giusto per offrire qualche elemento di raffronto, diremo che a Calvino, scomparso appena cinque anni prima di Moravia, è risevato un materiale critico più che quadruplo (131 studi). E cosa dire di Pavese (224) e Gadda (112), anch’essi in proporzione titolari, dall’indomani della loro morte, di una bibliografia nettamente più ampia? Quanto all’ipertrofia dei contributi critici su Pasolini, va detto che essa chiama in causa questioni che spesso esulano il contesto puramente letterario. Eppure Moravia è stato indubbiamente uno dei più fecondi narratori del Novecento italiano e, soprattutto, una figura – spesso suo malgrado – molto partecipe dei circuiti culturali e intellettuali del nostro Paese. Dino Buzzati in vita è stato giudicato un giornalista col talento dello scrittore e
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Non si tiene conto, ad esempio, delle ristampe di opere già pubblicate, degli interventi a convegni (quando non inseriti in volumi monografici) e di articoli o recensioni su riviste o quotidiani. Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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l’ambizione della pittura. Era anche un pubblicista, ma scriveva sul suo stesso giornale. E quasi mai di letteratura. Egli stesso, per la verità, ha incoraggiato certe etichette, ma era la conseguenza del carattere di un uomo schivo, quasi remissivo. Così Il deserto dei Tartari e Un amore sono stati episodi felici ma isolati: ricadevano più che altro all’interno del microcosmo del loro stesso autore. In Italia gli estimatori più entusiasti di Buzzati, fintantoché egli ha prodotto, erano i colleghi di redazione in via Solferino: Gaetano Afeltra2 e Indro Montanelli.3 E spesso anch’essi, soprattutto Montanelli, lo trattavano alla stregua di un bravo collega, un cronista impeccabile dalla penna ispirata e col pallino della narrativa. Prima del 1972 si conta la sola monografia di Enzo Carli, dedicata peraltro alla pittura del bellunese.4 In compenso piaceva a Montale che giudicò favorevolmente Un amore,5 subito dopo la pubblicazione. Poi, a parte qualche altra recensione sparsa qua e là, null’altro. Da quando ci ha lasciati il suo nome ha cominciato a circolare negli ambienti colti, ma già nel 1982 Fausto Gianfranceschi notava che Dino Buzzati è un corpo estraneo per gran parte della critica italiana, da trattare con precauzione e preoccupazione, se possibile da rimuovere. Buzzati si rievoca e si pubblica, ma si continua a imprigionarlo – forse più strettamente di quando era in vita – nei sospetti e nelle incomprensioni che affiorano attraverso le onoranze e i giudizi critici apparentemente più meditati. Sorprende il guardingo imbarazzo di molti approcci alla sua opera, dove a una generica ammissione di qualità seguono definizioni evasive e di comodo […] che tradiscono il fastidio di dover cercare per Buzzati una collocazione magari onorevole ma innocua, epigonale, quasi a fare dello scrittore un caso atipico – e quindi marginale – nella nostra letteratura.6
Da allora le cose non sono migliorate granché: dobbiamo ringraziare la compianta Nella Giannetto e le sue periodiche adunate di studiosi se Buzzati ha collezionato qualche buona monografia, ma siamo ben lontani dalle attenzioni che nel frattempo gli sono state riservate oltralpe o ad altre latitudini. Antonio Debenedetti qualche anno fa ha lamentato il perdurante disinteresse per Moravia; fu suo il primo grido d’allarme:
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Cfr. G. Afeltra, E Buzzati scrisse: «Cari rapinatori, riposate anche voi», in «Corriere della Sera», 31 dicembre 1998. 3 Cfr. I. Montanelli, In Buzzati qualcosa di angelico e diabolico, “La stanza di Montanelli”, in «Corriere della Sera», 6 marzo 1997 4 E. Carli, Dino Buzzati, Milano, Martello editore 1961. 5 E. Montale, Un amore, «Corriere della Sera», 18 aprile 1963. Sempre sul «Corriere» Montale dedicò anche un articolo di saluto allo scrittore all’indomani della sua morte (L’artista dal cuore buono, 29 gennaio 1972). 6 F. Gianfranceschi, Buzzati: la sua religiosità e i suoi critici, in A. Fontanella, Dino Buzzati, Firenze, Olschki 1982, p. 15. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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C’era una volta Alberto Moravia, lo scrittore più celebre e più intervistato d’Italia. Le signore, a dispetto dei suoi ottant’anni, lo corteggiavano a volte in modo persino sfacciato. Erano una legione i giovani scrittori o aspiranti scrittori romani disposti a fargli da autista, da fattorino, da segretario o anche semplicemente da portaborse. Effetti del successo. Poi, la mattina del 26 settembre 1990, Moravia fu trovato morto nel bagno del suo appartamento di Lungotevere della Vittoria, e da quel giorno ha continuato a morire socialmente, a morire nella memoria della collettività. I romanzi di Moravia si leggono sempre meno, mentre di questo autore, che rimane tra i più grandi del nostro Novecento, non si scrive quasi più. Diminuiscono persino le tesi di laurea dedicate all’autore degli Indifferenti.7
E mentre Debenedetti invocava l’intervento degli intellettuali amici dello scrittore, e fra costoro Valerio Magrelli, proprio quest’ultimo dalle colonne del «Messaggero» pronunciò parole che da più parti furono intese come una rinuncia o addirittura l’inizio di un «processo di revisione e di ridimensionamento» dell’opera moraviana;8 Romano Luperini, in un volume sul canone del nostro Novecento, ha scritto che, all’alba del nuovo secolo, «i maestri degli anni Trenta e Quaranta come Moravia, Vittorini e Pratolini» stanno «mostrando la corda», e qualche pagina più avanti ha sostenuto – a commento delle più aggiornate antologie scolastiche – che «è abbastanza stupefacente […] che Vittorini o Moravia abbiano maggior considerazione di Fenoglio».9 Ha avuto ragione Giulio Ferroni quando aveva predetto che «il baobab Moravia nel giro di dieci anni» sarebbe diventato «un cespuglietto», come riportò simpaticamente Giancarlo Mazzacurati proprio dieci anni fa in una tavola rotonda sul canone nostrano.10 Destino ingrato per colui che «Le Figaro» invece definì, un anno prima della
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Cfr. A. Debenedetti, Quegli amici smemorati di Moravia, in «Corriere della Sera», 6 settembre 2001. 8 Cfr. V. Magrelli, Per Alberto Moravia non c’è bisogno di sponsor, in «Il Messaggero», 7 settembre 2001. Vedi anche E. Tiozzo, La trama avventurosa nelle autobiografie italiane del Settecento, Roma, Aracne 2004, p. 9. Sintomatiche le parole dello studioso: «In tutta la seconda metà del Novecento sono state pochissime le opere italiane di narrativa che hanno raggiunto un successo di pubblico (o di critica) europeo o mondiale. A parte il discutibile fenomeno Moravia (cui certo a suo tempo contribuirono notevoli interessi editoriali oltre ad un’indiscutibile curiosità da parte del pubblico per l’alone di scandalo che circondava le opere dello scrittore), i libri italiani che si sono affermati sono forse soltanto Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, Il nome della rosa di Umberto Eco e Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro». 9 Cfr. R. Luperini, Il canone del Novecento e le istituzioni educative, in Il canone letterario del Novecento italiano, a cura di N. Merola, Soveria Mannelli, Rubbettino 2000, pp. 12 e 19. 10 B. Bongiovanni, Un canone per il terzo millennio, Milano, Mondadori 2001, p. 221: «Abbiamo già visto che molti baobab sono diventati alberelli nani nel giro di venti-trenta anni. Secondo Giulio Ferroni e, devo dirlo, anche secondo me, il baobab Moravia nel giro di dieci anni sarà un cespuglietto». Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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sua morte, «il più parigino degli scrittori italiani»;11 una recente indagine di Alessandra Farkas, apparsa sul «Corriere della Sera», rivela che Jonathan Galassi, a capo del noto gruppo editoriale Farrar Straus & Giroux, «sfidando le bestseller list, è uno dei pochi che si ostinano a pubblicare autori italiani in America: Alberto Moravia, Carlo Levi, Giuseppe Tomasi di Lampedusa». D’altronde la fortuna americana di Moravia è ben nota sin dai primi scritti di Edmund Muller, Guglielmo Alberti e Doris Grumbach nell’immediato dopoguerra, e si è accresciuta grazie alle coproduzioni cinematografiche del Conformista e della Ciociara che produssero numerose ristampe. Una delle ultime stime delle traduzioni di opere italiane all’estero eseguita da Francesco Bruni, notifica che Moravia primeggia in Francia con ben 94 edizioni – rintuzzando Eco che segue a brevissima distanza – e solo da pochi anni è stato sopravanzato da Pavese e Calvino nel mondo angloamericano. Ritornando a Buzzati: la stessa Nella Giannetto ha scritto in uno dei suoi ultimi accorati interventi sullo scrittore che Si trovano ancora oggi storie della letteratura del Novecento in cui il suo nome non compare addirittura o si limita a far numero in lunghi elenchi di autori minori. Non può non apparire singolare che questo “minore” fuori d’Italia sia considerato, a torto o a ragione, un gigante della letteratura universale.12
Anche Buzzati è tra gli scrittori italiani più tradotti all’estero, non da oggi e con cifre che devono imbarazzare gli editori italiani: oltre trenta lingue, ivi comprese l’hindi e la galiziana. Per un resoconto dettagliato delle traduzioni della sua opera, rimandiamo alla bibliografia aggiornata di Mara Formenti e Isabella Pilo presso la Biblioteca del Centro Studi Buzzati di Feltre, ma mette conto di offrire in questa sede qualche utile accenno: se in Francia Moravia ed Eco regnano indisturbati per numero di edizioni, Dino Buzzati non ha rivali quanto a numero di copie vendute: Il deserto dei Tartari ha abbondantemente superato il milione di copie. Ma nei primi posti della graduatoria compaiono anche Il colombre, Un amore e Le notti difficili. Naturalmente, come si sa, la mole delle traduzioni, per quanto orientativa, non può da sola sancire la fortuna e il credito di uno scrittore. Diremo allora che sono, in realtà, la bontà degli studi critici e l’interesse degli specialisti impegnati negli anni a dirci quanto il bellunese sia una stella di prima grandezza fuori dal Belpaese e specialmente in Francia: vale la pena di rammentare fra tutti l’adattamento francese del Caso clinico realizzato da Camus13 o gli articoli di Marcel Brion, accademico di
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Cfr. «Le Figaro», 7 giugno 1989. N. Giannetto, Il sudario delle caligini, Firenze, Olschki 1996, pp. 237-238. 13 Cfr. A. Briamonte, ‘Un caso clinico’ e l’«adaptation» di Albert Camus, in D. Buzzati, la lingua, le lingue, a cura di N. Giannetto, Milano, Mondadori 1994, pp. 115-134. Vd. anche G. Davico 12
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Francia, apparsi con buona frequenza su «Le Monde» o «La Revue des deux mondes». E mentre in Italia ci si domandava se quel diligente cronista del «Corriere» potesse rientrare nelle categorie critiche del tempo, strette nella morsa marxista della borghesia e dell’antiborghesia, in Francia François Livi realizzava, insieme con Christian Bec, una silloge della letteratura del Novecento italiano dove Buzzati, appena scomparso, gareggiava con Calvino e Gadda e si meritava una trattazione più ampia dei neorealisti. Lo stesso Livi e Yves Panafieu,14 coi loro studi sulle dinamiche traduttorie dei romanzi e dei racconti buzzatiani, hanno inaugurato una fortunata scuola di indagine critica che ha ruotato per tanto tempo attorno alle analisi di Jean Michel Gardair e Marie-Helène Caspar. Infine, chiudiamo questa rapida carrellata con un dato meno raffinato e un po’ plebeo, ma ugualmente utile e indicativo: alla fine del ’99 il noto quotidiano francese «Le Monde» domandò ai propri lettori di stilare una classifica che consacrasse i 100 libri del secolo: facendosi largo fra l’irriducibile sciovinismo transalpino, Il deserto di Buzzati si piazzò ventinovesimo, secondo fra gli italiani dopo Eco e prima di Moravia, quarantottesimo e terzo dei nostri. Insomma, il dato è irrefutabile: Moravia e Buzzati, gradualmente dimenticati o ignorati in patria, sono pressoché osannati in terra straniera. Certo, la “traducibilità” di un autore ne agevola la fortuna fuori confine e non c’è dubbio che Moravia e Buzzati in ciò partano avvantaggiati rispetto, ad esempio, ad uno scrittore come Gadda. Ma la profondità di certe prospettive critiche e anche gli studi sulla lingua – di Buzzati, ad esempio, che Leonardo Rivera ha mostrato essere tutt’altro che facilmente trasponibile da una lingua all’altra15 – lasciano apertissima la questione e soprattutto, se contribuiscono a chiarire in parte il fenomeno straniero, non danno una risposta plausibile all’“antifenomeno” italiano. Abbiamo detto, cominciando il nostro intervento, che questa “strana coppia” è stata scelta per una precisa ragione: non certo per arrischiare improbabili comparazioni fra l’opera dell’uno e dell’altro, ma per offrire qualche spunto ad un’indagine di natura quasi socio-culturale. Naturalmente già da qualche anno tanto gli studiosi dell’uno quanto dell’altro scrittore hanno cercato di spiegare il caso. Cominciamo da Moravia. Le tesi più frequenti e accreditate si possono ricapitolare come segue: vi sono
Bonino, Dino Buzzati tra narrativa e teatro, in A. Fontanella, Dino Buzzati cit., pp. 247-265 e la n. 11 del § VIII (Il caso Buzzati) in N. Giannetto, Il sudario… cit., p. 230. 14 Cfr. Y. Panafieu, Riflessioni di un critico traduttore, in Dino Buzzati, la lingua… cit., pp. 135149. 15 Cfr. L. Rivera, Dino Buzzati: un autore facile da tradurre?, in Dino Buzzati, la lingua, le lingue cit., pp. 171-183; vedi anche, nello stesso volume, Y. Panafieu, Riflessioni di un critico traduttore cit. Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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due ordini di problemi rispetto all’autore degli Indifferenti, uno connesso al suo ruolo pubblico di intellettuale e maître à penser, l’altro concentrato sul peso e sul carattere dell’opera. Così, nel primo caso l’oblio cui è condannato è il conseguente contrappasso che merita un uomo troppo esposto al flusso mediatico (per i francesi Duflot e Rondeau), secondo alcuni cercato e incoraggiato per esercitare un potere consapevole (Magrelli) e addirittura bassamente funzionale alla fortuna e alla tiratura dei propri romanzi (Toni Iermano); secondo altri (Bo) la sua uscita di scena fisica non ha fatto che acuire una diffidenza e un malanimo nei riguardi di un comunista non del tutto allineato, che scriveva «per il giornale dei padroni e della borghesia milanese»,16 che ha pagato e sta pagando – tutto sommato – il fatto di aver bersagliato la borghesia da borghese, rimanendo dentro la borghesia, cioè, come ha scritto Ferroni, da «uomo che nasceva nella borghesia e non vedeva soluzioni sociali oltre la borghesia».17 È poi divenuta celebre l’accusa del solito Antonio Debenedetti che additò i sessantottini a rei di averlo voluto dipingere come «una specie di ras della carta stampata, dell’editoria e del giornalismo».18 Sul piano strettamente letterario, com’è noto, lo storico addebito che ancora oggi grava sullo scrittore romano è di avere scritto, in realtà, un solo lunghissimo romanzo (Cudini). O, con una sottile deviazione – più esigente ma più malevola – aver replicato innumerevoli volte il suo primo fortunatissimo romanzo (Umberto Carpi). A giudizio di Dacia Maraini – sulla scorta di noiose e un po’ sterili periodizzazioni alla Pampaloni – al nostro scrittore ha nuociuto l’ultima fase della sua produzione, «la ricerca infatuata di temi erotici sempre più spinti verso l’alto e l’ossessione sadomasochista che permea gli ultimi libri. Questo è ciò che ha spinto il pubblico e la critica a rigettare i suoi romanzi in blocco».19 Ma questa dichiarazione suona tanto più sorprendente se accostata a quella di Ferdinando Alfonsi, il quale ha giustificato la fortuna moraviana in lingua inglese asserendo che «il successo popolare di Moravia nel mondo angloamericano è quasi interamente dovuto al contenuto erotico dei suoi romanzi, abilmente sfruttato dai suoi editori inglesi ed americani».20 Infine Giulio Ferroni, in
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C. Bo, Letteratura e immortalità. Moravia dimenticato? La gloria passa presto, «Corriere della Sera», 10 settembre 2000. 17 G. Ferroni, E la destra riabilita l’ex nemico Alberto Moravia, «Corriere della Sera», 5 agosto 1998. 18 A. Debenedetti, Quegli smemorati… cit. Nel 1976 fu organizzata una manifestazione di protesta contro i maggiori editori italiani, colpevoli di non promuovere i giovani scrittori e di pubblicare i soliti grandi nomi. Nonostante la dimostrazione avesse avuto il suo apice sotto la sede della Mondadori, sintomaticamente lo slogan scelto fu «Basta con Moravia!». Cfr. Marceranno su Milano cento scrittori: «Basta con Moravia», «Corriere Adriatico», 24 luglio 1976; Il punto su Moravia, a cura di C. Benussi, Roma-Bari, Laterza 1989, pp. 172-173. 19 A. Cardacci Pisanelli, Cosa resterà di Moravia? Intervista con Enzo Siciliano e Dacia Maraini, «L’Espresso», 8 dicembre 1995. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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una rievocazione dello scrittore ebbe a dire, non senza un’apparente contraddizione, che Moravia è uno scrittore che conta molto e, con il passare del tempo, con una sua progressiva inattualità, credo che diventerà anche più grande ma – per i suoi modi di scrittura e per il suo rapporto tra narrativa e mondo – non mi pare possibile che l’opera moraviana possa essere un punto di riferimento. Voglio dire che, per accostarsi davvero al suo mondo, occorre uno scrittore di razza capace di penetrare in strutture letterarie molto complesse.21
La questione è più semplice: Alberto Moravia non si considerava italiano. Sia sul piano sociale che su quello artistico. E non si trattò di una scelta o di un atto volontaristico, ma di una condizione. Egli non aveva l’abito mentale dell’italiano: aveva intrapreso la strada del romanzo quasi per imitazione di Dostoevskij, seguendo cioè il percorso più naturale che un narratore autentico potesse seguire allora, dal momento che i modelli del romanzo italiano si trovavano tutti all’estero. Il vano impulso omicida di Michele non è altro che il dramma di Ivan Karamazov. La nascita di un orientamento esistenziale è fondata, dunque, su un presupposto che attiene al dibattito sul personaggio di marca europea: «dare consistenza umana ai più misteriosi e contraddittori istinti umani», cioè il «progetto romanzesco di Dostoevskij» che vivificò nel giovane Pincherle come un’infusione. Quando l’ispirazione si guastò in metodo, in applicazione, cioè, di uno schema fortunato ecco l’insuccesso delle Ambizioni sbagliate. Nel dicembre del 1935 Moravia s’imbarca per l’America e vi rimane sei mesi. L’impressione che ne ricava è la seguente: L’America si può chiamare giustamente l’erede dell’Europa, ma un erede che entrando in possesso di un palazzo pieno di quadri di libri di statue e di altre cose preziose, lo trasformi in un museo, continuando lui a vivere in una casetta. […] Gli Stati Uniti sono una grande nazione provinciale e borghese. L’americana è soprattutto una provinciale e una borghese. Essa vive in funzione sociale: donde la sua straordinaria prudenza e praticità di fronte alle violenze della passione.
Come ci è confermato da René de Ceccatty, ultimo biografo di Moravia, «al periodo in corso (1935-1941) corrisponderanno l’elaborazione e la preparazione dei testi «meta-romanzeschi» L’amore coniugale e La disubbidienza». Poi Moravia passa in Messico e da quel viaggio nasce La mascherata. Egli, specchiando la borghesia europea e italica in quella americana, ne riceve il riflesso necessario per liberarsi dalle pastoie del personaggio e cominciare una nuova fase artistica. In questo contesto va collocata la nota dichiarazione polemica nei riguardi di Pavese e Vittorini
20
F. Alfonsi, Alberto Moravia in America: un quarantennio di critica, Catanzaro, Carello 1986,
p. 87. 21
G. Ferroni, Processo a Moravia, in «La Repubblica», 16 giugno 1992.
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che stavano creando in Italia il mito americano senza mai essere stati in America: «avevo un armamentario meno italiano», disse lo scrittore a Nello Ajello.22 È questa cifra che permette al nostro scrittore di descrivere spietatamente la borghesia italiana. Egli comincia a maturare, pertanto, un processo critico della classe conservatrice italiana sul terreno demitizzante dell’intellettuale d’ispirazione cosmopolita. Quando lo stesso Ajello gli domanderà se egli avesse seguito la moda di una certa classe culturale accostandosi a «Gramsci come ultimo anello di una tradizione che partiva da Antonio Labriola e agganciava De Santis e Croce», Moravia replicherà sicuro: «questi sono problemi di cultura meramente nazionale, non europea».23 Così gli anni delle rivolte non saranno che la conferma di questa attitudine – si potrebbe quasi dire “vocazione” – della cultura italiana a cristallizzare una “urgenza storica” facendone un monumento destinato presto o tardi a crollare. Se La casa in collina, per quanto venato da elementi autobiografici, appare soprattutto l’esaltazione delle colline e delle Langhe come zona franca e come speranza di riscatto un po’ artefatta dell’Italia del fascismo, filtrata dal mito, La ciociara è modellata sui nove mesi di vita a Fondi. Allo stesso modo La vita interiore è «il ritratto della rivolta giovanile del Sessantotto, esaminata nei suoi motivi più oscuri», cioè l’esito di una borghesia che, come disse Moravia stesso, «aveva fatto presto a riaversi», proprio a causa di quell’irrigidimento di un ideale che digradava in ideologia. In fondo, nell’ottica moraviana, i ragazzi che protestavano davanti alle Università non erano che il frutto di quel processo di presunto affrancamento dalla borghesia liberale che non era riuscito del tutto e, come quei virus che non si debellano ma soltanto si trasformano, si tradurrà nella violenza del terrorismo. D’altronde, quando si presume rimpiazzare una categoria sociale e culturale cristallizzata qual era la borghesia del Ventennio con la sublimazione e quasi la trasfigurazione del suo contrario, fino a patire la colpa di essere nati ricchi o di essersi sottratti al cosiddetto “impegno”, significa che in Italia per molto tempo l’idea non discendeva dall’uomo, ma lo superava fino a schiacciarlo. Sul piano del romanzo vuol dire che il progetto dostoevskijano del rapporto autore-personaggio – o meglio «dell’individuo con se stesso»24 – veniva a mancare. Alcuni tra i maggiori scrittori del dopoguerra e oltre ora divagavano mediante le riscritture “americane”, ora con le sperimentazioni linguistiche (Gadda e il Calvino del Sentiero dei nidi di ragno). Tuttavia Moravia veniva letto, pubblicato, ristampato e interpretato. E non è difficile comprenderne le ragioni: i romanzi di Moravia, aldilà della prosa fluente e godibile, erano – per così dire – l’interfaccia di una vita, promanava da essi una “urgenza storica” quasi sempre vissuta e meditata che il semplice lettore, ma anche il critico più rigoroso intuiva. Una urgenza storica figlia di una disciplina mentale e di una cultura extramunicipali:
22
A. Moravia, Intervista sullo scrittore scomodo, Roma-Bari, Laterza 2008, p. 25. Ivi, p. 26. 24 A. Moravia, A. Elkann, Vita di Moravia, Milano, Bompiani 1990, p. 36. 23
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L’Italia non è un paese nel quale la cultura sia arrivata ad un elevato grado di partecipazione, di nitore, di chiarezza. Non abbiamo la lotta delle idee. O, perlomeno, essa è così impasticciata, mescolata con la sottocultura della sottoborghesia, che diventa un bla bla disperante. La borghesia italiana è emarginata culturalmente. Noi siamo in Europa, ma è come se non ci fossimo. […] E di questa Europa siamo culturalmente alla periferia. […] Questa mancanza di idee rende l’Italia tragica e noiosa insieme. Tragica e noiosa: non c’è connubio più disperante.25
Aveva ragione Luigi Baldacci quando scrisse che Moravia non è stato «sostanzialmente accettato da quello stesso pubblico che gli ha decretato il successo». Poiché quel successo, aggiungiamo noi, aveva una matrice ipocrita: Moravia veniva letto, veniva sostenuto anche mediaticamente, ma colla segreta speranza che i drammi di Michele Ardengo, Agostino, Luca, Silvio Baldeschi, Marcello Clerici e poi ancora Dino, Francesco Merighi, Riccardo Molteni potessero via via essere sbandierati a sostegno di questa o quell’altra schermaglia intellettuale e politica. Mentre erano il trasferimento sulla carta di una questione tutta interna all’autore stesso: il problema del rapporto dell’individuo con se stesso di estrazione dostoevskijana, anzi di estrazione europea, poiché – e fu Moravia stesso a dirlo – «se si pensa che un grande borghese come Gide ha scritto un romanzo che si chiama Le faux monnayeux unicamente perché aveva scoperto Dostoevskij, allora capite che la mia infatuazione per l’autore di Delitto e castigo aveva la radice nella cultura europea del momento».26 Ci pare, invece, che la narrativa italiana e la cultura italiana – quantomeno una certa parte di esse nelle fasi cruciali della storia sociale italiana dal secondo dopoguerra in poi – si siano mantenute sul livello di un tentativo quasi pianificato di rapporto dell’uomo con la società (Vittorini, il gruppo del «Politecnico», l’esperienza mancata di Pavese, la poesia “civile” di Pasolini) o sulla riduzione del rapporto col reale da cui vengono certe soluzioni di maniera di grandi scrittori che hanno finito per imitare se stessi e divenire delle leggendarie monadi. Ho sostenuto che, nella recente letteratura italiana, di due scrittori nessuno parlerà mai male: Gadda e Calvino. Non so se sia propriamente un elogio, ma credo risponda a verità. Sembrano protetti da una parete d’amianto. […] Calvino […] risponde ad una certa idea della letteratura italiana “gentile”, cioè di tipo classico. Gadda invece impersona ciò che in Italia si ritiene sia l’avanguardia.
Non si può dire che il pronostico non sia stato rispettato. Di Moravia – avrebbe voluto dirci egli stesso – invece si parlerà male e lo si metterà in un cantuccio, poiché, dopo aver meritato legioni di lettori e attratto i gazzettieri del potere intellettuale, illudendoli di poter lottare affinché egli passasse dalla loro parte, se ne sot-
25 26
Ivi, p. 16. A. Moravia, A. Elkann, Vita di Moravia cit., p. 36.
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traeva. Morendo, egli ha dichiarato concluso questo agone e la sua opera, drammatico pretesto per quella nuova borghesia che egli aveva già smascherato, è percepita come un inutile tegumento, sembra non poter essere un modello, poiché – come intuì Ferroni e lo abbiamo letto – «per accostarsi al suo mondo, occorre la capacità di penetrare strutture molto complesse», quelle che vengono dal tragico confronto con se stessi, elemento fondativo di tutta la scrittura moraviana. Passiamo a Buzzati: nella vulgata più comune egli è considerato più o meno l’esatto contrario di Moravia. Moravia fu un sensibile scrutatore di fatti storici e sociali cui fu rilevato di essere un dispotico organizzatore della cultura, di manovrare l’editoria e di aver operato una feroce critica della classe borghese rimanendovi all’interno. Buzzati da sempre passa per essersi tenuto alla larga dall’organizzazione della cultura, fuori dalle caste editoriali, mai entrato in un qualche dibattito di classe o sociale in senso più ampio. Ma non tutto risponde a verità. Certamente lo scrittore bellunese non era apparentato con nessuna cerchia intellettuale e spesso aveva pubblicato grazie all’insistenza dei colleghi di redazione, ma per quanto egli stesso avesse contribuito a questo stato di cose, preferendo rimanere prima di tutto un redattore del «Corriere», tutto ciò può spiegare solo in parte il ruolo marginale che egli svolge tutt’oggi nel panorama della nostra letteratura. A Buzzati fu mossa la medesima accusa di Moravia: un ultimo disinteresse per la causa sociale. Quanto all’autore del Deserto dei Tartari gli equivoci sulla sua parabola artistica sono due. Prima di tutto è falso che Buzzati non abbia fatto udire la sua voce sulle questioni sociali più sentite del Paese, o che, come scrisse Giorgio Bocca «la sua opera si perda in una nuvola di inutili fantasie». Non si dimentichi che Buzzati ha lavorato per anni alla cronaca nera e, da inviato del «Corriere», ha seguito tutti i più importanti fenomeni di costume del dopoguerra. Ha scritto Lorenzo Viganò, tra gli ultimi ferventi studiosi del Nostro: Dino Buzzati, rientrato a pieno titolo nella squadra delle grandi firme del «Corriere», racconta la trasformazione del Paese attraverso cronache che lo fotografano da nord a sud, dalla tragedia di Albenga […] alla sciagura di Superga […]. Sono pezzi di “nera”, affiancati dai resoconti, anche poetici, di quelle imprese sportive (come il Giro d’Italia, che Buzzati segue nel 1949) che cancellano in una volata o in un gol le differenze ideologiche e di ceto tra gli italiani. […] Basta scorrere i suoi quarant’anni di attività giornalistica per rendersi conto di quanto sia sempre presente e costante l’interesse per la società e i mutamenti che la riguardano; per capire quanto ogni suo articolo […] sia «una buona occasione per trattare di fenomeni e atteggiamenti sociali»27 […]. Un modo per registrare cambiamenti, manie e contraddizioni del vivere italico.28 27
Viganò cita un giudizio di Sonia Basili. Cfr. S. Basili, Buzzati e i nuovi fenomeni di costume, in «Studi Buzzatiani», a cura di N. Giannetto, V, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali 2000, p. 70. 28 L. Viganò, Gli strani Natali di Dino Buzzati, introduzione a D. Buzzati, Il panettone non bastò, Milano, Mondadori 2004, p. XXVII. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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Certo, le disamine di Buzzati non erano accompagnate da nessun piano ideologico o teorico, egli fu tutt’altro che engagé, come dimostra in pieno il noto racconto Paura alla Scala, ambientato nei mesi successivi all’attentato Togliatti e col quale il suo autore adombrava lo spauracchio della rivoluzione rossa in uno dei simboli della borghesia milanese, ma con tono quasi fiabesco. Eppure – e siamo al secondo grande equivoco – ad alcuni di quei pochi critici italiani che si sono occupati di lui prima della sua morte, spiaceva proprio quell’ironia disincantata «come una puntura indolore infilzata nelle coscienze dei lettori». A proposito di Paura alla Scala ci pare il caso di riportare un giudizio di Paolo Milano, datato ma rivelatore di un “nervo scoperto” della critica italiana fra anni ’50 e ’60 che procede dai Falqui e dai De Robertis, penne che influenzeranno per lungo tempo gli umori dei lettori e indirizzeranno anche certi metri di valutazione: La storia si sarebbe potuta affrontare con modi realistici, o invece, tralasciando i fatti, stilizzarla acutamente in un grottesco metafisico. Buzzati ha scelto, se non erro, una terza via, alquanto pigra e innocua: l’evocazione d’un clima astratto, senza richiami filosofici, né profondità psicologiche, né articolazioni sociali, il quale si dissolve, come una bolla di sapone, in un lieto fine appena mascherato. Nei loro racconti metafisici Kafka, Orwell, Camus, Borges, Jünger, ai quali Buzzati è imparentato per difetto, affrontano a viso aperto il problema dell’assurdo, del senso dell’umana condizione. L’effetto a cui Buzzati mira coi suoi racconti, invece, è semplicemente quello del brivido: un brivido borghese.29
Il «brivido borghese» è per Milano un lusso che, evidentemente, l’Italia non poteva concedersi. Questo ingenuo e immaturo scrittore che ammantava di visioni leziose i problemi più profondi del nostro Paese non poteva assurgere ai piani nobili della critica; non poteva meritare i riguardi degli esegeti più penetranti un prodotto privo di «articolazioni sociali», cioè intenzionalmente smarcato da un mandato sociale e civile. Nella Giannetto ha riportato un aneddoto che coinvolge lo stesso Paolo Milano il quale, trovandosi in Polonia in compagnia di alcuni scrittori, fu avvicinato da un ospite che gli domandò la cortesia, al suo ritorno in Italia, di ringraziare Buzzati perché «il Deserto dei Tartari è il libro che ha offerto a moltissimi in Polonia proprio ciò di cui essi avevano artisticamente e umanamente bisogno». Milano, stranito a queste parole, non seppe fare di meglio, pur di trovare una qualsivoglia giustificazione a quell’inatteso giudizio, che avventurarsi in dubbie considerazioni di sociologia della letteratura, fino a gravare il romanzo di connotazioni francamente inopportune: «probabilmente l’apprezzamento dei polacchi è analogo a quello di certi lettori italiani che hanno visto nel Deserto il romanzo di quel mondo chiuso in una perenne e vana attesa che, psicologicamente parlando, fu, per gli impotenti suoi sudditi e finché la guerra non lo inghiottì, il regime fasci-
29 P. Milano, Dino Buzzati o il brivido borghese, in «L’Espresso», 20 luglio 1958; poi in Il lettore di professione, Milano, Feltrinelli 1960, p. 322.
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sta». E sulla falsa riga di questo “progressismo critico” si sono posti anche altri come Walter Pedullà, autore di una ingenerosa canzonatura di Buzzati quando lo scrittore accennò a quadretti di confronto di classe in alcuni racconti (che il critico chiamerà «racconti sedativi»),30 senza però la benché minima intenzione di proporre una teoresi, ma rimanendo sul terreno dell’arte: Le cause sociali di questo o di altri secondari fenomeni non esistono o non contano molto. Certo, guai ad offendere una madre povera nell’affetto per la figlia desiderosa di un giocattolo da nulla. Può succedere una specie di rivoluzione; l’amore della madre sconfigge polizie e debella eserciti. Ma non c’è da aver paura nemmeno in questo caso; la bambina della madre vittoriosa non chiede un palazzo, né un latifondo, né azioni in una fabbrica, ma solo un piccolo uovo di cartone […]. Benedetta l’umiltà del nostro popolo! I borghesi di Milano e d’Italia possono andare a letto dopo aver letto il patetico e generoso racconto di Buzzati, piangenti ma tranquilli sull’avvenire di questa società.
Non si trova in Buzzati un appiglio per poterne fare uno strumento di analisi strutturale né di campagna sociale. È quanto emerge anche da altre letture, dove l’idea della “mentalità borghese” conferma quell’immobilità di coscienza che sarebbe alla base della colpa primigenia del Bellunese, vale a dire quel «sistema morale e metafisico che sta dietro la sua narrativa, il sistema che proprio i borghesi “illuminati” e “radical chic” avversano e le cui ragioni – ammonisce il francese Yves Panafieu31 – sono anche più antiche dell’emergere della borghesia».32 Nella prefazione di Giuliano Gramigna per l’edizione Mondadori dei Romanzi e racconti si legge: «accettazione globale, preliminare a ogni atto di scrittura, dell’ordine, di un ordine che è non solo letterario ma psicologico, sociale, un sistema di norme accettate senza discussione». E chiudiamo colle pesanti parole del già citato Giorgio Bocca che attribuisce a Buzzati categorie esemplari dell’ipoteca critica che ancora oggi lo opprime: Buzzati, pur avendo intuito di vero scrittore, è un reazionario allo stato puro, fermamente deciso a restare nel passato. Ed è uno dei pochi sinceri che non si spaventano di ammetterlo. Ma la sua sincerità non gli impedisce di correre due rischi: di passare per un Cretinetti che si balocca con le favole e che rifiuta il nuovo perché non lo capi-
30
Cfr. W. Pedullà, Racconti sedativi di Buzzati, in Id., La letteratura del benessere, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1968, pp. 200-203. 31 Cfr. Y. Panafieu, Dino Buzzati: un autoritratto, Milano, Mondadori 1973. 32 Si veda anche D. Buzzati, Y. Panafieu, Buzzati: mes déserts. Entretiens avec Yves Panafieu, Paris, editions R. Laffront 1973; Dino Buzzati d’hier et d’aujourd’hui : à la memoire de Nella Giannetto, atti del convegno internazionale (Besançon, 2006), Presses Universitaires de France-Comté 2009. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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sce; e di stare oggettivamente dalla parte di coloro i quali vogliono che tutto stia fermo com’è per non perdere uno solo dei loro privilegi. E può essere anche che in certi casi la sua posizione di rifiuto della vita com’è, e perciò dell’informazione, lo porti a ripetere opinioni politiche oggettivamente superate e a frequentare persone e ambienti oggettivamente forcaioli.33
In conclusione: per rimanere al contesto francese, Tiziana Colusso34 da una parte e Carlo Falconi dall’altra hanno ben mostrato quale sia una delle linee d’indagine più felici sull’opera di Moravia e Buzzati, quella che li lega, per consonanza o per affinità, ad «un movimento letterario e d’idee che ha segnato fortemente la cultura francese ed europea: l’esistenzialismo». Mentre oltralpe i binomi MoraviaSartre e Buzzati-Camus sono elementi acclarati e hanno prodotto una miriade di fortunati studi che muovono proprio da quel presupposto dostoevskijano più volte ricordato, in Italia sono trattati alla stregua di semplici rispecchiamenti reciproci, di influenze, di fascinatio exempli che hanno un peso trascurabile nel vaglio dell’opera, o se pure lo hanno, esso confligge irrimediabilmente con le cosiddette “ragioni d’ambiente”, limite storico della nostra narrativa. A questo punto ci pare evidente che i problemi legati alla collocazione e alla funzione di queste due figure “campione” della nostra letteratura contemporanea, in quanto modelli di dinamiche molto differenti – l’uno “intellettuale pubblico”, l’altro “artista privato” – ma in fondo convergenti sul piano dell’esperienza esistenziale, siano fatalmente connessi ad una stagione della nostra formazione letteraria, e della critica che ne venne, i cui effetti – per la forza e l’incisività dei dibattiti sorti e l’autorevolezza di alcuni loro interpreti – influenzano ancora oggi giudizi e criteri di valutazione visti molto spesso con occhio più che sospetto fuori d’Italia e che tradiscono, come abbiamo notato, problematiche storiche e sociali non ancora assorbite le quali impediscono a volte ottusamente di godere appieno il senso intimo di figure e di valori culturali che la bibliografia estera (la quale per ragioni di spazio abbiamo potuto solo enumerare, ma non esemplificare come meriterebbe) in alcuni casi pare indagare più a fondo e soprattutto con animo riscattato da formule analitiche retrive e compromissorie.
33
G. Bocca, I rischi e i timori di un reazionario, «Il Giorno», 27 ottobre 1971. T. Colusso, Affinità, ricezione ed occasioni nel rapporto fra Moravia e la Francia, in «Quaderni del Fondo Moravia», I, 1998, pp. 79-83. 34
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CATERINA BONETTI Dalla commedia dell’arte al teatro colto: la compagnia Riccoboni tra l’Italia e la Francia
All’inizio del Settecento l’Italia si presentava come un paese diviso e molto lontano, dal punto di vista politico, linguistico, economico, da una prospettiva di unità nazionale. L’élite colta tuttavia aveva già da tempo incominciato ad interrogarsi sul tema dell’identità culturale e, più specificamente, letteraria della penisola, soprattutto in rapporto a quei paesi stranieri che maggiormente avevano influenzato, con la loro cultura, la sensibilità italiana. La querelle fra italiani e francesi1 (che procedeva di pari passo con quella fra antichi e moderni) rappresentava solo l’elemento più vistoso di un’ampia discussione in grado di tenere impegnati i più illustri letterati del tempo. In questo contesto assunse una straordinaria rilevanza il dibattito sul teatro colto ed in particolare sulla tragedia: genere «nobile» per eccellenza, quest’ultima era stata relegata, nel corso del Seicento, nei salotti, nelle accademie e nei collegi dei nobili. Nei pubblici teatri, ancora numericamente troppo esigui nel giudizio di chi, come Scipione Maffei,2 riteneva il teatro uno strumento fondamentale di pedagogia collettiva,
1
Un importante momento di questa querelle è rappresentato dalla diatriba instauratasi, soprattutto in seno ai professionisti del teatro, circa il miglior stile di recitazione: quello francese (più improntato alla declamazione) o quello italiano (ritenuto più «naturale»). Si veda a tale proposito X. De Courville, Jeu italien contre jeu français. (Luigi Riccoboni et Monsieur Baron), Modena, Aedes Muratoriana 1957, pp. 1-21. 2 La messa alla prova sui palcoscenici dei teatri pubblici era inoltre, secondo il marchese, l’unica possibilità per giudicare la bontà di un’opera teatrale: «Bisogna parimente avere la bontà di credere che né del vero modo di recitare, né del vero modo di compor Tragedie può comunemente aversi molta idea in quelle città dove uso di Teatro non sia: né basta che da particolari vi si reciti; bisogna che siano Teatri pubblici e prezzolati, dove gran moltitudine di gente d’ogni condizione concorra e dove niun rispetto, niuna convenienza, niuna prevenzione, niuna parzialità alteri il giudicio e trattenga, o spinga i moti naturali d’approvazione o Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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venivano rappresentate commedie dell’arte, opere musicali o drammi tradotti di autori francesi e spagnoli. Questa prassi, unita alla straordinaria fama di cui godevano gli attori italiani che recitavano «all’improvvisa», aveva inoltre legato indissolubilmente, nella percezione degli stranieri, l’immagine del teatro italiano proprio a questi generi considerati minori. Tutto il ricco patrimonio teatrale del Rinascimento era stato così dimenticato in favore dei lazzi degli zanni e dei giochi verbali e mimici dei saltimbanchi. Parallelamente, la grande diffusione del teatro spagnolo, avvenuta nel corso del Seicento nella nostra penisola, e la successiva proliferazione di traduzioni e rappresentazioni di drammi francesi,3 in particolare di Corneille e Racine (si pensi all’analisi delle edizioni e rappresentazioni di tali pièces nelle città del nord Italia realizzata da Nicola Magini ed incentrata sui primi decenni del Settecento),4 avevano plasmato su tali modelli il gusto del pubblico pagante. Tuttavia, se da una parte questo pubblico sembrava incline ad una marcata esterofilia sui palcoscenici, dall’altra l’élite colta del paese sentiva come sempre più pressante la necessità di una «rivalsa».5 La tradizione teatrale «alta» italiana, ingiustamente posposta a quella dei cugini d’oltralpe, meritava una decisa riaffermazione di dignità. Il dibattito sul teatro colto si struttura dunque su queste premesse e cioè su di una reazione agli eccessi spettacolari instauratisi nel corso del Seicento, sul rifiuto della supremazia francese e spagnola sulle scene, sulla volontà di riaffermazione dello «spirito» teatrale italiano, e porta gli eruditi primo-settecenteschi a sviluppare una dura critica nei confronti di attori ed autori teatrali. I primi erano accusati di non essere altro che istrioni incolti incapaci di recitare in modo adeguato opere dal marcato spessore letterario e di aver corrotto, con la loro cattiva pratica teatrale, il gusto del pubblico che assisteva ai loro spettacoli; quanto ai drammaturghi l’accusa non era meno grave: privi della volontà di misurarsi con il genere tragico, essi si erano in larga parte posti a servi-
disapprovazione: allora si riconosce ciò che veramente faccia forza su la natura o nol faccia». S. Maffei, Teatro italiano ossia tragedie per l’uso di scena, in Verona, presso Jacopo Vallarsi 1728, p. XXI. 3 Sulle vicende del teatro francese in Italia nel primo Settecento può essere utile la sintesi di S. Ingegno Guidi, Storia del teatro francese in Italia: L. A. Muratori, G. G. Orsi e P. J. Martello, in «Rassegna della letteratura italiana», 78, 1974, pp. 64-94. 4 N. Magini, Il teatro tragico francese in Italia nel secolo XVIII, in Drammaturgia e spettacolo tra ’700 e ’800, Padova, Liviana 1979, pp. 1-20. 5 Secondo Roberta Turchi la riforma perseguita da Maffei, Martello e lo stesso Riccoboni nasceva proprio come riscatto delle sorti italiane rispetto al gallicismo imperante e all’esterofilia sulle scene. R. Turchi, La discussione sul teatro, in La commedia italiana del Settecento, Firenze, Sansoni 1985. Lo stesso concetto si trova espresso anche più recentemente da Paola Bosisio, Teatro dell’occidente. Elementi di storia della drammaturgia e dello spettacolo teatrale, Milano, LED 2006. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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zio di musicisti e compositori come librettisti d’opera, degradando la loro arte a mera pratica di parolieri. Afferma a tale proposito, nel suo trattato Della perfetta poesia, Ludovico Antonio Muratori: Ma non è difficile il sapere la cagione, perché in Italia la tragedia, la commedia e la satira non si sieno condotte ad una gloriosa maturità. Alle prime è mancato lo sprone, spendendosi ora tutte le ricompense, e gli applausi dietro alla musica teatrale; e alla seconda si è posto un gagliardissimo freno dalle leggi divine e umane.6
Confinata dunque nel seno di poche cerchie erudite, posta in scena da dilettanti, distaccata dal tempo presente e priva delle premesse politiche7 necessarie al suo successo, la tragedia languiva in attesa di una forte spinta riformatrice in grado di darle linfa vitale. In questo contesto andò sviluppandosi il progetto di riforma teatrale della compagnia Riccoboni, compagnia di comici colti, ideali eredi degli Andreini, dei Calderoni e dei Cotta.8 Com’è noto, in particolare grazie all’imprescindibile e monumentale ricerca biografico-artistica realizzata da Xavier De Courville fra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso,9 la compagnia operò sulle scene dei teatri del nord Italia fra il 1707 ed il 1715, coltivando contatti con alcuni dei più prestigiosi letterati del tempo fra i quali spiccano i nomi del marchese Giovan Gioseffo Orsi, di Ludovico Antonio Muratori, di Antonio Conti, di Scipione Maffei e di Pier Jacopo Martello, tutti personaggi impegnati, a vario titolo, nel dibattito teatrale primosettecentesco. Particolarmente fruttuoso risultò l’incontro della compagnia con il marchese Maffei: dalla loro collaborazione ebbe infatti origine una prima strutturazione di repertorio tragico atto alle scene, ma sul tema tornerò più avanti. Proveniente da una famiglia di attori e capocomico dall’età di 22 anni, Luigi Riccoboni si era formato in seno alla commedia dell’arte, così come la moglie Elena Balletti, attrice di chiara fama e figlia della celebre Fragoletta (al secolo
6
L. A. Muratori, Della perfetta poesia, Modena, Soliani 1706, lib. III, cap. VI. Sulla mancanza di un sistema politico di riferimento, che potesse fungere da corrispettivo valoriale delle vicende rappresentate sul palcoscenico (come poteva essere il sistema della polis nell’antica Grecia o la monarchia francese fra Seicento e Settecento), si veda F. Fido, Tragedie “Antiche” senza fato: un dilemma settecentesco dagli aristotelici al Foscolo, in F. Fido, Le Muse perdute e ritrovate, Firenze, Vallecchi 1989, pp. 11-40 e l’imprescindibile introduzione di Enrico Mattioda al volume Tragedie del Settecento, Bologna, Mucchi 1999. 8 Cfr. Salvatore Cappelletti nella sua ampia trattazione monografica sulla riforma teatrale riccoboniana: S. Cappelletti, Luigi Riccoboni e la riforma del teatro, Ravenna, Longo 1986. 9 X. De Courville, Lelio premier historien de la Comedie Italienne et premier animateur du théâtre de Marivaux, Parigi, Librairie theatrale 1958; Id., Un artisan de la renovation theatrale avant Goldoni, Parigi, L’Arche 1967, Id., Un apotre de l’art du theatre au 18 siecle: Luigi Riccoboni dit Lelio, Parigi, Droz 1969. 7
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Giovanna Benozzi), maestra nell’arte di recitare all’improvvisa. Nonostante la loro professione e la provenienza sociale, i coniugi Riccoboni erano istruiti nelle lettere (la Balletti venne ammessa in Arcadia con il nome di Mirtinda Parraside e conosceva, oltre al francese e allo spagnolo anche il latino) e, pur praticando la commedia dell’arte, erano consci della necessità di una riforma teatrale in grado di riportare sulle scene un teatro strutturato e letterariamente vagliato. Proprio grazie alla loro pratica dei palcoscenici del nord Italia, i Riccoboni erano in grado di riconoscere i limiti intrinseci della recitazione a soggetto: qualora infatti fosse stata praticata da attori valenti, poteva risultare un’eccezionale forma di spettacolo, mai uguale a se stesso; ma se, come accadeva più comunemente, era affidata a compagnie improvvisate, si riduceva ad una sequela di lazzi, scherzi grossolani e pantomime stereotipate. Non a caso dunque la maggior preoccupazione di Luigi Riccoboni, fin dai suoi primi scritti teorici, fu legata alla necessaria istituzione di una scuola per attori e alla ricerca di un repertorio di testi «purgati» da proporre per la messa in scena, e non appare strano che, in breve tempo, la compagnia fosse divenuta il punto di riferimento per quegli eruditi impegnati nella ricerca di un teatro italiano in grado di reggere la prova dei palcoscenici. Nonostante queste premesse, l’impresa cui la compagnia aveva deciso di dedicarsi non era semplice: si trattava di presentare ad un pubblico, per lo più incolto e il cui gusto era modellato su spettacoli di tutt’altro genere, testi della tradizione letteraria rinascimentale ed opere contemporanee strutturate secondo i canoni desunti da Aristotele e dai trattatisti cinquecenteschi che sul suo insegnamento avevano modellato i loro scritti. Una sfida complessa anche per i letterati impegnati nella ricerca di drammi adatti alle scene e nella stesura di nuovi componimenti, ma addirittura rischiosa per chi, come i Riccoboni, viveva grazie alla buona o cattiva resa degli spettacoli che proponeva in cartellone. Spinto dalla duplice esigenza di riforma teatrale e di sopravvivenza della compagnia, Luigi (in arte Lelio) decise così di operare una puntuale mediazione fra le due istanze e, di conseguenza, fra le esigenze del pubblico e quelle dei letterati. Negli anni dell’attività italiana (sui quali attualmente manca uno studio puntuale, che esiste invece per il periodo parigino trascorso alla direzione della Comédie Italienne),10 la compagnia mise in scena ventisette tragedie alternandole costantemente con spettacoli comici all’improvvisa. In questo modo Lelio, da buon imprenditore, si assicurava, grazie alle commedie, un incasso regolare in grado di bilanciare eventuali defaites delle opere tragiche.
10
A tal proposito si possono citare, a titolo esemplificativo, alcuni studi recenti come quelli di Sarah Di Bella e Olla Forsans, oltre ai sopracitati studi di Xavier De Courville. S. Di Bella, L’expérience théâtrale dans l’œuvre théorique de Luigi Riccoboni – Contribution à l’histoire du théâtre au XVIII siècle, Parigi, Champion 2009; O. Forsans, Le théâtre de Lelio: étude du repertoire du Noveanu theatre italien de 1716 à 1729, Oxford, Voltaire foundation 2006. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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L’analisi del repertorio tragico dei Riccoboni, loro reale punto d’innovazione, deve essere condotta considerando la collaborazione con il marchese Maffei, che offrì alla comica compagnia una selezione di tragedie tratte dalla tradizione cinqueseicentesca italiana. Se è vero che solo una parte dei ventisette drammi messi in scena furono selezionati dal capocomico in forma completamente autonoma, è altresì importante sottolineare l’apporto fondamentale della compagnia alle riflessioni del letterato. Senza l’aiuto di Maffei, Riccoboni non avrebbe avuto la possibilità di conoscere parte dei testi che poi propose al pubblico ma, senza l’aiuto della compagnia Riccoboni, Maffei non sarebbe stato in grado di elaborare le modifiche necessarie a garantire la teatrabilità dei testi da lui raccolti. Dobbiamo dunque alla serrata collaborazione fra questi personaggi la stesura e pubblicazione del Teatro italiano ossia tragedie per uso di scena11 quale noi lo conosciamo oggi. Anche analizzando separatamente le opere selezionate direttamente da Lelio e quelle scelte in collaborazione con il marchese, emerge sempre il medesimo criterio di mediazione. Nella categoria delle tragedie che per comodità chiamerò «riccoboniane» si trovano infatti traduzioni di pièces francesi di Corneille e Racine (come l’Andromaca o il Britannico), testi spagnoli come La vita è un sogno di Calderón de la Barca, adattamenti di tragicommedie seicentesche come l’Adamira di Cicognini, testi che potevano insomma incontrare il consenso di un pubblico educato a riconoscerne il valore; ma anche il Catone di Addison, innovativo per i suoi contenuti strettamente politici e poco diffuso in traduzione italiana, le tre opere di Martello (l’Adria, l’Ifigenia e la Rachele), tragedie che mai avevano visto le scene, ed il Tito Manlio12 scritto dallo stesso Riccoboni. La rappresentazione di queste ultime non era priva di rischi per la compagnia e, come si desume dalle testimonianze di alcuni letterati che ebbero modo di assistere alle rappresentazioni, fu in larga parte grazie alla scommessa di Lelio che esse ebbero una buona fortuna di pubblico. Scrive, ad esempio, in una lettera a Martello, a proposito della rappresentazione di due delle sue tragedie, Giovan Antonio Grassetti, letterato ed amico del drammaturgo: L’anno passato, prima di questi tempi in circa, si trovò qui una compagnia di bravi commedianti che recitarono la vostra Ifigenia e la vostra Rachele. Due di loro, cioè un tal Lelio e la sua moglie detta Flaminia, sono personaggi insigni e più in là io non credo che si possa andare.13
Anche dal catalogo delle tragedie scelte in «collaborazione» emerge, come dice-
11
S. Maffei, Teatro italiano ossia tragedie per l’uso di scena, in Verona, presso Jacopo Vallarsi,
1728. 12
L. Riccoboni, Tito Manlio, Bologna, Pisarri 1707. Lettera di Giovan Antonio Grassetti al Martello, 21 giugno 1714, in Opere di Pier J. Martello, a cura di H. S. Noce, Bari, Laterza 1982, p. 813. 13
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vo, l’applicazione di un criterio «diplomatico» di scelta: a fianco del Torrismondo del Tasso e della Sofonisba di Trissino (opere di autori noti e diffuse attraverso numerose edizioni a stampa), si collocano la Merope dello stesso Maffei, sulle cui vicende di stesura per diretta ispirazione della bella musa Elena Balletti sono state spese molte parole,14 e le Gemelle Capovane di Ansaldo Cebà, dramma che non solo fu rappresento per la prima volta proprio da Riccoboni, ma che non aveva avuto sino ad allora alcuna edizione a stampa e che, ad oggi, ci è noto unicamente grazie alla raccolta del Teatro italiano. Si tratta di testi che ancora una volta costituivano una scommessa per la compagnia, poiché per le tematiche trattate potevano non incontrare il gusto del pubblico. Nonostante ciò, essi riscossero un buon successo nei teatri di tutto il nord Italia (in particolare a Modena, Venezia e Verona): la compagnia Riccoboni era riuscita insomma a riproporre ad un pubblico eterogeneo e culturalmente non selezionato il teatro tragico «colto» e strutturato. Allo sforzo e al contributo dei comici, obbligati a mettere a frutto in questa operazione le loro competenze professionali e letterarie, fu in buona parte ascrivibile il successo della sperimentazione, per quanto nel tempo Maffei abbia cercato di ridimensionarne il ruolo e la portata. Forte di questo buon esito e conscio dell’ulteriore sfida rappresentata dal genere comico, Lelio decise di dedicare le sue energie ad un’ulteriore impresa riformatrice: quella della commedia. Egli per primo era consapevole della maggior difficoltà del progetto: se il pubblico era infatti poco avvezzo al genere tragico, la motivazione risiedeva in larga parte, come sappiamo, nella grande diffusione delle commedie dell’arte. A suo dire, la consuetudine ai lazzi e alle battute degli istrioni rendeva difficoltoso per un capocomico muovere al riso attraverso una commedia strutturata. Riccoboni però sentiva l’urgenza di un risanamento non solo artistico, ma anche morale del genere, spesso svilito dall’inclinazione all’osceno e al triviale, e perciò additato come causa della corruzione dei buoni costumi e dell’onestà degli spettatori. Proporre commedie letterarie e, fra queste, selezionare quelle «purgate» così da istruire mostrando la virtù e non ostentando il vizio: questo doveva essere l’intento di ogni valente capocomico.15 Per queste ragioni Lelio decise di mettere in scena a Venezia una commedia in versi di Ariosto, La scolastica,16 la cui trama
14 A partire dal primo intervento, in ordine cronologico, di Cesare Musatti, La Merope del Maffei ed Elena Balletti Riccoboni, in «L’ateneo Veneto», luglio-ottobre 1917. 15 Importante, a tal proposito, il quadro offerto da Beatrice Alfonzetti, I paradossi del comico: da Riccoboni a Goldoni e oltre, in Il comico nella letteratura. Teorie e poetiche, a cura di S. Cirillo, Roma, Donzelli 2005, pp. 135-168. Nel suo intervento la Alfonzetti propone un excursus di ampio respiro sul tema della riforma della commedia, dalle critiche mosse dai letterati primo settecenteschi agli espedienti dell’arte, fino alla riforma goldoniana. 16 L. Ariosto, La scolastica, Venezia, Giolito de Ferrari 1553.
V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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risultava priva di situazioni immorali o dubbie anche grazie all’epilogo matrimoniale della vicenda. Inutile soffermarsi su quello che fu l’esito, disastroso, della rappresentazione; basti qui citare le parole di Pier Jacopo Martello che rievocano in sintesi la situazione venutasi a creare la sera della prima. La Scolastica, scrive Martello, in codesta vostra città di Vinegia per Lelio e Flaminia, egregi comici rappresentata, anzi che essere stata accettata, fra gli sbadigli, i sussurri e i motteggi del popolo di scena in scena passando, così svergognata […] non riuscì a giungere alla sua conclusione e […] fu mestieri calare prima della fine la tenda.17
Il pubblico, recatosi a teatro con l’aspettativa di veder rappresentati stralci delle vicende narrate nell’Orlando Furioso (essendo questi adattamenti per le scene di episodi del poema ariostesco ampiamente diffusi nei repertori delle comiche compagnie ed essendo invece quasi del tutto sconosciuta, allo spettatore medio, la produzione teatrale dell’Ariosto), era rimasto negativamente sorpreso da questa innovazione e aveva così malamente ripagato lo sforzo culturale di Riccoboni. Disilluso e risentito, Lelio decise allora di accettare la proposta giunta dal duca di Parma, Francesco Farnese, di formare una compagnia scelta con la quale recarsi in Francia e ricostituire la Comédie Italienne, chiusa ormai da tempo per volontà del re Luigi XIV.18 A questa decisione Lelio era giunto mosso dalla speranza di poter proseguire oltralpe quella sperimentazione che i palcoscenici italiani sembravano aver rigettato. La patria di Molière,19 di Racine e Corneille, avrebbe forse offerto un pubblico più maturo e preparato, in grado di apprezzare tragedie e commedie dotate di valore letterario. Le speranze di Lelio erano però destinate ad infrangersi: in Francia infatti, come nel resto dei paesi stranieri al tempo, il teatro italiano era sinonimo di arte e di opera. Alla nuova compagnia dunque veniva chiesto di riproporre semplicemente i clichés comici ai quali il pubblico era abituato.20 Le difficoltà
17
P. J. Martello, Opere cit., tomo IV, p. 147. Sempre a proposito del fallimento della Scolastica così si espresse Arturo Parisi: «Il Riccoboni non seppe rendersi conto della psicologia del pubblico del suo tempo, e sbagliò assai nel riesumare una commedia, che se era adatta alle scene nel ’500 non poteva considerarsi tale circa due secoli dopo». A. Parisi, Luigi Riccoboni. (A proposito di un carteggio inedito con Ludovico Antonio Muratori), in Miscellanea di studi muratoriani, Atti e memorie della regia deputazione di storia patria per le provincie modenesi, Modena 1933, p. 242. 19 Quello stesso Molière che Riccoboni definirà debitore della commedia italiana del Cinquecento nella sua Histoire du théâtre italien e nelle Observation sur la comédie et sur le génie de Moliere. Riccoboni, Histoire du théâtre italien, dissertation sur la tragédie moderne, Bologna, Forni 1969; Id., Observations sur la comedie et sur le genie de Moliere, Bologna, Forni 1978. 20 Il pubblico parigino era infatti diviso fra un’istanza innovatrice, volta a valorizzare il teatro strutturato, e il desiderio di continua riproposizione degli schemi comici tradizionali, come sottolinea nel suo studio David Trott, A clash of styles: Louis Fuzelier and the «New italian 18
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linguistiche furono solo un’ulteriore complicazione rispetto ad un contesto già, se così si può dire, compromesso alle sue basi. Per esigenze di sopravvivenza i comici si videro dunque costretti ad abbandonare qualsiasi tipo di velleità riformatrice (poche furono le rappresentazioni di drammi letterari, anche se un piccolo successo venne dalla messa in scena della Merope maffeiana) e a riproporre proprio i lazzi dai quali erano fuggiti abbandonando l’Italia: quell’Italia alla quale Riccoboni continuò a guardare con vivo interesse e partecipazione pur non facendovi più ritorno (se non per un breve periodo presso la corte di Parma). Ritiratosi dalle scene, Lelio si dedicò poi interamente all’attività trattatistica, redigendo opere di storia del teatro21 e testi dedicati alla figura dell’attore, dimostrandosi sempre attento difensore, insieme alla moglie Elena, della cultura e della letteratura italiana, come testimoniano, fra l’altro, le numerose lettere, incentrate su questi temi, contenute nel carteggio con Ludovico Antonio Muratori.22 La malinconica fine del suo sogno riformatore apriva la strada a ben altre figure del teatro italiano, Alfieri e Goldoni, anch’esse votate all’ardua impresa di dare ad un’Italia divisa una scena in grado di offrire nuovi valori e, soprattutto, una nuova unità.
comedy», in The science of buffoonery: theory and history of the commedia dell’arte, Toronto, Dovehouse edition 1989, pp. 101-115. 21 Come sostiene Franco Arato nel capitolo sulla storiografia teatrale del suo volume dedicato alla storiografia letteraria (F. Arato, La storiografia letteraria nel Settecento italiano, Pisa, ETS 2002, pp. 365 e sgg.) all’origine della celebre Histoire du théâtre italien di Riccoboni vi fu un intento patriottico di rivendicazione del valore del teatro italiano all’interno del panorama europeo e, più in particolare, in rapporto con quello francese. «All’origine dell’Histoire ci fu un’occasione «patriottica», come leggiamo nella prefazione di quel testo [ossia il trattato di Lelio]. Storia come apologia dunque: perfettamente in linea con le diatribe letterarie di primo Settecento. Che il teatro italiano fosse più ricco di quanto certi letterati francesi volessero credere, Riccoboni dimostrò scorciando alla bell’e meglio, con qualche osservazione aggiunta qua e là, il catalogo della vecchia, benemerita Drammaturgia dell’Allacci», Ivi, p. 367. Conferma dell’urgenza, da parte di Riccoboni, di una difesa del teatro italiano dalle ingiuste calunnie francesi, viene data anche da Salvatore Cappelletti nel volume precedentemente citato, nel quale viene dato spazio alla ricostruzione della polemica intercorsa fra il capocomico e l’abate D’Aubignac su questo tema. Secondo Lelio l’abate non aveva nemmeno le conoscenze bastanti per poter discutere scientemente della materia poiché in larga parte ignorante in ambito di letteratura italiana. 22 Per lo studio di questo carteggio siamo debitori al già citato lavoro di Arturo Parisi, Luigi Riccoboni. (A proposito di un carteggio inedito con Ludovico Antonio Muratori) cit., pp. 234-276. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
VERONICA PESCE Pascoli e le illustrazioni di Plinio Nomellini ai ‘Poemi del Risorgimento’
Il 16 febbraio 1908 nell’Aula Magna dell’Università di Bologna Giovanni Pascoli pronuncia un celebre discorso dedicato a Carducci: Il poeta del secondo Risorgimento. Come accade di frequente nell’oratoria pascoliana,1 la figura di Garibaldi acquista un rilievo molto particolare accanto a quella del maestro: E in quel giorno 10 novembre, forse al rosseggiare dell’alba, approdava a un’isola rupestre, con una nave che si chiamava Washington, un uomo più grande di Washington, che aveva riunito alla nuova Italia il suo nucleo più forte, la sua metà più bella. Le rupi sassose erano coperte d’arbusti, di quel cespuglio, che prima che Roma nascesse, prima che gli Etruschi approdassero, prima che i Liguri vivessero guardinghi e torvi nelle caverne a mare, empiva la tacita nostra terra, sul far del verno, dei suoi tre colori, verde delle foglie, bianco dei fiori e rosso delle bacche.2
Plinio Nomellini, avuta notizia del discorso, invia immediatamente al poeta una cartolina illustrata (il timbro postale è del giorno seguente: 17.2.1908). Il testo recita solo «Plaudendo», ma è l’illustrazione quella che conta; essa riproduce infatti il suo Garibaldi,3 esposto l’anno prima alla Biennale di Venezia. La risposta di Pascoli non si fa attendere:
1 Insieme con altri protagonisti del Risorgimento (Felice Cavallotti, Antonio Mordini), Garibaldi è figura di particolare rilievo nell’opera di Pascoli, soprattutto nei suoi discorsi, per esempio: I mille, Ritorno a Caprera, L’eroe italico. Cfr. Q. Marini, Giovanni Pascoli, in Giuseppe Garibaldi. Due secoli di interpretazioni, a cura di L. Rossi, Roma, Gangemi Editore 2010. 2 Il discorso per la commemorazione nel primo anniversario della morte del maestro è poi raccolta (postuma) in G. Pascoli, Patria e umanità. Raccolta di scritti e discorsi, Bologna, Zanichelli 1914, p. 132. 3 Il dipinto è oggi conservato a Livorno presso il Museo Civico Giovanni Fattori. Per la
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Caro Plinio, con quanta ineffabile commozione ho riveduto il tuo Garibaldi! E mi è ritornato più vivo il desiderio dell’abboccamento con te. Ma non c’è fretta. […] O mirabile poeta epico, continua a dare dell’Italia ciò di cui sempre mancò! [19.2.1908; p. 81]4
Questa lettera è la premessa o forse l’atto di nascita di uno stretto sodalizio artistico, invero già nato in seno alla stampa periodica ma non ancora davvero condiviso nel profondo di un comune ideale, quale sarà quello del Risorgimento. All’altezza dell’ideazione del ciclo risorgimentale Plinio Nomellini non è certo uno sconosciuto per il poeta. La richiesta di illustrare i Poemi del Risorgimento è il risultato di una stima pregressa e già acquisita per il pittore. La prima occasione di incontro risale, probabilmente, alla comune frequentazione del cenacolo pucciniano di Torre del Lago sull’ultimo scorcio dell’800. Ma è «La Riviera Ligure» di Mario
riproduzione fotografica, cfr. Nomellini e Pascoli, un pittore e un poeta nel mito di Garibaldi, catalogo della Mostra, Barga 5 luglio-17 agosto 1986, a cura di E. B. Nomellini, Firenze, Multigraphic 1986, p. 94. 4 La lettera è tratta da: Un pittore per un poeta. Plinio Nomellini illustratore pascoliano (Lettere 1901-1913), prefazione di R. Monti, a cura di P. Paccagnini, Massa, Type Service 1988. Salvo diversa indicazione questa è l’edizione da cui si citano le lettere a cui fa riferimento il numero di pagina accanto alla data collocata a testo tra parentesi quadre. Il carteggio tra Nomellini e Pascoli, oggi integralmente pubblicato, copre un arco cronologico di dodici anni (1901-1912); consta di 62 pezzi tra lettere, cartoline, biglietti e un telegramma. Alcune lettere sparse furono pubblicate in L. Viani, Il Risorgimento nelle visioni di un poeta. Lettere di Pascoli al pittore Nomellini, in «Corriere della sera», 13 aprile 1932, poi comprese in Id., Il cipresso e la vite, Firenze, Vallecchi 1943. Altre furono edite da Maria ne La lunga vita di Giovanni Pascoli. La prima edizione del carteggio completo si ebbe nel catalogo della mostra, già ricordato (Nomellini e Pascoli, un pittore e un poeta nel mito di Garibaldi cit.). Con l’aggiunta di una lettera inedita e con un ampio apparato critico, l’epistolario fu definitivamente sistemato da Paola Paccagnini in Un pittore per un poeta cit. Un’ampia appendice a quest’ultima edizione comprende, inoltre, tre lettere di Nomellini a Maria Pascoli e le sette missive indirizzate all’editore Zanichelli, tutte scritte dopo la morte del poeta, ma ugualmente importanti per quanto attiene l’epilogo della pubblicazione dei Poemi del Risorgimento. Il carteggio Zanichelli-Nomellini, è stato, infine, edito integralmente da Paolo Tinti, «Per far cosa degna all’alta poesia di Giovanni Pascoli»: Plinio Nomellini illustratore dei Poemi del Risorgimento, «Rivista Pascoliana», 12 (2000), pp. 289-321. Interessante in merito anche la corrispondenza di Mario Novaro, che personalmente pubblicò le lettere (27 pezzi) ricevute da Giovanni Pascoli (Alcune lettere inedite di Giovanni Pascoli, a cura di M. Novaro, Imperia, Nante 1934), poi sistemate con ampio apparato critico da Giuseppe Cassinelli: G. Pascoli, Lettere a Mario Novaro e ad altri amici, Bologna, Boni Editore 1971. Le medesime missive, insieme alle risposte di Novaro, e parimenti il carteggio NomelliniNovaro, sono stati raccolti nei volumi: Lettere alla «Riviera Ligure». I. 1900-1905, a cura di P. Boero, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1980; Lettere alla «Riviera Ligure». II. 1906-1909, a cura di P. Boero, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2002; Lettere alla «Riviera Ligure». III. 1910-1912, a cura di P. Boero, F. Merlanti, A. Aveto, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2003. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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Novaro,5 all’inizio del nuovo secolo, il tramite della prima collaborazione illustrativa, pur promossa in sede editoriale e non per iniziativa del poeta. Qui Nomellini illustrerà La canzone all’olivo6 da cui poi sarà tratta l’etichetta e il manifesto litografico per l’Olio Sasso (1910),7 ispirato proprio alla musa della pascoliana Canzone all’Olivo. Seguirà, questa volta esplicitamente richiesta da Pascoli, l’illustrazione del poemetto La morte del Papa.8 Queste illustrazioni, che pure suscitano l’interesse di Giovanni Pascoli, sono ancora al di qua della costituzione del vero e proprio sodalizio artistico nel nome dell’ideale risorgimentale. Emerge peraltro dalla corrispondenza pascoliana coeva una certa incomprensione del poeta per la maniera grafica di Nomellini aggiornata sul coevo stile Liberty proprio del periodico. La musa dell’olivo, disegno a inchiostro, come tutti gli altri eseguiti sulla rivista, non si affida al consueto elemento ottico-emotivo del colore, ma alla linea, sottile, sinuosa e filamentosa; il soggetto e la posa della musa non possono non evocare il preraffaellismo; la forza che si esprime nella mole dell’albero, quasi fattoriana, è subito smentita dal taglio circolare dell’immagine e dal suo potente dinamismo. Discorso analogo per le illustrazioni del poemetto La morte del papa. Al poeta sfugge la forza evocativa del disegno nomelliniano, pienamente riconducibile al linearismo «Art Nouveau». La terza illustrazione in particolare rappresenta una vecchina che porta al pascolo una pecora, quasi una citazione pellizziana da Lo Specchio della vita;9 la donna e l’animale sono incorniciate nella vegetazione, espediente per un singolare
5 Si tratta della nota «rivista dell’olio», così la chiama lo stesso Giovanni Pascoli nella corrispondenza, perché nata come bollettino pubblicitario della ditta dell’olio Sasso di Oneglia (oggi Imperia) e presto trasformata attraverso le cure del suo direttore e proprietario in un osservatorio straordinariamente avanzato delle novità letterarie (soprattutto poetiche) italiane. Fra i collaboratori si annoverano alcune fra le maggiori voci poetiche del nostro primo Novecento: oltre a Giovanni Pascoli, Luigi Pirandello, Umberto Saba, Giovanni Boine, Camillo Sbarbaro, Dino Campana, Clemente Rebora, Aldo Palazzeschi, Giuseppe Ungaretti etc. Si vedano oltre alle lettere citate nella nota precedente: La Riviera Ligure, a cura di E. Villa e P. Boero, Treviso, Canova 1975; La Riviera Ligure: momenti di una rivista, Genova, Banco di Chiavari e della Riviera Ligure, 16 novembre-6 dicembre 1984, a cura di P. Boero e M. Novaro, Genova, Sagep 1984. 6 Pubblicata in «La Riviera Ligure», VII (1901), 30, n. s., pp. 305-306. Per le riproduzioni fotografiche rinvio al catalogo Nomellini e Pascoli, un pittore e un poeta nel mito di Garibaldi cit., p. 80. 7 Cfr. R. Bossaglia, La Riviera Ligure: un modello di grafica liberty, con un saggio di E. Sanguineti, Genova, Costa & Nolan 1985. L’originale eseguito da Plinio Nomellini è conservato presso l’archivio della Fondazione Mario Novaro di Genova. 8 Pubblicato in «La Riviera Ligure», IX (1903), 54, n. s., (l’intero fascicolo è dedicato al poemetto pascoliano). Cfr. Nomellini e Pascoli, un pittore e un poeta nel mito di Garibaldi cit., pp. 82-84. 9 Pelizza da Volpedo, Lo specchio della vita (E ciò che l’una fa e l’altre fanno). L’opera (olio su tela, cm 132x291) datata 1898, è conservata alla Galleria d’Arte Moderna di Torino.
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effetto di luce e ombra ottenuto attraverso il segno lineare, molto allungato, che si infittisce ai margini della composizione e si dirada al centro: la percezione immediata è quella di una luce che si emana dal mezzo del disegno e quasi «risucchia» le due figure, effetto a cui contribuisce il tratto grafico molto allungato. Questo effetto non è tuttavia compreso da Pascoli, che arriverà a scrivere a Emma Corcos: L’ultimo viaggio della vecchietta, cioè il suo ultimo vaneggiamento, è quello che il Nomellini non ha capito. Io – fondandomi sulla realtà – ho immaginato che, dietro l’idea di strada (di Roma) la vecchietta, delirando, sogni di camminare. Va per sentieri di monte, e a mano a mano impiccolisce, innanisce, fin che diventa piccina piccina e dica pappa e bombo come proprio una vecchietta di qui diceva morendo. Il Nomellini a mio credere doveva fare lontana lontana una coppia in cui la centenaria è donna un po’ più che matura, e poi meno lontana, lei ragazza da marito, con altre ragazze, poi nel primo piano (si dice così?) lei bambina stanca e frignona…con la mamma…10
Le critiche investono esclusivamente la struttura visiva del poemetto, la valenza evocativa ed allusiva non è assolutamente capita dal poeta. Egli insiste su una collaborazione grafica più vincolata al testo, che ne riproponga figurativamente i temi senza slanci interpretativi che vadano oltre il senso letterale. Ma torniamo al 1908 e alla cartolina pascoliana in risposta al Garibaldi di Nomellini: «mi è ritornato più vivo il desiderio dell’abboccamento con te. Ma non c’è fretta» [19.2.1908; p. 81]. È questo il primo cenno all’idea di un progetto di collaborazione che avrà luogo, nei Poemi del Risorgimento. Quando nel 1910 il poeta chiede esplicitamente l’intervento del pittore, la sua memoria torna ancora lì, al suo Garibaldi: «Quando io vidi in una nera cartolina il tuo rosso Garibaldi, dissi: Questa è la poesia più bella che su Garibaldi sia stata fatta. Ora vedo che il tuo spirito alia sempre sulla medesima Iliade e medesima Odissea. E dunque mi farai le tavole […] Voglio che accetti. Non c’è altri. Vedrai che soggetti! Il primo è proprio da te!» [5.10.1910; p. 87]. L’intesa, come prevedibile, è immediata ed entusiastica: Carissimo, con che cuore, con quale entusiasmo accetto la proposta tua! […] Materia di epopea grandissima, favola magnifica pei venturi; il risorgimento nostro val bene che sia glorificato da chi sente fluire il sangue come se del gran tempo fosse stato spettatore e combattente. Anzi è continuare la battaglia, ora, ché fermare nel bronzo dell’Arte gli eroi, è lavoro di incitamento e di ammaestramento. [7.10.1910; p. 91]
È evidente il sentimento, l’adesione profonda alla tematica e al progetto che nasce dunque nella mente del poeta già come un tutt’uno integrato di parole e
10 La lettera è datata: Pisa, 20-9-1903. Cfr. Giovanni Pascoli, Lettere alla gentile ignota, a cura di C. Marabibi, Milano, Rizzoli 1972, p. 163.
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immagini11 ed è forse sollecitato proprio dall’opera di Nomellini che continuerà a dare nuova linfa al poeta, anche nel pieno della collaborazione illustrativa; del successivo L’imbarco dei Mille a Quarto12 Pascoli scrive: Quel Quarto è un capolavoro eterno. È, col tuo Garibaldi a cavallo,13 la infinitamente miglior poesia che sia mai stata fatta intorno all’eroe. Nessun grande pittore del passato ha trasfigurato dal Tabor il Cristo, come tu là, in vetta, Garibaldi, così piccolino e immenso. [apr-mag 1911; p. 113]
Per entrambi gli artisti questo tributo alla celebrazione dell’unità nazionale è l’esito di un composito e sfaccettato percorso, con peculiarità individuali e insospettabili tangenze: entrambi, per esempio, partono da una giovanile esperienza anarchica, per finire nella comune passione patriottica quanto più possibile allineata alla retorica ufficiale e nazionalista. Quanto all’adesione anarchica, non si potrebbe dare una coincidenza più marcata. Nomellini nel 1894 fu coinvolto nel processo contro l’anarchico Luigi Galleani: ebbe un peso determinante per l’assoluzione la testimonianza di Telemaco Signorini e la solidarietà di altri pittori, primo fra tutti il maestro Giovanni Fattori. Il poeta di San Mauro negli anni bolognesi tra 1875-78, dunque poco più che ventenne, fu vicino a Severino Ferrari e all’internazionalismo di Andrea Costa. Nel
11 L’attenzione di Pascoli alla confezione di volumi illustrati o graficamente decorati è una costante della sua biografia poetica. Basti pensare alle numerose collaborazioni che ebbe con vari artisti, già prima della relazione con Nomellini. La terza edizione di Myricae, l’editio picta di ambito post-macchiaiolo, fu illustrata ad opera di un giovanissimo Antonio De Witt insieme con Adolfo Tommasi e Attilio Pratella: G. Pascoli, Myricae, Livorno, Giusti 1894; a inizio ’900 il poeta affidò il complessivo progetto illustrativo dell’opera omnia (Zanichelli) alle cure di Adolfo De Carolis; furono pubblicate nella serie in quest’ordine: Myricae (1903), Primi Poemetti (1904), Nuovi Poemetti (1909), Canti di Castelvecchio (1903), Odi e Inni (1906) e Poemi Conviviali (1904). Per i Poemi italici e per le Canzoni di Re Enzio Pascoli trovò la collaborazione di Alfredo Baruffi; ad Aldo Viganò si deve un albo illustrato (un volume di lusso in tiratura di soli 500 esemplari) con diciassette acqueforti (tra cui un ritratto del poeta medesimo) a commento di alcuni dei più noti versi pascoliani: Albo pascoliano, Bologna, Zanichelli 1911; Augusto Majani preparò il frontespizio de La grande proletaria si è mossa (Zanichelli 1911). 12 Oggi conservato a Novara, presso la Galleria d’Arte Moderna. Cfr. Induno, Fattori, Nomellini, Viani. Pittura di storia nella Galleria di Arte Moderna di Novara, a cura di A. Scotti Tosini, Cinisello Balsamo, Silvana 2005, pp. 94 e sgg. La datazione è controversa: l’opera è esposta nel 1911 all’Esposizione Nazionale di Roma e dello stesso anno è la cartolina con la foto che suscita la risposta entusiastica del Pascoli. La si è ritenuta opera composta intorno a questa data finché Gianfranco Bruno non ne ha individuato precise affinità con opere precedenti (in particolare con un paesaggio raffigurante lo Scoglio di Quarto eseguito nel 1904 per «La Riviera Ligure» e, per la qualità stilistica, con Gli insorti del 1907). 13 Si tratta del dipinto già ricordato, cfr. nota n. 3.
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1878 arrivò a recitare in pubblico un’ode a favore di Passanante attentatore di Re Umberto (Napoli, 17 novembre 1878): «Colla berretta d’un cuoco faremo una bandiera»; il gesto gli costò alcuni mesi di carcere, esperienza che lo segnò profondamente ed ebbe come conseguenza il suo rifiuto programmatico dell’impegno politico diretto. La successiva adesione nazionalistica ha invece alcune differenze. Per Giovanni Pascoli il percorso che lo conduce dall’ideologia del nido a posizioni marcatamente nazionaliste e guerrafondaie14 ha una ragione biografica: la successione al Carducci nel 1905 alla cattedra di Letteratura italiana all’Università di Bologna. La successione quasi “obbliga” Pascoli a raccogliere il testimone del maestro anche per il ruolo, l’impegno istituzionale e civile. Pascoli si impegnerà infatti in una serie di celebrazioni ufficiali, conferenze discorsi, su molti fronti, quello genericamente sociale (si rivolge ai maestri, agli insegnanti di scuola, ai medici condotti) accanto a quello propriamente patriottico (si pensi ai discorsi su Garibaldi già ricordati), per essere coinvolto nel 1911 all’Università di Bologna nelle celebrazioni per il Cinquantenario dell’Unità d’Italia, approdando infine ad uno schietto nazionalismo che lo porterà a sostenere l’impresa libica (nel celeberrimo discorso La grande proletaria si è mossa). La passione per la figura di Garibaldi è ereditata proprio dal maestro: le due figure si sovrappongono spesso nell’oratoria pascoliana; ricordo uno su tutti il titolo di un celebre discorso: Alla gloria di Giosue Carducci e di Giuseppe Garibaldi.15 Anche Nomellini abbraccerà un certo nazionalismo, aderendo ad un’istanza culturale diffusa; per questo comportamento, peraltro, il pittore non mancherà di essere condannato e disprezzato dal suo antico maestro, Giovanni Fattori: «Nomellini ha conosciuto il suo tempo; sta con S. M. il Re come sta con il più feroce socialista anarchico».16 Rispetto a Pascoli tuttavia si avvertono marcate differenze: Nomellini mostra molte riserve e un certo fastidio per l’impresa libica, scrive infatti al poeta: «Non ho altro da dirti ora se non augurarti animo lieto nell’opera tua, e che non ti giunga il rumor tedioso del nazionalismo italico cosiddetto giovane» [1.8.1911; p. 123]. Al contrario Pascoli non ha dubbi sull’impresa libica: «Il nostro primo volume – di dolore e di sangue – coinciderà col primo grande passo avanti della grande nazione proletaria. Viva l’Italia, operaia nel mondo!» [30.9.1911; p. 141], posizione cui Nomellini pare fare buon viso, quasi assecondando il poeta: «Per quando sarai pronto tu? Pensa che bisognerà salutare l’Africa nostra; le aquile della vittoria dovranno arrecare tra gli artigli il libro de’ tuoi canti,
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Rinvio per brevità alla sede in cui ho trattato più diffusamente questo aspetto: Giovanni Pascoli, presentato al Convegno di Studi L’idea italiana. Stato e Nazione nella filosofia politica del Risorgimento. Correnti di pensiero e interpretazioni storiografiche, Genova 5-6 maggio 2010 (gli Atti sono in corso di stampa). 15 Cfr. Q. Marini, Giovanni Pascoli, in Giuseppe Garibaldi. Due secoli di interpretazioni cit. 16 I postmacchiaioli, a cura di R. Monti, G. Matteucci, Roma, De Luca 1994, p. 84. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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premio ai vittoriosi!» [7.11.1911; p. 146]. Non sarà superfluo rimarcare che, per Nomellini, il recupero della storia in un’epica nazionalista e patriottica, sarà occasione di tornare all’impegno sociale degli inizi. Fin dagli esordi, sotto la guida di Giovanni Fattori, la pittura di Nomellini prestava attenzione all’uomo, alla società, al lavoro (Il fienaiolo, 1888).17 L’interesse sociale resterà costante in Nomellini, ma muterà nel tempo, spostandosi dall’ambiente agricolo a quello operaio, soprattutto in seguito al trasferimento a Genova. Nel contatto con l’ambiente operaio e proletario della città portuale si consolidano gli interessi politici del pittore e si compie il distacco linguistico (in direzione divisionista) dall’insegnamento del maestro: Nomellini confezionerà opere quali Piazza Caricamento (eseguito ed esposto alla Triennale di Milano nel 1891) La diana del lavoro o Mattino in officina (1893). L’impegno ideologico e sociale, già così marcato nella sua giovanile produzione pittorica, sarà dunque troncato di netto in seguito all’arresto e al processo (1894) per sovversione anarchica, cui va imputato il successivo ripiegamento sulla tematica naturalistica, in una progressiva adesione, anche linguistica, alle istanze simboliste; ricordiamo che nel 1899 Nomellini presenterà alla Biennale un’opera quale Sinfonia della Luna.18 Sarà il recupero della storia in chiave nazionalista a riaccendere l’interesse sociale. È un percorso parallelo eppure diverso, dunque, quello di Pascoli e Nomellini; un percorso che arriverà a un momento di felice incontro proprio nell’epopea risorgimentale. Gli incompiuti Poemi del Risorgimento costituiscono l’ultimo atto della più tarda fase poetica pascoliana. Saranno pubblicati, soltanto postumi, riordinati dalla sorella del poeta nel 1913.19 Barberi Squarotti, al quale si deve l’edizione commentata, li
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Cfr. Da Fattori a Nomellini. Arte e Risorgimento, Catalogo della mostra, Chiavari Pinacoteca Civica di Palazzo Rocca, 18 dicembre 2005-19 marzo 2006, a cura di F. Ragazzi, Genova, De Ferrari 2005. 18 Si affina infatti la tecnica divisionista che vira in esiti sempre più luminosi e dinamici. Il pittore approda a una visione panteistica e simbolica, tende a trasfigurare visioni naturalistiche in sinfonie cromatiche che suscitino sentimenti e inducano una marcata partecipazione emozionale. Sinfonia della Luna provocherà, non a caso, la rottura con Pelizza da Volpedo. Cfr. G. Bruno, Plinio Nomellini, Genova, Stringa 1985; Id., Nomellini a Genova, Genova, Erga 1994. 19 Il volume confluisce nella serie zanichelliana delle poesie di Giovanni Pascoli insieme con le versioni italiane degli Hymni a Roma e a Torino (già editi nella doppia versione italiana e latina sempre da Zanichelli nel 1911). Maria nella prefazione afferma che i fregi della copertina e del finale (conformi a quelli dell’intera serie) sono di De Carolis, ma né la copertina né il finale sono firmati, come abituale nelle realizzazioni grafiche di Adolfo De Carolis cui si deve la sistemazione grafica dell’opera omnia pascoliana (cfr. Nomellini e Pascoli, un pittore e un poeta nel mito di Garibaldi cit., p. 99). Per la verità desumiamo dall’epistolario che Nomellini provò ad interessarsi anche agli aspetti grafici e alla decorazione della copertina, ma ebbe questa risposta dal poeta: «Per la copertina occorre intenderci prima con l’editore. A dirti il Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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definisce «relitti di un compendio poetico della storia del Risorgimento e dei suoi eroi, monumentale non meno che velleitario».20 Ancor più duro e impietoso Cesare Garboli che non esita a parlare di «rovine di un progetto fallito; rovine morte, e non, come ci si aspetterebbe, cellule di un organismo in espansione di cui la crescita si sia interrotta. I Poemi del Risorgimento sono una montatura cieca, senza i gioielli. […] I frammenti superstiti sono soffocati dal disegno fallito; ma il disegno non c’è, perché segue senza fantasia il convoglio di storia patria».21 Dalla prefazione di Maria e dalla corrispondenza coeva del poeta (quella con Plinio Nomellini in modo particolare) desumiamo che l’opera avrebbe dovuto svilupparsi in tre volumi divisi cronologicamente (dal ’15 al ’48, ’48 e ’49 e ’59-’70); la carrellata doveva iniziare dalla fine di Napoleone e concludersi con Porta Pia. La forma avrebbe dovuto essere quella degli altri cicli già compiuti (Conviviali, Canzoni di Re Enzio e Poemi Italici), cioè una struttura unitaria nel complesso, ma articolata in episodi indipendenti, composti nei vari cicli: il ciclo carbonaro, il ciclo sabaudo (Carlo Alberto), quello mazziniano, quello garibaldino. Il volume postumo comprende nove poemi, solo il primo dei quali è terminato (Napoleone), gli altri si compongono di poche lasse o addirittura di pochi versi: Il Re dei Carbonari, Garibaldi fanciullo a Roma, Garibaldi coi Sansimoniani, A Tanganrok, Mazzini, Garibaldi in America e Garibaldi vecchio a Caprera. Nomellini esegue quattro tavole a colori che saranno riprodotte con la tricromia a pagina intera (Napoleone e i due Titani, Cavalcata notturna verso Novara, Garibaldi fanciullo a Roma e Il trombetta del salto) e ben diciotto disegni in nero che avrebbero dovuto essere riprodotti con la zincotipia in piccolo formato come frontoncini o finali dei singoli poemi o delle loro specifiche sezioni. L’edizione vedrà tuttavia riprodotte le sole tavole a colori e soltanto dopo un’estenuante trattativa da parte di Nomellini con l’editore Zanichelli. Dei disegni in nero purtroppo se ne conoscono realmente solo 10 (dei restanti otto traiamo notizia dal carteggio) e alcuni sono noti solo perché riprodotti e pubblicati successivamente dal pittore, ma non se ne conserva l’originale (in tutti gli altri casi custodito presso l’archivio privato degli eredi Nomellini a Firenze, con l’eccezione di un solo disegno conservato al Gabinetto disegni e stampe del Vieusseux).22
vero, a me non piace la copertina con figure. Mi pare che la musa, così riguardosa e ombrosa, si faccia sull’uscio e faccia la civetta. Poi saranno 3 volumi… Ma se hai qualche idea in prop. della copertina, non può essere se non buona, e vorrei che me la comunicassi» [16.9.1911; p. 132]. 20 G. Pascoli, Poesie, IV, Poemi conviviali, Poemi italici, Le canzoni di re Enzio, Poemi del Risorgimento, Inni per il Cinquantenario dell’Italia liberata, a cura di G. Barberi Squarotti, Torino, Utet 2010, p. 723. 21 G. Pascoli, Poesie e prose scelte, a cura di C. Garboli, Milano, Mondadori (I Meridiani) 2002, p. 1425. 22 Per le riproduzioni fotografiche rimando ancora a Nomellini e Pascoli, un pittore e un poeta nel mito di Garibaldi cit., pp. 100-103 per le tricromie e pp. 104-111 per alcuni disegni in nero. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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L’unica parte interamente compiuta è la prima, dedicata a Napoleone. È il solo poema finito e l’unico letto integralmente dal pittore prima di eseguirne l’illustrazione, pertanto quello su cui meglio si può ragionare della relazione fra parole e immagini. Faccio precedere all’analisi di questa parte, una breve panoramica sul resto del lavoro che condivide la medesima caratteristica: il pittore esegue le illustrazioni senza conoscere il testo, ma soltanto sulla base delle indicazioni del poeta; per quanto i dati offerti da Pascoli siano minuti e precisi, anzi il poeta si rivela molto – a volte troppo – esigente, non si può parlare di interpretazione del testo, perché il testo o non è mai stato scritto o è stato redatto dopo l’illustrazione. Il secondo poema è intitolato Il Re dei Carbonari, ossia Carlo Alberto. È incompiuto, infatti l’illustrazione a colori che riproduce La cavalcata notturna presso Novara, non trova riscontro nel testo. Il poeta ha infatti redatto solo una prima parte del poema in cui si dà una mera descrizione quasi misterica ed esoterica del mondo della Carboneria con tutte le sue simbologie, a partire dal fuoco (della libertà) che cova nascosto sotto il carbone. È altrettanto misterica l’aura in cui è trasfigurata l’adesione di Carlo Alberto alle istanze dell’insurrezione, durante i pochi giorni della reggenza nel marzo 1821; in pratica il sostegno del principe, nuovo Manfredi visto l’esplicito riferimento dantesco, diventa nel poema una diretta affiliazione di Carlo Alberto alla setta: «All’uscio / d’una baracca uno picchiò notturno. / Era smarrito tra la notte e il nembo, / nella foresta. Vide il fuoco in una / radura, acceso. Vide le tre luci / nella capanna. Entrò. Giovane e bello /era, coi segni del dolore in fronte» (vv. 45-51). La cavalcata notturna, dunque, è realizzata solo sulla base delle indicazioni del poeta che scrive: La seconda [tavola] acciò che tu già ci pensi può essere […] «una notturna Cavalcata di un reggimento o Cavalleria che va al galoppo verso Novara». C’è tra loro, ammantellato, spaventato dal destino che porta con sé, il giovane principe di Carignano, Carlo Alberto, che ha tradito o abbandonato la causa della libertà (colpevole forse soltanto di debolezza ma detto poi traditore) e ubbedisce agli ordini del Re che vuole che vada a Novara (a Novara dove il suo fato si adempierà 28 anni dopo). Il tempo è 21 marzo 21. [11.1.1911; p. 94]
Nomellini traduce l’episodio in un’immagine molto scura con figure talvolta indistinguibili, eccezion fatta per il principe a cavallo ammantellato, come richiesto dal poeta. Sono solo due soli i punti di luce: il chiarore che filtra dal cielo dietro le nubi e il primo piano della rappresentazione, da cui si irradia il resto della composizione. La situazione è analoga per Garibaldi fanciullo a Roma. Qui l’illustrazione trova corrispondenza nella parte compiuta del poema, ma anch’essa è ultimata prima della redazione del testo. Subito dopo l’annuncio da parte del poeta della necessità di una tavola rappresentante «Garibaldi giovinetto a Roma», Nomellini ha già in mente come realizzare l’immagine: «Già mi splende, ravvolta in un turbine aurato, la giovinezza di Garibaldi a Roma» [13.1.1911; p. 96]. E in effetti sono comuni a testo e immagine alcune caratteristiche, peraltro stereotipate, della rappresentazioIdentità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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ne dell’eroe. Tuttavia l’ambientazione data da Nomellini non è quella pascoliana, dove vediamo il fanciullo sulla prua dell’imbarcazione lungo il Tevere. Più aderente alle indicazioni del poeta e dunque alla lettera del testo il frontoncino in nero, intitolato Garibaldi, risalito il Tevere sulla tartana del padre giunge a Roma, dove perlomeno figurano le rovine della città romana come effettivamente appare dall’ambientazione del poema pascoliano. La libertà che talvolta Nomellini si prende non è affatto apprezzata da Pascoli (e qui emerge un dato peculiare della personalità del poeta e del suo concetto di illustrazione che per lui deve limitarsi ad una riproposizione visiva del testo, con perfetta e scrupolosa aderenza tematica al soggetto della poesia). All’invio (1.7.1911) dei primi due acquerelli Cavalcata notturna presso Novara e Garibaldi giovinetto a Roma, Pascoli risponde con ben nove giorni di ritardo e spiega perché: Mio caro grande Plinio, non hai seguito a puntino le mie istruzioni, e perciò ricevi in ritardo l’espressione del mio entusiasmo. […] A Bologna si disputa qual sia de due il più mirabile: chi propende per il tragico del Carlo Alberto a Novara, chi per l’epico fanciullo di Garibaldi sul lido sacro. Finiscono però con accordarsi in una sola voce di amore e di lode. [9.7.1911; p. 119]
Nomellini conosce il poeta e sa che, nella pur sincera soddisfazione per il suo operato, soggiace, neppure troppo celata, una critica; per questo risponde: «Grazie! Ma non ho peranco fatto cosa di intero mio soddisfacimento, e tale da poter essere considerata valevole di stare a pari con la tua. E c’è una ragione: la timidità e la incertezza di poterti accontentare, ha ingarbugliata la mia fantasia rattenendola» [12.7.1911; p. 121]. Se Nomellini ai primi annunci poteva rispondere con entusiasmo, per esempio per la prima tavola: «Penso aver penetrato in quel senso terrifico nel quale dovrà essere involto il sogno napoleonico» [13.1.1911; p. 96], ora davanti alla puntualità esigente del poeta muta completamente il tono della sua risposta: «Carissimo, che cosa vuoi, pel tuo poema abbisognerebbe bronzo per poterlo con qualche maraviglia magnificare; abbisognerebbe artefice di ben altra tempra che non la mia, artefice che già fosse del gran tempo, oppure artefice del divenire futuro; giammai del tempo nostro: povero incerto, malfido» [15.8.1911; p. 127]. Anche per le restanti illustrazioni e per i disegni in nero il metodo è analogo. Pascoli manda lunghi elenchi di soggetti, di cui precisa tutto fin nei minimi dettagli e Nomellini esegue puntualmente secondo le richieste. Addirittura per l’ultima tavola, Il trombetta del salto, compreso nella sezione Garibaldi in America, Pascoli prima annuncia l’argomento: «Il trombetto del salto o S. Antonio […] I nemici erano a cavallo. Non so il costume. Qualche negro c’era di certo. Erano argentini al servizio del tiranno Rosas. Gli italiani avevano per bandiera un drappo nero col Vesuvio in eruzione. Fu l’8 febbraio 1846» [20.9.1911; p. 134]. Poi, poiché il poema non è ancora scritto (né mai lo sarà), trascrive di suo pugno per il pittore la fonte da cui trae l’episodio da cui appare l’eroismo del giovanissimo trombettiere che lotta fino allo stremo per la causa: V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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La cavalleria nemica fu spettatrice della distruzione della propria fanteria, senza potervi porre riparo; i suoi ripetuti assalti furono sempre respinti dai nostri, che in un attimo si aggruppavano ed obbilgavano interi squadroni a dar volta, lasciando il terreno seminato di cadaveri. Fra i tanti un solo esempio citerò di valore pressoché feroce, di cui fui testimonio. Un trombetto, giovane di appena quindici anni, piccolo, tarchiato, rosso di capelli, che durante il combattimento ci aveva continuamente animato coi suoni della sua cornetta, fu da cavaliere nemico ferito di vari colpi di lancia. Allora gittar la cornetta, sguainare il coltello e avventarsi contro il feritore fu un punto. Indarno questi tentava liberarsene spingendo a carriera il cavallo: prode il trombetto, avviticchiato alla gamba destra del suo nemico, l’andava percotendo con furiosi colpi di coltello; fino a che lo vidi io stesso abbandonar la sua preda a cader col capo spaccato da un fendente. Nel tempo stesso però il cavaliere precipitava a sua volta trapassato da una palla de’ nostri; ed esaminandone dopo il combattimento il cadavere gli trovai io stesso la gamba lacerata da parecchie pugnalate, e coll’impronta dei denti del giovinetto. [p. 135n]
Si tratta delle memorie di Giuseppe Guerzoni23 autore di una Vita di Garibaldi che è riferimento costante del poeta nella scrittura di questi testi. Peraltro la corrispondenza coeva (a Guido Bianchi, 24 allo stesso Nomellini, a Pietro GuidiPirozz25) dimostra che Pascoli profuse un gran lavoro per questi poemi, anche in termini di documentazione storica. Le lettere sono infatti punteggiate da richieste di informazioni, precisazioni, dubbi etc. Scrive per esempio Nomellini: «Ti spedisco pure quel libro di cui ti parlai: è una semplice accolta di cronaca, che forse in qualche maniera potrà giovarti quale materia documentativa. Ad un mio amico di Genova ho chiesto come in genovese si chiami Giuseppe: Bepin e specie nella riviera di ponente: nel nizzardo» [18.9.1911; p. 133]. Veniamo dunque al Napoleone che, come scrisse il poeta stesso al pittore, «è come il prologo di tutta l’opera» [14.8.1911; p. 126]. È intitolato solo «N», o meglio il titolo è la riproduzione grafica del monogramma/firma di Napoleone Bonaparte. Per questo primo poema Nomellini esegue la tavola a colori: Napoleone e i due titani e due piccoli disegni in nero (frontone e finale) rispettivamente Lo scoglio di Sant’Elena e L’aquila. Del primo disegno Pascoli fa prontamente uno schizzo e precisa «Il frontoncino vorrei fosse la linea infinita dell’Oceano, con un tragico
23 Giuseppe Guerzoni (1835 Mantova-Montichiari 1886), patriota e letterato, prese parte alla spedizione dei mille e poi fu professore di letteratura italiana a Palermo. Fu autore di due biografie, rispettivamente di Nino Bixio e di Giuseppe Garibaldi; quest’ultima fu ben presente a Pascoli per la redazione di questi testi. Guerzoni narra appunto la vita di Garibaldi riferendo i Ricordi di Gaetano Sacchi che nelle due campagne combatté al fianco di Garibaldi in America latina. 24 Cfr. C. Scarpati, Lettere del Pascoli Augusto Guido Bianchi, «Aevum», 3 (1979), pp. 439-497. 25 Cfr. L. Ferri, Lettere del Pascoli a Pietro Guidi, «Lettere italiane», 4 (1978), pp. 463-502.
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scoglio nubiloso in lontananza…» [12.8.1911; p. 125]. Quanto al finale, Nomellini aderirà con scrupolo alle indicazioni fornite dal poeta: Mi pare che il soggetto sia suggerito e quasi imposto dal poema: un’aquila; ma un’aquila quasi sfumata e spettrale, con mossa atroce, come nel tempo stesso, d’uccello ferito che cade furioso che scende a lacerare il cuore e il fegato del suo Prometeo imperiale: col rostro semiaperto, con le grinfie rattratte, una vera belva dell’aria, una vera larva del mito… [14.8.1911; p. 126]
Napoleone esula dal resto del poema per l’autonomo contenuto e per la tematica ad essa sottesa, ossia «un apologo più pensoso che eroico sul tema romantico, post-romantico e decadente del titanismo superomistico». Rientra nel ciclo pur essendone per molti versi estraneo, forse anche come realizzazione di una tematica ricorrente del suo immaginario poetico: troviamo già un abbozzo di un Napoleone a Sant’Elena risalente agli anni del ginnasio, e vari riferimenti nella sua opera poetica, per esempio in Romagna. È inserito in questi poemi perché trasformato in una figura risorgimentale e celebrato come eroe italico (per nascita còrsa). Soprattutto lo si identifica con la missione dell’impero universale, che, senz’altro anche per suggestione dantesca, è una dominante dell’ideologia poetica dell’ultimo Pascoli al riguardo del destino istituzionale e civile dell’Italia post-unitaria. L’eco dantesca, peraltro, è evidente nella citazione quasi esplicita della figura di Mosca Lamberti, accanto a onnipresenti suggestioni classiche: Sant’Elena è il Tartaro Virgiliano dove Napoleone è relegato per aver sfidato Dio, moderno Titano, nel dominio del mondo. L’illustrazione da un lato traduce il componimento in immagine con assoluta fedeltà alla lettera del testo. Pascoli ha infatti fornito minutissime indicazioni: Una tavola a colori: la prima, che illustri il poema tragico-epico, dal titolo N (l’iniziale sigla napoleonica). Ecco i dati donde il pennello epico di Plinio può trarre quel che vuole. In un’isola lontana le mille miglia da ogni terra è l’uno, è l’unico, l’uomo (se uomo ha da dirsi!) a cui nessun uomo s’assomigliò, a cui nessun aggiunto si conviene, eccezione terribile. Nell’isola soffia sempre il vento. Gli alberi tristi e spogli son tutti piegati da una parte. Mentre tutto all’intorno sopra l’Oceano è serenità, l’isola è sempre ravvolta di nuvole che si succedono incessantemente, strisciano, s’arrotolano per terra, s’inabissano nei profondi crepacci. Sempre pioggia e nebbia. Le nuvole nascondono l’uomo con cui parlate, in un istante, e dopo un istante ve lo rifanno vedere, e così via via. Se Plinio volesse, potrebbe far vedere solo (la testa del Gerôme, di Primo Console) dell’imperatore prigioniero, tra la nebbia e le nuvole…. Un raggio di sole che la illumina… il resto del corpo appena segnato tra le nuvole e la nebbia. Egli ambì di essere il solo padrone del mondo, il timoniere della Terra. Egli, così, usurpava una stella a Dio. Egli fu come un Brahma con milioni di braccia. Ora le braccia son mozze e gettano sangue. Gli uomini lo immaginano che si lava il sangue che scorre perenne, immenso, da tre milioni di ferite… come (ma quanto più piccolo dell’eroe greco!) Filottete in Lemno. V. Il cosmopolitismo degli Italiani
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Egli non ha pari che in Atlante che sostiene il cielo e in Prometeo che rapì il fuoco ed è ora incatenato…. L’oceano che si invermiglia del suo sangue, ondeggia a’ piedi del Titano Atlante e spruzza sul petto del Titano Prometeo… Far vedere in un’enorme distanza queste due figure una da una parte, una dall’altra di lui, che sta nell’isola solitaria… [11.1.1911; pp. 94-95]
Successivamente il poeta ha mandato al pittore le bozze del poema: Caro Plinio, eccoti finalmente le bozze (che forse correggerò molto, ma non sostanzialmente) del primo canto del Risorgimento. Ha un po’ dell’epico e più del tragico. Invero ho fatto lasse che terminano tutte con un verso più breve, ma ogni tre, a foggia della matrice corale, stanno a sé e hanno la finale tronca. Ho aggiunto noticine non per sfiducia in te e nella tua grande cultura, ma in me e nella mia grande oscurità. Il frontoncino vorrei che fosse la linea infinita dell’Oceano, con un tragico scoglio nubiloso in lontananza…. [puntualmente schizzato e allegato alla lettera dal poeta] ma vorrei anche una tavola e per l’economia del lavoro, che richiede un’altra tavola sul fine e per istare ai patti zanichelliani, bisognerebbe fosse in bianco e nero. [12.8.1911; p. 125]
Si osservi che non c’è spazio per l’interpretazione dell’artista neppure dove il poeta è volutamente oscuro! Nomellini dunque ha avuto molti mesi per pensare ai soggetti e poi ha potuto leggere una bozza del poema. Tuttavia si è anche riappropriato del soggetto da rappresentare in modo originale, rivisitandolo. Pensiamo all’incipit «Ora egli è solo, tra le lontane acque, / sul borro solo». L’illustrazione di Nomellini già traspone alla lettera la solitudine di Napoleone isolato al centro della composizione, l’eroe non ha vicino altre figure e se anche le avesse la sua posa, il lineamento pensoso della figura intera, il suo viso lo farebbero apparire ugualmente nella più completa solitudine. Non dimentichiamoci che nel prosieguo del testo Napoleone sarò chiamato addirittura l’Unico. E l’unicità nel poemetto è non solo quella di Napoleone ma diventa addirittura quella dell’isola «Era per lui quell’isola da quando spuntò sull’ampio ondeggiamento azzurro, unica». L’elemento non colto da Nomellini è l’almeno iniziale «serenità calma» dell’isola e dell’acqua («il canto», «il respirare uguale») che stride con il tormento del titano punito Napoleone, come Atlante, come Prometeo. Tuttavia anche nel testo, questo tratto è subito rovesciato per lasciare il posto a una Sant’Elena niente affatto serena, ma fiaccata da «una tempesta vorticosa» un movimento subitaneo di nubi che ora coprono ora rivelano la presenza dell’eroe. Nomellini trasfigura efficacemente questo motivo nel violento dinamismo dell’acqua che è tema dominante del disegno, riecheggiato ed enfatizzato nel medesimo trattamento vibrante della pennellata che caratterizza l’intera composizione, nel cielo, nei giganti e nella stessa veste napoleonica. «Ora egli è avvinto all’isola lontana / che sola spunta di tra le grandi acque; che, sola tra la serenità calma, è di perpetue nuvole involuta; come se imperversasse una tempesta / là, vorticosa, interminabilmente; / una tempesta pallida e segreta, / incominciata all’albeggiar del mondo. Tutte le nubi erranti per quel Identità nazionale e cosmopolitismo prima e dopo l’Unità
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cielo / dagli alisei sono parate, a branchi, / là, con assidui sibili, e son chiuse tra mura d’invarcabile aria» (vv. 73-84). Ovviamente nell’illustrazione si eliminano molti elementi presenti nel testo e puntigliosamente enumerati da Pascoli per lettera, per esempio gli alberi curvati dal vento o il Napoleone quale Brahma induista (con molte braccia e tutte mozzate e sanguinanti), dove Pascoli riecheggia esplicitamente Dante (Inf. XVIII), ma con esito poetico davvero poco felice: «Egli nell’aria fosca / leva, stillanti di sangue, i moncherini». Nomellini invece coglie l’eroe in un’immobilità forse ben più drammatica e carica di Pathos di quanto tutto il movimento delle braccia sanguinanti del Napoleone pascoliano possano esprimere. Resta invece il colore vermiglio dell’acqua (quasi epiteto epico «mare color del vino», peraltro ripreso da Pascoli: «Oceano purpureggiante») e restano i Titani questi sì rappresentati come Pascoli li descrive, con l’aquila pronta a ghermirne «il cuore e il fegato». Nomellini riesce quindi, con il garbo e la delicatezza che gli consente di farsi amare e apprezzare da Giovanni Pascoli, ad interpretare il testo poetico, superando la concezione che il poeta di San Mauro ha dell’illustrazione, quasi mero surrogato visivo della parola. È proprio questa peculiarità, senza eguali nelle altre relazioni illustrative, pur rilevanti nella biografia poetica pascoliana, che rende la collaborazione tra Pascoli e Nomellini vero e profondo «dialogo artistico».
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VI. Italiane della (e nella) letteratura
Italiane della letteratura: Anna Banti Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento Italiane della letteratura: Matilde Serao La figura della donna dall’Italia post-unitaria alla società degli anni Sessanta La letteratura delle Italiane e le Italiane della letteratura Italiane della letteratura: Elsa Morante
ITALIANE DELLA LETTERATURA: ANNA BANTI
HANNA SERKOWSKA Le confessioni di due Italiane: la riscrittura del modello nieviano in ‘Noi credevamo’ di Anna Banti e ‘La briganta’ di Maria Rosa Cutrufelli
«I buoni romanzi, vecchi e nuovi, si assomigliano più che non si pensi» scrive Anna Banti nel saggio dedicato al “caso” del Gattopardo che definisce un «vero romanzo italiano» (ne fa altri tre esempi, richiamando, oltre a Tomasi di Lampedusa, Manzoni, Nievo e Verga) ovvero uno che «mostra di preferire il grande panorama sociale al personaggio singolo, l’affresco al quadro di piccole proporzioni, i problemi di classe a quelli puramente psicologici».1 Un grande seguace non può non stabilire «una sorta di spirito polemico» (p. 194) con uno dei grandi padri. Un rapporto di rivalità (un’angoscia dell’influenza) può vincolare chi segue la scia del grande predecessore, e così anche Banti in Noi credevamo pare che instauri un “rapporto polemico” con i grandi modelli del “vero romanzo italiano”. Molti elementi dell’opera bantiana sono stati ripresi dai quattro «patroni della narrativa nazionale» (p. 193), qui tuttavia mi limito al confronto con chi sembra avergliene procurata di più, d’angoscia, con Ippolito Nievo, e vi affianco subito una disamina de La briganta (1990) di Maria Rosa Cutrufelli, una possibile riscrittura del testo bantiano. La mia analisi ha come ipotesi di lavoro questa premessa: Noi credevamo è una riscrittura del romanzo nieviano, e La briganta è una riscrittura di entrambi gli ipotesti, compreso quello di Banti cui rende omaggio (ne ricorda alcuni concetti, mettendo in rilievo soprattutto il femminismo di fondo). Se Banti compie un’eccezione alla sua costante scelta di donne singolari come personaggi, donne che vivono e sopravvivono grazie al talento, all’arte, a pittura, musica, scrittura, alla propria chimera, preferendovi questa volta un protagonista maschile – cosa insolita per l’autrice di Le donne muoiono – Cutrufelli, quasi in reazione alla scelta bantiana, elegge a protagonista del proprio romanzo una donna-brigante, un caso atipico tra i
1 Il “caso” del ‘Gattopardo’ in A. Banti, Opinioni, Milano, Saggiatore 1961; rispettivamente pp. 190 e 193.
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membri del movimento rurale del Sud, un’eccezione anch’essa. E nel far sì, questo costituisce una specie di appendice al romanzo bantiano. Nel saggio Umanità della Woolf Banti scrive inoltre che quel che nel romanzo storico «non muta e che non voleva essere mutato è l’intenzione esemplare, morale, primo ed essenziale motore di questo genere di romanzo».2 Cercherò di tracciare in Noi credevamo e poi ne La briganta le questioni cui è riferita l’intenzione “morale” ed “esemplare” della scrittrice, che sono: la patria storia (il Risorgimento di meno, e l’Italia postunitaria di più), l’arte/la scrittura, e la donna, trovando al contempo punti di continuità (non più polemica, ma di ispirazione fortemente femminista) ne La Briganta di Maria Rosa Cutrufelli. Accenniamo prima a qualche prova della sussistenza della parentela intertestuale (per intertestualità, con Laurent Jenny, intendo un rapporto non innocente, ma interessato) con il romanzo di Ippolito Nievo. Come in Confessioni (1867) nel romanzo bantiano (1967) si racconta la vicenda di un ottuagenario, un uomo in fin di vita. Carlo, come Domenico, viene arrestato per aver partecipato ai moti liberali. La vista persa da entrambi come conseguenza delle condizioni di vita carceraria, viene riconquistata poi. In entrambi i romanzi v’è una progettualità, ma di segno opposto, manifestantesi in momenti diversi e con obiettivi diversi, che fa di entrambe le opere una specie di roman-à-clef: Carlo Altoviti, attraverso peripezie complesse e difficili, arriva a un buon esito. In Banti vengono ricordate le vicissitudini passate, non perché il finto autobiografo le veda culminare in un finale fortunato, bensì per lumeggiarne l’assurdità e l’illusorietà. Il concetto che in maniera manifesta rinvia all’intertesto nieviano, quasi fosse una parola d’ordine, è la confessione. A confessarsi è la stessa Banti, scrive Enza Biagini3 senza però estendere il confiteor bantiano a Noi credevamo, in cui a me pare che esso svolga – rispetto alle altre opere di Banti – il ruolo più notevole (non solo dal punto di vista quantitativo, anche se la sola frequenza e enfasi sulla “confessione” permette di affermare la sussistenza di un forte legame con l’ipotesto4 ottocentesco). Le confessioni scritte
2
Il saggio proviene dalla stessa raccolta di A. Banti, Opinioni, cit., p. 66. «Le eroine della Banti non solo si confessano, ma concepiscono il loro stesso vissuto alla stregua di romanzi possibili», nota E. Biagini, La poesia e la filosofia della storia: Anna Banti e Marguerite Yourcenar, pp. 93-106, qui p. 104; in Ead., L’opera di Anna Banti, Atti del convegno di studi. Firenze, Leo S. Olschki 1997. Vediamo invece questi assaggi da Noi credevamo: «Eh sì, da lontano venivo, e come avrei potuto confessarle che la rovina di casa nostra e l’avvenire dei nostri figlioli mi lasciavano indifferente?» (pp. 9-10). «Chi mi crederebbe se confessassi che la mia pena maggiore è stata quella dell’amicizia tradita?» (p. 18). «Mi sto o non mi sto confessando?» (p. 167) «Il mio confiteor rimase dunque affar mio privatissimo, da consumare in segreto come un esame di coscienza» (p. 183). 4 Si potrebbe pensare che Le confessioni di un italiano sia non solo un testo di riferimento anteriore a Noi credevamo, ma anche di una caratura minore rispetto alla scrittura bantiana. Ma 3
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costituiscono un’ammenda di vili racconti delle sue imprese leggendarie che la moglie gli chiede (come la storia di approdo a Livorno, dove i patrioti livornesi si erano divisi i suoi panni di galeotto come reliquie, p. 184), alle bugie improvvisate all’occorrenza, comprese quelle pietose raccontate ai carcerati popolani. La confessione di regola è un atto non “disinteressato”: si affida il proprio operato ad altri confidando nel suo riserbo, comprensione, perdono, ma Domenico non ha colpe da confessare se non quelle di essere stato ingenuo e velleitario, di non aver capito come va il mondo. E non chiede nulla a nessuno. Scompare il senso religioso della confessione insieme alla dimensione provvidenziale presenti nel romanzo di Nievo:5 «Ho peccato forse – e pecco ancora – di autocritica distruttiva» (p. 119), dice Domenico e riferisce la nozione di peccato alla scrittura: «Eccomi qui, di nuovo indotto in tentazione» (p. 154). Nel romanzo di Cutrufelli invece la parola “confessione” appare una sola volta (anche se l’intero racconto è plasmato a guisa di confessione fatta in prima persona, da una donna carcerata da vent’anni dal nome Margherita, una «sepolta viva» paradossalmente attaccata a una «vita piena di miserie, di stenti e di affanni»6 (p. 1). Si tratta quindi di una confessione scritta, che segue le modalità di introspezione e di esame di coscienza. Lo storico che raccoglie le memorie della protagonista lo fa, leggiamo, «perché queste confessioni servano alla causa della Storia» (p. 5). In più, tutta la parte introduttiva, diciamo, metatestuale contribuisce a creare una cornice modale da confiteor, o da specifico mea culpa: «Ripensando ai casi della mia vita, riconosco che ho agito, e ancora agisco, sotto l’impulso di sentimenti forti, che hanno travolto le resistenze del mio corpo come quelle della mia anima» (p. 6). La
l’opera di Nievo si prefiggeva certo un altro destinatario, e a sua volta si rifaceva come modello a romanzi di avventura, che in buona parte aspirava a diventare essa stessa. Il tono era sereno e spesso divertito (mai cupo o disperato come in Banti): «Germano, portinaio di Fratta, è ammazzato; il castellano di Vanchieredo va in galera, Leopardo Provedoni prende moglie, ed io studio il latino. Fra tutti non mi par d’essere il più infelice». I. Nievo, Le confessioni d’un italiano, a cura di M. Gorra, Milano, Mondadori 1981, p. 202. 5 La Provvidenza, che tanta parte ha nel romanzo dello scrittore cattolico, non compare in Banti e tanto meno in Cutrufelli. Nievo fa sublimare la passione per la Pisana in sentimenti religiosi, patriottici, in valori familiari, conferendo alla donna le virtù che ne fanno, in fin di vita, una novella Beatrice che assiste il protagonista nel suo itinerario ad Deum. Invece Domenico di Banti «[a]gnostico in fatto di religione, pure [gli] accadeva di pregare in un modo curioso, alternando vaghe ipotesi di immortalità a superstizioni infantili» (p. 43); fugge, quando rivede sua madre che: «[a]veva cavato il rosario e borbottava le sue avemarie, quasi immemore della mia presenza. Vederla ridotta come una donnuccia del volgo, lei così poco bigotta, così ardente nel difendere la libertà di coscienza da rischiare, presso i compaesani di Pizzo, la fama di eretica, quanto meno di testa stramba, mi fu insopportabile» (p. 213). 6 L’edizione citata de La briganta è Milano, Sperling & Kupfer Editori S.p.A. 2005. Italiane della letteratura: Anna Banti
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confessione è determinata dall’incapacità di dimenticare («Dimenticare? Ah, che pietose bugie mi raccontavo! […] Dimenticare, era un’ossessione» p. 88), dal rimorso che la perseguita. Il confiteor opera la liberazione, la scrittura è la vera evasione: Io che, durante il processo, non dissi una parola, adesso desidero che mi si ascolti e che la mia voce esca dalla cella che trattiene il mio corpo. […] Forse domani qualcuno capirà quanto ciò sia più inebriante di un’evasione reale, che enorme libertà sia il prendere parola. (p. 2)
La confessione viene evocata, si noti, scevra dei sensi religiosi, scompare la Provvidenza dei “patroni del romanzo nazionale”, e come Domenico, Margherita fa i conti con se stessa. Ma in luogo di un Dio misericordioso confida in un pubblico comprensivo. Le ragioni della confessione coincidono così con quelle della scrittura. La scrittura cui il protagonista di Nievo si dice non essere avvezzo («a me già vecchio e non letterato cercò forse indarno insegnare la malagevole arte dello scrivere», Nievo, p. 5; e questo espediente, la finta ingenuità dichiarata dal narratore, gli vale da conferma della veridicità delle sue memorie), diventa al protagonista bantiano, “tentato” dalla scrittura e altrettanto novizio al mestiere, indispensabile. Domenico parla di «urgenza delle parole» (p. 35); spinto dalla necessità di raccontare la propria vita mirando «al proprio meticoloso e spietato ritratto, per riconoscersi e non scendere nella tomba ignoto a se stesso come fu nascendo» (p. 36); capire «se abbia agito da saggio o da stolto» (p. 267); «se ho camminato per vie dritte o storte» (p. 307). E la briganta cerca di «recuperare il passato dal fondo del [suo] stesso oblio» e «prendere la parola» (p. 2). Si noti a questo proposito che in entrambi i romanzi compare il vecchio sintagma nominale: la penna, l’inchiostro, il calamaio (che sin dai tempi di Manzoni, in Sciascia, Consolo, Vassalli, Camilleri, sta ad indicare una situazione ambigua: del beneficio che la parola dà per raccontare i fatti altrimenti taciuti ed ignoti, ma anche della prevaricazione nei confronti degli illetterati, dei senza parola, come è successo al Renzo manzoniano). Questo sintagma, un fatto eloquente alla luce del significato fondamentale che si attribuisce alla scrittura, in Banti e Cutrufelli è declinato al positivo. In Noi credevamo: «Teresa deve essersi accorta di questi miei maneggi [Domenico nasconde le sue carte nel più profondo cassetto del sècretaire], me ne avvedo dalla cura con cui mi spolvera il calamaio e controlla inchiostro e pennino» (p. 12). E ne La briganta: «Oggi quest’evasione mi è permessa: ho carta, inchiostro, penna e un passato da narrare e recuperare dal fondo del mio stesso oblio» (p. 2). La scrittura diventa la posta in gioco nella vita del protagonista, è un atto positivo, liberatorio: Domenico è disposto a rinunciare a tutto fuorché alla scrittura, l’unico mezzo per confessare e sgravarsi dei ricordi che sono come «uno sciame di insetti molesti», e che lo «assediano come debiti vergognosi da pagare» (p. 159); Margherita scrive perché non riesce altrimenti a liberarsi da «Un rospo
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nero acquattato [che] nel [suo] cuore si gonfiava, si gonfiava fino a scoppiare, liberando, liberando un liquido scuro e grumoso» (p. 89). La confessione che è uguale (equivalente) alla scrittura è un fatto individuale, compiuto da un singolo, come già in Nievo, e quindi chi narra si rende testimone e garante dei fatti raccontati, ma non per mostrare l’influenza “dei tempi” sul ciclo esistenziale del singolo,7 bensì, gettando la maschera dell’ingenuità nieviana, per scendere alle dolorose radici della vita umana in genere: «Uno nasce uomo prima che italiano o peruviano» (Noi credevamo, pp. 307-8). Passiamo ora alla polemica rispetto all’intertesto nieviano nel campo politicoideologico: la progettualità rovesciata rispetto al modello della patria storia e la messa in maggior rilievo della prospettiva e del vissuto femminile. Sia Domenico che Margherita concentrano buona parte del loro racconto sull’esperienza carceraria che in Nievo era confinata a uno solo dei ventitré capitoli, quello ventesimo, e come era usanza di Nievo, raccontata con grande leggerezza, a volte anche con ilarità, come una delle tante vicissitudini che comunque è finita bene («Io faccio conoscenza della prigione e quasi col patibolo; ma in grazia della Pisana ci perdo solamente gli occhi. Miracolati d’amore d’una infermiera» (riassunto del cap. XX, p. 882). Due delle cinque parti di Noi credevamo invece e l’intera cornice de La briganta contengono la cronistoria della vita del protagonista nel carcere. In luogo di un romanzo d’avventura, un poema “di armi e amori”, abbiamo un ponderoso quadro di umiliazioni fisiche fitto di dettagli ripugnanti presentati col crudo realismo, atto a dimostrare che la vita nelle condizioni estreme facilmente abbassa l’eroismo e fa dimenticare gli ideali, mortifica il desiderio della libertà e di riscatto per la patria. Le imprese che tenevano occupati i detenuti erano dettate dal bisogno di procurarsi un giaciglio un po’ meno ripugnante, un pane meno fetido, dell’acqua meno verminosa (p. 36); […] l’incanto della mia rovina era più forte di me (p. 37); […] ci cacciarono in cinquanta in un lurido magazzino pieno di paglia marcia dove, nonché stenderci, non potevamo sederci e dovevamo reggere ritti, l’uno accanto all’altro, senza neppure piegare le ginocchia. Digiuni e disperati scoppiammo in strepiti degni di ergastolani comuni: tanto è vero che l’orgoglio dell’uomo civile si annulla nell’estrema sofferenza (p. 88). A Montefusco [n]on esistevano panche o brande e neppure giacigli di paglia, già qualcuno, inebetito dagli strapazzi s’era stravaccato sulle pie-
7 «Ecco la morale della mia vita. E siccome questa morale non fui io ma i tempi che l’hanno fatta, così mi venne in mente che descrivere ingenuamente quest’azione dei tempi sopra la vita d’un uomo potesse recare qualche utilità a coloro, che da altri tempi son destinati a sentire le conseguenze meno imperfette di quei primi influssi attuati», Le confessioni d’un italiano, p. 3.
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tre e tutti andavamo cercando un cantuccio dove accovacciarci […]. Cominciarono a levarsi gemiti, scoppi d’ira, ricordo il masticare bestiale di uno accanto a me che aveva conquistato un pane e lo mordeva stringendolo in pugno (p. 92).
Il corpo estenuato e umiliato, denutrito o malato, non ammette l’attività del cervello. Il carcere – ed è per questo che vi si dedica tanta parte – non solo distrugge l’orgoglio, mortifica gli ideali, fa smettere il pensiero, ma diventa anche un luogo emblematico della disuguaglianza in quanto anche tra i detenuti continuano le stesse distinzioni di ruoli sociali che corrispondono alla loro estrazione sociale. Quando non erano più incatenati a due a due quella comunità forzosa si divideva […] in padroni e servi. Spontaneamente e quasi allegramente i popolani si assumevano le incombenze manuali: spaccare la legna per i nostri fornelletti, sorvegliare la cottura dei cibi, spazzare, lavare la nostra stremata biancheria. […] Devo aggiungere che quei poveretti s’ingegnavano a rendersi utili contando sulla generosità – che non mancava – dei più abbienti: non dico gli avanzi, ma i cibi di peggior qualità, la pasta frantumata, il lardo stantio, la frutta ammaccata o acerba tornavano a loro. Si continuava così nel carcere il costume delle case signorili del meridione, dove il servo è nutrito con abbondanza ma di cibi grossolani: e non pena ad offendersene (p. 104). Dal mio cantuccio dove mi tenevo a occhi chiusi, fingendo il sonno, osservavo fra le ciglia tutti i maneggi di quei signori per ottenere una cella più spaziosa e luminosa, cibi ben cucinati da un bettoliere di fuori, libri e carta passati di soppiatto dai carcerieri venali. […] Una sorta di cerimoniale vigeva fra loro, si chiamavano coi loro titoli nobiliari e accademici, parlavano di parenti e conoscenti altolocati, di dame e gentiluomini: a me pareva assistere ai riti degli aristocratici nella Conciergerie (p. 49).
Ugualmente anti-eroica la vicenda della briganta, tenuta per anni nel carcere, prima e dopo il processo che ne fece “rivelare” la depravazione, minuziosamente appuntata dai medici (fisiologi) e antropologi criminali (pp. 6 e 144). È il suo corpo ad essere “interessante” per chi la ha in sua potestà; le “visite mediche” avevano per mèta il suo corpo, «la miseria ostinatamente muta del mio corpo, del resto […] ormai soltanto l’ombra di ciò che fu» (pp. 3-4). Sappiamo che Margherita ha ucciso suo marito, ma il perché del gesto disperato ignoto, viene solo alluso nella reazione di turbamento della protagonista che partecipa al sopralluogo in una casa saccheggiata e vede le chiazze scure del sangue sulla sovraccoperta di un letto. Tracce patite di intrusione e profanazione, quelle tracce le danno le vertigini (p. 97). Nel romanzo di Anna Banti il tema delle donne compare a proposito della loro assenza dalla storia, compresi i romanzi storici e la memorialistica, e della loro presunta minore intelligenza che Domenico nega: Sono intelligenti le donne? Se le considero una per una non mi sentirei di negarlo, e ho sempre notato che nell’infanzia sono molto più acute e pronte dei ragazzi. Poi superata l’adolescenza, fanno massa e si distaccano da noi, assumendo un carattere
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comunque che guardiamo con diffidenza. […] Nelle donne apprezziamo la castità, la fedeltà, i sentimenti delicati, il buonsenso, come se in queste virtù non intervenisse il cervello: non c’è da stupirsi se piegandosi alla nostra legge esse ne fanno uno strumento di fuga dalla realtà che sono costrette a vivere. Fino a un certo segno penso che la loro condizione coincida con quella del romanziere, il quale più che viverla, costruisce la vita (pp. 34-5).
Senza ammetterlo esplicitamente Domenico decide di fare come loro: scrivere per continuare a riflettere, e per non agire più. Un altro episodio riguarda Miss Florence, donna di grande coraggio e intelligenza, che passa la vita leggendo romanzi e poemi, cosa che commenta con ironica amarezza: «Cosa può leggere una signora se non un romanzo?» (p. 295). E ciò poco dopo che Domenico ha lamentato idee non essere altro che parole, e la sua vita non essere stata che un romanzo, «romanzo non letto ma vissuto» (p. 283). Ad avere un’identità più storicamente vera risulta Miss Florence, mentre Domenico, ridimensionato, sembra un personaggio dei suoi libri. La protagonista della Cutrufelli, d’eccezione, ha ricevuto un’educazione completa, un’istruzione che le altre fanciulle non potevano avere: Mio padre era diverso. A lui importava soltanto l’ascendenza aristocratica della donna che aveva sposato, e per questo tollerava anche le sue stravaganze. Prima fra tutte, l’avermi dato un’istruzione. Una cosa veramente insolita dalle nostre parti, dove alle fanciulle in genere non s’insegna neanche a scrivere per timore che possano aver carteggi con gli amanti (p. 8).
Tutta la sua vita segue del resto quel percorso d’eccezione, quasi di matrice bantiana: alla violenza subita segue la presa di coscienza e la libertà, una vita di gesta che richiedono coraggio e determinazione. Non solo seguirà i briganti, cavalcando con loro e vestita da uomo, ma al processo che la vedrà condannata a morte, diversamente dalle altre donne che «si dilungavano in storie di seduzioni e rapimenti, di doveri coniugali o filiali per spiegare la loro partecipazione agli scontri e alle sollevazioni. Sempre passive, sempre trascinate loro malgrado nel gorgo della vita. Pur di salvarsi, ciascuna rinnegava se stessa e le altre» (p. 146), non rinnega gli atti compiuti. Ma la trasgressione più seria è quella di osare scrivere le proprie memorie, un vero e proprio peccato d’orgoglio: Ma può una donna commuovere o addirittura interessare una platea di uomini, ché tali immagino saranno i lettori di queste pagine? Mi rendo conto della follia dell’impresa e alcuni troveranno in ciò un’ulteriore prova e conferma della follia della mia vita. Scrivere le proprie memorie è per una donna cosa ardimentosa, forse ancor più che l’andar briganteggiando per i monti (p. 5).
Questo assunto femminista ormai di lunga data, di woolfiana memoria, che riguarda la facoltà della parola (o dell’immagine, a seconda del talento), della presa di parola come un atto di coraggio e di temerarietà, ma anche come un necessario Italiane della letteratura: Anna Banti
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strumento e l’unico iter per la libertà e la dignità personale di una donna, risale proprio ad Anna Banti, la prima ad aver fatto dire alla sua protagonista Artemisia: «ma io dipingo». Qual’è in definitiva “l’intenzione esemplare, morale”, che è il “primo ed essenziale motore” del romanzo storico? La prima risultanza è che il Risorgimento è per Banti un delirio storico che fece perdere agli italiani la coscienza civile, e pregiudicato la nascita di quel NOI, di una comunità, di una nazione, evocato antifrasticamente nel titolo.8 Banti si concentra pertanto non sul «fare Italia» e neanche sul fare gli Italiani. Le sue sono le confessioni di un calabrese, come Domenico si definisce, che non è potuto diventare italiano, né prima né dopo l’unità del Paese.9 Apparentemente, ma solo apparentemente Banti rivisita il Risorgimento dalla prospettiva del Sud offeso e raggirato – non dai propri capi e governanti, bensì dai piemontesi che nutrivano nei confronti dei meridionali idee preconcette.10 La sua voce esprime però una lucida critica degli stessi meridionali e dell’alibi della loro rassegnazione e fatalismo, troppo comodo: «Il presente era ambiguo, affidato a uomini dalle idee piccine, tanto prevenuti nei confronti del mezzogiorno da distruggere le nostre qualità e profittare dei nostri difetti» (p. 197). Chi, se non uno che viene dal Sud, perlopiù per bocca di un suo avo, avrebbe potuto parlare a quel modo, senza venire accusato a sua volta di nutrire dei pregiudizi contro il Meridione? Banti, infatti, fa salutare l’Unità a Domenico come agonia, colpo di grazia, morte del suo povero Paese (pp. 274, 281). Sottolinea inoltre con forza il fatto che Domenico ha sposato una donna che non amava (una donna del Nord) e senza desiderare una famiglia, ma solo quiete, un focolare che riscaldasse la sua esistenza massacrata (p. 28). E verso i figli egli nutriva poco più che indifferenza, pietà, fastidio (p. 343). Teresa, «davvero una figliola d’oro» (p. 34), indovinando il desiderio di solitudine paterno, gli porta da mangiare e scompare discreta. Nono-
8
La polemica riguarda, beninteso, quei “veri romanzi italiani” dove il senso di collettività prevale. Basti citare Nievo: «Così l’esposizione de’ casi miei sarà quasi un esemplare di quelle innumerevoli sorti individuali che dallo sfasciarsi dei vecchi ordinamenti politici al raffazzonarsi dei presenti composero la gran sorte nazionale italiana» (p. 5). 9 I meridionali soffrono di un complesso di inferiorità nei confronti dei torinesi che «non facevano che testimoniare la loro soddisfatta certezza di appartenere a un mondo ordinato e civilissimo che tutti avrebbero dovuto prendere ad esempio, sempre che ci riuscissero. Forse non per malizia, ma per quel loro costume di motteggiare sottopelle, ci chiamavano, noi meridionali, “fratelli d’Italia”: e giù, risatine» (p. 27). Quello dei torinesi era un atteggiamento di «soddisfatta certezza di appartenere ad un mondo ordinato e civilissimo, che tutti avrebbero dovuto prendere ad esempio, sempre che ci riuscissero […]. Me ne irritavo, si capisce: ma un po’ li invidiavo. Erano gretti, limitati, non si ponevano i grandi problemi della fraternità umana, ma la loro sicurezza li rendeva felici» (p. 40). 10 Faccia da riprova la storia del plebiscito, una pagliacciata di voto inflitta a un popolo che non aveva mai imparato a votare, descritto con minuzia da Banti a p. 225. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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stante la devozione e la “muta complicità” stabilitasi tra la figlia e il padre (p. 40), «l’avvenire dei nostri figlioli [lo] lasciava indifferente» (pp. 9-10), «nel matrimonio [è] rimasto, per così dire, scapolo; non [si] preoccup[a] della [sua] discendenza» (p. 69), ambiguo come padre: né un padre aristocratico (che sarebbe ambizioso), né popolano (fiero dei suoi maschi), e ambiguo come cittadino. Non c’è un “noi” neanche in privato, e non c’è il senso della trasmissione, della continuità: il futuro della patria, come quello della famiglia è pregiudicato. La seconda risultanza è che il passato si appiattisce sul presente. Nel capitolo Racconto e aporia Enza Biagini (nel suo Anna Banti) riassume quel che ella intende per aporia bantiana, constatando che «la fuga verso il passato l’ha ricondotta passo passo a ritrovare un presente senza misura, statico, ieratico, pittorico, correlativo di quel blocco iniziale chissà fino a che punto ignorato e da cui nacque il “gusto della cattiva sorte”; una maniera di vivere in un presente senza fine» (p. 180). Banti si è sempre documentata meticolosamente (Cutrufelli nella prefazione al suo romanzo insiste anch’essa sul proprio lavoro di ricerca), e ha apprezzato la stessa acribia delle ricerca storica in Manzoni, ma in un secondo momento ha sempre trasferito il fatto avvenuto al fatto supposto, il manoscritto ha preferito che si perdesse11 atteggiandosi, nei confronti del fatto storico, in modo che Garboli dichiara incomprensibile: «Banti ha sempre costruito, curato, lavorato i suoi romanzi con lo scrupolo di uno storico abituato a ricerche d’archivio e di biblioteca», p. 15) e quindi non si capisce «che cosa chiedesse alla storia» e se amasse veramente il passato, o se c’era in lei soltanto «il bisogno di aggredire il passato, di saccheggiarlo, facendogli carico della propria solitudine e della propria incertezza». E «[i]l passato è asservito, sottomesso al presente, riportato al qui e ora da comandi brutali, imperativi, dagli ordini di una padrona».12 Proprio avendo a cuore quel “presente senza fine” di cui parla Biagini, Banti insinua al suo protagonista il rimorso non di non aver agito, bensì per non aver reagito, dopo la scarcerazione, dopo l’Unità. Era quella la volta della re-azione: «Come mi sono lasciato invecchiare, così, senza reagire?» (p. 31); «…abbiamo accettato quel bel plebiscito prima che le masse ne intendessero il senso. […] Bisognava opporsi, cospirare di nuovo. Finire in gattabuia per conto dei Savoia sarebbe un onore, essi valgono il Borbone» (p. 243); «…la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo [dal carcere]» (p. 344), visto che «l’utopica fratellanza dell’unità era derisa e vilipesa» (p. 233).
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Osserva Giuseppe Nava (G. Nava, I modi del racconto nella Banti, in E. Biagini, L’opera di Anna Banti cit.) che la narratrice di Artemisia «piange la perdita del suo scartafaccio, moderna versione antifrastica dell’artificio romantico del manoscritto ritrovato» (p. 155). Il manoscritto, definito uno “scartafaccio”, compare anche in Noi credevamo: non smarrito o bruciato, ma invece destinato alle fiamme dal suo autore. La memoria non si deve tramandare. 12 C. Garboli, Anna Banti e il tempo, pp. 11-20, qui p. 15 in ivi. Italiane della letteratura: Anna Banti
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Noi credevamo e La briganta partono entrambi dalla prospettiva dei problemi irrisolti dell’oggi, in quanto quelli (e tra di essi la povertà e il risentimento del Sud, dove le condizioni di vita non sono migliorate e la coscienza civile è stata compromessa) sono uno strascico della storia in essi rivisitata. Cutrufelli però, rispetto all’operazione bantiana, fa un passo indietro, ricadendo nelle secolari rivendicazioni di alcuni scrittori siciliani che l’hanno preceduta, su un Sud tradito e saccheggiato, al punto di giustificarne tutti i peccati passati, presenti e a venire. La storia di una briganta aggiunge alla prospettiva bantiana lo sguardo e il vissuto di donna. Una vera femminista non poteva non rendere omaggio alle grandi madri, né riconoscere il suo maternage. Nelle sue “confessioni di una siciliana” il motivo femminista (donna come essere inferiore, escluso, tradito, violato) funge da una doppia metafora del soggetto femminile nella storia, e del Sud discriminato. Il suo Sud è donna.
VI. Italiane della (e nella) letteratura
GIUSEPPE LO CASTRO Il corpo rimosso del Risorgimento: ‘Noi credevamo’ di Anna Banti
Il romanzo di Anna Banti del 1967, da poco ripubblicato sull’onda dell’omonima versione cinematografica di Mario Martone che ne è solo in parte ispirata, si propone come una rivisitazione e un giudizio storico in controtendenza sul Risorgimento. Il protagonista, Domenico Lopresti, calabrese, figura storica ispirata a un avo della scrittrice, ormai anziano e apparentemente malato, redige delle memorie destinate a non avere lettori, facendo i conti con la propria esperienza di patriota democratico e con le vicende di altri compagni moderati monarco-costituzionali. Domenico Lopresti, possidente terriero, ma non propriamente nobile, né particolarmente ricco, partecipa ad alcune azioni dell’insurrezionalismo democratico musoliniano in Calabria, ma poi finisce presto in carcere. Qui risulta confinata la sua vita dal giugno 1851 agli inizi del 1860, prima a Procida, poi con alcuni leader del Risorgimento moderato meridionale, in primis i nobili Poerio e Castromediano nella durissima fortezza di Montefusco, scavata nella roccia ed esposta al freddo e all’umido; quindi nell’isolata prigione di Montesarchio dove finirà col restare da solo, ultimo detenuto; infine nella segreta di San Francesco a Napoli. Nella condizione carceraria è fissata la vita di una cinquantina di reclusi la cui conoscenza dei fatti esterni e le cui speranze rivoluzionarie sono ridotte ai minimi termini, affidate a occasionali notizie e talvolta richieste di pareri da parte dei compagni liberi, mentre prevalgono i bisogni primari di sopravvivenza in uno stato di umiliazione. Gli stessi eventi appartengono alla microfisica del carcere, e sono trasferimenti, ipotesi ignominiose di grazia, piccoli mutamenti delle condizioni di detenzione, reazioni psicologiche. Domenico si ammalerà e sarà liberato solo alla vigilia dell’Unità; quando compirà un viaggio verso il sud per raggiungere i Mille che risalgono dalla Sicilia: vi registrerà la diffidenza contadina, incontrerà la madre vecchia e i familiari impoveriti per causa sua; quindi su ordine di Garibaldi si fermerà in Calabria. Alla fine l’ex-patriota otterrà un incarico di funzionario dal governo unitario; assisterà alla deriva moderata degli antichi compagni di lotta e di prigionia e incontrerà
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ancora un disilluso Benedetto Musolino, ora senatore. Ultima azione: tentare di congiungersi con Garibaldi sull’Aspromonte, ma è arrestato e salvato avventurosamente da una donna. Ormai uomo ben maturo, Domenico si ritira a Torino, dove conoscerà e sposerà Marietta da cui avrà due figli; qui condurrà una vita di isolamento sempre più stretto fino al silenzio. Questi i fatti che il racconto però procurerà di narrare secondo la ricostruzione del filo della memoria del protagonista, alterando quindi l’ordine del tempo e suggerendo una narrazione fatta di giustapposizioni casuali di episodi secondo l’associazione d’idee del ricordo. Dal punto di vista del genere romanzesco in Noi credevamo l’intenzione di rivisitare la storia del Risorgimento italiano, di traguardarla con l’occhio di un protagonista secondario, corrisponde a quanto la Banti scriveva nel 1951 del romanzo storico, un genere concepito perché «gli anonimi salgano dallo sfondo a protagonisti e i protagonisti agiscano da anonimi».1 E in più si tratta di un romanzo sulla memoria, concepita come quella distanza che consente di trasformare la cronaca in storia, di trasferire quindi «il fatto crudo» della narrazione neorealista oggettiva «dall’ordine dell’avvenuto a quello del supposto», secondo una personale e suggestiva declinazione per cui i fatti si possono distinguere in «avvenuti», «inventati» e «supposti». Laddove i primi appartengono al «romanzo di cronaca», le invenzioni ovviamente al romanzesco e gli ultimi i fatti «supposti» alla forma ideale del romanzo storico secondo Anna Banti, una forma non propriamente manzoniana perché non tiene volutamente distinte la realtà e la finzione, ma superandone la dicotomia fa del genere un luogo di indagine e ipotesi storiografica. E Noi credevamo si configura dunque a metà strada tra storia e memoria; anzi l’aspetto della memoria-confessione acquista un peso decisivo inducendo a rimeditare i fatti in una continua necessità di giudizio dell’agire individuale e collettivo. La lettura critica del processo risorgimentale potrebbe far pensare a un’opera da collocare nella linea del romanzo antistorico secondo la definizione di Vittorio Spinazzola,2 ma Anna Banti, come vedremo, pur istituendo una lucida e prepotente analisi senza sconti, fino alle soglie del nichilismo, produce comunque una tensione al riscatto e cerca le ragioni dell’errore, senza mai rinnegare l’ideale democratico-egualitario da cui prende le mosse. Il resoconto della propria vita per Domenico Lopresti si impone come un atto di autocoscienza, una sorta di involontaria presa di parola che costringe alla scrittura benché consapevole della sua inutilità per il presente. Porre su carta il dramma di un’esistenza è necessario per l’urgenza psichica di una disamina autobiografica, condotta in limine mortis da una posizione di osservatore ormai estraniato dal
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A. Banti, Romanzo e romanzo storico, in Opinioni, Milano, Il Saggiatore 1961, p. 42. Mi riferisco al noto volume di V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti 1990 (poi Milano, Cuem 2009). 2
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mondo e dal vivere. Per questo il protagonista a un certo punto può accorgersi di una duplice ambiguità. In primo luogo registra il proprio isolamento e la scrittura rivolta al passato come ulteriore allontanamento dal presente e dall’azione nel mondo: Questa grafomania che mi ha preso non sarà per caso un segno di demenza? Aspetto l’alba trepidante e al primo lucore mi butto giù dal letto, quasi qualcuno mi soffiasse all’orecchio di far presto, perché ho i giorni, le ore contati. Quando, sdegnoso e corrucciato, cominciai a mettere in carta le voci del mio silenzio lo feci credendo di dar fiato a un umore transitorio, irrilevante. Adesso questo compito bastardo mi s’impone come un dovere e mi isola; non dico dal mondo, che è già fatto, ma dai minimi segni di vita che mi raggiungono.3
Il romanzo deve allora incaricarsi di dimostrare che la scrittura memorialistica può ancora giovare, sia pure solo per chi scrive, quando è al servizio della verità e quando, rifiutando ogni atto di autocelebrazione, indaga piuttosto le colpe. «Le voci del mio silenzio», appena citate costituiscono un ossimoro, indicano le parole interiori, le riflessioni e le autoaccuse che hanno determinato proprio quel silenzio ed estraneazione dal mondo esterno. Talché la condizione del protagonista appare ossificata nella condizione carceraria vissuta nei suoi anni migliori, e ora riproposta nella reclusione volontaria attuata nel presente della scrittura.4 Il secondo elemento di ambiguità è dato dalla relazione vitale col proprio passato, sempre nella stessa pagina leggiamo: Ebbene, sono cambiato, inutile dissimularlo, oggi tengo al mio cervello e dunque alla mia memoria come all’unica speranza di sopravvivere, non so dove, non so per chi, dato che per nessuno scrivo. Sopravvivere? Mi correggo: vivere. Sarà grottesco, ma non son mai stato vivo come adesso, così concentrato nel fatto di essere esistito (p. 97).
«Vivere» ed «essere esistito» compongono un secondo ossimoro: il protagonista è un sopravvissuto che si avvede di rivivere appunto grazie al bisogno di rievocare un passato ormai morto, e senza più presa né valore per il presente. Domenico scrive da un’ottica postrisorgimentale a storia conclusa, come vuole l’idea di romanzo storico di Anna Banti. La sua è una posizione postuma che non rivendica nessun valore esemplare ed educativo alla propria vicenda personale e
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A. Banti, Noi credevamo, Milano, Mondadori 2010, p. 92. D’ora in poi si citerà da questa edizione riportando solo il numero di pagina dopo la citazione. 4 «È questa la prigione dove mi sono serrato volontariamente con una sentenza che nessuna grazia sovrana potrà mai cancellare», p. 15. Italiane della letteratura: Anna Banti
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generazionale. L’ottica è in questo senso antirisorgimentale, cioè si fa demistificatrice della retorica e dell’esaltazione gloriosa di una storia ridotta a mito nazionale senza incrinature. Non bisogna dimenticare che la Banti doveva avere ben fresche le recenti ampollose celebrazioni del centenario dell’Unità. Domenico scrive anche da sconfitto: nonostante l’apparente conquista dell’Unità d’Italia, per lui il Risorgimento è fallito. Siamo deliberatamente agli antipodi dal modello delle Confessioni di Ippolito Nievo, racconto che deve tramandare un’ideale, testimonianza di vite e azioni di dedizione patriottica che devono essere lasciate in eredità alle nuove generazioni perché raccolgano il testimone e continuino una lotta che non potrà non trionfare. E le Confessioni di un italiano sono più volte echeggiate specie nell’avvio del romanzo, a partire dall’età del vecchio narratore, dalla scrittura come memoria e dall’idea di un’autoanalisi confessionaria; ma agiscono piuttosto come un modello da contrastare, come pure le tante memorie patriottiche che i sodali di Domenico Lopresti stanno o sono andati scrivendo dopo l’Unità, in primo luogo quel Castromediano, le cui Memorie, Carceri e galere politiche, sono una fonte decisiva per le pagine della detenzione.5 L’esito appare tale da mettere in discussione il senso dell’esistenza, da indurre a un giudizio di autocondanna, piuttosto che a una benevola assoluzione preventiva come nella grande epopea del Risorgimento di Nievo. Per che cosa hanno combattuto i patrioti dell’Italia meridionale? Quali risultati sono stati conseguiti? Quali le condizioni del Mezzogiorno e, in particolare, delle masse contadine, che non hanno tratto vantaggi materiali né coscienza civile, anzi si danno al brigantaggio e forse rimpiangono i re dei borboni? La disamina di Domenico Lopresti è impietosa, tanto implacabile che il protagonista si è chiuso in un mutismo e in una volontaria reclusione, rifiutando per sé il ruolo da eroe che i familiari vorrebbero attribuirgli, conscio dell’errore che la sua generazione ha perpetrato. In questo senso la narrazione di Banti è antiepica e il romanzo configura un sistematico processo di diseroicizzazione, a cominciare dall’assenza o lateralità delle principali gesta risorgimentali e con esse dell’azione militare. Fanno eccezione episodi marginali o l’esito quasi grottesco della spedizione garibaldina in Aspromonte, vista dalla specola di Domenico, che solo per un attimo avvista Garibaldi, prima di essere costretto a mettersi rocambolescamente in salvo per poi essere arrestato il giorno dopo in casa propria. È come se Noi credevamo ci volesse avvisare che la storia del Risorgimento dal punto di vista dei suoi partecipanti più comuni è stata un’altra, fatta di sofferenze quotidiane, azioni più
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Il volume è disponibile in due edizioni moderne: S. Castromediano, Memorie (Carceri e galere borboniche), introduzione di P.F. Palumbo, 2 voll., Lecce, Centro studi salentini 2000 e S. Castromediano, Carceri e galere politiche. Memorie, 2 voll. (ristampa fotomeccanica) Galatina, Congedo 2005. In quest’opera in cui compare anche la figura storica di Domenico Lopresti sono rievocati la gran parte degli episodi poi narrati nel romanzo. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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disperate che eroiche, attraversando sempre condizioni materiali estreme e luoghi magari liminari. E così in questo smontaggio del mito, l’elemento che più colpisce anche nella lunga narrazione della reclusione carceraria è la riduzione degli uomini e dei patrioti a esseri materici e reificati, dotati di bisogni primari ed essenziali, quasi che la loro corporeità sia un antidoto o una nemesi per chi agisce e vede tutto all’insegna dell’ideale e crede che la forza dei valori nazionali sia superiore ad ogni esigenza materiale. Arrestati per aver proceduto ad azioni velleitarie e isolate, i detenuti politici delle carceri di Procida, Montefusco e Montesarchio si trovano gettati in un’altra dimensione. L’umiliazione fisica, data dalla fame, dalla sete, dal freddo o dal caldo eccessivi e senza riparo, le conseguenti malattie e la progressiva debilitazione producono un primo effetto di choc in un gruppo di uomini idealisti che con diverse ragioni si trovano imprigionati insieme. La sporcizia, il fetore, gli escrementi, l’assenza o precarietà del giaciglio, le vesti logore spingono le vite a un punto di massimo abbassamento, a un limite in cui la sussistenza prevale su ogni altro bisogno e le aspettative ideali paiono cadere in secondo piano. La lettura dell’impellenza del corpo nell’autoanalisi di Domenico Lopresti è implacabile, l’annichilimento fisico e i bisogni che esso comporta sono motivo di un sentimento di colpa per aver indotto a un’oblio anche momentaneo degli ideali: Mai mi sono vergognato tanto come quando fui costretto a chiedere di soddisfare un bisogno corporale: mi vedo ancora, con ribrezzo, accoccolato turpemente sul ciglio della strada, esposto agli sguardi dei gendarmi e di certi villani che passavano. In quel tempo soffrivo di gastrite e rammento che risalendo sul carrozzone mi sentii morire: svenni soltanto, purtroppo. Ecco, dunque, a distanza di tanti anni, ciò che la mia memoria ha conservato di quei primi tempi di cattività: nient’altro che miserie fisiche, patite con una intensità che aboliva la funzione del cervello. Non pensavo a niente, ero solo un altero animale che badava a raccogliere le forze per non gemere come un cane bastonato. Le idee di cui mi ero lungamente esaltato, progresso del popolo, indipendenza, libertà si erano sciolte in un silenzio totale della mente e anche del cuore […]. (p. 46)
Si pensi a quanto questa visione della prigionia si contrapponga invece all’immagine del carcere come martirio sacro dell’eroe che resiste integerrimo, descritto nell’iconografia delle memorie risorgimentali, modello fondamentale Le mie prigioni di Silvio Pellico.6 Vi è ad esempio un rovesciamento dell’episodio del capitolo «Quinquagesimoquinto» in cui Pellico rappresentava la benevolenza del popolo
6 Per una mappa della letteratura carceraria si può vedere: G. Traina, Carcere del corpo e carcere dell’anima. Prodomi di una ricerca sulla letteratura della reclusione, in Le varianti dell’io, Comiso, Salarchi Immagini 2008, pp. 21-38.
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verso i patrioti detenuti, mentre in Noi credevamo il popolo osserva i carcerati con indifferenza od ostilità. Emblematico l’episodio del sogno del protagonista durante la prima notte passata «nelle viscere della terra» del carcere di Montefusco, quando, in preda a una totale perdita della nozione del tempo e dello spazio, immagina di ribellarsi quasi luddisticamente alla radicalità insopportabile delle condizioni materiali, incendiando tutto. Il grido di «Libertà o morte», tante volte pronunciato per proclamare lo slancio eroico nell’agone insurrezionale diventa adesso il tuono disperato di chi sogna una morte ribelle piuttosto che la perpetuazione del carcere: «O libertà o morte!» esclamavo arringando i miei compagni «meglio perire coi nostri carnefici che marcire vivi in questa tomba». Bruciavo anch’io infatti, e avevo nelle orecchie imprecazioni, scampanii di allarme, tuoni di crolli. Deliravo. (p. 93).
La costrizione fisica obbliga anche a una prossimità tra gli uomini, a una promiscuità che nel primo carcere si traduce anche in una comune catena che lega i detenuti a due a due, violando persino la differenza di classe. Ma si tratta di un’illusione egualitaria che dura pochissimo. Persino in un luogo di sofferenza comune scattano i piccoli privilegi, si riproduce una distinzione tra padroni e servi, riattivando i meccanismi sociali dell’esterno e anche le condizioni materiali acquistano leggere differenze, nel cibo o nei servigi che i più nobili ottengono anche spontaneamente dai più poveri. Il carcere diventa allora un microcosmo dove si riaffermano le distinzioni di classe che già operavano all’esterno e la bonarietà e intransigenza ideale dei patrioti più altolocati non si traduce mai in democratica condivisione con gli ultimi. Fino al punto che nel secondo carcere si creano due classi separate disposte in camerate distinte. Al protagonista democratico spetta una posizione di mezzo, partecipa al consesso dei ceti alti tutte le volte che ci sono decisioni da assumere o discussioni da fare, ma preferisce condividere gli spazi e l’umile cibo con gli ultimi. Da questi però lo separa una certa distanza, un’insofferenza per la loro alterità fatta di scarsa consapevolezza, con bisogni e aspettative diversi, che lo spinge frequentemente al silenzio e all’isolamento. Il carcere si rivela pure il luogo allegorico dove la mancata alleanza sociale del movimento risorgimentale palesa la propria ambiguità, dove il patriottismo moderato degli aristocratici mal sopporta gli inferiori e diffida della loro ignoranza e dove gli inferiori costretti in condizioni estreme mal sopportano i nobili che sempre cadranno in piedi mentre la sofferenza delle loro vite, che forse per un’attimo aveva atteso un riscatto, ritorna predestinata all’eterna sventura di miseria e precarietà. Eppure il ragionamento del popolo, la sua mentalità e i suoi valori accampano nel romanzo solo nella valutazione che ne dà il narratore. Fa eccezione il discorso di Gennaro, ex patriota pentito, il carceriere che assiste con dedizione don Domenico, rimasto ultimo e unico detenuto, perché apparentemente moribondo. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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E che ci avrebbero dato le terre comunali, quelle dei frati e dei baroni; e i soldi per le semine e per comprare le bestie. Tutto, ci promettevano. Invece niente, era uno scherzo, scappa scappa, si salvi chi può, chi tiene ducati sempre si salva. Mio fratello si fece brigante e lo ammazzarono sui monti, io giravo con le mie pecore mangiando l’erba come loro e mi misi a rubare, poca cosa, e mi presero, miniere e galere. Ma il re buonanima mi graziò e mi dette questo posto, mai me lo scorderò. Che voi me lo potete giurare che non mi cacceranno? (p. 142).
È il ragionamento impeccabile del popolano che fa i conti con la sopravvivenza quotidiana e che vede nella irrimediabile differenza di classe il privilegio di chi si è potuto ammantare degli ideali patriottici sapendo di essere destinato a salvarsi comunque. È come se bisogni materiali del popolo e condizione elementare di sopravvivenza nel carcere si legassero nel testimoniare la natura di quanto le esigenze primarie siano prioritarie per garantire un processo democratico e civile. Domenico Lopresti registra l’impossibilità di un’opzione repubblicana e al contempo il cedimento in nome di un obiettivo primario unitarista degli ideali più democratici, assumendosi il carico di una mancata proposta sociale, che favorisse un coinvolgimento non solo a parole delle masse popolari, e di un cedimento alla monarchia sabauda come attore dell’Unità nazionale, col conseguente abbandono delle masse contadine all’indigenza. Per il Mezzogiorno ne risulta uno scenario di frustrazione e miseria. E del resto Noi credevamo è anche la voce di un altro Risorgimento, i cui protagonisti con Garibaldi, ma senza Cavour, Mazzini, Gioberti, sono Musolino, Nicotera, Poerio, Castromediano, Domenico Mauro, Mignogna, Palermo, Nisco, nomi e leadership di un dimenticato movimento meridionale, rappresentanti anche di una disillusione postunitaria e di un sentimento che qualcosa non è andato per il verso giusto. Il romanzo, lucidamente e quasi irrimediabilmente negativo, finisce però con una recuperata fiducia nella scrittura, come possibilità ultima di riflessione e comprensione del mondo e degli errori, come postuma speranza per una lotta che forse un giorno potrebbe ricominciare, sapendo rinunciare al ricordo glorioso di coloro che non seppero compierla e che anzi sbagliarono il momento: il mondo è uguale a come l’ho trovato nascendo, sordo e falso. Tanto dire che ho vissuto e sofferto invano. Non saprò mai se agendo diversamente, con più accortezza e minore orgoglio, non avrei meglio giovato alla realizzazione delle idee che ancora credo giuste: e questa è la mia sola salvezza. In vecchiaia ho scoperto che scrivere aiuta a pensare, finché scrivo penso, non ci rinuncierò Ma io non conto, eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi, dolce parola. Noi credevamo…
Il sopravvissuto torna ad acquisire un valore, il narratore disperato e colpevole ha fatto i conti con la verità del proprio passato senza trascendimenti mitizzanti, ma attraverso il pensiero fattosi scrittura e attivato dalla necessità di essere fissato Italiane della letteratura: Anna Banti
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sulla carta, ha denunciato le aporie e le responsabilità di chi, lui e la sua generazione, non ha dato continuità a una giusta causa e non ha intrapreso la lotta nella politica postunitaria. Solo dalle ceneri dell’idealismo patriottico, dalla negazione della sua altera e quasi aristocratica retorica possono rinascere valori che gli uomini del Risorgimento non hanno incarnato fino in fondo. Nella condizione estrema del carcere con la sua comunanza di disagi e sofferenza che sembrerebbe annullare le distanze fra gli uomini, l’egualitarismo democratico ha rivelato la sua difficile realizzazione. Così, per paradosso, abbandonando il Risorgimento, si può ancora credere in una sua futura rigenerazione: Ci lagniamo noi vecchi gufi risorgimentali, che i giovani di oggi trascurino le nostre glorie e i nostri nomi, più impazienti dell’avvenire che rispettosi del passato. In certo modo, sono con loro. (p. 54)
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IL RISORGIMENTO DELLE ITALIANE. DONNE SULLA SCENA LETTERARIA DELL’OTTO-NOVECENTO
ADRIANA CHEMELLO Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento
L’idea del panel è venuta prendendo forma e sostanza da un interrogativo più volte affiorato durante le lezioni di un corso di Letteratura Italiana dedicato a «Il romanzo del Risorgimento». E l’interrogativo riguardava la presenza delle donne. Il Risorgimento nell’immaginario collettivo è sicuramente un evento storico di marca maschile. I suoi protagonisti (eroi, sovrani, condottieri, pensatori, statisti e scrittori) sono tutti rigorosamente uomini. Negli anni ’80 del secolo scorso, in coincidenza con la nascita e lo sviluppo degli Women’s Studies, una studiosa americana pubblicò un libro dal titolo provocatorio: Esiste il Rinascimento femminile? Parafrasando quel titolo, noi oggi possiamo formulare così il nostro interrogativo: Esiste e quali connotazioni ha avuto il Risorgimento delle Donne? Così formulata la questione assume una valenza semantica molto diversa rispetto alla costellazione di lavori e pubblicazioni odierni (spesso di circostanza) su Le Donne del Risorgimento: non a caso configurati alla stregua di «medaglioni» di figure femminili e/o come una filza di «biografie» (meglio se romanzate). Ma cosa intendiamo allora per «Risorgimento delle donne»? Non è mia intenzione anticipare il confronto di idee e di proposte interpretative che uscirà da questo panel. Mi limito a condividere con voi qualche riflessione sul tema, a mo’ di introduzione. Quando parlo di «Risorgimento delle donne» mi riferisco a figure di donna che hanno portato sulla scena pubblica il loro desiderio di libertà, che hanno lottato per difendere la loro libertà di donne. Donne che a partire da sé, dal loro posizionamento sociale si sono «messe al mondo» e hanno lottato, cioè «hanno speso molto di sé» per un’Italia libera, senza dominatori stranieri, autorizzandosi a prendere la parola e a prendere iniziative per sé e per altre (le proprie simili). «Spendere molto di sé» è un’espressione di Alba De Cespedes che verrà ripresa e commentata nel contributo di Laura Fortini, ma che mi sembra possa essere usata anche per quelle donne che, nella prima metà dell’Ottocento, hanno saputo
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investire in desideri, progetti, risorse, magari spendendo denari, mettendo a disposizione risorse economiche, soprattutto spendendosi (dando molto di sé in termini di tempo, energie, competenze, cure, attitudini) e agendo (facendo concretamente qualcosa), pagando di persona con l’esilio, il carcere, la sottrazione degli affetti, la requisizioni di beni, la perdita di figli, fino a perdere la loro stessa vita (come nel caso di Anita Garibaldi). In epoca risorgimentale, le donne organizzarono ospedali e curarono i feriti, furono cioè delle efficienti infermiere, svolgendo quella «attività di cura» che sembra essere a loro particolarmente congeniale, ma lo fecero uscendo dall’hortus conclusus del proprio domestico: un esempio per tutti Florence Nightgale (negli anni ’50). Ma in proposito andrebbero rilette con attenzione alcune pagine delle Confessioni di Nievo. Le donne inventarono le Scuole di «Mutuo insegnamento», si veda il caso delle Maestre Giardiniere che nei primi decenni dell’800 organizzarono istituti protettivi ed educativi. Basti per tutti il nome di Bianca Milesi Mojon, della quale ricordo la bella «biografia letteraria» dedica a Saffo, e fondata su una precisa e meticolosa documentazione storica. Alcune donne furono «protagoniste» del processo unitario ed eroiche patriote: si vedano per es. le Lettere di una garibaldina di Luisa De Orchi (Venezia, Marsilio, 2007) che propongono uno spaccato utilissimo per la storia del costume e delle idee, oltre ad offrire il punto di vista di una donna sull’eroe dei due mondi. Altre misero la loro penna al servizio dell’idea, per la sua divulgazione attraverso riviste e giornali (sia con testi di carattere referenziale-conativo, sia con testi di carattere narrativo). Segnalo al riguardo il numero monografico della rivista «Leggendaria» dedicato a «Donne che hanno fatto l’Italia – Le Educatrici». Le donne sono sempre state considerate come soggetti dalla nazionalità «debole» a causa di quello che viene definito il loro «nomadismo familiare e onomastico», cioè il fatto che mutano nome, cambiando famiglia con il matrimonio (e ogni matrimonio è un cambio di nome e di famiglia). Questo fenomeno ha conseguentemente generato in loro un «nomadismo nazionale» in quanto assumevano la nazionalità del marito. Non dimentichiamo, in tal senso, la filiazione diretta tra «famiglia» e «nazione» su cui insiste molto il «canone risorgimentale». Conseguenza di tutto ciò, per le donne si sono rivelati deboli i loro paradigmi identitari, in quanto soggetti singoli, cioè in quanto «persone singole» fuori dalla loro condizione relazionale di donne (figlie di…, mogli di… madri di…, ecc.). In altre parole le donne non sono state «soggetti politici» e «culturali». Per mettersi al mondo le donne hanno dovuto agire, prendere iniziative, non più subire ma diventare protagoniste. Che cos’è e che cosa è stato l’Amor di Patria per queste donne? Suggerisco di osservarne la realizzazione in due figure tra loro diverse e lontane, anche se contigue dal punto di vista generazionale. La prima è al centro della scena politica, si sposta tra Milano, Parigi, Roma; dialoga con i grandi sovrani d’Europa (Napoleone III, Carlo Alberto di Savoia, Mazzini): è Cristina Trivulzio di Belgioioso (1808VI. Italiane della (e nella) letteratura
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1871). Cristina la «princesse révolutionnaire» era al centro della vita intellettuale parigina degli anni fra il ’30 e il ’40 ed era un’abile tessitrice di rapporti culturali e politici. Si deve alla sua premurosa attività la divulgazione dell’opera e della memoria del grande poeta italiano Giacomo Leopardi, di cui conservava gelosamente tra le sue carte la poesia Amore e morte. Il suo salotto a Parigi era affollato di esuli provenienti dall’Italia e tra costoro Cristina esercitò il ruolo di «propagandista leopardiana». La seconda è defilata dalla scena del mondo. Vive in un paesino della periferia dell’Impero, in provincia di Udine. La sua lingua materna non è neppure l’italiano. Ma nonostante ciò il suo «Amor patrio» si esprime appunto come amore per l’idioma nazionale, come affinamento delle competenze linguistiche perché si sente parte di quella «nazione» che è la patria di Dante («la patria dei canti» lei la definisce). Scrive in Italiano, racconta della sua terra, gli usi, i costumi, le tradizioni. E racconta che cosa è la guerra per questa povera gente, che cosa sono i «confini» arbitrari imposti dai trattati e non quelli legati dalla naturalità del territorio. Il suo nome è Caterina Percoto (1812-1887). Cristina di Belgioioso racconto da testimone e protagonista il 1848 a Milano; Caterina Percoto racconta la guerra del 1848 nei villaggi del Friuli dilaniati per la loro collocazione geografica (terra di nessuno) e per la conflittualità che spesso opponeva e contrapponeva persone legate tra loro da vincoli di sangue. Vorrei aggiungere un terzo nome, quello di Luigia Codemo, la cui genealogia femminile è degna di un romanzo, che ci ha lasciato, tra le tantissime pagine della sua penna prolifica, l’unico vero romanzo risorgimentale di mano femminile, La Rivoluzione in casa Scene di vita italiana (Treviso 1869).
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CRISTINA BRACCHI Sorella patria. I ‘Canti’ di Matilde Joannini
L’idea di patria, di Italia, che Joannini evoca nei Canti, corrisponde alla disposizione poetico-esistenziale che la vuole incline alla rappresentazione della relazione affettiva quale possibilità di esistenza soggettiva e collettiva. Un patriottismo sentimentale e romantico in cui l’unione territoriale e politica degli stati della penisola è condizione necessaria per dare corso e durata a legami di amicizia e di amore che le donne, poete e patriote, vivono nella distanza di frontiere, leggi e mentalità. Legami di genere che motivano e sostanziano la costruzione della soggettività, che danno valore all’attività letteraria e culturale nel reciproco riconoscimento sororale, che generano trasmissione, eredità, memoria in genealogie di sangue ed elettive che sostengono la formazione della nazione. La storia di Matilde Joannini,1 torinese, vissuta nei primi decenni del secolo diciannovesimo (1806 – 1848), è contenuta tutta nei settantatré componimenti lirici raccolti nel volume di Canti pubblicato nel 1845. L’apostrofe alla canzone a Diodata Saluzzo-Roero dice del desiderio che la poesia si faccia vincolo di relazione con la destinataria. Canzon, che rozza troppo hai la favella, Fuggi la folla, e in segreto sommessa Dirai: è donna anch’essa Colei che a te m’invia, timida ancella, E in te che alberghi alma cortese in petto M’affida avrommi un ospital ricetto.2
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Questo studio riprende alcuni aspetti della personalità biografica e poetica dell’autrice, la cui ricostruzione critica completa è nel mio saggio Il sorriso malinconico, la poesia, le relazioni di Matilde Joannini, in L’alterità nella parola. Storia e scrittura di donne nel Piemonte di epoca moderna, a cura di C. Bracchi, Torino, Thélème 2002, pp. 119-152. 2 M. Joannini, A Diodata Saluzzo-Roero, in Ead., Canti, Torino, Vertamy e Comp. 1845, pp. Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento
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A delineare la figura storica di Joannini, nella completa assenza di fortuna critica successiva, soccorrono brevi testimonianze coeve. La prima appartiene al diario di Olimpia Rossi Savio,3 personalità di spicco nella Torino preunitaria, nel cui salotto, attivo tra gli anni Quaranta e Settanta dell’Ottocento, si intrattengono i protagonisti e le protagoniste della storia politica, letteraria e artistica del Piemonte risorgimentale. Nelle pagine dedicate all’amica e poeta Agathe Sophie Sassernò, nizzarda vissuta a lungo a Torino, riserva un cenno alla Joannini: «Erano pure intime della Sassernò la giovane contessa Matilde Joannini, che la poca entità della persona compensava col molto ingegno e coll’attrazione di una bontà angelica, e la contessa Eufrosina Portula Del Carretto, volta alle cose più alte dell’anima».4 Non si hanno notizie sulla frequentazione di altri salotti, anche se è possibile ipotizzare che le rimanessero preclusi quelli dell’alta e antica aristocrazia torinese, per il fatto di appartenere alla più recente nobiltà di servizio di nomina sabauda.5 Nelle
55-58. La grafia del cognome di Matilde, nei documenti ottocenteschi a stampa, oscilla tra Ioannini e Joannini. La scelta della seconda, in queste pagine, è motivata dalla presenza del grafema iniziale «J» nella firma posta in calce al manoscritto del sonetto Di largo pianto negl’affanni vive, che non risulta edito, conservato presso la Biblioteca Reale di Torino alla segnatura Mns. Varia 382/7, in una raccolta di Poesie Patrie. Altre due poesie manoscritte, L’Anniversario e All’amico G. G., presenti nel Fondo Bosio, Mazzo n°55-12, presso la Biblioteca Civica Centrale di Torino, sono confluite nel volume di Canti. La ricostruzione delle vicende editoriali di ogni componimento ha presentato non poche difficoltà, per la dispersione delle prime edizioni in volumi miscellanei, raccolte poetiche, fogli periodici, edizioni singole in opuscolo. Essendo comunque più adatta ad una nota bibliografica di accompagnamento ai testi, che ad uno studio d’insieme sull’autrice, mi limito qui ad alcune indicazioni. La maggior parte delle poesie che compongono il volume del 1845 risultano già edite tra il 1838 e il 1843 in: Strenna Piemontese, 1838-1843; Tributo alla Beneficenza, Raccolta di Prose e Poesie a pro degli Asili d’Infanzia, Torino, Fontana 1839; Serto Femminile in Morte di Diodata Saluzzo-Roero di Revello, Torino, Baglione e Comp. 1840; Strenna Genovese, 1841; Strenna Fiorentina, 1842; Espero, 1843. Fra le pubblicazioni rintracciate, sono invece escluse dai Canti le Stanze della damigella Matilde Joannini lette da Adelaide Ristori, in Poesie Varie dette nel solenne convito di commiato offerto alla somma attrice italiana Carlotta Marchionni dalla Compagnia Drammatica al Servizio di S. S. R. M. il dì 21 febbraio 1840, Torino, Usaglione e C. 1840, pp. 10-11. 3 Vd. E. Lorini, La baronessa Olimpia Rossi Savio, Torino, Tipografia Operai 1890. 4 Memorie della Baronessa Olimpia Savio, a cura di R. Ricci, Milano, Treves 1911, vol. I, pp. 195-196. Questo volume pubblica per la prima volta una scelta dei manoscritti del Diario e della Vita dei figli Alfredo ed Emilio di Olimpia Rossi Savio (1816-1889). 5 Infatti, il nonno paterno, l’avvocato Cesare, collaterale del magistrato della Camera dei conti, di cui diventerà presidente capo il figlio Luigi, padre di Matilde, fu investito del titolo signorile di conte di Ceva di San Michele solo nel 1796, cfr. L. Cibrario, Notizie genealogiche di famiglie nobili degli Antichi Stati della Monarchia dei Savoia, Torino, Botta 1866, pp. 142-143. Sulla nobiltà piemontese di Antico regime e sulla politica nobiliare sabauda vd. A. Merlotti, L’enigma della nobiltà. Stato e ceti dirigenti nel Piemonte del Settecento, Firenze, Olschki 2000. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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Memorie originali di Carlo Novellis, nel suo Dizionario delle donne celebri piemontesi, si legge dell’educazione che la madre Giuseppina Bracchieri volle dare a Matilde, orientata certo alle «cose familiari donnesche», ma anche alla letteratura e alla grammatica italiana, allo studio delle lingue europee, francese, inglese, tedesco, e della lingua latina. L’erudito registra che i principali letterati di Torino, quali non scrive, fossero interessati alla poesia di Joannini, sicuramente conosciuta e apprezzata tanto da motivare la raccolta del 1845, poi prosegue nominando l’amicizia con Diodata Saluzzo e con Adele Curti e ricorda l’attaccamento alla madre, alla cui morte nel 1841 collega il progressivo indebolimento fisico che consumerà Matilde. Poche notizie, da cui tuttavia si evince una biografia eccentrica rispetto alle coetanee: nessun matrimonio, nessuna famiglia propria, niente chiostro. Il dato che prevale è l’attività poetica e Novellis la sottolinea.6 A confermare la circolazione dei versi di Joannini, interviene il collezionista padovano Pietro Leopoldo Ferri che, alla data del 1842, possiede già un considerevole numero di componimenti, editi in periodici e in volumi collettanei.7 Partendo dal presupposto che è l’angolo prospettico d’osservazione a determinare il punto di vista, e che da questo dipende la lettura della realtà e la sua rappresentazione, la poesia di Joannini si presenta consapevolmente situata: l’autrice dimostra di partire da sé e di privilegiare la considerazione della presenza delle donne nella sua vita e nella società. C’è una costante tensione alla ricerca della parola che possa descrivere l’altra e della formula che sappia esprimere il suo desiderio di riconoscimento da parte delle altre, come donna e come poeta. La soluzione di Joannini, per armonizzare il desiderio con la necessità, quest’ultima data da una società strutturata rigidamente, da un ambiente per molti aspetti conservatore, dagli impacci di una storia politica in fermento,8 risulta la proposta di sé e della sua poesia, mettendosi in gioco secondo le regole formali del verso lirico e indirizzando i componimenti a molteplici destinatarie. La vita ritirata che l’autrice sembra
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C. Novellis, Dizionario delle donne celebri piemontesi che nacquero, vissero, morirono od ebbero relazione con questa terra le quali acquistarono in qualsiasi modo fama, Torino, Pelazza 1853, pp. 148150. 7 P. L. Ferri, Biblioteca femminile italiana raccolta posseduta e descritta dal conte Pietro Lopoldo Ferri padovano, Padova, Crescini 1842, p. 198. Altre brevi notizie bio-bibliografiche su Joannini, che poco aggiungono alle precedenti, si trovano in: E. Castreca Brunetti, Aggiunta alla Biblioteca femminile italiana del Conte P. L. Ferri, Roma, 1844; O. Greco, Bibliografia femminile italiana del secolo XIX, Mondovì-Venezia, Issoglio 1875, p. 269; Poetesse e Scrittrici, a cura di M. Bandini Buti, in Enciclopedia Biografica e Bibliografica italiana, diretta da A. Ribera, serie sesta, Roma, Istituto Editoriale Italiano Bernardo Carlo Tosi 1941-1942, vol. I, pp. 326-327. Più di recente alla figura della poeta è stata dedicata una scheda nell’Atlante delle scrittrici piemontesi dell’Ottocento e del Novecento, a cura di G. Cannì e E. Merlo, Torino, SEB27 2007, pp. 150-152. 8 Per cui rimando alla mia Introduzione a L’alterità nella parola… cit., pp. 3-20. Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento
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avere vissuto e le poche notizie su di lei non consentono di valutare con certezza quanto il contenuto dei componimenti sia l’esito di concrete frequentazioni personali e di sentimenti realmente provati e condivisi, e quanto, invece, esprima la proiezione di un bisogno insistito di relazioni sociali e intime. In ogni caso, non è un fatto comune nella tradizione letteraria italiana, se si esclude la finzione di maniera delle trovatore e delle petrarchiste, che nella produzione lirica di un’autrice prevalgano versi indirizzati o dedicati ad altre donne, dai contenuti e dalle tematiche inerenti alla loro vita nel contesto contemporaneo. Joannini sa dirsi attraverso ciò che le appartiene e la rappresenta, sa dirsi attraverso la figurazione poetica della relazione con le altre. Il canto Addio è emblematico: O d’ineffabile Nume sorriso, Raggio purissimo Di paradiso, O fonte mistica Del viver mio, Diletta ed esule Compagna addio. […] T’aggiungi al numero Delle sorelle Che il volto ascosero Fra tante stelle Spoglie del fragile Terreno vel. […] Tu fiamma eterea Dell’intelletto Tu grande e nobile Nel vario aspetto, Arcana origine Del viver mio Diletta ed esule Compagna addio.9
Canto funebre per una figura femminile riconosciuta quale «fonte mistica» e «arcana origine» dell’esistenza di chi scrive, in virtù di una relazione che si spiega nell’espressione «diletta compagna». Diletta è l’aggettivo per gli affetti profondi e duraturi. Perché sia detta esule, in decenni che hanno visto la penisola percorsa in diverse direzioni dai fuoriusciti politici, può intendersi quale omaggio a un destino comune e a una tipologia civile cara alla poesia romantica.
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M. Joannini, Addio, in Canti cit., pp. 197-202. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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In una raccolta poetica in cui circa la metà dei componimenti, fra odi, canzoni, romanze, sonetti ed inni, è dedicata o indirizzata alle donne, la relazione con le altre è soggetto poetico ricorrente. La forma molteplice e scambievole che assume nei versi richiama la realtà dei desideri, delle aspirazioni e delle possibilità all’interno della genealogia femminile. Se la realtà storica del vissuto dell’autrice resta sempre sfocata, nella gamma di ruoli affettivi e parentali, al contrario la situazione politica, il contesto culturale, i rapporti fra i sessi appaiono spesso nitidamente come sfondo e sostegno alle esperienze soggettive che danno spunto alla poesia. La rete di conoscenze, che per i nomi citati si estende al di fuori dei confini piemontesi, consente a Joannini di avere in mente la società eterogenea e in movimento dell’Italia preunitaria, di cui Torino è città protagonista, e di radicare la sua produzione poetica nella cultura romantica e risorgimentale.10 Il suo primo riferimento è Diodata Saluzzo, poeta attenta alla costruzione e alla celebrazione di tradizione poetica femminile, incline ad indicare alle donne il riscatto dalla propria condizione nella poesia e a cercare intimità e comunione di sentimenti nelle amiche che, come lei, si occupano di «belle lettere» e che tra XVIII e XIX secolo sono oggetto di pregiudizi.11 Di trentadue anni più giovane, di altra nobiltà, difficilmente Joannini può avere avuto occasioni di intrattenersi a conversare con la Saluzzo, ma ne conosce la poesia e la personalità e verso di lei si dispone con consapevole senso di disparità. O tu, del sesso nostro onore e vanto, Devotamente a te la fronte inchino […] O di figlia, d’amica e di sorella, Quanto è per te soave il casto amore! Suoi mille affetti il core Veste di luce, d’armonia novella Per te, d’ogni virtù sublime esempio, Si fa di quelle sacerdote e tempio.12
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Sulla cultura romantica in Italia: A. Cadioli, Romanticismo italiano, Milano, Bibliografica 1995; N. Jonard, Le Romantisme italien, Paris, P. U. de France 1996. Per riferimenti più ampi A. De Paz, La rivoluzione romantica. Poetiche, estetiche, ideologie, Napoli, Liguori 1984; M. Pagnini, Il Romanticismo, Bologna, Il Mulino 1986; E. Raimondi, Romanticismo italiano e europeo, Milano, Mondadori 1997; F. Rella, L’estetica del romanticismo, Roma, Donzelli 1997. 11 Su questi aspetti vd. A. Chemello, La «Saffo Italiana»: Diodata Saluzzo di Roero [17741840], in L’alterità nella parola… cit., pp. 87-118; G. P. Romagnani, Diodata Saluzzo nell’Accademia delle Scienze di Torino. Fra Tommaso Valperga di Caluso e Prospero Balbo, in Il romanticismo in Piemonte: Diodata Saluzzo, a cura di M. Guglielminetti e P. Trivero, Atti del Convegno di studi, Saluzzo 29 settembre 1990, Firenze, Olschki 1993, pp. 11-35. Sulla ricezione della figura e dell’opera di Saluzzo: L. Nay, Saffo tra le Alpi. Diodata Saluzzo e la critica, Roma, Bulzoni 1990. 12 M. Joannini, A Diodata Saluzzo-Roero, in Canti cit., 1ª, 5ª sestina, pp. 55-58. Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento
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Riconoscerne le qualità poetiche significa comprenderne la possibile eredità. Saluzzo è un esempio di virtù e di personalità coralmente riconosciuto. Il concetto della fama, che resiste al potere distruttore del tempo e della morte, di foscoliana memoria, la fama che deriva da una poesia dettata dal metodo e dal genio, ritorna poi con forza nelle sestine della canzone in morte della «gentil suora d’amore», verso la quale, «eletta cittadina, / che la patria cotanto ammira e onora», Joannini dichiara di nutrire un dolore di madre, in un inatteso ribaltamento biografico.13 La disparità nella relazione donna-donna, per quanto attiene alla differenza di età, di esperienza, di qualità, è presente in molti canti, quale ragione su cui si basa la relazione stessa e quale spunto per valorizzare l’arte delle donne, nella musica, nella recitazione, nella letteratura. Il rapporto tra arte e natura risulta spesso sbilanciato verso la seconda, per l’esaltazione romantica del genio e del talento14 che ingenerano un «rapimento sovruman, celeste».15 La riflessione sull’ispirazione e sul genio porta Joannini ad accogliere un altro topos romantico: la contrapposizione tra giovinezza e l’età matura. Nel componimento A Celestina Rosanigo, la «giovinetta, dal maturo senno/ dal cor gentile, dalla fervid’alma» incarna la fiducia di Joannini nelle nuove generazioni di donne che si dedicano alla scrittura e proseguono l’esperienza delle altre prima di loro, fra cui si pone lei stessa. Gli endecasillabi sciolti si prestano ad un discorso scorrevole e fitto di contenuti che culmina nell’esplicita rivendicazione per le donne del ruolo artistico e intellettuale. L’esortazione al drappello delle autrici contemporanee, affinché con l’evidenza della prassi facciano tacere chi ancora le deride, richiama la questione dell’istruzione e della scrittura dibattuta nel secolo dei lumi, nonché la risposta concreta delle donne nella direzione dell’emancipazione da una cultura restrittiva e anacronistica,16 e infine le osservazioni di Ginevra Canonici Facchini, pubblicate nel 1824, sui denigratori delle scrittrici e sul mutamento di considerazione, all’aprirsi dell’Ottocento, del genio femminile.17
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Ead., Sonetto e Canzone in morte di Diodata Saluzzo-Roero, ivi, pp. 164-168. Cfr. R Wellek, Storia della critica moderna, vol. I, Dall’Illuminismo al Romanticismo, trad. di A. Lombardo, Bologna, Il Mulino 1990 (ed. or. A History of Modern Criticism: I, The Later Eighteenth Century, New Haven, Yale University Press 1955). 15 M. Joannini, Alla giovinetta E. C., in Canti cit., pp. 125-127. 16 Su cui rimando ai testi di L. Ricaldone, La scrittura nascosta. Donne di lettere e loro immagini tra Arcadia e Restaurazione, Paris-Fiesole, Champion-Cadmo 1996 e A. Chemello, L. Ricaldone, Geografie e genealogie letterarie. Erudite, biografe, croniste, narratrici, épistolières, utopiste tra Settecento e Ottocento, Padova, Il Poligrafo 2000. Sulla valenza emancipatoria dei versi di Joannini si sofferma M. T. Mori, Poetesse patriote nel Risorgimento (1821-1861), Roma, Carocci 2011, pp. 117118. 17 Cfr. G. Canonici Facchini, Prospetto biografico delle donne italiane rinomate in letteratura dal secolo decimoquarto fino a’ giorni nostri, Venezia, Alvisopoli 1824, pp. 55-58. 14
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Salve, nova sorella, oggi a te dico, Salve, e non sai con qual piacere io vegga Fiorir la schiera delle amate suore D’Italia nostra onor, delizia e cura! Che d’una ferrea età scotendo il giogo Fan la penna compagna all’ago e al fuso, Utile è forse più, da donna forte, Negli anni in cui viviam vita di guerra, Di privati rancori, in cui più vile Talor della sconfitta è la vittoria, Stringer la penna, e proseguir la via Che ai generosi un caldo istinto addita. Come fra dense accavallate nubi Breve tratto del ciel sereno appare Al neghittoso derisor beffardo, Il coraggio, l’ardir della concordia Mostri il drappel, che mal chiamasi imbelle, E cresca e cresca, e da cotanta luce Piova sopra il mio capo un raggio almeno.18
In questi versi si legge la consapevolezza dell’identità di genere. La donna versatile e forte usa la penna per superare le avversità personali. Ma l’incisività del gesto della scrittura e la dirompenza di un atteggiamento di sorellanza e di concordia possono incidere con energia in ambito pubblico e intervenire sul piano simbolico a modificare la cultura di riferimento. La metafora della luce implica la convinzione che l’agire comune abbia una ricaduta positiva su tutte. L’altra da sé in cui rispecchiarsi è sempre donna di virtù e di coraggio. Spesso è donna dal destino differente e dalle scelte divergenti da quelle dall’autrice, ma sempre accomunata, nei versi, dalla necessità di confrontarsi con una realtà non dimensionata a propria misura. Ora è la suora di Carità, a cui dedica l’inno «Eri bella qual cosa sognata / Eri pura qual cosa celeste, / Sotto il velo d’angelica veste / Quaggiù scesa i mortali a bear». Ora è la schiava musulmana in terra cristiana, che vive un amore impossibile, ostacolata dalla religione e da un amato incostante. Figura di giovane perseguitata e infelice, tanto da morirne, rievoca le protagoniste del romanzo gotico inglese, da Lewis a Radcliffe, ma senza le suggestioni torbide e sensuali delle ambientazioni settecentesche. Ora è la zingara, dalla vita libera e
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M. Joannini, A Celestina Rosanigo, in Canti cit., pp. 313-316. Rosanigo risponde grata a Joannini, il tono è sororale ed enfatico: «E talor parmi d’esserti accanto; / Un accento drizzarti, un sorriso…/ Tu, cortese…Oh, ineffabile incanto! / Non isdegni di stringermi al cor… / Io col ciglio bagnato di pianto, / Di letizia m’inebrio, d’amor!», C. Rosanigo, A Matilde Ioannini, in Strenna Piemontese, Torino, Fratelli Cartellazzo VI (1843), pp. 213-216. Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento
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fuori dagli schemi, che non si lascia ingannare dall’amore, la cui esistenza è simboleggiata dalla cetra e dal pugnale, oggetti che l’io poetico vorrebbe per sé.19 Il sentimento di sorellanza, proposto con spontaneità e senza enfasi ideologica, è di conforto nei momenti drammatici del vivere, ma è soprattutto elemento di coesione e di riconoscimento in grado di suscitare azioni costruttive e propositive nello svolgersi quotidiano dell’esistenza. L’amicizia, presentata come valore assoluto, assume per lo più la figurazione del dono. La «santa amistà» è suggellata dall’omaggio di un fiore e dalla partecipazione a un dolore,20 come dalla traduzione di una lirica dell’altra da mettere fra le proprie. È il caso de La figlia povera21 di Sassernò, tre ottave di retorica della povertà, di ricorso alla laboriosità e alla provvidenza, di lontana eco manzoniana, in cui è difficile riscontrare «una mente vasta e un’anima ardente» come la descrive Olimpia Rossi Savio,22 ma che probabilmente Joannini ha scelto per il soggetto muliebre: la cura di una figlia verso la madre. Importante è anche l’immagine del riso e del sorriso, quale espressione di umanità che più mette in relazione col divino: «Se sorridi al riso mio, / Madre, il pan ci darà Dio», che riconduce alla figura di Sara, moglie di Abramo e madre di Isacco, del Vecchio Testamento e alla quarta ecloga delle Bucoliche di Virgilio.23 Tra Joannini e Sassernò esiste una certa vicinanza
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M. Joannini, Alla suora di Carità, La Schiava, Alla Zingara, in Canti cit., pp. 157-161, 8387, 97-99. Una schiava è protagonista anche della romanza Reminiscenze, non compresa nel volume di Canti. L’autrice svolge la storia infelice e luttuosa di una giovane che per liberare sé e il suo amato uccide il pascià di cui è schiava. Suddivisa in capitoli, anticipa nei titoli la sequenza degli eventi: Un delitto, La fuga, Il tragitto, L’abbandono, Morte. Significative le citazioni da Byron e Tommaseo poste come incipit dei capitoli, Ead., Reminiscenze, in Strenna Piemontese cit., I (1838), pp. 195-213. L’orientalismo, fenomeno di cultura e corrente letteraria, nel decennio degli anni Cinquanta, in Italia, si arricchirà degli scritti odeporici e dei romanzi di Cristina Trivulzio di Belgioioso. Sul tema E. W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, trad. di S. Galli, Milano, Feltrinelli 2002 (prima ed. it. Torino, Bollati Boringhieri 1991; ed. or. Orientalism, New York, Pantheon Books 1978). 20 M. Joannini, Alla Cara A. S. Sassernò. Un fiore, A Luisa Ricolfi-Doria, A Eufrosina Portula Del Carretto, in Canti cit., pp. 321-323, 307, 177-179. Sulla ricca produzione poetica di Eufrosina Portula Del Carretto, novarese, vd. C. Villani, Stelle femminili cit., vol. I, pp. 548-550. 21 La pauvre fille. Romance è nel volume di A. S. Sassernò, Ore Meste. Chants sur l’Italie et Poésies intimes et religieuses, Turin, Fontana 1846, pp. 65-66. 22 Memorie della Baronessa Olimpia Savio cit., vol.I, p. 186. Le qualità sottolineate da Rossi Savio si trovano maggiormente nei componimenti di argomento religioso e patriottico. Di A. S. Sassernò vd., oltre alla raccolta Ore Meste, Haute-Combe, Poème Lyrique, Turin, Fontana 1844; Glorie e Sventure, Chants sur la guerre de l’indépendance italienne et poésies nouvelles, Turin, Fory 1852; Pleurs et Sourires, Étrenne Poétique dediée aux Dames Piémontaises, Turin, Union TypographiqueÉditrice 1856. 23 Cfr. Genesi, 18, 12-15; P. Virgilio Marone, Bucolica, IV, 60-63. Del riso di Sara si sono VI. Italiane della (e nella) letteratura
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nell’inclinazione alla tristezza, nell’indulgere alla malinconia, al languore e al dolore, alla rappresentazione ingenua dei sentimenti propria al Romanticismo edulcorato e istintivo,24 e nell’affidarsi alla semplicità delle espressioni umane, come il sorriso, per significare l’elevatezza e la reattività virtuosa dell’animo. Ma Sassernò si distingue dall’amica per la predilezione del patetico e del sentimentale bilanciata da un fraseggio impetuoso.25 In alcuni componimenti d’occasione invece il sentimento amicale sparisce in formule di maniera e di omaggio convenzionale, benché sia sempre evidente la dote principale attorno a cui si stringe la relazione. L’immagine di donna che Joannini predilige non è l’opposto angelico delle donne fatali, che la letteratura romantica europea della prima metà dell’Ottocento comincia a proporre, ma è la donna consapevole, anche nella sconfitta esistenziale. La rappresentazione dell’amore nel canzoniere, meglio e più di altre tematiche, accoglie le istanze della cultura romantica. Pur nella varietà di toni e di forme, l’amore è assoluto, sacro, emozione pura e irriducibile. Manifestazione eminente della vita interiore, tende al sublime e all’infinito, tra istinto primitivo e ambizione al trascendente. Non è tanto importante l’oggetto d’amore quanto l’amore stesso, irrinunciabile esperienza vitale. Come una vocazione, non perde slancio ed enfasi neppure quando risulta impossibile, irrealizzabile e fonte di sofferenza, ma anzi si nutre di languori, malesseri e accenti dolenti fino a legarsi con la morte, per il mezzo della passione e dei suoi accessi violenti e disperati.26 Le tredici ottave della canzone La moriente27 racchiudono il concetto ricorrente della contrapposizione tra
occupate M. Forcina, Ironia e saperi femminili, Milano, Franco Angeli 1996, e C. Zam boni,»Isacco risata», figlio di Sara, in «Via Dogana», 28 (1996), pp. 12-13. I versi in francese sono i seguenti: «Oh ma mère, daignez sourire, / Et Dieu nous enverra du pain», A. S. Sassernò, La pauvre fille. Romance, in Ore Meste cit., p. 66. 24 Sulla Sassernò è severo il giudizio di De Sanctis, che le attribuisce monotonia di contenuti, assenza di senso del reale e incapacità di compensarla leopardianamente dando vita ad una compiuta realtà poetica, istinto che non sa farsi sentimento, povertà di immaginazione, F. De Sanctis, Poesie di Sofia Sassernò, in Id., Saggi critici, a cura di L. Russo, Bari, Laterza 1952, vol.I, pp. 291-303. Brevi notizie sull’autrice si trovano in C. Villani, Stelle femminili. Dizionario Bio-Bibliografico, Nuova edizione ampliata riveduta e corretta, Napoli-Roma-Milano, Albrighi, Segati & C. 1915-1916, vol. I, pp. 625-626; Atlante delle scrittrici piemontesi dell’Ottocento e del Novecento cit., pp. 245-248; E. Losma e F. Vigliani, Donne di carta. Tracce di donne nell’Archivio di Stato di Novara, Torino, SEB27 2010, pp. 85-87 a proposito del manoscritto di Pleurs et Sourires. 25 Vd. A. S. Sassernò, Cimiès. A mon amie Mathilde Joannini Comtesse de Ceva Saint-Michel e Elégie a Mathilde Joannini, sur la mort de sa Mère Madame la Comtesse Joannini Ceva de Saint-Michel, in Ead., Ore Meste cit., pp. 35-36, 47-50. 26 Sul rapporto amore-morte nella letteratura romantica, vd. A. De Paz, Europa romantica. Fondamenti e paradigmi della sensibilità moderna, Napoli, Liguori 1994, in part. il par. I volti di Eros e di Thanatos, pp. 144-169. 27 M. Joannini, La moriente, in Canti cit., pp. 107-109. Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento
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vita dolorosa e morte rasserenatrice, in cui la morte dell’altra è raffigurata con la metafora di un rito coniugale angelico, che mostra l’intreccio tra amore, morte ed esperienza religiosa, con accenti di velato erotismo. Amore assoluto, asessuato, estatico, che unisce a Dio, o amore vivido, palpitante di una donna per un’altra donna? Lungo la tradizione che da Werther passa a Ortis e da questo alla cultura italiana, i temi dell’amore e della morte, antagonisti e complementari, variamente combinati danno come risultante lo struggimento del soggetto: «Chi rende alla meschina / la sua felicità?».28 In molte occasioni, le raffigurazioni dell’amore e della donna sono impreziosite dal lessico e dagli stilemi stilnovisti, che l’autrice presenta con espliciti riferimenti alla Vita Nuova di Dante, secondando il gusto per la cura del carattere formale che accomuna tutta la letteratura poetica di primo Ottocento. L’esito, però, non è solo di qualità estetica. Infatti, insieme al codice poetico, Joannini recupera un concetto dell’amore che va oltre il sentimento e ambisce veicolare conoscenza e interpretazione della realtà, da un lato, e spiritualità, dall’altro, che ben si accorda con le tensioni romantiche all’assoluto, al misticismo e al coinvolgimento totale di anima e corpo. Una scelta di poetica che si allontana dall’astrazione e dalla ricerca di perfezione e compiutezza formale dell’amore arcadico, così come dall’erotismo libertino di matrice illuministica. Il lessema «cor gentile» è disseminato in tutto il canzoniere, a sottolineare il valore spirituale e intellettuale delle donne, e la bellezza muliebre è costantemente definita «gentile» e «leggiadra», a riprova di una corrispondenza fisica con le virtù morali, anche per l’amore fuori canone, dedicato a Isabella Rossi:29 Ch’io t’ami chiedi, quando è forza amare Cosa tutta gentile? E chi volesse
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Citazione da Rosa Taddei, vissuta nella prima metà del secolo XIX, improvvisatrice pugliese e arcade con il nome di Licori Partenopea, fu a Torino nel 1830, dove cantò i suoi versi all’improvviso nei teatri D’Angennes e Sutera, raccolti da uno stenografo e pubblicati lo stesso anno nella capitale piemontese con il titolo Improvvisi. Già nota per le sue qualità e per un precedente volume di Poesie Estemporanee, edito Napoli, Partenope 1824, è probabile che Joannini la conoscesse in quell’occasione. Sulla Taddei vd. C. Villani, Stelle femminili cit., vol. I, pp. 675-677. 29 Isabella Rossi Gabardi Brocchi (1808–1893), figlia di Elvira Zampieri, a cominciare dagli anni Quaranta è figura di riferimento negli ambienti patriottici tra Firenze, Bologna e Carpi. Nel 1841 sposò il patriota Olivio Gabardi Brocchi e, vicina alle posizioni di Gioberti, si adoperò per la causa italiana anche con scritti rivolti alle donne per esortarle ai loro doveri. Collaborò al «Risorgimento» e alla «Gazzetta d’Italia». Figura versatile, cominciò a scrivere poesia intorno al 1832 e nel Quaranta pubblicò la sua prima raccolta. Vd. G. Giovannini Magonio, Italiane benemerite del Risorgimento nazionale, Milano, Cogliati 1907, pp. 199-217, e per le indicazioni bibliografiche C. Villani, Stelle Femminili cit., vol. I, pp. 289-291. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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Negarti amor di sé fora nemico. Ah! come doppia in te luce sfavilla, Te così doppiamente ammiro, onoro, Amo di quell’amor che nasce eterno. Non sol fatte sorelle innanzi a Dio Siam noi; ma fortemente altro ne lega Vincol terreno, indissolubil, santo. Da vario suol madre comune forse, Di’, non vantiamo, e tal che altera il capo Su tutte nazïoni erge maestra D’ogni valore e sapïenza? In vero Di lei redasti la più nobil parte, Che d’accrescer sue glorie dïsiosa Col primiero alimento della vita Le grazie a te scopria di sua favella, E sul volume dell’età non ròso Il tuo guidava giovinetto sguardo Con vigil cura e con presago orgoglio; Mentre me, di tal sorte, ahi! troppo indegna, Locò delle fredd’alpi alle radici Ove alto sonno più dorme natura, Ove il nostro gentil puro idïoma Offeso è da barbarica turpezza Di non itale voci, ove la stella Che amica splende sulle umane sorti Vibra dall’orizzonte un raggio appena.30
In questa canzone libera, per il mezzo del sentimento d’amore, Joannini esalta la relazione con la destinataria nell’eco di un incontro, avvenuto forse a Torino durante la collaborazione della Rossi al «Risorgimento», l’affetto reciproco, la letteratura e il sentimento patrio. Amarsi, quindi, viene di conseguenza, anche perché, secondo la consolidata tradizione, è inevitabile amare «cosa tutta gentile». Amore sororale, certo, ma anche amore passionale, al di là dell’enfasi del verso, in un vin-
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M. Joannini, A Isabella Rossi, in Canti cit., 2ª strofa, pp. 189-191. In un altro componimento, Joannini si rivolge alla Rossi con toni di orgoglio rivendicazionista, alludendo alla difesa delle donne italiane, tacciate di ignoranza, condotta dall’autrice fiorentina nel 1840: «Siam pur d’Italia figlie / Alla patria devote e non ribelli; / Quanto di grande aduna a sè d’intorno / Sue tante meraviglie / Non men noi che i fratelli / Sappiam, sentiamo; il giorno / Che ferve in questa più a ognun palesa / Avervi il genio maggior fiamma accesa. […] La legge, l’uom, il fato / sotto le varie signorie soggette / Volle noi sempre; a noi chiuse la fonte / Del bello ed il creato / Quasi schiave reiette / Accolse, eppur tal onte / Intesa a vendicar nostra natura / Regina si creò della sventura», Ead., Ad Isabella Rossi, in Strenna Piemontese cit., IV (1841), pp. 5-8. Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento
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colo dalla duplice natura divina e terrena. L’argomento letterario del fare poesia è al centro. Joannini fa riferimento ai versi di ispirazione storica sugli antichi fatti italiani, ripresi da Rossi e riproposti ad incitamento dell’Italia nel volume di Poesie varie del 1840. La tematica patriottica diventa esplicita con l’espressione di un sentimento nazionale, con la rivendicazione di valore e di cultura di antica tradizione per l’Italia, nonostante la frammentazione politica, con l’accenno di Joannini alla «barbarica turpezza di non itale voci», chiaro riferimento all’occupazione straniera passata e presente. L’auspicio a riabbracciare Isabella e all’amore duraturo porta con sé la speranza che le barriere territoriali e politiche che ostacolano l’unione tra Firenze e Torino siano abbattute. La canzone ottiene l’esito dell’accordo poetico e concettuale tra amore sentimentale soggettivo e amore patriottico corale. L’accostamento alla figura dell’angelo e la valorizzazione del sorriso sono l’omaggio d’affetto alla donna amata prima delle altre, la madre, la cui esistenza stessa infonde sicurezza per le virtù di cura, protettive e taumaturgiche, e consente di difendersi dal mondo nel suo nome: «Così dal nembo mi saprà difendere, / Madre, il tuo nome!».31 Lo sguardo, ancora di ascendenza stilnovista, è latore di vita, è soglia con la dimensione divina dell’amore. Ed è anche la soglia attraverso cui passa l’eredità di riconoscimento, autorizzazione, consapevolezza e senso di sé da madre a figlia. In controtendenza rispetto ai toni malinconici, dolenti, a tratti lacrimosi dei suoi componimenti, Joannini consegna il concetto di trasmissione di eredità in linea genealogica femminile ad un lungo canto scherzoso, allegro ed ironico. Lo spunto per il divertimento poetico è una galleria di tipologie di eruditi e letterati: gli storici, i romantici, i classici, i mestieranti, i critici, rappresentati secondo i loro stereotipi in quartine ritmate con struttura ABCB, a cui si contrappone chi, come l’autrice, vuole scrivere con libertà fuori dalle categorie. V’ha ancor chi libero Scherzar intende Con modi semplici, E non offende; Ed a quest’ultimo Per farmi eguale, Vo’ dir l’istoria D’un mio grembiale;
Il grembiule, sopraveste femminile da casa, dono della madre e oggetto caro, diviene emblema della storia personale e minuta di contro ai grandi eventi e simboleggia il passaggio alla visibilità, dal privato al pubblico, di chi lo indossa. Ha funzione di memoria storica, che porta Joannini ad una inedita critica sociale:
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Ead., A mia madre. Nel suo giorno onomastico, in Canti cit., pp. 67-70. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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Come per barbara Spietata sorte Perisca il misero Prima di morte; Come l’instabile Cieca fortuna Il ben d’innumere Genti raduna Su immeritevole Turba dolente, Che gode e prospera Senza far niente, Mentre l’industria Di sangue priva, S’affanna e s’agita. Anco mal viva.32
La metafora del trascorrere del tempo, della volubilità, dell’incostanza e dell’opportunismo degli esseri umani e, in opposizione, della conservazione della memoria, della tradizione collettiva e personale si conclude con una dichiarazione di fedeltà e coerenza verso se stessa, come donna e come autrice, la cui forza le deriva dalla mediazione materna, rappresentata dal dono di un oggetto che appartiene all’esperienza e al vissuto di ogni donna a lei contemporanea, scelto forse proprio per accedere attraverso ciò che è più familiare, con una sorta di captatio benevolentiae, a un piano di riflessione non ovvio e certamente non familiare a tutte le sue coetanee. L’ironia, con cui esordisce nel mettere in ridicolo gli uomini di lettere e di cultura, si trasforma in satira utilizzando immagini di consueta frivolezza femminile per introdurre tematiche di ordinaria ingiustizia sociale. L’accesso alla cultura, nei versi e nella vita, significa per Joannini, nonostante la differenza di sesso, la condivisione di un’uguale condizione con il padre, di cui ricorda l’intimità verso di lei come verso un amico, confidenza che la fa sentire figlio: «Coll’immagine tua, presente al ciglio / Quanto nel cor profondamente impressa, / Parlo sovente come a padre il figlio».33 Gli anni della Torino della tradizione cattolica e del progresso storico del giovane Gioberti, del conservatorismo cattolico di Massimo Tapparelli D’Azeglio, di Cesare Balbo e, naturalmente, di Carlo Alberto,34 infine del teatro didascalico e
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Ead., Il mio grembiale. Scherzo, ivi, pp. 235-244. Ead., Tributo d’Amore, ivi, pp. 193-196. 34 Per un quadro d’insieme sulla politica culturale di Carlo Alberto, soprattutto nei primi 33
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morale di Alberto Nota, sono anche gli anni nei quali si concentra la produzione poetica di Joannini, dal 1830 circa al 1848. L’autrice accoglie nei suoi versi una rassegna di temi che si inserisce perfettamente nel contesto di quei decenni, in accordo con la cultura del padre, da intendersi come cultura prevalente, e inclina alla funzione utilitaristica della letteratura, di marca romantica, rivolta all’educazione e al consenso popolare. L’istruzione delle giovani donne e il loro comportamento nella famiglia e nella società è argomento trattato sul piano delle qualità morali e della cura dell’aspetto fisico secondo i canoni del decoro. Il percorso di formazione per ragazze e ragazzi, l’attenzione rivolta al ruolo di sposa35 sono il tributo alla costruzione sociale del genere a cui sono inclini anche le amiche patriote, Isabella Rossi, Giulia Molino Colombini, Agata Sofia Sassernò, Olimpia Savio Rossi, che danno dignità ai ruoli familiari della donna. Il soggetto patriottico è compreso in molti componimenti, ma mai come protagonista. In un solo caso, nella canzone Il Prigioniero, Joannini estende gli accenti patriottici a tutte le strofe con l’occasione di compiangere la sorte di colui che ha lottato per la patria e dalla patria è stato privato della libertà, eppure ancora l’ama. Se non è agevole riconoscere a quale episodio della recente storia italiana l’autrice si riferisca, inoltre l’assenza di riferimenti espliciti non consente un’ipotesi sulla data di stesura dei versi, è invece facile cogliere il clima culturale e politico di provenienza dei contenuti: la Torino carloalbertina, il cui sviluppo, pur contraddittorio, la stava rendendo il polo d’attrazione per gli intellettuali progressisti italiani, vittime della repressione e dell’intolleranza nei loro Stati d’origine. Il canto, la poesia consolatrice e sfogo del prigioniero, è l’elemento che unisce due destini; le «ruine» e l’«infinito», inclusi nelle ottave, accentuano i toni patetici e sentimentali: Se della patria Deplora il fato, Talor dimentico Che fu privato Per lei del massimo Supremo ben, Frequenti lagrime
anni del regno, e sull’ambiguità di fondo della sua linea, da un lato aperta e innovatrice, rivolta all’attività di riorganizzazione delle istituzioni culturali, dall’altro fortemente ancorata a concezioni assolutistiche e accentratrici, che tuttavia porta allo sviluppo di una società civile di tipo moderno, vd. G. P. Romagnani, Storiografia e politica culturale nel Piemonte di Carlo Alberto, Torino, Deputazione Subalpina di Storia Patria 1985, pp. 1-37. 35 M. Joannini, Alle Gentili Donzelle E. C. e C. M., L’Adolescenza, L. R. Ritratto, Al Giovinetto P. Castellani, Per la novella sposa Ida B. di S., A C. R. e G. B. Le Nozze, Una Sposa ad uno Sposo, in Canti cit., pp. 173-175, 49-53, 155, 156, 103-105, 169-171, 225-229. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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Piovongli in sen; […] Il malinconico Grato concento, D’un invisibile Caldo lamento; L’infelicissimo Sapesse almen Che un ente a piangere Con esso vien;36
Il poetare per accenni rivela amor di patria e un patriottismo non politicamente connotato, ciò che evita censure e non indulge alla mediocrità e alla ripetitività di moduli fissi e di stereotipi, presto invecchiati, della poesia contemporanea più militante.37 Joannini lega invece i temi dell’amore patrio e della soggezione politica all’amore per le lettere. La/il patriota, nel canzoniere, è la/il poeta che conosce la tradizione letteraria italiana e la recupera, riproponendola con l’intento di restituire fasti e gloria a una terra che ha saputo essere maestra d’arte e di cultura in un lungo ma ormai lontano passato. Ed è questa l’esortazione più ricorrente ai poeti dell’epoca. Altrice eterna d’inspirato canto Sarà l’Itala terra infin che il sole Allegra la sua prole, Finchè dell’armonia dura l’incanto, Finchè a’ nepoti legheranno gli avi Dell’arti intatte le gelose chiavi. […] In te la patria pone alta fidanza, Molto a te chiede, da te molto attende: Chi la tradisce offende La più nobil, la più cara speranza, E ribelle a un gran voto, a un gran disegno Si fa di degna madre un figlio indegno.38
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Ead., Il Prigioniero, ivi, pp. 119-124. Cfr. il volume collettaneo Raccolta delle varie poesie pubblicate in Piemonte nell’occasione delle nuove riforme giudiziarie ed amministrative accordate da S. M. il re Carlo Alberto, seconda edizione, Torino, Botta 1847; I canti della Patria. La lirica patriottica nella letteratura italiana, a cura di A. Bini e G. Fatini, Milano, Sonzogno, s. a.; Letteratura italiana del Risorgimento, a cura di G. Contini, Firenze, Sansoni 1986. 38 M. Joannini, Al Giovine Poeta E. S., in Canti cit., pp. 77-81. 37
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Mantenere viva la tradizione nazionale e servire la patria sono tutt’uno. I precedenti discorsivi di Giuseppe Baretti e di Giacomo Leopardi hanno dato spunti.39 Il significato di patria si delinea meglio in un altro canto, dedicato ad un anonimo poeta genovese, in cui all’idea di grandezza storica non corrisponde l’estensione territoriale dei confini geografici peninsulari, né la coesione culturale cui si aspira. Cerca il silenzio e medita, Studia, o garzon, te stesso; Pensa che l’uom che agli uomini Troppo vuol farsi presso Scherza coll’angue e vittima Del proprio error cadrà. […] Prosegui, e sia la patria Il tuo sovrano affetto, A lei consacra il palpito Del core e l’intelletto, A lei, che sol può renderti Amore per amor. Idolo è dessa, e tempio Di tutto incenso degno; Vedi qual campo fertile, Vedi qual nobil segno! Ma sei d’Italia figlio? Sai quanto è grande ancor!40
Un’Italia ancora da farsi, in cui lo spirito nazionale esiste ma in contrapposizione allo straniero e non come derivazione di un consapevole senso di nazione, o principio di nazionalità,41 che, invece, resta al di qua dell’orgoglio culturale e letterario, a cui Joannini, in due sonetti concisi ed efficaci, richiama anche i letterati già affermati, al fine di proteggere «il bello, il retto, il grande, il vero».
39 Cfr. G. Baretti, An Account of the Manners und Customs of Italy (1768) nello studio di C. Bracchi, Prospettiva di una nazione di nazioni, Alessandria, Edizioni dell’Orso 1998 e G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (1824) a cura di A. Placanica, Marsilio, Venezia 1989. 40 Ead., Ad innominato poeta genovese. Fantasia, in Canti cit., pp. 147-150. 41 Su questi concetti vd. E. J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo, trad. di P. Arlorio, Torino, Einaudi 1991 (ed.or. Nations and Nationalism since 1780: Programme, Myth, Reality, Cambridge, U. P. 1990), in part. le pp. 19-53.
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E il fiore accolto del sapere umano Mostri con patrio zelo allo straniero Ond’ei non neghi, derisor profano, A Italia nostra il suo maggior impero. Anch’io per te levai l’avide ciglia Ai monumenti de la sua grandezza, E la gloria sentii d’esserle figlia.42 Il lungo affanno e l’oltraggiato manto Della temuta un dì nobil matrona T’empie il cor di dolor, gli occhi di pianto, A grand’opra il tuo genio incita e sprona;43
Cultura e patria, un binomio aderente alla politica del Regno di Sardegna, che risuona nei componimenti dedicati ai reali, Carlo Alberto, Maria Cristina, Vittorio Emanuele e Maria Adelaide. In particolare, nei versi indirizzati a Carlo Alberto, quale artefice del rinnovamento della vita culturale subalpina,44 la devozione ai Savoia, espressa con la naturalezza di un’eredità ricevuta dagli avi, dice dell’ipotesi risorgimentale a cui fa riferimento Joannini, e di un senso dello stato, legato alla patria piemontese, che per dichiararsi si contrappone al periodo di occupazione napoleonica e fa appello alla veracità di lingua e di cultura. Una tradizione che guarda a esperienze precedenti, come quella dell’Accademia dei Pastori della Dora, frequentata da intellettuali «italianisti», rivolti allo studio della letteratura e della storia italiana, nel rifiuto della francesizzazione. Il tratto politico derivò più dalla coerenza e dal rifiuto del conformismo verso il regime napoleonico, che dai temi e dai toni dei lavori accademici.45 In un ambiente in cui prevalgono gli orientamenti cattolico-liberali, la devozione religiosa che percorre tutto il canzoniere, quando non è d’occasione, si manifesta in un dolente e mesto sentimento a cui le potenze celesti sanno dare conforto e restituire gioia. Si tratta di un tentativo di mediazione tra le istanze materialiste e quelle spiritualiste, e non tanto di adesione al cristianesimo illuminato, volto a conciliare la tradizione con il progresso, o al processo di rinnovamento che traeva dalla sfera sacrale aspirazioni e modelli. La preghiera a Maria, tributo al culto
42
M. Joannini, Al Marchese Gian Carlo Di Negro, in Canti cit., p. 253. Ead., A Emanuele Celesia, ivi, p. 254. 44 Ead., Per l’Inaugurazione del ritratto di S. M. il Re Carlo Alberto all’Accademia d’Alba, L’Arrivo in Torino di S. M. la Regina Maria Cristina, Il Torneo per le nozze reali di Vittorio Emanuele e di Maria Adelaide, A S. M. la Regina Maria Cristina, ivi, pp. 3-9, 11-19, 21-27, 29-39. 45 Sull’Accademia dei Pastori della Dora e i suoi aderenti, fra cui Diodata Saluzzo, vd. T. Vallauri, Delle Società letterarie del Piemonte libri due, Torino, Favale 1844, vol. II, pp. 292-306. 43
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mariano della prima generazione romantica, e il canto all’angelo custode sono due compiuti esempi di tensione soggettiva alla ricerca di un rapporto con la dimensione religiosa, che ambisce avere una ricaduta di valore sulla collettività.46 Il dato che emerge e spiega il vagheggiamento della morte è l’opposizione tra una realtà altra, divina, ultraterrena, fatta di equilibrio, giustizia, serenità e una realtà contingente inaccettabile, iniqua e dispensatrice di sofferenze.47 Il modo per fare fronte all’«esiglio», all’«infausta nostra carcer dura» della vita, è la fuga dal mondo e «il voto benedir che t’assecura»48 scegliendo il chiostro, o il ritiro laico preferito da Joannini in Alla mia cella. Malinconia e condizione esistenziale dolente trovano sollievo nella dimensione solitaria e ritirata di derivazione tardosettecentesca49 e nella poesia dalla funzione salvifica.50 Il classico ut pictura poësis si fa rimedio alla disperazione51 e la letteratura d’occasione, celebrando eventi e riti sociali, mette in relazione l’esperienza personale con l’esperienza collettiva, nel repertorio convenzionale di situazioni e figure della sensibilità romantica: l’infanzia sofferente e abbandonata, che suscita virtuosi sentimenti filantropici, o idealizzata, o pianta nella morte precoce; l’amicizia; la natura, identificata con il paesaggio, in cui confluiscono i temi delle ricordanze, della memoria e dell’esule errante; la luna, emblema romantico della malinconia e della nostalgia, ma anche di serenità e di fede.52 È ormai la seconda fase della produzione poetica romantica italiana, quella di Prati e di Aleardi, in cui più di prima il Romanticismo si fa comportamento e stile di vita, alleggerito della problematicità che ha contraddistinto la prima stagione romantica e la creatività di Leopardi e di Manzoni. Certo, non solo attraverso le
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Su questi aspetti vd. Pensiero religioso e forme letterarie nell’età classicistico-romantica, a cura di D. Mazza, Udine, Campanotto Germanistica 1996. 47 M. Joannini, Al mio buon angelo, in Canti cit., pp. 151-154. Il canto Una Preghiera è alle pp. 299-301. 48 Ead., Alla suora Adelina, ivi, pp. 129-131. 49 Su cui vd. M. Cerruti, Il Piacer di pensare. Solitudini, rare amicizie, corrispondenze intorno al 1800, Modena, Mucchi 2000, in part. le pp. 13-80 e Id., Gli involucri dell’«io». Ambientazioni della solitudine nell’età del Foscolo, in Il castello il convento il palazzo e altri scenari dell’ambientazione letteraria, a cura di M. Cantelmo, Firenze, Olschki 2000, pp. 265-277; C. Bracchi, Le carte socratiche della poesia. L’otium critico settecentesco e il canone oraziano, Torino, Thélème 2001, in part. le pp. 49-80, 121-144. 50 M. Joannini, A Te Sconforto, in Canti cit., pp. 207-210. 51 Ead., A un Infelice, Per l’Album della Signora R. M. Genovese, Invito al Canto al Cav. A. D., All’Egregio D. Francesco Bracco. I sordo-muti, ivi, pp. 303-305, 285-287, 101-102, 183-187. 52 Ead., Gli asili d’infanzia, Il Saluto, Al Conte Signoris di Buronzo. Un Angelo, A mio fratello Cesare. Anniversario, ivi, pp. 73-75, 213-216, 245-247, 289-294; All’amico settuagenario, All’amico lontano, pp. 115-117, 143-146; All’amico G. G. da me sorpreso mentre stava disegnando il proprio paese, Ad un albero, Invocazione, pp. 249-251, 203-206, 41-47. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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citazioni poste ad incipit di tanti componimenti, l’autrice restituisce genuinità e intensità ai propri versi con i riferimenti alla poesia notturna dell’inglese Edward Young e dell’epica scozzese di James Macpherson, conosciuta in Italia per la mediazione e traduzione di Melchiorre Cesarotti, e cara alla cultura romantica per il carattere ingenuo, sentimentale e nazionale dei Poems of Ossian, di cui Joannini in particolare ricorda Fingal, del 1762, citando il «Bardo di Loclin».53 Sono presenti poi, in maggior misura, per l’acquisizione di modi e temi, la Saluzzo dei versi più languidi e dei versi di ispirazione patriottica, e il francese Alphonse de Lamartine, specialmente per la produzione tra gli anni Quindici e Venticinque dell’Ottocento, ossia l’esuberante lirica elegiaca, sublime, dolente, discorsiva e musicale. Ne deriva un ibridismo stilistico che inclina al piacere del pianto, alla dolcezza e allo struggimento nel dolore che richiama, e per certi aspetti anticipa, la poesia del più giovane Giovanni Prati, indicato dall’autrice quale nuovo riferimento poetico, insieme a Guacci e ad Orfei, rispetto alla tradizione arcadica orami esangue. Non credo no, che pianga il padre Apollo Con le nove Sorelle e il Pindo stesso, Perchè sciolto d’Arcadia il gran consesso Non han più Tirsi e Cloe la cetra al collo; Nè credo ei pensi a’ fiori ascrei tracollo Arrechi il debol più che il forte sesso In questo grave secol di progresso, Di ciancie e di vapor non mai satollo. Chè se per fonda notta e talpe e allocchi, Dell’aquile emular tentando il volo. Movono a sdegno i più clementi Dei; Egli è pur ver che popolo di sciocchi, Muto di luce ancor non fia quel suolo ’Ve canta un Prati, e cantan Guacci e Orfei.54
Questo sonetto contiene una dichiarazione di poetica che prende le distanze dalla scuola arcadica del verso, per indicare altrove le possibilità della lirica. Il percorso di riflessione teorica, deducibile dalla prassi poetica e da questa sostenuto, spinge l’autrice al recupero di alcuni aspetti del canone della poesia classica italiana che la porta a esiti personali. Se in Prati l’ispirazione e le romanticherie confluisco-
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Ead., Al Giovane Poeta E. S., ivi, pp. 77-81. Ead, All’egregio Signor B. Scherzo, ivi, p. 181.
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no nell’espressione concentrata della forma classica in modo non sempre convincente ed efficace, e spesso giustapposto,55 in Joannini il classico è un riferimento estetico che non è meccanicamente acquisito quale vuota forma da riempire di nuovi contenuti. Anzi, l’accostamento di lingua aulica e comune, il processo di «sliricizzazione» del testo poetico, per restituire vitalità a metri poco usati e lunghi, come il decasillabo o il dodecasillabo che suggerivano il canto per la forte ritmicità, e infine l’assunzione rimeditata di moduli contenutistici e stilemi della tradizione trecentesca, soprattutto per la tematica d’amore, conducono la poeta al superamento della contrapposizione tra forma classica e contenuto romantico di tanta poesia coeva. Piuttosto, il prezioso della nomenclatura tecnica, solo occasionale, e la descrittività del verso avvicinano Joannini, per la ricerca di impianto classico di aderenza della parola al contenuto, all’altro romantico di seconda generazione, Aleardo Aleardi, rivolto a un classicismo romantico dagli schemi rinnovati. L’ironia è rivolta, per la seconda volta nel canzoniere, a chi si dedica alla scrittura in termini dilettantistici o di mestiere, e non è consapevole della qualità, dei limiti e dell’efficacia della propria poesia. La difesa delle donne, numerose nelle schiere arcadiche, accompagna la rivendicazione di parità fra i sessi nella responsabilità del deterioramento della poesia, così come del suo rinnovamento. Il nome della contemporanea Maria Giuseppa Guacci richiama un’esperienza lirica di segno classico e razionale.56 Si avverte in Joannini una tensione al classicismo illuminista di impronta progressista contro l’arretratezza.57 Tuttavia una concessione ai temi e alle ambientazioni della cultura arcadica esiste nel componimento Canto Pastorale.58 Mentre nel percorso a ritroso lungo la letteratura italiana che, nella visione dell’autrice, ha come vertice l’umanità di sentimenti e il decoro di Petrarca, e il rinnovamento poetico e ideologico di Dante, entrambi più volte citati nel canzoniere, l’autore che rappresenta il punto nodale di congiunzione tra l’epoca antica e quella moderna è Torquato Tasso. Per le celebrazioni della nascita del «Cigno di Sorrento», Joannini compone un canto59 che accoglie il comune sentire, secondo cui si riconosceva in Tasso un precursore romantico, per il meraviglioso e la magia, per
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Su Giovanni Prati sempre utili le considerazioni di C. De Lollis, Saggi sulla forma poetica italiana dell’Ottocento, editi a cura di B. Croce, Bari, Laterza 1929, pp. 55-78. 56 Sulla poeta napoletana F. De Sanctis, La letteratura italiana nel secolo XIX, vol.II a cura di F. Catalano, La scuola liberale e la scuola democratica, Bari, Laterza 1953, pp. 60-62. 57 Cfr. S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi 1965, pp. 1-40. 58 M. Joannini, Canto Pastorale, in Canti cit., pp. 63-66. 59 Ead., In occasione della Festa Secolare celebrata in Torino in onore di Torquato Tasso il dì 11 marzo 1844. Un voto, ivi, pp. 255-258, già nel volume collettaneo con lo stesso titolo, edito Torino, Marietti s.a. (ma 1844). 60 L’influenza di Tasso è tale da suggerire all’autrice, attenta a un discorso di tradizione VI. Italiane della (e nella) letteratura
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la natura e l’erotismo, per l’eroismo e la religiosità, per la conflittualità interiore e soprattutto per il senso di doloroso piacere contenuti ed espressi nella sua poesia.60 Inoltre, le due forme in cui si esprime prevalentemente il disagio in epoca romantica, la malinconia e la rivolta, vengono entrambe sentite proprie all’esperienza biografica e poetica di Tasso.61 La polemica classici-romantici appare quindi superata, sia perché il secondo momento della cultura romantica tende a confrontarsi più con le prospettive politiche che con le questioni di poetica, e si pone il problema dell’azione e dell’educazione nazionale, dando corso ad una letteratura militante che utilizza, con intenti pedagogici, generi e forme tradizionali per veicolare messaggi di indipendenza nazionale, oppure, al contrario, si adagia con evidenza su una produzione di maniera, estranea a problematiche e a conflitti. Sia perché Joannini acquisisce con equilibrio temi e modi romantici in un costante riferimento ai classici. Più in profondità, ciò che la differenzia dai suoi contemporanei, e della generazione precedente, è il sapersi porre fuori dai vincoli di una mentalità formata sul pensiero bipolare di coppie di opposti, di ascendenza aristotelica, come tesi e antitesi, gioia e tristezza, classico e romantico, per privilegiare invece un modello basato sulle affinità e le inclinazioni. 62 Modello e pratica che caratterizzano la poesia di Joannini in tutti i suoi aspetti e che le consentono di accedere agli esempi maschili della tradizione letteraria con autonomia e capacità di riappropriazione di forme e contenuti, e di accostarsi alle protagoniste della letteratura contemporanea e alle destinatarie della sua poesia con l’inclinazione alla somiglianza e all’identificazione. Questa attitudine può aver dato spazio, nella poesia, alla proiezione di desideri relazionali che se non hanno avuto concreta corrispondenza di legami, certamente hanno valorizzato la pratica poetica delle autrici note a Joannini attraverso la prassi della citazione, esplicita ed implicita, attraverso l’azione di riconoscimento poetico e di genere, creando genealogie, da cui le è derivata l’autorizzazione a pensarsi e a dirsi in quanto donna, poeta e patriota.
linguistica, l’adozione di termini scelti dal poeta, come il verbo elicere o l’aggettivo egro/egra, cfr. Ead., La Schiava, La Moriente cit., pp. 85, 108. 61 Sulla presenza di Tasso fra i romantici vd. M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Firenze, Sansoni 1996 (prima ed. 1930), pp. 38-43; A. De Paz, Europa romantica. Fondamenti e paradigmi della sensibilità moderna cit., pp. 113-114; sui mali del secolo, sono interessanti gli spunti e gli svolgimenti in M. Löwy, R. Sayre, Révolte et mélancolie. Le romantisme à contre-courant de la modernité, Paris, Minard 1992. 62 La distinzione fra un modello e l’altro è fatta corrispondere alle implicazioni maschili e femminili nell’opera di autori e autrici, nello studio sulle scrittrici romantiche inglesi di A. K. Mellor, Romanticism & Gender, New York & London, Routledge 1993, pp. 3-4. Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento
FRANCESCA FAVARO ‘Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara’ (e gli altri racconti greci di Angelica Palli)
La vita di Angelica Palli, che attraversa di fatto quasi tutto l’Ottocento,1 risulta, per qualche episodio, avventurosa al punto tale da sembrare romanzesca,2 ma appare soprattutto caratterizzata, nella stagione del Risorgimento italiano ed europeo, da un costante impegno culturale e civile.3 A contrassegnare tale impegno fu la consapevolezza, sempre nutrita da Angelica, di poter rivendicare una duplice identità, la coscienza cioè di vantare come sua patria l’Italia, terra natale, e nel contempo la Grecia, da cui provenivano i suoi genitori:4 regioni entrambe sottoposte,
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Nata a Livorno il 22 novembre 1798, Angelica vi morì il 6 marzo 1875. È nota la vicenda della sua unione (celebrata nel 1830) con il patriota corso Giampaolo Bartolommei: a questo matrimonio, che si riuscì a celebrare soltanto dopo la fuga dei due giovani, le famiglie si erano opposte sia per la differenza di credo religioso (Angelica seguiva la fede greco-ortodossa, Giampaolo era cattolico) sia per l’età della promessa sposa, maggiore di dodici anni rispetto a Giampaolo. 3 Angelica sostenne con fervore la partecipazione del marito (e poi del figlio) ai moti risorgimentali in Corsica e in Italia, arrivando a seguirli fino al campo di battaglia; inoltre, si dedicò a perorare la causa della libertà e dell’indipendenza sia tramite gli articoli pubblicati presso numerosi periodici (si rammentano le riviste «L’Italia» di Pisa, «Il Cittadino Italiano» di Livorno, «La Patria» di Firenze) sia grazie agli incontri che si svolgevano nel suo salotto livornese, centro propulsivo di cultura e di un’autentica “fede mazziniana”. 4 A entrambe le patrie di Angelica accenna, nel novero della produzione dell’autrice, il racconto Calliroe. In esso, tuttavia, tale duplice amore diviene motivo di turbamento e dissidio fra la fanciulla protagonista, il cui nome coincide con il titolo, e il fidanzato, che la famiglia manda a studiare a Pisa. Se il giovane, infatti, rimane affascinato dalla dolcezza austera della Toscana (e come non scorgere, nella sua rispettosa ammirazione per il paesaggio e la cultura d’Italia, un riflesso dell’orgoglio della livornese Angelica?), Calliroe percepisce la momentanea separazione come uno sradicamento dell’amato dall’unica vera patria, l’Ellade, e da lei stessa. 2
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durante la giovinezza e maturità dell’autrice, al dominio straniero. Dal privilegio di quest’origine, che donava ad Angelica, fondendolo nel suo sangue, il retaggio delle due gloriose tradizioni culturali del mondo classico, derivò in lei il senso di una responsabilità: difendere tale lascito, anche grazie alla pratica delle lettere, dall’avvilimento cui l’avrebbe condannato la sottomissione sul piano politico. È pertanto impossibile scindere la partecipazione di Angelica alle coeve vicende risorgimentali dalla sua attività di scrittice. Educata, sin dalla tenera età e con l’ausilio di autorevoli docenti,5 sulle pagine dei prosatori e dei poeti greci e latini (nonché sulle pagine dei maestri della letteratura italiana), Angelica, divenuta donna, quando impugna la penna non può che dar voce ed espressione a quello che, in verità, è un amore unico: l’amore per le sue patrie (Grecia e Italia) e la passione per le letterature da esse donate al mondo. E quando scrive (non per meri fini di propaganda e divulgazione), quando cioè compone i suoi racconti e le sue liriche, Angelica esprime il suo patriottismo in virtù anche dell’emulazione degli esempi poetici fioriti e consacrati nelle tradizioni greca e italiana. La sua scrittura, fitta di riecheggiamenti dei modelli greco-latini, diventa così uno dei mezzi con cui l’autrice porta avanti, a suo modo, la battaglia per la libertà condotta, nel XIX secolo, da tanti patrioti. Nel novero dei racconti di Angelica Palli6 molti, pertanto, appaiono “greci” secondo una duplice accezione: in ragione dell’argomento – le lotte per l’indipendenza condotte dagli Elleni contro i Turchi – e in ragione della filigrana culturale, di matrice evidentemente classica, che li struttura e intesse. Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara: un fiore di Grecia, per la Grecia Emblematico il caso del racconto lungo (o romanzo breve) Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara, edito nel 18277 e concepito al fine di sostenere, con i proventi ricavati dalle vendite,8 i patrioti di Chio insorti nel 1824.9
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Come riferisce Domenico Guerrazzi (1804-1873), concittadino ed estimatore di Angelica, a cui dedicò la Battaglia di Benevento, ella ebbe modo di acquisire dimestichezza con il greco antico, con il greco moderno e con le lettere italiane, anche sotto la guida del classicista Salvatore de Coureil. L’osservazione di Guerrazzi è riportata nei Cenni intorno alla vita ed agli scritti di Angelica Palli Bartolommei, a firma di O.C. Valsecchi, con cui si apre l’edizione dei racconti di Angelica apparsa per i successori, Firenze, Le Monnier 1876. 6 L’ultima revisione, per fini editoriali, dei racconti (se ne ricordano alcuni titoli: Ulrico e Elfrida, Memorie di Federigo, Memorie di Paolina, Eleonora, Elsa, La famiglia Roccabruna, Il gobbo di Santa Fiora) impegnò Angelica sino ad età avanzata; questa rilettura, interrotta dalla morte, si fermò alle Memorie di Paolina e i racconti apparvero, postumi, nel 1876, per l’editore Le Monnier, Firenze. 7 Come è noto, il 1827 risultò per l’Italia un anno fecondo di romanzi storici, ispirati, in VI. Italiane della (e nella) letteratura
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La difesa della causa greca viene qui realizzata non con un intervento giornalistico o dal taglio schiettamente propagandistico, bensì mediante la scelta del gene-
genere, al modello di Walter Scott. Oltre ai Promessi sposi di Manzoni (che propongono, se raffrontati con l’esempio inglese, tutt’altra interpretazione del genere) videro infatti la luce anche il Cabrino Fondulo, frammento della storia lombarda sul finire del sec. XIV e sul principiare del XV (scritto da Vincenzo Lancetti, venne stampato a Milano); la Sibilla Odaleta di Carlo Varese, uscito anonimo a inizio d’anno per i tipi di Antonio Fortunato Stella con il titolo Romanzo istorico di un italiano; il Castello di Trezzo di Giovan Battista Bazzoni e la Battaglia di Benevento di Francesco Domenico Guerrazzi. G. Bertoncini sottolinea l’importanza rivestita, per la diffusione del romanzo storico proprio nella città di Angelica, Livorno, dall’attività di Sansone Uzielli, collaboratore della rivista «Antologia»; lo studioso rimarca inoltre la funzione di un’editoria che già prima del 1827 aveva proposto, tradotti, due romanzi di W. Scott. Quando vede la luce l’Alessio di Angelica Palli, Livorno, «nella elaborazione della nuova forma-romanzo», sembra dunque già possedere «una postazione di avanguardia letteraria», Prefazione ad A. Palli, Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara, edizione critica a cura di G. Bertoncini, Livorno, Salomone Belforte 2003, pp. 5-29, pp. 8, 9, 10. Sul romanzo storico in Italia, si vedano gli Atti on-line del XII Convegno dell’ADI, Moderno e modernità: la letteratura italiana, Roma, 17-20 settembre 2008, Roma, a cura di C. Gurreri, A.M. Jacopino, A. Quondam. 8 Il racconto venne definito dalla critica, dopo la pubblicazione, un lavoro di «commovente filantropia» piuttosto che un’opera letteraria, e ritenuto pertanto meritevole dell’indulgenza da riservare a un testo concepito ed elaborato per scopi benefici (Giudizio intorno all’Alessio, in Antologia di Firenze, vol. XXVII, fasc. 75. Angelica non fu l’unica livornese che si sentì in dovere d’intervenire anche economicamente a sostegno dei patrioti greci. Livorno, città di spiccata tradizione filellenica, era infatti popolata da borghesi e commercianti animati da ardente spirito patriottico; «alcuni di loro uscirono persino irrimediabilmente impoveriti da quel frangente storico, a causa dell’entità del contributo economico da loro dato alla causa greca», A. Di Benedetto, recensione ad A. Palli, Alessio ossia gli ultimi giorni di Psara, edizione critica a cura di G. Bertoncini cit., in «Il Giornale storico della letteratura italiana», 2005, CXXII, 599, pp. 458-462, p. 458. 9 Situata nei pressi di Chios (a nord-ovest) Psara fu la patria di alcuni fra i maggiori combattenti per l’indipendenza greca (Kanaris, Apostolis, Nicodemus e Vratsanos); poiché nel 1820 aveva messo a disposizione degli insorti la sua flotta subì le durissime ripercussioni dei Turchi, che nel 1824 l’invasero. La violenza turca risultò devastante: il territorio venne dato alle fiamme, la popolazione decimata. Gli esiti del massacro (di circa trentamila abitanti ne sopravvissero tremila, e solo quattrocento rimasero a Psara), segnò profondamente l’isola, che tuttora è poco frequentata dai turisti. All’eroica resistenza di Psara e al tragico destino della sua gente si volse l’attenzione anche del patriota Dhionysios Solomos (autore dell’inno nazionale greco), che vi dedicò un poema; secondo un aneddoto, riportato dai primi biografi della Palli, Angelica stessa non lesinò a Psara un tributo in lingua greca, cantando in questo idioma la tragedia dell’isola. La traduzione in prosa italiana di quest’ode è riportata nel volume di G. Bertoncini, «Una bella invenzione»: Giuseppe Montani e il romanzo storico, Napoli, Liguori 2004, p. 256, nota 147. L’attenzione per il dramma del popolo greco nel periodo risorgimentale è testimoniato anche dall’ambito iconografico: si veda ad esempio il celebre dipinto di F. Hayez, Gli abitanti di Parga che abbandonano la loro patria, riprodotto nel volume 1861. I pittori del Risorgimento, a cura di F. Mazzocca e C. Sisi, con la collaborazione di A. Villari, Ginevra-Milano, Skira 2010, pp. 68-69. Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento
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re narrativo.10 Oltre il profilo dei Greci descritti nel racconto s’intravedono senza fatica le sagome dei combattenti di altre nascenti nazioni, animati dal medesimo slancio, e l’autrice mira dunque sia a descrivere uno specifico momento della storia greca, sia a trasmettere un messaggio estensibile alla condizione similare di altre genti.11 Grecità, per Angelica, è dunque sinonimo di qualunque patria si cerchi di riconquistare anche a prezzo del sangue; grecità, nel contempo, è sinonimo di cultura occidentale, sintesi di bellezza e di etica.12 Per Angelica Palli – una vera greca, sotto quest’aspetto –13 la patria (e, in virtù dell’appartenenza ad essa, la propria identità) viene definita dal confronto-scontro con lo straniero, con il “diverso da sé”. Il motivo del conflitto fra grecità e barbarie (o anche solo fra grecità e non-grecità), oltre che dominante in Alessio è infatti presente in molti racconti.14
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A suggerire la scelta dell’argomento, insieme al genere, fu l’ambiente culturale di Livorno, non solo particolarmente sensibile, come già si è detto, alla “novità” del romanzo storico, ma anche, come pure si è accennato, «sede di uno dei più ragguardevoli comitati ellenici» d’Italia; del resto, il «tema ellenico […] al centro del romanzo […] costituiva già un momento ragguardevole dell’universo poetico dell’autrice», G. Bertoncini, Prefazione ad A. Palli, Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara cit., pp. 10 e 11. 11 G. Bertoncini osserva che per il lavoro di Angelica risulta opportuno il titolo di «romanzo storico risorgimentale» proprio in virtù di «considerazioni e incitamenti indirizzati non solo al destinatario greco, ma anche a quello italiano», Una scrittrice e il romanzo storico: ‘Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara’, in Id., «Una bella invenzione»: Giuseppe Montani e il romanzo storico cit., pp. 141-183, p. 165. 12 Sul complesso concetto di “patria”, analizzato nelle varie accezioni con cui viene proposto e interpretato nel periodo fra XVIII e XIX secolo, si veda il volume di A. M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi 20113; si veda soprattutto il capitolo primo, Il «canone risorgimentale», pp. 3-55. 13 Tra i contemporanei era frequente l’attribuzione di caratteristiche greche (o meglio, delle caratteristiche appartenenti a celebri donne del mito e della storia greca) ad Angelica, sia per i suoi lineamenti (aveva occhi e capelli neri), sia per l’ascendenza familiare, sia per l’eccellenza nel campo delle lettere. Ricorreva infatti al tempo – e pertanto, con legittime motivazioni, venne conferito anche ad Angelica – l’epiteto di “nuova Saffo” per le rimatrici di qualche pregio; nel considerare poi l’ardore patriottico della Palli, che non solo non distoglieva i suoi cari dalla battaglia, ma anzi ve li spingeva, Domenico Guerrazzi commenta: «Certo a Giovampaolo Bartolommei non faceva punto mestieri eccitamenti: tuttavolta glieli diè la consorte, diversa in questo dall’antica Andromaca e più animosa di lei» (la frase viene riportata da O.C. Vallecchi nei Cenni intorno alla vita ed agli scritti di Angelica Palli Bartolommei cit.). 14 Nel racconto Il villaggio incendiato. Memorie di Lambro, l’alterità viene incarnata, così come in Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara, dalle popolazioni di religione islamica; in Un episodio dell’insurrezione greca del 1854, invece, a confermarsi ostile è un occidentale: un capitano inglese VI. Italiane della (e nella) letteratura
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Il tema, modellato sull’archetipo classico, ribadito da molteplici voci, dell’insanabile diversità culturale fra Greci e bavrbaroi,15 viene sfaccettato dalla Palli, volta per volta, grazie a una serie di incroci e intersezioni di piani, nonché presentato in un’ottica problematizzante che riesce fortemente moderna. È ad esempio significativo di una visione non semplicistica il fatto che in Alessio la difesa più strenua della Grecia e dei suoi valori (imperituri sebbene incrinati dall’umana fragilità) venga affidata a un personaggio di nascita non greca, bensì straniero. Si tratta di Eutimio,16 detto “il Solitario”, la cui effettiva provenienza solo Alessio conosce e che, senza fugare mai del tutto il mistero che ne avvolge il passato, conduce un’esistenza appartata in una sorta di eremo sulla spiaggia.17 Nonostante l’origine oscura proietti sulla trascorsa vita di Eutimio le ombre di vicende travagliate e dolori, nel momento in cui si dipana l’azione del racconto egli risulta un personaggio esemplare per maturità e saggezza: nella sua figura, ormai depurata dal torbido di personali passioni e interessi, sembra concentrarsi l’autorevolezza dei più antichi maestri della grecità; nelle sue parole pare di udire l’eco delle voci,
che, in luogo di cooperare alla causa greca, si uniforma alle indicazioni di politica imposte dal suo governo, alleato con l’impero ottomano, e così facendo tradisce Irene, la fanciulla che ama. I racconti greci qui menzionati vennero composti a distanza di decenni dal “capostipite” Alessio, quasi Angelica ambisse a ravvivare il fervore, ormai declinante in Europa, della solidarietà verso la Grecia straziata dalle guerre d’indipendenza (cfr., a riguardo, A. Di Benedetto, recensione ad A. Palli, Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara, edizione critica a cura di G. Bertoncini cit., p. 461). 15 Il motivo viene prevalentemente declinato dalle fonti antiche secondo la contrapposizione Ateniesi – stranieri (si veda ad esempio L’Epitafio per i caduti in difesa dei Corinzi di Lisia, 20 e ss.); la Palli recupera il motivo del contrasto culturale facendo però dell’Ellade intera, non della sola capitale dell’Attica, l’alternativa, sempre superiore e vincente, rispetto alle stirpi orientali. 16 Già il nome, che in base all’etimologia significa «degno di buona stima», ne suggerisce l’indole retta e saggia. 17 Eutimio, per la sua pacata autorevolezza, svolge la funzione di consigliere del giovane protagonista, che ama con orgoglio di padre. È infatti a lui che, in apertura di racconto, Alessio, appena ritornato sull’isola alla testa dei suoi legni, si rivolge. In calce all’edizione dei racconti del 1876, come già si è detto, viene riportato un giudizio sull’Alessio apparso nell’Antologia di Firenze (vol. XXVII, fasc. 75); nella recensione, a proposito di Eutimio si osserva che i suoi discorsi hanno talvolta un accento troppo marcatamente poetico «ma portano il pensiero sovra grandi oggetti e accrescono importanza al concetto morale di tutto il romanzo». Vi si annota inoltre che per tale personaggio – personaggio, secondo Bertoncini, «ideologico» (G. Bertoncini, Prefazione ad A. Palli, Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara cit., p. 20) – la Palli si ispirò probabilmente «a un personaggio vero [Santorre di Santarosa, morto a Sfacteria nel 1825] la cui memoria commuove profondamente gli animi di tutti gli amici della Grecia». Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento
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trasmesse lungo i secoli, di quei pensatori, politici e retori che resero grande l’antica Ellade. L’insegnamento dei classici viene dunque ripreso dall’autrice, nella definizione del personaggio di Eutimio, attraverso il filtro di una vicenda umana, pur solo accennata e ormai trascorsa, che tale insegnamento impreziosisce e avvalora poiché lo fa corrispondere a una conquista, a un modo di sentire e di pensare condiviso appieno solo dopo che si sono sperimentati il mondo e la sua inesauribile varietà. Solo una volta che tale esperienza sia stata compiuta, essa può anche venire rimossa, allontanata e giudicata inferiore a paragone della cultura greca. La vicenda di Eutimio, per il quale la Grecia è dunque una patria d’elezione e non di nascita,18 e la grecità una scelta dell’intelletto e del cuore invece che un dono della sorte, rappresenta uno dei tanti casi – ambigui e sofferti – di allontanamento da una patria in favore di un’altra (e, all’opposto, di ritorno alla propria patria, d’origine o adottiva) che affollano i racconti della Palli. In Alessio la storia di Eutimio s’oppone e s’intreccia – con un effetto di contrasto che diviene effetto di riverbero – alla storia di un amico di giovinezza, Ernesto, incostante nell’agire e nelle scelte: dopo aver militato nelle file greche come volontario, egli, sdegnato per un’ingiusta accusa di tradimento, aveva reagito con il macchiarsi effettivamente del crimine imputatogli, passando dalla parte turca.19 L’incontro fra i due antichi compagni, incorniciato dalla scrittrice nella grotta in cui pochi Psariotti, assediati dai nemici, riescono a trovare momentaneo rifugio, è drammatico. Eutimio (che riesce facile immaginare, in tale contesto, non solo rivestito dalla nobiltà morale, ma anche atteggiato secondo la postura di un oratore antico) replica alle spiegazioni di Ernesto con parole durissime: l’abbandono della causa greca, sebbene causato dall’onta subita nel sentirsi considerare un traditore, è una colpa sacrilega (non a caso risuona ripetutamente la parola «apostasia», opportuna principalmente per l’abiura di fede religiosa imposta dall’essersi schierato con i Turchi che per la sola defezione politico-militare): equivale infatti all’abbandono del «bello e del giusto»20 che della Grecia, invariabilmente e nonostante alcuni umani errori, costituiscono l’essenza.21
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Per quanto a definire l’idea di patria e nazione concorrano insieme elementi «naturali e culturali», A. M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita cit., la scelta di Eutimio mostra che talvolta, nel determinare la scelta della propria patria l’affinità con una tradizione culturale prevale sull’appartenenza geografica o biologica. 19 «Inscritto nella tipologia epica […] del traditore», condizionata a sua volta dall’archetipo «del rinnegato di origine biblica», il personaggio di Ernesto (come il personaggio di Eutimio, suo antagonista e interlocutore privilegiato) «incrocia un livello realistico ed uno simbolico», G. Bertonicini, Una scrittrice e il romanzo storico: ‘Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara’, in Id. «Una bella invenzione»: Giuseppe Montani e il romanzo storico cit., p. 168. 20 È il concetto che in greco antico viene riassunto nella parola kalokajgaqiva. 21 Si veda A. Palli, Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara cit., pp. 131-133 (pp. 103-105 dell’edizione datata 1827). VI. Italiane della (e nella) letteratura
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Costretto dal confronto con Eutimio e con Alessio a ricredersi sulla bontà della sua defezione, Ernesto finisce dunque per confessare, quasi involontariamente, la tenacia di un attaccamento alla Grecia mai realmente sopito, nonostante gli sforzi compiuti per rintuzzarlo e reprimerlo. Riconosce così la sua ammirazione, pur riluttante e contraddittoria, nonché offuscata dal rancore, verso i combattenti ellenici: Ma (domandò Alessio) quando vedevi i miei fratelli affrontar pochi le vostre migliaia, non sentivi alcun moto nell’anima? – Io gli ammirava senza cessare d’odiarli, ed anzi più mi sdegnava, vedendo che gli uomini più vicini al modello, che del vero patriottismo, io m’era creato colla fervida fantasia, ne fossero ancora tanto lontani…22
Se i Greci delusero Ernesto, pertanto, lo fecero poiché, nel contraccambiare la sua iniziale dedizione, si macchiarono d’ingiustizia, allontanandosi sia dal coraggio mostrato ogni giorno sul campo sia dalla virtù appartenente loro per antica tradizione. Da parte sua Ernesto, con il sovrapporre un personale risentimento agli ideali e alla cultura incarnati dai Greci, perse di vista ciò che davvero era giusto. Fu, il suo, un fuorviante errore di valutazione, una clamorosa forma di miopia intellettuale. In quest’errore Eutimio, al contrario, non cade mai, nonostante una limpida obiettività di sguardo gli faccia cogliere le debolezze – anch’esse antichissime – della civiltà ellenica, sempre minata (quasi si trattasse di un germe latente in un organismo pure armonioso) dal rischio della disunione: sì o Grecia, io voglio idolatrare i tuoi eroi, dimenticando che crebbero senza conoscer freno alle smoderate passioni. […] ma (e purtroppo ciò accadeva in Grecia anche ne’ tempi del maggiore incivilimento) il figlio del Peloponneso non sa persuadersi, che la sua prosperità sia indivisa da quella de’ Greci d’oltre l’istmo, e dell’isole; invano i sapienti, accorsi a far mostra di eloquenza al congresso nazionale, consigliano questa unione d’interessi, che i sublimi oratori delle auree età della Grecia consigliarono senza frutto ai loro coetanei civilizzati, e nonostante discordi anche più de’ semibarbari discendenti; quando però i Turchi piombano sulle città dell’Epiro, e delle altre contrade della Grecia, allora soltanto i Moriotti alla sete di vendetta che tutti gl’invade, si persuadono che gli Epirotti, e gli altri Greci son loro fratelli, e viceversa.23»
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Ivi, p. 134 (p. 106 dell’edizione con data 1827). Ivi, pp. 92-94 (pp. 64-66 nell’edizione del 1827). Concorde con il giudizio d’Eutimio si era del resto mostrato Alessio in uno dei primi colloqui avuti con l’amico (cfr. ivi, pp. 49-50; pp. 21-22 nell’originale). Sempre a Eutimio, poi, la Palli fa pronunciare un monito sulla necessità da parte dei popoli di conquistare da sé l’indipendenza che riporta alla memoria (cfr. anche A. Di Benedetto, recensione ad A. Palli, Alessio ossia gli ultimi giorni di Psara, edizione critica a cura di G. Bertoncini cit., p. 460) il manzoniano Adelchi: «guai alla nazione che fonda le sue speranze sopra i soccorsi promessi dagli stranieri, ponendo fiducia nelle altrui forze trascura le proprie e, come suol sempre accadere, abbandonata a sè medesima nel 23
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La contrizione di Ernesto lo assimila nuovamente ai suoi vecchi compagni e lo fa così rientrare nei ranghi del “bene”, che i Greci, secondo la schematizzazione del racconto, rappresentano (per quanto, come si è già detto, anche il bene della parte greca risulti a tratti incerto e manchevole). Così come, nei vari discorsi di Eutimio, le doti e le mancanze dei Greci vengono illustrate con la conferma e l’appoggio delle testimonianze classiche, anche la differenza fra la civiltà ellenica (cui ora Ernesto non può che voler ritornare) e il mondo islamico viene sottolineata dalla Palli con il ricorso ai topoi più frequenti, nell’oratoria e nella storiografia greche, per l’esecrazione del barbaro giunto dall’Oriente. Scandiscono quindi il racconto le allusioni alla vigliaccheria dei Turchi – un’intrinseca codardia usa, però, camuffarsi da protervia contro i deboli –24; all’apparenza di una forza basata non sul coraggio ma sul numero; alla mollezza tipicamente orientale:25 quando i nemici approdano sull’isola, per accentuare la difficoltà della prova cui gli Psariotti saranno sottoposti la Palli scrive: «Non hanno a fronte i molli abitanti dell’Asia, le truppe da sbarco, ammontanti a 12 mila soldati son quasi tutte composte di Albanesi ai quali un resto di greco sangue scalda le vene, e li rende i meno imbelli tra i seguaci dell’islamismo; pure tentano inutilmente metter piede a terra; i Greci li respingono e ne fanno strage».26 Il fulcro del racconto è dunque costituito dall’esplorazione e indicazione di cosa davvero significhi – in termini di obblighi soprattutto morali – essere Greci o scegliere di diventarlo. Ma se mantenersi fedeli a tali obblighi risulta difficile per chi, come Ernesto, non sia greco di nascita, la debolezza insidia anche coloro che furono privilegiati dalla nascita in Grecia e vissero sempre sotto il cielo di Grecia. Il cedimento a una seduzione straniera, “barbara” (cedimento che equivale a una deroga da se stessi), viene incarnato, nel lungo racconto di Angelica Palli, da una figura femminile: sono infatti l’incontro fra Alessio e una prigioniera e la reciproca vicinanza che, traducendosi in un amore impossibile, consentono all’autrice
momento del pericolo, si trova inabile alle difese e soccombe. Sia base d’ogni piano de’ Greci questa riflessione: siam soli, e basterem contro tutti; credilo a me cui una fatale esperienza dà il dritto di proclamar tale assioma, guai a chi spera in altri che sè medesimo! guai alla nazione che spera libertà, non acquistata a prezzo del proprio sangue…», ivi, pp. 88-89; pp. 60-61 dell’originale. 24 «I Turchi sono audaci coi Greci inermi, e timide lepri in faccia a gli armati» afferma Alessio con disprezzo, ivi, p. 126; p. 98 dell’edizione del 1827. 25 Nel trattatello di Ippocrate, Arie, acque e luoghi, la mollezza tipica degli Asiatici – e che li indebolisce nonostante il numero dei loro eserciti – è ricondotta principalmente alla morfologia del territorio in cui essi vivono. 26 Ivi, pp. 112-113 (pp. 84-85 dell’originale). VI. Italiane della (e nella) letteratura
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di rappresentare, attraverso intime contraddizioni e tormenti, la difficoltà di essere Greci fino in fondo, e dunque degni del retaggio e dei valori in nome dei quali si combatte. Il racconto, si è detto, viene aperto dal ritorno a Psara di Alessio, che deve meglio attrezzare le sue navi, in attesa di raggiungere la flotta greca stanziata presso il porto d’Idra; grazie a tale rientro nell’isola Alessio si ricongiunge alla sua promessa sposa, Evantia; conduce però con sé una prigioniera, Amina, moglie di Selim, agà di Scala Nova. Sullo sfondo di un’isola asserragliata dal terrore nell’attesa dello scontro imminente, si viene così a formare un sofferto triangolo amoroso. La concentrazione della vicenda intorno a tre personaggi – Alessio, Evantia, Amina – non può non rammentare la struttura di una tragedia greca.27 Spetta poi a Eutimio il ruolo di consigliere e guida del protagonista, e a una nutrice, Sebastì, che svolge il suo ruolo con risultati alterni, oscillanti fra bene e male (anche in questo caso, secondo tradizione)28 il compito di occuparsi di Evantia e al contempo di prendersi cura della straniera Amina. Due fra i tre personaggi, Alessio e Amina, mostrano riluttanza (e al contempo impotenza), verso un sentimento avvertito dalla ragione e dal buon senso come sbagliato, ma indomabile. L’unica a rimanere uguale a se stessa è Evantia, fidanzata
27 Lo nota il (già citato) primo recensore del racconto, che, compiaciuto per la limpidezza della trama, d’impronta greca, aggiunge: «Quest’orditura, come ciascun vede, è di pochissime fila, e dovrebbe piacere agli amatori della greca semplicità. Dovrebbe anche piacer loro il trovare nel romanzo, come in una greca tragedia, pochissime persone». Sulla «coazione drammatica» che spinge l’autrice a definire secondo canoniche modalità tragiche spazi e tempi del suo racconto, articolato in scene brevi e contrassegnato dalla preferenza per il dialogo, cfr. G. Bertoncini, Una scrittrice e il romanzo storico: ‘Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara’, in Id. «Una bella invenzione»: Giuseppe Montani e il romanzo storico cit., pp. 148 e 170. Non mancano elementi o scene da tragedia classica anche in altri racconti di Angelica (che del resto si dedicò al teatro con il Tieste e con il dramma lirico Saffo). Spicca ad esempio per intensità drammatica, nel racconto Un episodio dell’insurrezione greca del 1854 (cfr., al riguardo, la nota 14), la scena in cui Irene, greca sposata a un ufficiale inglese colpevole di non aver sostenuto adeguatamente gli insorti, ora suoi congiunti, si accosta al letto funebre del padre. Consapevole, ormai, dell’irreparabilità del tradimento compiuto dal marito Edoardo, Irene si inginocchia vicino al catafalco e, rivestendosi appieno della sua grecità, dichiara che il padre, dall’Oltretomba, può ora tornare a benedirla poiché ella rinnega colui che, nonostante le nozze, si è confermato straniero e avversario. Con questa dichiarazione, recidendo ogni nuovo legame contratto, Irene torna nell’abbraccio della sua vera famiglia, in una convinta ed esclusiva appartenenza alla Grecia. 28 Si veda, sull’argomento, il contributo di F. Mencacci, La balia cattiva: alcune osservazioni sul ruolo della nutrice nel mondo antico, in Vicende e figure femminili in Grecia e a Roma (Atti del Convegno, Pesaro, 28-30 aprile 1994), a cura di R. Raffaelli, Ancona, 1995, pp. 227-237.
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di Alessio, che al suo ritorno gli offre inalterata l’azzurra carezza dello sguardo. Ma sul cuore del giovane pesa l’ombra nera degli occhi di Amina.29 La prima immagine della prigioniera, nobile nonostante lo stato di soggezione, ricorda i passi degli storiografi che hanno tramandato l’incontro fra Alessandro, trionfatore del Re dei Re, e la figlia del satrapo della Battriana, Roxane, poi scelta dal sovrano quale sua sposa.30 Ritta accanto ad Alessio e orgogliosa quanto una principessa di sangue reale, Amina accarezza però nel cuore confuse speranze e tenerezza; questa tenerezza, riecheggiante nell’animo del giovane, sembra da subito far sbiadire in una pallida reminiscenza gli occhi di Evantia: Amina moglie di uno dei primarj Agà di Scala nova, e prigioniera d’Alessio, stava muta al suo fianco […]. Vesti rilucenti d’oro lasciavano trasparire tutta l’eleganza della sua forma; aveva nei lineamenti del viso non la regolarità della bellezza, e non quell’aria di capriccio, indizio della leggerezza della mente, e del nulla dell’anima, ma quei tratti marcati, che indicano esservi qualche cosa di straordinario nell’individuo che li possiede. Alessio fissava i suoi negli occhi nerissimi della prigioniera, e in quei momenti la memoria degli azzurri languid’occhi della tenera Evantia si dileguava dalla sua mente […].31
La descrizione del legame che unisce il guerriero vincitore alla prigioniera, bottino di guerra, vanta molteplici esempi nella letteratura classica, sin dall’omerica Iliade, introdotta dal motivo dell’ira accesa in Achille dalla sottrazione, a opera di Agamennone, di Briseide, schiava prediletta. A questa (imprescindibile) reminiscenza antica si deve poi aggiungere la suggestione esercitata su Angelica dalla Gerusalemme liberata: nel poema di Tasso, autore molto amato dalla scrittrice,32 la principessa saracena Erminia, catturata dal cristiano Tancredi, ama colui che dovrebbe considerare un nemico. Esattamente come il cavaliere tassiano, che libera la sua prigioniera dopo averla trattata con riguardo, anche Alessio offre la libertà ad Amina, ottenendo in cambio, tuttavia, un rifiuto già corrispondente a una dichiara-
29
Il rilievo conferito dalla Palli al colore degli occhi non è un mero ornatus, bensì una simbolica anticipazione dell’indole dei due personaggi: devota e tersa come un cielo sgombro di nubi appare Evantia; orgogliosa e appassionata, seducente e ombrosa, Amina. 30 Descrivono quest’incontro, sia pure con numerose varianti, Arriano nella sua Anabasi di Alessandro (IV, 19, 5); Plutarco nella vita dedicata al condottiero macedone, 47, 7; Curzio Rufo nelle Storie di Alessandro Magno, VIII, 4, 23-24. 31 A. Palli, Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara cit., pp. 34-35 (pp. 5-6 dell’originale). 32 Conferma questa predilezione anche la raccolta di liriche di Angelica, edita nel 1824, a Livorno, dallo stampatore Glauco Masi e sfumata, soprattutto nei componimenti amorosi, da una dolente malinconia d’impronta tassiana. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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zione d’affetto;33 a differenza della fanciulla cantata da Tasso, peraltro, Amina non mostra un temperamento incline allo struggimento e alle lacrime, bensì dissimula dietro riserbo e alterigia i suoi desideri e le sue emozioni.34 Amina nutre verso Alessio un attaccamento – fiero e ritroso, altalenante fra momenti di abbandono e d’orgoglio – che si può far coincidere con l’attrattiva esercitata su di lei dalla cultura greca, scoperta grazie ad Alessio e attraverso Alessio. Avvezza, secondo gli usi islamici, a godere nell’harem la predilezione distratta di un marito-padrone, in Alessio Amina scorge l’occasione di una differente realizzazione del suo essere donna. Il greco Alessio, il cristiano Alessio, è infatti in grado di offrire amore e rispetto esclusivi, può scegliere un’unica compagna per la sua vita: nel vagheggiamento di tale condizione Amina vagheggia dunque, per quanto non ne sia del tutto conscia, l’appartenenza alla civiltà greca. Incapace di scindere questo desiderio dalla persona di Alessio, Amina dichiara che per lui (e per lui soltanto) accetterebbe di farsi cristiana. Il ripudio della propria identità religiosa e culturale in nome di un uomo parrebbe dunque confermare Amina nella sottomissione a un maschio dominante ma, di fatto, se l’apostasia venisse compiuta sarebbe compiuta anche la liberazione della fanciulla: avrebbe cioè inizio il suo riscatto entro un contesto di cui la donna è protagonista e non solo ancella.35 Il
33
Cfr. A. Palli, Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara cit., pp. 52-53; 24-25 nell’edizione del
1827. 34 Sia per la sua indole sia per la sua fede poi tentata dalla conversione al Cristianesimo, Amina viene accostata da Bertoncini a un’altra eroina tassiana: Clorinda (Una scrittrice e il romanzo storico: ‘Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara’, in Id. «Una bella invenzione»: Giuseppe Montani e il romanzo storico cit., p. 158); è opportuno tuttavia paragonarla anche ad Armida, l’incantatrice della Gerusalemme liberata: sebbene sia priva di calcoli e spregiudicatezza, Amina, infatti, esercita su Alessio la medesima fascinazione con cui la maga di Tasso avvolge Rinaldo. Si deve inoltre ricordare un’altra eroina di Angelica Palli che, quanto e forse più di Amina, richiama Clorinda. Si tratta di Zulmé, protagonista del racconto Il villaggio incendiato. Memorie di Lambro. Fanciulla musulmana che si traveste da uomo per vendicare il marito ucciso dai Greci (e che sotto queste spoglie si macchia di un orrendo crimine, avvelenando dodici soldati), Zulmé appare simile a Clorinda non solo per il destino di guerriera da lei scelto e per le spoglie maschili in cui si cela, ma anche e soprattutto per un’origine (sua madre, come i genitori di Clorinda, era cristiana) che all’inizio della narrazione sembra remota e insignificante, ma che infine risulterà per lei salvifica. La conversione di Zulmé, successiva alla strage da lei compiuta in nome del marito e della fede che credeva propria, si ispira all’episodio in cui Clorinda, ormai morente, riceve da Tancredi il battesimo che le apre le porte del Paradiso. Posta di fronte alla verità della sua nascita dall’incontro con un venerabile vegliardo, il sacerdote che le salva la vita, Zulmé sarà poi affidata ad altre donne che la guideranno alla riscoperta delle sue origini, restituendole così la sua identità cristiana: nove suore, dedite ormai all’esclusivo amore (e alla preghiera) per la patria. In questa patria, dunque, Zulmé sarà nuovamente accolta e salvata. 35 A favorire la conversione di Amina è Sebastì, la nutrice di Evantia. La donna interviene
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turbamento che pervade Amina nasce dunque non soltanto dall’amore per Alessio, quanto piuttosto dal fatto che tale amore equivale a una percezione del diverso, un diverso che sconcerta e perturba mentre attrae. Anche la fascinazione che Alessio subisce da Amina è indubbia.36 Ciò nonostante, il fremito della passione accesa dalla straniera deve arrendersi di fronte a Evantia e a ciò che ella rappresenta. E la vittoria che Evantia infine riporta, nel cuore del giovane patriota, rispetto alla rivale, deriva non da un suo specifico e peculiare pregio di donna, bensì dal suo identificarsi con la patria, con la madre terra.37 L’equiparazione fra Evantia e la Grecia è una naturale garanzia di superiorità, al punto tale che l’autrice, insistente nel sottolineare i risvolti positivi della personalità di Amina, non si preoccupa di assicurare con altrettanta evidenza la dignità di Evantia, «quasi che per quest’ultima essa debba essere intesa dal lettore come un dato implicito, costituzionalmente assicurato».38 Che Evantia rappresenti la patria è dimostrato da un’immagine floreale, frequente nel racconto. Evantia e Alessio si appartengono poiché nati da un medesimo ceppo, cresciuti sul medesimo suolo. Il mirto e la rosa coltivati nel piccolo giardino della fanciulla sono quindi il corrispettivo della fanciulla e del suo Alessio. All’indissolubilità di questo legame, forte e definitivo come la natura e la terra, Angelica Palli non allude mediante simboli o cenni indiretti; piuttosto lo dichiara con semplicità, nel momento in cui i due giovani sono l’uno accanto all’altra: Egli la trovò nel piccolo giardino ove si dilettava coltivare i più bei fiori a dispetto dell’aridità del terreno. Nel dolcissimo viso della vergine stava scolpito l’animo mite e gentile, e l’azzurro de’ suoi occhi era più vago, che l’azzurro del bel cielo, sotto cui
nei rapporti fra i tre giovani mossa da intenti lodevoli (in questo caso, a suo parere, ottenere la salvezza di un’anima altrimenti perduta); così facendo, con le sue pressioni e ingerenze, determina però spesso equivoci e inasprimenti dei contrasti. Per questi tratti caratteriali e comportamentali Sebastì si uniforma a un frequente modello tragico di nutrice che, con le sue iniziative, scatena o acuisce difficoltà e problemi (cfr., in merito, la nota 28). 36 Osserva Bertoncini che la Palli, nel definire il complesso carattere di Amina, si mostra «attenta ad allontanare [da lei] ogni sospetto di responsabilità nei riguardi della passeggera accensione di Alessio, la cui passione non muove da arti seduttive della donna, ma da una subitanea attrazione», Prefazione ad A. Palli, Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara cit., p. 19. 37 Sull’allegoria della patria come una donna e una madre, cfr. A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita cit., pp. 66-68. 38 Prefazione ad A. Palli, Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara cit., p. 19. Quest’implicito riconoscimento di superiorità a Evantia sfuggì ai primi critici del racconto, inclini piuttosto a giudicarla debole rispetto ad Amina, che sacrifica la vita per salvare Alessio dalla lama del nemico. Inoltre Amina, di cui Angelica illustra i tormenti interiori, le incertezze ed esitazioni, parve un personaggio meglio riuscito di Evantia, che presenta meno sfaccettature psicologiche poiché più “in equilibrio” e pacificata con se stessa. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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nacque. Additò all’amante un mirto e una rosa, i quali intrecciati l’uno con l’altro parean nascer dalla stessa radice, furono piantati dalle mie mani (gli disse), quand’io diceva: il mirto è il mio fiore, la rosa è il mio, rispondevi; vedi, qui crescono insieme, e ogni giorno inaffiandoli io prego il cielo di tener unite l’anime nostre, come uniti stanno i rami di queste piante.39
E se qualche fiore sembra profumare maggiormente del mirto delicato,40 la sua fragranza non si può diffondere se non per qualche attimo, poiché altra fu la zolla da cui tale fiore nacque e su cui crebbe. La rinuncia alla passione – una passione sacrificata al dovere – viene dichiarata da Alessio ad Amina con un’esclamazione dolente che, sottolineando la diversità d’origine da cui egli è obbligato ad amare maggiormente Evantia, fa corrispondere il bene verso la promessa sposa al bene verso la patria: Perchè, esclamò il giovine, non sei tu nata sopra il mio scoglio!.. io avrei amata te prima, te sola, e Evantia sarebbe felice con altro sposo. – Mi avresti amata!… ed io t’amerei come nessuno può amarti,… ma…. doveva esser così! –41
Evantia, più che una donna, è pertanto la Grecia. La visione del suo volto forse
39
A. Palli, Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara cit., pp. 54-55 (pp. 26-27 nell’edizione origi-
nale). 40 Lo confessa Alessio in persona, che pure si volge al mirto per rafforzare il suo bene verso Evantia. Nel medesimo istante in cui riconosce tale amore, il giovane avverte comunque una mancanza pungente e tormentosa, avverte l’assenza di un più acuto, inebriante sentore: avverte l’assenza di Amina, l’esotico fiore sbocciato in una regione lontana e diversa. «L’ora del vespro non era ancor giunta, e una forza irresistibile avea già strappato Alessio ad ogni altra cura; smanioso, pieno di rimorsi scese nel giardino della sua casa, e s’accostò a un mirto, la pianta prediletta d’Evantia, e il simbolo del suo carattere dolce e affettuoso: Riempimi, esclamò odorandolo, della pura voluttà che tu inspiri, la tua fragranza è soave come l’amore d’Evantia, come quello che destò nel mio petto! Ne svelse un ramo e tornò a passeggiare: Ma tu non sei che dolce (soggiunse) la dolcezza non può soddisfarmi, ti amo, pur sento che non mi basti, ho bisogno talvolta d’una fragranza che scuota con violenza i miei nervi, che signoreggi su tutte le potenze dell’anima… oh Amina! il fiore che ha fragranza così forte e potente, quello è il tuo fiore; io la domino l’ingenua vergine, ma tu sola puoi dominarmi!», ivi, pp. 102-103; pp. 74-75 dell’originale. E l’abbandono del ramoscello, di lì a poco, da parte di Alessio indica che, sia pure per breve tempo, viene concesso spazio alla passione per Amina (cfr. G. Bertoncini, Una scrittrice e il romanzo storico: ‘Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara’, in Id. «Una bella invenzione»: Giuseppe Montani e il romanzo storico cit., p. 180). Il ramoscello di mirto e, più in generale, i mazzi di fiori, rivestono inoltre notevole importanza nel romanzo, poiché, còlti e donati da mani diverse, formano il sillabario di quel muto dialogo d’amore, gelosia e pentimento che si intreccia, si spezza e si riallaccia fra i tre giovani. 41 A. Palli, Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara cit., pp. 62-63 (pp. 34-35 dell’originale); mia la sottolineatura con il corsivo.
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per un istante si appanna, si offusca nella mente del giovane uomo – del giovane guerriero, del patriota – che la ama… ma non viene cancellata, mai. Non a caso, per rassicurare la fanciulla sul suo affetto e al contempo per omaggiarla, Alessio ricorre a una dichiarazione d’amore in cui la lode della bellezza sfuma nella rievocazione di un comune patrimonio di memorie: «No, no cara Evantia; benchè sii tu la più bella fra le vergini di Psara, benchè spesso il pellegrino di lontani paesi abbia esclamato, fissandosi nel tuo soave viso: felice chi sentirà i palpiti di quel seno! – non è la bellezza l’amo a cui mi prendesti, nè maggior bellezza potrebbe a te togliermi mai. Tutte le mie memorie son tue, tutte le lagrime che versai finora, o scorsero per te, o da te furono rasciugate, il mio amore è la tua felicità, e questo amore ti tradirebbe? no, non temerlo, io son tuo. –».42
Le comuni memorie di Alessio ed Evantia sono anche, naturalmente, memorie legate alla loro patria; le lacrime versate e asciugate scorsero anche per la patria, le cui sorti unirono (e solo momentaneamente divisero) i due giovani… È inoltre interessante cogliere in questa dichiarazione d’amorosa fedeltà l’eco della più antica poesia che il mondo cui Alessio ed Evantia appartengono, il mondo greco, abbia mai conosciuto: la poesia omerica. L’esclamazione celebrativa del viaggiatore che sospira di (rispettoso) desiderio per Evantia, immaginando la beatitudine di colui che godrà del suo amore, ricorda infatti l’apostrofe rivolta da Ulisse, naufrago sulle coste dell’isola dei Feaci, a Nausicaa: «Ma se tu sei mortale, di quelli che vivono in terra, / tre volte beati il padre e la madre sovrana, / tre volte beati i fratelli […]. / Ma soprattutto beatissimo in cuore, senza confronto, / chi soverchiando coi doni, ti porterà a casa sua» (Odissea, VI, vv. 153-155 e 158159).43 Il tema dell’appartenenza a una cultura e a una civiltà viene dunque presentato, nel racconto Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara, come una scelta in ogni modo dolorosa, che si tratti di una conferma o di una scoperta di sé. Tale è la difficoltà vissuta da Alessio, che per un attimo viene tentato (solo tentato!) di abbandonare l’unica forma d’amore che gli sia lecita, tale la difficoltà vissuta da Amina, che troppo tardi scorge in un uomo ciò che nel profondo del suo cuore vorrebbe essere. Il personaggio immune da qualsiasi dubbio o tentazione di tal genere è quello di Evantia:44 la fanciulla rappresenta infatti la limpidezza dell’Ellade che si specchia in
42
Ivi, pp. 98-99 (pp. 70-71 del volume del 1827). Omero, Odissea, con prefazione di F. Codino e versione di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi 1963, p. 165. 44 Le inquietudini di Evantia sono suscitate soltanto da amorosa gelosia, non derivano dalla messa in discussione della sua realtà di donna. Perciò, Evantia è diversa non solo da Amina, ma anche dalle già citate protagoniste di altri racconti greci di Angelica Palli, la cui 43
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sé senza mai avvertire l’esigenza di guardare altrove, e risulta, alla stregua dei boccioli coltivati nel suo giardino, un puro e schietto fiore di Grecia.45 E anche il lungo racconto greco di Angelica Palli, animato dal respiro di un patriottismo antico e nuovo quanto l’Ellade che lo ispirò, racconto intessuto di rimandi alla grande letteratura greca (dalla tragedia all’oratoria all’epos) non è, in fondo, altro che questo: un omaggio consacrato alla Grecia grazie a una scrittura memore delle fonti classiche; una ghirlanda formata da variegati petali di Grecia: un fiore di Grecia, un fiore per la Grecia.
identità viene comunque contrastata dal confronto e contatto, soprattutto amoroso, con l’“altro”. 45 Nessun fiore che vi sia nato, del resto, può essere trapiantato lontano dalla Grecia. E nessun fiore di Grecia può resistere allo strappo da ciò che ama, come dimostra la vicenda di Calliroe, momentaneamente divisa dal fidanzato (si veda la nota 4), o la storia di Irene (il richiamo è alle note 14 e 27), che erroneamente ritiene di poter amare chi si mostrerà indegno della sua fiducia nel momento della lotta. Agli occhi di Angelica Palli (come dimostrano, del resto, anche le sue personali vicende) l’amore verso un uomo o una donna corrisponde all’amore per la patria, e non può che venir condiviso sul medesimo suolo. Senza questo tipo di unione il destino impone un’intollerabile nostalgia, il desiderio di un ritorno impossibile. Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento
LAURA FORTINI Racconti d’amore e di guerra (Percoto, Manzini, Morante, Brin)*
Coglie un nesso indiscutibile Franco Moretti quando osserva che con l’irrompere delle guerre totali nella storia del Novecento non è più possibile parlare di romanzo di formazione, almeno nei termini che il Bildungsroman aveva così serenamente delineato:1 a fronte della deflagrazione della possibilità di divenire adulti per i giovani uomini cade infatti anche la possibilità di una narrazione lineare di quanto la guerra riduce al grado zero di comprensione e narrabilità, «perché la guerra ucci-
* Vorrei ringraziare Adriana Chemello e Luisa Ricaldone per aver prefigurato e conseguentemente proposto una scena letteraria animata, anche per l’Adi, dalle scrittrici; e rendere loro merito e riconoscimento per la magistralità del lavoro di ricerca e di didattica – perché le due cose non vanno mai disgiunte – svolto nel corso di questi anni da entrambe, sia singolarmente che insieme, certamente insieme nell’impresa della costruzione della Società Italiana delle Letterate (www.societadelleletterate.it), che abbiamo contribuito a costituire e a far crescere dal 1995: società che ha tra i suoi meriti l’aver dato origine a una critica letteraria a firma di donne in Italia al punto che è oggi possibile in questo contesto prefigurare scene letterarie con una articolazione di complessità fino a qualche anno fa impensate. Entrambe ricercatrici, Adriana e Luisa, e vorrei anche a questo proposito spendere qualche parola, dopo agitazioni universitarie che nulla hanno ottenuto, se non, almeno, il ridare luce e giusto orgoglio a una parola, «ricercatrice», «ricercatore» ridivenuta preziosa anche se ormai ad esaurimento: non è molto, anzi, ma se le parole hanno un senso – e tutto sommato siamo qui per questo – è bene ricordare quanto l’Italia debba a chi ha fatto ricerca e didattica con amore per una istituzione che non sembra averne molto neanche per se stessa. Anche questi sono racconti d’amore – amore per la cosa pubblica, per il bene comune, come oggi si usa dire. 1
F. Moretti, «Un’inutile nostalgia di me stesso». La crisi del romanzo di formazione europeo, 18981914, in Id., Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi 1999, pp. 257-273; rispetto la fortunata proposta critica di Franco Moretti si veda Il romanzo del divenire. Un Bildungsroman delle donne?, a cura di P. Bono e L. Fortini, Pavona (Albano Laziale-Roma), Iacobelli 2007. Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento
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Laura Fortini
de davvero, e invece di rinnovare l’esistenza individuale ne decreta l’insignificanza».2 Il racconto, anche sotto forma di diario quotidiano, sembra essere nella sua frammentarietà uno dei pochi modi per narrare qualcosa che sfugge all’umana ragione, come accade nel bellissimo memoriale di Carlo Betocchi su Caporetto,3 di Sergio Solmi su Vittorio Veneto,4 per arrivare alle pagine di Giacomo Debenedetti sul 16 ottobre 1943 pubblicate nel 1944 sulla rivista diretta da Alba de Céspedes «Mercurio» in forma di diario,5 come quelle scritte da Gadda nel corso della prima guerra mondiale nel Giornale di guerra e di prigionia.6 I Racconti della guerra civile di Beppe Fenoglio7 in questo contesto si rappresentano in forma di precipitato prima che esso assurga alla forma epico-narrativa del Partigiano Johnny, decantato dal lungo lavorìo dell’autore intorno ad essi per depurarli anche dalla forma memoriale: al punto che Luca Bufano ne ha individuato la forma costitutiva in quella metaforica punta di iceberg di hemingwayana definizione che fa sì che essi si rappresentino come la narrazione di un fatto, un solo fatto di una certa importanza, rispetto cui, nella forma del narrar breve, prevale la sintesi piuttosto che l’analisi.8 E ancora, caratteristiche del racconto sono l’intensità, la compattezza, la soppressione spietata di tutto ciò che non è strettamente necessario alla narrazione, al punto che quando non si ha questo tipo di struttura, osserva Bufano, si è di fronte a un bozzetto, una scena, un frammento, ma non a un racconto.9
2
F. Moretti, «Un’inutile nostalgia di me stesso»… cit., p. 257. C. Betocchi, L’anno di Caporetto (1931), in Racconti italiani del Novecento, a cura di E. Siciliano, I, Milano, Mondadori 2001, pp. 984-1014. 4 S. Solmi, Nel cinquantenario dell’armistizio (1984), in Racconti italiani del Novecento cit., I, pp. 1016-1022. 5 G. Debenedetti, 16 ottobre 1943 (1944), in Racconti italiani del Novecento cit., I, pp. 11151148. 6 C.E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, in Id., Opere, ed. dir. da D. Isella, Saggi Giornali Favole e altri scritti, II, a cura di C. Vela, G. Gaspari, G. Pinotti, F. Gavazzeni, D. Isella, M.A. Terzoli, Milano, Garzanti 2008, pp. 431-867. Per un discorso critico sulle scritture della guerra (a firma solo di uomini, però) il riferimento è a A. Cortellessa, Fra le parentesi della storia, in Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima Guerra mondiale, a cura di A. Cortellessa, Milano, Mondadori 1998, ma si veda il volume nel suo insieme; A. Casadei, La guerra, Bari, Laterza 1999; A. Casadei, Romanzi di Finisterre. Narrazione della guerra e problemi di realismo, Roma, Carocci 2000; A. Casadei, Guerra/Pace, in Dizionario dei temi letterari, dir. da R. Ceserani, M. Domenichelli, P. Fasano, II, Torino, Utet 2007, pp. 1072-1084. 7 B. Fenoglio, Racconti della guerra civile, in Id., Tutti i racconti, a cura di L. Bufano, Torino, Einaudi 2007, pp. 3-206. 8 L. Bufano, La punta dell’iceberg: il racconto breve come genere letterario, in Id., Beppe Fenoglio e il racconto breve, Longo, Ravenna 1999, pp. 21-35, poi ripreso in L. Bufano, Le scelte di Fenoglio, in B. Fenoglio, Tutti i racconti cit., pp. V-XLIV. 9 L. Bufano, La punta dell’iceberg: il racconto breve come genere letterario cit., p. 28. 3
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La questione è però ben diversa per come si rappresenta nei racconti dedicati alla narrazione della guerra dalle scrittrici italiane nell’arco quasi di un secolo, in cui la tensione narrativa è diversamente strutturata: non si è di fronte alla narrazione di un solo fatto, non prevale la sintesi – ma la compattezza sì – e neanche la soppressione spietata di quanto non necessario alla narrazione, senza però che con ciò si sia di fronte a una scena, un frammento, un bozzetto, come in più e più occasioni ritenuto per parte di un giudizio critico dimidiato sempre all’opera nei confronti delle scrittrici italiane. Certo non ha alcuna delle caratteristiche bozzettistiche o frammentarie lo strepitoso racconto di Caterina Percoto, La coltrice nuziale,10 che oggi è possibile leggere compiutamente grazie alle belle cure di Adriana Chemello: si tratta innanzitutto di un racconto lungo e non breve, che narra l’orrore e lo sterminio delle guerre risorgimentali nelle loro realtà effettuali e che era stato anticipato già in un frammento pubblicato con il titolo Non una sillaba oltre il vero nel 1848 su «Il giornale di Trieste», in cui si descrivevano le atrocità commesse dai soldati in Friuli durante l’insurrezione del 1848, e sarà quella stessa contemporaneità che costituirà il tessuto su cui si impernia il racconto, pubblicato poi a puntate nel 1850.11 Ne La coltrice nuziale un oggetto destinato a consacrare ritualmente l’amore, nella forma del materasso imbottito di lana e di piume portato in dote nel matrimonio, costituisce perno di quanto e come la guerra non sia mai una sola ma comporti più punti di vista che si sovrappongono nella narrazione, evidenziando così come l’ottica dei vincitori e dei vinti non esaurisca affatto la complessità della realtà della guerra, fatta di orrore ma anche di amore per la vita e per il senso dell’umano. Non vi è alcuna retorica risorgimentale nel racconto di Percoto, anzi, se non quella di un desiderio di pace e concordia che anima le voci narranti, tutte di donne, attraversate in vario modo dalla guerra: chi perché, superficialmente ne approfitta per acquistare nel bottino di guerra dei soldati la coltrice a lungo desiderata per potersi sposare, con sullo sfondo le colonne di fumo dei «villaggi incendiati nella passata settimana santa»;12 chi, vittima del saccheggio, riconosce in essa la propria coltrice tanto amorevolmente cucita e la richiede, invano, indietro per poter rimetter su casa con la propria famiglia, e in questo modo oltre che vittima è testimone narrante dell’orrore abbattutosi sulla sua vita e sulla vita di quanti, iner-
10 C. Percoto, La coltrice nuziale, in Ead., Racconti, a cura di A. Chemello, Roma, Salerno 2011, pp. 300-377, e le pagine dedicate al racconto da A. Chemello, Introduzione a C. Percoto, Racconti cit., pp. XXXVIII-XL; sulla scrittrice anche Caterina Percoto e l’Ottocento, a cura di R. Vecchiet, Biblioteca Civica «V. Joppi», Udine 2008, oltre a A. Chemello, Nota bibliografica, in C. Percoto, Tutti i racconti cit., pp. LXXIV-LXXXIV. 11 Ma si veda la precisa e dettagliata nota al testo di A. Chemello a C. Percoto, La coltrice nuziale cit., p. 300. 12 C. Percoto, La coltrice nuziale cit., p. 302.
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mi, hanno dovuto sottostare alla violenza della guerra e così descrive l’incendio di Jalmicco, il suo paese: là non c’è più una sola casa in piedi. Mucchi di sassi anneriti dal fuoco, calcinacci che ingombrano la piazza e le strade, la nostra bella chiesa tutta rovinata, fin le pietre dei sepolcri spezzate, le reliquie e le immagini dei santi disperse, mutilate, insozzate… Oh mio Dio!… e in mezzo a quella distruzione acquartierati i soldati che insultano a’ meschini che osano rovistare tra quelle macerie…13
La guerra nel racconto di Caterina Percoto come in quelli di altre scrittrici getta una sua particolare luce livida sui rapporti tra le persone e mette alla prova il senso di sé e il senso comune, anche quello di chi, come la fraile Cati, «nata su quell’ultimo lembo della terra italiana, laddove due grandi nazioni si toccano e aspettano il giorno di strignersi con affetto fraterno la mano»,14 nella propria fisionomia aristocratica rappresenta una terra divisa, quella del Friuli, e si duole di quanto invece altri acclamano: le vittorie degli austriaci, i bombardamenti di cui questo personaggio intuisce il prezzo in termini di vite umane e di stermini, che vengono poi descritti in prima persona da uno dei soldati, tornato mutilato e monco dal campo di battaglia e che si ritiene fortunato per essere sopravvissuto alla carneficina, da una parte e dall’altra: Oh! quando siamo partiti, pareva che andassimo nel paese della cuccagna. Dovevamo tornare ricchi come Creso! E portare in regalo alle nostre amorose gli anellini e i pendenti delle ribelli!… Invece abbiamo lasciato chi la vita e chi le membra; e quelle pompose fandonie non erano inventate che per farci andare allegri incontro al cannone che ci ha conci come potete vedere! Contuttociò la è ancora una fortuna l’essere qui a raccontarla, perché io mi credo d’essere il solo di que’ del paese: gli altri, ragazze mie, sono iti tutti all’inferno.15
Ancora più dettagliata la descrizione del massacro che è di fatto la guerra: Vedevamo tornar indietro continui convogli di feriti, e chi vomitava sangue, chi urlava da dannato, e i cadaveri ce li abbruciavano lì sotto il naso; e quando venne la nostra volta e ci ordinarono di avanzare, noi eravamo più morti che vivi, e credo che in quel momento anche i più arditi avrebbero volentieri rinunziato a tutto l’oro delle città italiane per poter essere in quella vece nelle nostre montagne un povero disertore perseguitato dai birri; ma un battaglione di croati pronti a tirarci addosso, se non si ubbidiva, ci fece tornare in corpo il coraggio. Camminavamo nel sangue, sopra i cadaveri; capita una palla e mi porta via il braccio; ed era lì per terra che ancora giocava alla
13
Ivi, p. 317. Ivi, p. 329. 15 Ivi, p. 362. 14
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mora, quando un’altra con un fracasso d’inferno mi rovescia, e nello svenire ho sentito la voce di Vigi che bestemmiava. Quando tornai in me stesso, mi trovai sul carro, e al mio fianco stava il povero giovane, ma era già passato…16
Non siamo certo di fronte a un frammento né a un bozzetto e tantomeno a una scena, ma a un racconto che ha modalità altre di rappresentare la guerra, attraverso donne e uomini che ne sono tutti vittime là dove essa prende corpo nella sua nuda realtà. Anche se alcuni ne sono responsabili molto più di altri, nel racconto di Percoto il barone friulano provincialmente ambizioso di riconoscimenti da parte della corte austriaca, il prete oscenamente schierato dalla parte dei soldati saccheggiatori: bellissima l’invettiva della donna che in punto di morte proprio per questo scaccia il prete dal proprio capezzale accusandolo di aver mandato alla morte innocenti e di aver incitato alla razzia.17 Bellissima e stupefacente per la data – 1850 – di pubblicazione del racconto di Caterina Percoto. Emblematico che un problema di definizione simile eppur diverso si ponga a quasi un secolo di distanza anche per un racconto di Elsa Morante, Il soldato siciliano:18 datato 1945, come ricorda la Nota alla raccolta della stessa autrice, «appartiene a un gruppo di tre racconti di guerra, del quale gli altri due sono perduti».19 La definizione «racconto di guerra» è quindi della scrittrice, nonostante ciò però anch’esso per alcuni versi corrisponde, ma per altri no, alle proprietà indicate da Bufano come caratteristiche del racconto di guerra tra Otto e Novecento: è infatti un racconto compiuto, con un inizio definito, ovvero «nel tempo che gli eserciti alleati, a causa dell’inverno, sostavano al di là del fiume Garigliano»,20 un io narrante che da subito si configura come femminile, in quanto si descrive già dalle prime righe come «rifugiata in cima a una montagna, al di qua del fiume»,21 e «costretta ad un breve viaggio a Roma».22 Per questo motivo la donna si mette in viaggio e
16
Ivi, p. 363. «– Via! Via!… – urlava l’infelice, a che mi venite a parlare di Dio? Dio, io l’ho rinnegato il giorno che ascoltai voi, prete sacrilego, predicar dall’altare che noialtri potevamo approfittarci della roba dei ribelli! Che l’incendio e il saccheggio erano giustizia!… Oh!… dir Messa così, con l’odio nel cuore! Innalzar l’Ostia consecrata e spalancar l’inferno ai vostri figliuoli!.. Non mi toccate! Le vostre mani grondano sangue… Egli è il sangue dei traditi che vi hanno creduto! O! l’ultima sua parola è stata una bestemmia! È morto dannato… Adesso brucia nel fuoco eterno! E venite a predicarmi la misericordia di Dio? Non v’è più misericordia… Se anche ci fosse, io non la voglio!…», ivi, pp. 364-365. 18 E. Morante, Il soldato siciliano, in Ead., Lo scialle andaluso (1963), Torino, Einaudi 1994, pp. 134-144. 19 Nota a E. Morante, Lo scialle andaluso cit., p. 215. 20 E. Morante, Il soldato siciliano cit., p. 137. 21 Ibidem. 22 Ibidem. 17
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nella notte trova ospitalità nella casupola di un carrettiere di nome Giuseppe, il cui nome reca evidenti connotazioni evangeliche. In quelle che si configuravano come «notti di pericoli e di spaventi»,23 in cui «più di mille tedeschi, destinati al fronte, si erano accampati nei dintorni. Fragorosi carriaggi percorrevano senza fine le prossime strade; si vedevano le luci delle tende accendersi nel bassopiano, e si udivano grida e richiami di voci straniere»,24 l’ospitalità della famiglia di Giuseppe ha i tratti di un’oasi di pace e tranquillità pur nel tumulto che la circonda. Nel cuore della notte la bambina lattante si sveglia e la madre la nutre; piove e ciò rende i bombardamenti più difficili, forse il viaggio verso Roma sarà più tranquillo, pensa la voce narrante e il suo pensiero si spinge alla Sicilia «bella e desiderata in quella stagione».25 In questo scenario livido eppur soave al tempo stesso si affaccia a un tratto «la grande, cenciosa persona di un soldato del nostro esercito»26 che racconta: di avere guerreggiato nell’esercito, e di combattere adesso alla macchia, contro i tedeschi; e che più tardi si sarebbe unito agli inglesi per continuare la guerra. Così guerreggiando senza tregua, seguitò, sperava di raggiungere un certo suo scopo.27
La ripetizione insistita e voluta del termine «guerra» nelle sue varie declinazioni («guerreggiato», «guerreggiando») introduce la narrazione della storia di Gabriele, che prima di andar soldato era minatore in Sicilia e aveva una moglie, che però lo abbandona presto, e una figlia, cui è rivolta la delicata storia di risarcimento e rimpianto per voce di Gabriele, quasi un angelo ferito nella notte scura della guerra, al punto che la voce narrante in conclusione osserva come «per molti segni mi sembra chiaro che colui non era una figura terrestre».28 Si tratta di un racconto che come molti altri di Morante ha caratteristiche evenemenziali, ovvero che si svolge intorno a un singolo evento, in questo caso la morte per suicidio della figlia di Gabriele, Assunta, che non trova rifugio da alcuna parte, neanche nell’amore del padre, rispetto le profferte al limite della violenza sessuale di un giovane della sua età: in esso il singolo evento assurge a immagine simbolica di quanto vi può essere di malato e incompiuto nei rapporti d’amore, anche quelli tra padri e figlie. Lo svolgimento compatto e l’iscrizione nella guerra della vicenda tutta personale del soldato Gabriele fa sì che il racconto della propria personale storia di ricerca di redenzione per parte di Gabriele abbia caratteri evenemenziali in quanto incentrato
23
Ibidem. Ibidem. 25 Ivi, p. 139. 26 Ibidem. 27 Ivi, pp. 139-140. 28 Ivi, pp. 143-144. 24
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non sulla guerra, non sui suoi orrori e misfatti, quanto su di un amore che non è riuscito ad essere tale e a dare rifugio e conforto in vita e lo cerca in morte. È un racconto che avviene perché c’è chi lo ascolta con misericordia amorosa, quella stessa misericordia su cui si chiude il racconto di Caterina Percoto, nei confronti della quale non a caso Adriana Chemello ha parlato di «concentrazione amorosa»,29 simile pur se diversa a quella di Elsa Morante. Prevalgono, in questo come in altri racconti di Elsa Morante, le ragioni dell’amore piuttosto che quelle della guerra, che si configura invece come scenario estremo di quanto la vita non riesce a portare a giusto compimento, al suo non riuscire ad essere rifugio se non temporaneo rispetto le forzature violente e brutali, in pace come in guerra. È qualcosa che ritroviamo anche nei Racconti dimenticati della scrittrice,30 per i quali ancora una volta si è richiamata la caratteristica feuillettonistica, mentre forse andrebbe rivalutata la componente disperatamente amorosa nei confronti di una vita che si prospetta come una guerra pure in tempi di pace, per il suo vasto «campionario di personaggi veristi, commercianti, impiegati, bottegai, stallieri, cocchieri, corrieri, nobildonne fittizie e immaginarie, baroni ossessi e infermiere assassine, folla indiscriminata di esseri dall’apparenza normale».31 Si tratta di quella stessa folla anonima che abita uno splendido racconto di Gianna Manzini, pubblicato con il titolo Aspetti di un viale nello stesso numero di «Mercurio» del 1944 in cui scrisse anche Giacomo Debenedetti:32 ambientato durante l’occupazione nazista di Roma nel grigiore delle caserme di viale Giulio Cesare, proprio per il suo carattere sospeso e al tempo stesso allucinato costituisce la migliore descrizione di che cosa significasse non vedere luce con la guerra in corso; è un racconto che nulla racconta se non questo, ma lo fa magnificamente, e lo fa con una attenzione all’umano vivere che trova eco e corrispondenza nelle altre scrittrici e scrittori che parteciparono al numero speciale della rivista diretta da Alba de Céspedes, che meriterebbe una riproposta – come per altro, almeno in forma antologica, tutta la rivista – perché proprio in esso trovano meglio espressione le categorie di amore e guerra, qui elaborate in forma critica ma che dalla sua lettura hanno avuto origine: perché in esso, con la guerra in corso, si intrecciarono strettamente le voci di scrittori quali Corrado Alvaro, Vasco Pratolini, Govoni, Moravia, Piovene, Montale, a quella delle scrittrici, Natalia Ginzburg, la stessa de Céspedes, Maria Bellonci, Paola Masino, Sibilla Aleramo, Anna Garofalo, Irene
29
A. Chemello, Introduzione a C. Percoto, Racconti cit., p. XVI. E. Morante, Racconti dimenticati, a cura di I. Babboni e C. Cecchi, prefazione di C. Garboli, Torino, Einaudi 2004. 31 C. Garboli, Dovuto a Elsa, in E. Morante, Racconti dimenticati cit., pp. V-XV, p. VII. 32 G. Manzini, Aspetti di un viale, in «Mercurio», 1944, pp. 208-211, con il titolo Il cielo addosso in Racconti italiani del Novecento cit., I, pp. 846-850. 30
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Brin, e non avrebbe potuto essere diversamente, grazie alla direzione di Alba de Céspedes.33 Molti infatti sono i racconti delle scrittrici italiane tra Otto e Novecento che potrebbero essere ricordati per differenti modalità di narrazione delle guerre – purtroppo non una sola – e dell’amore che ad esse si contrappone come modalità e posizionamento per poter narrare l’orrore reale e non astratto di cui esse si sostanziano: e per questo il riferimento è alle lucidissime riflessioni di Simone Weil già del 1933, là dove essa osserva pacatamente, a più riprese, come la guerra sembra avere sempre un certo prestigio di fronte agli occhi non solo dei nazisti in ascesa in Germania, ma anche dei rivoluzionari,34 perché lo schema vincitori e vinti, presente anche in Fenoglio, è difficile da decostruire. Pensieri che ritroviamo in un’altra grande scrittrice del Novecento, Virginia Woolf, che nel 1942 osservava altrettanto lucidamente come occorra liberare il giovane uomo inglese, il giovane tedesco, il giovane italiano dalla schiavitù del dominio perché vi siano finalmente pensieri di pace.35 In questo contesto la raccolta di racconti Olga a Belgrado di Irene Brin,36 pubblicata nel 1943, restituisce cosa abbia significato essere un esercito di occupazione durante la seconda guerra mondiale ed è perciò tassello prezioso di una riflessione sull’essere italiani che molto necessita ancora di elementi di approfondimento rispetto ad esperienze come quelle dell’invasione armata di terre altre in nome di un presunto ordine civilizzatore.37 Lo fa con racconti che in una atmosfera quasi
33
Si veda L. Fortini, «Possiamo dire di avere speso molto di noi»: Alba de Céspedes, Natalia Ginzburg e Anna Maria Ortese tra letteratura, giornalismo e impegno politico, in Scrittrici/giornaliste giornaliste/scrittrici, a cura di A. Chemello e V. Zaccaro, Atti del Convegno «Scritture di donne fra letteratura e giornalismo», Bari, 29 novembre-1 dicembre 2007, III, Bari, Settore Editoriale e Redazionale 2011, pp. 100-115, cui si rimanda per la bibliografia. 34 S. Weil, Sulla guerra, a cura di D. Zazzi, Milano, Nuove Pratiche Editrice 1998, in particolare Riflessioni sulla guerra (1933), pp. 27-39. 35 V. Woolf, Pensieri di pace durante un’incursione aerea (1942), in Ead., Voltando pagina. Saggi 1904-1941, a cura di L. Rampello, Milano, Il Saggiatore 2011, pp. 599-602; si veda anche la bella introduzione di L. Rampello, Autobiografia di una lettrice, pp. 11-34. 36 I. Brin, Olga a Belgrado, Firenze, Vallecchi 1943; su di lei il bel profilo di C. Sechi, Irene Brin tra invenzione del sé e scritture letterarie, in «Dwf donnawomanfemme», 82 (2009), 2, pp. 5873; si registra un positivo ritorno di attenzione per questa figura eccentrica e brillante di scrittrice e giornalista a partire da V.C. Caratozzolo, Irene Brin. Lo stile italiano nella moda, Venezia, Marsilio 2006; C. Fusani, Mille Mariù. La vita di Irene Brin, Roma, Castelvecchi 2012; e la riedizione di I. Brin, Olga a Belgrado, a cura di F. Piccinni, Roma, Elliott Edizioni 2012. 37 Sulla letteratura coloniale italiana per quanto riguarda l’Africa incominciano ad essere molti gli studi a ciò dedicati, da G. Tomasello, L’Africa tra mito e realtà. Storia delle letteratura coloniale italiana, Palermo, Sellerio 2004, fino a G. Broglio, Memorie oltre confine. La letteratura VI. Italiane della (e nella) letteratura
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da sogno descrivono tappe di un viaggio in cui l’io narrante, inizialmente convinta dell’ordine tedesco stabilito a Belgrado dove giunge al seguito del marito ingegnere civile ai primi del maggio 1941,38 con il compito di scrivere articoli sulla terra appena conquistata,39 coglie invece i termini essenziali e tremendi di una occupazione vissuta con ostilità e resistenza. A partire dallo stesso viaggio verso Belgrado, con tappa a Zagabria, descritto nel primo racconto eponimo della raccolta, che si snoda tra ventagli di chiara pioggia, che nel rosato crepuscolo palpitavano tremando. La florida campagna, il molle fluire del fiume, i grattacieli rustici, le vaste fabbriche dove i caratteri cirillici si addolcivano in termini di internazionale dolcezza, cioccolata, bomboni, accompagnarono per un lungo tratto la corsa del treno, e dalla vettura ristorante, già illuminata, diveniva piacevole cercar di capire ogni stazioncina, disporre attrezzi, capostazione e soldati secondo prospettive abituali.40
Si tratta di una immagine idillica, quasi bucolica rispetto a un paese devastato dalla guerra e bombardato a più riprese di cui non vi è almeno apparentemente traccia, al punto che dopo la notte di sonno l’io narrante si desta su di «un paesaggio romantico, popolato di anatre selvatiche, di grandi papaveri gonfi e di immobili mulini»;41 unico elemento indiziario del recente bombardamento della città il cimitero delle automobili abbandonate sulle strade dai fuggiaschi.42 Nonostante la difficoltà imprevista di trovare alloggio a Belgrado – un affarista le spiega che «non c’erano alberghi a Belgrado, alcuni erano requisiti, altri distrutti dal bombardamento,
postcoloniale italiana in prospettiva storica, Verona, Ombrecorte 2011 e U. Fracassa, Patrie e lettere. Per una critica della letteratura postcoloniale e migrante in Italia, Roma, Giulio Perrone editore 2012, e il punto sulla questione di C. Papa, Sotto altri cieli. L’oltremare nel movimento femminile italiano (1870.1915), Roma, Viella 2009, anch’esso dedicato però sostanzialmente alle guerre d’Africa; mentre risulta poco esplorato il versante della letteratura di guerra nei Balcani per parte italiana, per il cui versante storico si veda D. Conti, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della «brava gente» (1940-1943), Roma, Odradek 2008. 38 «Ai primi del maggio 1941, dovetti andare a Belgrado: il consolato tedesco di Fiume mi consegnò, con semplicità, un foglietto, che mi autorizzava a recarmi dovunque fossero truppe tedesche», I. Brin, Olga a Belgrado cit., p. 5. La datazione corrisponde alla biografia della scrittrice, in quanto l’ultimo racconto reca in calce la scritta in corsivo «Aprile 1941 – marzo 1943 Belgrado – Skrljevo – Pécine – Skofljca – Smarje – Lubiana – Sussak – Cirquenizza», ivi, p. 215. 39 «In fondo ero venuta per scrivere e vidi il Direttore torreggiare dietro la sua scrivania, amichevolmente ironico: almeno sei cartelline mi raccomando», ivi, p. 19. 40 Ivi, p. 7. 41 Ivi, p. 9. 42 Ibidem. Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento
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altri in disordine»,43 l’arrivo in stazione è descritto svolgersi «tra cumuli di macerie recenti, e nuove impalcature, ed un’attività fitta, da far pensare piuttosto un cantiere, che non una rovina».44 L’accento è quindi ancora sulla ricostruzione, verosimilmente per parte tedesco-italiana, evocata dall’immagine del cantiere piuttosto che da quella delle rovine, ma all’uscita dalla stazione l’accoglie: un’aura vuota e compatta, intorno alle case prive di tetto, aperte, le finestre cave sul cielo fermo, ornate dai riccioli contorti di una lamiera ondulata, nell’interno affollate di travi cadute, come di boschi, cupamente patinati dal fuoco. E l’ordine imposto dall’occupazione tedesca; gli operai piccoli, polverosi, apparentemente inadeguati, davanti ai grattacieli in frantumi, intenti ad estrarre i rari mattoni, i rari legni ancora sani, disponendoli in fila, senza fretta.45
Un direttore d’albergo le racconta del suo bambino travolto dalla folla il giorno del bombardamento, che la madre credeva ancora vivo: occorreva fare attenzione perché non lo sapesse e la sua frase «tutti zitti, zitti tutti»,46 in corsivo nel testo, diviene emblema del clima sospeso e rarefatto in cui l’io narrante del racconto si aggira, nella città bombardata come poi nel paese tutto, in cui sono ambientati i racconti successivi, da Il paese dei sassi, titolo del secondo racconto, ambientato a Skry, «un piccolo paese appena conquistato»,47 da cui si scende a mare dove il marinaio Kurt racconta «avventure di guerra e d’amore»;48 in questo contesto apparentemente sospeso nel tempo arriva la «notizia della guerra fra Germania e Russia»49 e la notte, all’osteria del paese, fanno la comparsa per la prima volta i partigiani, che invitano a brindare gridando «Viva la Russia»,50 dileguandosi subito dopo. Mentre è in visita a un piccolo paese per comprare dei merletti, «inutilmente vestita di bianco»51 si descrive con queste parole: Ero sola, come nei sogni, fra pareti ostili, fra sguardi invisibili, con un peso fragilissimo di vetri; e potevo immaginare lo schianto, se li avessi lasciati cadere. Sempre come nei sogni, cominciai a correre, e dovevo salire, ancora scendere, fermarmi, e immaginare occhi duri, dietro ogni imposta; e la latta, piena di terra, con una grassa corolla
43
Ivi, p. 10. Ivi, p. 11. 45 Ivi, p. 13. 46 Ivi, p. 15, ripetuto poi a p. 16.. 47 Ivi, p. 27. 48 Ivi, p. 40. 49 Ivi, p. 42. 50 Ivi, p. 43. 51 Ivi, p. 46. 44
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viola, che il vento fece cascare a due passi da me, mi parve prova di una minaccia confermata nel cielo ormai traversato dal primo baleno.52
La sensazione di minaccia e di sostanziale estraneità ad un paese in cui sta vivendo dalla parte sbagliata è sottolineata dal non riuscire più a lavorare all’aperto, accanto al pozzo, «sentivo sulla nuca il peso di sguardi invisibili, dal cancello, dal tetto, dalle case vicine».53 Mentre nel paese tutti leggono Marx54 e la merciaia ambulante vende dei fazzolettini, in cui «dentro ben celato nelle pieghe c’era un foglietto giallo, simile assolutamente ai pianeti della fortuna: invece di «donna, sei stata finora infelice», lessi «proletarî di tutto il mondo unitevi» e seguivano righe di stampa contorta e di ortografia incerta, dove si parlava di libertà e giustizia»,55 il racconto dell’io narrante acquista progressivamente i caratteri di un sogno popolato da cose viola e «sapevo benissimo perché le sognavo».56 Il racconto si conclude con la morte tragica della sarta Maria, uccisa dal suo fidanzato, forse, comunque a tradimento; così come muore uccisa dai partigiani la fidanzata di un soldato italiano, ritenuta una collaborazionista nel racconto La sarta slovena; il prigioniero che tenta il suicidio in treno nel racconto Siphilis, invece che il medico viennese discepolo di Freud che dichiara di essere, risulta il capo dei ribelli locali, e la foto che permette il riconoscimento lo ritrae in un momento di vita familiare, con la madre, la moglie e il figlio che gli siede sulle ginocchia; e la casa in cui abita a Lubiana la voce narrante risulta appartenere al capo di una banda armata, Il padrone di casa. Il racconto che forse meglio rappresenta lo stato sospeso, la narrazione lenta quasi tra sonno e veglia che caratterizza lo svolgersi di questa raccolta di Irene Brin, che pur apparentemente lontana dalla guerra ne è sostanzialmente intessuta per quell’angoscia sottile che la pervade rispetto cui gli inermi, le donne, i bambini di cui ha scritto mirabilmente Elsa Morante, nulla possono, è Traccia dell’uomo grasso, il cui protagonista, il pittore Giovanni, arrivato in cerca di lavoro a Sussak – attuale sobborgo della città jugoslava di Rijeka/Fiume a cui appartiene tutt’oggi, allora parte della Provincia del Carnaro costituita dal Regno d’Italia a seguito dell’invasione nel 1941 – trova lavoro presso un fornaio, «preoccupato di mutare le sue insegne, traducendole dalla lingua serba all’italiana».57 Incontra un certo successo: «il tesseramento, il grigiore, una povertà crescente, riuscivano a consolarsi con gli apporti delle vernici lustre, affettuosamente bugiarde, di Giovanni»;58 e gli
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Ivi, pp. 46-47. Ivi, p. 48. 54 Ivi, p. 28, ritorna poi anche a p. 45, p. 173, p. 175, p. 176, 177, p. 191. 55 Ivi, p. 48. 56 Ivi, p. 49. 57 Ivi, p. 101. 58 Ibidem. 53
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viene affidato l’incarico di fare il ritratto di un giovane, un ragazzo, forse, attraverso le sue fotografie, la retribuzione è consistente e prevede anche l’alloggio presso la villa della madre che glielo commissiona. Il pittore gode dell’agiatezza che la nuova dimora gli procura e inizia il ritratto con lentezza, non ha fretta, anzi: ma quando si mette al lavoro la fisionomia del bambino, poi ragazzo, poi giovane uomo, poi uomo maturo – uomo grasso addirittura – cambia continuamente, gli sfugge, non riesce a trovare una definizione. Diversi i racconti della madre, della prima moglie, della seconda, unico dato certo che sia nel bosco, morto, vivo, non si sa, oltre questo nulla. Partigiano, forse, quindi resistente, si intuisce: il pittore Giovanni lascia la casa senza riuscire ad averne contezza. Ospite non invitata la guerra d’invasione, così esattamente fotografata nel suo movimento in divenire nei racconti di Olga a Belgrado di Irene Brin – e debbo la definizione a Lidia Curti che la usa ne La voce dell’altra a proposito di quell’inconscio postcoloniale italiano di cui ha scritto anche Sandra Ponzanesi –,59 ospite messaggera60 di vite di donne e uomini che si palesano di fronte all’io narrante della raccolta in modo tale da dissolvere progressivamente le certezze con cui essa era partita dall’Italia. A questo proposito Claudia Sechi ha giustamente osservato come la voce narrante del personaggio autoriale «va modificandosi e sempre diminuendo, si colloca sempre più ai margini dell’azione principale e il suo ruolo diviene di spettatrice più che di attrice, fino a scomparire totalmente e non tornare più in scena»,61 al punto di divenire una «scrittura oltre confine».62 Le voci che risuonano sono allora quelle di una alterità che acquista corpo e consistenza, come quelle delle «presenze solide, francamente opposte e padrone»63 dei giovani ufficiali occupanti, guardati attraverso gli occhi di una bambina nel racconto Capelli verdi; o quella del giovane uomo che per amore di una donna e del «comune dovere»64 diviene partigiano ne La pattuglia, e molti dei suoi tratti ricordano e anticipano i protagonisti dei Racconti partigiani di Fenoglio; ma si è ancora nel 1943 e i racconti di Irene Brin da racconti di guerra si tramutano in racconti stupefatti per la visione di
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L. Curti, La voce dell’altra. Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale, Roma, Meltemi 2006, si veda alle pp. 195-198, in cui L’ospite non invitato è ovviamente però il migrante, ospitante forzato di ieri, ospite ospitato di oggi; S. Ponzanesi, Paradoxes of Postcolonial Culture. Feminism and Diaspora in South-Asian and Afro-Italian Womens Narratives, Utrecht 1999, Albany (NY), State University of New York Press 2004. 60 Traggo la suggestione dal volume di poesie di A. Ingrao Boccia, Ospite messaggera, Siena, Il Leccio 1993, in cui l’ospite è la poesia; su di lei L. Fortini, Le parole in forma di poesia di Anna Ingrao Boccia, in «DWF donnawomanfemme», 82 (2009), 2, pp. 48-57. 61 C. Sechi, Irene Brin tra invenzione del sé e scritture letterarie cit., p. 67. 62 Ivi, pp. 66-71. 63 I. Brin, Olga a Belgrado cit., p. 165. 64 Ivi, p. 171. VI. Italiane della (e nella) letteratura
Racconti d’amore e di guerra
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donne e uomini che la guerra travolge e riporta alle verità più essenziali, quelle della guerra, quelle dell’amore, di una vita quotidiana che cerca il suo svolgimento nonostante sia «tutto uno sbaglio»:65 sono le ultime parole della baronessa morente tra le braccia del partigiano che insieme agli altri ha compiuto l’attentato contro il generale delle truppe d’occupazione, ripetute ancora dallo stesso partigiano la notte prima di consegnarsi alla morte, e Poi si addormentò in pace, sui sassi per svegliarsi solo nella notte stellata. Non occorreva più dormire, né cercare, ma abbandonarsi, come ad una nuova, e più viva, corrente d’amore.66
In un bellissimo e assai particolare libro del Duemila – quindi di poco antecedente l’attentato alle torri gemelle – intitolato All about love. New visions la scrittrice afro-americana bell hooks ricorda le parole di un graffito la cui istantanea campeggia nella sua cucina, che dice «Anche quando tutto sembra perduto continuiamo ad andare in cerca d’amore»:67 è esattamente quanto le scrittrici italiane tra otto e novecento hanno fatto, continuare a cercare amore da contrapporre alla guerra.
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Ivi, p. 183. Ivi, p. 202. 67 B. Hooks, Amore: uno stato di grazia, introduzione a Ead., Tutto sull’amore. Nuove visioni, Milano, Feltrinelli 2000, p. 9. 66
Il Risorgimento delle Italiane. Donne sulla scena letteraria dell’Otto-Novecento
ITALIANE DELLA LETTERATURA: MATILDE SERAO
ILARIA PUGGIONI ‘La conquista di Roma’ di Matilde Serao
Fra quindici giorni parto per un mese solitario non so dove e ci rimarrò tre mesi a scrivere un grosso romanzo la Conquista di Roma. In questi tre mesi non scriverò più novelle, né articoli, neppure pel capitan Fracassa, allo scopo di ottenere nel romanzo una unità intensa di intonazione, un assorbimento completo delle facoltà menali.1
Con questa lettera a Olga Ossani, Matilde Serao introduce la Conquista di Roma,2 romanzo dalla lunga gestazione che trova la luce nell’anno 1895, di ritorno dal soggiorno a Francavilla al Mare nella casa di Achille Fazzari, deputato scrittore elevato ad emblema dell’intera classe dirigente romana. Prima della partenza per la Calabria, la scrittrice in una lettera a Gegè Primoli aveva ammesso di volersi lasciar penetrare dall’ambiente parlamentare, recandosi quotidianamente alla Camera per osservare, capire, prendere appunti. Da qui nascono personaggi che nascondono dietro nomi di invenzione persone reali, che gravitano all’interno dell’ambiente parlamentare e giornalistico di fine ottocento: si pensi a Crispi nelle spoglie di Vergas; e, ancora a donna Amalia De Pretis o, addirittura alla regina Margherita nei panni di Angelica, moglie del primo ministro Vergas; in ultimo, al protagonista Francesco Sangiorgio in quelli del deputato Giustino Fortunato. La nota spietatezza dell’ambiente romano fa insorgere nella scrittrice paure circa il soggetto del romanzo. Per quanto se ne dichiari «innamorata», Serao confida a Primoli: «Ho cominciato la Conquista di Roma, lavoro molto, ma con una grande precauzione,
1
Lettere di Matilde Serao a Olga Ossani Lodi (Flebea), a cura di A. Garofalo, in «Nuova Antologia», LXXXV, 1790, 1950, p. 123. Cfr. inoltre M. Serao, Alla ‘Conquista di Roma’. Lettere di Matilde Serao ad Ulderico Mariani, in «Nuova Antologia», 16 dicembre 1938, pp. 380-92. 2 M. Serao, La conquista di Roma, a cura di W. De Nunzio Schilardi, Roma, Bulzoni 1997. Italiane della letteratura: Matilde Serao
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pianto dei jalons, passo passo, con la lentezza di un selvaggio che vede il nemico nell’imboscata».3 La Conquista di Roma, si inserisce nel pieno dell’esperienza romana di Matilde Serao, attraversandola diametralmente e soffermandosi su un aspetto certo nuovo per la scrittrice napoletana, già in voga tra gli intellettuali di fine Ottocento. Secondo Vittorio Pascale, infatti il romanzo è quello in cui la scrittrice più si cala nell’ideologia del suo tempo, offrendo numerosi spunti creativi, tanto da non poter essere catalogato in un genere specifico, ma da essere definito come «romanzosaggio», «romanzo di costume», «romanzo-parlamentare», «romanzo-antiparlamentare», «romanzo autobiografico».4 Sicuramente, l’avventura parlamentare del protagonista Francesco Sangiorgio apre al lettore una finestra sulla realtà romana dell’ultimo scorcio di secolo, raccontata da un’osservatrice esperta che nonostante metta in evidenza il suo estroso piglio giornalistico allo stesso tempo non rinuncia all’intrigo amoroso.5 Sin dal titolo, il romanzo si articola nel contrasto tra l’ambiguità della conquista di una donna, Angelica, e la conquista della città di Roma. Nel corso dello scioglimento della vicenda amorosa e politica a cui è sottoposto il protagonista Sangiorgio, alter ego della scrittrice, Roma si rivela alternativamente nella veste di madre e matrigna. Opponendo due tipologie di conquiste, Serao investe sulle finalità di chi in questo momento storico si approccia a Roma, cercando con l’inganno di sottometterne la naturale maestosità, senza passare per le rovine antiche ma puntando dritto al cuore moderno della città: il Parlamento e le vie del centro. Il romanzo, esaltato da Vittorio Pascale6 e da Carlo Alberto Madrignani,7 fu
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Lettera a Gegè Primoli datata 27 luglio 1894 in Marcello Spaziani, Con Gegè Primoli nella Roma Bizantina. Lettere inedite di Nencioni, Serao, Scarfoglio, Giacosa, Verga, D’Annunzio, Pascarella, Bracco, Deledda, Pirandello, etc., Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1962, p. 135. 4 V. Pascale, Sulla prosa narrativa di Matilde Serao: con un contributo bibliografico, 1877-1890, Napoli, Liguori 1989. 5 R. Scrivano, Matilde Serao alla ‘Conquista di Roma’, in Matilde Serao le opere e i giorni, Atti del Convegno di Studi (Napoli 1-4 dicembre 2001), a cura di A. R. Pupino, Napoli, Liguori 2006, pp. 347-56; G. Galasso, Riflessioni su Matilde Serao, in ivi, pp. 155-64; V. Roda, Simulazioni, dissimulazioni e sdoppiamenti negli scritti di Matilde Serao, in ivi, pp. 317-30; T. Scappaticci, Introduzione a Serao, Roma-Bari, Laterza 1995, p. 63; Matilde Serao tra giornalismo e letteratura, a cura di G. Infusino, Napoli, Guida Editori 1981; M. G. Martin-Gistucci, L’oeuvre romanesque de Matilde Serao, Grenoble, Presses Universitaires 1973; Donne del giornalismo italiano, a cura di L. Pisano, Milano, Franco Angeli 2004; W. De Nunzio Schilardi, Matilde Serao giornalista, Bari, Milella 1986; A. Raffaele Pupino, Notizie del Reame. Accetto, Capuana, Serao, D’Annunzio, Croce, Pirandello, Napoli, Liguori 2004; I. Pezzini, Matilde Serao, in AA.VV., Carolina Invernizio, Matilde Serao, Liala, Firenze, La Nuova Italia 1979. 6 Cfr. V. Pascale, Sulla prosa narrativa di Matilde Serao: con un contributo bibliografico, 1877-1890 cit. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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invece negativamente criticato da Anna Banti, la quale lo etichettò come «un macchinoso, pretenzioso scenario, gonfio di retorica, di chiacchiere redazionali e di cronaca mondana deteriore».8 Alberto Consiglio invece pensò ad una scrittura del romanzo a quattro mani, col marito Edoardo Scarfoglio alla cura della sezione parlamentale.9 Questo per via della ritrosia con cui Serao ha tendenzialmente guardato alla politica, attività a suo dire prettamente maschile.10 Pertanto anche quando il lavoro di giornalista ha richiesto di addentrarsi nelle sale di Montecitorio, la scrittrice ha celato la sua identità dietro pseudonimi maschili. In realtà, qualche anno prima della stesura del romanzo, Serao medita sulle sue posizioni, rivalutando in chiave diversa il rapporto tra donna e politica e scrive sul Fanfulla: Ho sempre creduto che fosse un’esagerazione escludere assolutamente le donne dalla politica. Una certa classe di donne è capace di comprenderla sicuramente meglio di molti uomini. Sono le donne dal cervello acuto, che sa imparare tutto il giro del minuto ingranaggio politico […] sono le donne dallo spirito riflessivo, che si ripiega sempre sopra sé stesso, e quasi intravvede da oggi nel futuro conseguenza sicure di qualsiasi avvenimento. Sono le donne che sanno apprezzare più l’intelligenza che la bellezza, più la fortezza che la grazia, più l’astuzia efficace che il cicaleccio vuoto di un dialogo futile […] Solo queste donne, dotate di quest’anima eccezionale, debbono entrare nella politica e vi saranno di un’utilità grandissima.
Nella Conquista di Roma, come scrive Consiglio su «Pegaso» «l’ambizione politica che negli uomini è passione torbida e nelle donne gioco ameno, sono, è vero, due demoni ossessionanti, ma non soffocano l’umanità della vicenda»; a creare il gioco romanzesco infatti è, come già accennato, la dimensione umana, che entra in conflitto con il gioco delle parti romano. La città, che a detta di Wanda de Nunzio Schilardi fa da sfondo alla vicenda,11 è invece a mio avviso parte integrante dell’intreccio, compartecipe delle trame di palazzo così come dei rivolgimenti sentimentali di Sangiorgio e dell’amata Angelica. Nonostante la sua frigidità nell’amare, donna Angelica rimane quasi l’emblema della moderna donna angelo, figura chiave della quasi rinnovata ideologia femminile seraiana.12 Parallelamente alle coeve Virtù di Checchina e Riccardo Joanna, anche nella Con-
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Cfr. C. A. Madrignani, L’ultima Serao e il romanzo popolare, in «L’ombra d’Argo», 1983, 3, pp. 31-43. 8 A. Banti, Serao, Torino, UTET 1965, p. 90. 9 A. Consiglio, Napoli amore e morte: Scarfoglio e Matilde Serao, Napoli-Roma, V. Bianco 1959. 10 Cfr. A. Ghirelli, Donna Matilde. Una biografia, Padova, Marsilio 1995. 11 Cfr. W. De Nunzio Schilardi, L’invenzione del reale. Studi su Matilde Serao, Bari, Palomar 2004. 12 Ibidem. Italiane della letteratura: Matilde Serao
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quista di Roma, la città, così madre, matrigna è anche donna, e l’ambiguità si legge nella scontata rovina a cui va incontro ogni amore onesto, ma non lecito. La capitale traduce altresì il senso di una donna nuova, non più sospesa tra le maglie di passioni preannunciate e adulterine, bensì virtuosa, angelica, sensibile. La delusione che Roma provoca nel protagonista è paragonabile a quella causata da Angelica, poiché entrambe sono incapaci di amare. La Conquista di Roma si rivela quindi un’annunciata sconfitta, poiché Sangiorgio riconosce nella nobiltà del sentimento amoroso il vero obiettivo morale dell’uomo a discapito dell’ambizione parlamentare. In questo modo, l’autrice esprime simbolicamente la priorità dell’istituzione familiare rispetto a quella politica. La città che inizialmente sembrava tendere al protagonista le sue immense braccia materne schiaccia invece i suoi personaggi dopo avergli concesso uno spiraglio di illusione. La scelta di Via Angelo Custode come scorcio ambientale dove non si consuma, ma viene comunque punito,13 il tradimento tra Angelica e Francesco, serve quasi a riscattare l’immoralità diabolica di cui città e personaggi sono ormai intrisi. La sconfitta di Sangiorgio è anche la sconfitta della città di Roma, che non riesce ad estromettersi dal circolo vizioso in cui è intricata; ma è anche la sconfitta di Angelica, che è costretta ad una vita di frustrazioni e sofferenza per le scarse attenzioni del marito e ministro Vergas; il quale, a sua volta, è insensibile agli affetti perché totalmente dedito alla politica. Sangiorgio rappresenta quindi la società civile, irretita dal lusso e dalla grandezza di un mondo escludente, che non si piega alla sensibilità umana. In realtà Serao, attenta conoscitrice della vita «bizantina», non affronta direttamente la tematica politica offrendo semplicemente il quadro esaustivo di una Roma diventata dopo l’unificazione centro incontrastato del potere, che attrae a sé folle provenienti da ambienti diversificati: «le quaglie» le definisce la scrittrice napoletana, ossia gli uomini illustri pronti a conquistare la città antica sovrapponendovi il proprio potere “positivo”, moderno. Alla fine Roma sarebbe diventata vassalla di Montecitorio e non viceversa. Il Parlamento, infatti è la sede per eccellenza dei contrasti, non solo politici, ma anche individuali, metafora di ciò che Serao definisce «caldaione» e «forno di cartapesta dentro cui si cuoce lentamente, con una cottura dissecante», luogo monotono e ammorbante o, come suggerisce Madrignani, «di perdizione collettiva e di prostituzione istituzionalizzata».14 Al contrario di De Roberto e Pirandello, Serao non dipinge il Parlamento come totale rispecchiamento di una società in decadenza e ostile, in maniera antistorica, limitandosi invece a constatare che Montecitorio è il covo di chi ambisce al potere astenendosi dalla vita e, quindi, dalla realtà.
13 14
P. Pancrazi, Scrittori italiani, dal Carducci a D’Annunzio, Bari, Laterza 1937, p. 513. C. A. Madrignani, L’ultima Serao e il romanzo popolare cit., p. 36. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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Con la Conquista di Roma, Serao aderisce ad un sotto-movimento letterario ben più vasto che invade l’Europa all’alba dell’unificazione e contagia gran parte dei letterati del circolo mecenatico romano: si tratta del romanzo antiparlamentare.15 È interessante infatti notare come le prime forme di resistenza alla corruttela politica “romana” siano state concepite in seno al mondo intellettuale,16 percorrendo dapprima in filigrana i testi di studiosi di diversa natura quali Sergi, Morasso, Sighele;17 e, ancora Lombroso, Ferrero, Morselli.18 In seguito esse approdano al romanzo che, nella sua sfumatura realista, penetra con sguardo indagatore all’interno degli ambienti lavorativi e impiegatizi, locali e nazionali, ramificandosi subito dopo l’unità nel sottogenere parlamentare, espressione di una critica non tanto al parlamento quanto piuttosto all’alterigia escludente che ammorba la classe dominante, allontanandola irreparabilmente dalla realtà popolare e intellettuale.19 Come sottolinea Madrignani, l’attrazione verso questo nuovo genere contagia una categoria di scrittori che più di altri sente la curiosità “naturalistica”, nonostante nessuno di loro si confronti direttamente con la massima autorità europea in questo senso, Zola. Peculiarità del romanzo parlamentare italiano è infatti l’inquadramento del contesto politico nei suoi aspetti più superficiali, legati ai chiacchiericci mondani, agli inganni politici e agli scandali amorosi, che depaupera il sostrato epidittico intrinseco al romanzo d’oltralpe riducendo il racconto parlamentare, e in generale la politica a, come sostiene Caltagirone «un pretesto per raccontare storie intime». L’intellettuale, in bilico tra «atteggiamento apolitico e polemica antipolitica», persegue la legalità quasi per riscattare se stesso dalla categoria di subalternità con cui la società moderna taccia genericamente l’artista in quanto tale. Per questo, la maggior parte dei romanzieri “politici”, pur legata alla classe dirigente, non condivide i suoi giochi di potere e anzi si interfaccia con Montecitorio, esercitando una malcelata diffidenza, «in nome di “superiori” ragioni morali».20 Nel suo quarantennio di
15 Sull’argomento cfr.: A. Briganti, Il Parlamento nel romanzo italiano del secondo Ottocento, Firenze, Le Monnier 1972; G. Caltagirone, Dietroscena. L’Italia post-unitaria nei romanzi di ambiente parlamentare (1870-1900), Roma, Bulzoni 1993; C. A. Madrignani, Rosso e Nero a Montecitorio. Il romanzo parlamentare nella nuova Italia (1861-1901) cit.; C. A. Madrignani-G. Bertoncini, Il Parlamento nel romanzo italiano, in Il Parlamento. Storia d’Italia, Annali 17, a cura di L. Violante, Torino, Einaudi 2001, pp. 931 ss. 16 Cfr. G. Rebuffa, Lo Statuto albertino, Bologna, Il Mulino 2003, p. 126 17 A questo proposito gaetano mosca, Intorno al parlamentarismo (1885), in Id., Ciò che la storia potrebbe insegnare. Scritti di scienza politica, Milano, Giuffrè 1958, pp. 331-36. 18 Cfr. L. Mangoni, Una crisi fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Otto e Novecento, Torino, Einaudi 1985. 19 Cfr. M. Delle Piane, Il significato dell’antiparlamentarismo italiano nel secolo scorso, in Id., Liberalismo e parlamentarismo, Città di Castello, Macrì 1946, pp. 103 ss. 20 G. Caltagirone, Dietroscena. L’Italia post-unitaria nei romanzi di ambiente parlamentare (18701900) cit., 13.
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vita il romanzo parlamentare si adagia su dei clichè stereotipati che raccontano perlopiù il percorso iniziatico di un giovane che dalla provincia approda nella capitale perseguendo il sogno di una carriera politica, ma trascinando con sé una certa dose di ingenuità che si scontra dolorosamente con la corruzione del Parlamento e con il susseguirsi di amori infelici che si intervallano continuamente a salotti e mondanità. In questa prospettiva, dopo una lenta e progressiva ascesa nel corso degli anni Novanta i romanzi parlamentari/antiparlamentari si infittiscono: basti pensare al Diamante nero di Barrili (1897), all’Onorevole Paolo Leonforte (1894) e ai Coniugi Varedo (1899) di Castelnuovo, che indagano sull’influenza negativa che l’ambizione politica ha sull’istituzione familiare. La Conquista di Roma è esempio per Madrignani, di “letteratura intermedia” se confrontata alle più convincenti opere coeve di Verga, De Roberto, De Marchi. De Roberto, in particolare, influenzato dalla dottrina politica di Mosca e di Tayne e replicato oltre mezzo secolo più tardi da Tomasi di Lampedusa, restituisce nichilisticamente nell’Imperio (1895) e nei Vicerè (1894) il quadro dello scontro istituzionale creatosi tra stato sabaudo e potere locale, mutuato attraverso la vicenda dello spietato Consalvo Uzeda, che “non cede” ma “si adegua” al nuovo stato consapevole che «adoperare il parlamento e le elezioni serve per non perdere l’antico potere, quello tramandato per volontà divina»; a fargli da contrappeso l’onestà intellettuale di Federico Ranaldi, sdegnoso sia nei confronti del parlamento sia del giornalismo aggressivo romano.21 Nell’Imperio, considerato da Madrignani come «la migliore opera sul Parlamento e sulla Roma politica, scritto con padronanza mimetico-ricostruttiva a cui si accompagna l’analisi psicologica dei due protagonisti», lo scrittore siciliano entra nel profondo parlamentare studiandone, carte alla mano, gli stilemi e la retorica, armi con cui si abbatte «ogni residuo di moralismo e ideologismo piccolo-borghese».22 La parentesi del romanzo parlamentare, esploso ed imploso come rapida meteora, decretò la sua fine con la rilettura apolitica che di Roma fece D’annunzio, il quale esprime senza ritegno il suo disprezzo per la «mediocrità» parlamentare, opponendovi il sogno patriota di una società diversa, fondata sull’ideologia aristocratica. Lo scrittore abruzzese costruisce il mito di una rinnovata Roma imperiale, che riscopre le sue rovine e abbandona definitivamente Montecitorio. Il Trionfo della morte (1894), le Vergini delle rocce (1895) e il Fuoco (1900) aprono le porte ad un egoismo eroico che predilige la dimensione privata a quella pubblica, legittimando la volontà dei personaggi di infrangere le regole imposte dalla società civile. La Roma esplosiva del Piacere è infatti già proiettata verso una dimensione nazionalista
21
Cfr. A. Ridolfi, L’antiparlamentarismo e i romanzi di Federico De Roberto (A proposito del dialogo del giurista con la letteratura), «Teoria del diritto e dello Stato», 1-2-3, 2006, pp. 199 ss. 22 C. A. Madrignani-G. Bertoncini, Il Parlamento nel romanzo italiano cit., p. 943. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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che incede nel Novecento, conscia che il Risorgimento è in realtà una rivoluzione incompiuta, piuttosto che mancata. A fronte di quanto detto sinora, si può concludere sostenendo la policentricità del romanzo seraiano sia nell’ambito del contesto letterario coevo sia dell’opera omnia dell’autrice. Definito dalla stessa come «argomento arido ma poetizzato»23 la Conquista di Roma da una parte segue i passi della moda letteraria del tempo, dall’altra si ritaglia il proprio spazio sperimentando un nuovo tipo di linguaggio che sintetizza quelli parlamentare e amoroso. Ad esempio, in questa accezione lo scontro tra Camera e Ministro si esprime in termini erotici, richiamando al lettore le pagine più passionali della scrittrice. La storia principale, invece, che ha per protagonista il neo deputato lucano Francesco Sangiorgio, si dirama in una serie infinita di microstorie che raccontano la Roma bizantina, descrivendone minuziosamente i luoghi e gli scorci che inquadrano spazialmente i personaggio. E poi ancora, vi sono accenni alle sperequazioni economiche, alla importante e onerosa questione degli affitti, alle aule parlamentari, alla teoria di donne che «frivoleggiano di politica». Donne queste già conosciute nei bozzetti impressionistici di Serao ma fotografate ora nella loro debolezza, conseguenza di un sistema sociale che corrode, contamina. Niente di diverso insomma dai reportage giornalistici a cui la scrittrice ha abituato le cronache quotidiane, e che sembrano trovare nella Conquista di Roma un luogo fisico di assemblamento, quasi una “silloge bizantina”, una fotografia dei quartieri altolocati della capitale. L’ambivalenza tra la Roma parlamentare e quella dei quartieri più in ombra emerge, in una sorta di catabasìs, quando Sangiorgio si addentra in città alla ricerca di un affittacamere. Solo allora si scopre «il grande equivoco della vita romana, così corretta e immobile nell’apparenza, così inquieta, fervida, calda nella sostanza».24 Siamo distanti quindi dalla popolarità che anima il Ventre di Napoli, in cui al contrario si coglie la città partenopea in tutte le sue sfaccettature restituendola in un affresco dell’Italia post-unitaria scissa tra modernità e tradizione. Per concludere, La Conquista di Roma che comincia con un viaggio iniziatico termina invece con un viaggio di non ritorno, che segna la fine delle illusioni richiamando alla memoria quell’orizzonte nichilistico derobertiano che trova la più alta espressione nell’Imperio e nelle parole con cui l’autore siciliano descrive la prima seduta parlamentare di Rainaldi: Il giovane abbracciava con uno sguardo la scena, impressionato, commosso dalla maestà di Montecitorio, Foro della nazione, Basilica della terza Roma […] In quel momento il campanello del Presidente squillava, molte voci gridavano […] Dalla confusione, alzandosi, Rainaldi mise piede in fallo e dovette appoggiarsi alla colonna.
23 24
Lettera a Gegè Primoli datata 20 agosto 1894 cit., p. 135. A. Banti, Serao cit., p. 53.
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Allora, sotto la mano, sentì che la grave colonna sorreggente l’arco solenne era di legno foderato di cartone.25
Nel «cielo di carta» in cui si perde la grandezza e la maestosità di Roma, il treno di ritorno in cui sono maturate e ora disfatte le ambizioni parlamentari di Francesco Sangiorgio e quelle mondane di Angelica, raccoglie e interpreta le emozioni universali e condivise che diverso tempo prima avevano spinto verso la capitale la giovane Serao, la quale non a caso scrisse al Mariani, «Io me la prendo poco a poco questa Roma moderna: ma una parte di essa già mi appartiene».26
25 F. De Roberto, L’Imperio [1895], in Id., Romanzi novelle e saggi, a cura di Carlo A. Madrignani, Milano, Mondadori 1984, pp. 1116-17. 26 M. Serao, Alla ‘Conquista di Roma’. Lettere di Matilde Serao ad Ulderico Mariani cit., p. 383.
VI. Italiane della (e nella) letteratura
NUNZIA SOGLIA Le donne italiane negli scritti giornalistici di Matilde Serao
Nell’ambito delle nostre riflessioni sui 150 anni di unità nazionale mi sembra interessante ricordare un testo di Matilde Serao poco studiato. Infatti, Parla una donna,1 piuttosto che presentarci una donna che parla della guerra, come suggerisce il sottotitolo Diario feminile di guerra, maggio 1915-marzo 1916, presenta una donna che attraverso la guerra parla delle donne italiane, delle loro virtù e delle loro colpe, quasi un «breviario della donna italiana».2 È Matilde stessa, in prefazione, ad avvertire che l’opera è scritta con sentimenti di donna e di madre più che con rigore di giornalista: E tu, allora, lettore, lettrice che trascorrerai queste pagine, ove son segnati questi fasti del nostro popolo in guerra, ove son notati gli episodi della virtù mulìebre, ove sono espressi i sensi di ammirazione, per tanto valore di fanciulle, di donne, di madri, non ingannarti su ciò che è questo libro. Esso non è uscito dalla penna di una scrittrice: in esso, parla una donna. Non vi troverai nessuna veste letteraria: ma sentirai la sincerità di un vivo ma contenuto dolore, il fervore di una immensa speranza.3
Il libro, che fu pubblicato in pieno conflitto mondiale, nella primavera del 1916, raccoglie gli scritti di guerra apparsi sul Giorno tra il maggio 1915 e il marzo 1916. Esso fu dedicato dalla Serao ai tre, dei suoi quattro figli, che erano in quel momento soldati: Antonio, caporale di Fanteria, Paolo, sottotenente del Genio, Vittorio, tenente di Fanteria, che «servono la Patria con fedeltà ed onore». Dopo una
1
M. Serao, Parla una donna. Diario feminile di guerra. Maggio 1915-Marzo 1916, Milano, Fratelli Treves editori 1916. 2 W. De Nunzio Schilardi, «Parla una donna»: Matilde Serao e la guerra, in «La nuova ricerca», III (giugno 1994), 3, Schena Editore, p. 295. 3 M. Serao, Parla una donna… cit., pp. XIV-XV. Italiane della letteratura: Matilde Serao
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ristampa datata 1921, conservata oggi solo nella Biblioteca del Ministero dell’Interno, il testo è rimasto pressoché avvolto nel silenzio. Voglio ricordare che Matilde Serao aveva assunto prima del conflitto una linea neutralista nel suo giornale, in questo d’accordo col suo ex marito Edoardo Scarfoglio e con il giornale da lui (oltre che da lei) fondato, Il Mattino. Il 10 e 11 novembre 1914, aveva scritto su Il Giorno un articolo dal titolo che non lasciava dubbi sulla sua posizione, Essa non spargerà il sangue!, in cui si rallegrava che «la cara Italia» fosse in pace perché «qualsiasi guerra in cui questi parolai dalla testa vuota o quaranta interessati di loschi interessi vorrebbero lanciare l’Italia, sarebbe ingiusta, infame, crudele».4 L’articolo si chiudeva con questa aspettativa per l’Italia: «Il suo sangue non sarà sparso. E vincerà la più grande delle sue battaglie!».5 All’interno della parabola giornalistica di Matilde Serao, Anna Banti ne esalta proprio l’antibellicismo quando scrive: «Bisogna riconoscere alla nostra almeno un merito che mai ci stancheremo di indicare: tanto nel Mattino come nel Giorno nessuno le ha mai strappato alla penna un incitamento, un applauso alla guerra».6 Allo scoppio della guerra, poi, la Serao seguì la linea trasformista in cui era maestro il suo ex marito e si adeguò, anche se non fu mai bellicista. Come più volte è stato osservato, queste idee contraddittorie non possono essere ricondotte al puro dato umorale, psicologico, sentimentale. Il mutato atteggiamento a favore della Germania, ad esempio, fu una scelta dolorosa ma necessaria, che la Serao fu costretta a fare per le simpatie germanofile della maggior parte degli azionisti del Giorno.7 Ma veniamo al libro. La Serao, dicevo, parla delle e alle donne italiane, «mie sorelle di pena» – le definisce nell’articolo Dio l’ha voluto8 – alle quali vuole dire «la più schietta e più fraterna parola […]. Tutto quello che voi scongiuravate lontano da voi, e io con voi, è accaduto. Siete voi vere cristiane, siete voi vere credenti, avete voi una fede preclara e intatta, in una Volontà Suprema, che non dovete giudicare, ma a cui vi dovete inchinare, con cuore straziato, ma reverente? Se tanto voi siete, […], voi dovete dire, a voi stesse, voi sapete già che Iddio ha permesso, per sue alte e misteriose ragioni questa guerra». Tutto ciò non vuol dire che le donne debbano chiudersi passivamente nel loro dolore. Anzi, Matilde le incita a continuare a vivere operosamente e serenamente: «Non dobbiamo noi che restam-
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«Il Giorno», 10-11 novembre 1914. Ibidem. 6 A. Banti, Matilde Serao, UTET, Torino 1965, p. 276. È vero che durante la guerra libica scrive sul Giorno articoli inneggianti alla guerra, ma – precisa la Banti – «solo a fatto compiuto (cioè dopo l’intervento dell’Italia) si sottomette ai doverosi fervorini patriottici, sempre tuttavia col pensiero rivolto, come al solito, alle povere madri». 7 W. De Nunzio Schilardi, Il «Giorno» di Matilde Serao e il fascismo, in AA.VV., Matilde Serao tra giornalismo e letteratura, Liguori, Napoli 1977, p. 79. 8 M. Serao, Parla una donna… cit., pp. 1-8. 5
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mo a custodire la famiglia, la casa, la città, diventare i lugubri custodi di un cimitero di vivi; il tesoro della patria che ci fu confidato, dobbiamo accrescerlo di forza, di ricchezza, di bellezza, qui, mentre laggiù i nostri soldati lo accrescono di gloria».9 La guerra fornisce alla giornalista-scrittrice la materia per celebrare entusiasticamente la donna italiana, attraverso esempi puntuali di virtù, di onestà, di pietà, di eroismo. Così elogia le contadine d’Italia, in un brano che è un vero e proprio inno al lavoro femminile: Sulle pianure feconde di Campania come sulle calde pianure di Sicilia, sui monti aspri e neri di Calabria, come sui monti nevosi e candidi di Abruzzo, sulle tonde colline di Toscana come sulle azzurre, sulle orientali spiaggie di Puglia, come sulle montagne coverte di boschi del Piemonte, ovunque, le contadine italiane eran avvezze alle diuturne fatiche: di tutte le età, bambine di dieci anni, giovinette di quattordici, fiorenti spose ventenni, forti madri quarantenni, aduste vecchie sessantenni, esse fornivano, sempre, la loro opera quotidiana, in costante aiuto dell’uomo, il padre, il fratello, il marito, il figlio. Ma la loro tenace fatica si svolgeva, prima della guerra, fra le cure casalinghe, fra quelle date al giardino e all’orto, fra quelle date agli animali: si svolgeva nelle vaste cucine dai larghi focolari di pietra, filando la lana, lavorando di calza, rattoppando vesti e biancherie degli uomini, cucendo il modesto corredino del bimbo che già palpitava nel grembo materno: si svolgeva in tutte le opere minori, opere che le braccia feminili, che le mani feminili compivano, con costanza instancabile […]. Ma i contadini d’Italia sono partiti, per la guerra […]. E, allora, le contadine italiane, in estate e in autunno, hanno raddoppiato, triplicato il loro lavoro quotidiano.10
C’è alla fine di questo articolo il timore che tali manifestazioni di virtù e di coraggio non vengano immortalate dalla penna di un grande poeta: «Chi canterà le tue pure e umili glorie, contadina italiana? Il poeta italico, il poeta virtuoso, il poeta semplice, il Poeta, infine, Giosuè Carducci, è morto, è morto e tu non troverai cantore di te degno!».11 Questo elogio non è occasionale, mi sembra essere un possibile centro ideologico del libro, anche alla luce della funzione di incivilimento che la Serao attribuiva al giornalismo: Migliaia di destini feminili questa guerra ha cangiato e cangia: sovra tutto in quelle folte, in quelle profonde masse popolari […]. Ad esempio una vigorosa lavoratrice dei campi dopo le sue oneste nozze era rientrata nella casa coniugale, a governare i figliuoli, a badare al focolare domestico: ma la guerra le ha portato via il marito: ebbene, ella domani riprenderà la via dei campi, ritornerà alle fatiche pesanti, si curverà sulla terra madre, per mesi e per anni, finché i figliuoli non crescano e non trovino la
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Ivi, p. 16. Ivi, pp. 113-115. 11 Ivi, p. 117. 10
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loro via […]. Donne che non erano mai escite alle prime ore mattinali dalle loro case, già ne escono ogni dì, per recarsi alla nuova fatica, al loro nuovo dovere; donne che non avevano mai applicato la loro mente, mai fissato il loro sguardo, mai adoperato le loro mani nel lavoro, adesso imparano, si istruiscono, si fanno abili, diventano migliori degli uomini, in certi compiti, in certi uffici. È passato, ormai, per loro, il tempo in cui eran chiuse, nella custodia della casa e della famiglia […]. Chi apprezzerà mai tutta la somma di coraggio quotidiano? Chi darà un premio a questo ignoto valore? Dio vede: ma il mondo è cieco.12
La Serao, madre con tre figli al fronte, si identifica soprattutto con «quelle madri ostinate in una sublime speranza: e che non avendo notizie di un figlio da sei mesi, da un anno, da quindici mesi, seguitano a scrivere, ovunque, seguitano a dirigersi, a tutti, seguitano a mettere avvisi nei giornali esteri, per sapere qualcosa di uno scomparso. Come potete dar loro torto? Egli potrebbe essere vivo…Per una madre, basta!».13 Queste parole sono dettate da quell’affetto materno, del quale, diceva Benedetto Croce, «ella possiede il segreto».14 All’interno della sua produzione la Serao ha esaltato spesso l’amore materno e la devozione filiale, sacralizzando la figura della madre e conferendo ad essa un potere tutelare e quasi soprannaturale. Matilde ha parole affettuose per le madri che chiedono aiuto allo scrivano, «nel loro impellente bisogno di sapere, ad ogni costo, una qualsiasi notizia, sia pure cattiva, del loro nato, di colui che era tutto il loro affetto e tutto il loro sostegno. E questo si capisce; ma stringe assai il cuore pensare che queste derelitte non abbiano qualche parente, qualche nipote, qualche essere giovane infine, che sappia scrivere, che sappia leggere una qualsiasi lettera. O povere donne solitarie, nella vostra sventura e nella vostra ignoranza; o povere donne analfabete che, a piccoli gruppi, andate presso lo scrivano, che ha piantata, sul suo tavolino, la piccola bandiera, per l’occasione; Non avete nessuno, per voi, nel vasto mondo: avevate soltanto quell’unico figliuolo e generosamente, l’avete dato alla patria».15 Si tratta di un bozzetto all’altezza delle migliori pagine di ambiente del Ventre di Napoli, e non solo. Parla una donna è anche una requisitoria delle debolezze, dei vizi delle donne. L’articolo Inette a vivere16 dell’autunno 1915 è dedicato alle donne che muoiono per amore. Contiene brevi aneddoti di donne che non hanno saputo accettare la separazione imposta dalla guerra, come colei che «vaga per la casa, come un’ombra, senza avere la forza di occuparsi di nulla e con la visione incessante di vedere sfumare il suo sogno d’amore, di veder annientata tutta la sua felicità»; o colei ormai
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Ivi, pp. 143-148. Ivi, p. 97. 14 B. Croce, Letteratura della Nuova Italia, vol.III, Laterza, Bari 1915. 15 M. Serao, Parla una donna… cit., pp. 167-168. 16 Ivi, pp. 127-132. 13
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ridotta ad «una larva che vive di pianto», o la giovane sposa che «eludendo qualsiasi vigilanza, ingoiò dieci pasticche di sublimato, per unirsi all’amor suo». La Serao non può comprendere una simile debolezza e infatti la sua conclusione è questa: «Per ognuna di queste creature si può dire che, per esse, l’amare un uomo era tutto: e senza di esso, erano inette a vivere». Tale giudizio si rafforza poco dopo in un capitolo dedicato alle vedove bianche, cioè le fidanzate che si consacrano, magari dopo un breve amore, alla memoria del fidanzato perduto, che «finirà per diventare un loro nemico intimo».17 Diverso l’atteggiamento nei confronti dei matrimoni di guerra, «singolare sentimento, ma sentimento grande, per cui due esseri si uniscono per brevissimo tempo, in una intensità di amore, perché da loro, nasca una novella vita; […]; perché tutto non finisca, con il soldato che cade in guerra, e perché dalla morte sorga la vita».18 Nell’imminenza fremente della guerra i matrimoni erano aumentati in numero esponenziale. E da grande giornalista, la Serao teneva sempre d’occhio la realtà sociale e le statistiche che la fotografavano. Scorrendo le pagine del Diario, ci imbattiamo anche in qualche giudizio sul femminismo, con il quale Matilde Serao aveva un rapporto difficile e contraddittorio, ma sempre aperto. La giornalista-scrittrice chiama nullità le donne che hanno sfruttato un momento tragico per mettersi in mostra, in prima linea, «donne che hanno approfittato della nobilissima modestia, dell’alto silenzio, in cui operano tutte le altre donne, le vere, le autentiche pietose, quelle che hanno una mente lucida e un cuore infiammato, per potere, quelle non autentiche, offrire al pubblico la loro numerosa e ingombrante vacuità: donne di artificio e d’ipocrisia, che dalla guerra e dalle sue mortali tristezze, hanno tratto materia per soddisfare il loro furore di vanità, la loro frenesia di réclame».19 Lo scetticismo della Serao nei confronti dell’emancipazionismo femminile la porta a criticare qualsiasi forma di associazionismo e dispiega una dura ironia presente nell’articolo Che faranno, dopo?,20 in cui Matilde chiama le suffragettes singolarissime zitelle, e si chiede cosa faranno dopo la guerra, dato che «questa prova generale del feminismo non è troppo ben riuscita, agli scopi della propaganda, in favore di un così grande rivolgimento sociale. In molte professioni, in molti uffici, le donne introdottevisi, hanno fatto un fiasco solenne». A giudizio della Serao, quindi, le femministe saranno costrette a restringere il loro orizzonte. Viceversa, la Nostra esalta l’opera individuale femminile. Grande osservatrice degli esseri umani, ella sa «quanto, una sola donna, sorretta da uno spirito sereno e pure energico, guidata da una coscienza chiara e semplice, possa fare nella sua famiglia, nella sua città, nella sua patria. […] Così, io lo so, in
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Ivi, p. 142. Ivi, pp. 170-171. 19 Ivi, p. 176. 20 Ivi, pp. 232-236. 18
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questa guerra, quanto ogni donna vorrà fare, saprà fare, da sé, per ispirazione celeste, per ispirazione d’amore, avrà un valore immenso».21 L’attacco ai comitati ritorna, verso la fine del libro, nella Lettera a una Sconosciuta22 datata inverno 1915. Seguendo ancora una volta il doppio binario virtù-colpa, nella Lettera la Serao oppone le donne che si prodigano nell’anonimato alle donne che si esibiscono riunendosi nei comitati. Da un lato, come esempio negativo, ci sono le donne riunite in gruppi organizzati, dall’altro lato, come esempio positivo, ci sono madri, mogli, sorelle, fidanzate che non si sono risparmiate per curare i feriti, o per consolare le mogli e i figli dei soldati lontani. Rivolgendosi ad una Sconosciuta, simbolo in realtà di centinaia di migliaia di donne italiane, Matilde scrive: O Sconosciuta, tu hai fatto tutto senza irreggimentarti, senza classificarti, senza chiuderti nel giro di un comitato, sempre esiguo, e di un programma ancora più esiguo, e non hai ceduto a nessuna vanità, e non ti sei abbandonata a nessuno snobismo e non hai chiesto suffragi pubblici, non hai chiesto suffragi stampati, tanto è vero che io, giornalista, non ti conosco, mentre so bene gli altri nomi, quegli altri, che ho stampati cento volte.
C’è poi un’altra coppia rappresentata in contrasto: la madre del soldato e la madrina del soldato. La figura della madrina di soldato era molto diffusa tra le donne francesi, le quali, «avendo trascurato di mettere al mondo molti soldati o non avendone messo al mondo neppure uno si sono date dei figli putativi».23 I poeti decadenti francesi – ricorda Matilde – chiamavano le loro compatriote florifères, apportatrici di fiori e non di frutti perché «per conservare intatta la loro perfezione estetica rinunziavano spontaneamente alla maternità».24 Dalla parte del bene, c’è il culto tutto italiano della famiglia che «ha qualche cosa di venerando» e grazie al quale «il soldato italiano ha sempre qualcuno che gli vuole bene». Altra opposizione ancora: le donne italiane hanno compreso la necessità di fare delle economie in tempo di guerra, le donne inglesi «hanno protestato che era impossibile diminuire anche di un solo soldo la spesa di casa, con i suoi cinque pasti, la prima colazione, il lunch, il the delle cinque, il pranzo alle otto e il the delle dieci di sera». Più avanti, l’ironia diventa sarcasmo: «Come servire una tazza di the ad un’amica senza la salviettina orlata di merletto?». In prefazione, Matilde Serao aveva definito la guerra «realtà senza parole», «tragedia senza poeta».25 Anche attraverso prose di guerra, invece, questa maestra di
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Ivi, pp. 18-26. Ivi, pp. 260-268. 23 Ivi, p. 48. 24 Ivi, p. 133. 25 Ivi, p. XI. 22
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giornalismo, «la più grande pittrice di folle che abbia dato il nostro verismo» come la giudicò Momigliano, ha voluto imporre all’ammirazione di noi tutti la donna e soprattutto la madre italiana, ricomponendone gli elementi di identità allora prevalenti, «per un bisogno di proclamare tanta purezza di abnegazione, tanta altitudine spirituale».26 Parole che costituiscono la cifra di connotazione di un testo per lo più trascurato dagli studiosi e del tutto ignorato dai lettori ma che mi è sembrato utile rimettere in circolo nella ricorrenza genetliaca dell’unità d’Italia. Non è certamente esagerato inscriverlo come documento di rilievo nella teoria dei testi attraverso i quali la letteratura ha contribuito a costruire l’identità nazionale o ne è stata lo specchio.
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Ivi, p. XIV.
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LA FIGURA DELLA DONNA DALL’ITALIA POST-UNITARIA ALLA SOCIETÀ DEGLI ANNI SESSANTA
ALESSIA ROMANA ZORZENON Il sacrificio di Teresa ne ‘La piccola fonte’ di Roberto Bracco
«Che cosa sia stata ad ieri la Donna, più o meno ce l’hanno detto. Che cosa sia oggi, lo vediamo. […] ma che cosa sarà la Donna, in genere, domani, doman l’altro, fra un secolo?».1 Con queste parole Roberto Bracco si interroga sul possibile ruolo della donna nella società del suo tempo. Un ruolo che lo scrittore analizza in un libercolo, come egli stesso lo definì, dal titolo Nel mondo della Donna. Conversazioni femministe (edito nel 1906 a Roma in formato tascabile nella Piccola collezione Margherita della casa editrice Voghera), in cui è raccolta una conferenza sull’evoluzione della donna tenuta per la prima volta nel 1901 a Trieste e successivamente riproposta a Bologna, Palermo, Napoli. Bracco parte da una considerazione di carattere sociologico, affermando che nella civiltà moderna si muovono due tendenze opposte: quella che sostiene l’emancipazione della donna nella società allo scopo di legittimarne i diritti e di creare le condizioni necessarie a un’esistenza paritaria a quella dell’uomo, e quella tendente a frenare le velleità della donna cercando di congelare l’ordine gerarchico della società patriarcale. Andando a fondo nell’analisi, lo scrittore individua le radici di queste due tendenze rispettivamente nella valutazione cristiana del dolore umano da una parte, e nell’utile individualistico dall’altra. Tuttavia, egli si sofferma su questo secondo punto, che ha nello Zarathustra di Nietzsche il suo principale portavoce (del resto uno dei protagonisti de La piccola fonte, lo scrittore Stefano, marito di Teresa, pur non essendo un personaggio di derivazione nietzschiana, afferma di voler scrivere un Poema della Forza «contro gli esseri inferiori, contro i deboli, contro i vili, contro
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R. Bracco, Nel mondo della Donna. Conversazioni femministe, Roma, E. Voghera 1906, p. 23.
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gli inutili, contro gli sciocchi»,2 che ricorda proprio lo Zarathustra). Pur riconoscendo l’importanza delle teorie del filosofo tedesco, soprattutto sul versante estetico, Bracco ne dà un giudizio duro sul piano morale, tacciandolo addirittura di incompetenza; in particolare critica l’idea che Nietzsche ha della donna, considerata un essere inferiore privo di profondità spirituale, la cui unica funzione è quella della maternità e la cui felicità si esprime nel dire «egli vuole». Secondo l’autore, le cose potrebbero migliorare qualora l’uomo dicesse alla donna di non imitarlo e di non svolgere i suoi mestieri poiché così perderebbe la propria femminilità; ciò nonostante, nessuno farebbe mai questo discorso dal momento che nell’uomo manca una concezione morale della vita. Appare chiaro, dunque, come lo scrittore napoletano parta da una considerazione negativa del maschio. Il punto chiave della sua «conversazione» è che la donna potrà essere liberata soltanto quando sarà eliminata dalla società la corruzione, che non solo è divenuta un organismo morale ma pervade ogni individuo fin nella sua profonda essenza. L’uomo è corrotto, e questo fa sì che la società si strutturi in una direzione gerarchica che pone il maschio al vertice: il maschio, perciò, è corruttore, e alla donna non resta che il ruolo di vittima. È necessario quindi fare una breve digressione per dire che tutto il discorso di Bracco segue un filo preciso costruendosi nella forma di un ragionamento aperto: ogni qualvolta l’autore giunge a una conclusione, immediatamente la mette in discussione, anticipando le critiche che sapeva benissimo gli sarebbero state mosse. Lo scrittore non era uno sprovveduto e conosceva bene la portata dirompente del suo discorso in un momento storico in cui la donna, di certo, salvo rari casi, era delegittimata in ogni ambito. Resosi conto di avere prestato troppo il fianco alle critiche, si dice consapevole dell’impossibilità di distinguere i responsabili della corruzione attraverso una netta separazione tra maschio e femmina, e dichiara che la corruzione «è un male epidemico diventato endemico».3 Malgrado ciò, con coraggio, egli assesta un duro colpo alle fondamenta di una società maschilista, e lo fa attingendo non tanto dall’ambito di un’etica della pietas, di derivazione cristiana, ma dalla teoria darwinista che in quegli anni aveva preso vigore e che aveva riconfigurato la storia dell’evoluzione in base alla lotta per la sopravvivenza: non soltanto per l’uomo ma anche per le piante, gli animali e gli organismi, invisibili a decidere del destino di un genere è sempre la legge del più forte, e dunque, sostiene Bracco, «la tracotanza maschile […] invade, spadroneggia, assale, si moltiplica,
2 Id., La piccola fonte. Dramma in quattro atti, Milano – Palermo – Napoli, R. Sandron 1906, p. 54. 3 Id., Nel mondo della Donna. Conversazioni femministe cit., p. 53.
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creando l’ingiustizia e la corruzione fondamentale della poligamia».4 L’evoluzione stessa, quindi, impone la supremazia del maschio, che a sua volta apre all’affermarsi della corruzione. Questo è il passaggio decisivo del suo discorso, che vale la pena ripercorrere: la condizione di inferiorità della donna è dovuta alla corruzione sociale, mentre la corruzione è generata dalla egemonia biologica del maschio. Ancora una volta lo scrittore anticipa le critiche dei sostenitori della linea maschilista, secondo cui: se il maschio fosse iniziatore della corruzione, allora dovrebbe essere oggetto di un’opera di trasformazione; se questa però non è stata messa in atto da Dio, le donne devono accettare la propria condizione senza lamentarsi. La sua risposta è di nuovo un’invettiva al maschio, sottolineando che il mondo in cui la donna è costretta a vivere non è più quello di Eva perché secoli di civiltà ne hanno trasfigurato il volto. Nella seconda parte della conferenza il giornalista ricorda i movimenti femministi che si andavano affermando a partire dalla metà dell’Ottocento, e grazie ai quali si stava creando una nuova coscienza della donna, ponendo le basi per un riscatto completo in un futuro ancora lontano. Nonostante ciò, in Italia la situazione era diversa poiché quello spirito di rivalsa non aveva ancora trovato un terreno fertile. Lo scrittore afferma: «la donna tipica italiana sfugge con graziosa disinvoltura agl’inviti battaglieri, e, […] si compiace della sua immobilità ai raggi del vecchio sole».5 Questo, tuttavia, per Bracco non rappresenta un punto debole delle donne italiane, le quali, anzi, dimostravano una certa preveggenza: ne è un esempio la questione del divorzio che non aveva attecchito, forse perché, spiega l’autore, le donne avevano capito che ne avrebbero tratto più danni che vantaggi. Il diritto al divorzio è come «il gingillo e il giocattolo esilarante offerti all’individuo che ha fame»;6 prima di tutto ciò era necessario che fosse garantito «il diritto incondizionato della vita, senza i limiti della sottomissione al maschio»,7 soltanto in questo modo si sarebbero poste le condizioni affinché la donna potesse «provvedere a se stessa, […] alla propria esistenza, alla propria vitalità, al proprio cuore e finanche ai propri sensi».8 Bracco, però, diffida di alcune posizioni che tendono a difendere la donna dimenticando le sue peculiarità, infatti precisa di non essere né tra coloro che credono che la donna debba assumere atteggiamenti mascolini, né tra coloro che chiamano a pretesto un elenco di donne celebri che hanno raggiunto una posizio-
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Ivi, p. 57. Ivi, p. 72. 6 Ivi, p. 77. 7 Ivi, pp. 75-76. 8 Ivi, p. 76. 5
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ne di prestigio (Madame de Staël, Vittoria Colonna, Bianca di Castiglia, Elisabetta d’Inghilterra, Giovanna d’Arco e altre) e neppure tra quelli che, riprendendo le teorie di Saint Simon, chiedevano l’uguaglianza dei due sessi con il risultato di sopprimerli entrambi. La strada indicata dallo scrittore è difficile da intraprendere: la donna deve essere portatrice di una femminilità che, pur essendo scevra da attributi virili, non sia debole e indifesa. Affinché sia raggiunto questo equilibrio è indispensabile un doppio movimento: la donna deve tornare indietro, deve andare alle spalle della sua condizione femminile e considerarsi come semplice individuo, come essere umano, e da questa posizione combattere contro l’uomo, dimostrandogli di non avere bisogno del suo aiuto; sarà necessario riconfigurare la categoria donna senza fare appello alle peculiarità femminili, poiché in questo caso si resterebbe sempre prigionieri della contrapposizione uomo-donna, e la donna sarebbe tale in quanto non uomo. Per Bracco, invece, è necessario trovare una sorta di forma originaria in cui non vi sia ancora una distinzione dei sessi. Soltanto a questo punto è possibile un secondo movimento in avanti, con cui la donna riacquisti quelle che sono le sue caratteristiche per diventare finalmente, come dice lo scrittore, «la madre – continuatrice della specie, continuatrice della vita, continuatrice del mondo –, senza essere più la schiava».9 In questo lavoro viene presa in considerazione la figura di Teresa ne La piccola fonte, un dramma in quattro atti rappresentato per la prima volta al teatro Manzoni di Milano dalla compagnia Talli-Gramatica-Calabresi nel febbraio del 1905. Ambientata a Napoli, l’opera narra dell’affascinante e piacente scrittore Stefano Baldi e di sua moglie Teresa, debole creatura dedita completamente al marito. Innamoratosi di una principessa, Stefano trascura la moglie, la quale inizialmente decide di abbandonarlo, ma poi, ritornata a casa, cade in uno stato di demenza che la porta a non riconoscere e a non volere più l’uomo amato. Il dramma si chiude con il suicidio di Teresa, la quale si lascia precipitare dal terrazzo a picco sul mare di Posillipo, mentre suo marito un istante prima le si era addormentato accanto. Viene rappresentata la parabola discendente di questa figura femminile, che inizialmente è ritratta come una donna disposta ad assecondare le volontà del marito, ma in seguito qualcosa cambia: un litigio le fa prendere coscienza della sua inferiorità, portandola alla pazzia. La lite, pur essendo un episodio minimo, costituisce il centro dell’intera storia poiché crea una frattura sia all’interno della narrazione che nel personaggio di Teresa: nel primo caso, perché da quel momento l’opera prende una piega diversa sfociando in una vera e propria tragedia, nell’altro, invece, la protagonista prende
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coscienza del suo stato e si scontra con quella parte di se stessa che sino ad allora aveva accettato la situazione. Questa scissione dell’io in Teresa conduce alla follia, che Bracco rappresenta come qualcosa di improvviso, senza mostrarcene la maturazione. Con un gesto forte, passando da un atto all’altro, ritroviamo una donna cambiata e impazzita. Ella è un personaggio chiuso nel suo guscio di moglie e casalinga, che accetta i comportamenti di superiorità del marito fino a idolatrarlo. Il rapporto con quest’ultimo viene esasperato dall’ingresso sulla scena della principessa Heller, la quale rappresenta l’esatto contrario di Teresa essendo un personaggio caratterizzato da una grande apertura alla società. La principessa ha in sé una sorta di forza centrifuga, per cui dalla sua figura sorgono delle trame che si muovono in tutte le direzioni, e una di queste è quella che si intreccia con Stefano che ne resta affascinato sino a innamorarsi. In Teresa, al contrario, agisce una forza centripeta che la porta a ripiegarsi su se stessa fino a chiudersi in un mondo tutto suo, Stefano infatti le dice: «Tu non sai mai nulla di ciò che accade fuor del tuo guscio».10 Tuttavia, in questo guscio resta aperto un varco verso l’esterno che è rappresentato dal solo marito: la sua vita ruota attorno al compiacimento di quest’ultimo. Il personaggio di Teresa è definito a partire dalle caratteristiche di Stefano: ella esiste perché Stefano esiste. La donna, in questo senso, non è altro che il completamento dell’uomo, quasi un’appendice. La protagonista vive senza alcun desiderio di riscatto dalla sua condizione, anzi, addirittura teme di infastidire il marito con la sua sola presenza, e, in uno dei dialoghi tra i due, dice: «Ho paura di annoiarti… Ho paura di averti già disturbato con la mia fanciullaggine».11 Al cospetto del marito si sente una fanciulla sciocca e ingenua. La sua è una vera e propria devozione, al punto che quando Stefano le impedisce di accompagnarlo a una festa, lo giustifica dicendo: «nessuno di noi è al caso di giudicarlo».12 Teresa sostiene che il genio del marito non può essere compreso da individui miseri, come definisce se stessa e il segretario Valentino. A differenza di altri personaggi femminili della letteratura come Anna Karenina ed Emma Bovary, che pur essendo accomunate dallo stesso destino, desiderano una via di uscita dalla situazione in cui vivono, la giovane donna non cerca alcuna alternativa al di fuori del marito, considerato come l’unico rappresentante del mondo esterno. Da parte di Stefano, invece, non vi è nessun interesse nei confronti della moglie, infatti alla fine del primo atto afferma: «riesci a darmi la misura di quello che
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Id., La piccola fonte. Dramma in quattro atti cit., p. 46. Ivi, p. 80. 12 Ivi, p. 93. 11
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valgo, di quello che sono, di quello che posso».13 Ovvero, proprio a partire dalla «fanciullaggine» della stessa moglie, egli comprende il proprio valore. Teresa è talmente ingenua da sentirsi lusingata per quella frase e arriva a rispondergli: «Che buone parole m’hai dette».14 Quello del protagonista non è amore, sua moglie altro non è che una figura secondaria rispetto a tutto ciò che gli interessa. Analizzando il dialogo con la principessa Heller, in cui Stefano chiarisce la natura della sua unione con Teresa, è interessante evidenziare i termini «caso» e «istinto» che spiegano chiaramente il modo in cui egli considera la sua relazione coniugale: termini, questi, che sono del tutto lontani dal sentimento dell’amore. Dopo l’incontro con la principessa, l’uomo ha un diverbio con la moglie, cui ribadisce che affinché possa dar vita alla sua opera è necessario che ella esista il meno possibile. L’espressione usata ha una forza tale da presagire la tragedia finale: egli, infatti, non le chiede di non farsi vedere più o di andare via, ma dice letteralmente di «esistere il meno possibile».15 Ciò significa che, anche se indirettamente, Stefano la spinge al suicidio, e tutto il resto della storia, a partire da questo punto, non è altro che un tendere verso il soddisfacimento di questo desiderio. È come se Teresa, anche in questo caso estremo, volesse accontentare ancora una volta il marito. Soltanto in tal modo, attraverso il sacrificio della donna, il protagonista potrà portare a compimento la sua opera. Ovviamente subito dopo, questi mitiga la propria posizione dicendo che Teresa potrebbe agevolare il suo lavoro trasferendosi per qualche mese dalla zia. Tuttavia, resta importante quella frase in cui emerge l’idea che l’arte possa nascere dal sacrificio, tendenza che attraversa parte della letteratura dell’Ottocento, ma che qui trova una coniugazione particolare poiché ciò riguarda la donna che accompagna il genio. Viene in mente a questo proposito Il capolavoro sconosciuto di Honoré De Balzac, dove la giovane Gillette è «una di quelle anime nobili e generose che accettano di soffrire accanto a un grand’uomo, ne sposano le pene e si sforzano di comprenderne i capricci»,16 infatti per amore di Nicolas Poussin la donna si «sacrifica alla pittura».17 Stefano crede di trovare nella libertà una fonte per la sua arte, le cose invece vanno diversamente. Egli stesso, che nel linguaggio aveva presagito la morte di
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Ivi, p. 80. Ivi, p. 81. 15 Ivi, p. 149. 16 H. De Balzac, Il capolavoro sconosciuto, Firenze, Passigli Editori 2001, p. 42. 17 Ivi, p. 54. 14
VI. Italiane della (e nella) letteratura
Il sacrificio di Teresa ne ‘La piccola fonte’ di Roberto Bracco
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Teresa, muore alla sua arte: scopre che la libertà tanto agognata, in realtà, non porta altro che vuoto. Non riesce più a scrivere nulla, ogni tentativo di continuare la sua opera fallisce miseramente e il breve successo riscosso sino ad allora si rivela un fuoco fatuo. Paradossalmente si può pensare che la vera fonte della sua arte sia stata sino ad allora quella piccola donna. Non a caso della grande opera che egli avrebbe voluto scrivere riesce a comporne solo il primo capitolo, elaborato quando Teresa gli era ancora accanto nel pieno delle sue facoltà. La morte simbolica della moglie (ovvero la follia che la estrania dalla realtà) ha quindi il suo contrappeso nella morte artistica del marito; a differenza di Teresa, però, Stefano è consapevole della sua caduta, e proprio a causa di una sensibilità artistica è destinato a vivere l’agonia della propria disfatta. «Lasciatemi al mio sepolcro»18 dice il protagonista alla principessa Heller, la quale vuole convincerlo a scappare con lei. Qui il termine «sepolcro» indica chiaramente come l’uomo senta ormai di essere giunto alla fine. A Teresa, invece, viene risparmiato qualsiasi dolore, la sua è una pazzia inconsapevole. Ella non soffre, anzi, sembra riprendere vigore proprio nel momento in cui viene assalita dalla follia. Quasi a sorpresa, dunque, quando la donna sembrava oramai entrata in una condizione di armonia con se stessa, poiché lo stato di pazzia l’aveva liberata dal sentire il peso di dover piacere a tutti i costi al marito, proprio in quel momento, in maniera improvvisa, si getta dal terrazzo, senza alcuna motivazione apparente se non lo squilibrio mentale. Alla fine quindi la protagonista muore nell’istante in cui si è liberata da quella situazione di sudditanza che l’aveva segnata sino ad allora. Pertanto, Bracco, pur presentandoci un personaggio sconfitto perché si dà la morte, contemporaneamente fa sì che Teresa esca vincitrice dallo scontro con quell’uomo tanto amato, il quale sarà costretto a fare i conti non solo con la fine del suo talento ma anche con il senso di colpa per quella morte improvvisa.
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R. Bracco, La piccola fonte. Dramma in quattro atti cit., p. 223.
La figura della donna dall’Italia post-unitaria alla società degli anni Sessanta
CATERINA FRANCESCA GIORDANO Una vertigine violenta nel romanzo ‘Con gli occhi chiusi’ di Federigo Tozzi
Federigo Tozzi è senza dubbio uno dei protagonisti della letteratura del Novecento. Nasce a Siena nel 1883; la sua infanzia e l’adolescenza sono segnate dalla violenza di un padre collerico e poco sensibile e da una madre debole negli affetti così come nella salute. La notorietà degli scritti del toscano si deve soprattutto alla riscoperta che dell’autore fa Giacomo Debenedetti, sottraendolo al contesto provinciale nel quale sembrava relegato. L’oggetto principale dell’analisi ruoterà intorno alla figura di Ghìsola, uno dei personaggi del romanzo Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi. La ricchezza dell’autore, la molteplicità degli elementi che costituiscono le sue opere, mi consente l’individuazione di un aspetto del romanzo per ora poco studiato, ovvero proprio l’analisi della costruzione del principale carattere femminile del romanzo. Scritto nel 1913 e pubblicato nel 1919, il romanzo Con gli occhi chiusi si presenta come il definitivo compendio della tormentata poetica tozziana. Dal sorprendente confluire di elementi diversi, nasce un libro nuovo in cui si afferma una originale dimensione biografica percorsa da una ossessiva qualità visionaria che consente all’autore l’alternanza continua tra memoria e immagine. Nel romanzo, il primo di Federigo Tozzi (se s’eccettua l’incompiuto Adele, pubblicato postumo nel 1979), convergono diversi piani espressivi che spaziano dalla trasfigurazione autobiografica alla letteratura documentaristica della vita nelle campagne toscane del primo Novecento, dal romanzo sentimentale fino a quello di formazione. In parte la finzione coincide con la vita dell’autore stesso. Come spesso accade nella letteratura, la vicenda principale del romanzo, quella di Pietro e Ghìsola, altro non è che una trasfigurazione letteraria del rapporto tra Federigo Tozzi e Isola, una contadina del Castagneto, podere del padre di Tozzi, della quale lo scrittore, allora sedicenne, si innamorò. La figura della donna dall’Italia post-unitaria alla società degli anni Sessanta
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Caterina Francesca Giordano
La storia è riferita in Novale, dove Ghìsola compare prima sotto il nome di Mimì, poi con il suo nome reale Isola. Inizialmente il titolo originario del romanzo in questione era Ghìsola, così come lo si evince da alcune lettere di Tozzi e da una postilla scritta da Emma Palagi, futura moglie dello scrittore, allegata ad una variante del finale. L’autore cambierà il titolo, dandone motivazione in una lettera del 6 agosto 1918 inviata da Roma alla moglie che si trovava a Siena: così scrive: «Mi dimenticavo di dirti che cambio il titolo al libro, ossia farò la proposta all’editore. Lo vorrei intitolare Con gli occhi chiusi. Il nome di una donna sulla copertina mi sembra un poco da romanzo per signorine. Non ti pare?». «La verità è che Tozzi aveva capito che in quel libro Ghìsola non c’era, ma c’era soltanto Pietro, con la sua soggettività senza contatti col mondo esterno; oppure Ghìsola c’era sì, ma nella misura in cui, come personaggio, non gli ubbidiva più, non si lasciava catturare nella struttura di un romanzo», come osserva Luigi Baldacci. È la storia di un giovane uomo che non conosce levità; ogniqualvolta Pietro s’innamora d’un’idea – sia questa una donna, o una consapevolezza – aderisce ad essa sino a disperarsene; non sa amare, perché intende amore come possesso; e quel che ama non è altro che la sua rappresentazione, una deviazione e un’alterazione della realtà, una violazione dell’essenza.stessa. In più d’una circostanza Ghìsola sembra accondiscendere al desiderio dell’uomo, non è più pura, nonostante lui si ostini a crederla tale, ma soprattutto non è più sua (anche se del resto, essa non è mai stata sua del tutto). La giovane contadina è una donna libera, splendida e seducente: ma Pietro non trova il coraggio d’amarla, perché vuole che tutto avvenga solo quando la ragazza sia diventata sua, legalmente, moralmente, socialmente. Quando, in altre parole, Ghìsola non sarebbe esistita più: quella creatura imprevedibile e inaccessibile, orgogliosamente indipendente avrebbe inesorabilmente lasciato il passo alla moglie borghese, priva del fascino dell’irrequietezza. Tozzi conclude il romanzo con il primo piano del ventre gravido di Ghìsola, prostituta in un casino, di fronte allo sguardo basito e depresso di Pietro: giunto fin grazie ad una delazione, smette d’amare l’idea di una donna che è decisamente troppo reale: quando egli vede il suo ventre, dopo essersi riavuto da una «vertigine violenta», non l’ama più. La grande forza del romanzo tozziano è sicuramente quella di dare corpo e voce ad una nuova visione della figura femminile, finalmente affrancata dai ruoli tipizzati della donna insicura, in balia delle passioni o soggiogata all’uomo. Ghìsola così si va ad inserire in quella continua evoluzione dei caratteri del romanzo che va dalla fine dell’Ottocento all’inizio del Novecento. Mi sembra sia possibile individuare, grazie ad una lettura sicuramente semplificante degli aspetti caratterizzanti dei romanzi tra fine 800 e inizi 900, diverse tappe evolutive nella trattazione della questione femminile: 1 – La frantumazione dell’io e del carattere che si concretizza nell’impossibilità
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Unaa vertigine violenta nel romanzo ‘Con gli occhi chiusi’
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della sua ricostituzione. La speranza, vanificata, di un riconoscimento, di un riscatto o di un’ascesa sociale, pulsione psichica positiva ma socialmente repressa. Personalità e contesto che si influenzano e si intersecano: così Marta Ajala ne L’esclusa di Pirandello esempio di come inconoscibilità, incomunicabilità, ghettizzazione, diventino elementi essenziali delle vicende assieme alle tematiche dell’abbandono, della solitudine e, infine, della rinuncia. 2 – La donna come forza motrice di un’autoanalisi e del distacco ironico dal reale. La rinuncia al coinvolgimento emotivo, l’impossibilità dell’amore e la «senilità» come sostrato psicologico dell’esistenza. Principale interprete di questi rapporti è Svevo: nei suoi romanzi la donna diventa strumento essenziale per la ricostruzione della personalità del protagonista. Tre intrecci narrativi e tre rapporti affettivi: Annetta e Alfonso di Una Vita, Angiolina e Amalia di Senilità, Ada / Augusta e Carla Gerco in La coscienza di Zeno 3 – il mancato dominio sulla complessità del reale e la demistificazione della donna eterea. Abbandono e deriva sentimentale, la sessualità subita, l’incapacità relazionale che fa dell’indifferenza una condizione esistenziale. Moravia. 4 – La «femme fatale» e il decadentismo dei sentimenti. Simboli di sensualità per eccellenza, l’eros come specchio di sadismo e aggressività del superuomo o come elemento di tormento maschile: Ippolita Sanzio ne «Il trionfo della morte» di D’annunzio o la Nestroff nei «Quaderni di Serafino Gubbio operatore». 5 – La donna come filtro di sensualità, innocenza, tradimento, fallimento esistenziale. La donna non è educatrice dei sensi ma elemento di ulteriore confusione nel difficile cammino verso la certezza del sé; la chiusura al mondo, la «cecità» al reale, l’apatia della disperazione e il riparo nel proprio mondo. A questa categorizzazione appartiene la Ghìsola di Tozzi. La donna diventa compartecipe della cecità del protagonista, alimenta la sua chiusura nei confronti del mondo e il suo rifuggire dalla piena consapevolezza di sé e di ciò che gli è attorno. Con Ghìsola ci troviamo di fronte al superamento del topos dell’amore romantico: dal sacrificio e dalla dedizione si passa al calcolo e al sentimento interessato. La decisione di Tozzi di dar vita ad un personaggio femminile che si affrancasse dalla caratterizzazione della donna romantica si va ad immettere in un percorso di trasformazione che si avvia già dalla seconda metà dell’Ottocento. Assistiamo infatti ad un graduale superamento della concezione della donna come fragile creatura votata al sentimento dell’amore per approdare ad un nuovo carattere femminile che prende coscienza del proprio sé e che agisce libero da qualsiasi vincolo. Ghìsola è una bugiarda e lo è sin dall’adolescenza. Di un egoismo spiazzante e spietato usa la sua innata sensualità con astuzia facendone uno strumento di riscatto. Sa mentire senza scrupolo e con una maestria che è tutta femminile. Incredibilmente ambiziosa e ostinata, vuole – come scrive Tozzi – fare «il comodo suo». Ogni mezzo è plausibile per uscire dalla gabbia in cui è nata. Questo romanzo ci regala, forse involontariamente, una figura femminile total-
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mente emancipata e condannata alla corruzione soltanto dalla mediocrità e dal moralismo del suo tempo. Lo sfortunato protagonista conclude la sua parabola risvegliandosi da un lungo torpore. Quel che voleva non è stato, quel che sembrava plausibile non si è concretizzato: ma l’amore degli ossessionati è diventa negazione di se stesso, la mania sentimentale rende irrealizzabile il rapporto; diventa un dettato senza passione, ripetitivo e tormentato. Alludendo all’astuzia istintiva della donna, e come colto da un improvviso rimorso davanti al miserevole spettacolo che il suo protagonista sta dando di sé, l’autore nota ad un certo punto che il finto «candore naturale» della ragazza «avrebbe ingannato chiunque». In realtà l’unico ad essere ingannato sarà Pietro. Il rapporto tra il protagonista e Ghìsola, una delle figure femminili più straordinarie ed inquietanti del nostro Novecento, evolve con crudeltà, senza leggerezza, senza compassione, senza scampo. Destinata alla sconfitta, povera per nascita (a differenza di Pietro, figlio del padrone del podere), Ghìsola è sì sola e spaesata, ma è priva di illusioni e nulla concede a sé e agli altri, «creatura inaccessibile, come gli dei e le bestie, figura ninfale che invano si corteggia», come ha giustamente rilevato Gianni Celati. Indifesa, oggetto di osservazione e di desiderio da parte dei maschi, non ha la pretesa di partecipare o di determinare eventi ed è sempre lontana, inafferrabile, anche all’interno della casa di tolleranza dove finisce. Di fronte a lei non può esserci che la vertigine, la perdita, l’impossibilità, come improvvisamente scopre Pietro alla fine della vicenda. In realtà Ghìsola non presenta alcun particolare che possa far innamorare Pietro, la sua resa avviene solo di fronte a ciò che la fisicità della donna è in grado di evocare nel protagonista. Quella sensualità naturale, quasi bestiale, di fronte alla quale Pietro si sente fin dall’inizio completamente inadeguato: EGLI non è capace né di accettare né di elaborare la sua insicurezza sessuale, e allora la rimuove in un comportamento che proprio la sessualità tende a mortificare se non ad annullare: se il desiderio istintuale si manifesta egli è pronto a sviarlo e a travestirlo, ovvero a non dargli corso in nome di astratti principi morali; e Ghìsola incarna per sua natura la sessualità quasi allo stato ferino, bestiale, libero da condizionamenti o inibizioni sociali. Forse Ghìsola è l’unica che «agisce» nel romanzo al contrario di Pietro che accecato rimane inerte a cullare la propria illusione. La grande novità del romanzo tozziano è dunque quella di aver in qualche modo ribaltato i ruoli, relegando ora il protagonista maschile ad un immobilismo emotivo e psicologico. Questo nuovo modo di vedere i personaggi e di crearli assegna a pieno titolo Tozzi al nascente romanzo del Novecento. Usando le parole di Geno Pampaloni in Introduzione a Federigo Tozzi, Con gli occhi chiusi possiamo affermare che «Senza mai perdere un contatto vitale con la realtà terragna, popolare e passionale in cui affondava le sue radici, è riuscito a trasformare la sua realtà in una figura della crisi europea con cui si apre il Novecento. Anticipò d’istinto certi
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affioramenti improvvisi e dolorosi dell’io profondo che sono studiati dalla psicanalisi, da lui ignorata. Espresse in modo originale, con personalissimo accento, l’angoscia del vivere che assedia il personaggio – uomo novecentesco».1
1 G. Pampaloni, Introduzione a Federigo Tozzi, Con gli occhi chiusi, Istituto geografico De Novara, Agostini 1883, p. IV.
La figura della donna dall’Italia post-unitaria alla società degli anni Sessanta
FRANCESCA TOMASSINI ‘Calderón’ di Pasolini: il sogno di Rosaura
Composto nel 1967, ma edito nel 1973, Calderón è l’unica tragedia di Pier Paolo Pasolini pubblicata in vita dallo stesso autore. Fa parte del corpus delle sei tragedie composte dallo scrittore friulano tra 1966 e il 1968. Come data d’inizio delle stesure è solito indicare il 1966, anno in cui Pasolini è costretto a rimanere al letto per circa due mesi a causa di una dolorosissima ulcera. Durante la malattia e la successiva convalescenza, l’autore stesso racconta di aver compiuto alcune letture determinanti tra cui i Dialoghi di Platone che lo spingono a scrivere ed a comunicare attraverso personaggi teatrali. Elabora quindi le seguenti sei tragedie: Orgia, Porcile, Affabulazione, Pilade, Bestia da stile e Calderòn. Esse rappresentano un corpus unitario in cui l’autore tenta di esplorare gli impulsi nascosti, atroci e segreti che risiedono nell’animo umano e di approfondire su una serie di conflitti che riguardano la natura dell’uomo e della società, come il rapporto tra padre e figlio, tra potere e sudditanza, tra passato e presente o tra servo e padrone. Nel complesso le sei tragedie «non sono solo copioni per spettacoli ma anche vere e proprie mappe di orientamento che l’autore crea e adotta per arrivare alla definizione del proprio nuovo teatro».1 A chi gli chiede il motivo per cui in quel periodo non scrive più romanzi o racconti, Pasolini risponde di «aver perso fiducia nei generi letterari chiamando in causa la degradazione del sottoproletariato romano; siccome uno scrittore deve essere sempre realistico, il non riconoscere più una determinata realtà inficia in toto la vocazione e la prassi narrativa»2 e spiega come il teatro invece gli consenta
1
S. Casi, I teatri di Pasolini, Milano, Ubulibri 2005, p. 143. E. Liccioli, La scena della parola. Teatro e poesia di Pier Paolo Pasolini, Firenze, Le Lettere 1997, p. 217. 2
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«di fare nello stesso tempo poesia e romanzo. Poesia perché scrivo le mie tragedie in versi, romanzo perché racconto una storia».3 In questo intervento mi concentrerò su Calderón e in particolare sulla figura della protagonista Rosaura. Sin dal titolo è evidente che la tragedia presa in esame si rifaccia al componimento del grande tragediografo del siglo de oro spagnolo, Pedro Calderón de la Barca e al suo capolavoro La vita è sogno. I nomi dei personaggi sono gli stessi: Basilio, Sigismondo e Rosaura ma la trama è completamente stravolta. L’elemento che più di tutti accomuna l’opera secentesca con quella pasoliniana è nel ruolo che il sogno assume all’interno della struttura del dramma. Pasolini sceglie come ambientazione la Spagna franchista del 1967, contesto in cui può costruire una tragedia fondamentalmente di stampo politico e in cui il vero motore politico è rappresentato dalla protagonista Rosaura: donna, madre, figlia e amante innamorata che tenta, attraverso il sogno di evadere dall’opprimente condizione sociale. L’opera si articola nei quattro risvegli di Rosaura. Ogni volta che si risveglia da un sogno, la protagonista si ritrova in un diverso ambiente sociale. «La struttura del testo cita quella greca, anche per la sua sostanza agonistica, la contrapposizione di argomenti: uno Speaker introduce i tre stasimi in cui si raggruppano gli episodi, le scene comprese fra due stasimi».4 Nel primo episodio, Rosaura è un’aristocratica, figlia di Basilio, ricco possidente madrileno, e non appena si sveglia, la ragazza non riconosce le persone a lei care e la realtà che la circonda. Incontra Sigismondo, che le viene presentato come vecchio amico della madre ed ex contestatore del regime e subito s’innamora di lui. Presto però scoprirà che il suo è un amore impossibile poiché Sigismondo le confesserà di essere suo padre, ma nonostante questo, Rosaura dirà di voler amare incestuosamente l’uomo. Nel secondo episodio invece Rosaura si sveglia in un sporco e squallido bordello di Barcellona dove lavora come prostituta, qui conosce e s’innamorata del giovane Pablito, contestatore ricco d’ideali. Successivamente Rosaura scoprirà che Pablito è in realtà suo figlio, da lei creduto morto sedici anni prima, quando lo partorì in seguito ad una violenza carnale subita da Sigismondo e venduto dalla sorella Carmen ad una ricca famiglia di Barcellona. Anche in questo caso quindi la protagonista non potrà appagare il suo desiderio d’amore. Nel terzo risveglio, Rosaura è una donna medio borghese, sposata con Basilio, da cui ha avuto due figli. In questo caso, Pasolini descrive il classico prototipo di moglie borghese completamente rassegnata alla sua condizione che finisce preda di deliri che l’autore rappresenta attraverso discorsi sconclusionati, incomprensibili e privi di senso logico.
3 4
P. P. Pasolini, Perché ora non scrivo romanzi, in «La fiera letteraria», (1967), 50, p,13. F. Angelini, Pasolini e lo spettacolo, Roma, Bulzoni Editore 2000, p. 131. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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Anche questa volta l’amore di Rosaura si rivelerà impossibile. L’oggetto del desiderio della protagonista è Enrique, giovane dissidente, in cui si possono riconoscere alcune caratteristiche del Pablito dell’episodio precedente. Basilio si accorgerà di quest’amore e denuncerà il giovane contestatore, confermando la sua silente sottomissione al potere esercitato dal regime. L’ultimo risveglio di Rosaura sarà l’unico in cui riconoscerà la realtà e ricorderà il sogno, svegliandosi in un lager nazista dove si troverà davanti il volto cruento della realtà. Il binomio attorno al quale ruota l’intero dramma è il rapporto tra Potere, scritto con la P maiuscola, impersonificato da Basilio e il singolo individuo, in questo caso Rosaura. Pasolini sceglie quindi una donna per descrivere l’impossibilità di ogni essere umano di svincolarsi dalla propria condizione sociale, in un mondo in cui l’unica via d’evasione è l’amore, che viene però sempre rappresentato come diverso, fuori dalle convenzioni, che per questo diventa impossibile, costretto dalla pareti dello status. La giovane nuova sinistra italiana giudicò l’opera di rilevanza nulla dal punto di vista politico. Per rispondere a quest’affermazione che suonava come un’accusa nei confronti di un’intellettuale del calibro di Pasolini, sempre in prima linea nei dibattiti politici e sociali del Paese, l’autore decise di recensire lui stesso Calderón, ponendo l’accento su quello che per lui rappresentava il tema centrale del dramma e cioè lo scontro tra Potere e individuo e l’inesorabile sconfitta del secondo. Nella recensione, Pasolini riporta il pensiero di Adriano Sofri riguardo alla messa in scena: «dal punto di vista personale la tragedia lo interessa anche, ma dal punto di vista politico non ha commenti da fare, la sua rilevanza non è nulla, non ha peso».5 Per difendere la natura e l’essenza del dramma Pasolini scrive: I fatti di Calderón appartengono totalmente, specie negli ultimi episodi all’attualità politica. Se nelle prime due parti Rosaura si risveglia dal metaforico sonno calderoniano «aristocratica» e «sottoproletaria», nella terza parte, risvegliandosi nel letto di una piccola borghese dell’età del consumismo, l’adattamento le riesce molto più difficile; ne vive l’alienazione e la nevrosi e assiste ad un vero e proprio cambiamento di natura del potere. […] In tutti e tre i suoi risvegli, Rosaura si trova occupata interamente dal senso del Potere. Il nostro primo rapporto, nascendo, è dunque un rapporto col Potere, cioè con l’unico mondo possibile che la nascita ci assegna. […] Il Potere in Calderòn si chiama Basilio, ed ha connotati cangianti.6
Nonostante Rosaura rappresenti il vero motivo dal quale scaturisce l’azione scenica, Pasolini si serve di tutti i suoi personaggi per dar voce al suo discorso. Nel corso dei quattordici episodi, i protagonisti e gli antagonisti si moltiplicano e si
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P. P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Torino, Einaudi 1979, p. 212. Ivi, pp. 213-214.
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modificano, pur mantenendo lo stesso nome, passando da un ambiente all’altro senza intaccare il principio di verisimiglianza o la credibilità della rappresentazione. Basilio e Sigismondo diventano, nella loro continua metamorfosi, persecutori e capri espiatori, vittime come sono anche del passato e della nostalgia che il passato suscita. Rosaura dunque è il tramite di una carrellata sulle forme del potere e della nostalgia, sull’esistenza di classi sociali che perentoriamente impongono le loro leggi impossibili da sovvertire.7
La protagonista si muove sempre all’interno di spazi chiusi e claustrofobici che rappresentano lo spazio invalicabile dei netti confini determinati dalla classe. A lei si contrappongono figure maschili che generano scontri e opposizioni. Il tutto però è destinato a rimanere immutabile nella sostanza e «nella sconsolata conclusione che niente cambia nel continuo cambiamento e che tutto torna nel continuo movimento».8 Anche Luca Ronconi, regista teatrale che per primo mise in scena la tragedia nel 1978, al Teatro Metastasio di Prato, è intervenuto riguardo all’aspetto politico del Calderón: la politicità di Calderón va ben oltre le circostanze storiche in cui è nata la tragedia. Quando ho messo in scena Calderón con dei giovani, che certo avevano sentito parlare di Pasolini ma che nel 1968 non erano ancora nati, ebbene in qualche modo sentivano di essere tuttavia implicati in quel tipo di cultura che Pasolini aveva previsto disperatamente. Sì, una generazione di attori molto più giovani può ritrovarsi perfettamente nei temi di Pasolini.9
L’intervento del regista evidenzia quindi ancora di più la rilevanza politica del dramma tale da rimanere viva anche nei decenni e nelle generazioni successive. Oltre alla dimensione politica, l’altro elemento attorno a cui ruota l’intera struttura della tragedia è il sogno. L’aspetto a mio avviso più interessante da rilevare sta nel fatto che l’autore in realtà releghi il sogno nell’ambito dell’indicibile. Quando Rosaura si sveglia, non ricorda chi è, nè dove si trova, e non riconosce chi le sta intorno, perchè attraverso il sogno è riuscita ad evadere, a fuggire dalla realtà, e quando riapre gli occhi sembra come in preda ad un’amnesia, smarrita di fronte alla realtà che deve affrontare. È importante sapere che Pasolini si è occupato del sogno come materia di studio fin dall’adolescenza, ma nel dramma preso in esame, ciò che muove veramente
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F. Angelini, Pasolini e lo spettacolo cit., p. 134. Ibidem. 9 L. Ronconi, Un teatro borghese. Intervista a Luca Ronconi, in P. P. Pasolini Teatro, a cura di Walter Siti e Silvia de Laude, Milano, Mondadori 2001, pp. XXV-XXVI. 8
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la scena non è tanto il sogno quanto il sogno non espresso, non detto, perché impossibile da esprime attraverso un linguaggio. Il sogno non è dunque né prefigurazione ottativo di una nuova realtà, né rivelazione freudiana del subconscio, ma inquietante rappresentazione cifrata della realtà, di impossibile decodifica perché non esprime attraverso un linguaggio ma attraverso la visione del mistero. E proprio per questa ragione, perché affonda nel mistero e parla attraverso la visione, il sogno è il mezzo più potente e più profondo di conoscenza della realtà.10
Per riprendere il legame con La vita è sogno a cui accennavo all’inizio del mio intervento, vediamo come anche nell’opera spagnola emerga l’aspetto rivelatore del sogno e come i confini tra realtà e visione onirica diventino sempre più sottili. «Come in La vita è sogno, nel Calderón il velo leggero che separa sogno da veglia cade: il sogno invade la realtà essendo esso stesso sogno nella e della realtà».11 Infatti dal testo di Calderón e in particolare nel monologo di Sigismondo, emerge che, non è nei termini della realtà oggettiva che sta il senso della vita poiché citando il testo «non solo la vita è sogno, ma anche i sogni sono sogni»12 e quindi l’unico valore da perseguire deve essere quello soggettivo della coscienza individuale. Sono drammi in cui si parla di uno scambio tra sogno e realtà, non in senso esistenzial-pirandelliano bensì nel segno della dinamica tra servo e padrone che i due stati innescano: la realtà del padrone con il sogno del servo, che diventa realtà quando il servo si riscatta dalla sua posizione di dipendenza. se riesce a riscattarsi. Quello di cui si appropria Pasolini è la sostanza radicalmente tragica: la terra come arena di eventuali luttuosi.13
Le due opere poi come abbiamo già detto hanno trame diverse e soprattutto finali differenti, ne La vita è sogno troviamo il lieto fine che manca in Pasolini. Tornando all’opera pasoliniana, la vera trasgressione a questa realtà la scopriamo nei risvegli di Rosaura: nel primo vive un amore impossibile nei confronti del padre illegittimo; nel secondo la protagonista si avvicina al concetto di diversità, entrando in contatto con il mondo e con le idee di Pablo, che rappresenta una voce fuori dal coro rispetto all’omologazione imposta dal regime; nel terzo, quando si sveglia nelle vesti di donna medio borghese, sposata con Basilio, marito benpensante, non fascista ma peggio, perché completamente schiavo del Potere, inizia a parlare in maniera sconnessa e surreale, distruggendo il mezzo di comunicazione
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S. Casi, I teatri di Pasolini cit., p. 165. F. Angelini, Pasolini e lo spettacolo cit., p. 131. 12 P. Calderón de la Barca, La vita è sogno, Torino, Einaudi 1980, p. 52. 13 F. Angelini, Pasolini e lo spettacolo cit., p. 129. 11
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borghese della parola. La trasgressione sta quindi nello sconvolgimento del ruolo funzionale della parola e nell’annullamento del suo valore semantico. Per ristabilire un equilibrio e per annullare ogni tipo di diversità, al Potere non resta che uniformare e ristabilire un livellamento linguistico a cui segue il momento della normalizzazione sessuale «attraverso uno spiazzante gioco ironico sulle convenzioni drammaturgiche […] Pasolini ripropone con felice originalità il classico triangolo borghese lui-lei-l’altro che codifica il trionfo delle regole sessuali».14 In Calderón, lo scrittore friulano continua il suo viaggio nel mondo degli esclusi dalla società civile, accomunati nella medesima condizione di emarginazione, perseguitati da un’unica violenza esercitata dal Potere. Non dimentichiamo che il teatro che Pasolini teorizzò con il Manifesto per un nuovo teatro pubblicato su «Nuovi Argomenti» nel marzo del 1968, è un «teatro di parola», che ha come caratteristica principale l’opporsi sia al teatro tradizionale e ufficiale, sia a quello d’avanguardia, definito del Gesto e dell’Urlo. Il teatro di parola non ha alcuna velleità mondana né spettacolare. Può apparire un paradosso ma nel momento in cui individua nel teatro il mezzo di espressione più appropriato e innovativo, più capace di incedere e scandalizzare, più in sintonia con le nuove proprie riflessioni, Pasolini rimane lontano dalla pratica del teatro. Lo trattengono l’inadeguatezza degli attori che denuncia nel tempo, la complessità della macchina produttiva e organizzativa, la differenza del processo creativo e realizzativo rispetto al cinema, e sicuramente anche la tradizionale distanza degli intellettuali dalle scene. C’è anche altro, forse e cioè il crescente interesse alla forma del non finito, alla forma progetto, dove basta “sognare” qualcosa per considerarlo già in essere. […] Le opere in sé appaiono compiute, ma ciò che non si realizza sono la messa in atto del pensiero teatrale in divenire e la messinscena dei testi stessi.15
La parola, ormai sovrastata dalla chiacchiera, doveva essere il cuore pulsante della rappresentazione intesa non come rito teatrale ma unicamente come rito culturale poiché l’origine, la motivazione e gli obiettivi di questo teatro erano essenzialmente culturali. Elementi come la pronuncia e il codice linguistico, svolgono un ruolo d’importanza primaria in nome del rispetto della lingua parlata da un pubblico reale. Pasolini teorizza un teatro in cui la parola ha un valore fondamentale e paritetico rispetto al corpo e alla presenza fisica, il cui uso deve essere considerato necessario, «necessario non perché a teatro sarebbe naturale parlare o perché sia imprescindibile, ma perché la parola è portatrice di senso, e come tale non può essere data per acquisita una volta per tutte, deve essere riconquistata e risignificata ogni volta».16
14
S. Casi, I teatri di Pasolini cit., p. 166. Ivi, p. 201. 16 Ivi, p. 138. 15
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Ma tornando a Calderòn, possiamo dire che è quindi il dramma di una grande sconfitta prima di tutto politica che viene rappresentata con l’ultima incarnazione di Rosaura come un scheletro senza quasi più capelli rinchiusa in lager nazista dal quale sente da lontano un coro degli operai comunisti in veste di salvatori ma con il loro ingresso si compie la fine della speranza di liberazione dei popoli, la nuova realtà voluta dal Capitale ha escluso per sempre ogni possibilità di liberazione e il dramma si conclude con le battute di Basilio: Un bellissimo sogno Rosaura, davvero un bellissimo sogno. Ma io penso (ed è mio dovere dirtelo) che proprio in questo momento comincia la vera tragedia. Perché tutti i sogni che hai fatto o che farai si può dire che potrebbero essere anche realtà. Ma, quanto a questo degli operai, non c’è dubbio: esso è un sogno, niente altro che un sogno.
A termine della tragedia quindi la rivoluzione risulta un sogno e solo esso e «l’oggetto del ricordo – il passato – sono rivoluzionari, ma senza alcune effettiva incidenza sulla realtà del presente».17
17
E. Liccioli, La scena della parola. Teatro e poesia di Pier Paolo Pasolini cit., p. 309.
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DORA MARCHESE «Ora che l’Italia è fatta, bisognerebbe unificare le cucine italiane!» (F. De Roberto). La dimensione gastronomica nell’unità d’Italia come (in)gradiente politico-sociale
Se il cibo è l’emblema della sussistenza e della continuità, pratica necessaria e irrinunciabile per la vita, la letteratura è il prodotto dell’attività intellettuale e immaginativa che pone l’uomo al di sopra delle altre creature del regno animale. Ricorrendo ad una sorta di sillogismo, potremmo affermare che la letteratura è espressione dell’uomo, e poiché «l’uomo è ciò che mangia»,1 addentrarsi nella dimensione gastronomico-alimentare delle opere letterarie consente una prospettiva d’eccezione attraverso cui indagare un autore, un’epoca, una società. In ambito letterario, infatti, dalla modalità e dall’attenzione conferite dallo scrittore al cibo emergono almeno tre importanti aspetti: quello antropologico, dell’alimento come nutrimento indispensabile e mezzo di sostentamento; quello sociologico relativo al ruolo di discriminante che esso assume nelle diverse classi sociali; quello politico ed economico legato al potere, alla ricchezza o alla povertà, alla pace o alla guerra, e quello squisitamente culturale legato ai valori e alle idee. Il cibo, inoltre, offre un’ottica privilegiata per conoscere un territorio, permette di indagarne l’economia e le dinamiche politiche e sociali. Scorrendo i testi letterari e non redatti da autori vissuti nel delicato periodo del Risorgimento emergono dati di estremo interesse: la costante preoccupazione della sopravvivenza, il divario tra una cucina povera e popolare ed una ricca e aristocratica, l’utilizzo di tecniche culinarie che rinviano a campi semantici ben definiti, in transito dal nord al sud per mischiarsi, sovrapporsi, talora modificarsi e divenire “altro”. Del conte di Cavour si dice che parla in francese, pensa in italiano, mangia alla piemontese. L’unificazione del paese è espressa anche dalla iniziale contrapposizione, poi mutata in avvicinamento, fra olio e burro, maccheroni e risotti, Marsala e
1
D. Le Breton, Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, Milano, Cortina 2007, p. 386.
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Barolo. Sorgono innumerevoli ricette che prendono il nome dai personaggi più caratteristici dell’epoca: «alla Carlo Alberto», «alla Maria Luigia», «alla Radetzky», «alla Cavour», «alla Giolitti». Margherita di Savoia dà il nome alla pizza, sinonimo di un’italianità, celebratosi nel tempo. Nel popolo si diffonde l’abitudine di mettere alle belle insegne di lamiera laccata delle osterie nomi evocanti celebri vittorie ma anche cocenti sconfitte e duri sacrifici: «Solferino», «Zuavo», «Statuto», «Tripoli», «Cernaia», «Adua», «Osteria della Patria» e della «Bandiera d’Italia».2 All’indomani dell’unità, rinveniamo da una parte uno Stato neonato che si affaccia sulla scena europea bisognoso di ostentare sfarzo e buon gusto attraverso convivi e feste; dall’altra una popolazione minuta dalla mensa scarna e talvolta anche vuota. Ai pranzi di parata preparati da raffinati monzù,3 regno di tartufi, ostriche, cacciagione e Champagne, con menu rigorosamente in francese (aboliti solo nel 1908 da Vittorio Emanuele III come segnale forte di patriottismo e voglia di unità nazionale),4 si contrappongono i pasti degli umili, a base di pane scuro e cacio, olive, aglio e cipolle, polente causa di pellagra. Il contrasto fra la ricchezza, di pochi, e la povertà, di molti, resterà a lungo un doloroso retaggio della nazione. I banchetti sontuosi, apparecchiati per le classi agiate divengono il simbolo più tangibile e immediato per ostentare ricchezza e potere. Spesso e volentieri il convito diviene luogo di incontro e di scambi politici, espediente per discutere, confrontarsi, prendere accordi, creare alleanze. In ciò furono maestri Talleyrand e Cavour, che fecero dei simposi eventi per stupire e affascinare i commensali, scenari di raffinate strategie volte ad aprire la strada a simpatie e consensi. Talleyrand, che insieme a Metternich fu «regista» del congresso di Vienna, si avvale nientemeno dell’aiuto del più grande cuoco del tempo, Antonin Carême, e suole affermare: «quel che non possono fare i cannoni, lo fa la tavola».5 Ostriche e foie gras sono la sua fanteria, lo Champagne la sua artiglieria. Con Cavour, il cui nome ha ispirato piatti divenuti sinonimo di nobiltà e di «piemontesità», nasce il banchetto politico, l’uso della tavola come preziosa alleata delle relazioni diplomatiche. Gli si affianca Virginia Oldoini, la contessa di Castiglione, unanimemente riconosciuta «la più bella d’Italia e d’Europa», scaltra manipolatrice, nota anche per avere organizzato un pranzo in onore dell’imperatore d’Austria in visita a Parigi in cui si prefisse di fargli «ingoiare il tricolore». Ed infat-
2
Cfr. E. Schena-A. Ravera, A tavola nel Risorgimento, Torino, Priuli & Verlucca 2011. «Monzù sono i cuochi di corte e delle grandi famiglie della nobiltà. Pagati a peso d’oro, comandano brigate di aiutanti e di sguatteri. È la loro reputazione a decretare onore e grado di una casata», ivi, p. 20. 4 Il Risorgimento segna il passaggio dal servizio alla francese, «variegato e ricco oltre misura», a quello alla russa, «secondo la moda da poco introdotta dal principe Kourakin, semplificato nel numero delle portate», ivi, p. 15. 5 Ibidem. 3
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ti, accanto ai più comuni agnolotti bianchi, ne fece servire altri rossi e verdi a base di barbabietola e spinaci. Altro luogo cruciale in cui il gusto s’intreccia con la politica e gli affari è il Caffè: velluti, stucchi, specchi e marmi, sfavillio di luci,6 un ambiente caldo e accogliente in cui si fuma e, talvolta, si gioca. Un luogo dove s’incontrano il mondo degli affari, della politica, dell’aristocrazia e della cultura. Un’elegante propaggine all’atmosfera rarefatta ed elitaria dei salotti. Assiduamente frequentato da Cavour, il Caffè del Cambio, in piazza Carignano a Torino, è considerato una sorta di vice-parlamento italiano, come annotano Guglielmo Stefani e Domenico Mondo nella guida Torino e i suoi dintorni del 1852: Alcuni caffè hanno sostituito alla fragranza dell’araba bevanda, quello degli stufati, degli intingoli, dei rostbeuf. Il caffè si è democratizzato esso pure associando al suo nome quello di restaurant; anche questi Caffè Restaurant sono assai frequentati, specialmente sulle ore del mezzogiorno; e il Caffè del Cambio (in piazza Carignano) vede ogni giorno sedere sulle sue panche molti onorevoli deputati, i quali prima di recarsi nei loro stalli per discutere degli interessi della nazione vengono a provvedere agli interessi del loro stomaco.7
Se nel giugno del 1764, in un locale milanese, ad opera dei fratelli Verri e di Cesare Beccaria nasce il celebre periodico «Il Caffè»,8 d’ispirazione illuministica, in seguito scrittori, musicisti, poeti ma anche statisti e personaggi illustri, si ritrovano nei Caffè per cercare ispirazione, apprendere tendenze e pettegolezzi, allacciare rapporti ma anche cospirare, sobillare, diffondere nuovi ideali, coltivare speranze. Alcune caffetterie hanno fatto la storia italiana: dal veneziano Florian, al Tommaseo di Trieste, dal Michelangelo di Firenze al Caffè Greco di Roma. A Torino ci sono il Fiorio, il Mulassano, il Baratti; a Napoli il Gambrinus, a Padova il Pedrocchi. Al Caffè Nazionale di Torino, l’8 febbraio 1848, Roberto d’Azeglio legge agli amici il proclama di Carlo Alberto prima d’affiggerlo in pubblico9. Il caffè è la bevanda di intellettuali e riformisti. Ai Caffè si contrappongono taverne e osterie, specchio di una condizione diametralmente opposta: quella dei più poveri, contadini, soldati, piccoli operai che
6 In un Caffè torinese, il Giannotti, nel 1821 è impiegato per la prima volta l’impianto d’illuminazione a gas. 7 G. Stefani-D. Mondo, Torino e i suoi dintorni. Guida storico, artistica e commerciale, Torino, Carlo Schiepatti 1852, cap. II. 8 È nell’età dei Lumi che il caffè, «la più deliziosa bevanda di quasi tutti i viventi» (così Metastasio in una lettera del 1776 a Saverio Maffei), diviene la preferita da nobili e borghesi. 9 N. Bazzetta de Vemenia, I caffè storici d’Italia da Torino a Napoli, Milano, Ceschina 1939, p. 78.
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faticano a mettere insieme il pranzo con la cena. Il colpo di grazia è dato dall’odiatissima tassa sul macinato imposta nel 1869, che penalizza tutti indistintamente, salariati e braccianti in specie. Gli alimenti sono poveri e scadenti, mentre pellagra e denutrizione mietono vittime. Polenta e minestra i cibi più diffusi. Il pane diventa il simbolo dell’alimento necessario per antonomasia, sacro, quasi presupposto alla dignità umana. Se ne ritrovano echi in numerosissimi testi fra i quali ricordiamo i Promessi sposi in cui Manzoni asserisce che la «fame» in tempi di miseria «aveva insegnato» agli uomini a «vivere» con «qualche erba» strappata al pascolo di una bestia «stecchita».10 Nel romanzo, del resto, le pagine sulla carestia sono centrali, «sostenute da un’autentica passione di economista», e «reggono tutta la struttura della narrazione determinando i fatti e i destini dei personaggi».11 Anche nelle opere di Verga, Vita dei campi, I Malavoglia, Novelle rusticane, Mastrodon Gesualdo la fame è preoccupazione costante e assillante. Nella Sicilia cantata dallo scrittore catanese, infatti, accanto a fave e cipolle, il pane è alla base dell’alimentazione. L’unica differenza è fra quello bianco (di frumento) dei signori, dei galantuomini, e quello nero (d’orzo) degli umili, contadini, braccianti, pescatori. In una realtà segnata da una fame ancestrale il pane non si butta via mai, neppure se duro o ammuffito, come leggiamo in Jeli il pastore che «abbrustoliva le larghe fette di pane che cominciavano ad avere la barba verde della muffa».12 Lo si mastica a lungo per farlo durare di più, come ne Il maestro dei ragazzi: «sedevano a far colazione in silenzio, tagliando ad una ad una delle fette di pane sottili, masticando adagio».13 Suo naturale companatico è la cipolla: zio Mommu «tirò dalla bisaccia un pane nero, e si mise a magiare adagio adagio con un pezzo di cipolla» (Vagabondaggio).14 Al di la dei numerosissimi esempi che potrebbero essere menzionati, interessa sottolineare come il lemma «pane», presente con ben 297 occorrenze in tutta l’opera di Verga, dà vita a un ricchissimo universo semantico: «paneperso», «mangiapane», «scroccapane», «pane scaccia-fame», «pane del re», «pane nero». Emblematico il tozzo di pane pervicacemente consumato da mastro-don Gesualdo e da Mazzarò, ricchissimi proprietari terrieri, monito e icona dell’impegno indefesso ed ininterrotto nell’accumulo della roba, poiché il persistere nella frugalità e semplicità dei pasti costituisce motivo d’orgoglio per chi non dimentica la propria provenienza.
10
A. Manzoni, I promessi sposi, in I promessi sposi (1840)-Storia della colonna infame, a cura di S. S. Nigro, Milano, Mondadori 2002, Collezione «I Meridiani», vol. II, tomo II, pp. 66. 11 G.P. Biasin, Il sugo della storia, in I sapori della modernità, Bologna, Il Mulino 1991, p. 44. 12 G. Verga, Tutte le novelle, introduzione e note a cura di C. Riccardi, Milano, Mondadori 1984, vol. I, p. 132. 13 Ivi, vol. II, p. 38. 14 Ivi, p. 21. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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Nel Mastro-don Gesualdo, in alternativa al «pezzo di pane nero e duro» mangiato «dove si trovava, sul basto della mula, all’ombra di un ulivo, lungo il margine di un fosso, nella malaria, in mezzo a un nugolo di zanzare», i pasti dell’ex muratore sono costituiti per lo più da «del pane e del salame», «pane e formaggio», «pane e cipolle», più di rado «minestra di fave novelle, con una cipolla in mezzo, quattr’ova fresche, e due pomidori», «insalata di cipolle».15 Pane, minestra e vino, dunque, sono alla base della tavola del Verga rusticano. Il cibo, del resto, è «grazia di Dio» e lavorare vuol dire «buscarsi il pane». Il sogno alimentare per eccellenza, naturalmente, è rappresentato da «maccheroni e carne», agognato binomio messo in tavola nei giorni di grasso e in occasione delle feste che, però, è riservato solo ai benestanti. Così don Giammaria ne I Malavoglia: – Niente, niente, – rispondeva suo fratello stendendo la mano verso il piatto. Ma ella che gli conosceva il debole lasciava il coperchio sulla zuppiera e lo tormentava a furia di domande, sicché infine il poveretto dovette dire che c’era il sigillo della confessione, e sinché fu a tavola rimase col naso sul piatto, e ingozzava i maccheroni come se non avesse visto grazia di Dio da due giorni.16
Celebre divoratore di «vermicelli fritti»: – Don Giammaria ha i vermicelli fritti per la cena stasera; osservò Piedipapera fiutando verso le finestre della parrocchia.17 […] Don Giammaria, passando lì vicino per andare a casa, salutò anche Piedipapera, perché ai tempi che corrono bisogna tenersi amici quelle buone lane; e compare Tino, che aveva tuttora l’acquolina in bocca, gli gridò dietro: – Eh! vermicelli fritti stasera, don Giammaria!18
Così Compare Nanni nel Mastro-don Gesualdo: La voltava in burla; diceva di non aver paura lui, che gli rubassero i denari che non aveva… L’aspettava sua moglie con un piatto di maccheroni… e tante altre cose… Per un piatto di maccheroni, Dio liberi, ci lasciò la pelle!19
15
G. Verga, Mastro-don Gesualdo, introduzione e note a cura di C. Riccardi, Milano, Mondadori 1983, pp. 71, 91, 258, 280, 67, 161. 16 Id., I Malavoglia, introduzione e note a cura di C. Riccardi, Milano, Mondadori 1983, p. 154. 17 Ivi, p. 29. 18 Ibidem. 19 Id., Mastro-don Gesualdo cit., p. 298. La figura della donna dall’Italia post-unitaria alla società degli anni Sessanta
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Così, nelle Rusticane, allorché i maccheroni divengono status symbol della condizione agiata dell’oste del lago in Malaria e di don Marco ne I galantuomini: – Il lago gli aveva dato dei bei guadagni. E a Natale, quando le anguille si vendono bene, nella casa in riva al lago, cenavano allegramente dinanzi al fuoco, maccheroni, salsiccia e ogni ben di Dio.20 A don Marco gli portarono la notizia mentre era a tavola colla famiglia, dinanzi al piatto dei maccheroni. – Signor don Marco, la lava ha deviato dalla vostra parte, e più tardi avrete il fuoco nella vostra vigna. – Allo sventurato gli cadde di mano la forchetta.21
Diametralmente opposte le descrizioni alimentari, quantitativamente e qualitativamente rimarchevoli, de Il Gattopardo. Preziosi cammei, incastonati nel testo per dare plastica evidenza ad ambienti, personaggi, modi di pensare, comportamenti dell’aristocrazia siciliana dell’Ottocento, per delinearne la situazione storica, geografica, economica e politica. Grandiosi ritratti, coinvolgenti tutti i sensi, realizzati grazie ad un uso sapiente di metafore, metonimie, simbolismi e similitudini, spesso ammantati di ironia e volontà di dissacrazione, di malinconia e albagia, in cui l’eros sovente si fonde al thanatos, al «corteggiare la morte» cui è avvezzo Don Fabrizio. Se tutto il romanzo è costellato da sapidi commenti carichi di significati ideologici ed esistenziali, l’autore non disdegna di attingere all’area fagica per delineare efficacemente la visione del mondo del Principe di Salina. Questo vale, naturalmente, anche per la sfera politica. Numerosi gli episodi da ricordare. Ad esempio, quando si dice che nella aristocrazia «l’abolizione dei diritti feudali aveva decapitato gli obblighi insieme ai privilegi, la ricchezza come un vino vecchio aveva lasciato cadere in fondo alla botte le fecce della cupidigia, delle cure, anche quelle della prudenza, per conservare soltanto l’ardore e il colore».22 O quando, brindando «alla salute del nostro Tancredi» alla fine di un pranzo sontuoso, si osserva che «le cifre F.D. [Ferdinandus Dedit] che prima si erano distaccate ben nette sul colore dorato del bicchiere pieno non si videro più», come dire che la dinastia borbonica simbolicamente scompare. O ancora quando in occasione del Plebiscito il sindaco Calogero Sedara appronta un piccolo rinfresco e, nel suo studio, vengono offerti biscotti anzianissimi che defecazioni di mosche listavano a lutto e dodici bicchierini tozzi colmi di rosolio: quattro rossi, quattro verdi, quattro bianchi: questi, in centro; ingenua simbolizzazione della nuova bandiera che venò di un sorriso il rimorso del Principe che scelse per sé il liquore bianco perché presumibilmente meno indigesto e non, come si volle dire, come tardivo omaggio al vessillo borbonico.23
20
G. Verga, Tutte le novelle cit., vol. I, p. 251. Ivi, p. 315. 22 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli 1996, p. 42. 23 Ivi, p. 107. 21
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Scene all’insegna dello spirito ironico e demistificante peculiare a tutto il romanzo, ravvisabile anche nel polemico commento di Ciccio Tumeo alla votazione del Plebiscito allorché obietta: Il mio “no” diventa un “si”. Ero un “fedele suddito”, sono diventato un “borbonico schifoso”. Ora tutti Savoiardi sono! ma io i Savoiardi me li mangio col caffè, io! E tenendo tra il pollice e l’indice un biscotto fittizio lo inzuppava in una immaginaria tazza.24
Più lapidario don Fabrizio quando, paragonando l’offerta di diventare senatore del regno al dono di un pezzo di pecorino da parte di un contadino conclude: «Il guaio è che il pecorino mi dà la nausea».25 Poco propensa a esibire sfarzo e ricchezza inutilmente, pronta a recepire nuove mode e a modificare consuetudini antiche, la borghesia si affaccia sulla scena con tutto il suo carico rivoluzionario. L’idea di Camporesi secondo cui «in cucina solo la borghesia è stata ed è rivoluzionaria, mentre le classi popolari si sono sempre schierate sul fronte della conservazione»,26 è avvalorata anche da molte opere di Matilde Serao, prolifica scrittrice, nelle cui pagine vigono il gusto descrittivo e decorativo e la pregnante contrapposizione fra poveri e ricchi, aristocratici e popolani. Attingendo alla lezione offertale da Le ventre de Paris di Zola, la scrittrice si compiace nel rappresentare stuzzicanti manicaretti e sontuosi conviti.27 Il momento fagico configurandosi più come svago mondano e funzione sociale che come quotidiana pratica di sussistenza. Davvero indimenticabile, per la maestria dell’affresco realizzato con plastica evidenza, il pranzo consumato dalle due sorelle usuraie che, ne Il paese di cuccagna,
24
Ivi, p. 111. Ivi, p. 160. 26 P. Camporesi, La terra e la luna. Alimentazione folclore e società, Milano, Il Saggiatore 1989, pp. 64-65. 27 Fra gli altri ricordiamo quelli descritti in Trenta per cento, in cui l’esaltazione per gli utili ricavati dalle speculazioni bancarie porta gli avventori ad acquistare leccornie in abbondanza; La ballerina, in cui il cibo diviene mezzo di lusinga e orgoglio per Gargiullo; Il paese di cuccagna, in cui in occasione del battesimo di Agnesina si offre agli invitati ogni ben di Dio; L’Italia a Bologna, in cui si assiste all’apoteosi della mortadella. Di carattere documentario il paragrafo de Il ventre di Napoli dal titolo Quello che mangiano, reso ancora più interessante dalla presenza di una sorta di “questionario”: «Carne in umido? – Il popolo napoletano non ne mangia mai. Carne arrosto? – Qualche volta, alla domenica, o nelle grandi feste, ma è di maiale o di agnello. Brodo di carne? – Il popolo napoletano lo ignora. Vino? – Alla domenica, qualche volta: l’asprino, a quattro soldi il litro, o il maraniello a cinque soldi: questo tinge di azzurro la tovaglia. Acqua! – Sempre: e cattiva». 25
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mangiavano in silenzio, con gli occhi bassi, chinandosi ogni tanto ad asciugare le labbra unte a un lembo della tovaglia, tutta chiazzata di vino azzurrigno. Sulla tavola, fra loro due, stava un gran piatto dagli orli rialzati, pieno di maccheroni conditi con olio, alici salate, e aglio, il tutto soffritto vivacemente nel tegame e buttato sulla pasta bollita, un momento prima di mangiare: le due donne, ogni tanto immergevano la forchetta nei maccheroni lucidi di olio e ne tiravano nel proprio piatto, ricominciando a mangiare. […] Le due sorelle si servivano di forchette di piombo e di coltelli grossolani, col manico nero: ogni tanto, spezzando un pezzo di pane, lo bagnavano nell’olio soffritto, al fondo del grande piatto. […] Adesso avevano mangiato il formaggio affumicato col pane, lentamente, con quel movimento un po’ caprigno delle mascelle, e strappando le successive spoglie dei sedani, le rosicchiavano con gran rumore, come frutta, per levarsi dalla bocca il sapore dell’olio. Quando ebbero finito, rimasero un po’ immobili, guardando le chiazze azzurre della tovaglia, con le mani prosciolte in grembo, nel silenzio della digestione e dei loro lunghi calcoli mentali di donne d’affari.28
Più volte ricordati, i maccheroni e gli spaghetti sono, rispettivamente, il vessillo del sud e del nord. Un ruolo importante nell’interscambio fra questi due modi di fare la pasta è giuocato dai garibaldini. La spedizione dei Mille contribuisce non soltanto ad unificare l’Italia, ma anche a diffondere l’uso della pasta secca, in vari formati, condita con la salsa di pomodoro che, caso raro nella storia della cucina, si afferma prima che come prodotto casalingo come preparato industriale grazie all’intraprendenza di Francesco Cirio.29 Maccheroni e spaghetti, vermicelli e bucatini si diffondono da nord a sud: i garibalidini «partono da Quarto convinti mangiatori di risotti e tornano convertiti ai maccheroni».30 Lo stesso Garibaldi ha abitudini alimentari semplici e frugali. Quando a Teano «l’eroe dei due mondi» s’incontra con Vittorio Emanuele II presto ognuno riprende la propria strada: «da una parte le truppe savoiarde, lucenti di sciabole e galloni d’oro, dall’altra le camicie rosse, umili di polvere e fango. Il re è atteso a casa dei principi Caracciolo dove i cuochi sono al lavoro da giorni; Garibaldi declina l’invito, per la verità piuttosto tiepido, e condivide pane e formaggio con i suoi uomini».31
28 M. Serao, Il paese di Cuccagna, in Opere, a cura di P. Pancrazi, Milano, Garzanti 1946, pp. 224-227. 29 Cfr. E. Schena-A. Ravera, A tavola nel Risorgimento cit., p. 161. Originario di Nizza Monferrato, Francesco Cirio è il pioniere delle conserve alimentari nate dall’esigenza di disporre di cibo anche durante le lunghe e difficili trasferte causate da guerre e battaglie. Dopo il primo stabilimento a Torino, ne apre uno ampio in Campania, che consacrerà il successo e la diffusione dei suoi prodotti (conserve, passati, concentrati, estratti). 30 Ivi, p. 161. 31 Ivi, p. 156.
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Queste antinomie, la contrapposizione tra penuria e abbondanza di cibo, lo sfarzo e l’esubero rispetto alla miseria e alla penuria, attraversano come un filo rosso l’intera storia letteraria di quegli anni. Emblematici due testi, veri capisaldi della cultura ottocentesca: Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino (1883) di Carlo Collodi (pseudonimo dello scrittore Carlo Lorenzini), e Cuore. Libro per ragazzi (1886) di Edmondo de Amicis. Redatto allo scopo di insegnare ai giovani cittadini del Regno le virtù civili – l’amore per la patria, il rispetto per le autorità e per i genitori, lo spirito di sacrificio, l’eroismo, la carità, la pietà, l’obbedienza e la sopportazione delle disgrazie –, in Cuore trapelano l’urgenza della soddisfazione della fame, la semplicità e scarsità degli alimenti disponibili, il divario tra le regole imposte dalla disciplina e la disarmante realtà di avere, in fin dei conti e sopra ogni cosa, «il cuore alla pappa»: Io non avevo mai visto un asilo. […] Arrivammo appunto che entravano in fila nel refettorio, dove erano due tavole lunghissime con tante buche rotonde, e in ogni buca una scodella nera, piena di riso e fagioli, e un cucchiaio di stagno accanto. […] Molti si fermavano davanti a una scodella, credendo che fosse quello il loro posto, e ingollavano subito una cucchiaiata, quando arrivava una maestra e diceva: – Avanti! – e quelli avanti tre o quattro passi e giù un’altra cucchiaiata, e avanti ancora, fin che arrivavano al proprio posto, dopo aver beccato a scrocco una mezza minestrina. […] Ma tutti quelli delle file di dentro, i quali per pregare dovevan voltar la schiena alla scodella, torcevano il capo indietro per tenerla d’occhio, che nessuno ci pescasse, e poi pregavano così, con le mani giunte e con gli occhi al cielo, ma col cuore alla pappa. Poi si misero a mangiare. Ah che ameno spettacolo! Uno mangiava con due cucchiai, l’altro s’ingozzava con le mani, molti levavano i fagioli un per uno e se li ficcavano in tasca; altri invece li rinvoltavano stretti nel grembiulino e ci picchiavan su, per far la pasta.32
Nati per la prima volta in Piemonte verso il 1839-1840, gli asili sono quasi sempre sovvenzionati da filantropi o affidati alla carità dei religiosi. L’obiettivo ludico ed educativo non si profila nemmeno: custodia e assistenza sono gli intenti principali. I bambini socializzano tra loro ma sono esposti al freddo, alla fatica e alla scarsità delle risorse. Sono quasi sempre figli di operai o di piccoli impiegati. Se «riso e fagioli», «pane, prune cotte, un pezzettino di formaggio, un ovo sodo, delle mele piccole, una pugnata di ceci lessi, un’ala di pollo» sono alla base della loro tavola, molto diversa è la mensa dei figli dei ricchi cui sono destinate minestre e semolini, ma anche émincés e hachis di vitello, subriques, flan di volaglia, gâteau di patate, biscotti e pasticceria leggera. Ne dà notizia Giovanni Vialardi in un capitolo intitolato La cucina adatta per i bambini facente parte del suo Trattato del 1854.33
32
E. De Amicis, Cuore, Roma, Newton Compton 1994, pp. 200-201. Cfr. G. Vialardi, Trattato di cucina, Pasticceria moderna, credenza e relativa confettureria, Torino, Tip. G. Favale 1854. 33
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I bambini poveri questi alimenti possono solo sognarli, immaginarli. Nei racconti che ascoltano, forgiati sulla scia dei personaggi della commedia dell’arte, si favoleggia di regni fantastici dove si trovano montagne di panna montata, salsicce e ogni ben di Dio. Così avviene nel libro per l’infanzia più famoso di tutti i tempi, Pinocchio, che, interamente giocato sulla pervicace ricerca di cibo, sulla quotidiana lotta ingaggiata contro la fame, sul contrasto fra crapule sognate e digiuni coatti implicanti «il rapporto fra denaro e cibo e fra povertà e digiuno», rispecchia «la realtà potenzialmente tragica» del mondo del burattino e della società umana dell’epoca.34 Il cibo diviene anche il canale per esprimere un messaggio pedagogico e morale: «quando la fame dice davvero e non c’è altro da mangiare anche le veccie diventano squisite. La fame non ha capricci né ghiottonerie», sentenzia il Colombo. E Pinocchio, altrove, conclude: «Oh, che brutta malattia che è la fame!». Tra i tanti episodi degni di essere ricordati, senz’altro da rileggere è la famosa cena all’osteria del «Gambero Rosso», in cui il Gatto e la Volpe si strafogano mentre Pinocchio si limita a uno spicchio di noce ed a un avanzo di pane perché già sazio dall’attesa gioia di vedere i suoi zecchini d’oro moltiplicarsi nel Campo dei Miracoli: Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato! La Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dové contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca. Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di noce e un cantuccino di pane, e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero figliuolo col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli, aveva preso un’indigestione anticipata di monete d’oro.35
Oltre alla sottile ironia e al tono antifrastico, il brano è interessante perché le pietanze menzionate – triglie con salsa di pomodoro, trippa alla parmigiana, lepre in dolce-forte, pollastre ingrassate e galletti di primo canto, cibreo36 di pernici, star-
34
Cfr. N.J. Perella, An Essay on ‘Pinocchio’, in C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, translated with an introductory essay and notes by N.J. Perella, Berkeley, Univesity of California Press 1986, p. 33. 35 C. Collodi (C. Lorenzini), Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, Milano, Rizzoli 1949, p. 43. 36 Trattasi per Artusi di un «intingolo semplice, ma delicato e gentile, opportuno alle VI. Italiane della (e nella) letteratura
«Ora che l’Italia è fatta, bisognerebbe unificare le cucine italiane!»
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ne e conigli – sono i piatti ricchi della cucina ottocentesca e segnatamente – ad esclusione della trippa e delle triglie, riconducibili alla cucina popolare – quelli codificati nel testo princeps dell’epoca in materia gastronomica: La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene di Pellegrino Artusi.37 Un’opera, questa dell’umanista di Forlimpopoli, considerata «pietra di paragone indispensabile per capire certi sviluppi non solo gastronomici, ma storici, politici e culturali dell’Italia ottocentesca», poiché è il libro di cucina che «segna la definitiva affermazione della borghesia a scapito dei ceti popolari»38 in anni in cui, come ricorda Piero Camporesi, Giovanni Pascoli auspicava la nascita di «case del pane» per i diseredati: Due voci diverse, quella del Pascoli e quella dell’Artusi, due linguaggi lontani senza punto d’incontro che rispecchiano non solo una fondamentale frattura fra le due Italie, quella borghese e quella proletaria, ma anche due lingue alimentari diverse, due diverse cucine, due culture e due storie contrapposte segnate da una dialettica senza mediazioni e punti d’incontro, quella del vuoto e quella del pieno, quella del cotto e quella del malcotto.39
Camporesi afferma che Artusi «svolse anche, in modo discreto, sotterraneo, impalpabile, il civilissimo compito di unire e amalgamare, in cucina prima e poi, a livello d’inconscio collettivo, nelle pieghe insondate della coscienza popolare, l’eterogenea accozzaglia delle genti che solo formalmente si dichiaravano italiane».40 In tempi in cui «i mass media erano ben lontani dal far sentire la loro irresistibile azione (solo D’Annunzio stava mettendo in pratica le tecniche della manipolazione delle masse), l’arguto libretto […] s’insinuò bonario e sornione in moltissime case di tutte le regioni del paese».41 E lancia una significativa provocazione: «bisogna riconoscere che La Scienza in cucina ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare i Promessi Sposi. I gustemi artusiani, infatti, sono riusciti a creare un codice di identificazione nazionale là dove fallirono gli stilemi ed i fonemi manzoniani», anche perché se non tutti leggono «tutti, al contrario, mangiano»; e conclude: «accanto a Cuore (e a Pinocchio) [La Scienza in cucina] è uno dei massimi prodotti della società italiana del secondo Ottocento».42 Significativo il rinvio ai Promessi sposi. La questione della lingua, del resto, era di
signore di stomaco svogliato e ai convalescenti», P. Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, introduzione e note di P. Camporesi, Torino, Einaudi 1970, p. 254. 37 Cfr. E. Schena-A. Ravera, A tavola nel Risorgimento cit., p. 259. 38 G.P. Biasin, I sapori della modernità cit., p. 13. 39 P. Camporesi, La terra e la luna cit., pp. 75-76. 40 Ivi, p. 98. 41 Ibidem. 42 P. Camporesi, Introduzione a P. Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene cit., p. 384. La figura della donna dall’Italia post-unitaria alla società degli anni Sessanta
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grande attualità e passò anche attraverso la codificazione di una nomenclatura culinaria e di un linguaggio gastronomico che potessero essere comprensibili a un gran numero di lettori. Lo sottolinea Artusi stesso quando afferma che «dopo l’unità della patria mi sembrava logica conseguenza il pensare all’unità della lingua parlata, che pochi curano e molti osteggiano, forse per un falso amor proprio e forse anche per la lunga e inveterata consuetudine ai propri dialetti».43 Per Artusi la «bella e armoniosa lingua paesana» (che per lui equivale al toscano, anzi al fiorentino), va contrapposta alle «esotiche e scorbutiche voci»; come l’alimentazione, così anche la lingua deve tendere al «semplice e naturale» schivando il «frasario» d’oltralpe, i nomi che «rimbombano e non dicono nulla», il «gergo francioso».44 Suo intento è normalizzare e uniformare la «bizzarra nomenclatura della cucina». Azzerando una tradizione secolare, Artusi innestò un processo di «recupero linguistico orientato verso la migliore tradizione italiana».45 Se la Scienza in cucina rappresenta la summa delle varie cucine regionali, l’operazione artusiana ebbe successo perché per avere un’Italia unita occorreva dimostrare che esisteva una cucina nazionale al pari di una letteratura nazionale. E del resto, che l’unità della nazione si fosse compiuta più a tavolino, sulla carta, che nella pratica quotidiana e nelle abitudini degli italiani lo testimonia anche l’opera di Federico De Roberto. Polemicamente impietosa ne I Vicerè la descrizione, iperbolicamente deformata, della vita e degli eccessi del monaci benedettini, quotidianamente impegnati nell’«arte di Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso», emblemi della corruzione non solo morale del clero e della classe dirigente italiana nel periodo risorgimentale: Levatisi, la mattina, scendevano a dire ciascuno la sua messa, giù nella chiesa, spesso a porte chiuse, per non esser disturbati dai fedeli; poi se ne andavano in camera, a prendere qualcosa, in attesa del pranzo, a cui lavoravano, nelle cucine spaziose come una caserma, non meno di otto cuochi, oltre gli sguatteri. Ogni giorno i cuochi ricevevano da Nicolosi quattro carichi di carbone di quercia, per tenere i fornelli sempre accesi, e solo per la frittura il Cellerario di cucina consegnava loro, ogni giorno, quattro vesciche di strutto, di due rotoli ciascuna, e due cafissi d’olio: roba che in casa del principe bastava per sei mesi. I calderoni e le graticole erano tanto grandi che ci si poteva bollire tutta una coscia di vitella e arrostire un pesce spada sano sano; sulla grattugia, due sguatteri, agguantata ciascuno mezza ruota di formaggio, stavano un’ora a spiallarvela; il ceppo era un tronco di quercia che due uomini non arrivavano ad abbracciare, ed ogni settimana un falegname, che riceveva quattro tarì e mezzo barile di vino per que-
43
Ibidem. P. Camporesi, La terra e la luna cit., p. 150. 45 Ivi, p. 151. 44
VI. Italiane della (e nella) letteratura
«Ora che l’Italia è fatta, bisognerebbe unificare le cucine italiane!»
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sto servizio, doveva segarne due dita, perché si riduceva inservibile, dal tanto trituzzare. In città, la cucina dei Benedettini era passata in proverbio; il timballo di maccheroni con la crosta di pasta frolla, le arancine di riso grosse ciascuna come un mellone, le olive imbottite, i crespelli melati erano piatti che nessun altro cuoco sapeva lavorare; e pei gelati, per lo spumone, per la cassata gelata, i Padri avevano chiamato apposta da Napoli don Tino, il giovane del caffè di Benvenuto.46
Altrettanto significativo un brano de l’Imperio in cui lo scrittore, con la consueta ironia tagliente e icastica a un tempo, rappresenta la varietà e frammentazione degli italiani proprio a partire dai gusti alimentari. Il dialogo si svolge a Roma, cuore dello Stato: al suo arrivo Consalvo, che dal principio del desinare non aveva parlato, sciolse lo scilinguagnolo. […] egli lodò i vermicelli con le vongole e dichiarò di preferire lo strutto al burro. «Ora che l’Italia è fatta, bisognerebbe unificare le cucine italiane!» «Ardua impresa. Si potranno federare; se pure!» E Grimaldi, messo di buon umore dal cibo, dal vino, propose di comporre una mensa nazionale, un pranzo italiano per eccellenza. Si cominciava naturalmente dai maccheroni, e su questo punto tutti erano d’accordo; poi Sonnino stava per le triglie alla livornese, mentre Grimaldi preferiva le sogliole fritte con calamaretti; e mentre gli onorevoli discutevano, masticando a due palmenti, bevendo, forbendosi la bocca con il tovagliolo, che Grimaldi teneva appeso al collo, come un gran bamboccione, altre persone appressavansi, stringevano la mano al nuovo ministro: «Il dado è tratto?… Milesio rinsavisce?… I miei rallegramenti!…». E in piedi, intorno alla tavola, aspettavano d’udire il verbo del grand’uomo. «Stracotto con risotto… zampone di Modena con purée di spinaci…» «Eh! Ah!… Ma che purée!… Italiano! Bisogna parlare italiano!…» «O come si dice?» E Sonnino, nella sua qualità di toscano, suggerì: «Con passato di spinaci». «No; allora io sto per l’avvenire dei fagioli!…».47
La proposta fatta dai deputati del neonato parlamento di «unificare le cucine italiane» o quantomeno «federarle», trova nel cibo il mezzo e la metafora più pregnanti per esprimere quell’idea del Risorgimento come rivoluzione fallita ripresa da De Roberto ne I Vicerè, da Pirandello ne I vecchi e i giovani e mirabilmente condensata nell’adagio di Tomasi di Lampedusa: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».
46
F. De Roberto, I Vicerè, in Romanzi, novelle e saggi, a cura di C.A. Madrignani, Milano, Mondadori 1984, Collezione «I Meridiani», pp. 597-598. 47 F. De Roberto, L’imperio, in Romanzi, novelle e saggi cit., pp. 1247-1248. La figura della donna dall’Italia post-unitaria alla società degli anni Sessanta
LA LETTERATURA DELLE ITALIANE E LE ITALIANE DELLA LETTERATURA
ANNA LANGIANO Il corpo e la Storia: ‘L’arte della gioia’ di Goliarda Sapienza
Nell’Arte della gioia,1 Goliarda Sapienza dipinge un complesso ritratto della storia italiana del Novecento: la protagonista, Modesta, nasce emblematicamente il primo gennaio 1900 e il romanzo segue le vicende della sua vita fino all’incirca al 1968. La storia informa di sé la struttura stessa del libro, come dimostra la forte differenza stilistica tra la prima e l’ultima parte del romanzo,2 che narrano rispettivamente la morte di un mondo antico e il confronto con una realtà totalmente nuova, quella postbellica. Nella prima parte assistiamo alla scalata sociale che fa di Modesta, di nascita umilissima, l’erede dei Brandiforti:3 per raggiungere tale posizione, Modesta uccide tre donne, tutte e tre figure materne (tra cui la sua stessa madre biologica), che
1 Per la storia editoriale dell’Arte della gioia si rimanda a A. Pellegrino, La lunga marcia dell’‘L’arte della gioia’, Prefazione de ‘L’arte della gioia’, Torino, Einaudi 2008. Sulla fortuna critica del romanzo si confrontino D. Scarpa, Senza alterare niente, Postfazione a ‘L’arte della gioia’ cit., pp. 515-538 e il saggio M. B. Hernández González, La fortuna letteraria de ‘L’arte della gioia’ in Europa, contenuto nel volume miscellaneo «Quel sogno d’essere» nell’opera di Goliarda Sapienza, a cura di G. Providenti, in uscita nel 2012 per i tipi di Aracne. Una dettagliata panoramica delle recensioni dedicate all’Arte della gioia in ambito europeo è contenuta nella tesi di Laurea in Studi Italiani di Giuliana Fasolo, Un caso editoriale: ‘L’arte della gioia’ di Goliarda Sapienza. Il carteggio con gli autori e il giudizio della critica, discussa il 16 luglio 2011 nella Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza. Relatrice: Prof.ssa Carla De Bellis. 2 Il romanzo è diviso in quattro parti. I mutamenti stilistici sono progressivi e da ricondursi a molteplici fattori; in questa sede si è voluto solo rilevare alcune delle differenze, quelle che permettono a Goliarda Sapienza di descrivere due differenti contesti storici. 3 Per lo sviluppo del personaggio di Modesta in questa prima parte cfr. A. Cagnolati, Una «tosta carusa»: la formazione di Modesta, in G. Providenti (a cura di), «Quel sogno d’essere» nell’opera di Goliarda Sapienza cit.
La letteratura delle Italiane e le Italiane della letteratura
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ostacolano il vitalismo di Modesta con tre diversi esempi di non-vita.4 Al momento dell’arrivo di Modesta, la famiglia Brandiforti si presenta tragicamente divisa tra la vecchia generazione rappresentata dalla principessa Gaia, energica e volitiva ma tutta votata all’unione coi propri defunti, e una nuova generazione del tutto esaurita e incapace di porsi come parte attiva della storia familiare, come esprimono le tare fisiologiche che rendono diversamente inabili i due eredi della famiglia: Ippolito, affetto dalla sindrome di Down, e Beatrice, claudicante. La decadenza della famiglia è resa evidente dall’incapacità della nuova generazione di assumere un ruolo attivo nella guida della famiglia: né Ippolito, murato vivo nella propria malattia e separato anche fisicamente dagli altri abitanti della casa, che si riferiscono a lui come alla «cosa»; né Beatrice, cui viene impedito di sposarsi perché «nessuno deve scoprire che una Brandiforti è storpia»,5 sono in grado di traghettare la dinastia attraverso il secolo da poco iniziato.6 Come la stessa Beatrice spiega a Modesta: Vedi, tutti i Brandiforti fino alla generazione del nonno sono stati bellissimi e sani. Poi qualcosa si guastò nel sangue. Il primo segno fu questa inglese che ebbe un solo figlio, mio padre… Poi la nascita della «cosa» che, come ti ho detto, sta nella stanza della finestra sempre chiusa. Nessuno l’ha mai vista, nemmeno io. Certo, c’è stato Ignazio bello, forte, ma maman dice che anche lui era marcio nel cervello. Forse per questo è morto. Così maman dice che la nostra casata deve estinguersi come un fiume che il monte non vuole nutrire più. Noi siamo di Catania. Là il Monte dà la vita con la neve e la morte con la lava. Maman dice che nella sua memoria ben altri feudi fertili e casate ha visto seccarsi e finire per volere di Dio e del Monte.7
La famiglia Brandiforti è rassegnata, anzi votata, a un destino di dissoluzione, in cui il volere dei morti imprigiona i vivi in un’esistenza larvale. Simbolo del potere esercitato dai morti sui vivi è la villa del Carmelo, dove tutte le stanze dei familiari defunti sono conservate esattamente come erano, affinché in ogni momento chi le abitava possa tornare.8 È in questo tempo immobile, in questo luogo costruito
4
Per la tematica dell’omicidio nell’Arte della gioia cfr. M. Farnetti, ‘L’arte della gioia’ e il genio dell’omicidio, in Appassionata Sapienza, a cura di M. Farnetti, Milano, La Tartaruga edizioni 2011. 5 G. Sapienza, L’Arte della gioia, Prefazione di Angelo Pellegrino, Postfazione di Domenico Scarpa, Torino, Einaudi 2008, p. 70. Da qui in poi Adg. 6 La scelta dei Brandiforti di sottrarsi ai grandi cambiamenti storici che segnano il Novecento diventa evidente quando la principessa Gaia ordina ai giovani familiari di non festeggiare la fine della guerra. Il passo è citato più avanti. 7 Adg, p. 70-71. 8 Per la dialettica tra interno ed esterno nella narrativa di Goliarda Sapienza cfr. A. Carta, Finestre, porte, luoghi reali e spazi immaginari nell’opera di Goliarda Sapienza, in G. Providenti (a cura di), «Quel sogno d’essere» nell’opera di Goliarda Sapienza cit. VI. Italiane della (e nella) letteratura
‘L’arte della gioia’ di Goliarda Sapienza
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intorno alla presenza dei morti, resa palpabile dai loro mobili, dagli oggetti quotidiani perfettemente conservati e come sospesi anch’essi nell’attesa, che Modesta viene introdotta da Beatrice, attraverso un «giro nelle stanze dei morti della famiglia Brandiforte [che] ha i caratteri della discesa negli inferi della tradizione classica»9 Vedi, tutti questi ritratti sono i nostri antenati. […] E adesso che pressappoco te li ho presentati tutti, vieni che ti porto da Ildebrando. Entrai in una piccola stanza nitida, con pochi mobili, ma piena di giocattoli, treni, vapori. Su un tavolo una grande casa quasi costruita coi dadi. Mi guardai in giro, ma vidi solo una sedia da paralitico. Volevo tacere, ma non potei non chiedere: -È fuori? -No, è morto. Solo che secondo il testamento del principe, mio padre, tutte le stanze devono restare intatte, affinché, volendo, chi se n’è andato possa ritornare. Anche la sua, lassù, è intatta.10
Gli oggetti conservati nella villa sono metonimie del corpo dei morti: effigi, come i ritratti indicati, anzi «presentati» da Beatrice a Modesta, o veri e propri surrogati di quei corpi assenti, come la «sedia da paralitico» conservata in camera di Ildebrando, il vasetto con racchiuse le ceneri di Jacopo, i disegni vergati dalla mano di Ignazio. Nella villa del Carmelo i morti perdurano accanto ai vivi, occupano le stanze a fianco di quelle ancora abitate, impongono la loro volontà ai sopravvissuti, come afferma la principessa Gaia rifiutando di partecipare ai festeggiamenti per la fine della guerra: Per noi la guerra non è finita. Con la morte di Ignazio per me la guerra non finirà mai. E mai permetterò che si insinui il contrario. Non ci muoveremo da qui. […] E quando anch’io me ne andrò voi resterete qua a curare la mia stanza, come se io potessi sempre tornare. Così come il mio sposo buonanima ha voluto per lui e per tutti gli altri. E perché sia chiaro, ho fatto testamento in questo senso. Chi varca la soglia di questa casa diventa un estraneo alla famiglia, e i soldi vanno a chi resta. […] Non una parola su questa pace che non mi appartiene. Per me e per voi il lutto continua.11
Nelle parole di Gaia è chiara la volontà di condividere in tutto il destino dei morti:12 nella villa del Carmelo la guerra non può cessare perché non può cessare
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L. Fortini, ‘L’arte della gioia’ e il genio dell’omicidio mancato, in M. Farnetti (a cura di), Appassionata Sapienza cit., p. 123. 10 Adg, p. 61. 11 Ivi, p. 112-113. 12 Cfr. S. Fumaroli, Il était une femme de joie, in «Figaro litteraire», 13/10/2005: «Dans L’art de la joie, la princesse Brandiforti est le nouveau visage italien de la fidélité à soi-même par delà les vicissitudes de l’histoire». La letteratura delle Italiane e le Italiane della letteratura
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la morte del fratello Ignazio, causata dalla guerra; nessun oggetto può essere spostato affinché perduri la volontà del defunto principe; persino l’appartenenza stessa alla famiglia è vincolata alla permanenza nella casa dei morti. Dopo la morte di Gaia, rimasta sola nella casa in seguito a un breve allontanamento di Modesta, sarà Beatrice ad assumere su di sé il ruolo di custode dei morti: «– Dobbiamo restare qua e fare la volontà della nonna. […] E niente si deve mutare. Sono io ora che mi occupo anche della sua stanza che deve restare così come se lei potesse tornare ogni momento –».13; solo Modesta riuscirà a convincerla ad abbandonare la villa del Carmelo.14 Sposando Ippolito e uccidendo Gaia, Modesta si sostituisce alle due generazioni dei Brandiforti, entrambe diversamente destinate a una non-vita; Goliarda Sapienza raffigura così il passaggio storico da una nobiltà ormai in cancrena ad una classe sociale senza origine, variegata ma attiva nell’affermazione della propria sopravvivenza; a tale cambiamento parteciperà non solo Modesta, ma anche Carmine, gabellotto della proprietà dei principi che desidera lasciare ai figli il possesso delle terre che lui e i suoi avi hanno solo lavorato per altri. Come Modesta, anche Carmine realizzerà i propri desideri di riscatto sociale, non solo perché Modesta gli venderà le proprietà dei Brandiforti, ma soprattutto perché è da Carmine che Modesta avrà il bambino nominalmente figlio del principe Ippolito, e quindi erede dei Brandiforti.15 Nella prima parte del romanzo è quindi descritto il passaggio dal mondo rigidamente disciplinato dell’Ottocento a una nuova compagine sociale, quella novecentesca, che si distacca dagli antichi modelli: a sua volta, l’autrice decompone i valori della narrativa precedente, strutturando una narrazione all’apparenza estremamente tradizionale, che riprende gran parte della tradizione romanzesca precedente, ma invertendola di senso attraverso un sottile scarto ironico.
13
Adg, p. 122. Anche più avanti nel racconto, quando la villa sarà acquistata dai Tudia, il Carmelo rappresenterà il luogo della persistenza dei morti, come nel seguente dialogo tra Modesta e Mattia, il figlio di Carmine: «– […] perché ’sto silenzio qui al Carmelo? – Sono tutti morti, e io ho chiuso tutto. A che mi servivano tutte quelle stanze e saloni? Tengo aperta solo questa parte: tre stanze e un cucinino elettrico, come fanno in America. […] – Ho paura, sempre più silenzio sta calando su questa casa. Mentre mi facevi volare nella calura ho visto tutti i balconi, le finestre di questa casa deserti. – Non c’è nessuno. File di stanze chiuse sul vuoto mio e di chi è solo», Adg, pp. 402408. 15 Si ricordi che Beatrice, nipote della principessa Gaia, è anch’essa figlia naturale di Carmine. Le due famiglie che si succedono nel possesso del Carmelo, i Brandiforti e i Tudia, hanno entrambe il sangue di Carmine nelle vene. 14
VI. Italiane della (e nella) letteratura
‘L’arte della gioia’ di Goliarda Sapienza
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Ripercorrendo la genesi dell’Arte della gioia, Angelo Pellegrino ha sottolineato la forte polemica di Goliarda Sapienza rispetto alla letteratura e all’immaginario ottocentesco, tanto che l’Arte della gioia si riallaccia piuttosto al romanzo del Settecento: Creare un capolavoro significa anche riallacciarsi a tradizioni sopite, e ritrovarle. Goliarda Sapienza scavalcò tutto l’Ottocento, un secolo sostanzialmente per lei negativo, nel quale Anna Karenina, madame Bovary, Hedda Gabler, fino all’Esclusa di Pirandello, fanno la brutta fine che sappiamo. Trovava invece nella letteratura inglese del Settecento uno spirito, un clima, una libertà,una vivacità, un umorismo, una spregiudicatezza anche, che l’Ottocento non conobbe più se non in maniera morbosa.16
Se il Settecento è quindi per Goliarda Sapienza il modello positivo,17 l’Ottocento è nel romanzo il grande cadavere con cui Modesta per prima si deve confrontare, il sentimento della dissoluzione che la protagonista rifiuta e la struttura del romanzo esorcizza. La materia in fondo è la stessa [dei romanzi precedenti]: la dannazione genealogica, il passato che s’incarna nel presente. Ma qui [nell’Arte della gioia] per vincere il disordine Goliarda Sapienza non si affida al consapevole, disincantato, analitico racconto novecentesco ma al prestigioso fantasma del romanzo ottocentesco.18
Il dialogo con la narrativa ottocentesca è certamente più serrato all’inizio del romanzo, quando Modesta si trova a combattere le vestigia di quell’ordine ormai storicamente vinto, che con ironia Goliarda Sapienza raffigura attraverso il linguaggio e gli stilemi propri dell’arte che li ha rappresentati.19 L’autrice propone con
16
A. Pellegrino, Un personaggio singolare, un romanzo nuovo, una donna da amare per sempre, in M. Farnetti (a cura di), Appassionata Sapienza cit., p. 70. 17 Come esempio della varietà dei modelli letterari che sono stati chiamati in causa per l’Arte della gioia riporto un passo di A. Hernando, Del sufrimiento al arte de vivir, in «Letras libres», febbraio 2007: «En El arte del placer se acrisolan personajes femeninos clásicos de la literatura europea y lógicas narrativas de autores italianos coetáneos de la escritora: Stendhal (Madame Renal) y Moravia, Flaubert (Madame Bovary) y Lampedusa, D.H. Lawrence (Lady Chatterley) y Pirandello, Virginia Woolf (Orlando) y Elio Vittorini…». 18 E. Rasy, Ma Goliarda non è un Gattopardo, in «Il Sole 24 ore», 6/7/2008. 19 Il gioco destrutturante di Goliarda Sapienza con la tradizione letteraria è evidente nell’uso ironico della tematica della malformazione fisica come sintomo di una decadenza biologica e spirituale: «Aveva ragione anche lei [Beatrice], e dominandomi le circondai la vita e la baciai sui capelli lievi, profumati di fieno: lo stesso odore di Eriprando, di Carmine. […] Così vicina, vidi qualche filo bianco che già si mostrava fra il biondo. Per discendenza maschile Beatrice aveva ereditato quel bianco precoce e quel piedino malato. Dal ceppo contadino di quell’uomo d’onore provenivano due segni raffinarissimi, squisitamente fin de râce», Adg, p. 173. Per descrivere la decadenza dei Brandiforti, Goliarda Sapienza usa uno stilema tipico proprio della letteratura di decadenza (si pensi all’importanza che tale uso della malformazioLa letteratura delle Italiane e le Italiane della letteratura
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giocoso e sfrontato gusto antiquario soluzioni narrative scopertamente desunte dalla tradizione, fino a costruire «situazioni da romanzo ottocentesco, non prive di risvolte melodrammatici».20 La morte di una civiltà viene rappresentata attraverso l’esibita ripresa dei monumenti letterari di quella civiltà: ciò che rimane di un mondo è il ritratto che quel mondo ha dato di sé. Come Modesta per rifiutare la società in cui vive ne attraversa prima tutti i ranghi sociali, così la sua autrice scardina dall’interno una tradizione letteraria,21 declinandola secondo un’ottica inedita e contraddittoria: le situazioni narrative desunte dalla tradizione sono infatti rilette nell’Arte della gioia attraverso lo scandaloso e obliquo sguardo di Modesta.22 Nel saggio ‘L’arte della gioia’ e il genio dell’omicidio mancato, Laura Fortini ha sottolineato come il romanzo guardi alla tradizione con una capacità di spostamento che lavora per allontanamenti progressivi, apparentemente impercettibili e sostanzialmente irridenti, tanto da evocare il sorriso di Goliarda Sapienza capace di giocare a nascondino con l’apparato formale della tradizione letteraria (col suo apparato formale e non, si badi, con la sua sostanza.23
La stessa impostazione tradizionale del romanzo viene svuotata internamente dalla continua interpolazione nel dettato di soluzioni stilistiche innovative e fortemente destabilizzanti, che tendono alla negazione dell’ordine strutturale puntando alla confusione del tempo del racconto, alla discordanza della persona narrante e all’intrusione di più generi letterari: […] concepito come romanzo naturalistico di tipo ottocentesco (e Dostoevskij è l’autore de chevet di Goliarda, che muore con I fratelli Karamazov in mano), con uno
ne ha in un autore come Thomas Mann): un mondo morto è descritto attraverso il linguaggio di una letteratura anch’essa ormai trascorsa. L’ironia agisce doppiamente: attraverso la pedissequa riproposizione da parte dell’autrice di una soluzione stilistica immediatamente riconoscibile per la sua iperletterarietà e attraverso il suo immediato rovesciamento. 20 G. Ferroni, Diari di un critico/3, in «l’Unità», 2/09/2008. 21 Cfr. J. M. de Montrémy, Le siècle d’une Sicilienne, in «Livres hebdo», 2/09/2005: «Ce que Mody fait aux mots et à l’absolu – décaper, nettoyer, retourner –, Goliarda Sapienza le fait au genre romanesque». 22 Un carattere obliquo rispetto alla tradizione è già implicita nell’ottica femminile della protagonista. Per un’interpretazione dell’Arte della gioia nell’ottica dei gender studies cfr. C. Imberty, Gender e generi letterari: il caso di Goliarda Sapienza, in «Narrativa», 30, 2008, pp. 51-61 e C. Ross, Identità di genere e sessualità nelle opere di Goliarda Sapienza: finzioni necessariamente queer, in G. Providenti, «Quel sogno d’essere» nell’opera di Goliarda Sapienza cit. 23 L. Fortini, ‘L’arte della gioia’… cit., p. 113. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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svolgimento che tiene rigorosamente uniti fabula e intreccio, [L’arte della gioia] svela poi improvvise soluzioni sperimentalistiche che ne distorcono il dettato. Le contaminazioni non sono poche: intrusione della terza persona che si sostituisce all’io narrante; cantucci creati con il lettore messo a parte della vicenda dalla stessa autrice implicita; dialoghi articolati in forma di copione teatrale; elisione dell’indicazione dei personaggi che hanno la parola […].24
Nell’ultima parte del romanzo, e parallelamente agli sviluppi storici, la struttura cambierà fortemente: a un impianto volutamente tradizionale, fortemente incentrato su Modesta e sulla velocità degli eventi che la riguardano e che la portano ad attraversare le gerarchie sociali preesistenti fino a scardinarle dall’interno, si sostituisce nella descrizione dell’Italia postbellica una forma narrativa più ambigua e polifonica. Dopo la seconda guerra mondiale e la lotta antifascista di Modesta, il romanzo narra la dolorosa e solitaria presa di coscienza da parte di Modesta delle ipocrisie del dopoguerra, che permettono che tutto rimanga com’è nell’illusione di un generale cambiamento:25 [Pietro:-]Almeno ci saremmo levati da davanti quelle vecchie facce,anche se ora stanno arrivando quelle nuove dall’America. Ieri per poco non mi compromettevo. Su una jeep ho visto i fratelli D’Alcamo di buona memoria. Mattia:-E chi sono, Pietro? Pietro:-Due mafiosi brutti come l’inferno, così brutti ca prima erano nominati gli angeli, poi erano spariti. Ma come si sa gli angeli volano, e come sono partiti ora sono tornati in braccio allo straniero. E questo ci dice ca niente va a cambiare.26
Modesta si allontana quindi dalla vita politica attiva e deve sopportare, oltre al dolore per gli ideali disillusi, la rottura coi propri figli che non comprendono il senso del suo gesto.
24
G. Bonina, La principessa del Piacere, in «La Stampa», 19/07/2007. Il rapporto dell’Arte della gioia col Gattopardo è argomento troppo complesso per poter anche solo riportare le diverse opinioni critiche a riguardo; si rimanda, a scopo indicativo, alle recensioni di A. Cambria, Dopo l’Orca arriva la Gattoparda, in «Il giorno», 6/09/1979; F. Montpezat L’insoumise in «Dna», 16/09/2005; S. Fumaroli, Il était une fois une femme de joie, in «Figaro litteraire», 13/10/2005; D. Durand, Sapienza, la solaire insulaire, in «Le Canard enchaine», 30/11/2005; B. Del Vecchio, Il Gattopardo donna di Goliarda Sapienza, in «Il nuovo Riformista», 10/09/2008. In questa sede si vuole soltanto notare come sorprendenti consonanze con l’immobilismo del Gattopardo si trovino nell’Arte della gioia in occasione del racconto del secondo dopoguerra, quando massima dovrebbe essere l’aspettativa della protagonista verso il nuovo mondo che si sta formando sotto i suoi occhi, con un effetto paradossale e spiazzante. 26 Adg, p. 448. 25
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La sera sto lì con loro intorno al tavolo e porto il cibo alla bocca ma non riesco a parlare, la mente fissa a una sola grande delusione, a quegli uomini a Palermo, a Catania, che a braccia aperte m’accolgono slittando intorno alle vecchie scrivanie del potere: gli stessi gesti appena ammorbiditi da completi grigi a righini bianchi, le stesse teste solo liberate dai copricapo fascisti […] sono tutti lì: le gote accuratamente rasate, profumate di bergamotto.27
Pur nell’indubbia centralità della protagonista, il romanzo assume in più punti un impianto corale, di irresolubile confronto di prospettive, come dimostra la scelta stilistica di inserire dialoghi senza incisi, vere e proprie messe in scena delle opinioni dei personaggi. La modernità si presenta come il luogo e il tempo della confusione, dell’ambivalenza, degli avvenimenti incoerenti e della conflittualità di prospettive; come un continuo confronto dialettico che non riesce a creare un orizzonte condiviso. Di riflesso, nel romanzo l’azione si fa praticamente nulla, sostituita da un’esasperata e infruttuosa tensione dialettica;28 l’impianto narrativo diventa fortemente dialogico, contrastivo, e i notevolissimi salti temporali accentuano un’impressione di incoerenza narrativa. Alla rappresentazione sapientemente notomizzata di un mondo che muore segue quella frastagliata e incoerente di un mondo che non sa rinascere. Un mondo strutturato da regole condivise, e che proprio per la loro pretesa universalità erano maggiormente passibili di essere contrastate, lascia il posto alla scoperta moderna dell’identità pulviscolare del singolo. Rispetto alla prima parte del romanzo, che sottolineava volutamente la componente romanzesca attraverso un «accecante ritmo narrativo»,29 assistiamo a una progressiva dilatazione del tempo del racconto, dovuta alla sempre maggiore interiorizzazione30 degli eventi; nonostante i personggi principali attraversino e in parte partecipino ai più importanti avvenimenti del Novecento italiano, nessuno di questi eventi è rappresentato direttamente da Goliarda Sapienza, ma sono tutti menzionati dai personaggi, quindi assumono consistenza narrativa solo all’interno della loro prospettiva. In effetti la storia, più che accadere, viene nominata; non solo i grandi avvenimenti storici, ma gli episodi della vita di Modesta, che ormai si dipana, più che attraverso i colpi di scena di gusto romanzesco della sua giovinez-
27
Ivi, p. 450. Su cui si è spesso concentrata la condanna della critica: cfr. J. Laurer, Sicile impératrice, in «Le matricule des anges», novembre-dicembre 2005; F. Piemontese, Una donna e l’avventura della vita, in «Il Mattino», 1/08/2008. 29 G. Ferroni, Diari di un critico cit. 30 Per il rapporto tra interiorità del singolo e raffigurazione del contesto storico nell’Arte della gioia cfr. R. de Ceccatty, Sapienza, princesse hérétique, in «Le Monde des livres», 16/09/2005. 28
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za, attraverso i rapporti con parenti e amici e la discussione degli avvenimenti storici che persistono in uno sfondo di ironica immaterialità. Anche in questo caso, più che di una sensibile frattura con la parte iniziale del romanzo, assistiamo all’incontrollata proliferazione di una componente presente già nella prima parte della vita di Modesta: Modesta converse, avec la même aisance, avec des religieuses illuminées ou perverses, avec une aristocrate déchue,avec un jardinier sensuel et respectueuz jusque dans le désir, avec un intellectuel (le médecin Carlo, autre figure frappante du roman), avec Beatrice, celle à laquelle la liera un amour indéfectible, et avec tous les représentants des générations suivantes qui renouvelleront l’histoire de la Sicile et ressusciteront Modesta dans sa vieillesse, en appliquant ses leçons d’indépendance.31
L’elemento dialettico, che occupa sempre un maggiore spazio all’interno del romanzo, sostituisce agli avvenimenti le opinioni, alla rappresentazione diretta l’interpretazione personale; la struttura del romanzo viene pesantemente inflluenzata da altri generi, in particolare il teatro e la scrittura saggistica. La rappresentazione della Storia viene affidata alle partigiane e irrisolte discussioni dei protagonisti32 o alla labile presenza degli oggetti del divenire quotidiano, speculari e opposti agli immobili cimeli della Villa del Carmelo: Le donne da un anno o due scendono in strada senza cappello e senza calze. Là in fondo una donnina bionda, timida forse, porta ancora un fazzoletto in testa e cerca rasente il muro di passare inosservata: stringe al petto un tesoro nuovo, la rivista sgargiante «Grand Hotel» di marca americana che fa furore. Sui tavolini: gelati, caffé e selve di esili bottiglie di Coca-Cola.33
Nell’affrontare alcuni dei più importanti snodi storici del Novecento, Goliarda Sapienza non si limita ad analizzarne le componenti obiettive, le ragioni socioeconomiche alla base dei grandi eventi collettivi, ma li contamina con le insondabili ragioni della carne e del sangue. Abbiamo già visto come la scalata sociale di Modesta avvenga attraverso il tre volte ripetuto assassinio della figura materna; ciò che trasforma un evento di per sé storicamente definibile (la presa di possesso del potere sociale da parte di una figura fuori casta) nel sacrificio carnale della propria origine. Si pensi anche all’ascesa sociale di Carmine: essa, prima che in termini di riscatto socioeconomico, con l’acquisizione per i propri figli delle terre dei Brandiforti, si realizza attraverso il sangue, perché sarà il figlio di Carmine e Modesta a essere riconosciuto come principe Brandiforti.
31
Ibidem. Cfr. Adg, p. 479. 33 Ivi, p. 473. 32
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Il rinnovamento della vita attraverso le instabili leggi del desiderio trova rappresentazione artistica nella numerosa famiglia che Modesta raccoglie intorno a sé: figli biologici o adottivi, consapevoli o meno dell’identità dei loro genitori, tutti però ciechi portatori di un passato inteso come persistenza nella propria carne dei morti e del loro «richiamo amoroso di sangue e somiglianza».34 La confusione dei legami di parentela impedisce qualunque strutturazione gerarchica delle dinamiche familiari, di cui viene piuttosto messa in piena luce la capacità generativa come irrefrenabile affermazione del ciclo biologico, del rinnovamento e rimescolamento del sangue antico in nuovi nati; ciclo di sangue e memoria reso ancora più stretto e imperscrutabile dalla continua fusione, nelle nascite e nei matrimoni, delle due famiglie proprietarie del Carmelo, i Brandiforti e i Tudia. Assistiamo così a un capovolgimento dell’iniziale culto dei morti, che richiedeva ai vivi di condurre un’esistenza del tutto soggetta al peso dell’assenza; alla fine del romanzo, sono piuttosto i morti a essere compresi nell’inesausto fluire della vita, come dimostra anche il ritorno dei nomi dei personaggi dei nuovi nati: Bambolina, Carlo, Beatrice, Gaia, così che il romanzo si chiude sugli stessi nomi su cui si era aperto. Ora so perché mi sono addormentata. Volevo restare qui [al Carmelo], ora che i morti sono andati via e la casa è abitata. È bello qui. Le ragazze si sono svegliate, Bambù. Senti come ridono giù per le scale? Ma quante sono? – Beatrice, Gaia e de o tre loro amici che hanno dormito qui… Non parlano che della festa, a modo loro la fanno continuare.35
Il riaffiorare dei morti nei vivi scardina il tempo progressivo della storia assorbendolo in un ciclo biologico e mnemonico.36 I ritorni non avvengono solo tra
34 G. Sapienza, Il vizio di parlare e me stessa, a cura di G. Rispoli, Prefazione di A. Pellegrino, Torino, Einaudi 2011. 35 Adg, pp. 500-501. Tale passo, in una delle ultime pagine del romanzo, assume un valore ancora più evidente se confrontato con il primo racconto che Beatrice fa a Modesta della vita dei Brandiforti quando i giovani eredi della casata erano ancora in vita: «Che bei tempi erano, Modesta, là a Catania! La casa era sempre piena. Erano tutti vivi, allora, e non c’era questa maledetta guerra. […] Io sempre mi mettevo dietro la porta, non a origliare, ma mi piaceva sentire le voci e il profumo del tabacco che filtrava dalle fessure. Poi venivano per la cena o per il té con le loro sorelle… Poi, nel ’15, cominciarono a partire. Tutti dicevano che la guerra sarebbe durata solo sei mesi, per via non so di quali armi straordinarie che… bah! Quasi due anni sono passati e ancora non finisce. E non finiscono nemmeno i lutti… il cugino Manfredi è morto subito dopo Ignazio…come se lo avesse chiamato. E due mesi fa anche Alberto è sparito sul fronte di… non ricordo. E così tutte le case sono chiuse. Sono così tristi i portoni col lutto», Adg, pp. 66-67. Il vento di guerra e di decadenza che aveva spazzato via i giovani Brandiforti viene superato dal flusso carnale della vita e della morte. 36 È questa una tematica ricorrente nella narrativa di Goliarda Sapienza, in particolare in
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consanguinei, ma attraverso lo sguardo di Modesta il passato si ripresenta confondendo i luoghi, i nomi, gli eventi. Pietro: – […] Jacopo e Crispina porto a letto. Come due pecorelle si sono addormentate, e dopo torno da te e vediamo. – Come ci salvasti dal fuoco, Tuzzu? – – Una sotto un braccio e una sotto l’altro, come due pecorelle assonnate –. Pietro fende l’onda di sioni portando in salvo Jacopo e Crispina. Modesta lo segue. Ma giunta alla grande vetrata si deve fermare. Non era un’allucinazione, Mimmo sale ora le scale del Carmelo… il grande corpo fasciato dal velluto verde scuro… Bambù: – Chi è, zia? Modesta: – Mimmo il giardiniere, non vedi la grande ossatura e il vestito di velluto scuro di quelli dell’entroterra? Bambù: – Scherzi sempre, zia. Altro che giardiniere! Stella direbbe che è vestito da vero signore. Mattia: – Bacio le mani, principessa, e m’auguro di non essere di disturbo a tutta questa allegria.37
Le parole di Pietro rieccheggiano quelle di Tuzzu, nel corpo e nelle vesti di Mattia s’intravvede Mimmo, il giardiniere del convento dove Modesta era stata bambina. All’interno del grande affresco storico dell’Italia del Novecento, Goliarda Sapienza inserisce così sottilmente una temporalità ciclica che complica e sovverte le ragioni della Storia, comprendendole in quelle transeunti ma eternamente rinnovate della corporalità.
Lettera aperta, per cui cfr. il mio «Lettera aperta»: il «dovere di tornare». Un confronto con l’inedito, in G. Providenti (a cura di), «Quel sogno d’essere» nell’opera di Goliarda Sapienza cit. 37 Adg, p. 338. La letteratura delle Italiane e le Italiane della letteratura
ITALIANE DELLA LETTERATURA: ELSA MORANTE
ELENA PORCIANI «La morte è un fiore di pazienza». Le trasmutazioni del tragico in Elsa Morante
Affrontare la questione del tragico in Elsa Morante significa prendere in esame una costante di lungo corso della sua opera, testimoniata sia dalle riflessioni in margine ai testi narrativi sia dalla ricorrenza del termine «tragedia» e derivati. Si tratta di un’indagine, tuttavia, che acquista veramente senso se, in linea con il variegato assorbimento dei generi classici nel romanzo e con lo spostamento del dibattito dalla poetica all’estetica, si considera il tragico non tanto il genere letterario sovrano del classicismo quanto un modo moderno dell’immaginario incentrato su un’idea di conflittualità. Come ha scritto Szondi, «non esiste il tragico, almeno non come essenza. Esso è piuttosto un modo, una determinata maniera in cui l’annientamento minaccia di compiersi o si compie, e cioè quella dialettica. Tragico è soltanto quel soccombere che deriva dall’unità degli opposti, dal ribaltamento di una cosa nel suo contrario, dall’autoscissione».1 In quest’orizzonte si riconoscono come segni romanzeschi del tragico situazioni diegetiche quali lo scontro tra ragioni private e ragioni sociali, la meditazione sull’essere e su questioni esistenziali massime, la conclusione dolorosa, al contempo luttuosa e grandiosa, della vicenda, nonché – ed è questo un punto più metanarrativo – un ricco repertorio di motivi e personaggi. Si tratta di un’eredità, però, non priva di aspetti problematici dato che il romanzo deve necessariamente rielaborare alla luce del suo plurilinguismo e dei suoi ambienti impregnati di realismo la sublime idealità della tragedia, in primis il linguaggio distante dal parlato e l’alto lignaggio dei personaggi, ieratici e privi di un proprio sviluppo psicologico. Anche per questo, nella riflessione ottocentesca, già a partire da Hegel, tragedia e romanzo sono stati lungamente opposti l’una all’altro, mentre nel Novecento si è spesso considerato il romanzo come una riscrittura ironica della tragedia.2 1
P. Szondi, Saggio sul tragico (1961), Torino, Einaudi 1996, pp. 74-75. Per un’aggiornata introduzione alla questione del tragico nel Novecento cfr. C. Savettieri, Tragedia, tragico e romanzo nel modernismo, in «Allegoria», n. 63, 2012, pp. 45-65. 2
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Nel caso di Elsa Morante che è una autrice la cui poetica è imperniata sulla doppiezza, sull’intreccio e sulla sovrapposizione di poli opposti – femminile e maschile, pesantezza e grazia, romance e realismo, sogno e realtà, sensi e artifici –, non possiamo certo aspettarci un riuso lineare del tragico, ma, casomai, una contaminazione romanzesca che, nel momento stesso in cui traveste il tragico da patetico o melodrammatico e lo introduce in ambienti piccolo-borghesi, non per questo ne sminuisce l’intensità e la grandiosità. Senz’altro, è presente alla scrittrice una dimensione esistenziale ancora prima che letteraria della questione, come si nota, partendo in medias res, dalla conferenza Pro e contro la bomba atomica del 1965: […] la grande arte, nella sua profondità, è sempre pessimista, per la ragione che la sostanza reale della vita è tragica. La grande arte è tragica, sostanzialmente, anche quando è comica (si pensi a Don Chisciotte, il più bello di tutti i romanzi). Se uno scrittore, per preservare i buoni sentimenti, o piacere alle anime bennate, travisasse la tragedia reale della vita, che si confida a lui, commetterebbe quello che, nel Nuovo Testamento, è dichiarato il peggiore delitto: il peccato contro lo spirito, e non sarebbe più uno scrittore. Il movimento reale della vita è segnato dagli incontri e dalle opposizioni, dagli accorpamenti e dalle stragi. Nessuna persona viva rimane esclusa dall’esperienza del sesso, dell’angoscia, della contraddizione e della deformazione. E le alternative del destino sono la miseria o la colpa, la disaffezione o l’offesa.3
Secondo la Morante della metà degli anni sessanta c’è un’omogeneità di fondo tra arte e vita data dalla loro comune «sostanza tragica». E l’arte, a cui la scrittura compartecipa, ha il compito di reagire a tale “sostanza” lottando, nel momento stesso in cui le rappresenta, contro l’angoscia e le contraddizioni dell’esistenza umana. Ecco allora che se la «profondità» dell’arte è pessimistica, la sua «qualità […] liberatoria»4 può colorarsi di ottimismo, nella misura in cui lo scrittore non deve rimuovere l’irrealtà, cioè l’alienazione dell’era atomica con tutto il dolore e la bruttezza che essa si porta dietro, non deve fare finta che tale irrealtà non esista, bensì deve contrapporle l’allegria della creazione, la capacità di volgere il dolore al gioco, parola che di lì a qualche anno diverrà cardine del Mondo salvato dai ragazzini.5
3 E. Morante, Pro e contro la bomba atomica, in Ead., Pro e contro la bomba atomica e altri scritti, a cura di C. Garboli, Milano, Adelphi 1987, pp. 107-108. 4 Ivi, p. 108. 5 Sembra cogliere questo aspetto Agamben quando ha parlato di “tragedia antitragica” a proposito dell’opera della sua amica: «a volte, è come se Elsa aderisse così tenacemente alla finzione tragica che questa alla fine apre un varco al di là di se stessa, verso qualcosa che non è più tragico (anche se non può nemmeno dirsi comico). In quel varco, senza pena né redenzione, contempliamo per un istante la pura Finzione, prima che i demoni la trascinino all’inferno o gli angeli la sollevino in cielo. E quell’istante – la finzione contemplata, la parola
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Sarebbe però un errore considerare questo il punto di avvio della presenza del tragico in Elsa Morante; piuttosto la conferenza si inserisce nella costante attitudine dell’autrice a far interagire modi e generi offerti dalla tradizione letteraria. Riferimenti, seri o ironici, a situazioni tipiche del fiabesco, del romanzesco, del realistico, del fantastico, persino del pastorale sono presenti infatti sin dal denso laboratorio giovanile e in questa costitutiva contaminazione prende posto anche il tragico, come accade in Patrizi e plebei, uno dei raccontini semiautobiografici della serie Giardino d’infanzia apparsi su «Oggi» tra il 1939 e il 1940: ricordando una recita allestita da lei bambina, Elsa la definisce significativamente una «commedia tragica»,6 con un ossimoro che già preannuncia il carattere anfibio della sua scrittura. E in questa direzione la “sostanza tragica” della vita e dell’arte si lega al sistema dei personaggi descritto in un articoletto del «Mondo» del dicembre 1950, sebbene con la precisazione che la tipologia risale già «alla nostra prima giovinezza»:7 […] a ben guardare, i poeti e gli scrittori narrativi dispongono, in tutto e per tutto, di tre personaggi fondamentali, i quali rappresentano, per l’appunto, i tre possibili atteggiamenti dell’uomo di fronte alla realtà: 1) il Pelide Achille, ovvero il Greco dell’età felice. A lui la realtà appare vivace, fresca, nuova e assolutamente naturale; 2) don Chisciotte. La realtà non lo soddisfa e gli ispira ripugnanza, e lui cerca salvezza nella finzione; 3) Amleto. Anche a lui la realtà ispira ripugnanza, ma non trova salvezza, e alla fine sceglie di non essere.8
Quasi diciotto anni dopo, nel marzo del 1968, Elsa Morante dichiarerà a Michel David, che la intervistava per «Le Monde», la sua preferenza, fra i tre personaggi, per Don Chisciotte,9 ma è importante notare, ai fini del nostro discorso, che non minore è il ruolo di Amleto, personaggio tragico per eccellenza. I personaggi, infatti, oltre a rappresentare i tre atteggiamenti possibili di fronte alla realtà, incarnano ciascuno un modo: Achille è l’uomo epico, contraddistinto, da buon «Greco felice» quale è, dalla compenetrazione totale con un mondo anch’esso bambino; Don Chisciotte è l’uomo romanzesco, intendendo con ciò l’uomo nutrito di
scontata – è il congedo della tragedia», G. Agamben, Il congedo della tragedia (1985), in Festa per Elsa, a cura di G. Fofi-A. Sofri, Palermo, Sellerio 2011, p. 59. 6 E. Morante, Patrizi e plebei, in Ead., Racconti dimenticati, a cura di I. Babboni, Torino, Einaudi 2002, p. 245. 7 E. Morante, I personaggi, in Ead., Pro e contro la bomba atomica cit., p. 12. 8 Ibidem. 9 «Pour moi, vous l’avez compris, c’est Don Quichotte que j’ai choisi!», M. David-E. Morante, Entretien, in «Le Monde», 13/4/1968, p. 8. Italiane della letteratura: Elsa Morante
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romanzi, che sostituisce alla realtà il sortilegio del romanzo; Amleto, infine, è l’uomo tragico, interpretato modernamente come l’uomo segnato da un rapporto spezzato e impotente con la realtà. La tipologia non è omogenea: se da una parte Achille vive nell’Eden, dall’altra don Chisciotte e Amleto appaiono coalizzati per rappresentare la ripugnanza e il lutto che seguono alla fine di tale Eden. E ciò comporta conseguenze narrative non da poco: se si sposta il discorso dai personaggi ai modi che essi incarnano, dobbiamo aspettarci che la narrativa di Elsa Morante si costruisca sulla medesima coalizione di don Chisciotte e Amleto, di romanzesco e tragico, nel senso di un articolato intreccio, in cui, al di là della mutevolezza degli esiti, il tragico si fa romanzesco e viceversa, con effetti ora patetici ora melodrammatici, ora semplicemente desolanti e desolati, come esemplarmente già mostra Menzogna e sortilegio. Nell’Introduzione che precede il racconto delle vicende dei suoi familiari, la “giovane sepolta viva” Elisa De Salvi chiarisce le premesse e le circostanze della sua narrazione, mostrando innanzitutto come essa si leghi ai tre morbi ereditati dai genitori (l’enigma, la menzogna e la paura): Dapprima (ero appena una ragazzetta ancora), il mio non parve che un gioco, o un dilettoso esercizio. Richiusi i miei libri, io mi compiacevo di architettare, nella fantasia, vicende e storie di mia propria fattura, modellate, s’intende, sulle mie favole predilette. Or sebbene le trame da me immaginate variassero secondo i miei umori quotidiani, i protagonisti di esse, invece, erano sempre simili l’uno all’altro (se non proprio uguali), e quasi congiunti da una stretta parentela. Naturalmente, si trattava sempre di re, condottieri, profeti, e gente, insomma, d’altissimo rango. Quando non vestivano un’armatura o un saio, i miei personaggi indossavano costumi d’insuperabile fasto, e quando non eran cinti d’aureola, per lo più erano teste coronate. […] O impareggiabile prosapia! Mia madre fu una santa, mio padre un granduca in incognito, mio cugino Edoardo un ras dei deserti d’oltretomba, e mia zia Concetta una profetessa regina. Si fissarono così, in solenni aspetti a me familiari, le maschere delle mie futili tragedie.10
La tragedia della morte dei genitori e della loro sorte è resa “futile” dall’immaginazione romanzesca, che nell’«insuperabile fasto» delle vesti e delle armature sembra alleggerire il lutto trasformando meschine figure piccolo-borghesi in autentici «eroi familiari».11 Eppure, per quanto mascherate di futilità, le tragedie non sono meno tragiche: l’esaltazione romanzesca di Elisa non le risparmia la pesantezza luttuosa del proprio destino e il desiderio di una guarigione dalla stessa propria immaginazione. Anzi, l’espressione «futili tragedie» costituisce un ossimoro nel quale si avverte la lucidità di Elisa, la sua capacità di districarsi lungo la narrazione
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E. Morante, Menzogna e sortilegio (1948), Torino, Einaudi 1994, pp. 22-23. Ivi, p. 23. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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nel duplice registro del distacco razionale e del coinvolgimento affettivo. Siamo già pienamente nel regime di doppiezza che permea la scrittura morantiana includendo, in particolare, la sovrapposizione di narrazione e metanarrazione: come suggerisce il passo, Elisa consapevolmente riusa cliché e motivi del romance e la tragedia assume la parvenza di un melodramma che innanzitutto del tragico serba gli aspetti esteriori. Lo si nota in un altro significativo estratto, in cui Elisa tratta del nonno materno Teodoro Massia: Inoltre, egli possedeva il dono delle parole, e, di più, il dono di credere in esse: grazie al magico uso d’un vocabolario poetico, romanzesco, e, badate bene, sincero, egli trasmutava, nel concetto proprio e in quello delle credule amanti, una comune tresca in una tragedia.12
Il passo ci fa assistere alla dichiarata “trasmutazione” della “comune tresca” in tragedia, con il termine che è chiaramente usato in un senso ironico atto a denunciare la qualità mistificatrice della fantasia del nonno Massia. Tuttavia, gli esiti di queste tresche e passioni sono effettivamente tragici: non solo la morte dei protagonisti, ma l’esperienza del dolore, la loro agonia esistenziale, la dimensione estrema a cui conducono le loro passioni, i conflitti familiari sono tutti dotati di una potenza straordinaria, di una grandiosità che è certo merito della verve immaginifica di Elisa, non inferiore nel «magico uso d’un vocabolario poetico [e] romanzesco» al nonno. Di conseguenza, si intuisce che l’ironia non investe solo la tragedia, ma anche la stessa futilità, lo stesso melodramma della gestualità e locuzione teatrale dei protagonisti – e si tocca qui il talento di Elsa Morante, per la quale, veramente, ogni ingrediente è uno e bino: se la tragedia è frutto di una trasmutazione mistificatoria, la futilità non lo è di meno. Anche nell’Isola di Arturo sono presenti movenze teatrali e melodrammatiche dei personaggi ironicamente definite come tragiche, come nel caso dell’irruzione di Violante, la madre di Nunziata, nella Casa dei guaglioni,13 o nella sequenza del finto suicidio nel capitolo intitolato significativamente Tragedie. Arturo, intenzionato a non avere più che un «malore d’apparenza tragica»,14 sbaglia però le dosi del sonnifero e rischia di morire per davvero nel «grande teatro del mio suicidio [che] sembrò accogliermi con uno stupore esiliato e gentile, proprio come se, là, io aves-
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Ivi, pp. 48-49. «Ma la madre al primo vederla le gridò: – Nunzià! Nunziatè! – con un accento così tragico, che pareva la ritrovasse tenuta in catene e a pane e acqua in fondo a un sotterraneo, bastonata tutti i giorni e coperta di sfregi», E. Morante, L’isola di Arturo (1957), Torino, Einaudi 1995, p. 207. 14 Ivi, p. 243. 13
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si recitato una pantomima tragica, dopo la quale, di nuovo sano, galante, mi ripresentavo ora al proscenio».15 Anche in questo caso la superficie melodrammatica convive con la soggiacente pesantezza tragica della vicenda, specie se la si inquadra nel sistema tripartito dei personaggi: perché Arturo rivela un lato amletico più articolato del previsto. Anzitutto, Amleto è una delle tragedie che egli afferma di aver letto, anche se la sua opinione del Principe di Danimarca è piuttosto bassa. Quando Nunziata gli chiede chi sia Amleto, Arturo risponde: «Un buffone»,16 sebbene, a differenza di lei, principe. Un buffone a cui egli contrappone, come suoi modelli, gli “eccellenti condottieri” che vuole emulare, desideroso di cimentarsi nell’azione e nella guerra. Tuttavia, basta leggere il passo in cui Arturo adulto, rievocando «la certezza dell’azione» che lo attendeva, afferma che in realtà ancora aspetta che il suo «giorno arrivi, simile a un fratello meraviglioso con cui ci si racconta, abbracciati, la lunga noia…»,17 per intuire come, dopo la partenza dall’isola, egli non abbia certo condotto quella guerresca vita di cappa e spada cui tanto anelava. Riformulando la questione in termini strettamente morantiani, il libro sembra raccontare in realtà la trasformazione di Arturo da Achille in Amleto nell’età donchisciottesca dell’adolescenza, progressivamente e amaramente smascherata dal corso degli eventi, che hanno a che fare, come è noto, con la caduta del mito del padre. La parola chiave di questo percorso è “parodia”, l’impietosa accusa che da dietro le sbarre del carcere procidiano Tonino Stella lancia in codice a Wilhelm. «Tuo padre è una PARODIA»18 ripeterà poi ad Arturo nella Casa dei guaglioni aprendo uno squarcio nella coscienza del figlio, al punto che, quando il giorno successivo, che è anche il suo compleanno, Nunziata viene a chiamarlo per festeggiare, la sua reazione è feroce: «Come poteva parlarmi di cose futili come la pizza dolce in un momento così tragico?».19 La ricorrenza degli aggettivi «futile» e «tragico» non più nell’abbinamento ossimorico di Menzogna e sortilegio, ma in antitesi non potrebbe essere più rivelante in un itinerario diegetico che non riguarda solo gli alibi narranti, ma la stessa Elsa Morante. Lo svelamento della parodia non è solo un fatto narrativo, ma metanarrativo, in quanto la separazione fra i termini segnala un cambiamento nel rapporto di forza fra tragico e romanzesco: non soltanto è segnale, nel caso di Arturo, di acquisizione di senso di realtà, ma anche, al livello dell’autrice, di un’evoluzione nella sua poetica. Come se, implicitamente, il romanzo preludesse alla crisi che
15
Ivi, p. 256. Ivi, p. 113. 17 Ivi, p. 187. 18 Ivi, p. 339. 19 Ivi, p. 353. 16
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l’autrice attraverserà negli anni successivi, per quanto si tratti si una crisi che non significa resa, come dimostra la rinnovata missione umanistica enunciata nella conferenza del 1965. Non a caso nell’opera successiva, il Mondo salvato dai ragazzini, del 1968, allo sprofondamento nella pesanteur segue la rinascita attraverso l’antidoto dell’allegria e della grazia: attraverso la preferenza sempre e comunque, a ogni costo, anche della vita, per lo stato di F.P. piuttosto che di I.M. Che i primi anni sessanta siano stati per Elsa Morante una stagione di lutti e di dolore lo si percepisce sin dall’inizio del Mondo per come ad Arturo si è sostituito il protagonista di Addio, il cui distacco dalla Terra non avviene nei termini di una partenza in traghetto dall’isola dell’infanzia, ma in quelli di un volo suicida: Quaggiù i difficili ragazzetti, dopo un pomeriggio d’angosce strazianti, possono ancora ridere a una barzelletta. O nel noioso quartiere, una domenica di noia, d’un tratto trasfigurarsi alla vista d’una piuma e correre a ritrarla in un dipinto, ingigantita tragedia di colori che fa straripare il sangue del dolore adulto fino ai firmamenti fanciulleschi.20
Il ragazzo morto è ormai al di là anche della tragedia, al di là della possibilità di redimere attraverso l’arte il «dolore adulto» nella celestialità dell’infanzia. Lo sconforto nichilista precipita poi nel monologo di Edipo nella Serata a Colono, la riscrittura dell’Edipo a Colono che costituisce, nell’opera morantiana, l’unicum di una vera e propria riscrittura tragica. Nello spettacolo di Edipo legato alla lettiga in una corsia di un ospedale psichiatrico si consuma sino in fondo la perdita dell’aureola del mythos tragico: QUESTO MESTESSO RIFIUTATO DAL CIELO, QUESTO PISCHELLO BASTARDO E DEFORME, NON È CHE IL BRUTTO ROVESCIO DEGRADATO DEL MESTESSO VERO: L’EDIPO R E! E MEGLIO PER ME SAREBBE NON ESSERE NATO, PIUTTOSTO CHE VIVERE A QUESTO TRADIMENTO MALEDETTO. PERÒ SE SCANSO QUESTO NIDO ESTRANEO, QUESTA FAMIGLIA FERINA, METTENDOMI ALLA RICERCA, FORSE IO POSSO RITROVARLO, QUEL MESTESSO REALE E INCREDIBILE…21
20 21
E. Morante, Il mondo salvato dai ragazzini (1968), Torino, Einaudi 1995, p. 8. Ivi, p. 80.
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La doppiezza, l’ambiguità di miseria e nobiltà che caratterizzava i personaggi morantiani è degradata a una pulsante fonte di sofferenza in cui non sembrerebbe più possibile alcuna consolazione romanzesca. Invece, dopo il dolore assoluto di Addio e la degradazione della riscrittura tragica la parte finale delle Canzoni popolari riafferma, attraverso l’elogio gaudioso dei F.P., una possibilità di allegria e giocosità e, con ciò, di liberazione di fronte all’irrealtà: «In sostanza e verità tutto questo / non è nient’altro / che un gioco»,22 come recitano i versi finali della Canzone clandestina della Grande Opera. Ed è questo che possiamo aspettarci confluisca nel successivo romanzo. Nella Storia il conflitto tra la Storia con la S maiuscola delle Potenze e le storie degli umili protagonisti è essenzialmente tragico, per tutto il carico ineluttabile di morte, distruzione e dolore che la Storia si porta dietro e impone, anche se Achille e Don Chisciotte, così come Amleto, soccombono per le conseguenze indirette della strage bellica più che per i suoi effetti diretti. Mentre Davide Segre veste i panni dell’intero sistema morantiano dei personaggi – ex-Achille, ex-don Chisciotte e infine, nella lenta agonia della sua autodistruzione, Amleto, la cui «grazia tragica»23 scivola nel non essere –, per Useppe si possono spendere le stesse parole che in Pro e contro la bomba atomica Elsa Morante riserva al poeta ebreo ungherese Miklós Radnóti, ucciso a poco più di venti anni con un colpo alla nuca da un soldato nazista dopo essersi dovuto scavare la fossa: È morto nel 1944. Ma io, solo da poco tempo ho saputo che era esistito. E la scoperta che questo ragazzo ha potuto esistere sulla Terra, per me è stata una notizia piena di allegria. L’avventura di questo ragazzo assassinato è uno scandalo inaudito per la burocrazia organizzata dei lager, e delle bombe atomiche. Scandalo non per l’assassinio, che è nel loro sistema. Ma per la testimonianza postuma di realtà (l’allegria della notizia) che è contro il loro sistema.24
Da questo punto di vista l’ultima poesia di Radnóti – «Ora la morte è un fiore di pazienza»25 – anticipa le allegrie poesie di Useppe: «Le stelle come gli alberi e fruscolano come gli alberi. «Il sole per terra come una manata di catenelle e anelli. «Il sole tutto come tante piume cento piume mila piume. «Il sole su per l’aria come tante scale di palazzi. «La luna come una scala e su in cima s’affaccia Bella che s’annisconne. «Dormite canarini rinchiusi come due rose.
22
Ivi, p. 214. E. Morante, La Storia (1974), Torino, Einaudi 1995, p. 584. 24 Ead., Pro e contro la bomba atomica cit., p. 111. 25 Ivi, p. 109. 23
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«Le “ttelle come tante rondini che si salutano. E negli alberi. «I pesci come canarini. E volano via. «E le foie come ali. E volano via. «E il cavallo come una bandiera. «E vola via».26
Pari a quella di Radnóti, l’esistenza (di carta) di Useppe è stata uno scandalo la cui allegria si contrappone alla tragedia sterminatrice come ci suggerisce la canzone imparata dagli uccelli sulla riva del Tevere che, non a caso, echeggia i versi del Mondo salvato dai ragazzini sopra citati: «È uno scherzo / uno scherzo / tutto uno scherzo!».27 Contribuiscono alla caratterizzazione allegra di Useppe anche le ricorrenze di «tragedia» e derivati che a lui si riferiscono, come la «tragedia divina della infrazione»28 in occasione della prima clandestina uscita nel mondo insieme a Nino, nella quale permane una traccia dell’uso melodrammatico del termine per significare un’emozione forte, manifestata con gesti ed espressioni fuori dell’ordinario.29 Particolarmente significativa però, per quanto indiretta, nel delineare il destino di F.P. di Useppe è la presenza di «tragedia» nel paragrafo del primo capitolo dedicato alle manifestazioni infantili dell’epilessia di Ida: L’antica cultura popolare, tuttora radicata nel territorio calabrese e specie fra i contadini, segnava di uno stigma religioso certi mali indecifrabili, attribuendone le crisi ricorrenti all’invasione degli spiriti sacri, oppure inferiori, che in questo caso si potevano esorcizzare solo con recitazioni rituali nelle chiese. Lo spirito invasore, che sceglieva più spesso le donne, poteva trasmettere anche poteri insoliti, come il dono di curare i mali o quello profetico. Ma l’invasione in fondo veniva avvertita come una prova immane e senza colpa, la scelta inconsapevole d’una creatura isolata che raccogliesse la tragedia collettiva.30
Si intuisce infatti che tali «poteri insoliti» precipiteranno nella figura di Useppe, destinato nel romanzo a essere il capro espiatorio della «tragedia collettiva» della Seconda Guerra Mondiale, colui che con il suo sacrificio, come già Radnóti, recherà la «testimonianza postuma di realtà (l’allegria della notizia) che è contro il loro sistema».
26
Ead., La Storia cit., p. 523. Ivi, p. 509. 28 Ivi, p. 122. 29 In questa direzione si situano anche le ricorrenze a proposito di altri personaggi come Nino, riguardo al quale si legge dell’«allegria furiosa e quasi tragica» dei suoi «sfoghi bambineschi» (ivi, p. 150) al momento della crescita, o Ida, che nel deliquio nel ghetto assume un «tono di languore, smorfioso e tragico» (ivi, p. 239). 30 Ivi, p. 29. 31 Ead., Aracoeli (1982), Torino, Einaudi 1989, p. 306. 27
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Resta da dire di Aracoeli e del viaggio di Emanuele a El Amendral, che si rivela non il mandorleto fiorito immaginato nell’infanzia, ma «una pietraia onirica»31 nella quale, al termine di un viaggio che è anche un cammino a ritroso nella memoria, ha luogo il desolante visionario incontro con la madre: «Volevo dirti che tutto mi fa paura». «E più di tutto, che?» «Aver peccato». «Tu! E dove hai peccato tu povero niño?!» «Dovunque, ho peccato. Nelle intenzioni e nei fini e negli atti ma peggio di tutto nell’intelligenza. L’intelligenza si dà per capire. A me si è data, ma io non capisco niente. E non ho mai capito e non capirò mai niente». «Ma, niño mio chiquito, non c’è niente da capire». La sento che manda un riso, tenero. E questo è l’addio.32
È questo addio l’auto da fé morantiano? Senza che, peraltro, non manchino significative ricorrenze terminologiche, come l’«urlo femminile, atroce, laido e tragico»,33 che nel sogno di Emanuele adulto rinnova l’esperienza traumatica dell’infanzia al cospetto della malattia della madre, o «la tragedia della gelosia»34 che richiama le movenze melodrammatiche dei primi romanzi. Si tratta di una palinodia dei precedenti intrecci di modi che altro non erano che una chimerica speranza di redenzione romanzesca della «sostanza tragica»? Una negazione della stessa esistenza degli F.P.? «Altro era il colore di quel sogno antico»35 leggiamo all’inizio della sequenza e sembrerebbe l’epitaffio definitivo non solo dell’Eden achilleico, ma anche di ogni possibile illusione donchisciottesca. Tuttavia, è forse possibile una diversa interpretazione se, ricongiungendoci al passo di Pro e contro la bomba atomica citato in apertura, riconduciamo i “peccati dell’intelligenza” di Emanuele al «peccato contro lo spirito» commesso dallo scrittore che rinunciasse a rappresentare «la tragedia reale della vita». Possiamo così leggere le parole di Aracoeli, più che come una ritrattazione, come il tassello mancante che a ritroso sostiene le opere precedenti: come se affermando che «non c’è “niente da capire» essa rispondesse non solo al figlio, ma anche ad Elisa alle prese con i suoi enigmi ereditari. E non per svalutarne la mancanza di senso, ma per conferire loro ulteriore dignità: se non c’è nulla da capire, tanto più si deve scrivere, tanto più si giustifica l’affabulazione di Elisa/Elsa in nome della missione umanistica della letteratura e dell’arte, espressa a chiare lettere nella conferenza del 1965.
32
Ivi, p. 308. Ivi, p. 100. 34 Ivi, p. 135. 35 Ivi, p. 306. 33
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Per quanto, lungo il corso della sua esistenza, possa accadere al poeta, come ad ogni uomo, di essere ridotto dalla sventura alla nuda misura dell’orrore, fino alla certezza che questo orrore resterà ormai la legge della sua mente, non è detto che questa sarà l’ultima risposta del suo destino. Se la sua coscienza non sarà discesa nell’irrealtà, ma anzi l’orrore stesso gli diventerà una risposta reale (poesia), nel punto in cui segnerà le sue parole sulla carta, lui compierà un atto di ottimismo.36
E nelle sembianze di un «atto di ottimismo», al di là di ogni orrore personale, di ogni pesanteur, di ogni drago della notte, ci resta l’opera di Elsa Morante, dipanatasi per cinquanta anni come “fiore di pazienza” dell’F.P. di fronte alla «sostanza tragica della vita».
36
Ead., Pro e contro la bomba atomica cit., p. 108.
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SILVIA CERACCHINI Il laboratorio segreto di Elsa Morante: ‘Alibi’*
In un articolo pubblicato sulla rivista «Il Punto», Pietro Citati descrive con queste parole lo stile di Elsa Morante: Non compone romanzi, ma arazzi. Ma entro questi limiti, le sue doti sono, come dicevo, straordinarie. Procedimenti che, in altri, stonerebbero e stancherebbero, le riescono perfettamente intonati. Perché la Morante non perde occasione di declinare un paragone o di infilzare una maiuscola o un esclamativo: preferisce strafare invece che fare, eccedere nelle luci invece che lasciar campo al mistero; e scrive per aggiunte e aggregazioni successive, eccitata da una fantasia nominalistica, enumerativa, pronta ad accendersi su ogni oggetto purché possa trovar posto nelle sue grandi tele orientali.1
Questa descrizione, oltre a riflettere il carattere e la personalità eccentrica della scrittrice, è ancor più efficace se applicata al materiale preparatorio dei romanzi e delle poesie, in cui il magmatico impulso di scrittura è ancora indomato e informe sulla pagina. Il fondo Elsa Morante, depositato nella Biblioteca Nazionale Centrale
* Il presente contributo nasce dalla mia tesi di laurea specialistica in Italianistica, Tra le carte di ‘Alibi’ di Elsa Morante: genesi di una raccolta poetica, discussa presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi Roma Tre (a.a. 2009-2010). Il lavoro sulle carte manoscritte di Alibi sta continuando all’interno del corso di dottorato in Italianistica presso l’Università degli Studi di Tor Vergata sotto la guida di Andrea Gareffi (XXVI ciclo). Desidero ringraziare Maurizio Fiorilla, relatore della mia tesi di laurea, e Giuliana Zagra, responsabile del fondo manoscritto Elsa Morante della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, per l’incoraggiamento e per i preziosi consigli ricevuti durante la ricerca. Sono grata inoltre a Carlo Cecchi e Daniele Morante, eredi attualmente in possesso dei diritti dell’autrice, per avermi consentito l’accesso alle carte manoscritte e la possibilità di studiarle. 1 P. Citati, Narcisismo e adolescenza, «Il punto», 30 marzo 1957, p. 15. Italiane della letteratura: Elsa Morante
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di Roma ad opera degli eredi della scrittrice per sua stessa volontà, rappresenta in questo senso un tesoro inestimabile, e permette nuove e interessanti considerazioni sul suo modo di lavorare. Il corpus manoscritto e dattiloscritto del fondo scandisce tutte le fasi del percorso creativo dell’artista, e comprende anche carte ancora non edite e in attesa di catalogazione. Tale prezioso materiale è stato oggetto di studio di diversi lavori: importanti riscontri vengono soprattutto dal volume di Marco Bardini, Morante Elsa. Italiana. Di professione, poeta (1999) che supporta le sue riflessioni sull’autrice con lo studio delle carte autografe, dai saggi di vari autori raccolti nel catalogo Le stanze di Elsa, a cura di Giuliana Zagra e Simonetta Buttò (2006), e da I manoscritti di Elsa Morante e altri studi, pubblicato dalla Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II (1995); tra i lavori più recenti ricordo anche il contributo di Maurizio Fiorilla, Tra le carte del ‘Mondo salvato dai ragazzini’ di Elsa Morante contenuto nel volume miscellaneo La filologia dei testi d’autore, uscito per Cesati nel 2009, curato da Simona Brambilla e dallo stesso Fiorilla. Il mio lavoro si è concentrato nello specifico sulle carte di Alibi, raccolta poetica, la prima dell’autrice, uscita nel 1958 come secondo volume di una collezione di poesie per Longanesi (ideata da Nico Naldini). Le carte di Alibi, tutti fogli sciolti manoscritti e dattiloscritti, attraversano un arco poetico di quasi vent’anni, accogliendo testi composti dai primi anni Quaranta. La sua composizione è parallela alla stesura di Menzogna e sortilegio, uscito − com’è noto − nel 1948, e a quella de L’isola di Arturo, uscito nel 1957 (cui la Morante iniziò a metter mano a partire dagli anni Cinquanta). Le mie riflessioni sulla raccolta, condotte a partire dalla trascrizione e dall’esame di testi e paratesti contenuti nelle carte autografe, sono state arricchite anche dal confronto con i materiali preparatori dell’Isola di Arturo e di Menzogna e Sortilegio, e con il quaderno di Narciso, Versi poesie e altre cose molte delle quali rifiutate, composto tra il 1943 e il 1945 ed esaminato da Cesare Garboli, recentemente donato alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Il quaderno, «sorta di diario, fra l’altro, e di zibaldone»,2 contiene poesie scartate, riscritture di parti di Menzogna e sortilegio, alcune bozze delle poesie di Alibi, e la bozza di un componimento edito da Garboli in appendice alla riedizione di Alibi del 2004, dal titolo, appunto, Narciso. Dall’analisi delle carte autografe emerge immediatamente la personalità prorompente della Morante, per la quale si può affermare che vita e scrittura siano assolutamente coincidenti: stesure plurime, cancellature, annotazioni, citazioni, segnalazioni di fonti, ammonimenti, disegni, confessioni personali accompagnano la stesura del testo, che è continuamente corretto e ricorretto, ed ogni stesura è
2
C. Garboli, Introduzione in E. Morante, Alibi, in appendice: quaderno inedito di Narciso, Torino, Einaudi 2004, p. XI. All’interno del saggio seguirò sempre questa edizione, con sola eccezione della nota 5, in cui seguirò l’edizione uscita per Garzanti. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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conservata, anche se riscritta in forma definitiva in altro luogo, sbarrata il più delle volte con un semplice frego verticale. L’autrice sembra non porre alcun freno al flusso dei pensieri, rapportandosi a questi con sacro rispetto, conservando anche il più piccolo appunto.3 Rispetto alla grande quantità di elementi emersi durante il mio studio su Alibi, mi limito a presentare alcuni esempi dell’interesse rivestito da queste carte, non solo sul piano della ricostruzione di un percorso strettamente variantistico ma anche sul piano più ampio della genesi di componimenti e singole tessere poetiche, nate spesso da esperienze personali ma anche da letture e traduzioni di altri autori cari alla scrittrice. Merita per prima cosa rilevare il profondo legame tra la produzione lirica e quella in prosa, riconosciuta dalla stessa autrice nella Premessa di Alibi: L’Autrice prega i lettori di perdonarle l’esiguo valore e peso di queste pagine. Essendo infatti, lei, per sua consuetudine (oltre che per sua natura e per suo destino) scrittrice di storie in prosa, i suoi radi versi sono, in parte, nient’altro che un’eco, o, se si voglia, un coro, dei suoi romanzi.4
Si può distinguere nella raccolta due diversi livelli di influenza: il primo è esplicito e riguarda le poesie che sono riprese direttamente e senza alcuna modifica dai
3
Unanime è il commento e la meraviglia degli studiosi di fronte alle carte autografe della scrittrice. Giuliana Zagra ad esempio scrive: «Si resta stupiti davanti ai piatti di copertina dei quaderni di Menzogna e sortilegio intessuti, quasi come un tappeto pregiato di fitti nodi, da una infinità di fili, dalle citazioni letterarie, agli elenchi di parole, alla preghiera più intima, al flusso di pensieri, o davanti al paratesto de La Storia, dove, passo passo, è possibile ricostruire la documentazione fatta sulle fonti e lo studio accurato dei testi che accompagnò la stesura del romanzo. Tutto questo è la testimonianza di come la scrittura sia per Elsa Morante un’esperienza totalizzante, che coincide, nel momento in cui scrive, con la vita stessa, dove va a confluire tutto il vissuto», G. Zagra, Le stanze di Elsa. Appunti sul laboratorio di scrittura di Elsa Morante, in Le stanze di Elsa. Dentro la scrittura di Elsa Morante, Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, 27 aprile-3 giugno 2006, a cura di G. Zagra e S. Buttò, Roma, Colombo 2006, p. 9. Tradisce lo stesso stupore il commento di Maurizio Fiorilla nel suo lavoro sulle carte de Il mondo salvato dai ragazzini: «Esaminando le carte del suo scrittoio si rimane subito colpiti dalla presenza di molte e contigue stesure di intere sezioni del testo, più volte riscritte e modificate, e poi, a breve distanza di tempo, di nuovo ricopiate e ricorrette da capo. La scrittrice ha conservato tutte le varie versioni del testo elaborate nel corso del tempo, compresi abbozzi e primissime stesure, limitandosi semplicemente, e solo in alcuni casi, a cassare, con tratti orizzontali e verticali, redazioni che riteneva evidentemente ormai superate o trascritte più ordinatamente altrove», M. Fiorilla, Tra le carte del ‘Mondo salvato dai ragazzini’ di Elsa Morante: per la genesi di ‘Addio’, in La filologia dei testi d’autore. Atti del Seminario di Studi (Università degli Studi Roma Tre, 3-4 ottobre 2007), a cura di S. Brambilla e M. Fiorilla, Firenze, Cesati 2009, p. 243. 4 E. Morante, Premessa, in Ead., Alibi cit., p. 3. Italiane della letteratura: Elsa Morante
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romanzi, e sono in particolare Alla favola, Ai personaggi, Canto per il gatto Alvaro che vengono da Menzogna e sortilegio, e L’isola di Arturo dall’omonimo romanzo;5 il secondo livello, riscontrabile unicamente dalle carte manoscritte, riguarda alcune liriche che, se analizzate in abbozzo o in uno stato redazionale anteriore a quello definitivo, rivelano legami evidenti con pagine e personaggi degli stessi due romanzi. In Poesia per Saruzza, ad esempio, è evidente l’influenza, poi ridimensionata, di Menzogna e sortilegio. Nella versione a stampa la poesia ha come incipit «Nove anni da che t’ho salutata / o mia dimenticata, giovane siciliana».6 La prima bozza della poesia, contenuta nel quaderno di Narciso (che contiene, ricordo, anche riscritture del romanzo), con data «25 marzo 1945» ed intitolata «Eco», ha l’inaspettato incipit «Nove anni da che mi salutasti o caro, fugace amante, giovane siciliano». Anche le altre prime bozze del componimento mantengono il destinatario maschile. Da diversi elementi si può riconoscere dietro al «giovane siciliano», il personaggio maschile principe di Menzogna e sortilegio, Edoardo Cerentano. È possibile supportare questa ipotesi con vari argomenti, a partire dal riferimento al «giovane siciliano». Nonostante la topografia del romanzo non sia esplicita, non è infatti difficile riconoscere nell’ambientazione che ospita la scena, la Sicilia e le sue campagne, come notato anche da Cesare Garboli nell’introduzione al romanzo.7 Fondamentale è poi l’indicazione temporale «Nove anni da che mi salutasti», su cui l’autrice insiste anche all’interno del componimento («Ma l’eco di una tua risata, / ultimo celeste addio / per nove anni si aggirò / su quel desolato paese»): dall’ultimo incontro di commiato tra i due cugini all’inverno in cui Edoardo muore di tisi, sono trascorsi poco più di nove anni.8 Lo conferma il fatto che Elisa, nata dal matrimonio senz’amore tra Anna e Francesco, ha in quello stesso inverno «poco meno di nove anni».9 Notevoli sono anche i riscontri possibili sul piano tematico. Il motivo car-
5 Come l’autrice stessa dichiara nella nota al testo: «Le poesie Alla favola, Ai personaggi, Canto per il gatto Alvaro, sono state pubblicate per la prima volta nel romanzo Menzogna e sortilegio (Einaudi 1948); la poesia L’isola di Arturo nel romanzo omonimo (Einaudi 1957)», E. Morante, Alibi, Milano, Garzanti 1990. 6 Ivi, p. 13. 7 «La belle époque di Menzogna e sortilegio si vive sordidamente a Palermo; ma una Palermo lontana dal mare, metà vera e metà fantastica, attorniata da squallidi sobborghi sui quali si proiettano i ricordi dei quartieri romani di Testaccio, di Monteverde Nuovo e della vecchia Stazione Termini», C. Garboli, Introduzione in E. Morante, Menzogna e sortilegio, Torino, Einaudi 1994 cit., p. XV. 8 «Eran trascorsi più di nove anni in simili vicende: e nell’inverno a cui siamo giunti con la nostra storia, già da due mesi Edoardo languiva, dopo l’ultima ricaduta del suo male. […] Ma verso la fine del secondo mese, il professore la chiamò per comunicarle che la salute di Edoardo non si poteva più riconquistare con mezzi umani; e che, salvo un miracolo del cielo, prima che finisse l’anno Edoardo era perduto», ivi, p. 454. 9 «I miei ricordi più chiari incominciano, come accade, con l’età della mia prima ragione.
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dine della lirica è infatti la separazione degli amanti decretata dalla morte, «impervia rovina di lontananza e tempo». Si tenga conto che dopo la morte di Edoardo molte pagine di Menzogna e sortilegio sono dedicate ad Anna e all’elaborazione del proprio lutto. I versi di «Eco», trasognati e malinconici, ricordano i pomeriggi febbrili di Anna, chiusa nella sua stanzetta («io della vuota stanza / signora»), a vaneggiare colloqui d’amore con il fantasma del cugino.10 Il percorso fin qui delineato mi pare riveli come Poesia per Saruzza sia nata con ogni probabilità dalle pagine, o addirittura nelle pagine, di Menzogna e sortilegio. Tale ipotesi può essere suffragata tendendo anche conto di quanto dichiarato dalla Morante nella Premessa di Alibi. Il rapporto tra il testo poetico e il romanzo tende a indebolirsi nelle fasi finali della stesura dattiloscritta, in cui il componimento acquisisce una vesta autonoma, con cambio di destinatario e titolo definitivo. Durante il mio studio, sempre a partire dalle carte autografe, ho inoltre analizzato e ricostruito la genesi di alcuni componimenti, ed è emerso come alcuni di questi siano nati originariamente all’interno di altri, per poi divenire autonomi. Alibi (da cui non a caso prende il titolo l’intera raccolta) è in questo senso un componimento chiave, che ha avuto una gestazione lunga e complessa, caratterizzata da numerosissime stesure. Da alcune riscritture intermedie della poesia sono nate strofe poi cassate e confluite in altri componimenti. È il caso di Aida e Niso,11 e
Lì prenderò dal punto che dà inizio alla prima parte di questo libro, all’incirca il tempo che morì mia nonna. Avevo, allora, poco meno di nove anni», ivi, p. 435. 10 Riporto un passo a titolo di esempio: «Fra simili insane preghiere mia madre rimaneva ferma nella stessa posa in cui l’avevo scorta al primo momento, con le mani giunte, e in ginocchio; e quantunque non distinguessi bene il suo viso, indovinavo ch’ella fissava l’oscurità come se per opera del suo sguardo la sostanza delle tenebre potesse comporsi nella figura del Cugino. […] Mi disse che la voce incessante di lui la perseguitava, bisbigliandole nell’orecchio i loro ricordi più felici, e carezzandola con promesse così incantevoli ch’ella non poteva più sopportare l’attesa. […] Cosiffatti miraggi e sentori e voci erano la sua peggiore condanna: giacché, nel momento stesso che il cugino si rappresentava a lei come una cosa viva e prossima, si negava; e nulla concedeva di sé che non fosse inafferrabile e fatuo, quanto un soffio», ivi, pp. 606-607. 11 Le due poesie fanno parte di una sezione intitolata Allegoria. I versi presenti in una delle bozze di Alibi «C’era una volta una schiava, l’etiope Aida. / Foschi oscuri ricci le cingono la fronte /nera. Il teatro delira /per la sua voce, candida come la luna» costituiranno l’incipit di Aida «C’era una volta una schiava, l’etiope Aida. / Foschi ricci le coprono la fonte nera, / e il teatro delira / per la sua voce, candida come la luna», E. Morante, Alibi cit., p. 65; anche i versi «C’era una volta un cavallo di nome Niso. / Fulvo e delicato il suo colore; d’angelo la sua bellezza», base per l’incipit di Niso, («C’era una volta un cavallo, di nome Niso. / Fulvo e delicato il suo colore, d’angelo la sua bellezza», E. Morante, Alibi cit., p. 66), erano presenti come strofa di Alibi in una delle bozze. Intensifica il legame tra le poesie il fatto che Allegoria sia stato titolo temporaneo di Alibi. Italiane della letteratura: Elsa Morante
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soprattutto di Su Nerina, i cui versi facevano in origine parte di diverse stesure di Alibi. Riporto la prima attestazione della poesia, nell’abbozzo intitolato «Biografia»: L’infanzia è gran signora, di tutte le sorti, o Fedele. Senza genitori né corte nessuno a smentire la leggenda. Sotterra miniere d’oro, e nell’aria lo sciame delle foglie d’oro. Note discordanti e sorde punti e linee senza nesso del caso inanimato che significheranno nulla, disegnano stupende figure nei giorni, tutti istoriati come lo Zodiaco. Festante metropoli terrestre, e tu, Laude, Gerusalemme dei mattini domenicali! Al tuo cuore ignorante bastava in fondo lo specchio di Narciso.
A questo stato redazionale le due poesie risultano strettamente legate. L’elemento di maggiore coesione è la presenza di «Fedele», nome che rimane nella versione definitiva di Alibi.12 Oltre alla particolarità di essere nata come strofa di Alibi, la poesia Su Nerina permette inoltre di costatare come le carte manoscritte siano in molti casi illuminanti nel far emergere fonti di autori cari all’autrice, poi dissimulate in fase definitiva. Le frasi sottolineate «Senza genitori né corte» e «lo sciame delle foglie d’oro» sono infatti delle traduzioni da Enfance di Rimbaud, su cui il componimento appare totalmente modellato in fase manoscritta, a partire dalla presenza della traduzione del titolo nell’incipit «L’infanzia è una gran signora», che diventerà nella versione a stampa «Ricordo d’una infanzia».13 L’autrice stessa esplicita la fonte nella prima bozza autonoma di «Su Nerina», separata da Alibi probabilmente proprio con l’intento di omaggiare il poeta francese, con la nota: Credo superfluo avvertire i miei lettori che le frasi in corsivo sono tradotte da Enfance di Rimbaud e che tutte queste strofe sono quasi delle variazioni intorno a frasi del poema suddetto.
In questo caso esclusivamente dall’analisi delle carte manoscritte è stato possibile individuare la fonte di partenza, dal momento che le riprese di Enfance si perdono nel corso delle stesure. La poesia nasce quindi come omaggio a Arthur
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«Vorrei chiamarti: Fedele; ma non ti somiglia», Ead., Alibi cit., p. 51. Ivi, p. 57. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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Rimbaud, poeta prediletto dall’autrice.14 In tutte le prime bozze del componimento le traduzioni da Enfance «Senza genitori né corte»,15 «Lo sciame delle foglie d’oro»,16 «s’aggiravano bestie d’una eleganza favolosa»,17 «La giovane madre defunta scende dalla loggia»,18 «nudità ombreggiata, attraversata e vestita dagli arcobaleni»,19 «Le palizzate sono così alte che si vedono solo le cime fruscianti. D’altronde non c’è nulla da vedere là dentro»,20 che si modificano nel corso delle stesure, sono rigorosamente marcate dalla sottilineatura, e dovevano certamente essere pubblicate in corsivo come indicato dalla nota. L’analisi delle successive bozze della poesia mostra come le riprese di Enfance tendano progressivamente a ridimensionarsi, ridotte nella versione a stampa all’unico «Senza genitori né avi», indistinto dagli altri versi. Interessante notare come uno dei versi sopracitati sia ripreso anche ne La smania dello scandalo, poesia de Il mondo salvato dai ragazzini, dove ricompare il calco «LE BESTE D’UNA ELEGANZA FAVOLOSA»,21 evidenziato dal maiuscolo. Ma l’influenza di Enfance non si ferma esclusivamente alle due poesie citate, e interessa anche L’isola di Arturo: il verso celeberrimo «fuori del limbo non v’è eliso»,22 chiusa dell’omonima poesia del romanzo, è presente fra queste citazioni di
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Riporto a tal proposito i commenti di Siciliano: «Elsa Morante amava Mozart e amava Rimbaud. Un piccolo ritratto di Rimbaud l’ha accompagnata tutta la vita. […] Dall’inferno di Rimbaud i suoi occhi risalivano al paradiso di Mozart», E. Siciliano, Dall’inferno di Rimbaud al paradiso di Mozart, in «Corriere della sera», 26 nov 1985, p. 3; «Di lì a un paio di anni avrei cominciato a frequentare il suo studiolo di via del Babuino, in cima a tanti rami di scale, lo studiolo dove conservava una foto di Rimbaud da ragazzo, quella foto bellissima che sembra però il lascito di un morto. Su quella foto una mano – con inchiostro sbiadito – aveva segnato con chiarezza, “A Elsa”», E. Siciliano, La fine di un’amicizia, in Cahiers Elsa Morante, a cura di N. Orengo e T. Notarbartolo, Salerno, Edizioni Sottotraccia 1995, p. 88. 15 «sans parents ni cour»; per il testo del componimento seguo A. Rimbaud, Opere, a cura di D. Grange Fiori, introduzione di Y. Bonnefoy, Milano, Mondadori 1992, pp. 286-289. 16 «L’essaim des feuilles d’or». 17 «Des bêtes d’une élégance fabuleuse circulaient». 18 «La jeune maman trépassée descend la perron». 19 «nudité qu’ombrent, traversent et habillent les arcs-en-ciel, la flore, la mer». 20 «Les palissades sont si hautes qu’on ne voit que les cimes bruissantes. D’ailleurs il n’y a rien à voir là-dedans». 21 E. Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, Torino, Einaudi 1968, p. 112. I versi del poeta francese ed in particolare quelli della sezione Les Illuminations, sono di massima ispirazione per La commedia chimica (sezione de Il mondo salvato dai ragazzini), inseriti il più delle volte esplicitamente in lingua originale e senza traduzione. Basti pensare che titolo originario dell’intera raccolta, «Un liquore amaro che fa sudare», più volte rielaborato, sia ripreso da un verso di Larme: «Quelque liquer d’or, fade et qui fait suer», Rimbaud, Opere cit., p. 150. Nel libro di Rimbaud di proprietà dell’autrice, il verso in questione è infatti sottolineato. Per un approfondimento sui manoscritti de Il mondo salvato dai ragazzini cfr. Fiorilla, Tra le carte cit., pp. 243268. 22 E. Morante, L’isola di Arturo, Torino, Einaudi 1969, p. 1. Italiane della letteratura: Elsa Morante
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Rimbaud, in particolare prima della traduzione «Flutti senza navi, nudità rivestite dagli arcobaleni! Così alte palizzate che si vedono solo le cime oscillanti. Del resto, là dentro non c’è nulla da vedere».23 La presenza di un verso così centrale nell’interpretazione del romanzo in una bozza basata sulla riorchestrazione di Enfance permette una nuova e più completa esegesi, accreditando il postulato che Rimbaud abbia contribuito alla creazione del personaggio di Arturo24 e riconoscendo nella poesia del poeta francese il modello primordiale di questo «viaggio fuori dall’infanzia». Non è allora forse un caso che alla fine dell’appunto del 20 settembre 1952 si legga: «Oramai è tempo che io riprenda a scrivere l’Isola di Arturo. Chi sa se ritroverò quella specie di infanzia appassionata che avevo per scriverlo quando lo interruppi», dove ritorna il titolo della poesia di Rimbaud, enfatizzato dal corsivo.25 Riguarda la raccolta anche la scoperta di materiale inedito, che mi riservo di presentare successivamente, dandone in questa sede appena un accenno. Si tratta di alcune strofe che completano il testo di Narciso, pubblicato da Cesare Garboli in appendice all’edizione di Alibi del 2004, di cui si è sopra accennato. Il testo edito da Garboli, le cui bozze sono conservate nel quaderno di Narciso, è costituito da tre strofe numerate in cifre romane, ed è datato «1945». Ad una carta sciolta ho rinvenuto le due strofe di chiusura del componimento, la strofa IV e la strofa V. A sostegno di quanto sostenuto segnalo per prima cosa che, a seguito delle strofe I, II e III contenute nel quaderno, alla pagina successiva segue un «IV», solo appuntato e senza seguito, ma chiaro segnale dell’intenzione di inserire una quarta strofa.
23
Rimane traccia di questi versi in un passo dell’ultimo romanzo, Aracoeli: «Ho ripescato gli occhiali nella tasca interna del mio rognoso giaccone d’incerato, ma per il momento rinuncio a servirmene, giudicando che, tanto, non c’è niente da vedere», E. Morante, Aracoeli, Torino, Einaudi 1982, p. 23. 24 L’importanza del nome Arturo, derivato senza dubbio da Arthur Rimbaud, è sottolineata dall’incipit del romanzo: «Uno dei miei primi vanti era stato il mio nome», Morante, L’isola di Arturo cit., p. 7. Numerosi sono i commentatori che riconoscono e analizzano tale modello per il romanzo. Riporto ad esempio le considerazioni di Marco Bardini: «In definitiva, non è arduo riconoscere che nella globale organizzazione del libro la figura intera di Arthur Rimbaud poeta va perfettamente a sovrapporsi ad Arturo Gerace narratore almeno quanto Arthur Rimbaud personaggio mitico si sovrappone ad Arturo Gerace attore», M. Bardini, Morante Elsa. Italiana. Di professione, poeta, Pisa, Nistri-Lischi 1999, p. 62, e di Gabriella Contini: «Tutta L’isola di Arturo è puntellata anche all’interno da una serie di istruzioni da un’autrice-organizzatrice del testo che interviene autoritariamente e ironicamente in tutti i suoi spazi di gioco. Con le epigrafi (da Saba, da Penna) Arturo è collegato ai fanciulli eterni, amati dai poeti. Il nome seminascosto di Arthur Rimbaud corrisponde al mito letterario scelto dall’autrice e scaltramente occultato», G. Contini, La scia sfavillante della nave Arturo, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena», XIII 1992, pp. 163-164. 25 E. Morante, Pagine di diario, in «Paragone», XXXIX, 1988, p. 12. VI. Italiane della (e nella) letteratura
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La successione dei numeri romani e la ripresa tematica nonché stilistica forniscono ulteriori e decisivi elementi di conferma: oltre al ricorrere di «Narciso», più volte evocato, persiste la stessa tipologia di metafore e di termini delle prime tre strofe. Se le strofe I, II e III scandivano e descrivevano l’innamoramento di Narciso per il proprio riflesso predicendone l’annegamento, le strofe IV, V ne suggellano le nozze e di fatto la morte, dando un completamento assolutamente necessario alle prime tre. I fogli preparatori di Narciso, antecedenti alla bozza contenuta nel quaderno, esaminata da Garboli per la pubblicazione, confermano la presenza di alcuni versi poi confluiti nelle strofe IV e V, e il progetto di proseguire il componimento oltre le tre strofe. Alla luce di quanto presentato finora, mi sembra evidente che lo studio delle carte autografe sia, specialmente per questa autrice, assolutamente indispensabile per una più completa conoscenza della genesi delle sue opere e del suo metodo di lavoro: è la Morante stessa a fornire a suoi lettori e a suoi studiosi «la possibilità di penetrare nei segreti di uno sconosciuto laboratorio».26
26
C. Garboli, Introduzione cit., p. XI.
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VII. Italiani della letteratura
Italiani della letteratura: Italo Svevo Italiani della letteratura: Carlo Collodi ed Edmondo De Amicis Italiani della letteratura: Alberto Moravia Italiani della letteratura: Ippolito Nievo Italiani della letteratura: Leonardo Sciascia Bandello e l’identità culturale nella Lombardia del Cinquecento Italiani della letteratura: Gabriele D’Annunzio Rassegne di grandi Italiani della letteratura: Federico De Roberto
ITALIANI DELLA LETTERATURA: ITALO SVEVO
LUCA CURTI Lo pseudo-Weininger di Zeno. Per un profilo della narrativa di Italo Svevo
Nella notte del 10 maggio 1891 due persone, oggi e ormai da anni assai famose, passeggiano per le strade di Trieste. Sono persone fittizie, personaggi letterari, si chiamano Zeno Cosini e Guido Speier; la data invece è vera, esiste sui calendari e nella storia ed è stata resa perfettamente identificabile dall’autore del testo di cui si tratta (La Coscienza di Zeno). Anche alcuni elementi dei discorsi che corrono tra loro non sono fantastici ma hanno un riscontro preciso nella realtà esterna al testo letterario. Comincerò il mio intervento da uno di questi elementi. L’umore dei due personaggi non è omogeneo: Guido è trionfante perché ha ottenuto l’amore di Ada mentre Zeno, innamorato di Ada e condannato ad Augusta, vorrebbe ucciderlo. Ad un certo punto, nella loro conversazione affiora un argomento di speciale interesse: Io, poco prima, avevo parlato del lusso delle signorine Malfenti, ed egli ricominciò a parlare di quello per finire col dire di tutte le altre cattive qualità delle donne. La mia stanchezza m’impediva d’interromperlo e mi limitavo a continui segni d’assenso ch’erano già troppo faticosi per me. Altrimenti, certo, avrei protestato. Io sapevo ch’io avevo ogni ragione di dir male delle donne rappresentate per me da Ada, Augusta e dalla mia futura suocera; ma lui non aveva alcuna ragione di prendersela col sesso rappresentato per lui dalla sola Ada che l’amava. Era ben dotto, e ad onta della mia stanchezza stetti a sentirlo con ammirazione. Molto tempo dopo scopersi ch’egli aveva fatte sue le geniali teorie del giovine suicida Weininger. Per allora subivo il peso di un secondo Bach. Mi venne persino il dubbio ch’egli volesse curarmi. Perché altrimenti avrebbe voluto convincermi che la donna non sa essere né geniale né buona? A me parve che la cura non riuscì perché somministrata da Guido. Ma conservai quelle teorie e le perfezionai con la lettura del Weininger. Non guariscono però mai, ma sono una comoda compagnia quando si corre dietro alle donne.
La singolarità del passo è stata, di norma, rilevata nei commenti alla Coscienza.
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L’ultimo in ordine di tempo a mia conoscenza è quello di Fabio Vittorini, nel Meridiano del 2004, che così annota: Altro errore di Zeno (o di Svevo): la passeggiata di Zeno e Guido si svolge la notte del 10 maggio 1891; Otto Weininger, nato a Vienna il 3 maggio 1880, pubblica il volume Geschlecht un Charakter [Sesso e carattere], che contiene le sue teorie, solo nel giugno del 1903. Guido dunque non può conoscere quelle teorie.1
Che in questa faccenda ci sia, da qualche parte, un errore sembra palese anche a me. Che questo errore sia attribuibile a Svevo, che – ripeto – ha reso possibile una collocazione cronologica tanto esatta dell’evento narrato, mi appare francamente anti-economico. Che cosa pensare, dunque? Vi sottopongo una ipotesi, collegata al mio discorso generale ma che dovrebbe valere di per sé (e che dunque può servire a introdurre questo stesso discorso). L’ipotesi è che Guido, quella notte, abbia detto qualcosa di simile a ciò che si legge in questo passo (1) che ora vi cito: Le donne possono avere notevole talento, ma non genio: perché esse restano sempre soggettive
Oppure in questo (2): si potrebbe chiamare il sesso femminile il sesso non estetico. Né per la musica, né per la poesia, né per le arti figurative le donne, in verità, hanno realmente comprensione e sensibilità; ma è una mera scimmiottatura, ai fini della loro civetteria, se esse fingono e pretendono di averle. Questo fa sì che esse non siano capaci di un interesse puramente oggettivo per checchessia […] Perciò già Rousseau ha detto: le donne, in generale, non amano nessuna arte, non ne conoscono alcuna, e non hanno nessun genio
«Molto tempo dopo» Zeno, procuratosi – sulla scorta del suo antico, incancellabile ricordo – un testo “filosofico” divenuto di gran moda, lesse tra le altre questa frase: Il genio ha la coscienza del maggior numero di cose e nel modo più chiaro […] La coscienza del genio è dunque la più distante dallo stato enidiale [tipico della donna]; essa [coscienza] possiede la maggior chiarezza e trasparenza. La genialità si manifesta qui come una specie di mascolinità superiore, e perciò la donna non può essere geniale.2
1
I. Svevo, Romanzi e “continuazioni”, edizione critica con apparato genetico e commento di N. Palmieri e F. Vittorini, saggio introduttivo e cronologia di M. Lavagetto, Milano, Mondadori 2004, p. 1592. 2 O. Weininger, Sesso e carattere. Una ricerca di base, intr. di F. Rella, Milano, Feltrinelli-Bocca 1978, p. 131. VII. Italiani della letteratura
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Leggendo questa pagina di Sesso e carattere Zeno non ebbe alcun dubbio: era l’antico, basso e irriconoscente pensiero di Guido. Tanto più che forse Guido aveva accennato anche a un altro argomento misogino, con frasi che potevano ricordare, per esempio, questa (3): Il difetto fondamentale del carattere femminile andrà trovato nell’ingiustizia. Questo difetto ha la sua origine, in primo luogo, nella mancanza di razionalità e riflessione, esso è inoltre favorito dal fatto che le donne, in quanto sesso più debole, sono costrette dalla natura a far ricorso non già alla forza, ma all’astuzia: da qui deriva la loro istintiva scaltrezza e la loro indistruttibile tendenza alla menzogna.
E Zeno trovava nel suo Weininger questo passo: Un essere che non comprende come A e non-A s’escludano a vicenda, non trova nessun impedimento alla menzogna, anzi per lui non esiste un concetto di menzogna, dato che il suo contrario, la verità, gli rimane completamente ignota come termine di confronto […] ciò mancando, non si potrà parlare di errore o menzogna, ma al massimo di aberrazione o smarrimento; si parlerà di un modo d’essere amorale, non immorale. La donna è dunque amorale.3
Zeno è un chimico, comunque uno scienziato; non risulta che abbia vaste letture filosofiche. L’antico insulto ai suoi sentimenti ritrova la sua forma e rivive, “molti anni dopo”, nelle pagine di Weininger, e non ha dubbi nell’individuazione della fonte. Ma Svevo, e i suoi esegeti, e noi, non possiamo dimenticare che nel 1891 «Guido non può conoscere quelle teorie». Infatti non le conosce, e non è necessario che le conosca – o che le abbia elaborate in proprio (Guido Speier! Mavvia). Non è necessario perché i passi che ho citato per primi non sono di Weininger, ma di Schopenhauer, 4 morto nel 1860, celebre verso la fine del secolo XIX, al centro di un dibattito filosofico e letterario di ampiezza europea giusto attorno alla data della nostra passeggiata notturna, un anno prima che Svevo – nella storia e cronaca “vera” – pubblicasse Una Vita, il suo primo romanzo, «fatto tutto nella luce della filosofia di Schopenhauer». E siamo al punto. Il messaggio che ci arriva “forte e chiaro” dalla lettura dei passi che ho sopra citato è certo molteplice, e cerco di esplicitarlo per quanto mi è possibile. Il primo dato da osservare è che Zeno non conosce Schopenhauer.
3
Ivi, p. 164. Il passo (1) viene da A. Schopenhauer, Supplementi al ‘Mondo come volontà e rappresentazione’ (1844), traduzione di G. De Lorenzo, Roma-Bari, Laterza 1986 (1a ed. 1930), II, p. 405; il passo (2) da Id., Parerga e paralipomena, Milano, Adelphi 1983, par. 369, pp. 839-40; il passo (3) da Ivi, par. 366, pp. 835-836. 4
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Il secondo è strettamente collegato al primo, e riguarda il saggio più influente di tutta la bibliografia critica su Svevo, cioè Svevo e Schmitz di Giacomo Debenedetti.5 Quando Debenedetti scrisse Svevo e Schmitz non conosceva – non poteva materialmente conoscere – il Profilo autobiografico di Svevo6 e questo fatto gli impedì di accorgersi quanto fosse lontano, nella sua lettura complessiva dei tre romanzi sveviani, da una interpretazione corretta dei fatti letterari e filosofici che stava cercando di chiarire. Alludo al completo silenzio sul nome di Schopenhauer che si ritrova in quel saggio, e allo spazio entusiastico che, al contrario, vi si fa a quello di Weininger. Il dato decisivo, naturalmente, è il primo. Il macroscopico fraintendimento del quale è vittima Zeno è una delle prove più chiare di un fatto che si fatica a recepire serenamente nella bibliografia: il fatto, cioè, che Zeno non è Svevo. L’autore, a dire il vero, ha fatto tutto il possibile per mettere in chiaro il dato ma ciò non è stato sufficiente, almeno fino a oggi. È molto probabile che abbia influito fortemente, su questa resistenza, la grande prosa di Debenedetti, sul protagonista dei tre romanzi, che è – secondo lui – sostanzialmente autobiografico. Leggiamo come esempio un passo da Svevo e Schmitz: Anche Svevo dunque, allorché sentì comporsi sotto le spoglie di un eroe di romanzo il lievito torturante della propria vita, e inscriversi nel profilo di quella maschera la zona d’ombra della propria autobiografia – si trovò avere obbedito, lui ebreo d’origine, all’oscura suggestione e agli incessanti richiami delle sue origini.7
(Meno male che Svevo non ha potuto leggerlo!) Da qui, le conseguenti deduzioni critiche sull’ebraismo negato, sull’inettitudine come categoria interpretativa, l’indicazione di Sesso e carattere di Weininger come possibile alternativa non còlta da Svevo. E soprattutto l’assioma che i tre protagonisti sono figure autobiografiche. Basta la lettura del Profilo autobiografico sveviano per essere indirizzati in tutt’altra direzione. Da qui esce, infatti, l’indicazione perentoria della centralità, per Svevo, del pensiero di Schopenhauer. Da qui, anche, l’invito – o almeno l’autorizzazione – a leggere Una Vita come un romanzo sperimentale; e da qui la conferma di una fedeltà a quella filosofia che dura tutta la vita. Più correttamente, a partire da un certo punto fino alla fine della vita di Italo Svevo.
5
G. Debenedetti, Svevo e Schmitz, in Id., Saggi, a cura di F. Contorbia, Milano, Mondadori 1982 (‘Oscar Studio’, 95), pp. 222-255. 6 I. Svevo, Profilo autobiografico, ora in Id., Racconti e scritti autobiografici, a cura di M. Lavagetto con la collaborazione di C. Bertoni, Milano, Mondadori 2004. 7 G. Debenedetti, Svevo e Schmitz cit., pp. 249-50. VII. Italiani della letteratura
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A partire da quale punto? (E questo, più propriamente, è il “profilo” del quale parlo in questo intervento). In un libro che ho pubblicato quasi vent’anni fa8 facevo un’ipotesi: Svevo incontra Schopenhauer non nel suo soggiorno da adolescente in Germania, come alcuni ritengono, ma diverso tempo dopo, quando recensisce uno “strano” romanzo dell’ammirato Zola e non ne intende la sostanza. Il romanzo in questione è La joie de vivre, pubblicato nel «Gil-Blas» tra il novembre del 1883 e il febbraio del 1884, poi in volume nel marzo dell’84; la recensione di Svevo (che si firmava ancora Ettore Samigli) fu pubblicata nell’«Indipendente» dell’8 marzo1884. Svevo riassume il contenuto del romanzo premettendo queste imbarazzate parole: È difficile raccontare il soggetto di questo romanzo. I fatti che Zola presenta non hanno altra importanza che quella derivante loro dall’insieme; da un tutto organico che si distruggerebbe, separando o abbreviando. Rinunciando perciò alla speranza di dare idea del lavoro a chi non lo lesse, mi limito a riportare quella frazione precisamene necessaria onde potervi poi aggiungere ogni ulteriore osservazione.
Segue uno schematico riassunto, che il recensore stesso giudica come incongruo: Che da questo schizzo la gioia di vivere non appaia, mi è altrettanto chiaro quanto a qualunque dei miei lettori: ma è precisamente all’infuori di questi avvenimenti che si sviluppa la gioia e la felicità.
Queste si trovano, secondo Schmitz-Samigli, nell’amore alla vita che forma il carattere di Pauline, che l’aiuta a superare amarezze e sciagure e che salva in lei la speranza e la consolazione. L’ammiratore di Zola sente, tuttavia, che il quadro è insoddisfacente; e la conclusione della recensione consiste in un perplesso confronto tra la teoria naturalistica e lo strano oggetto in questione: Un malizioso invece che volesse cogliere Zola in contraddizione con le sue stesse teorie potrebbe considerare Paulina quale un ideale realizzato ed allora apparirebbe chiaro che, in fondo, lo scopo del romanzo è veramente di tesi e di polemica. Questa gioia di vivere astratta essa stessa vera protagonista del romanzo; questa gioia di vivere che viene generalizzata dimostrandola in una esistenza tanto vuota di soddisfazioni personali quale è quella di Paulina, sembra una logica consigliata al lettore, un insegnamento morale. Polemico è lo scopo del romanzo perché il carattere di Paulina ha delle grandi somiglianze con quello di Zola stesso. Così portano ambidue amore alla scienza naturale ed odio a quanto è astratto. Ambidue odiano la musica. Paulina ama e s’interessa a quanto esiste, al bello e al brutto come Zola. Zola vuole evidentemente dimostrare che la sua arte nacque dall’amore alla vita.
8
L. Curti, Svevo e Schopenhauer. Rilettura di ‘Una vita’, Pisa, ETS 1992.
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E dopo avergli rimproverato che lui, il naturalista, si sia messo ad insegnare e dimostrare, in omaggio alla verità bisogna aggiungere che, se probabilmente l’insegnamento rimarrà inutile, la dimostrazione è riuscita.
Così Ettore Samigli; che poi, rientrato nei panni di Ettore Schmitz (in via di trasformarsi in Italo Svevo) si sarà presto accorto che il nucleo della questione era tutt’altro. Era infatti costituito dalla contrapposizione tra Lazare Chanteau e la cugina Pauline («Paulina») sulla falsariga di due opposte scelte metafisiche ed etiche: sedicente schopenhaueriana quella di Lazare, effettivamente (benché solo implicitamente) schopenhaueriana quella di Pauline. Il romanzo provocò o rinfocolò accese e limpide polemiche, nelle quali entrarono, come critici e come autori di testi letterari ad hoc, personaggi della statura di Paul Bourget, Max Nordau, JorisKarl Huysmans, i fratelli Goncourt, Edouard Rod. La sostanza del romanzo si collocava insomma nel fuoco del dibattito filosofico – e quasi immediatamente anche politico – del momento.9 Svevo non l’aveva neppure sospettato e non riesco a trovare, per questo fatto, altra spiegazione che non sia l’ignoranza sostanziale di Ettore Schmitz, all’epoca dei fatti, riguardo alla materia del contendere, ossia alla filosofia schopenhaueriana. Non posso, nei tempi che qui mi sono assegnati, dimostrare nulla; sarò dunque sintetico e apodittico, rinviando però ad una bibliografia dove queste opinioni sono argomentate al meglio delle mie capacità. Prima del mio libro si era occupato con determinazione dell’ispirazione schopenhaueriana di Svevo Gennaro Savarese, in un saggio del 1971 intitolato Scoperta di Schopenhauer e crisi del naturalismo nel primo Svevo. La centralità della filosofia di Schopenhauer. era qui riconosciuta e dimostrata con larghezza, come base per l’analisi del racconto L’assassinio di via Belpoggio, del 1890. Il punto focale del saggio era chiaramente enunciato nel titolo: importava dimostrare che Svevo, fin dagli esordi, non era naturalista e forse non lo era mai stato; e che in particolare tra il naturalismo e la filosofia di Schopenhauer c’era incompatibilità. La mia lettura di Una Vita parte dall’opinione opposta: è un romanzo sperimentale, che consiste in un’autobiografia sperimentalmente deformata. Svevo
9
Quell’anno 1884, infatti, resta fondamentale nella storia dello schopenhauerismo letterario per un altro evento ancora, di rilievo certo maggiore della Joie de vivre sul piano della fortuna e della discendenza: vale a dire la pubblicazione, a Parigi nel maggio, di À rebours dello stesso Huysmans. Sulla filosofia di Schopenhauer questi si era già espresso, in forma narrativa, nel racconto lungo À vau-l’eau (1882); nella stessa linea, ma con più determinazione (e, s’intende, in un contesto assai più ricco) procede in À rebours, dove il protagonista Des Esseintes è un ammiratore dichiarato – benché molto, molto sospetto – di Schopenhauer. VII. Italiani della letteratura
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parla di sé tagliando via, “sperimentalmente”, dalla sua figura la filosofia di Schopenhauer: e ottiene così un personaggio che percorre i luoghi topici di quella filosofia comportandosi sempre in modo diametralmente opposto ai suoi insegnamenti (il trattato di morale a fini utilitaristici, il romanzo scritto con una donna per avere successo, la seduzione rifiutata per desiderio di atarassia stoica, la scoperta sorprendente del proprio desiderio di autoaffermazione, l’accettazione del duello, il suicidio). Dunque, Zola («Zola era il suo Dio e il Roman expérimental il suo credo», ricordava Silvio Benco parlando del giovane Svevo) più Schopenhauer, «il primo che seppe di noi». Nessuno comprese il disegno di quel romanzo, né quando fu pubblicato né quando fu descritto, per la verità molto cripticamente, a cura dello stesso autore nel Profilo autobiografico; e Svevo, sei anni dopo quella impresa sfortunata, pubblica il suo secondo romanzo, Senilità. La pressione teorica è certamente minore, ma il nucleo centrale è costituito da un personaggio (Emilio) perdutamente innamorato di una ragazza bellissima (Angiolina) che non lo corrisponde; Emilio cerca allora di uscire dalla situazione insostenibile attraverso l’educazione di Angiolina. Sotto questo profilo è uno stoico, come Alfonso: è convinto che la virtù sia insegnabile,10 cioè che il carattere sia modificabile. Anche qui, dunque, niente Schopenhauer. Per la disperazione sua e per il godimento dei lettori, avvertiti o no del progetto, il suo piano fallisce. E molti anni più tardi il secondo romanzo sembrerà a Montale – filosoficamente disinteressato, nella fattispecie, e forse anche per questo del tutto ignaro – il più riuscito di Svevo. Senilità aveva comunque, precocemente, trovato uno straordinario ammiratore in James Joyce, come è troppo noto per ricordarlo ancora qui. Seguono gli anni del “silenzio di Svevo”. Poi, molto tempo (e molta storia, personale e generale) dopo, arriva la Coscienza. Sembra straordinario, e forse lo è, ma soprattutto è a questo punto inevitabile osservare che ancora una volta il personaggio centrale non conosce Schopenhauer (lo abbiamo visto all’inizio di questo discorso). E che questa è una sola delle ragioni che dimostrano che Zeno non è Svevo, soprattutto nei tratti più importanti. Ma ci sono altre “ragioni”. C’è la questione della villa: quella che Zeno chiama «la mia villa» e che molti,
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«Ciò che l’uomo vuole realmente e precipuamente, l’oggetto a cui aspira nel segreto del suo essere, il fine correlativo che si propone, non c’è forza esteriore o dottrina capace di modificarli; altrimenti dovremmo essere in condizione di ricreare un uomo ex novo. “Velle non discitur”, dice meravigliosamente Seneca; dando prova, con ciò, di preferire la verità agli Stoici, i quali sostenevano che la virtù si può insegnare: didaktèn einai tèn aretèn», A. Schopenhauer, Il Mondo come volontà e rappresentazione, a cura di G. Riconda, Milano, Mursia 1982, par. 55, p. 336. Italiani della letteratura: Italo Svevo
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compresi i congiunti di Svevo, identificarono a lungo con la villa Veneziani di Servola – dove Svevo abitò dopo il suo matrimonio con Livia – finché Bruno Maier non dimostrò l’inconsistenza di un’opinione simile. C’è il problema della conoscenza della città da parte del personaggio (Alfonso Nitti abita in Corsia Stadion, come la famiglia Schmitz; Zeno precisa, invece, che non è mai stato in quella parte della città). Ci sono date e fatti precisi, messi in risalto da Tullio Kezich in uno studio famoso. E c’è la psicoanalisi – di Zeno e non di Svevo. In un articolo di parecchi anni or sono11 ho sostenuto che Zeno “guarisce” (ossia, smette di considerarsi malato) per contemplazione, cioè per via metafisica, come insegna Schopenhauer. Di nuovo lui, si dirà; e allora che c’entra Freud? C’entra moltissimo. Il dottor S. spiega a Zeno che, se vuole guarire, deve ricostruire la propria vita attraverso la memoria (recuperare i traumi infantili, ricostruire i rapporti affettivi nella loro genesi…). Non immaginava di prescrivere come cura qualcosa che era stato elaborato, molto tempo prima, come analisi metafisica: La memoria, sempre più ricca [mano a mano che il tempo vitale trascorre], delle azioni significative in questo riguardo viene completando sempre più il quadro del nostro carattere, la vera conoscenza di noi stessi. Da questa però sorge la soddisfazione o il malcontento di noi, di ciò che siamo, secondo che abbiano prevalso l’egoismo, la cattiveria o la compassione, secondo cioè la maggiore o minore differenza che abbiamo fatta tra la nostra persona e gli altri. Col medesimo metro giudichiamo anche gli altri, dei quali conosciamo il carattere per la stessa via empirica del nostro, ma in misura meno completa: qui si presenta sotto forma di elogio, approvazione, stima, o biasimo, dispetto e disprezzo; ciò che nel giudicare noi stessi si presentava come soddisfazione o insoddisfazione, la quale può arrivare fino al rimorso.12
Se a questo punto qualcuno sospettasse un tentativo, da parte mia, di sostenere una qualche dipendenza delle teorie di Freud dalla filosofia di Schopenhauer, ebbene questo qualcuno sarebbe nel giusto; e il mio tentativo non ha nulla di audace, come dimostra il passo di Freud che qui di seguito riproduco: Sono certo di avere elaborato autonomamente la teoria della rimozione; non so di alcuna fonte che mi abbia influenzato e avvicinato ad essa, e per lungo tempo ho ritenuto che si trattasse di una concezione originale fino a quando Rank ha segnalato il passo del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer ove il filosofo tenta una spiegazione della follia. Ciò che là è detto circa la riluttanza ad accettare ciò che della
11 L. Curti, Zeno guarisce dell’ottimismo. Schopenhauer e Freud nella ‘Coscienza’, in «Rivista di Letteratura Italiana», XII (1994), pp. 401-427. 12 A. Schopenhauer, Il fondamento della morale, intr. di C. Vasoli, Bari, Laterza 1970, p. 266.
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realtà risulta penoso, coincide così perfettamente con il contenuto del mio concetto di rimozione, che ancora una volta ho potuto ringraziare le lacune della mia cultura che mi avevano permesso di fare una scoperta. Altri, infatti, hanno letto quel brano senza soffermarvisi, senza fare questa scoperta, e forse lo stesso sarebbe capitato a me se negli anni giovanili avessi trovato più gusto nella lettura di autori filosofici. Più tardi mi sono interdetto l’alto godimento delle opere di Nietzsche con il deliberato obiettivo di non essere ostacolato da nessun tipo di rappresentazione anticipatoria nella mia elaborazione delle impressioni psicoanalitiche. In compenso dovevo essere disposto – e lo sono di buon grado – a rinunciare ad ogni pretesa di priorità in quei casi – e non sono rari – in cui la faticosa indagine psicoanalitica non può far altro che confermare le nozioni intuitivamente acquisite dai filosofi.13
Qualunque cosa si pensi di questo passo, è chiaro che è, tra l’altro, molto indicativo per individuare la reazione di Svevo alla psicoanalisi in genere. Non so se Svevo lo abbia letto né se, leggendolo, abbia creduto alla buona fede di Freud oppure no; ma è irrilevante. La cosa certa è che, venendo a conoscenza dell’opera teorica e clinica di Freud, Svevo vi ha riconosciuto un autore (il suo filosofo preferito) che conosceva assai bene e da gran tempo. E Freud, nel terzo romanzo sveviano, è fondamentale per la mediazione che ne fa, involontariamente, lo psicoanalista: che lo colloca in una prospettiva metafisica. Il dottor S. fa compiere a Zeno operazioni – secondo lui suggerite dalla scienza di Freud, di fatto già previste nella filosofia di Schopenhauer – fondamentali per la auto-conoscenza, cioè per la coscienza, del suo paziente : La conoscenza di noi stessi che va sempre più completandosi, il verbale delle azioni che sempre più si riempie, è la coscienza.14
Questo passo è la radice del titolo del romanzo (La Coscienza di Zeno), titolo che a sua volta, alla luce di questo passo, diventa una lineare – benché implicita – descrizione della “misteriosa” trama del testo. E Weininger? Beh, è un po’ come Freud. A un certo punto Svevo si rende conto che stanno godendo di enorme fortuna due teorie che saccheggiano quella che era la sua filosofia d’elezione, mentre invece quest’ultima è totalmente dimenticata. Scrive allora una specie di rivendicazione della grandezza di Schopenhauer. Per fortuna, anziché un trattato, scrive un capolavoro letterario. Se poi vogliamo provare a capire come mai Debenedetti si lascia così facilmente e completamente depistare da Weininger basterà leggere i fondamentali studi di Alberto Cavaglion sulla fortuna di Weininger in Italia.15 Naturalmente, questi studi
13
S. Freud, Per la storia del movimento psicoanalitico, in Id., Opere, vol. 7 (1912-1914), Torino, Boringhieri 1975, pp. 388-389. 14 A. Schopenhauer, Il fondamento… cit., p. 267. Italiani della letteratura: Italo Svevo
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servono anche a comprendere perché la fama o l’eco degli scritti di Otto Weininger siano arrivati fino alla percezione di un chimico col genio degli affari – dunque non una mente speculativa, anche se naturalmente dotatissima – come Zeno Cosini. Conclusione: insomma Svevo non ha inventato niente? Ma che strana idea. Quando Joyce per la prima volta si complimentò con lui non gli disse che era un profondo conoscitore della filosofia di Schopenhauer, gli disse che era un grande scrittore. Che cosa mi sembra di avere fatto, ammesso che la mia analisi sia giusta? Semplicemente di avere riportato a dimensioni ragionevoli le ipotesi che si pongano in contrasto con le dichiarazioni di Svevo circa la sua ispirazione fondamentale. Di avere ricollocato le idee diffuse sull’ebraismo, sul ripudio del naturalismo, sul superamento di Schopenhauer: nient’altro, poco o tanto che sia. Se ciò è vero, si conferma che i tre romanzi hanno un’ispirazione unitaria (e su questo, paradossalmente, Debenedetti aveva ragione); e che anche la psicoanalisi è compresa nel circolo di questa stessa ispirazione. In altri termini: la storia dentro la quale sta la Coscienza non è, primariamente, quella della psicoanalisi e della sua diffusione in Italia ma quella di un dibattito di ampiezza europea sulla filosofia (e la religione) e sulla storia (e sulla guerra e sulla morte). Resta, per i letterati, la parte più specificamente loro: Svevo è stato considerato un grande scrittore anche prima del mio intervento, dunque la ragione sarà diversa e più specifica. E su questo aspetto bisognerà tornare con altra ottica.
15 Per esempio A. Cavaglion, La filosofia del pressappoco. Weininger, sesso, carattere e la cultura del Novecento, Napoli, L’ancora del Mediterraneo 2001.
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ITALIANI DELLA LETTERATURA: CARLO COLLODI ED EDMONDO DE AMICIS
ANNALISA PONTIS Collodi, ‘Pinocchio’ e la lingua nazionale
La lingua italiana e il suo uso hanno subito un profondo e intenso mutamento nel corso di questi centocinquant’anni; basti pensare che in Storia linguistica dell’Italia unita1 Tullio De Mauro sostiene che, negli anni dell’unificazione nazionale, gli italofoni sono appena il 2,5% della popolazione. Dopo solo centocinquant’anni, il 95% della popolazione comprende e usa l’italiano, come afferma Francesco Sabatini2, poiché l’unificazione politica, la semplificazione negli spostamenti degli italiani, i sempre più frequenti scambi commerciali che hanno interessato tutta la Penisola, la graduale diminuzione dell’analfabetismo e, soprattutto, in anni più recenti, i media hanno contribuito alla diffusione di un’unica lingua parlata da Nord a Sud. Il Pinocchio di Collodi – che tra i romanzi per ragazzi è uno dei più letti in Italia – ha partecipato a questa unificazione linguistica, in modo del tutto spontaneo e senza inseguire pretenziosamente la convinzione manzoniana dell’affermazione del modello fiorentino/toscano. Pubblicato nel 1878, ben diciassette anni dopo la nascita del Regno d’Italia e dopo un periodo di forte «toscanizzazione» della lingua parlata dagli italiani, il testo di Collodi piacque subito ai maestri che lo adottarono facendolo leggere e raccomandandolo agli alunni, come modello da imitare per scrivere e parlare bene. Malgrado il suo successo, l’aspetto della lingua non è stato sufficientemente studiato. Solo, nel 1983, Ornella Castellani Pollidori, che ha curato l’edizione critica Le avventure di Pinocchio3 e ha dedicato alla lingua la IV parte del-
1
Cfr. T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari-Roma, Laterza 1991. Cfr. F. Sabatini, Fondamenti linguistici dell’identità italiana, in L’italiano nel mondo moderno, Napoli, Liguori 2011, tomo I, pp. 187-200. 3 Cfr. C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, edizione critica a cura di O. Castellani Pollidori, Pescia, Edizione Nazionale Carlo Collodi 1983, pp. LXV-LXXXIV. 2
Italiani della letteratura: Carlo Collodi ed Edmondo De Amicis
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l’ampia introduzione, coglie l’occasione per fare il punto sugli studi linguistici in merito, sostenendo che ancora non esisteva uno studio esauriente né sulla lingua di Pinocchio né su quella di Collodi. Nonostante il titolo La lingua di Pinocchio4 l’articolo di Dino Provenzal è considerato da Castellani Pollidori scarno e non privo di inesattezze. Di carattere più generico sono, poi, alcune fini osservazioni in chiave stilistica offerte da Fredi Chiappelli in Sullo stile del Lorenzini;5 inoltre, sono presenti occasionali riferimenti alla lingua e allo stile critico anche in Volpicelli6 e Bertacchini. Quest’ultimo, nel Collodi narratore7 del 1961, dedica un capitolo alla lingua e allo stile di Collodi e, in quella occasione, lamenta una situazione di «valutazioni sbrigative e generiche». Un primo studio sulla scrittura giornalistica di Collodi è affidato a Maini e Scapecchi8 che, nel 1981, curano una raccolta di saggi dal titolo Collodi: giornalista e scrittore. Un campionario di idiotismi lessicali e grammaticali di Pinocchio è incluso nel Corso di Storia della lingua italiana9 di Corrado Grassi in cui, nel capitolo dedicato a Toscano e lingua letteraria italiana dopo Manzoni, è presa in esame anche la lingua di Collodi. Successivamente, nel 1994, esce Scrittura al tempo di Collodi10 a cura di Fernando Tempesti, che contiene una serie di contributi di studiosi che approfondiscono alcuni aspetti linguistici. Tra questi, Le Lingue del Collodi di Tempesti, che mette a confronto gli stili di scrittura nell’arco di quarant’anni di carriera, come giornalista, autore di teatro, compilatore e scrittore tout court. Un contributo interessante relativo alle norme e all’uso linguistico di Collodi è rappresentato da La grammatica di Giannettino: tra norme e usi linguistici dell’Italia postunitaria11 di Maria Catricalà. Sulla stessa linea d’indagine si pone lo studio di Angelo Stella Pinocchio al crocevia,12 che si occupa di alcune tendenze linguistiche di Collodi in rapporto alla lingua toscana, che Manzoni aveva verificato a Firenze, prima della stesura finale de I pro-
4
Cfr. D. Provenzal, La lingua di Pinocchio, in «Lingua nostra», vol. XIII, fasc. I, marzo 1952, pp. 25-26. 5 Cfr. F. Chiappelli, Sullo stile del Lorenzini, in «Letteratura», n. 5-6, settembre-dicembre 1953, pp. 110-118. 6 Cfr. L. Volpicelli, Studi su Pinocchio, Cassa di risparmio di Verona Vicenza Belluno 1983. 7 Cfr. R. Bertacchini, Collodi narratore, Pisa, Nistri Lischi 1961, 469-540. 8 Cfr. R. Maini, Collodi: giornalista e scrittore, a cura di P. Scapecchi, Firenze, Studio per edizioni scelte 1981. 9 Cfr. C. Grassi, Corso di Storia della lingua italiana (cap. III Toscano e lingua letteraria dopo Manzoni), Torino, Giappichelli 1966, pp. 105-117. 10 Cfr. Scrittura dell’uso al tempo del Collodi, a cura di F. Tempesti, Fondazione Nazionale Carlo Collodi, Scandicci/Firenze, La Nuova Italia 1994. 11 Cfr. M. Catricalà, La grammatica di Giannettino: tra norme e usi linguistici dell’Italia postunitaria, in ivi, pp. 83-94. 12 Cfr. A. Stella, Pinocchio al crocevia, in ivi, pp. 105-136. VII. Italiani della letteratura
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messi sposi, mentre Bertacchini approfondisce la scrittura giornalistica di Collodi in Guardaroba linguistico di Collodi giornalista.13 A proposito della prosa letteraria, accenna alla viva toscanità di Collodi, nel suo volume di Storia della lingua, anche Luca Serianni.14 Infine, nel 2006, esce il volume più recente: Lessico Collodiano15 curato da Roberto Randaccio. Si tratta di una raccolta di brevi saggi sulle «minuzie linguistiche» di Collodi, a prescindere dal suo capolavoro. Da questi studi, emerge un Collodi acuto osservatore della lingua d’uso, abile nel mettersi sempre in gioco, anche con autoironia, con espressioni di nuovo conio, con i neologismi d’occasione, così come con le parole arcaiche e obsolete, difese strenuamente dai puristi del tempo. Analizzare il suo lessico, scorrendo la sua lunga carriera di giornalista e scrittore, permette di seguire, attraverso i suoi sviluppi, l’evolversi della cultura italiana, ricavandone preziose indicazioni per nuove aperture filologiche e lessicali. Pertanto, il presente studio intende analizzare i fattori principali che hanno contribuito a rendere la lingua e l’opera di Collodi significativa rispetto all’unificazione linguistica italiana. Partendo da questo presupposto, si nota che nella fase che precede la stesura del Pinocchio, Collodi è propenso a una certa riflessione linguistica, probabilmente inconsapevole, perché non dichiarata esplicitamente come modello puristico, ma certamente interessante. Quindi, occorre analizzare, innanzitutto, la sua influenza come giornalista, prima che come scrittore. Infatti, per circa quarant’anni Collodi esercita la professione e scrive sulle colonne di numerose testate: «Il Lampione» (1848/49 – 1860/61), «Lo Scaramuccia» (1850/58), «L’Arte» (1853), «L’Italia musicale» (1854/59), «La Lente» (1856/58), «La Nazione» (1859/60), «Fanfulla» (1871-87), infine, «Il Giornale per i bambini» (1881-85). Durante questo lungo periodo, Collodi matura esperienze e raccoglie fonti linguistiche da utilizzare nelle occasioni di scrittura ma, soprattutto, non abusa dei vocaboli e dei costrutti toscani. A tal proposito, infatti, Bertacchini afferma: Il suo periodare è semplice ed è caratterizzato da linearità comunicativa e decoro dell’esposizione. La sua scrittura nasce dal parlato, mantiene in controluce la dialettalità fiorentina; ma tuttora secondo l’uso colto dei manzoniani, senza cioè eccedenze vernacolari né precipitati folklorici. «Il Lampione» (n. 259, 7 agosto 1860) registra una quarantina di frasi esclamative dialettali, di cui è necessario spiegare il senso. L’intera pagina s’intitola A benefizio dei Forestieri che vengono a Firenze, il «Lampione» pubblica la seguente
13
Cfr. R. Bertacchini, Guardaroba linguistico di Collodi giornalista, in ivi, pp. 53-82. Cfr. L. Serianni, Storia della lingua italiana, Il Secondo Ottocento, Bologna, Il Mulino 1990, pp. 201-206. 15 Cfr. Lessico Collodiano, a cura di R. Randaccio, Olbia, Editrice Taphros 2006. 14
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“chiave” perché possa essere inteso il gergo dei Venditori di Commestibili e altro nelle pubbliche vie […].16
Quindi, Collodi “giornalista-scrittore” non abusa dei vocaboli e dei costrutti toscani ma usa una «norma prudenziale dello scrivere», come la definisce Bertacchini, che lo porta a praticare […] la linearità comunicativa, l’intelligibilità in termini di semplice, vivido decoro dell’esposizione e non come vistosa, caricata ornamentazione […].17
Lo scopo principale è quello di conservare la colloquialità scritta-orale, senza perdere o lasciar perdere il filo del discorso. Inoltre, Collodi, «un po’ filologo» attento alla genesi delle parole, gioca con l’uso di molti termini ed espressioni come penna d’oca, procaccia, carrozza e scherza con la lingua creando neologismi come il verbo piemontizzare protagonista di un divertente dialogo, in un articolo intitolato Il verbo piemontizzare pubblicato su «Il Lampione» l’11 dicembre 1860. Per la riflessione linguistica collodiana, costituiscono un momento chiave la temporanea partecipazione alla giunta incaricata di compilare il vocabolario voluto dal Ministro Broglio e la traduzione18 dei Contes di Perrault. Questi incarichi rappresentano le due esperienze vissute dal Collodi, a ridosso della stesura de Le avventure di Pinocchio, che hanno, certamente, contribuito in qualche misura ad arricchire la sua riflessione critica sulla lingua. Data la grande capacità di intuire i cambiamenti linguistici, di affrontare le trasformazioni culturali e di costume che determinavano i relativi mutamenti lessicali e, grazie anche alla sua esperienza giornalistica, è stato ritenuto uno degli scrittori toscani più competenti dal punto di vista linguistico, tanto che gli fu affidato l’incarico di redigere alcune voci per il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze (Firenze 1870-1897), voluto dal Ministro della Pubblica Istruzione Emilio Broglio e affidato alla supervisione di Giovan Battista Giorgini. Anche se la sua partecipazione ai lavori preparatori al vocabolario è stata episodica e marginale lo ha, comunque, avvicinato alla consapevolezza della propria lingua. Infatti, nell’ultimo bozzetto di Note Gaie, intitolato Una lettera al Fanfulla, Collodi scrive: Io non farò con lei una questione di Crusca: perché di crusca non me ne intendo: preferisco il fior di farina. Io sono uno che scrivo alla buona come parlo: vero è che, essendo toscano, sono condannato pur troppo a parlare come parlano i Toscani. Del resto il nascer toscano è una disgrazia che può accadere a tutti.
16
R. Bertacchini, Guardaroba linguistico di Collodi giornalista cit., p. 75. Ivi, p. 76. 18 La traduzione viene commissionata al Collodi da Felice e Alessandro Paggi ed è uscita nel 1876 con il titolo I racconti delle fate. 17
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A tale proposito, Bertacchini attribuisce l’inconscia sicurezza dello stile e la scioltezza linguistica proprio alla sua nascita toscana. Infatti, Collodi ha il privilegio di non avere i limiti linguistici che invece affliggono gli scrittori nati in altre regioni, come il noto caso di Manzoni, costretto a «risciacquare i panni in Arno» prima dell’ultima stesura de I Promessi Sposi. In quanto toscano, quindi, non è costretto né alla traduzione né alle faticose e ingrate difficoltà legate al rapporto lingua/dialetto, come nel caso di Verga che, per riprodurre l’andamento sintattico dialettale e il linguaggio dei pescatori e dei contadini, è costretto a chiedere aiuto all’amico Capuana.19 Altro momento particolarmente importante per Collodi è stato l’incontro con il mondo favolistico di Perrault. La traduzione de I racconti delle fate,20 infatti, oltre ad aver contribuito sul piano dei contenuti ad alimentare il “fantastico” di certi particolari di Pinocchio, ha costituito anche l’occasione di affinamento e collaudo dei mezzi espressivi di Collodi. Il momento della traduzione, infatti, mette di fronte a scelte non solo di resa del contenuto ma anche di tipo stilistico e linguistico, com’è noto e come è stato dimostrato da illustri studiosi come Benjamin, Steiner21 e Meshonnic22 sulla difficoltà della traduzione letteraria. Il traduttore, infatti, nel riprodurre il gesto dello scrittore, è costretto a riflettere sulle ragioni di ogni decisione e di ogni rifiuto linguistico che sorreggono l’equilibrio del testo, per decidere e rifiutare a sua volta.23 Quasi contemporaneamente alla stesura del Pinocchio, Collodi lavora anche a testi didattici per bambini. Le sue opere scolastiche sono Minuzzolo del 1877, La geografia di Giannettino del 1879, La grammatica di Giannettino del 1883 e L’abaco di Giannettino del 1884. Particolarmente interessante, dal punto di vista linguistico, è La grammatica di Giannettino pubblicata lo stesso anno di Pinocchio. Questa “coincidenza” suggerisce un confronto linguistico tra i due testi e, soprattutto, una rifles-
19
Cfr. G. Verga, Lettere a Luigi Capuana, a cura di G. Raya, Firenze, Felice Le Monnier
1975. 20
Cfr. C. Perrault, I racconti delle fate, trad. di C. Collodi, Firenze, casa editrice Alessandro e Felice Paggi 1876. Qui sono contenute le traduzioni dei seguenti racconti: Barbablù, Cappuccetto Rosso, Cenerentola, Enrichetto dal ciuffo, Il gatto con gli stivali, Il principe amato, La bella addormentata nel bosco, La bella dai capelli d’oro, La bella e la bestia, La cervia nel bosco, Le fate, L’uccello turchino, Pelle d’asino, Puccettino, La gatta bianca. 21 Cfr. G. Steiner, After Babel, aspects of language and translation, Oxford, Oxford University Press 1992 (19751). 22 Cfr. H. Meschonnic, Proposizioni per una poetica della traduzione, in Teorie contemporanee della traduzione, a cura di S. Nergaard, Milano, Bompiani 1995. 23 Cfr. W. Benjamin, Il compito del traduttore, in La teoria della traduzione nella storia, a cura di S. Nergaard, Milano, Bompiani 1993, p. 232. Italiani della letteratura: Carlo Collodi ed Edmondo De Amicis
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sione sulla sua considerazione di norma e di uso. Collodi nella sua grammatica trascrive la norma tradizionale ma è chiaro che, allo stesso tempo, ne prende le distanze poiché, nella scrittura narrativa, predilige l’uso. Secondo la studiosa Maria Matricalà,24 il caso più significativo è quello di lui lei loro in posizione soggettivale e di gli in luogo del pronome singolare femminile le e del dativale plurale a loro. Boccadoro, protagonista di questa «grammatica dialogica», premette che «parlando familiarmente queste forme vengono adoperate da moltissimi» e che sono importanti per comprendere questo atteggiamento: – Quelli che usano il gli maschile per il femminile inciampano spesso anche in un’altra sgrammaticatura e dicono: lui fece un brindisi […]. – O che forse non dicono bene? – Stando alle regole della grammatica, no: perché secondo le regole grammaticali i pronomi lui lei loro non possono fare da soggetto di una proposizione. (p. 73)
Bisogna considerare che questa norma grammaticale era stata già ben rispettata nei Racconti delle Fate, tanto da creare sequenze iterative come le seguenti: – Ecco – egli disse […]. – Ohè! – egli disse […]. – Che miseria – egli disse. – Avvenente – egli disse […]. Egli aveva […].
Allo stesso tempo, la norma è anche violata nei dialoghi dello stesso racconto La Bella dai capelli d’oro in cui si legge: io anderò a mordergli le gambe: lui si chinerà.
In Pinocchio, i pronomi soggettivali di terza persona egli ed essi, nell’uso prevalentemente scritto, ricorrono solo qualche volta e sempre in brani narrativi («Il burattinaio andò in cucina dov’egli s’era preparato […] un bel montone»; «Il pescatore arrabbiatissimo di vedersi scappare di mano un pesce che egli avrebbe mangiato volentieri, si provò a rincorrere il cane…»; «Egli era tutto agghindato…»), mentre, nelle parti dialogate, la norma grammaticale viene violata. Altri esempi interessanti di “violazione”, legati all’uso parlato della lingua, si trovano anche nella sintassi. Collodi predilige la semplicità e la linearità. A tal proposito, una delle caratteristiche dello stile narrativo del Pinocchio è il costante uso, all’inizio di frase, di congiun-
24 Cfr. M. Catricalà, La grammatica di Giannettino: tra norme e usi linguistici dell’Italia postunitaria, in Scrittura dell’uso al tempo del Collodi cit., pp. 83-94.
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zioni e avverbi che hanno lo scopo di rendere il testo vicino alla forma del racconto orale: E così dicendo, agguantò con tutte e due le mani quel povero pezzo di legno […]. E riscaldandosi sempre più, vennero dalle parole ai fatti […]. Poi si messe in ascolto […]. Poi prese il burattino sotto le braccia […]. Ma quella contentezza durò poco […]. Ma trovò tutto buio e tutto deserto […].25
Oltre alla posizione all’inizio di frase, interessante è anche il fatto che l’uso delle congiunzioni e degli avverbi non si limita alle parti dialogate ma si estende alla narrazione, che diventa per questo più semplice e lineare. Inoltre, Collodi fa uso anche della dislocazione a sinistra, tipica del parlato, come nel dialogo tra Pinocchio e uno sconosciuto «Per quattro soldi l’abbecedario lo prendo io!». Ma lo stile sintattico più interessante è certamente quello dei racconti di Pinocchio: al padre Geppetto, della notte trascorsa da solo (pp. 51-52); alla fata dell’avventura di Mangiafuoco e l’inseguimento degli assassini (p. 118); nel monologo in cui si lamenta dopo il litigio con un compagno di scuola (p. 188) e quello finale di tutte le sue avventure al padre Geppetto (pp. 257-258). A proposito del primo racconto, «Arrivedella…e tanti saluti a casa» e la fame cresceva sempre, motivo per cui quel vecchino col berretto da notte, affacciandosi alla finestra mi disse: «Fatti sotto e para il cappello» e io con quella catinellata d’acqua sul capo, perché il chiedere un po’ di pane, non è vergogna, non è vero? me ne tornai subito a casa, e perché avevo sempre una gran fame, messi i piedi sul caldano per rasciugarmi, e voi siete tornato, e me li sono trovati bruciati, e intanto la fame l’ho sempre e i piedi non li ho più! ih!…ih!…ih!…ih!…26
Tempesti, in una nota al testo, sostiene che si tratta non di un nuovo genere ma di una forma particolare di sintassi riconoscibile, nonostante le sue esagerazioni, perché caratterizzata da allusività, piena di ellissi, di ricuperi e di false partenze come quella parlata. Sarebbe, dunque, assai interessante verificare, anche negli altri testi narrativi collodiani, questo continuo allontanarsi dalla norma auspicata nella Grammatica di Giannettino, per capire quali siano le strutture sintattiche e lessicali adottate e quanto abbia contribuito alla normalizzazione dell’uso del fiorentino/toscano. Da que-
25 Gli esempi fanno riferimento alla seguente edizione: C. Collodi, Pinocchio, a cura di F. Tempesti, Milano, Feltrinelli 1993, e sono leggibili, in ordine, alle pp. 22, 26, 22, 32, 37, 47. 26 Ivi, p. 52.
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ste considerazioni, emerge che Collodi ha precorso i tempi. Quindi, sarebbe auspicabile una rilettura di Pinocchio in chiave di anticipazione e si potrebbe estendere un’analisi di questo tipo agli altri testi di Collodi, in modo da evidenziare nuovi esempi del parlato che anticipino alcuni dei tratti dell’italiano «dell’uso medio» teorizzato da Sabatini.27 Infatti, Pinocchio presenta dei tratti del parlato che oggi sono ancora attuali come la concordanza a senso, la dislocazione a sinistra e il nominativo sospeso. Collodi, quindi, ha tenuto ben presente la grande e profonda differenza diamesica tra scritto e parlato che ha caratterizzato la storia della lingua italiana. Negli studi precedenti non si metteva in rilievo questa dicotomia tra norma e uso. Bertacchini, infatti, più che di uso, parla di riproduzione del «gergo del popolo» e della «parlata della gente fiorentina più povera e sprovveduta» che si evince soprattutto dall’abuso del la, come in «Pinocchio! la finisce male!»,28 dalla frequenza monotona e plateale del gli con aferesi e apocopi popolaresche, come in «noi ti regaleremo una pollastra bell’e pelata».29 Anche nel Pinocchio, dunque, è possibile trovare casi interessanti, soprattutto nelle parti dialogate. Per esempio, secondo Bertacchini, la frequenza monotona e plateale del gli pleonastico è notevolmente ridotta in Pinocchio a pochi esempi nella narrazione, come in questo caso: Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname […].30
L’esempio più interessante, però, è nell’esclamazione in cui il burattino, visibilmente commosso, usa istintivamente la forma dialettale mentre vede il padre Geppetto inghiottito dalle onde ed urla: «Gli è il mi’ babbo!». Tale espressione è definita da Tempesti, in una nota, «uno dei modi più parlati (non solo di cultura parlata, ma proprio, in questo caso, di lingua, di fiorentino parlato) di tutto il romanzo».31 Nel complesso, in Pinocchio, al di là dei fiorentinismi che affollano le pagine del racconto, la base linguistica è costituita da un «bell’italiano vivace ed essenziale» come afferma Castellani Pollidori. Si tratta, quindi, di un italiano-fiorentino che oggi si potrebbe definire «idiomatico», ma che ha avuto la forza di imporsi nell’uso generale attraverso un testo che ha contribuito alla realizzazione della cosiddetta «lingua nazionale». Infatti, grazie ad una capillare penetrazione del testo nelle scuo-
27
Cfr. F. Sabatini, L’«Italiano dell’uso medio»: una realtà tra le varietà linguistiche italiane, in Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, a cura di G. Holtus-E. Radtke, Tübingen, Gunter Narr 1985, pp. 154-184. 28 C. Collodi, Pinocchio cit., p. 184. 29 Ivi, p. 153. 30 Ivi, p. 19. 31 Ivi, p. 161. VII. Italiani della letteratura
Collodi, ‘Pinocchio’ e la lingua nazionale
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le, come libro di lettura, e al favore degli adulti, Pinocchio, insieme a Cuore di Edmondo De Amicis, ha assolto egregiamente quel compito di divulgazione linguistica che Alessandro Manzoni aveva proposto di affidare a numerosi insegnanti toscani da disseminare nelle scuole d’Italia. Sebbene Collodi non sia uno scrittore “manzoniano”, scrive usando una lingua d’uso spontanea e viva, esattamente in linea con quella auspicata da Manzoni. Pinocchio rappresenta, per questo, un esempio pratico della lingua che Manzoni sollecitava agli scrittori toscani chiedendo loro […] il coraggio […] d’esser toscani con la penna in mano […] con la lingua in bocca.32
32
A. Manzoni, Appendice alla Relazione intorno all’unità della lingua, cap. VI.
Italiani della letteratura: Carlo Collodi ed Edmondo De Amicis
MADDALENA RASERA Insegnar per racconti: ritratti di personaggi nell’‘Idioma gentile’
A guardare la bibliografia critica proposta nel Meridiano Mondadori De Amicis Opere scelte curato da Giusi Baldissone e Folco Portinari,1 nonché contributi bibliografici di altri volumi,2 la voce L’idioma gentile occupa ben poco spazio nella produzione vasta e varia di uno scrittore prolifico come il De Amicis. L’idioma gentile pubblicato per la prima volta da Treves nel 1905 e ristampato l’anno successivo, il 1906, con una prefazione dell’autore volta a giustificare alcuni passi dell’opera3 e ad aggiungere alcuni aneddoti divertenti sulla questione della lin-
1
E. De Amicis, Opere scelte, a cura di F. Portinari e G. Baldissone, Milano, Mondadori 1996. 2 Ci riferiamo qui, tra gli altri, ai volumi: E. De Amicis, De Amicis, a cura di A. Baldini, Milano, Garzanti 1945; A. Brambilla, De Amicis: paragrafi eterodossi, prefazione di L. Tamburini, Modena, Mucchi 1992; Edmondo De Amicis, Atti del convegno nazionale di studi, Imperia, 30 aprile-3 maggio 1981, a cura di F. Contorbia, Milano, Garzanti 1985; E. Comoy Fusaro, Forme e figure dell’alterità: studi su De Amicis, Capuana e Camillo Boito, Ravenna, Pozzi 2009; G. Gerini, Edmondo De Amicis scrittore educatore, Firenze, Bemporad 1952; L. Guarnieri, L’opera educativa di Edmondo De Amicis, Milano 1919; D. Mantovani, Gli ultimi anni e gli ultimi lavori di Edmondo De Amicis, Roma 1908; M. Mosso, I tempi del cuore: vita e lettere di Edmondo De Amicis e Emilio Treves, Milano, Mondadori 1925; L. Tamburini, Edmondo De Amicis: metamorfosi di un borghese, Atripalda, Mephite 2008; I. Scaramucci, De Amicis, Brescia, La Scuola 1971. 3 Inizia così la prefazione scritta dall’autore e datata ottobre 1906: «Poco dopo uscito questo libro, andai a Firenze a chiedere consiglio ad alcuni cari amici e maestri per mutare certe voci e locuzioni che, a giudizio loro, avevo erroneamente citate come dell’uso fiorentino. E mi volevo attenere al loro consiglio perchè, pur non avendo nel mio libro professato in modo esplicito la teoria manzoniana, appunto per non toccare (che mi pareva prematuro per lettori giovinetti) quella quistione della lingua che qualcuno mi rimproverò poi d’aver risollevata, credevo non di meno come crederò sempre, che o non s’ha da riconoscere e neppur da Italiani della letteratura: Carlo Collodi ed Edmondo De Amicis
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gua, è stato riproposto recentemente, nel 2006, da Baldini Castoldi Dalai Editore con questa annotazione: «E L’idioma gentile merita, per intelligenza e verve, di entrare a far parte della biblioteca di chi ama e presta attenzione alla lingua e anche agli appassionati di scrittura creativa». Tralasceremo in quest’intervento il primo aspetto, la questione della lingua, sulla quale si dibatté allora (la polemica innescata dal Croce durò parecchio su giornali e riviste) e sulla quale vertono i più recenti studi critici,4 per concentrarci sul secondo aspetto, quello della scrittura e dell’organizzazione di quest’opera che sfugge alle definizioni di genere. Quando pubblica l’Idioma gentile De Amicis è alla fine della sua vita, morirà solo tre anni dopo, e soprattutto è alla fine della sua vita di scrittore. Uno scrittore che si è imposto all’attenzione del pubblico con quello che si potrebbe definire un best seller, Cuore, e che ha attraversato quasi tutti i generi: scrittore di bozzetti, di novelle, di poesie, di reportages, sempre raccogliendo un enorme consenso. Nel 1905 Cuore è infatti alla 318esima edizione, La vita militare alla 54esima, Costantinopoli, il più letto dei suo racconti di viaggio alla 27esima, Sull’oceano e i Ricordi di Londra alla 24esima, le Novelle e Marocco alla 20esima. Guardando alla sua biografia, se è lecito mischiare vita e opere di un autore, ma in questo caso crediamo di sì, il 1898 risulta un anno cruciale: muore la madre, viene eletto deputato, ma rinuncia all’incarico, il figlio Furio si uccide nel parco del Valentino, la storia con la moglie finisce e Edmondo se ne separa. Dopo questi eventi, usciranno, tra gli altri, le Memorie, La carrozza di tutti, Ricordi d’infanzia e di scuola, Un salotto fiorentino del secolo scorso e, appunto, l’Idioma gentile, ultima sua opera organica. Evidente è in questi anni, già nei titoli, il ripiegamento di Edmondo verso una vena più squisitamente intimistica, il ricordo, e, nel caso dell’Idioma, come ha giustamente notato Folco Portinari, «è significativo che un romanziere chiuda la sua carriera ripiegandosi riflessivamente su sé, a parlare degli strumenti e della materia del suo lavoro letterario. Non succede spesso, non succede mai».5 Continuità dunque e riflessione costante su quello che è stato il tema e l’interesse centrale di De Amicis durante tutta la sua vita di scrittore: l’educazione. A chi è rivolto dunque l’Idioma gentile? Domanda retorica forse, a cui si risponde troppo facilmente: a un giovinetto, la dedica esplicita è nel primo capitolo. Il libro si presenta
nominare l’autorità dell’uso, o convien seguire, quanto è possibile, un Uso unico […]. A Firenze mi seguì un caso, potrei dire un’avventura filologica, che voglio raccontare…», E. De Amici, L’idioma gentile, Milano, Baldini Castoldi 2006, pp. 41-58. 4 Rimandiamo, a questo proposito, a E. Tosto, De Amicis e la lingua italiana, Firenze, Olschki Editore 2003. 5 F. Portinari, introduzione a E. De Amicis, Opere scelte cit., p. XIII. VII. Italiani della letteratura
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dunque come «il compimento naturale di un itinerario che ha seguito con grande e costante attenzione le sorti di quel giovinetto e della sua educazione, cioè del suo avviamento alla vita. Adesso siamo al tu per tu, didattico, almeno formalmente, con l’oggetto, protagonista o coprotagonista, di tanta parte della sua produzione letteraria», ancora per citare Portinari.6 Per comporre l’opera De Amicis ha rimescolato e riordinato le carte della sua officina, appunti e abbozzi, risposte di letterati sulla questione della lingua italiana e le offre ora al suo giovinetto, ma non solo. Tu hai già compreso: non scrivo un trattato; non scenderò a disquisizioni grammaticali minute, né saliró a quistioni alte di filologia, ché non sarebbe affar mio, e non gioverebbe al mio scopo: tratteró la materia semplicemente e praticamente, nella forma che mi pare convenga meglio all’etá tua. E scrivo non soltanto per te; ma anche per quella molta gente d’ogni età e condizione, che potrebbe studiar la lingua con piacere e con vantaggio, pure senza il sussidio utilissimo della conoscenza del latino, né d’altra preparazione letteraria». E ancora: «faremo insieme un viaggio d’istruzione, e farò il possibile perchè riesca pure un viaggio di piacere. […] Non sono un maestro: sono una guida. Alla dottrina che mi manca supplirò in qualche modo con la dottrina degli altri. Non imparerai gran cosa da me lungo il viaggio; ma moltissimo poi da te stesso, e con l’aiuto altrui, se io riuscirò, come spero, a trasfondere nell’animo tuo un poco del vivo amore e dell’allegra fede con cui mi metto al lavoro.7
Incipit programmatico, dunque, che ci dice molto sulle intenzioni dello scrittore: il suo lettore ideale, così come lo chiamerà esplicitamente nell’ultimo capitolo, è sì un giovinetto, ma il suo pubblico si allarga anche a tutti coloro che sono interessati alla questione della lingua e che verranno chiamati in causa direttamente nei capitoli successivi: l’uomo d’affari, il signore, la signorina, uomini e donne insomma di ogni età e condizione, ma che, soprattutto, non necessariamente, conoscono il latino, e che saranno accompagnati dallo scrittore-guida. E qui sta il secondo aspetto, lo status dello scrittore, la sua volontà di allontanarsi dalla figura di pedagogo che opere come il Cuore gli hanno cucito addosso e di innalzarsi ad un ruolo più nobile. Lo scrittore diventa guida che accompagna il giovine lungo il cammino, un viaggio, in cui cerca di trasfondere dottrina, vivo amore e allegra fede, quasi come un moderno Virgilio che lascerà, non a caso, il giovine, alla fine del percoso, alle soglie dell’«edifizio della lingua italiana». Virgilio ma anche Dante se, come ci sembra, il sottolineare la volontà di parlare ad un pubblico che non conosce il latino, richiami, in un certo qual senso, il Convivio. Il giovinetto visiterà l’edificio della lin-
6 7
Ibidem. E. De Amicis, L’idioma gentile cit., pp. 65-66.
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gua, moderno paradiso, «con la scorta d’altri, o anche solo, più tardi».8 E davanti a questo «palazzo smisurato, che sorgeva fra rovine colossali di monumenti romani, e nascondeva la sommità tra le nuvole», l’autore vede «l’espressione vaga e prodigiosa d’un volto, sul quale era diffusa la luce d’un sorriso ineffabile, misto d’altezza regale e di dolcezza materna, […] e che spandesse armonie più soavi e solenni».9 Ci sembra insomma che l’autore ammicchi ad una certa atmosfera dantesca, soprattutto nell’insistenza del tema del viaggio-cammino, esplicitato non solo all’inizio e alla fine del libro, con insistenza, ma anche tra i vari capitoli: «sostiamo un poco e voltiamoci indietro»,10 «rimettiamoci in cammino»,11 «in quest’altro tratto che abbiamo percorso»,12 «ancora un’avvertenza prima di metterci in cammino»13 e nell’uso di certe parole: guida, dottrina, fede, amore. Il sommo poeta poteva e doveva essere scelto come autore emblematico riguardo alle questioni della lingua italiana e di conseguenza richiamato anche in un paio di passaggi del libro: a conclusione del dialogo tra il dialetto piemontese e la lingua: «dietro di te vedo Dante»,14 in un capitolo dedicato alla lingua che abbrevia: «Sii breve e arguto. So che a me tu potresti dire: – Da che pulpiti! – e avresti ragione. Ma non badare al mio; bada al pulpito di Dante»15 e in un passo di una descrizione: «era vedova e sola, come la Roma di Dante».16 Ma ancora su un aspetto, e forse il più interessante, ci richiama l’incipit; dice l’autore, infatti, scriverò nella «forma che mi pare convenga meglio alla tua età».17 È quindi opportuno soffermarsi sulla struttura del libro che presenta numerosi elementi di continuità con l’opera deamicisiana. Innanzitutto, è difficile dire quale sia questa «forma» che più conviene. Il libro è composto da tre parti: le prime due si presentano più corpose, rispettivamente venticinque e ventisei capitoli, mentre la terza è minore, quattordici capitoli, per un totale, nell’edizione del 2006, di 441 pagine. Non è un trattato, questo ce lo ribadisce l’autore stesso; non è un saggio, non è nemmeno un romanzo, né un libro di racconti. Se guardiamo ai capitoli che lo compongono troviamo ad ogni pagina soluzioni
8
Ivi, p. 441. Ivi, p. 440. 10 Ivi, p. 173. 11 Ivi, p. 174. 12 Ivi, p. 180. 13 Ivi, p. 192. 14 Ivi, p. 209. 15 Ivi, p. 236. 16 Ivi, p. 117. 17 Ivi, p. 66. 9
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diverse: dialoghi, ritratti, apologhi, aneddoti, lettere, tenuti insieme da un tono esortativo, da una certa retorica in linea con la sua prima produzione e che si esplicita nell’iniziale domanda: «Tu ami la lingua del tuo paese, non è vero? L’amiamo tutti»,18 per proseguire con una lista d’imperativi: fa’ mentalmente questo esercizio, bada, studia. E non manca nemmeno la metaletteratura quando l’autore ammette di aver creato delle situazioni fittizie solo per poter discutere di un problema di lingua: «Ho ricevuto in questi giorni… non è vero; non ho ricevuto niente. Perchè fare una delle solite finzione letterarie, che non ingannano nessuno?».19 Ma c’è una parte del libro sulla quale vorremmo riflettere e sulla quale sembra l’autore attiri la nostra attenzione. Scorrendo l’indice dell’edizione del 1905 alcuni paragrafi sono scritti in maiuscoletto; sono quattordici, dodici dei quali si presentano sotto questa forma: Il signor Coso, La signora Piesospinto, L’amìo Enrìo, Il falso monetario, Il professor Pataracchi, Scrupolino, Il pescatore di perle, Il visconte La Nuance, Il dottor Raganella, Un parlatore ideale e Carlo Imbroglia. Gli altri due, uno poco dopo l’incipit e l’altro a conclusione dell’opera sono: Del parlare e Al mio lettore ideale. Notiamo, tra l’altro, la scelta del numero dodici che non risulterà forse casuale se in qualche modo richiama i «racconti mensili» o, ancora di più, i racconti della Carrozza di tutti, dodici appunto, uno per mese.20 In questa idea della mensilità che ritorna si può leggere infatti una certa ciclicità, una costante organizzativa delle opere deamicisiane, pur contraddistinte dalla frammentarietà.21
18
Ivi, p. 61. Ivi, p. 258. 20 A proposito dei racconti della Carrozza di tutti scrive Tristano Bolelli nella prefazione a E. De Amicis, L’idioma gentile, Firenze, Salani 1987, p. LXXXV: «Infatti anche nella Carrozza egli [De Amicis] sembra esser assorbito dal gusto del croquis piuttosto che dall’intrigo, dal disegno delle figure piuttosto che dal romanzesco». E ancora, p. XLIII: «Ne consegue che De Amicis non scrive mai un romanzo e quasi mai un racconto. In ciò consiste pure la sua originalità, poiché mette in moto, sostitutivamente, una serie progressiva di tentativi, di esperimenti strutturali […]. Dal “micro” al “macro” in una sorta di universo concentrazionario». 21 Cfr. B. Traversetti, Introduzione a De Amicis, Bari, Laterza 1991, p. 103, riguardo alla Carrozza di tutti: «La singolare urgenza deamicisiana di predisporre cornici rigide e totalizzanti alla divagante libertà del bozzetto, è qui soddisfatta anche dalla struttura cronologica del libro che, sul già sperimentato modello del Cuore, e del suo calendario scolastico, è organizzato in dodici capitoli corrispondenti ai mesi dell’anno; così che il ciclo rotondo ed esaustivo induce a una palpabile idea di completezza». I racconti mensili sono poco prima definiti da Traversetti «figure d’apologo» (p. 83). Ancora, sull’idea della mensilità e sulla centralità dei 19
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Scrive infatti Roberto Fedi riguardo a De Amicis novelliere: «una narrativa quindi fatta di frammenti è quella a cui il lettore di De Amicis si deve per forza abituare» e ancora: le Novelle realizzano una non trascurabile impresa nel fare stare insieme e senza scosse l’elemento più propriamente d’invenzione (storie lunghe, talvolta con esito sorprendente) e il piano moralistico; anzi si direbbe che la sezione narrativa venga utilizzata per giustificare l’assunto ideologico, fornendo la prova discutibile delle sue verità.22
Ci sembra che queste annotazioni sulle prime prove di De Amicis novelliere possano tornare utili anche ora che l’autore è diventato un «narratore più consapevole»23 e soprattutto ora che sembra portare a compimento quel processo che è iniziato nei bozzetti della Vita militare, il passaggio dal bozzetto impressionistico ad una struttura organizzata come vero racconto. Elementi narrativi e piano moralistico, un connubio che ci richiama facilmente agli exempla,24 e proprio di exemplum, ancora in senso dantesco, possiamo parlare riguardo a questi dodici racconti-ritratti che compongono quasi una raccolta all’interno del libro, una sezione staccata che corre parallela agli altri capitoli, si potrebbe dire, un iter nell’iter, una microstruttura interna ad una macroscruttura. Exempla il cui intento è insieme quello di «docere et delectare», più volte ribadito da De Amicis: «ebbene, io scrivo con l’unico scopo di farti prendere amore a questo studio»,25 «viaggio di piacere»,26 «t’avesse dato il mio libro anche solo una minima parte del piacere con cui lo scrissi».27 Ma torniamo ai racconti, innanzitutto ai titoli: i personaggi sono chiamati per nome proprio, non senza una certa ironia che scaturisce dall’uso di nomignoli relativi al difetto che questi personaggi portano con loro: è il caso del signor Coso, di Scrupolino, o di Carlo Imbroglia, dove Imbroglia è scritto in maiuscolo quasi ne fosse il cognome. Difetto o vizio perché, chiaramente, i personaggi servono come
dodici mesi, scrive Traversetti: «Anche il Primo maggio, anche se solo provvisorio e abbozzato, si svolge nell’arco di dodici mesi» (p. 114). 22 R. Fedi, Prima indagine su De Amicis novelliere (1867-1880), in Edmondo De Amicis, Atti del convegno nazionale di studi cit., pp. 18 e 29-30. 23 Ivi, p. 29. 24 Scrive ancora Bolelli nella prefazione a De Amicis, L’idioma gentile cit., p. XXIII, parlando della Vita militare: «Intanto in tutti i racconti della Vita militare si avverte un intervento d’esperienze come punto d’avvio narrativo […]. Come d’altronde accade nella letteratura edificante: gli exempla devono essere reali per essere efficaci, quand’anche la loro apparenza sia fantastica». 25 E. De Amicis, L’idioma gentile cit., p. 65. 26 Ivi, p. 66. 27 Ivi, p. 437. VII. Italiani della letteratura
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pretesto all’autore per mettere alla berlina i cattivi usi della lingua e ammonire il suo giovinetto, richiamando a volte, quasi secondo un patto autore-lettore, figure che egli potrebbe aver già conosciuto e ricordare: è il caso del professor Pataracchi che riprende un racconto di Fra scuola e casa, il professor Padalocchi. Ogni ritratto-racconto è quindi organizzato secondo una precisa struttura:28 narrato inizialmente in terza persona, a ricercare l’esemplarità, si apre con la breve descrizione del protagonista, che viene presentato secondo le sue caratteristiche fisiche, ma soprattutto secondo i suoi tratti psicologici, prosegue con il ricordo di un aneddoto o di vicende, riportate spesso, realisticamente, attraverso il dialogo, e si chiude con una morale, un insegnamento che giunge al lettore sotto forma di battuta ironica. Ma chi sono, soprattutto, questi personaggi, persone reali o invenzioni puramente letterarie? L’autore non manca di chiarirlo: «quando lo conobbi non era più giovane»,29 «questo pescatore di perle […] con il quale strinsi relazione in una trattoria»,30 «maestro insigne e caro, che da venticinque anni non vedo più»,31 persone, dunque, che l’autore ha incontrato realmente e che soprattutto ha frequentato assieme ad altri amici, e il riferimento potrebbe essere al periodo vissuto da De Amicis a Firenze nel salotto di Emilia Peruzzi. Così come i racconti mensili di Cuore presentavano un campionario di figure provenienti dalle diverse regioni d’Italia, così succede anche qui, ma con una predilezione per la Toscana e per Firenze, città d’altra parte simbolo per De Amicis della ricerca di una lingua comune. Se infatti i personaggi provengono da altre regioni, la Liguria, per esempio, o stanno per trasferirsi in una imprecisata cittadina del nord Italia, è a Firenze che l’autore li ha incontrati. Come nella migliore tradizione dell’exemplum medievale, «exemplum historia est», l’exemplum prende le mosse da una situazione vera, ma è forse nell’ironia della scelta di questi personaggi esemplari che sta la marca deamicisiana: non personaggi della tradizione riconosciuta che vanno imitati, quanto semmai figure comuni che ci mostrano come il tarlo del cattivo idioma si possa annidare dentro ogni persona. Solo due, infatti, dei dodici capitoli sono dedicati a personaggi positivi, cioè abili e corretti nell’uso della lingua, ma nemmeno in questo caso, l’autore rinuncia all’uso dell’ironia ed ecco che sceglie di mettere in campo se stesso come esempio di cattivo parlatore:
28
Cfr. B. Traversetti, Introduzione a De Amicis cit., p. 128: «Ritratti che interrompono il generale andamento esortativo del libro (rivolto col «tu» al giovane lettore), e sono tracciati in terza persona e al passato remoto, secondo il più classico costume della narrazione». 29 Ivi, p. 88. 30 Ivi, p. 277. 31 Ivi, p. 375. Italiani della letteratura: Carlo Collodi ed Edmondo De Amicis
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Forse gli avrei lasciato un buon ricordo di me, se non avessi più aperto bocca; ma all’ultimo momento guastai la frittata. – Se per combinazione – gli dissi – venisse una volta a Torino, abbia la bontà d’avvertirmene. Mi metterò ai suoi ordini. Sarò felice di rivederla e di servirla. – Grazie, – rispose stringendomi la mano. – Buon viaggio, e a rivederla. E mi lasciò. Ma fatti pochi passi, mi richiamò con un cenno, e mi disse: – Senta. Combinazione, per caso o per casualità, mi perdoni, è orribile. E se ne andò senza dir altro. Furono quelle le ultime parole ch’io intesi dalla sua bocca purissima.32
Trattare la materia semplicemente e praticamente, così come De Amicis voleva fare, significava anche scegliere uno stile che ben si adattasse a questo scopo. Ci sembra che attraverso le figure di questi personaggi, tratteggiate con pennellate veloci e penetranti, attraverso il ritmo, reso vivo e incalzante dall’uso della paratassi e del dialogo, lo scrittore sfrutti con maestria gli strumenti del proprio lavoro. La lingua che vuole trasmettere passa attraverso molteplici piani: la parola usata, la parola che, parodiata, riflette su stessa, e l’insegnamento linguistico che il giovinetto apprende col sorriso ascoltando le vicende di queste figure esemplari.
32
Ivi, pp. 199-200. VII. Italiani della letteratura
ITALIANI DELLA LETTERATURA: ALBERTO MORAVIA
KIANOUSH MEIRLAEN «Era la solita Roma e i soliti romani: come li avevo lasciati, così li ritrovavo»: la presenza di G. G. Belli nei ‘Racconti romani’ di Alberto Moravia
Sul risvolto della sopraccoperta della prima edizione dei Racconti romani di Moravia, uscita nel ’54, si leggono alcune frasi interessanti, scritte dall’autore stesso e non dall’editore Bompiani1: Questi Racconti romani di Alberto Moravia si riallacciano a una tradizione iniziata dal Belli con la sua opera monumentale e poi continuata da altri poeti e narratori romani come Pascarella, Trilussa e altri. Anche in Moravia, come nei suoi predecessori, la materia narrativa è colata dentro una composizione a limiti fissi, di misura sempre eguale, in loro il sonetto, in Moravia la novella breve o elzeviro.2
Anche se Moravia cita una vera folla di «esempi» per la scrittura dei Racconti romani (da Boccaccio sin al neorealismo cinematografico di Rossellini e De Sica), non mi sembra possibile lasciare da parte il riferimento tanto esplicito che fa a Belli, di cui nel 1944 aveva già selezionato, personalmente, 199 sonetti per un’antologia. Un suo saggio illuminante, che fungeva tra l’altro da introduzione a questa raccolta, dimostra infatti chiaramente che Moravia conosceva benissimo l’opera del grande poeta romano, e sapeva perfino paragonare le diverse edizioni dei Sonetti. La critica ha sempre preso in considerazione il rapporto tra l’opera belliana e la produzione moraviana dell’immediato dopoguerra e degli anni Cinquanta. Questa convergenza della critica non è casuale: Moravia stesso ha dichiarato a Enzo Siciliano, ancora negli anni Settanta, che i Racconti romani sarebbero intesi come una
1 S. Casini, Note ai testi, in A. Moravia, Opere/3, Romanzi e racconti 1950-1959, a cura di S. Casini, Milano, Bompiani 2004, 2 tomi, tomo II, p. 2108. 2 Ibidem.
Italiani della letteratura: Alberto Moravia
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Kianoush Meirlaen
vera e propria «trascrizione al presente dell’opera belliana».3 Tuttavia, non esiste uno studio esaustivo, dedicato esclusivamente alla presenza di Belli nei Racconti romani. Le ricerche sul tema sono poche e sempre incluse in una riflessione più generale. La stragrande maggioranza dei critici si è limitata a evidenziare tre o quattro analogie più o meno generali tra Belli e Moravia, e gli studiosi si riferiscono spesso soltanto all’introduzione di Belli alla propria raccolta, non ai Sonetti stessi. Credo invece che l’intenzione moraviana di «trascrivere i Sonetti al presente» risulti un dato di grande rilievo per l’interpretazione dei Racconti romani. Colpiscono le varie analogie tra le due opere, sul piano strutturale (con la nota idea del «monumento» alla plebe romana) ma anche su quello stilistico, linguistico e tematico. Per questo, ho indagato in modo sistematico, nel quadro della mia tesi di laurea,4 sia aspetti tematici che elementi formali dei Racconti romani, paragonandoli ai Sonetti di Belli. Difatti, se l’opera di Belli è effettivamente stato un «punto di riferimento» per Moravia, bisogna essere attenti a ogni parola romanesca «ottocentesca» utilizzata, a ogni personaggio dei Racconti romani che menziona il Papa, e, non meno, all’insieme dei racconti, che trattano sempre il gran tema belliano della plebe di Roma. Tuttavia non è possibile, e nemmeno auspicabile, riassumere qui tutta la mia ricerca sul rapporto tra i Sonetti e i Racconti romani. Mi sembra più interessante approfondire un solo concetto importante che congiunge le due opere: il concetto duplice della serialità. Gli oltre 2200 sonetti belliani e i 130 racconti romani5 e nuovi racconti romani formano un corpus gigantesco nel quale sia la forma del sonetto, sia quella del racconto sono fisse. Perciò, non stupisce che all’interno delle opere di Belli e di Moravia le ripetizioni e le elencazioni siano abbondanti, i temi siano ricorrenti, i personaggi siano spesso stereotipici e interscambiabili. Questa serialità lega Moravia a Belli: «il monumento al popolo romano» belliano è fondamentale per la comprensione dei singoli sonetti presi indipendentemente. Allo stesso modo, l’insieme dei Racconti romani dà valore ai singoli testi narrativi. Valentina Mascaretti spiega infatti al proposito che «per Moravia il volume conta in definitiva assai più del singolo racconto».6 Considero la serialità, in questo contesto, come un concetto duplice: d’un canto
3
E. Siciliano, Alberto Moravia. Vita, parole e idee di un romanziere, Milano, Bompiani 1982, p.
69. 4
K. Meirlaen, «Era la solita Roma e i soliti romani: come li avevo lasciati, così li ritrovavo»: la presenza di G. G. Belli nei Racconti romani di Alberto Moravia, tesi di laurea, Universiteit Gent, Faculteit Letteren en Wijsbegeerte, A.A. 2010-2011. 5 Lascio da parte la decina di racconti romani che non sono inclusi nelle due raccolte. 6 V. Mascaretti, Intorno a Moravia scrittore di racconti, in «Poetiche», 2008, n. 1-2, pp. 357-421, p. 364. VII. Italiani della letteratura
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bisogna naturalmente esaminare la serialità apparente dei Sonetti e dei Racconti romani, causata dall’imposizione della misura fissa e statica e dall’invariabilità della prospettiva narrativa; d’altro canto penso che la serialità all’interno delle opere, la successione di personaggi e di situazioni assimilabili, di alcuni leitmotiv sempre ripetuti, meriti ugualmente attenzione. Sia i Sonetti che le due raccolte di racconti romani formano, infatti, insiemi organizzati e organici. Lauta constata a proposito dei Racconti romani che «tanto l’omogeneità tra il primo e l’ultimo racconto romano, quanto la complessità dell’elaborazione stilistica, sono prova di un progetto lungamente meditato».7 Lo stesso vale, evidentemente, per i Sonetti: l’Introduzione, scritta dal poeta stesso, prova già alla prima riga che le sue poesie in romanesco sono intese come un «monumento»: per di più, anche l’attenzione di Belli per l’ortografia e per la grammatica del romanesco – che lo ha inoltre condotto alla revisione di tutti i suoi sonetti dialettali – dimostra chiaramente che Belli considerava la sua produzione in dialetto come un insieme organizzato. Per di più, non soltanto l’impostazione, ma anche la dimensione dei sonetti belliani è degna della classificazione «monumentale». Ci troviamo di fronte ad un’opera particolare, che consiste di una quantità estremamente rilevante di sonetti, che sono, in sostanza, variazioni su un solo tema, la plebe di Roma. Belli non inserisce canzoni, odi o altre forme di componimenti lirici nel canzoniere, non cambia la prospettiva narrativa, e nemmeno le variazioni di stile sono di rilievo, perché dimostrano, secondo me, il più delle volte soltanto l’interesse del poeta per la riproduzione fedele del romanesco parlato. Credo, infatti, che l’originalità della raccolta, sebbene i singoli sonetti si differenzino molto tra di loro, stia, infatti, nell’assenza di ogni variazione fondamentale. I Sonetti sono, a mio avviso, un’opera monumentale soprattutto a causa della loro staticità. Il mondo descritto nei primi sonetti belliani è identico a quello degli ultimi; i personaggi non mutano e non cambiano di idee, perfino le rime predilette restano le stesse. Comunque, anche la straordinaria quantità di sonetti è di grande rilievo, visto che qualsiasi raccolta riceve il proprio senso dalla somma dell’insieme e dei singoli componimenti, siano essi «seriali» o «originali». Per questo, qualsiasi studio della poesia di Belli deve tener conto del grande numero di sonetti: se restassero dell’intera opera belliana soltanto i 200 sonetti giudicati dalla critica i «più riusciti», non saremmo più di fronte al monumento ideato dal poeta. I racconti romani di Moravia formano un corpus che pare, alla prima occhiata, meno imponente; tuttavia, le apparenze ingannano, e una parte considerevole della produzione moraviana degli anni Cinquanta consiste appunto di racconti di ispira-
7 G. Lauta, La scrittura di Moravia. Lingua e stile dagli ‘Indifferenti’ ai ‘Racconti romani’. Con un glossario romanesco completo, Milano, Franco Angeli 2005, p. 57.
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zione romana. Moravia descrive i popolani romani alla maniera dell’ammirato Belli, e, facendo questo, sembra deciso a costruire il proprio «monumento», un monumento tematicamente e stilisticamente ripetitivo e seriale, ma, sull’esempio del poeta, soprattutto di grandi proporzioni. Si tratta, a mio avviso, di una vera e propria presa di posizione artistica. Moravia vuole dedicare il proprio monumento alla plebe di Roma; non bastando la prima serie di 61 racconti romani, ne ha scritti altri, fino al punto di aver ottenuto una serie sufficiente di componimenti fissi: importa anche il numero di racconti per ottenere la qualificazione di «monumento». Perciò ritengo molto valida l’analisi di Raffaele Manica a proposito della serialità nei Racconti romani; anche lui punta sulla scelta moraviana di scrivere tanti racconti romani, e conclude che si tratta plausibilmente di una decisione ben meditata da parte dello scrittore, perché «anche la replicabilità e la serialità sono fondamenti estetici»8. Manica si riferisce ad «alcune tendenze contemporanee» per spiegare perché i Racconti romani e i Nuovi racconti romani, testi «replicabili» e «seriali» di cui la critica dice spesso che ve ne sono troppi, non vanno sottovalutati. Credo che anche un riferimento al monumento belliano spieghi, almeno parzialmente, perché il novelliere ha scritto racconti replicabili e seriali sulla plebe di Roma, e soprattutto perché ne ha scritti tanti. Tuttavia bisogna anche mettere in rilievo l’importanza della «forma fissa» del sonetto e del racconto breve. Si è spesso scritto, in termini analoghi, sul vincolo della misura fissa dei sonetti belliani e dei racconti moraviani. Cesare Segre sostiene in questo contesto che «la struttura del sonetto costituisce per Belli una misura invalicabile e un imperativo di sintesi»9 e prosegue riassumendo il suo punto di vista a proposito delle particolarità della forma-sonetto, che costituisce secondo lui «una sezione fissa di mondo rappresentato: realtà che confluisce nella poesia e vi si conclude»10. Carlo Muscetta giunge a conclusioni analoghe, legando inoltre il concetto dell’immobilità alla forma del sonetto, che consentirebbe a Belli di descrivere un segmento preciso della statica realtà romana: «un mondo nel quale pareva che non accadesse nulla di nuovo, e tutto sembrava riconfermare l’immobilità consueta»11. Il vincolo della forma del sonetto influenza il contenuto delle singole poesie,
8
R. Manica, Moravia, Torino, Einaudi 2004, p. 92. C. Segre, Il teatro dell’io nei Sonetti del Belli, in G. G. Belli romano, italiano ed europeo, Atti del II convegno internazionale di studi belliani, a cura di R. Merolla, Roma, Bonacci 1986, pp. 329-338, p. 333. 10 Ivi, p. 334. 11 C. Muscetta, Introduzione, in G. G. Belli, I sonetti, ed. integrale con note e indici a cura di M. T. Lanza, intr. di C. Muscetta, Milano, Feltrinelli 1965, 4 voll, vol. 1, p. XXVI. 9
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nelle quali Belli descrive ciò che si può descrivere in quattordici versi, senza tendere alla completezza: la visione d’insieme dei Sonetti consiste nella moltitudine di frammenti poetici. Dalle varie prospettive narrative contenute nei singoli sonetti belliani, che si integrano a vicenda, risulta un’immagine ben più dettagliata della scena romana. Moravia procede in modo molto simile: la forma fissa del racconto breve influenza il contenuto dei singoli racconti, e bisogna leggerli tutti per saggiare le caratteristiche fondamentali della raccolta seriale. Anche in questo contesto è indicativa la sovraccoperta della prima edizione dei Racconti romani, che dimostra il fatto che Moravia stesso considerava la «misura fissa» dei suoi racconti come un legame importante con i suoi predecessori, i poeti dialettali. La critica moraviana considera dunque la costrizione formale dei racconti romani come un dato di grande rilievo, che condiziona l’intreccio e la natura della raccolta. La lunghezza fissa dei Racconti romani sta per esempio all’origine dell’assenza di intrecci intorno a cinque o più personaggi principali. Francesco Bruni sottolinea il fatto che la misura fissa dei racconti romani dà luogo a un intreccio compatto: Costretto ad attenersi a una misura quantitativa prefissata, lo scrittore riuscì ad adeguarsi assai bene al condizionamento esterno, e si mosse con disinvoltura entro la gabbia redazionale, dando prova di saper organizzare un intreccio compatto, con un inizio, un centro e una fine, nel quale colava una ricca materia popolare; sullo sfondo dell’ambientazione cittadina, prendeva rilievo e si animava un’ampia galleria di personaggi.12
Le parole di Bruni ricordano la critica belliana: anche in Belli «si anima un’ampia galleria di personaggi», «cola una ricca materia popolare», e, soprattutto, v’è una sorta di costrizione che potremmo definire come «redazionale». Condivido allora completamente l’opinione di Raffaele Manica, che parla della misura fissa dei sonetti belliani e sostiene che «il vincolo dello spazio di giornale al quale i racconti erano destinati, li ha costretti in una forma poco oscillante in quantità, entro una specie di gabbia metrica che in qualche modo si può collegare alla forma sonetto».13 Difatti, credo che l’invariabilità della lunghezza dei racconti e i loro intrecci compatti, in combinazione con il carattere monumentale delle due raccolte moraviane, possano certamente essere interpretati in chiave belliana. La serialità propria ai Sonetti e ai Racconti romani conduce spesso a una certa ripetitività: non vi sono sempre grandi differenze tematiche tra i numerosi sonetti bel-
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F. Bruni, Variazioni di registro in uno dei ‘Racconti romani’ di Alberto Moravia: La parola mamma, in «Leggiadre donne…» Novella e racconto breve in Italia, a cura di F. Bruni, Venezia, Marsilio 2000, pp. 219-229, p. 219. 13 R. Manica, Moravia cit., p. 89. Italiani della letteratura: Alberto Moravia
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liani dedicati al Papa o all’origine di proverbi e modi di dire, e Gianni Turchetta riesce a ridurre l’intreccio della maggioranza dei racconti romani ad alcuni topoi ben precisi.14 La serialità tematica, in ambedue gli scrittori, dà anche luogo a una specie di serialità stilistica: sia Belli che Moravia riutilizzano incipit, conclusioni, intere frasi, spunti di dialoghi, battute, proverbi, giudizi morali, eccetera, che sono ritrovabili in diversi sonetti o racconti, il più delle volte leggermente modificati, talvolta senza variazione alcuna. Anche i nomi dei protagonisti sono spesso seriali: in Moravia, ritroviamo per esempio il falegname Luigi Proietti; il mediatore Proietti; il macellaio Proietti e la signora Elvira Proietti. In Belli troviamo allocuzioni a un gran numero di personaggi, ma abbondano, per esempio, le menzioni di una popolana chiamata «Nina» o «sora Nina», in almeno trenta sonetti. Per di più, mi pare che nella poesia di Belli ritornino spesso le stesse rime, che alcune sentenze nelle ultime terzine siano pressoché interscambiabili, e che vari lemmi siano soltanto utilizzati in alcuni contesti molto precisi e delineati. Si tratta di un’ipotesi da verificare e da approfondire, e purtroppo non ho potuto svolgere un’analisi dettagliata dell’intero corpus dei Sonetti, ma segnalo comunque, a titolo illustrativo, alcune somiglianze sorprendenti tra qualche occorrenza, nella poesia belliana, della parola «buggera», che ritorna spesso nello stesso contesto: leggiamo nel sonetto La sorella de Matteo «che m’ha messe le buggere m’ha messe»,15 nell’Omaccio de l’Ebbrei «ve vojo dí una buggera, ve vojo»;16 nelle Funzione eccresiastiche «te pare poca buggera, te pare»;17 in Er portone d’un zignore «Vedi mó sì che buggera! ma vedi!».18 L’analisi delle occorrenze di una sola parola dimostra chiaramente che la ripetizione del verbo che precede buggera è un elemento ricorrente nella poesia belliana. Una semplice analisi di dieci o venti lemmi può già illustrare, a mio avviso, la serialità inerente ai Sonetti. Senza entrare nei particolari, penso di poter formulare l’ipotesi di una serialità stilistica doppia: dall’una parte, i sonetti belliani riproducono fedelmente il parlato romanesco ridondante di ripetizioni, come dice il poeta, «senza alterazione veruna».19 Dall’altra parte, la serialità stilistica fa parte della poetica di Belli, la cui poesia abbraccia le ripetizioni e la molteplicità. Le ripetizioni e la molteplicità sono appunto caratteristiche proprie dei Racconti romani. Valentina Mascaretti, però, vede la serialità stilistica nei racconti di Moravia
14
G. Turchetta, Il sound del parlato e l’inettitudine del sotto-proletario: sui ‘Racconti romani’, in «Poetiche», anno 2008, n. 1-2, pp. 95-132, pp. 106-112. 15 G. G. Belli, I Sonetti cit., p. 227. 16 Ivi, p. 1002. 17 Ivi, p. 740. 18 Ivi, p. 695. 19 Id., Introduzione, in Id., I Sonetti cit., p. LXXXVI. VII. Italiani della letteratura
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come un’illusione prospettica.20 Non condivido integralmente questa opinione: è molto difficile sostenere che l’intera processione di «omaccioni alti, grandi e grossi» del primo volume di Racconti romani, o la ripetizione insistente del proverbio «chi non more, si rivede» del secondo, per esempio, siano «illusioni». La serialità stilistica in alcune descrizioni moraviane è veramente innegabile, e si estende anche a dialoghi più lunghi. Mi pare che Moravia, come Belli, riutilizzi alcune espressioni e battute che ritornano sempre in contesti analoghi, sia nel narrato che nel dialogato. Il suo stile si apre quindi alla ripetitività, e si può osservare un certo effetto «seriale». È sicuramente possibile avanzare varie ipotesi interpretative a proposito di questa particolarità stilistica del Moravia «romano»: il suo veloce ritmo di lavoro, la sua discesa verso un registro più «basso» e perciò più mimetico del parlato ripetitivo, la scarsità peculiare di variazione lessicale nelle sue opere, anche nei grandi romanzi. Ma non mi sembra una supposizione infondata che anche l’esempio del Belli «seriale» abbia avuto peso sulla scrittura del Moravia romano. In conclusione: giudico sia i Sonetti, sia i Racconti romani opere fondamentalmente seriali. Si tratta, a mio parere, di due opere di natura sinfonica: la molteplicità dei discorsi dei protagonisti può essere collegata ai vari strumenti dell’orchestra, la serialità stilistica e tematica può invece essere paragonata ad una sequenza musicale, costituita da un tema e un’infinità di variazioni. Perciò, un’analisi dettagliata della presenza belliana nei Racconti romani di Moravia ci porta a una migliore comprensione dell’intertestualità in questi racconti, e penso di poter affermare che il monumento seriale dei sonetti belliani sia stato un riferimento primario, anzi, una fonte d’ispirazione per Moravia.
20
V. Mascaretti, Intorno a Moravia scrittore di racconti cit., p. 382.
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TONI MARINO Grandi scrittori e made in Italy: il contributo della letteratura da Pascoli a Moravia
L’etichetta made in Italy, oltre ad assumere rilevanza legale quale indicazione del luogo di produzione della merce, traduce l’identità italiana dal punto di vista commerciale, soprattutto in una logica di confronto tra culture e contesti geografici. Essa rappresenta l’insieme di creatività e buon gusto che caratterizza la produzione di beni e servizi italiani, e allo stesso tempo rimanda, sotto il profilo socio-culturale, ad un insieme di valori storicamente determinabili che nell’insieme creano, nell’immaginario nazionale e extra-nazionale, una connessione semantica tra estetismo e produzione italiana. Tale connessione è soprattutto il frutto dell’attività comunicativa della pubblicità, che consiste tanto nel definire meglio i contenuti che caratterizzerebbero l’identità italiana, abbinando ai beni valori materiali e immateriali, tanto nel raccordare un senso vago di creatività italiana a piani espressivi dettagliati, che permettano un rimando diretto e più stabile tra significante e significato1 (/made in Italy/ = alta perizia artigianale, capacità creativa, stile elegante, qualità delle materie prime, etc.). Ma se oggi la discorsività pubblicitaria appare matura e autonoma nella capacità di aggregare e veicolare contenuti, in passato ha sentito l’esigenza di ancorare il proprio lavoro ad universi tematici e riserve di senso già pronte, e soprattutto ad una perizia espressiva che non poteva non rimandare al prestigio del mondo lette-
1 Ci si riferisce qui alla fase di accumulazione di tratti semantici intorno ad un nucleo individuato ma instabile. Tale fase serve non solo a fornire un piano espressivo a quelle che Eco chiama nebulose di contenuto, ma a produrre un’azione di rimando dal piano espressivo al contenuto, tale che quest’ultimo resti meglio individuato e catalogato. Sull’argomento si veda U. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani 1975, pp. 251-252. Sullo stessa tema si confronti il modello morfologico di Thom (R. Thom, Morfologia del semiotico, Roma, Meltemi 2006, pp. 149-150) e quello delle tipologie culturali elaborato da Lotman in La semiosfera, Venezia, Marsilio 1985 e La cultura e l’esplosione, Milano, Feltrinelli 1993.
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rario. La letteratura appariva come un riferimento autorevole nel lavoro della scrittura e come straordinaria riserva di storie, di temi, di valori, e i grandi scrittori rappresentavano la capacita della letteratura di creare ex novo un contesto discorsivo per la promozione della merce, oppure di evocarlo attraverso lo sfruttamento testimoniale2 di qualche firma o volto celebre.3 Uno dei primissimi casi in cui la letteratura contribuisce alla creazione dell’identità commerciale italiana è certamente quello del marchio Olio Sasso, che sul finire dell’Ottocento crea la rivista aziendale «La Riviere Ligure», organo di informazione industriale e letteraria4. Essa fonde fin dalle sue origini gli intenti culturali di una rivista letteraria e quelli commerciali di una rivista aziendale, promuovendo una collaborazione serrata tra mondo commerciale e letteratura. Anche se i brani letterari sono collocati in spazi separati e autonomi rispetto ai messaggi pubblicitari, essi non sono mai solo un abbellimento formale della comunicazione commerciale, ma mirano a generare richiami di ordine tematico, come avviene ad esempio per il testo di Pascoli, dedicato all’ulivo:5 A’ piedi del vecchio maniero che ingombrano l’edera e il rovo, dove abita un bruno sparviero non altro, di vivo; che strilla e si leva, ed a spire poi torna, turbato nel covo chi sa? Dall’andare e venire d’un vecchio balivo; a’ piedi dell’odio che alfine
2 Sulla “testimonialità” come categoria del confronto tra pubblicità e letteratura si veda quanto affermato da Abruzzese, che pone l’accento sul ruolo di mediazione del testimonial sottolineando che «il divismo non ha mai tollerato la letteratura se non dopo una immersione totale nell’ignoranza letteraria del pubblico di massa», in A. Abruzzese, Metafore della pubblicità, Genova, Costa & Nolan 1989, p. 60. 3 Si potrebbe considerare la foto dell’autore come punto di vista interno del testo pubblicitario, che assume la funzione di quello che Zaganelli chiama deittico fatico-enunciativo, ovvero di dispositivo semiotico che dialoga direttamente con l’orizzonte di ricezione. Per un approfondimento si veda G. Zaganelli, Introduzione a B. Uspenskij, La pala d’altare di Jan Van Eyck a Gand: la composizione dell’opera. La prospettiva divina e la prospettiva umana, Milano, Lupetti 2001. Verrebbe da chiedersi anche se esiste un limite individuabile che segna l’applicazione delle procedure di trasferimento dal verbale (letterario) al visivo (pubblicitario). Per un approfondimento sul tema rimandiamo a G. Zaganelli, Dal testo all’immagine, Milano, Lupetti 1999, e Id., Itinerari dell’immagine, Milano, Lupetti 2008. 4 Cfr. P. Boero, La riviera Ligure, tra industria e letteratura, Firenze, Vallecchi 1984. 5 G. Pascoli, Inno all’olivo, in «La Riviera ligure», (1899), 30.
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solo è, con le proprie rovine piantiamo l’olivo!
L’intento della rivista, infatti, è quello di ricreare un contesto semantico legato alla natura e al valore aggiunto della produzione naturale, rispettosa della tradizione e dello stile di vita alla quale questa rimanda. La letteraura, dunque, non svolge una semplice funzione di abbellimento formale, ma nel flusso lineare della lettura viene usata per integrare le comunicazioni commerciali con riflessioni poetiche o spunti narrativi, in modo da ricostruire un universo di valori autonomo e coerente, che il lettore può associare direttamente al marchio italiano Sasso. Sempre sul finire dell’Ottocento (1899) abbiamo un altro caso particolare di promozione dei prodotti italiani attraverso l’ausilio della letteratura, ed è quello del marchio chimico-farmaceutico Bertelli, che tra le altre cose commercia prodotti di bellezza femminili. Per supportare la diffusioni di tali consumi vengono creati ad hoc prima un opuscolo illustrato dal titolo Fascino Muliebre, scritto da Matilde Serao, e qualche anno dopo (1905) un racconto che per rafforzare i consumi dei prodotti di bellezza, cerca di trasformarli da oggetto del desiderio femminile in strumento del desiderio maschile, mostrandoli come possibile ausilio nel corteggiamento. L’operazione desta interessa non solo perché esemplifica le relazioni tra discorso letterario e discorso pubblicitario, ma per le particolari modalità in cui si realizza, che come vedremo saranno replicate nel corso degli anni, tanto da identificare una tipicità italiana nell’assegnare un ruolo specifico alla letteratura nella comunicazone commerciale dell’etichetta made in Italy. La scelta del testimonial letterario, in questo caso, cade sul nome di Mario Dadone, scrittore popolare di letteratura per ragazzi, conosciuto soprattutto per le sue collaborazioni al Corriere dei piccoli e al Cuor d’Oro. La ditta Bertelli, però, non si limita, come nel caso della Serao, a commissionare un racconto per fini pubblicitari, ma coinvolge direttamente Dadone nell’operazione pubblicitaria, inserendo il suo contributo nel testo pubblicitario e trasformando lo scrittore in un vero e proprio copywriter pubblicitario. Nel 1903, infatti, un lettore della «Domenica del Corriere» del 5 aprile, può leggere questa inserzione pubblicitaria della ditta Bertelli: Carlo Dadone, il giovane notissimo novelliere, avendo, in questi ultimi mesi, visitato minutamente i celebri laboratori chimico-farmaceutici della Società A. Bertelli e C. di Milano, non poté fare a meno di manifestare la sua schietta ammirazione per i modi rigorosamente scientifici, seguiti nella produzione dei reputati medicinali Bertelli (la maggior parte dei quali iscritti nella Farmacopea Ufficiale, come pillole di Catramina, Pitiecor, Preparati vegetali indiani, Marzialine, Feroliche, Balsamo antireumatico ecc. ecc.) e nella preparazione davvero meravigliosa delle PROFUMERIE IGIENICHE BERTELLI le quali sono andate conquistandosi il primato non solo in Italia, ma anche sul mercato estero. Invitato Dadone a esprimere qualche sua impressione, anche sulla trama di un racconto, il valente scrittore promise e finì infatti per scrivere “Lo scrigno della felicità”, qui sopra pubblicato, dove appunto è dato rilievo alla squisita efficacia e a tutta l’aristocratica signorilità dei molteplici prodotti di Profumeria Igienica Bertelli. Italiani della letteratura: Alberto Moravia
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A tutta pagina, poi, appena sopra l’annuncio pubblicitario, viene presentato il racconto disposto su tre colonne, nel quale Dadone narra di un amore tra un giovane marchese e una non più giovane contessa, alla quale lo stesso regalerà uno scrigno di preziosi doni, che altro non sono che i prodotti della ditta Bertelli, che renderanno la donna più giovane e piacente. Il caso di Dadone risulta importante oltre che per ragioni storiche, rappresentando di fatto uno dei primissimi casi di collaborazione diretta, in Italia, tra letteratura e pubblicità, perché in esso vengo messe in evidenza gran parte della caratteristiche che segneranno la linea evolutiva di questo rapporto. Innanzitutto la relazione tra collaboratore letterario e prodotto: essendo Dadone un autore popolare di letteratura per ragazzi, era di riflesso anche un nome conosciuto tra le figure femminile che svolgevano il ruolo di madre o di curatrice di bambini.6 Poi, i richiami stilistici e retorici tra letteratura e prodotto: in questo caso l’industria cosmetica italiana mima il registro patetico-sentimentale della letteratura, cercando di assorbirne i tratti. Il racconto di Dadone, infatti, predilige un lessico patetico-sentimentale e rimanda alla struttura narrativa tipica del romanzo rosa. A queste strategie fatiche, poi, si possono aggiungere almeno due elementi legati alla struttura testuale che segneranno il futuro delle relazioni tra letteratura e pubblicità: (i) l’indicazione del marchio e dei suoi prodotti come elementi ispiratori della vena narrativa; (ii) la riduzione dei messaggi dichiaratamente pubblicitari, in modo da sfumare la finalità persuasiva del marchio. È da esperimenti pubblicitari come questi, infatti, che nascono quei fenomeni di finanziamento commerciale dei prodotti artistici conosciuti come product e plot placement, oggi attivi soprattutto nel cinema ma presenti con forme proprie anche in letteratura. Essi consistono nell’inserimento di riferimenti commerciali all’interno di un testo narrativo, in modo tale che la fruizione del messaggio pubblicitariò avvenga, appunto perché inserita in un contesto discorsivo non commerciale, senza la consapevolezza dell’induzione al consumo.7 Gli esempi in letteratura non mancano. Pochi anni dopo il caso di Dadone, nel 1913, il Gruppo Fiat inagura la lunga stagione delle “riviste di fabbrica”, ovvero riviste che hanno come fine specifico la
6 Sull’argomento si veda, Lettura al femminile: tra domanda e offerta, a cura di Ufficio Studi Aie, Milano, Aie 2002, e G. Peresson, Leggere al femminile, «Il giornale della libreria», CVIII (1998), pp. 25-28. 7 Si veda G. Cook, The discourse of advertising, London and New York, Routledge 1992, p. 153: «Literature is both true and untrue, relevant and irrelevant… The relationship of addresser to addressee is simultaneously one of extreme distance… yet one of extreme intimacy […]. Advertising shares – or attempts to shares – many of these qualities… factual claims and direct persuasion take up less and less space in contemporary ads».
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costruzione di una identità socio-culturale dell’industria. Nel 1913 nasce «Rivista Fiat», e nel 1932 «Il Bianco e Il Rosso». In questo contesto si inserisce anche il grande progetto di una “letteratura Fiat”, da diffondere appunto attraverso le riviste aziendali. Nascono così 522 racconto di una giornata, di Massimo Bontempelli (1932) e La strada e il volante di Pietro Maria Bardi (1936), due romanzi narrativamente autonomi, in cui però la narrazione ruota, per accordi presi, intorno all’automobile, o meglio intorno a particolari modelli di automobili Fiat. Ecco uno dei documenti che ne testimoniano l’accordo:8 In relazione agli accordi di cui alla mia lettera 11 giugno 1930 = VIII dichiaro di ricevere dalla FIAT una vettura berlina 522 C in cambio della Torpedo 514 che nel giugno 1930 già ritirai. In corrispettivo di queste due vetture resta il mio impegno di pubblicare, presso l’Editore Mondadori, il romanzo di cui alla lettera suddetta ma col titolo 522 e secondo il manoscritto già presentato al Vostro ufficio Stampa e Pubblicità; per qualsiasi ragione non venisse stampato e messo in vendita, varrà l’altro mio impegno di cui alla fine della mia lettera 11-6-1930 = VIII, per l’importo delle due vetture 514 e 522 C meno il ricavato della vendita della prima, che restituisco. Insieme dichiaro che mi sarà gradita l’occasione di poter scrivere sulla Gazzetta del Popolo o su altro giornale di non minor importanza un articolo firmato sulla nuova vetturetta FIAT quando questa sarà presentata al pubblico.
Non semplicemente, dunque, viene chiesto allo scrittore di citare all’interno dei propri materiali dei prodotti industriali (product placement), ma gli viene chiesto di utilizzare la sua competenza per creare uno spessore narrativo intorno ai prodotti, utile a stimolarne il consumo (plot placement). Nel caso specifico l’automobile viene interpretata non più come simbolo della velocità, ma come strumento del divertimento o mezzo utile al trasporto, decostruendo con una narrazione quasi minimalista il mito futurista della tecnologia, e trasformando i prodotti dell’industria meccanica in generi borghesi per il consumo di massa. Sempre nel contesto delle riviste aziendali, si inserisce un caso del tutto simile al precedente, finalizzato però alla promozione delle macchine per scrivere. Per esso la vicinanza tra mondo letterario e prodotto da reclamizzare è tale che la letteratura gioca un doppio ruolo: utilizza le sue competenza per creare racconti promozionali ad hoc, e diventa testimonial di eccezione per la diffusione della nuova abitudine di scrittura: non più con la stilografica ma con i prodotti Olivetti. Si tratta del racconto9 di Giani Stuparich – “la penna tradita” – uscito sulla «Rivista Olivetti» nel 1951 per pubblicizzare la Lettera 22, dove lo stesso autore conclude:
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M. Bontempelli, Lettera alla FIAT del dicembre 1931, in Letteratura e industria, a cura di B. Bàrberi Squarotti, C. Ossola, Torino, 15-19 maggio 1994: atti del XV Congresso A.I.S.L.L.I., Firenze, L. S. Olschki 1997, p. 710. 9 Riportato in P. Sorge, Pubblicità d’autore, Roma, Rai-Eri 2000. Italiani della letteratura: Alberto Moravia
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Un po’ tutte queste ragioni esteriori e un istintivo desiderio interno di provare, mi condussero al tradimento. E la vera “galeotta” fu la “Lettera 22”, agile, leggerissima, coi caratteri corposi ed eleganti. Cominciai col fare il dattilografo di me stesso, cioè col battere a macchina da me stesso i miei scritti a penna, ma un po’ per volta m’accorgo che sul rullo scivolano le cartelle bianche senza contrapposto di cartelle già scritte e le mie mani avanzano sui tasti a cercare direttamente l’espressione, battuta chiara, delle mie immagini e dei miei pensieri.
Il racconto mostra una serie di professionisti della scrittura che scoprono i vantaggi del nuovo ritrovato meccanico. Ed è interessante notare che la diffusione di questa nuova abitudine tende anche a cancellare, progressivamente, il prestigio letterario, presentando figure anonime di scrittori e promuovendo una sorta di contrapposizione tra l’idea alta della letteratura e una più modesta attività di scrittura, accessebile a tutti. Non a caso, in alcune campagne Olivetti i riferimenti e le citazioni letterarie risultano ambiguamente parodiche.10 Si assiste, infatti, già negli anni Cinquanta, ad una presa di distanza dai canoni di lettura imposti dalla critica, che coincide con una maggiore maturità del discorso pubblicitario, dei suoi strumenti e della sua lingua. Cosa che porterà la pubblicità, nel giro di poco tempo, ad una autonomia sia discorsiva che organizzativa: lentamente i pubblicitari di porfessione si sostituiranno ai letterati, che fino agli anni Sessanta detengono le leve della comunicazione pubblicitaria all’interno dei grandi Gruppi industriali. Detto altrimenti, l’assorbimento dei modi della letteratura si conclude con una vera e propria conquista del suo linguaggio, e il riuso parodico ne diviene testimonianza.11 La parodia pubblicitaria della letteratura è il segno di una conoscenza acquisita non solo del mondo letterario quale sistema di autori che producono testi, ma anche dell’universo di lettura che lo sorregge12. La pubblicità,
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Ci riferiamo, ad esempio, al noto manifesto di Wolf Ferrari della M1, in cui alle prese con il nuovo modello di macchina per scrivere è Dante Alighieri. Si tratta certo di una citazione letteraria che nobilita il nuovo ritrovato meccanico, ma anche di una lettura parodica che mira a svecchiare l’idea aulica della letteratura e a comunicare al suo posto un’idea di scrittura a cui tutti possono avvicinarsi. Sulle rielaborazioni parodiche della letteratura in pubblicità si veda F. Ghelli, Letteratura e pubblicità, Roma, Carocci 2005. 11 Il livello parodico sarà eletto come una delle forme tipiche del linguaggio pubblicitario. Sull’argomento si veda J. M. Floch, Sémiotique, marketing et communication, Paris, Puf 1990 (trad. it. Semiotica, marketing e comunicazione, Milano, Franco Angeli 1992). 12 Secondo Bachtin la parodia rappresenterebbe uno dei modi testuali attraverso cui può realizzarsi una struttura dialogica, caratterizzato da assenza di segni espliciti o indicazioni del dialogo (l’altro presente come memoria). Per un approfondimento su questi temi si vedano T. Todorov, Michail Bachtin, il principio dialogico, Torino, Einaudi 1990; Bachtin teorico del dialogo, a cura di F. Corona, Milano, Franco Angeli 1986; Clark K., Holquist M., Michail Bachtin, Bologna, Il Mulino 1991. Si confronti pure la teoria di Bachtin con l’ipotesi del Formalismo VII. Italiani della letteratura
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insomma, e con essa il discorso del made in Italy, a partire dagli anni ’60 matura una nuova consapevolezza di sé, che si traduce in una nuova capacità di giudizio su quello stesso discorso usato, solo pochi anni prima, come modello estetico.13 Nel 1965, addirittura, Mario Soldati non è quasi più uno scrittore, ma è ufficialmente presentato come esperto della genuinità. In una campagna per il Marsala Florio, apparsa sulla «Domenica del Corriere» il 25 aprile, sotto l’immagine dello scrittore che accenna a brindare, la body-copy recita: Mario Soldati è certo uno dei giudici più competenti di cibi e vini genuini. Lui sa che Florio da oltre cento anni fa onore a una grande tradizione. Sa che le preziose uve di Sicilia e un lungo e paziente invecchiamento in fusti di rovere di Slavonia, fanno di Florio il marsala senza confronti. Per questo il marsala che egli beve è Vecchio Florio.
Non c’è dubbio che il lavoro di Soldati nella pubblicità si lega in maniera stretta alla promozione dei prodotti italiani che rientrano nel settore del Food & Wine. Già nel 1956 Mario Soldati è l’ideatore e il conduttore di una trasmissione televisiva, Viaggio lungo la Valle del Po, costruita sulla valorizzazione della produzione enogastronomica italiana, nel 1958 è sua l’ideazione della serie di Carosello “Il giro del Bel Paese”, che promuovere il formaggio della Galbani, e sempre per la serie di Carosello lavora con il marchio Gancia, promuovendo l’Asti spumante direttamente come testimonial, in una serie dal titolo Le ricette del vecchio Piemonte. Ma cosa ha fatto dello scrittore un testimonial di settore? Innanzitutto la relazione col prodotto e le possibili associazioni stilistiche e retoriche: ci sono almeno due elementi nella letteratura di Soldati che lo legano al Food & Wine: (i) il primo è l’universo tematico – l’attenzione costante al cibo e al vino; (ii) il secondo è l’universo dei valori correlato all’universo tematico, quello della civiltà contadina a ridosso della trasformazione consumistica14. Da un lato, dunque, i suoi contributi letterari mirano alla difesa della genuinità come valore morale della produzione economica, dall’altro la linea comunicativa dei marchi ai quali Soldati presta la sua opera insiste sul tradizionalismo come mission aziendale.
Russo di considerare la parodia come fase avanzata di un percorso storico di lettura e produzione dei testi. Sull’argomento si veda V. Erlich, Il formalismo russo, Milano, Bompiani 1966, e a T. Todorov, I Formalisti russi, Torino, Einaudi 1968. 13 Cfr. Cook, che distingue il discorso letterario da quello pubblicitario non su base testuale, ma discorsiva: «an analysis of linguistc deviation and patterning reveals no difference between advertising and literary discourse, an analysis in terms of goals and plans reveals fundamental differences», in G. Cook, Goals and plans in advertising and literary discourse, «Parlance», II (1990), 2, pp. 48-71, citato in C. Forceville, Pictorial Metaphor in Advertising, London & New York, Routledge 1996, p. 67-68. 14 Cfr. S. Novelli, Postfazione a M. Soldati, Da leccarsi i baffi, Roma, DeriveApprodi 2005. Italiani della letteratura: Alberto Moravia
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Ma la cosa più interessante è il gioco di specchi che, grazie alla presenza di questi due elementi, si stabilisce tra il mondo della scrittura e quello del consumo: c’è un Soldati scrittore che dalla letteratura passa alla pubblicità, e c’è un Soldati copywriter che dalla pubblicità ritorna alla scrittura. In una prima fase, lo scrittore appare come il profeta che, complice l’esperienza americana, denuncia lo scenario nuovo di un gusto appiattito sul consumatore medio, parlando nelle pagine di America primo amore (1935) di «occhi privi di pensiero e ricolmi di una gioia invariabile come i volti della réclames delle sigarette Camel», gli stessi, probabilmente, che continuerà ad accusare come colpevoli della degradazione del gusto in L’olio del filologo:15 «Non si può, evidentemente, rimproverare agli industriali di cercare il guadagno. Purché rispettino la legge, facciano pure. Il torto è, invece, del pubblico dei consumatori, che a poco a poco si è lasciato portare a preferire l’olio senza gusto, o con poco gusto, all’olio vero, puro e gustoso». Il critico del consumo senza gusto, allora, è pronto a vestire i panni del testimonial del gusto genuino, dell’ideatore di campagne promozionali a favore di marchi che operano nel solco della tradizione. E la pubblicità accoglie il parere prestigioso di uno scrittore che ha maturato una credibilità di posizione nel proprio pubblico di lettori. All’apice di questo percorso, la firma di Soldati aggiunge alla garanzia di gusto e qualità letteraria, quella di esperto dei prodotti genuini. È anche grazie a questo passaggio che la scrittura di Soldati può tornare nell’ambito letterario carica di una sorta di consacrazione ufficiale a critico del gusto genuino e indagatore instancabile dei luoghi dove questo ancora permane. Così, il lavoro in tre volumi di Vino al Vino, usciti rispettivamente nel 1969, 1971 e 1975, pone il sigillo su una scrittura che sa far propria l’esigenza di confrontarsi col presente, dove il cambiamento è anche quello espressivo di un racconto costruito sulla concretezza dei riferimenti a luoghi e prodotti italiani, alla frammentarietà di un territorio in cui l’identità nazionale si compone attraverso la somma delle molteplici identità locali, per le quali si offre quasi una guida turistico-letteraria. Del resto, l’identità italiana intesa in senso territoriale come scena, luogo dell’azione, paesaggio, è un motivo letterario che ha coinvolto numerosissimi autori. Ed è quasi inevitabile che la pubblicità lo reinterpreti per fini eminentemente commerciali. È così che verso la fine degli anni ’80 ad essere ingaggiato per la redazione di un racconto a tema, è il nome altisonante di Alberto Moravia, invitato dall’Ente del Turismo di una regione montuosa, e dietro compenso, a comporre un racconto che potesse essere utilizzato come forma pubblicitaria per il turismo di montagna. Il lavoro però non viene adoperato, probabilmente perché, secondo i committenti, contiene scene di sesso troppo spinte, ma viene pubblicato nel 1989 col titolo Il vassoio davanti alla porta, per conto dell’Azienda di promozione turistica Dolomiti del Brenta – Altopiano delle Paganelle.
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M. Soldati, Vino al Vino, Milano, Mondadori 1981. VII. Italiani della letteratura
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Il caso di Moravia come pubblicitario mancato, sottolinea il modo in cui storicamente evolve il contributo letterario alla costruzione di una identità nazionale di tipo commerciale, e il ruolo nuovo che gli scrittori assumono nei confronti del discorso pubblicitario. Il lavoro dello scrittore subisce ora una selezione sorvegliata, attraverso la quale la pubblicità rivela consapevolezza di sé ai danni dei discorsi altri cui prima faceva riferimento – come la letteratura – specializzandosi e dotandosi di un proprio statuto. Il confronto con la letteratura avviene attraverso il vaglio di una critica di giudizio sempre più attenta e svincolata dai canoni di lettura, pur restando aperta la possibilità di un sodalizio sia tecnico che tematico. Ma soprattutto è interessante notare è che il contributo letterario viene censurato soprattutto quando non può essere reso esplicito con la forza dell’evidenza, o meglio quando la pubblicità non può enfatizzare la partecipazione letteraria ai propri messaggi vale a dire che spesso, prima ancora che singoli nomi, è la partecipazione letteraria in sé che assume un valore, perché la letteratura stessa viene considerata un corredo dell’identità nazionale che va sotto l’etichetta made in Italy.16 Basterebbe citare tre casi abbastanza recenti riguardanti settori cruciali e caratterizzanti del made in Italy: calcio, lusso, caffè espresso. Si tratta di tre campagne pubblicitarie in cui sono stati commissionati a vari scrittori racconti a tema per promuovere prodotti italiani. Il primo caso, intorno alla metà degli anni ’90, riguarda la linea Impronte del marchio Diadora, che commissiona a cinque scrittori altrettanti racconti ispirati al tema del piede, stampati poi sulla carta velina che avvolge le calzature.17 Il secondo caso, invece, vede il noto marchio di gioielleria Bulgari promuovere la nuova linea “accessori in pelle” attraverso tre firme di grande successo – Dacia Maraini, Aldo
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È importante sottolineare che il richiamo alla letteratura, in pubblicità, avviene attraverso le forme dirette della citazione ma anche attraverso forme di rimando più o meno indirette, come la rappresentazione dell’oggetto libro. Cosa che in qualche modo ricalca alcune forme di contatto tra pittura e letteratura. Si veda ad esempio l’analisi di Roberto Fedi sui dipinti che propongono la rappresentazione dei libri in posizione chiusa o aperta. Quando il contenuto si attesta su una rappresentazione non riconoscibile (libro chiuso o semichiuso) è possibile intendere la rappresentazione dei tratti visivi e verbali che ne testimoniano il contenuto come indici metonimici che producono un rimando interno, ed estendere tale rimando a cifra che regola l’intera lettura della rappresentazione visiva. Per un approfondimento si rimanda a R. Fedi, Si può leggere un libro chiuso?, in Oltre la città del libro, a cura di G. Zaganelli, Milano, Lupetti 2008, pp. 31-47, e Id., Scrivere sui quadri. Scrittura e figura del Rinascimento, in La lotta con Proteo. Metamorfosi del testo e testualità della critica, a cura di L. Ballerini, G. Bardin, M. Ciavolella, Atti del XVI Congresso dell’A.I.S.L.L.I., Los Angeles, UCLA, 6-9 ottobre 1997, Firenze, Cadmo 2000, vol. II, pp. 1283-1321. 17 I cinque racconti della campagna sono Piede sinistro di Fruttero & Lucentini, Piedi Nudi di Corrado Augias, Il cattivo dai piedi buoni di Gene Gnocchi, Piede Pompeiano di Roberto Cotroneo e Ai piedi della Filosofia di Gianni Vattimo. Italiani della letteratura: Alberto Moravia
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Busi, Fruttero & Lucentini – alle quali chiede di scrivere dei racconti ispirati a singoli prodotti della linea, da presentare a tutta pagina accanto alle foto dei prodotti sui maggiori quotidiani italiani, il Sole24Ore, La Repubblica e Corriere della sera, tra novembre 1997 e gennaio 199818. Infine, il terzo caso, riguarda il marchio di caffè espresso Illy, che dal 2005 stampa una collana di racconti a tema per scrittori affermati, ai quali chiede il contributo di un racconto breve, adatto a una “pausa caffè”, da inserire nella collana e da distribuire poi attraverso un canale poco convenzionale come il bar. Nei tre casi citati, non solo i racconti creano uno spessore narrativo intorno al prodotto, un mondo dotato di senso in cui poter proiettare più facilmente i desideri dei consumatori, ma sviluppano e rendono esplicita una relazione tra questo stesso mondo e la matrice letteraria che lo crea. Non solo si producono temi, lessici, stili da associare a determinati settori del made in Italy, ma si propone una associazione costante tra letteratura e calcio, letteratura e lusso, letteratura e caffè espresso, suggerendo tra le righe che l’alta qualità del made in Italy è identificabile con l’alta qualità della sua letteratura. E la collaborazione si risolve in una progettazione testuale quasi mai equivoca, che cerca di non mescolare i rispettivi ruoli, in cui scrittori e pubblicitari possono dialogare mantenendo il proprio punto di vista. Si potrebbe affermare, anzi, che lo spazio di lavoro in comune è il luogo privilegiato della concorrenza tra i sistemi, del confronto tra i linguaggi, della conservazione del sé.
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I racconti vengono presentati uno alla volta con cadenza settimanale su ogni testata, mostrando la firma dell’autore tra parentesi accanto a quella del marchio. Aldo Busi scrive un solo racconto (La borsa), la coppia Fruttero & Lucentini due (Cartella con liquirizia; Indagine con zainetto) e Dacia Maraini altrettanti (Una agenda aperta sul letto; Una notte, un tram, una borsa). VII. Italiani della letteratura
STEFANIA CORI Alberto Moravia e il Sessantotto: l’intellettuale si confronta con gli studenti
Parlando del 1968, a seguito della rivolta del maggio in Francia, Roland Barthes arriva a definire tre aspetti che rispecchiano i tre momenti caratterizzanti la rivolta studentesca non solo francese, ma ovunque essa si sia realizzata: la prima forma dal semiologo definita “selvaggia” rappresentata da «una sorta di esplosione della soggettività selvaggia, del bisogno di immaginazione, del piacere del linguaggio, un disordinato rifiuto delle regole, delle istituzioni, dei codici»1 espressa attraverso la scrittura, che in Francia si realizza tramite le scritte sui muri; alla forma “selvaggia” è seguito o si affianca l’aspetto “missionario” della rivolta, cioè quando gli studenti cominciano una missione politica, esterna all’ambiente studentesco, rivolgendosi, invece, al mondo operaio, al popolo. Infine la contestazione è segnata da una tendenza tecnocratica, contraddistinta dall’utilizzo, da parte degli studenti, di parole d’ordine somiglianti a quelle della tecnocrazia precedente. In realtà, secondo Barthes, questi momenti non sono ben scanditi, ma spesso hanno convissuto intersecandosi; l’ultima tendenza, quella prettamente tecnocratica, risulta essere un argomento di forte critica da parte degli intellettuali e anche, soprattutto, da parte di Alberto Moravia. Nonostante la situazione italiana riporti delle differenze rispetto a quella francese, l’intellettuale romano, pur simpatizzando con gli studenti e per questo confrontandosi in numerosi sedi con loro, viene spesso attaccato dai giovani di essere un servitore della società capitalistica. Moravia condivide le tematiche e gli attacchi degli studenti, ma nota in diverse occasioni che il linguaggio da essi utilizzato è il medesimo espresso dalle autorità accademiche che loro tanto contestano. Addirittura Moravia arriva a definire il loro lessico «un orrendo gergo scientifico-sociologico. Il gergo che liquida la cultu-
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R. Barthes, Sessantotto, in Id., Scritti. Società, testo, comunicazione, Torino, Einaudi 1992, p.
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ra e l’arte, perché impregnato di oblìo e di rozzezza».2 Lo scritto in cui compare questa dichiarazione è il primo che inaugura una serie di saggi moraviani apparsi su «Nuovi Argomenti», la rivista fondata dall’autore de Il conformista insieme ad Alberto Carocci nel 1953, riguardanti la tematica della contestazione studentesca. Per gli studenti si differenzia dagli altri scritti moraviani pubblicati sulla rivista per la sua forma e struttura; i periodi sono brevi, ogni frase è frequentemente separata da un capoverso e Moravia non si dilunga nell’apportare esempi, né confutazioni o prove a sostegno del proprio pensiero. Scrive Raffaele Manica a riguardo: Benché argomentante e di svolgimento consuetamente logico, l’articolo si presenta, graficamente, come una specie di manifesto, con frequentissimi a capo e con il procedimento, però, tipico della pagina moraviana: interrogative che servono a far progredire l’argomentare, come se l’interlocutore fosse ora implicito ora evidente (l’umana comunità).3
Probabilmente, però, il punto di forza di questo scritto risiede proprio nel fatto di essere diretto, di esprimere in tono concitato e coinvolto le opinioni dell’autore in merito alla questione sessantottina. È da aggiungere, inoltre, che Per gli studenti racchiude la sintesi e le riflessioni «a caldo» seguite ai dibattiti diretti tra Moravia e gli studenti, avvenuti prima all’Università di Roma «La Sapienza» e poi alla redazione dell’«Espresso». Parlando della contestazione studentesca Renzo Paris ricorda di quando l’intellettuale romano, nell’inverno 1967/68, decide di affrontare gli studenti direttamente. Paris in questi anni è legato alla rivista «Nuovi Argomenti» come correttore di bozze, ma allo stesso tempo è uno studente della Sapienza. Così Moravia si rivolge a lui chiedendogli di farsi indicare uno dei capi della contestazione. Eppure Paris, pur conoscendo tutte le menti della rivolta, pur avendo partecipato direttamente al fenomeno della lotta studentesca quando era agli inizi, non può indicargliene nessuna. «Che cosa era avvenuto?» si chiede Renzo Paris nel ricordare gli eventi, «Era accaduto che i Piperno e gli Scalzone non mi erano simpatici, perché avevano le stimmate di un giro, quello dei politici, che rifiutavo istintivamente».4 Gli studenti hanno assunto il comportamento della tecnocrazia esposta da Barthes. Per questo Paris sconsiglia vivamente di mandare Moravia “in quella fossa dei leoni” che è la Facoltà di Lettere, anche perché «l’assemblea era così sovranamente anarchica che
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A. Moravia, Per gli studenti, in «Nuovi Argomenti», seconda serie, (aprile-giugno 1968), 10, ora in Id., Impegno controvoglia. Saggi, articoli, interviste: trentacinque anni di scritti politici, Milano, Bompiani 2008, p. 108. 3 R. Manica, Gli anni Settanta attraverso «Nuovi Argomenti», in Id., Exit Novecento. Una raccolta di saggi, Roma, Gaffi 2007, p. 61. 4 R. Paris, Moravia. Una vita controvoglia, Milano, Mondadori 2007, p. 247. VII. Italiani della letteratura
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chiunque avesse voluto imbrigliarla ne sarebbe comunque rimasto sbranato».5 Moravia decide ad ogni modo di partecipare all’assemblea con l’intento di catturare la simpatia degli studenti. Per questo affronta la tematica della Cina, da poco infatti è uscito La rivoluzione culturale in Cina,6 parla di Mao, personaggio tanto amato dagli studenti, ma gli vengono comunque rimproverate una serie di contraddizioni esistenti tra l’ideologia e la vita pratica, come ad esempio il fatto di pubblicare sul «Corriere della Sera». La polemica della nuova generazione di intellettuali contro gli uomini che dominano nel mondo della cultura ufficiale si sposta dall’aula I di Lettere alla redazione dell’«Espresso». Da quest’incontro nasce Processo a Moravia, pubblicato sull’«Espresso» nel febbraio del 1968. Lo scritto Per gli studenti sintetizza e riconferma le tematiche affrontate sia all’università, sia alla redazione. Sicuramente non viene contraddetta la simpatia che Moravia prova per gli studenti e ciò si percepisce proprio dall’ultima parola che pone fine al saggio “autenticità”. La contestazione studentesca è un movimento autentico perché è mosso dall’anima inconsapevole degli studenti, dal fatto, cioè, che gli studenti auspicano una rivoluzione «contro il nichilismo dei sistemi, a favore della liberazione dell’intelligenza»,7 una rivoluzione, quindi, che non abbia conseguenze sistematiche. Ma guardando le rivoluzioni trascorse, come quella francese o quella russa, Moravia si rende conto che in un primo momento è vero che sono a-sistemiche, successivamente, però, da una parte la borghesia, dall’altra la burocrazia, le hanno erette a sistemi. Il carattere inconsapevole esaminato della rivolta studentesca risiede proprio nel voler entrambe le rivoluzioni, sia quella che liberi le menti, sia quella che annienti il nichilismo dei sistemi, senza sapere che non esiste rivoluzione non sistematizzata. Il vero attacco ai giovani Moravia lo lancia contro la loro ignoranza. Secondo l’intellettuale non può esserci un vero accordo tra il Partito Comunista e gli studenti, «perché non sono colti. Mentre i comunisti la cultura ce l’hanno. Gli studenti sono una nuova specie di intellettuali: gli intellettuali ignoranti. E tuttavia intellettuali proprio perché nemici della borghesia. In nome di una cultura. Che ignorano».8 Ecco quindi che gli studenti si trovano a contestare i sistemi, proprio quei sistemi creati da quelle classi portatrici di cultura. All’interno della contestazione studentesca Moravia individua un carattere religioso che nasce da una con traddizione che è insita nella rivolta: il volere, da parte dei giovani, sia del socialismo, sia della libertà. Questi due elementi, secondo Moravia, sono degli opposti e per questo è possibile accostarli solamente facendo ricorso alla religione; infatti «Sono le religioni che fondono i contrari. Sono le religioni che conciliano gli oppo-
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Ivi, p. 246. A. Moravia, La rivoluzione culturale in Cina, Milano, Bompiani 1968. 7 Id., Per gli studenti cit., p. 110. 8 Ivi, p. 106. 6
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sti».9 Ecco quindi che Moravia intravede l’inconsapevolezza degli studenti nella lotta per la libertà, inconsapevoli di aspettare la realizzazione del mondo comunista auspicato da Marx nei suoi libri, ma che nella realtà tarda a realizzarsi. Con gli studenti Moravia condivide la polemica contro la cultura, nello specifico contro la “cultura umanistica” dei comunisti, quella delle “scienze umane” dei neocapitalisti; la cultura si trova a servire il sistema. Così gli studenti, nella critica alla cultura, si differenziano dal popolo, il quale è anticulturale per un complesso di inferiorità e si trovano a ricoprire il ruolo di intellettuali, perché ormai sazi di cultura. Pur condividendo quindi la critica alla cultura, Moravia torna a condannarli proprio nella tematica che più gli sta a cuore: il linguaggio. Figli della borghesia, gli studenti sono brutali e intolleranti e parlano con un linguaggio rozzo che liquida l’arte e la cultura. In realtà non è la prima volta che Moravia accusa gli studenti di utilizzare un linguaggio, oltre che rozzo, anche simile a quello pronunciato dalle autorità accademiche tanto incolpate dai giovani. Durante l’incontro avvenuto nella sede dell’«Espresso», oltre al linguaggio, viene preso in considerazione il ruolo dell’artista e dell’arte. In primo luogo Moravia definisce se stesso utilizzando le seguenti parole: «Io sono quel genere di proletario che si chiama artista. Gli oggetti che fabbrico sono romanzi, novelle, drammi. Cioè creo dal nulla, con le mie mani o meglio con la mia mente, qualche cosa che non c’era prima e la vendo».10 Pur definendosi un intellettuale non iscritto a nessun partito, né un collaboratore di giornali di partito, gli studenti accusano Moravia di pubblicare racconti sul «Corriere della Sera», da loro definito «l’organo dell’oppressione imperialista in Italia».11 Moravia prontamente si difende da quest’accusa, ma le due parti del dibattito, in conclusione, non sembrano arrivare a un punto d’incontro. Infatti Moravia sostiene: Non potrei collaborare a giornali di partito perché non faccio parte di alcun partito cioè ho idee mie che, volta per volta, possono ma anche non possono coincidere con quelle di un partito. Se collaborassi all’«Unità», per esempio, non potrei scrivere tutto quello che mi passa per la testa […]. Pubblico così le mie novelle sul «Corriere della Sera». Ma non troverete nel «Corriere della Sera» una sola mia riga a favore del sistema vigente oggi in Italia.12
Mentre secondo Moravia l’intellettuale è un proletario alla pari di qualsiasi ope-
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Ivi, p. 108. Processo a Moravia, in «L’Espresso», 25 febbraio 1968, ora in A. Moravia, Impegno controvoglia. Saggi, articoli, interviste: trentacinque anni di scritti politici cit., p. 94. 11 Ivi, p. 102. 12 Ivi, p. 94. 10
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raio che lavora nella fabbrica,13 e come un operaio può essere sfruttato e la sua opera consumata, al contrario secondo gli studenti il prodotto dell’intellettuale è un fatto politico e pertanto lo scrittore, nel momento in cui accetta di muoversi all’interno dell’apparato della cultura egemone, accetta un ruolo, quello di intermediario tra la classe del potere e i consumatori. Per questo l’autore deve essere attento alla scelta del canale che utilizza. Leggendo il Processo a Moravia ci si rende conto di come la difficoltà di comunicazione tra le due parti risieda proprio nel significato dato alle parole. Moravia viene accusato di servire il capitalismo con i suoi scritti, di possedere un’ideologia ormai passata, quella dell’intellettuale degli anni Cinquanta. Eppure Moravia è una persona attenta all’attualità, si direbbe «al passo con i tempi», capace di farsi una propria opinione su qualsiasi avvenimento e per questo gli studenti non riescono ad «incasellarlo» in uno schieramento, non riescono a dare un nome al suo pensiero, al suo orientamento.14 E per questo preferiscono accusarlo di servire il sistema piuttosto che cercare di capire il suo punto di vista, tanto che quest’incontro è stato definito da René de Ceccatty un «dialogo tra sordi».15 Eppure Moravia ha risposto alle loro accuse, definendo in primo luogo se stesso e, successivamente, il ruolo dell’intellettuale in genere: «L’artista è l’uomo, il solo uomo che sia tenuto a rimanere simile ai bambini, cioè a non reprimersi e condizionarsi in favore di una società purchessia. La funzione sociale dell’artista,
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Sostiene a tal proposito Alberto Moravia: «loro [gli studenti] non erano proletari affatto. Erano tutti un po’ figli di papà. Non dico che fosse un loro limite, perché ciascuno è quello che è: era una loro caratteristica. Intendiamoci: quei giovani avevano ragione di protestare, magari anche contro di me, ma non in nome del proletariato. A differenza di loro, e forse anche dei loro padri, io ero uno che si era guadagnato la vita. […] mi sono trovato a dover vivere del lavoro delle mie mani, o del mio cervello. Creavo degli oggetti, dei libri, che l’editore metteva a frutto. Che cos’altro è un proletariato?», in A. Moravia, Intervista sullo scrittore scomodo, a cura di N. Ajello, Roma-Bari, Laterza 2008, p. 9. 14 L’intellettuale moraviano interpreta i fatti seguendo le proprie idee personali, senza fare appello a ideologie, né tantomeno a principi di partito; il suo atteggiamento è quello di una persona che si mette in continua discussione, tralasciando l’intento di stupire o di trasgredire tipico di molti personaggi dell’epoca. L’atteggiamento assunto dallo scrittore è: «[…] non conciliante, ma problematico e critico, che mostra le parole dei suoi interlocutori essere un formulario interscambiabile e le riporta a un discorso suo, come sempre devoto all’intelligenza delle cose. […] la contestazione che gli viene rivolta è di tipo ciclico: riguarda ora un ragionamento soprattutto politico, riguarderà qualche anno dopo il rapporto tra letteratura ed editoria («Al grido di – Basta con Moravia – un gruppo di giovani scrittori marcerà da Roma a Milano per protestare contro la politica editoriale delle maggiori case editrici italiane, che non dà sbocco ai nuovi autori puntando esclusivamente su quelli affermati», si leggerà sui giornali nel 1976)», in R. Manica, Moravia, Torino, Einaudi 2004, p. 107. 15 Cfr. R. de Ceccatty, Alberto Moravia, Milano, Bompiani 2010, pp. 673-675. Italiani della letteratura: Alberto Moravia
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insomma, è, in certo modo, di essere antisociale»,16 e successivamente, parlando della sua azione, «Rappresentare, in arte, vuol dire combattere, perché la rappresentazione è demistificazione, accusa e giudizio. All’infuori di questo, resta l’azione politica o armata».17 Durante tutto il Sessantotto Moravia continuerà a confrontarsi con gli studenti e a scrivere saggi e articoli attorno alla tematica della contestazione.18 Tornerà a criticare il loro linguaggio, la loro ignoranza e visione dell’arte, ma allo stesso tempo sottolineerà il carattere autentico della rivolta. Il suo pensiero non farà mai appello a ideologie o concetti precostituiti, la visione moraviana sarà sempre diretta e originale. Lo scopo di Moravia è quello di comunicare, di esprimersi, per ricercare la verità e non avrà mai come intento quello di stupire. In uno studio svolto da Nanni Balestrini e Primo Moroni, venti anni dopo la rivolta studentesca, gli autori elencano le tre principali interpretazioni della genesi del Sessantotto. In primo luogo c’è il pensiero esposto da Sidney Tarrow in Democrazia e disordine19 secondo il quale la protesta italiana è stata un formidabile contributo alla formazione della modernità. A questa visione Balestrini e Moroni contrappongono quella che considera il Sessantotto come l’ultima fiammata di una visione arcaica e utopistica insieme, come ultimo tentativo di contrapporre alla modernità un’antica rappresentazione sociale ideale. Infine i due autori espongono la propria visione del movimento, visto come un rovesciamento speculare del paradigma dominante, come un’espressione radicale e irriducibile della maturità raggiunta dal conflitto capitale-lavoro.20 Al contrario Moravia non arriverà mai a dare una sua teoria sistematizzata della questione sessantottina e né mai la ricercherà, poiché il suo sarà sempre un pensiero aperto, un pensiero su cui più volte l’autore tornerà, mettendolo e mettendosi in discussione. Ad esempio, dieci anni dopo la questione sessantottina, Moravia affronterà nuovamente l’argomento in una lunga intervista rilasciata a Nello Ajello. «Quando
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Processo a Moravia cit., p. 100. Ivi, p. 102. 18 Gli scritti di Alberto Moravia riguardanti la lotta studentesca che seguiranno a Per gli studenti sono: Le ceneri di Pasolini, in «L’Espresso», 23 giugno 1968; Contestazione e rivoluzione, in «Nuovi Argomenti», seconda serie, (luglio-settembre 1968), 11; La contestazione studentesca, in «Nuovi Argomenti», seconda serie, (ottobre-dicembre 1968), 12; Verso l’ora della verità, in «L’Espresso», 29 dicembre 1968. 19 S. Tarrow, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia. 1965-1975, RomaBari, Laterza 1990. 20 Cfr. N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Milano, Feltrinelli 2007, in particolare pp. 1-10. 17
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venne il Sessantotto,» afferma l’intellettuale romano, «mi sentii a mio agio per la prima volta nella mia vita»,21 in primo luogo perché gli studenti parlavano sì di rivoluzione, ma non rifacendosi ai modelli staliniani, in secondo luogo perché Il Sessantotto convogliava nella sua corrente limacciosa molti stimoli e spunti culturali, tante cose affascinanti: la controcultura americana, le filosofie orientali, lo Zen, Nietzsche, il Marx giovane. Di tutti questi motivi la contestazione giovanile era una sintesi vitale, clamorosa, non accademica: comunque queste radici culturali erano, prese una per una, abbastanza serie.22
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A. Moravia, Intervista sullo scrittore scomodo cit., p. 7. Ivi, p. 5. Circa venti anni dopo la contestazione studentesca, Moravia si confronterà con Elkann e, parlando del Sessantotto, considerato un periodo cruciale della storia non solo italiana, ma mondiale, lo scrittore romano si scosterà da coloro che ritenevano la rivoluzione culturale e la contestazione due fenomeni strettamente intrecciati: «[…] in realtà non era così, o meglio ambedue nascevano, senza rapporti diretti l’una con l’altra, da un fenomeno planetario, la crisi della sinistra marxista. In Europa per lo meno la contestazione nasceva a Parigi dal cosiddetto marxismo-leninismo strutturale. A questa corrente si aggiungeva quella tedesco-americana della scuola di Francoforte, di Marcuse, Adorno ecc. devo dire a questo punto che per la prima volta in vita mia mi trovai più o meno completamente d’accordo con un movimento politico e che questo movimento politico aveva ben poco di ideologico, anche se le ideologie vi abbondavano. Era un’ondata in fondo sentimentale che veniva da non si capiva dove e andava non si capiva dove e che si poteva riassumere nel contrario esatto della formula classica marxista: prima la teoria e poi l’azione. La contestazione voleva invece prima l’azione e poi la teoria. Su questo punto erano d’accordo tutti, dai cubani di Castro agli americani di Marcuse, dai francesi di Cohn-Bendit ai tedeschi di Dutschke. A quale azione? Pensandoci su, a distanza di tanti anni, ritengo che l’azione aveva un carattere rivoluzionario appunto perché era azione fine a se stessa la quale in qualunque ordine costituito rappresenta sempre qualche cosa di eversivo. In una situazione di ordine invece tutte le azioni sono pianificate, giustificate e provviste di un fine. Questa, diciamo così, volontà di agire senza teoria della contestazione produceva soprattutto tra gli intellettuali delle strane convulsioni addirittura comiche: si accettava di fare qualche cosa sul piano pubblico unicamente per rifiutarlo e per mostrare che non lo si faceva. Era l’epoca delle denunzie di tutte le servitù, da quelle della ragione a quelle della grammatica; da quelle del benessere a quelle dell’ambizione. Devo dire a questo punto che la contestazione dal punto di vista del sociale e del costume ebbe una grande, innegabile utilità. Soprattutto in Italia, paese per vocazione conservatore e codino. La contestazione cambiò in meglio il rapporto tra genitori e figli, tra insegnanti e studenti, tra superiori di ogni genere e dipendenti di ogni genere; anche le sue ingenuità erano amabili e la sua violenza non oltrepassò mai i limiti esistenziali di quella che vent’anni prima, abbastanza profeticamente, avevo chiamato «disubbidienza» in un mio romanzo. Purtroppo dalla disubbidienza giovanile e amabile della contestazione nacque per filiazione diretta la truce e pedantesca violenza del terrorismo», in A. Moravia, A. Elkann, Vita di Moravia, Milano, Bompiani 2007, pp. 243-244. 22
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Stefania Cori
Eppure, incalza Ajello, gli studenti hanno continuato ad attaccare lo scrittore romano, da loro considerato un borghese. Moravia risponde di essersi spesso immedesimato negli studenti, sostenendo a tal proposito: Mi trovavo a contatto con un movimento di rivolta politica, fatto da giovani che somigliavano al me stesso di trenta o quarant’anni prima. Ma, soprattutto, la loro rivolta era libera da ipoteche staliniane, esente da questa malattia di cui avevano sofferto le sinistre di tutto il mondo. Ora si parlava di rivoluzione ma nessuno si rifaceva ai modelli staliniani. Che cosa potevo desiderare di più?23
Si immedesima in loro Moravia, ma mai completamente, perché Quei giovani facevano i rivoluzionari con un senso di colpa – la colpa di essere nati ricchi – e si sfogavano contro di me. Anch’io, per un certo tempo, ho conosciuto la questione del denaro: ma – lo ricordo bene – la mia ossessione era l’opposta della loro. Ero povero e mi sentivo colpevole di invidiare i ricchi, di guardarli con odio.24
Ma Moravia non può che amare quei ragazzi, che pur protestando in nome del proletariato, hanno messo in luce il vero problema della società italiana, una società priva di intelligenza, priva di cultura, perché abituata a imitare modelli egemonici, come quello ad esempio americano. «L’intelligenza individuale si chiama sveltezza, prontezza, vivacità. Ma l’intelligenza di una nazione, di una società, di una classe è la sua cultura. Gli individui italiani sono pronti, svegli; ma la società italiana, in senso culturale no».25 A questo punto, forse, il ritratto più appropriato di Moravia lo dà il suo fedele editore, Valentino Bompiani, in un interessante ritratto dell’artista, intitolato Moravia come aggettivo. È noto che tra lo scrittore romano e l’editore milanese non intercorse mai un rapporto amichevole né confidenziale, ma ad ogni modo, la loro corrispondenza all’apparenza fredda e distante, rivela rispetto reciproco e grande fiducia. Di questo ne è testimonianza il ritratto di Moravia scritto da Bompiani, in cui si afferma: «Moravia vuol dire per prima cosa presente. Come presente? Con l’intelletto. […] Moravia vuol dire partecipare ai fatti politici e letterari, grandi e piccoli, fino alla cronaca minuta […]. Moravia vuol dire archetipo di se stesso.
23
A. Moravia, Intervista sullo scrittore scomodo cit., pp. 7-8. Ivi, p. 10. Trovandosi a discorrere di questi anni insieme a Enzo Siciliano Moravia afferma: «I giovani del Sessantotto, e quelli che sono venuti dopo, pensano che il mondo vada cambiato, cambiato con la violenza, ma non vogliono sapere perché e come cambiarlo. Non vogliono conoscerlo, e dunque non vogliono conoscere se stessi», in E. Siciliano, Alberto Moravia. Vita, parole e idee di un romanziere, Milano, Bompiani 1982, pp. 99-100. 25 A. Moravia, Verso l’ora della verità, in «L’Espresso», 29 dicembre 1968, ora in Id., Impegno controvoglia. Saggi, articoli, interviste: trentacinque anni di scritti politici cit., p. 139. 24
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Moravia vuol dire non coltivare illusioni, ma anche averle perdute tanto tempo fa da non ricordarlo. La sua partecipazione alla realtà si accende sempre più nella mente e sempre meno nei sentimenti».26 Concludendo, sono particolarmente significative le parole usate da Alberto Moravia per rappresentare l’intelligenza individuale, quella studentesca appunto, dandone un’immagine molto suggestiva. L’intellettuale descrive l’emozione provata in Corea davanti al Buddha di Gyeongju. Ha le palpebre abbassate, sotto le quali gli occhi guardano alla verità. La sola verità possibile che è quella della mente. E sulle labbra ha il solo sorriso possibile: il sorriso della mente. Non ho mai versato una sola lagrima di fronte ai crocefissi di Occidente. La sofferenza, il dolore, la morte non mi commuovono. Ma l’intelligenza, sì. Di fronte al budda di Kiongiù mi sono venute le lagrime agli occhi […] perché ho riconosciuto sulle sue labbra il disperato sorriso della mente. Quella mente che è il solo bene che abbiamo. E che non è la ragione bensì l’intelligenza delle cose. Orbene, quella mente è esplosa in questi giorni contro i sistemi, attraverso i moti degli studenti. Per la libertà degli uomini. Contro il nichilismo dei sistemi, a favore della liberazione dell’intelligenza.27
26
V. Bompiani, Moravia come aggettivo, in «La Stampa», 2 luglio 1975, citato da R. de Ceccatty, Alberto Moravia cit., pp. 247-248. 27 A. Moravia, Per gli studenti cit., pp. 109-110. Italiani della letteratura: Alberto Moravia
STEFANO LO VERME L’Italia “conformista” nella narrativa di Alberto Moravia
Il conformista, scritto da Alberto Moravia nella primavera del 1949, immediatamente dopo due romanzi di grande fortuna come La romana e La disubbidienza, ed edito da Bompiani nel 1951, rientra pienamente all’interno di un’ottica di espressione e rappresentazione dell’identità culturale e civile dell’Italia da parte della letteratura. Tale rappresentazione fa riferimento ad un periodo ben preciso della storia del nostro paese, dal momento che in questo romanzo la vena esistenzialista tipica della narrativa moraviana si intreccia con l’impietosa analisi della società e dello spirito italiano all’epoca del fascismo. Da dove nasce, in Moravia, l’esigenza di scrivere un’opera tanto feroce e sgradevole? È lui stesso a spiegarlo, nel 1971, all’interno del suo libro-intervista con Enzo Siciliano: Capii che i valori negativi a livello personale, si capovolgevano in valori positivi a livello nazionale. La miseria, la meschinità della piccola borghesia diventavano patriottismo. La soffocazione morale, l’alienazione psicologica, addirittura l’omosessualità e tutto ciò che vi poteva essere di più torbido nell’Italia repressa di allora, improvvisamente poteva illuminarsi, fiammeggiare fino a riscattarsi in nome della patria. L’amor patrio di quegli anni era fatto di un sacco di porcherie.1
L’originaria pubblicazione de Il conformista fu accolta in maniera tutt’altro che positiva da parte della critica: il romanzo ricevette infatti numerose stroncature, incluse quelle di alcune delle più eminenti voci della comunità letteraria del tempo. Franco Fortini, ad esempio, in un articolo pubblicato su «Comunità» sottolineava una presunta disorganicità della materia narrativa de Il conformista:
1 A. Moravia, E. Siciliano, Alberto Moravia: vita, parole, idee di un romanziere, Milano, Bompiani 1982, p. 75.
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Stefano Lo Verme
Qual è, per me, la deficienza del libro? È la mancata unità dei due elementi che lo compongono: quello realistico-sociale e quello fantastico, di angosciosa fatalità. Il primo compare nell’intreccio, nei riferimenti ad una realtà e ad una aneddotica storica, nella sottintesa polemica razionalista e liberale sulla fuga dalla libertà; il secondo si vuol formare nel sonnambulismo del personaggio, nella sua parte greve, di ombra, nel motivo «strage e malinconia», nel tema esistenzialistico del fallimento, dell’inautenticità.2
Ancora più severo il giudizio di Geno Pampaloni, che in una recensione pubblicata su «Belfagor» definiva Il conformista un romanzo «sbagliato», imputando a Moravia di essere rimasto prigioniero del suo repertorio e di aver fallito totalmente i propri obiettivi: In questo grosso romanzo Alberto Moravia ha sprecato le sue migliori qualità, la sapienza costruttiva, l’intensità dell’intreccio, la carnale evidenza dei personaggi, la capacità di muovere il torbido scenario dell’immoralismo borghese in un romanzo che è difficile non definire sbagliato: il suo «conformista» non è quel personaggio rappresentativo, emblematico, qual era nelle intenzioni dell’autore, e la sua storia è quella della «infanzia di un capo» che sartrianamente gira per l’Europa da oramai più di dieci anni. […] il fatto è che questo Marcello conformista è l’esasperazione di un personaggio troppo tipico di uno scrittore a cui il proprio repertorio ha preso la mano e che non sa liberarsene se non impigliando sempre di più fatti e figure nei labirinti del suo mondo di convenzione.3
Decisamente negativa anche la recensione di Emilio Cecchi, che dalle colonne de «L’Europeo» rimproverava a Moravia un esasperato astrattismo nel descrivere tanto le situazioni, quanto gli stati d’animo dei personaggi, fino a sfociare in un’eccessiva freddezza.4 Un tratto che accomuna il giudizio di Cecchi e quello di Pampaloni è l’accusa di aver scritto un romanzo «convenzionale» e, per certi aspetti,
2
F. Fortini, Un conformista, in «Comunità», V (1951), 11, p. 63. G. Pampaloni, ‘Il conformista’ di A. Moravia, in «Belfagor», VI (1953), 3, p. 366. 4 Vedi E. Cecchi, Il conformista scatenato, ne «L’Europeo», VII (1951), 21, p. 12: «Soprattutto le esteriorità e lo astrattismo delle situazioni e dei loro legami e contrappassi, colpiscono nel Conformista. Fin dalle prime crudeltà di Marcello bambino su lucertole e gatti, i moventi sono presentati didatticamente. Mancano le emozioni, i sentimenti, anche perversi; e l’assassinio del professore e della moglie è giuocato nel vuoto. Di tale astrattismo il Moravia è troppo avvertito, per non volere in qualche modo compensare il suo pubblico. Di qui il continuo sfoggio di situazioni provocanti all’estremo, e quasi mai funzionali; che a più di un lettore per niente puritano hanno fatto chiedere se per avventura l’autore ormai non rasenti un po’ inconsideratamente un certo pornografismo. […] Cotesti quadri non diventano neanche bella pittura oscena; restano convenzionale letteratura. Nel complesso del libro, Moravia dà l’impressione di essersi un po’ troppo scatenato, d’aver concesso ad una sorta di frigida violenza». 3
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quasi di maniera (una «maniera» che, a detta di Cecchi, arriva addirittura a rasentare «un certo pornografismo»). Lo stesso Moravia, del resto, non ha mai nascosto la sua personale insoddisfazione rispetto a Il conformista, che riteneva un’opera non del tutto riuscita: La mia intenzione era di interpretare il fascismo in chiave intellettuale. Ma forse, a causa d’una mia immaturità di scrittore, quel romanzo diventò un collo di bottiglia in cui fu difficile far entrare tutto quello che ci volevo far entrare. Mi accorgevo ancora una volta che il romanzo su dati storici e realistici era impossibile scriverlo.5
Assai diversa, rispetto a quella della critica coeva, l’opinione di Carlo Bo, che ne «La Fiera Letteraria» evidenziava gli elementi di novità e d’interesse de Il conformista rispetto alla precedente produzione moraviana. In particolare, Carlo Bo elogiava la profondità dello scrittore romano nella sua analisi delle radici del male: analisi che non si limitava ad una mera contestualizzazione storica (ovvero quel fascismo ricondotto ad una «categoria dello spirito»), ma allargava la propria osservazione ad un campo di ricerca ben più ampio: […] la forza di Moravia sta proprio qui, nel riuscire a trovare un senso generale alla sua piccola rappresentazione comandata: le sue figure non diventano mai tipi, nel senso deteriore del termine e vive in lui la continua aspirazione a una verità superiore. […] nell’ambito di una realtà fulminata e a volte perfino meccanica riesce a restituire alla memoria del lettore una situazione di disagio e di malessere, quella che Sartre ha definito il dato della «nausea» ma qui con una forza, con una capacità e una sapienza morale veramente sorprendenti.6
Nonostante la recezione contrastata de Il conformista al momento della sua comparsa nel panorama editoriale, con il tempo il romanzo ha goduto di una tardiva canonizzazione, che lo ha portato oggi ad essere considerato fra i migliori prodotti della narrativa di Moravia. Inoltre, alla crescente popolarità del libro ha contribuito in misura determinante la famosissima trasposizione cinematografica realizzata da Bernardo Bertolucci nel 1970 ed interpretata dall’attore francese Jean-Louis Trintignant: indubbiamente uno dei vertici della produzione del regista emiliano, nonché uno dei film italiani degli anni Settanta più apprezzati a livello internazionale.7
5
A. Moravia, E. Siciliano, Alberto Moravia: vita, parole, idee di un romanziere cit., pp. 71-72. C. Bo, ‘Il conformista’ di A. Moravia, ne «La Fiera Letteraria», VI (1951), 18, pp. 1-2. 7 Presentato in anteprima nel giugno del 1970 alla 20a edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, Il conformista fu distribuito al cinema in contemporanea in Italia e negli Stati Uniti il 22 ottobre dello stesso anno, e nel marzo del 1972 ricevette la nomination all’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, scritta dal regista Bertolucci. Nell’estate del 2011 Il conformista è stato riproposto nelle sale italiane in una nuova versione restaurata a cura della Cineteca di Bologna. 6
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In un suo breve scritto dal titolo Inutilità del romanzo, Goffredo Parise riflette su quella che definisce l’inutilità del romanzo nella società contemporanea: «che di inutilità o utilità si debba parlare lo ritengo ovvio, partendo dalla premessa che l’opera del romanziere si innesti profondamente nella vita sociale di un popolo e di essa ne sia lo specchio o tanto meno la condanna».8 Parise riflette sulla categoria da lui definita «romanzo ideologico», all’interno della quale inserisce anche Il conformista, assegnandogli tuttavia un giudizio assai poco positivo: «romanzo di alte ambizioni, ma nel suo insieme sbagliato o tanto meno disarticolato, Il conformista rappresenta, a mio avviso, l’ultimo sforzo di romanzo ideologico in Italia».9 Le parole di Parise evidenziano appunto come il romanzo di Moravia costituisca una sorta di specchio della «vita sociale di un popolo»; uno specchio dal quale emerge anche una ferma condanna nei confronti dell’Italia fascista, un’Italia in cui Moravia si era trovato a crescere e con la quale aveva dovuto fare i conti. La genesi de Il conformista risale non a caso ad un episodio realmente accaduto e che ebbe un profondo impatto sullo scrittore, ovvero l’omicidio dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, cugini di Moravia e membri della Resistenza antifascista, uccisi nel 1937 in Francia. Nel suo libro-intervista con Alain Elkann, Vita di Moravia, Moravia afferma a tal proposito: Voglio sottolineare che risentii molto di quel delitto tanto è vero che, anni dopo, scrissi un romanzo, Il conformista, nel quale è adombrata la vicenda dei Rosselli in maniera però capovolta, cioè vedendola dalla parte di colui che contribuì a farli uccidere. Insomma scrissi il romanzo non «per» ma «su» i Rosselli. E questo perché pensai che doveva essere una tragedia sia pure a sfondo storico e non una storia agiografica, edificante.10
Questa sensazione di tragedia incombente che domina l’intero romanzo viene fatta percepire con evidenza al lettore fin dal prologo, con la descrizione del protagonista, Marcello Clerici, negli anni della sua infanzia e della sua adolescenza. Il libro si apre con la frase: «Marcello era affascinato dagli oggetti come una gazza». Tale brama di possesso è definita come «un desiderio intenso e irragionevole» al quale fa seguito «uno stupefatto, stregato, insaziabile compiacimento»;11 a questo compiacimento, tuttavia, si accompagna anche un sotterraneo senso di colpa, un sentimento che connoterà in qualche modo l’intera esistenza di Marcello. Già dalle primissime pagine del libro, dunque, Moravia evoca un’atmosfera minacciosa e mortifera, legata alla natura oscura del giovane Marcello, con i suoi
8
G. Parise, Opere, Milano, Mondadori 1987, p. 1539. Ivi, p. 1540. 10 A. Moravia, A. Elkann, Vita di Moravia, Milano, Bompiani 2000, p. 109. 11 A. Moravia, Il conformista, Milano, Bompiani 2010, p. 7. 9
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«passatempi tutti intonati al gusto della distruzione e della morte».12 Il giovane, che distrugge le piante e tortura e uccide gli animali del suo giardino, sfoga così i propri impulsi in «atti che lui stesso avvertiva anormali e misteriosamente intrisi di colpevolezza».13 Il fulcro della tragedia al centro del romanzo è costituito proprio dalla coscienza di Marcello riguardo la sua «anormalità»: una consapevolezza che determina nel protagonista il doloroso riconoscimento, fin dalla più tenera adolescenza, della propria diversità rispetto all’innocenza dei suoi coetanei. Il male viene perciò identificato come una pulsione endemica e innata, prima ancora che come un fenomeno storico-sociale. L’elemento del male, tuttavia, è strettamente connesso all’assenza di riferimenti morali nell’universo infantile di Marcello. Il protagonista, orripilato dalla crudeltà delle proprie azioni, ha bisogno di una condanna che sancisca il carattere moralmente errato del proprio gesto; ma di fronte alla confessione di Marcello l’autorità materna rifiuta di esercitare il suo ruolo di «giudice», facendo venir meno quel castigo di cui il protagonista avvertiva la tremenda esigenza.14 Anzi, la mancanza di una punizione accentua ancora di più il peso che grava sulla coscienza di Marcello, il quale si sente destinato a quello che il narratore definisce «l’isolamento terrificante dell’anormalità». Come spesso accade nella narrativa di Moravia, le figure genitoriali risultano assenti, distanti o inadeguate, e assurgono a emblema di una borghesia decadente, responsabile di una deriva etica che, cronologicamente, corrisponde non a caso all’ascesa del fascismo. Nella storia de Il conformista il concetto di responsabilità morale, esplicato fin dal prologo, si intreccia con quell’ambigua fatalità che sembra prendersi inesorabilmente gioco del protagonista. Gli eventi, benché frutto delle scelte di Marcello, appaiono al contempo pilotati, o piuttosto «deviati», da una sorta di crudele fatalità, preannunciata nel primo capitolo dalle parole gravi della cuoca – «si comincia con un gatto e poi si ammazza un uomo»15 – e rimarcata dalla sensazione di Marcello «di aver preso un impegno oscuro e terribile al quale presto o tardi non avrebbe potuto sottrarsi».16 Più tardi, di fronte a una fotografia bruciata della madre, Marcello avvertirà di nuovo «il senso spaurito e impotente di essere entrato nel cerchio di una fatalità funesta»,17 e definirà la disgrazia come «la trappola di cui
12
Ivi, p. 8. Ivi, p. 9. 14 Il tema della necessità non soddisfatta di un castigo morale verrà ripreso nel terzo capitolo della prima parte del romanzo, quando Marcello, in procinto di unirsi in matrimonio con Giulia, si accosta al sacramento della confessione, rivelando al sacerdote il proprio crimine ma senza riuscire a liberarsi dal senso di dannazione che pesa sul suo animo (vedi pp. 102111). 15 Ivi, p. 27. 16 Ivi, p. 29. 17 Ivi, p. 49. 13
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si è avvertiti e nella quale, tuttavia, non si può fare a meno di mettere il piede».18 Questo senso di fatalità ineluttabile verrà ulteriormente accentuato, nella trasposizione filmica di Bertolucci, dall’utilizzo della tecnica del flashback per ripercorrere le vicende del protagonista, fino al momento dell’agguato al professor Quadri. Si è parlato del male come pulsione endemica, come una forza misteriosa che si sprigiona dall’interno dell’individuo spingendolo a commettere azioni nefaste. In tale ottica, Il conformista si propone in primo luogo come un’indagine sul male: da una parte un male sociale e storico, rappresentato dal regime fascista, che si esprime in una dimensione pubblica e collettiva; dall’altra un male individuale e privato, insito nella natura di Marcello. Moravia, tuttavia, non ricorre in alcun caso a facili schematizzazioni di tipo manicheo; al contrario, i personaggi del romanzo sono tormentati dalla coscienza del male che si agita dentro di loro e, come accade al Marcello bambino, tentano di esercitare la propria volontà per evitare che questa pulsione maligna prenda il sopravvento. Il colpo di pistola sparato contro Lino, l’uomo che aveva tentato di abusare di lui, segna la definitiva perdita dell’innocenza di Marcello: un drastico punto di non ritorno sul quale si chiude il prologo del romanzo. Tutto il resto del racconto è costruito attorno alla ricerca, da parte del protagonista, di una presunta normalità. Se in principio sembra che il senso di colpa di Marcello si sia tramutato in uno stato di indifferenza, tale indifferenza, che vorrebbe essere un sintomo di normalità, è come increspata da quello che il narratore definisce «un diafano velo funereo». È significativo, inoltre, il confronto fra Marcello a tredici anni e il Marcello adulto, con la «ricchezza tumultuosa e oscura» dell’adolescenza che è stata sostituita dalla «povertà e rigidezza di poche idee e convinzioni».19 La «mortificata e grigia normalità» di Marcello assume quindi un duplice valore: è la normalità di un individuo che ha rinunciato alla propria unicità per somigliare il più possibile agli altri, ma è anche lo specchio di un conformismo di massa volto a reprimere qualunque forma di «diversità» culturale, psicologica e ideologica, tipico dell’Italia asservita al fascismo.20 Questo ideale conformismo, tuttavia, si incrina una volta a contatto con la realtà:
18
Ivi, p. 50; «Oppure, addirittura, una maledizione di goffaggine, di imprudenza e di cecità inusitata nei gesti, nei sensi, nel sangue? Quest’ultima definizione gli sembrò la più appropriata, come quella che riconduceva la disgrazia ad una mancanza, appunto, di grazia e la mancanza di grazia ad una fatalità intima, oscura, nativa, imperscrutabile […]. Egli sapeva che questa fatalità voleva che egli uccidesse; ma ciò che lo spaventava di più non era tanto l’omicidio quanto di esservi predestinato, qualunque cosa facesse», Ibidem. 19 Ivi, pp. 67-68. 20 Lo stretto legame fra la vicenda privata di Marcello e il contesto storico-politico relativo all’Italia fascista è stato messo in evidenza da Carlo Bo nella sua recensione del romanzo: «Moravia è uno scrittore legato profondamente al suo tempo, perduto a volte perfino nella VII. Italiani della letteratura
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Sempre così succedeva: pensava di essere normale, simile a tutti gli altri, quando si raffigurava la folla in astratto, come un grande esercito positivo del quale era consolante far parte. Ma appena affioravano fuori da quella folla gli individui, l’illusione della normalità si infrangeva contro la diversità, egli non si riconosceva affatto in loro e provava insieme ripugnanza e distacco.21
Marcello si configura pertanto come un burocrate disumanizzato che accetta passivamente i valori e i modelli di vita imposti dal regime fascista, pur senza provare una reale adesione a tali valori e a tali modelli. All’assenza di una reale convinzione alla radice dei comportamenti e delle scelte del protagonista, Moravia contrappone il carattere utopico e idealista del professor Quadri, l’insegnante di filosofia di Marcello, nonché la vittima designata della sua missione segreta a Parigi, in quanto capofila di un movimento di dissidenti antifascisti. Parallelamente, la normalità «burocratica» del matrimonio di convenienza con Giulia, privo di un reale affetto o trasporto da parte di Marcello, verrà frantumata dalla sua incontenibile passione per Lina, la moglie del professor Quadri. Anche questo improvviso sentimento, però, è destinato a rivelare il proprio carattere fallace e illusorio, all’interno di un microcosmo narrativo in cui l’amore – così come l’attrazione sessuale – è sempre sviluppato in direzione unilaterale, senza trovare alcuna possibilità di corrispondenza. L’ambiguità morale di Marcello e dell’ambiente in cui vive sembra dunque rispecchiarsi in un’analoga ambiguità sentimentale e sessuale che caratterizza i personaggi principali del romanzo: sua moglie Giulia, Lina e soprattutto Marcello stesso, diviso fra il suo sterile matrimonio con Giulia, l’attrazione per Lina ed una latente omosessualità implicitamente suggerita da Moravia.22 Questo intreccio di attrazioni incrociate e non corrisposte fra Giulia, Lina e Marcello si trasforma in una rete di inganni che procedono di pari passo con la trappola architettata da Marcello per far assassinare il professor Quadri.
cronaca e il fascismo ha rappresentato una categoria dello spirito, categoria che poteva fornire spiegazioni e interpretazioni», C. Bo, ‘Il conformista’ di A. Moravia cit., p. 2. 21 A. Moravia, Il conformista cit., pp. 71-72. 22 L’omosessualità del personaggio di Marcello, benché mai resa evidente in maniera manifesta (ma anzi, al contrario, apparentemente smentita dall’attrazione di Marcello per Lina), viene fatta trapelare attraverso vari «indizi» disseminati nel corso del romanzo: a partire dalla «perfezione di tratti quasi leziosa nella sua regolarità e dolcezza», associata ad «alcuni caratteri addirittura femminili così da far dubitare che Marcello non fosse davvero una bambina vestita da maschio» (p. 31); la «consapevole seppure innocente civetteria» (p. 43) mostrata al cospetto di Lino; fino all’episodio in cui Marcello, durante la sua luna di miele a Parigi, riceve delle avance da parte di un uomo anziano a bordo di un’auto di lusso, quasi una riproposizione del tentato adescamento messo in atto da Lino nei confronti del Marcello adolescente. Italiani della letteratura: Alberto Moravia
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L’omicidio di Quadri, che dovrebbe far acquisire alla vita di Marcello quell’assolutezza tanto a lungo ricercata, diventa al contrario il definitivo suggello della dannazione del protagonista. Come spiega Moravia: Ne Il conformista […] ho voluto raccontare il caso di un ragazzo che ha avuto esperienze omosessuali precoci, che ha creduto di aver ucciso un uomo, e che per questo si sente segnato a dito, si sente un elemento antisociale e fa di tutto per integrarsi nella società che gli sembra voglia espellerlo. Per far questo, accetta anche la criminalità della società a cui anela. Gli viene chiesto come prezzo d’integrazione il delitto? Non ci pensa due volte: lui paga l’integrazione col delitto.23
La normalità di Marcello, in altre parole, è legata a doppio filo alla sorte del regime fascista, al successo «intimo e necessario» di quel sistema di valori. Tale parallelismo viene tradotto da Marcello con queste parole: «Se il fascismo fa fiasco, se tutte le canaglie, gli incompetenti, e gli imbecilli che stanno a Roma portano la nazione italiana alla rovina, allora io non sono che un misero assassino».24 La missione di Marcello va in porto e l’assassinio del professor Quadri viene portato a termine. Ma questo apparente successo si traduce, per il protagonista, in un duplice fallimento: dal punto di vista privato, provoca involontariamente anche la morte dell’amata Lina, che per una tragica fatalità aveva deciso all’ultimo momento di partire insieme al marito; dal punto di vista della fiducia nel regime, l’omicidio del professor Quadri si rivelerà un’operazione non necessaria ed anzi controproducente. Per Marcello, si tratta dell’amara presa di coscienza di aver riposto le proprie speranze di normalità in un sistema perverso e malato, fonte di un’inconsapevole follia collettiva e sostenuto dalla complicità omertosa di individui come sua moglie Giulia, schiava di un mostruoso opportunismo. Inevitabile, quindi, che al crollo del regime fascista, nell’epilogo del romanzo, corrisponda la definitiva e cocente disillusione di Marcello nei confronti di «quella normalità che egli aveva ricercato con tanta tenacia per anni e che adesso si rivelava puramente esteriore e tutta materiata di anormalità».25 Ne Il conformista, Moravia ci presenta dunque un magistrale ritratto della borghesia italiana dei tempi del fascismo: un ritratto sviluppato adottando un punto di vista interno – quello del protagonista Marcello, che assume il ruolo di personaggio focalizzatore della narrazione – e proprio per questo ancor più partecipe e doloroso, in quanto capace di unire in un legame inestricabile la dimensione storica e pubblica (il conformismo imperante tipico della dittatura fascista) con quella intima e privata di un uomo tormentato nel profondo del proprio animo. Come ha dichiarato Moravia a proposito del romanzo:
23
A. Moravia, E. Siciliano, Alberto Moravia: vita, parole, idee di un romanziere cit., p. 75. A. Moravia, Il conformista cit., p. 244. 25 Ivi, p. 260. 24
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[…] volevo amalgamarvi quello che avevo conosciuto del fascismo. Il tutto retto sull’equazione: il protagonista è fascista perché omosessuale. L’equazione mi sembra vera ancor oggi: un fatto che ha un valore negativo su di un piano individuale si tramuta (o si crede che si tramuti) in positivo sul piano collettivo. […] Volevo questo: fare romanzo di un’idea critica della società in cui ero cresciuto.26
Per ammissione dello stesso autore, ne Il conformista risuonano gli echi di un dissidio interiore che, durante il ventennio fascista, aveva coinvolto in prima persona anche Moravia, in quanto esponente di spicco della nuova borghesia intellettuale emergente. Un dissidio che lo scrittore scelse di affrontare proprio con la stesura di questo romanzo anomalo e coraggioso, in cui prendeva in esame diversi conflitti ancora drammaticamente irrisolti nell’Italia del secondo dopoguerra, e nel quale decise di mettere in gioco una parte di se stesso: Non è facile per un borghese andare contro la propria classe, a meno di una scissione completa di se stesso, o di una azione violenta. […] Tutto ciò cosa avrebbe comportato nel mio caso? Avrei forse dovuto smettere di scrivere per fare il gappista anch’io? Ho preferito rappresentare il dissidio di cui mi sentivo vittima e teatro. Ho raccontato un dramma che era il mio dramma, lo ammetto: ma che in fondo era anche il dramma, per dir così, di una intera civiltà.27
26 27
A. Moravia, E. Siciliano, Alberto Moravia: vita, parole, idee di un romanziere cit., p. 72. Ivi, p. 73.
Italiani della letteratura: Alberto Moravia
ITALIANI DELLA LETTERATURA: IPPOLITO NIEVO
CARMEN SARI ‘Memorie di un garibaldino’: la figura e l’opera di Ippolito Nievo
Fino al 1850 Nievo non aveva ancora scritto nulla, se si eccettua qualche esercitazione letteraria e alcuni biglietti alla famiglia e agli amici. Le settantadue lettere a Matilde Ferrari, composte nell’arco di circa due anni costituiscono un piccolo corpus omogeneo. Esse rappresentano un tutt’uno, come le altre dell’epistolario,1 con la sua produzione, ossia sono parti di un unico organismo. Riproducono un documento prezioso dell’iter letterario-culturale che condurrà lo studente del liceo Revere alla scrittura e, di qui, all’opera. L’esperienza amorosa coincide quasi subito per l’autore con la sperimentazione del vuoto, della trasparenza, dell’immediatezza, della transitività. Più che occasione di effusione del desiderio romantico, essa diventa strumento di analisi del proprio io e del mondo che lo circonda. Si propone – secondo l’invito rivolto all’amico Attilio Magri, la cui relazione con Orsola rispecchia la sua con Matilde – di «scorrere il laberinto della […] coscienza»;2 si tratta di porre l’amore «in relazione colla società e colle altre […] passioni», di «infrenare […] con l’amor proprio e colla ragione quel cieco capestro che strascina l’uomo all’orlo del precipizio e che si è voluto chiamare l’istinto».3 Nel laboratorio delle epistole è possibile, quindi, leggere tra le righe alcuni mo-
1 Per uno studio linguistico dell’epistolario nieviano, rinvio ai contributi di P. V. Mengaldo, L’epistolario del Nievo: un’analisi linguistica, Bologna, Il Mulino 1987 e Id., Regionalismi e dialettalismi nell’epistolario di Nievo, in Id., Studi su Ippolito Nievo: lingua e narrazione, Padova, Esedra editrice 2011, pp. 7-27. Tale scritto era già stato edito in L’italiano regionale, a cura di M. Cortelazzo e A. M. Mioni, Roma, Bulzoni 1990, pp. 20-52. 2 I. Nievo, Lettere, a cura di M. Gorra, Milano, Mondadori 1981, L, 189 (la cifra che segue l’anno di pubblicazione si riferisce al numero della lettera). 3 Ivi, L, 156.
Italiani della letteratura: Ippolito Nievo
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Carmen Sari
menti formativi dello scrittore. «So mantenere il segreto e so palesare la verità»4 scrive in una delle ultime missive a Matilde Ferrari. Entro i termini del segreto e della verità, della maschera e della sincerità s’inscrive un aspetto importante della personalità intellettuale nieviana. In una lettera del marzo 1850, egli evidenzia la sua diversità. La figura di solitario ingenuamente letteraria cui dà voce in questo scritto può interpretarsi come lo strumento provvisorio di una ricerca di verità, che assurgerà, col trascorrere del tempo, a cifra esemplificativa della sua narrativa. Su tale tematica, lo studioso ritorna in un altro testo indirizzato sempre all’amata Matilde, in cui vengono accostati i termini verità e menzogna: Quand’io penso, o Matilde, che mi credo fornito di buon senno, che voglio aver ragione, e che invece chi sa quante bestialità escono dalla mia bocca, mi metto le mani nei capelli, non già spaventato dalla mia insufficienza ma perché queste bestialità sono dogmi di fede, e non è un po’ educato chi non sa dirle, e chiama bestia quel povero diavolo che a sentirle tentenna il capo! – Bestialità sacrosante, santificate dall’uso e dai sogni di cento deliranti che si vollero chiamar: Dotti! Bestialità sacrosante, santificate dai secoli, e immedesimata ormai colla Verità.5
Figlio della cultura illuministica che aveva una forte tradizione in area veneta, suggestionato dalla diffusione primo-ottocentesca della scienza della fisiologia, Nievo non si riconosce nella dialettica romantica di essenza e fenomeno; protagonista di una vocazione gnoseologica realistica, non può ammettere che i fatti positivi contro ogni soggettivismo. La ragione è il mezzo con cui egli incalza, controlla gli eventi e cerca di ricondurli dalla propria parziale e soggettiva ottica ad una verità generale. La logica impone un distanziamento, un rifugio con cui difendersi dagli istinti e da cui osservare non visti se stessi e la realtà circostante. Una delle immagini che più frequentemente l’intellettuale offre di sé nelle lettere è quella di un incontinente della scrittura, come si evince dalla seguente epistola indirizzata a Matilde Ferrari: Ho avuto la fortuna di un gran trasporto per scrivere […] il regalo di un talento speciale per iscrivere delle chiacchiere […]. Più che scrivo e più scriverei […] se mi si troncasse la mano diritta potrei trattenermi dall’imbrattare la carta, fosse anche coi piedi come usano fare le galline […]. È vero che stando alla realtà io avrei poco pochissimo da dirti […] pure ho empito un undici foglietti.6
Questa grafomania può interpretarsi – come osservato anche da Marinella Co-
4
Ivi, L, 208. Ivi, L, 139 (Il corsivo è mio). 6 Ivi, L, 73, 103, 113. 5
VII. Italiani della letteratura
‘Memorie di un garibaldino’
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lummi Camerino – quale segno di «pienezza vitale che nella penna trova la propria estrinsecazione»,7 anche se, ad un’attenta analisi dell’epistolario, emerge la percezione di un avvicinamento alla scrittura e quasi di un assorbimento in essa inteso quale terapia d’urto legata ad una visione-concezione opaca del presente. Nel periodo a lui contemporaneo, lo scrittore si sente fuori luogo, come nota in una lettera indirizzata all’amico Attilio Magri: «Immaginati, o Attilio, un povero diavolo come io, a cavallo di quell’angolo che rappresenta il tempo, e deduci, come quel maledetto punto b (il presente) così acuminato mi debba rompere i coglioni».8 Come Rousseau, Nievo cerca in sé, nell’immagine e nella coscienza, le risorse per affrontare e riparare le contraddizioni del mondo. L’autore riconosce un ascendente alla sua accensione civile in Giuseppe Giusti. Di lui scrive all’amico Andrea Cassa nel dicembre del 1853: «Mi sta dinanzi quel grande esemplare del Giusti che m’insegna il modo d’adoperarsi perché il verseggiatore non sia un’inutilità sociale. Quanto più le scienze e le lettere s’avvicineranno all’uomo reale e incarneranno dirò così le astrazioni intellettuali per renderle possibili di attuazione nella fase sociale in cui versiamo, tanto più merito e sicurezza avranno i loro conati pel felice svolgimento di quella fase».9 Fedele all’impegno enunciato nell’epistola indirizzata al Cassa, datata 1856, di scrivere in verso, in prosa, in tragico, in comico, lo studioso si cimenta con i generi più diversi, dalla tragedia alla commedia, alla poesia. Ciò che è parso biasimevole in passato – come ha notato anche Marinella Colummi Camerino – inizia a «rappresentare agli occhi dei critici la cifra di questo autore onnivoro dal punto di vista degli influssi culturali».10 Come nelle lettere e nel Novelliere anche nei versi, c’è «un amalgama di toni e registri, un’aggregazione» – ha dichiarato Marcella Gorra – «di poesia popolare e di versificazione dotta»,11 sviluppata l’una in senso prosastico sulle orme di Giusti, innervata l’altra sulla tradizione letteraria alta. Nella frenetica attività del 1857 si colloca l’inizio della stesura delle Confessioni12
7
M. Colummi Camerino, Introduzione a Nievo, Roma-Bari, Laterza 1991, p. 9. I. Nievo, Lettere cit., L, 224. 9 Ivi, L, 261. 10 M. Colummi Camerino, Introduzione a Nievo cit., p. 61. 11 M. Gorra, Introduzione, in I. Nievo, Poesie, a cura di M. Gorra, Milano, Mondadori 1970, p. 8
LI. 12
Il manoscritto autografo delle Confessioni d’un Italiano è conservato presso la Biblioteca Comunale di Mantova, dove fu depositato nel 1931, per volontà della famiglia, da un pronipote, omonimo dello scrittore. È costituito da tre grossi quaderni rilegati in tela, di centimetri 17x21, di minuta ma chiara calligrafia, con qualche correzione che pare di altra mano. Si deve ad Erminia Fuà Fusinato la pubblicazione del manoscritto nel 1867, a sei anni dalla morte dell’autore, con il titolo mutato, Le Confessioni d’un Ottuagenario, per volere dell’editore Le Monnier. L’opera in due tomi, fu curata dalla stessa Fuà, la quale vi apportò delle modifiche di carattere ortografico, lessicale, grammaticale, sintattico. Italiani della letteratura: Ippolito Nievo
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che durerà dal dicembre di quell’anno all’agosto del successivo. L’ottuagenario Carlo Altoviti è contemporaneamente dentro e fuori gli avvenimenti, ha il privilegio di dire «io» e insieme quello tipico del narratore onnisciente, di commentare, interpretare la propria esperienza personale e storica.13 Percepita dall’ovattata atmosfera di Fratta come un rombo lontano, annunciata da una data simbolo – gennaio 1793: decapitazione di Luigi XIV – la grande storia irrompe nel romanzo, diventando in questa sezione, composta da capitoli centrali, il motore dell’intreccio. Esaminando alcuni scritti contenuti nell’Epistolario, si evince la presenza di due lettere, indirizzate rispettivamente a Caterina Curti e ad Arnaldo Fusinato, le quali sembrano confermare la scansione in tre parti dell’opera. Riporto le osservazioni rivolte a quest’ultimo: «Quanto a me vo’ innanzi lentamente nel mio eterno romanzo che vorrà toccare la mole suprema di tre volumi».14 Il primo quaderno, includente i capitoli I-VII, ruota attorno al focus della decapitazione del Re di Francia e della partenza di Carlino per Padova; il secondo, comprendente i capitoli VIII-XVII, abbraccia, con dovizia di particolari, l’intero arco delle rivoluzioni italiane; infine, il terzo, può definirsi, da un lato una sorta di riflessione filosofica sull’esistenza e dall’altro un rientro nella «vita normale», evidenziata «da un’indicazione temporale di inusitata» accuratezza: «Giungemmo a Venezia il quindici settembre 1823. Passai la prima notte in quella memore cameretta dov’avea vissuto giorni sì spensierati e felici, baciando fra lagrime e singhiozzi due ciocche di capelli […] della Pisana».15 Chi ha fatto delle Confessioni uno scritto emblema del Risorgimento non ha visto che per Nievo il presente politico e sociale ha valore sub condicione, come prima tappa di un lungo e complesso processo. Il valore è proiettato nel futuro e troverà attuazione nel superamento del conflitto cuore-cervello. Se si guarda all’interno e non all’esterno delle Confessioni,16 ci si rende conto che per comprendere tale opera e l’idea che ad essa sottostà si deve riattivare la dicotomia passato-presente, implicita nella dichiarazione di Carlino inerente il momento del suo ingresso nella contemporaneità:17
13
Per maggiori delucidazioni, rimando agli studi di G. Maffei, Ippolito Nievo e il romanzo di transizione, Napoli Liguori 1990 e di A. Di Benedetto, Ippolito Nievo e altro Ottocento, Napoli, Liguori 1996. 14 I. Nievo, Lettere cit., L, 504. 15 Id., Le Confessioni cit., p. 948. 16 Per un’analisi approfondita, rinvio agli studi di P. V. Mengaldo, Appunti di lettura delle Confessioni, Ancora sulle Confessioni, Colori linguistici nelle Confessioni di Nievo, contenuti nel volume Studi su Ippolito Nievo cit., rispettivamente alle pp. 151-215; 217-237; 239-259. 17 Ad oggi, la migliore Introduzione inerente il romanzo nieviano rimane ancora quella redatta da S. Casini, in I. Nievo, Le Confessioni di un italiano, Parma, Guanda («Fondazione Bembo») 1999, pp. VII-LX. VII. Italiani della letteratura
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È un mondo nuovo affatto, un rimescolio di sentimenti di affetti inusitati che si agita sotto la vernice uniforme della moderna società; ci perdono forse la caricatura e il romanzo, ma ci guadagna la storia. Oh, se come dissi un’altra volta, noi non pretendessimo misurare col nostro tempo il tempo delle nazioni, se ci accontentassimo di raccogliere il bene che si è potuto per noi, come il mietitore che posa contento la sera sui covoni falciati nella giornata, se fossimo umili e discreti di cedere la continuazione del lavoro ai figliuoli ed ai nipoti, a queste anime nostre ringiovanite, che giorno per giorno si arricchiscono di quello che si fiacca si perde si scolora nelle vecchie, se ci educassero a confidare nella nostra bontà e nell’eterna giustizia, no, non sarebbero più tanti dispareri intorno alla vita!18
Nievo scrive in un’epoca in cui la modernità ha iniziato ad operare irreversibili scissioni nel nesso, tipico dell’immaginario romantico, tra esperienza individuale e totalità, tra percezione, apparenza ed essenza. Le Confessioni,19 attraversate da una tensione alla totalità storica oltre che da una percezione distaccata, teatrale del mondo, portano in sé il segno di questa separazione. Al lavoro di giornalista, egli si dedica con maggiore continuità nel periodo in cui vive a Milano, dal novembre 1857 fino all’aprile 1859 e per tutto il 1860. Trattenuto in città dal legame sentimentale con Bice Gobio Melzi e dall’attesa degli eventi politici, decide di guadagnarsi da vivere con la letteratura, condizione su cui ironizza giocando con il topos del letterato affamato: «da quattro anni e tre mesi che esercito la nobilissima professione del letterato, io avrei potuto morire di fame trecento ottantasette volte e mezza!»20 Nel 1859, lo scrittore, che aveva accettato, per necessità, di «farsi ciabattino due ore al giorno», ossia di lavorare per l’editore Lampugnani con un rapporto fisso, si dichiara disgustato della possibilità di farsi «galeotto in tutta la giornata»,21 cioè di fare il prestatore d’opera a tempo pieno. Egli vuole stare ai margini del sistema, negandosi esplicitamente alla professione del letterato: tale rifiuto si evince anche dalla lettura di molte epistole redatte in questo periodo, in cui ripropone le figure di solitario, di poeta pazzo, di auto emarginato in protesta verso la società. Circola, dunque, negli scritti giornalistici l’atmosfera mondana di chi frequenta i teatri e i caffè, le tipografie, i centri in cui si fa la letteratura e l’umore solitario e risentito di chi non rinuncia a dire la verità su un terreno privato e individuale. A questo punto una domanda sorge spontanea: che cosa sono questi scritti? A
18
I. Nievo, Confessioni cit., p. 1070. In una lettera indirizzata all’amico Fausto Bonò, datata Regoledo, 14 ottobre 1858, Nievo afferma: «Il mio romanzo contemporaneo Le Confessioni d’un Italiano è già finito e pronto alla ripulitura; anzi ci attendo per quanto lo consente la severità del medico; che esclude come il maggior nemico della salute il pensiero», id., Lettere cit., L, 357. 20 Id., Scritti vari, a cura di F. Portinari, Milano, Mursia 1976, p. 857. 21 Id., Lettere cit., L, 629. 19
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mio avviso possono definirsi parte di un’opera poliedrica, in cui ogni faccia concorre a definire un’identità per concentrazione e mescolanza. Questi testi sono parte integrante dell’opera nieviana, non solo perché il giornalismo costituisce un momento importante di un progetto letterario costruito sul dialogo con il lettore, ma soprattutto perché si tratta di una pratica di scrittura che ha con l’inventiva fitti contatti e scambi, anche se finalizzata a fornire notizie e a formulare commenti. Nel 1859 inizia la fase più propriamente politica dell’attività del «poeta soldato»:22 allo scoppio della seconda guerra d’indipendenza, Nievo parte da Milano come volontario e si arruola nei Cacciatori a Cavallo di Garibaldi. L’azione gli consente di vivere nel presente tanto a lungo desiderato negli anni della stasi, quanto «lo scrivere era insufficiente a riempire la vita».23 In partenza da Milano, dà inizio agli Amori garibaldini, un diario poetico dell’epopea vissuta con Garibaldi cui è dedicata una delle più famose poesie della raccolta. La guerra si conclude con l’infausta pace di Villafranca, la quale consegna il Veneto all’Austria. Lo scrittore, deluso ed amareggiato,24 ricorda le speranze che avevano alimentato il suo animo e guidato le sue azioni: «Meditando venia sul mio cavallo/ La fortuna dei popoli, la pronta/ Vittoria e il cielo finalmente giusto./ L’aura serena azzurreggiava intorno/ E scorreva lo sguardo alle nevose/ Cime dove menar fidammo intera/ l’Itala libertà».25 Egli avverte il compromesso diplomatico (armistizio di Villafranca) come sacrificio della parte d’Italia ancora nelle mani dello straniero, come si evince dalla seguente lirica: Trento, Venezia Palermo e Roma La fronte han doma Servono ancor. Ma in pugno a un popolo Folto e gagliardo È lo stendardo Dei tre color. Ma in armi stringonsi Dieci milioni Contro due troni Contro un altar.26
22
D. Mantovani, Il poeta soldato. Ippolito Nievo, Milano, Treves 1899. Id., Lettere cit., 496. 24 «Cieco gli occhi di pianto,/ il cor fremente/Di bestemmie e d’insulti», Id., Poesie cit., p. 561. 25 Ibidem. 26 Ivi, pp. 583-584. 23
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In quello stesso periodo scrive l’opuscolo Venezia e la libertà d’Italia, il quale può definirsi una meditazione rivolta ai liberal-moderati e a Cavour, portavoce di Casa Savoia. Marcella Gorra che ha attribuito, a mio avviso, giustamente, la stesura del breve saggio al biennio 1859-1860, ha spiegato «che la propensione verso la diplomazia e la tendenza possibilistica e filopiemontese sono legate»27 ad una precisa data, quella in cui si sarebbe dovuto svolgere il Congresso europeo, ossia il gennaio 1860. Le seguenti riflessioni sono fondamentali per comprendere le aspettative di Nievo a tale proposito: Uno solo è il partito, una la speranza, una la fede che l’Italia sarà presto una nazione, e che il primo passo per diventar tale ha ad essere lo stabilimento d’un Regno solo potente e compatto dal Varo all’Isonzo, dalle Alpi all’Adriatico […]. Colla ragione e col cuore, noi abbiamo già scelto a Re nostro, a Re dell’Alta Italia il primo soldato dell’Indipendenza Italiana.28
Tale testo non ha solo una chiave di lettura politica: nutrito dei miti letterari e delle suggestioni storiografiche, il saggio pone al suo centro Venezia: la città storica, la cui vicenda è narrata diacronicamente, e la città mitica, la cui immagine è disegnata da Nievo, il quale ne cerca il significato dentro di sé e nel passato. Riporto qui, a titolo esemplificativo, un passo significativo: La Venezia è la chiave di tutta Italia dalle parti di Germania; […] finché gli Austriaci vi rimarranno accampati, l’Italia resterà sempre debole, diffidente di parecchi suoi governanti, divisa perciò nella sua azione politica, incapace di svolgere liberamente tutte le sue forze militari e civili, minacciata da una continua invasione, e preparata a reprimerla con un esercito sproporzionato, od anche a prevenirla col fomento di esterne rivoluzioni.29
Come sarà anche nel Frammento, la storia si svolge grazie all’azione concorde della moltitudine manzoniana ed è legittimata dal buon senso e dalla moralità popolare. L’azione rivoluzionaria, rappresentata dall’eroe dei due mondi, costituisce, in questo processo, un elemento di accelerazione che può economizzare «qualche […] anno di servitù, di lagrime e di timori».30 Marcella Gorra ha dimostrato, in seguito al ritrovamento di una carta dispersa, che non si tratta di un frammento vero e proprio come ipotizzato in precedenza
27
M. Colummi Camerino, Introduzione a Nievo cit., p. 106. I. Nievo, Venezia e la libertà d’Italia, in Id., Scritti politici, a cura di M. Gorra, Padova, Liviana 1988, p. 98. 29 Ivi, p. 102. 30 Id., Novelliere campagnuolo e altri racconti, a cura di I. De Luca, Torino, Einaudi 1956, p. 628. 28
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dal suo primo editore, bensì di uno scritto completo e pertanto ha proposto di intitolarlo Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale e di datarlo, sulla base di molteplici riscontri interni, all’autunno del 1859. In tale testo, oltre a leggersi la motivazione principe secondo la quale una nazione può risollevarsi – ossia quando «risorge uno per uno a virtù ed a civiltà, a concordia di voleri la maggioranza degli uomini che […] la compongono»31 – si evince anche la contrapposizione tra il popolo campagnolo e quello cittadino: Sì, il popolo illetterato delle campagne aborre da noi popolo addottrinato delle città Italiane perché la nostra storia di guerre fratricide, di rivalità continua e di gare municipali, gli vietò quell’assetto economico che risponde presso molte altre nazioni ai suoi più stretti bisogni. Esso diffida di noi perché ci vede solo vestiti coll’autorità del padrone, armato di diritti eccedenti, irragionevoli, spesso arbitrarii e dannosi a noi stessi. Non crede a noi perché avvezzo ad udire dalle nostre bocche accuse di malizia di rapacia che la sua coscienza sa di esser false ed ingiuste.32
Gli scritti politici garibaldini di Ippolito Nievo fino ad oggi noti sono i due Resoconti amministrativi dell’Esercito Meridionale, pubblicati su «La Perseveranza» il 23 luglio 1860 (con firma di Giovanni Acerbi)33 e il 31 gennaio 1861, con firma di Nievo e il Giornale della Spedizione di Sicilia, edito il 17 luglio 1860 su «Il Pungolo». Quest’ultimo, più che uno scritto politico, può definirsi un racconto sintetico della Spedizione dei Mille, dalla partenza da Quarto fino all’entrata di Garibaldi a Palermo. Un’importante lettera politica garibaldina, datata Palermo 20 giugno 1860, indirizzata a Francesco Crispi, scritta da Nievo e firmata da Acerbi contiene una protesta contro la decisione presa da Domenico Peranni, ministro delle Finanze del Governo garibaldino, di limitare a 1000 ducati il fondo spese giornaliero dell’Intendenza garibaldina: Ma persuasi taluni di questo, converrebbe forse persuadere altri che non ci ostineremo a far durare per tre settimane la somma che nel ’48 bastò appena alle spese di tre giorni, che li lasceremo rodere in pace il pubblico tesoro, che per non crearci opposizioni, scenderemo a patti con essi, che ci adatteremo in fine a certe costumanze che ci ripugnano, e sulle quali abbiamo risposto a qualche indecente bisbiglio con breve e
31
Id., Frammento sulla rivoluzione nazionale o, secondo l’intitolazione proposta da M. Gorra, Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale, in Id., Scritti politici, a cura di M. Gorra cit., p. 65. 32 Ivi, p. 69. 33 Per maggiori ragguagli circa i personaggi e gli eventi inerenti quel periodo storico, rinvio ai seguenti studi: C. Cipolla, Belfiore. Costituti, documenti tradotti dal tedesco ed altri materiali inediti del processo ai comitati insurrezionali del Lombardo-Veneto (1852-1853), vol. 1, Milano Franco Angeli 2006; S. Benetti, I leoni di Garibaldi, Ginevra, Sikra 2007. VII. Italiani della letteratura
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Lombarda chiarezza. Questo non faremo mai; e si è appunto per impedirlo che insistiamo e insisteremo sempre nel nostro diritto di conservare come Amministratori Generali dell’Armata la Cassa Centrale dei pagamenti militari. […] Certo questo diritto di proporre, disporre e comandare io lo riconoscerei difficilmente a taluni che non so dove fossero quando noi eravamo a Marsala e Calatafimi.34
Nell’Archivio di Luigi Naselli Flores, oggi conservato a Marsala, presso la locale sede dell’Istituto Internazionale di Studi «Giuseppe Garibaldi», è custodita un’altra missiva politica inedita, scritta da Nievo su invito di Acerbi, datata Palermo, 6 agosto 1860, ed indirizzata ad Agostino Depretis, prodittatore di Garibaldi in Sicilia, in cui si chiede la riduzione del numero dei membri della Commissione verificatrice, in quanto lesiva della funzione di Intendente Generale svolta dallo stesso Acerbi: Trovo […] imposta dalla stessa Segreteria all’Intendenza Generale una Commissione di otto Membri a cui oggi stesso se ne aggiunsero altri sette, con facoltà di assistere e controllare i contratti, e interporsi nelle funzioni più minute di magazzinaggio e di distribuzione. Sempre pronto, anzi contentissimo di aver persone su cui riversare parte della mia responsabilità, non posso accettare senza protesta l’intrusione nelle mie attribuzioni d’un Dicastero separato il cui scopo sembra esser quello di inceppare l’attività tanto indispensabile in questi supremi momenti. A mio credere la ratifica della Segreteria di Stato ottimamente comandata era guarentigia sufficiente della bontà dei nostri contratti senza deferirli all’opinione di persone fra le quali molte sono stimabili, altre sconosciute, altre infine soggette a qualche eccezione per la voce pubblica che ne mormora.35
La messe più straordinaria di lettere e memorie politiche garibaldine inedite redatte da Nievo è conservata presso il Fondo Acerbi custodito all’interno dell’Archivio Storico di Mantova: si tratta di sei minute di missive e memorie, alcune molto lunghe, una in due diverse versioni. Nello stesso Fondo è conservato un settimo documento, firmato da Acerbi, ma che da un’analisi contenutistica e calligrafica si può attribuire a Nievo. I testi siglati con i numeri 12, 13, 13a, 14 sembrano facessero parte di un piccolo fascicolo: i primi tre presentano anche lo stesso tipo di carta. Gli scritti 10 e 11 appartengono ad un diverso dossier. Chiude questa serie un messaggio, redatto dal padovano, ma firmata da Acerbi: si tratta della minuta di un’epistola scritta in risposta ad un’altra il cui mittente viene individuato in Thaon di Revel.
34
F. Samaritani (a cura di), Lettere politiche edite e inedite, scritte da Ippolito Nievo per conto di Giovanni Acerbi, pp. 63, 64. Per ulteriori informazioni, rimando ad un altro studio di F. Samaritani (a cura di), Ippolito Nievo, i giorni sommersi, Fondazione Ippolito Nievo, Venezia, Marsilio 1996. 35 Ead., Lettere politiche edite e inedite cit., p. 68. Italiani della letteratura: Ippolito Nievo
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Significativa appare, a mio avviso, all’interno di questo corpus, la lettera, datata Palermo, 28 marzo 1861, che Alfonso Hennequin inviò a Romeo Bozzetti,36 nell’imminenza del naufragio dell’Ercole: Il tristissimo soggetto di queste righe, già lo saprà: il nostro povero Amico Nievo non esiste più! […] Quando ci lasciò, il tempo era piuttosto buono, ma appena in alto mare, si levò un vento fortissimo che soffiò tutta la notte da Libeccio e Ponente e durò tutto l’indomani; si cambiò poi qui verso mezzogiorno in una fortissima burrasca da Tramontana e Maestro, cosicché per tutto quel tempo eravamo in pensiero per l’«Ercole». […] Tutto fa dunque supporre che quel vecchio vapore si sia aperto per la forza dell’acqua e che fosse colato a fondo con tutti quelli che vi erano! […] Le assicuro che questa sciagura non ci lascia più pace; […] perire di tale maniera, senza mai sapere, né come, né quando, senza speranza di dare riposo cristiano all’Amico morto è un pensiero che strazia l’anima. […] Io sentito che non vi era più speranza scrissi al Signor Novello in Genova, marito di sua cugina ed alla disgraziata Madre per comunicar loro quel terribile colpo e voglio sperare che l’ultima avesse bastante forza per non soccombere al suo giusto dolore.37
In pochi anni, Nievo aveva maturato una variegata esperienza in campo giornalistico. Aveva collaborato a periodici umoristico-letterari di Leone Fortis che, in seguito all’opprimente censura austriaca, ebbero vita breve; aveva scritto sulla «Lucciola» di Mantova fondata da Luigi Boldrini, sui periodici milanesi di Vincenzo De Castro, sulle riviste di Alessandro Lampugnani e di sua madre, Giuditta, dedicate ad un pubblico femminile e su altre testate venete e lombarde. Dalla feconda pratica come giornalista, egli aveva tratto la convinzione che la censura induceva il pubblico a captare le minime sottigliezze umoristiche, le piccole allusioni polemiche. Era consapevole che, soprattutto attraverso i giornali, la nuova classe politica avrebbe maturato le sue scelte; sapeva che nell’Italia Unita la stampa avrebbe svolto un’indispensabile funzione di promozione morale e civile, ma anche di critica dell’operato del governo: ecco perché, nella chiusa di alcune sue lettere politiche, si trova quell’accenno al «Tribunale dell’opinione pubblica» che egli non considerava una minaccia, bensì la misura dello stato di salute della democrazia. La spedizione in Sicilia, l’azione rapida e vittoriosa, l’incarico di amministratore, il ritorno nell’isola per recuperare la documentazione, infine l’ultimo viaggio, con-
36
Romeo Bozzetti (Castelverde, 25 febbraio 1835-1907) è stato un patriota e generale italiano. Partì per Genova il 5 maggio con una settantina di volontari, tra cui Nievo, Richiedei e Uziel. I quattro diventarono inseparabili compagni. Partecipò a tutta la campagna di liberazione, ritornò poi a Milano ed entrò nell’Esercito regolare svolgendo la carriera militare. Pluridecorato, si congedò col grado di Tenente Generale. 37 F. Samaritani (a cura di), Lettere politiche edite e inedite cit., p. 70. VII. Italiani della letteratura
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clusosi tragicamente, esplicitano un’esistenza condotta all’insegna dell’azione. Dal «poeta soldato» di Dino Mantovani, all’uomo d’armi e di penna dei critici della stagione politico-risorgimentale fino all’immagine a tutto tondo proposta da Marcella Gorra, l’idea di una composizione equilibrata tra autobiografia e produzione letteraria sembra aver raggiunto un punto d’incontro e di fusione. Tuttavia gli ultimi scritti di Nievo – Il diario della spedizione dal 5 al 28 maggio e Le lettere siciliane – appaiono contraddire quanto sopra asserito e proiettare la figura nieviana in un nuovo orizzonte, in cui la fede risorgimentale non è più sorretta da alcuna certezza attuativa: essa, infatti, sembra assumere i connotati della visione del marinaio protagonista di una delle pagine più esemplificative delle Confessioni, il quale pur avendo come guida le stelle non dispone di un porto quale approdo: Si armi di costanza e di rassegnazione il piloto per trovare un porto in quel pelago vorticoso e sconvolto; alzi sempre gli occhi al cielo, ed anche traverso alle nuvole e al velo luttuoso della procella traveda sempre colla mente lo splendor delle stelle. Passano le navi, ora calme e leggiere come cigni sull’onda d’un lago, or risospinte ed agitate come stormo di pellicani tra il contrario azzuffarsi dei venti; sorgono i flutti minacciosi al cielo, si sprofondano quasi a squarciare le viscere della terra, e si stendono poi graziosi e tremolanti all’occhio del sole, come serico manto sulle spalle d’una regina.38
Per concludere questo viaggio nella narrativa e nella personalità di Nievo, riporto un ulteriore passo tratto dal Frammento, il quale mi sembra sintetizzare significativamente l’ideologia politico-sociale dello scrittore: «Primo bisogno […], urgentissimo, di oggi non di domani, […] è […] la fusione del volgo campagnolo nel gran partito liberale. Prima condizione per ottener ciò è l’educazione. Prima condizione per render l’educazione possibile è l’alleviamento della sua miseria, e il retto soddisfacimento dei bisogni».39
38 39
I. Nievo, Le Confessioni cit., p. 595. Id., Frammento cit., p. 77.
Italiani della letteratura: Ippolito Nievo
GIANCARLO CARPI La prosopopea della Nazione: i luoghi d’Italia nelle ‘Confessioni’
Come è noto oltre che alla costruzione del discorso allegorico «Le figure della personificazione, […] [possono servire a] generare nuovi significati attraverso un processo di defamiliarizzazione, in virtù degli effetti di straniamento che derivano dall’arbitrarietà artificiosa alla base della combinazione tra personificante e personificato».1 Cercheremo di verificare se nelle Confessioni d’un Italiano può essere individuato un legame non episodico tra questa proprietà della personificazione e alcune entità geografiche o politiche rappresentative della storia italiana, in altre parole, se Nievo vi abbia fatto ricorso per esprimere il proprio sentimento nazionale. È interessante muovere da una riflessione di Nievo contenuta nel Novelliere campagnolo, da La pieve di Rosa, Storia di un villaggio: Nazioni, territori, città, paesi, villaggi hanno tutti una loro singolare figura di gaiezza, di mestizia, di operosità, e di pace come l’hanno le persone; e tutti pure corrono una loro speciale ventura attraverso quel viluppo di casi, che quaggiù diciamo viluppo, ma che è forse agli occhi della Provvidenza ordinamento continuo a lontana armonia. Noi animette solitarie pigionali d’un meschino corpicciuolo, confittevi entro o per prova o per penitenza, o per ammaestramento o per sovescio di future generazioni terminiamo l’orbita nostra in brevissimo giro com’è dei pianeti più piccoli e prossimi al sole. I popoli, esseri molteplici impersonazioni di miglioni e miglioni di anime compiono in lenti secoli la loro vece come astri più grandi e lontani; ma tra i minimi e i massimi tra l’uomo e la società, sono altri esseri mezzani che s’informano d’eguale destino; e mentre le popolose città idoleggiano le larghe fasi nazionali, i paesi e i villaggi all’incontro s’accostano alle più meschine ragioni della vita umana sicché spesso avviene, che il
1 M. Ceccagnoli, “Necrofilia” e prosopopea della materia: la personificazione in Marinetti, «Annali d’Italianistica», 27, 2009, edited by F. Luisetti e L. Somigli, pp. 309-331: 322.
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figlio o il nipote di chi li vide nascere e ingrossarsi sia spettatore dello scadimento loro e talvolta perfin della fine.2
Questa analogia tra gli uomini e le entità geopolitiche a mio parere può essere considerata una chiave di lettura del complesso sistema di personificazioni di quelle entità nelle Confessioni. Nella fattispecie cercheremo di verificare se i diversi livelli di astrazione nei quali sono suddivise le entità territoriali e geopolitiche corrispondano a scostamenti, nell’effetto della personificazione, dalla costruzione allegorica e dagli allegorismi. Si prenda come primo esempio un’entità geopolitica massima, l’Europa: Tutta Europa applaudiva all’eroiche vittorie della Grecia: come gli spettatori del circo che sicuri dai loro scanni battevano le mani al bestiario, che usciva vincitore dal contemporaneo assalto d’un leone e di due tigri.3
Si noti che la similitudine dell’Europa con gli spettatori si sviluppa poi in un sistema figurale consolidato, la similitudine del circo e della tigre, infatti una similitudine con la tigre altrove era dedicata alla Francia: la Francia si ristringeva in sè, come la tigre per uno slancio più fiero.4
Consideriamo ora entità geopolitiche minori dell’Europa, come gli stati. Prestando particolarmente attenzione al caso della Francia, una delle entità geopolitiche personificate più volte nel romanzo. Al di là dei singoli passi si noti che l’omissione dell’articolo davanti al nome, caratteristico come affermato da Pier Vincenzo Mengaldo, dello «[…] stile storico sostenuto […]»5 è particolarmente ricorrente per questa nazione, e tende a sottrarla a quella dimensione peritura e umana che Nievo assegnava ai paesi. Si considerino le personificazioni, poche di esse implicano un legame innaturale tra personificante e personificato. Nel primo caso, ad esempio, la personificazione scivola in un allegorismo basato sul campo semico del fuoco: Francia aveva decapitato un Re e abolito la monarchia: il muggito interno del vulcano annunziava prossima un’eruzione: tutti i vecchi governi si guardavano spaventati, e avventavano a precipizio i loro eserciti per sopire l’incendio nel suo nascere: non combattevano più a vendetta del sangue reale ma a propria salute.6
2
I. Nievo, Novelliere campagnolo, a cura di I. De Luca, Torino, Einaudi 1956, p. 659. Id., Le Confessioni d’un Italiano, a cura di S. Casini, Parma, Fondazione Pietro Bembo/Guanda 1999, vol. II, p. 1358. 4 I. Nievo, Le Confessioni d’un Italiano, vol. I, cit., p. 580. 5 P. V. Mengaldo, L’epistolario di Nievo: un’analisi linguistica, Bologna, Il Mulino 1987, p. 82. 6 Ivi. pp. 495-6. 3
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Ed è opportuno analizzare un’altra personificazione dell’Europa, che segue di poche righe quella che abbiamo appena letto. Si noterà che l’ipostasi è accentuata, ma che, tuttavia, l’immagine prosegue l’allegorismo precedente – anche tramite la ricorrenza dell’aggettivo «vecchio» –. la vecchia Europa destata nel suo sonno quasi da un fantasma sanguinoso, si dibatteva da un capo all’altro per scongiurarlo.7
Consideriamo le altre personificazioni della Francia: Credete anche voi, come i gazzettieri di Germania, che la Francia sia esausta, discorde e che si lascierà mettere i piedi sul collo dal primo venuto!…8 La Francia consentiva pel trattato di Campoformio che gli Imperiali occupassero Venezia e gli stati di Levante e di terraferma fino all’Adige. Per sè teneva i Paesi-Bassi Austriaci, e per la Repubblica Cisalpina le provincie della Lombardia Veneta.9 e d’altronde si stimava impossibile che la Francia dopo aver donato la libertà a provincie serve e dapprima indifferenti, volesse negarla a chi l’aveva sempre posseduta, e mostrato fino all’estremo di averla carissima.10
Francia pesava addosso come qualunque altra dominazione.11 Mi si graziava sì, ma relegandomi fuori d’Italia; e potete credere che cacciato di lì, nè Francia nè Spagna sarebbero state disposte ad aprirmi le braccia.12
Infine si noti questo passo che pur non essendo una personificazione strictu sensu può essere considerato un momento di instabilità semantica – Francia > Repubblica – interessante poiché paragonabile ad altri dove il sostantivo repubblica sarà collegato all’Italia. dalla Francia mutata improvvisamente in Repubblica soffiava un vento pieno di speranza.13
Si prendano ora ad esempio le entità geografiche minori degli stati iniziando da una personificazione che raggruppa città diverse.
7
Ivi, p. 496. Ivi, p. 587. 9 Ivi, p. 812. 10 I. Nievo, Le Confessioni d’un Italiano, vol. II cit., p. 936. 11 Ivi, p. 1211. 12 Ivi, p. 1268. 13 Ivi, p. 1438. 8
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Sicilia è la Toscana della Bassa Italia; per questo appunto non si marita bene a Napoli rozzo, manesco, millantatore. Saranno sempre gelosie ove non sarà uguaglianza; e checchè ne dicano del nostro municipalismo, anche Marsiglia in Francia sbufferebbe di esser sottoposta a Lione, come sbuffò per secoli Edimburgo di assoggettarsi a Londra: forse sbuffa tuttora.14
Non credo si possa parlare di discorso allegorico per questo gruppo di personificazioni, soprattutto per quanto riguarda Marsiglia ed Edimburgo, il cui predicato, umanizzante, oltre ad essere piuttosto bizzarro, e a costringere in un legame innaturale personificante e personificato, «sbuffare», non è seguito da una similitudine, mentre al predicato umanizzante, «applaudire», nella personificazione dell’«Europa» seguiva una similitudine. Tra le altre città personificate nelle Confessioni consideriamo due esempi, Roma e Venezia. Quanto a Roma si noti che la personificazione a volte dà luogo a semplici allegorie che raccolgono la dimensione imperitura della Roma antica, e che a volte il discorso assume il carattere della «perorazione oratoria», come osservato da Bruno Falcetto. La funzione di «emblema dell’idea di nazione»15 che è di Roma e che Nievo ha voluto affermare non ha permesso in questo caso una espressione originale del sentimento nazionale dell’autore: Sparta, la domatrice degli uomini, e Roma, la regina del mondo, educavano dalla culla il guerriero e il cittadino: perciò ebbero popoli di cittadini e di guerrieri.16 Roma già consumata dal trattato di Tolentino, fu del tutto spogliata per la presenza dei Repubblicani.17 Eccoci finalmente a Roma. Io ne avevo una voglia che non ne poteva più. Sentiva che Roma solamente avrebbe potuto farmi dimenticar la Pisana.18 Roma mi ajutava a vincer la prova. Roma è il nodo gordiano dei nostri destini, Roma è il simbolo grandioso e multiforme della nostra schiatta, Roma è la nostra arca di salvazione, che colla sua luce snebbia d’improvviso tutte le storte e confuse immaginazioni degli italiani. […] Roma è la lupa che ci nutre delle sue mammelle; e chi non bevve di quel latte, non se ne intende.19
14
Ivi, p. 1258. B. Falcetto, L’esemplarità imperfetta. Le ‘Confessioni’ di Ippolito Nievo, Venezia, Marsilio 1998, p. 84. 16 I. Nievo, Le Confessioni d’un Italiano, vol. I cit., p. 225. 17 Ivi, vol. II, p. 976. 18 Ivi, pp. 1005-1006. 19 Ivi, pp. 1006-1007. 15
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– Come se Roma avesse temuto della dittatura di Fabio, quando solo ei restava a difenderla contro il vincitore Cartaginese! –.20 Città eterna! Spettro immenso e terribile! Gloria, castigo, speranza d’Italia! Innanzi a te tacciono le ire fraterne, come dinanzi alla giustizia onnipotente. Tu sollevi la voce, e tacciano intenti i popoli dalle nevi dell’Alpi alle marine dell’Ionio. Arbitra sei del passato e del futuro. Il presente s’interpone come un punto, nel quale tu non puoi capire con tanta mole di memorie e di speranze. Oggi, oggi stesso un grande nome risorse dall’obblio dei secoli; e l’Europa miscredente e contraria non avrà coraggio di ripeterlo col solito ghigno: lo spirito trabocca dalle parole, sia rispetto o paura egli vi costringerà, tutti quanti siete, a pronunciarle con labbra tremanti.21
Si consideri il prossimo passo, in esso il fare antropomorfico della città è sanzionato negativamente e può essere interpretato come una conferma della gerarchia alla quale abbiamo fatto riferimento: Venezia, come ebbi campo a dire in addietro, rimase una città del Medio Evo colle apparenze d’uno Stato Moderno. Ma le apparenze non durano a lungo; e poichè non aveva voluto o potuto diventar nazione, le convenne per forza scadere alla condizione di semplice città.22
Anche il passo seguente conferma la gerarchia indicata da Nievo: Il commercio languente, la nessuna cura degli armamenti navali riducevano Venezia una cittaduzza di Provincia.23
Di seguito le altre personificazioni di Venezia, quasi tutte disforiche: La concordia degli inetti sarebbe buona da farne un boccone, come fece di Venezia il caporalino di Arcole.24 Venezia era una famiglia cosifatta.25 L’ultimo Doge salì il soglio di Dandolo e di Foscari nei giorni del digiuno; ma Venezia ignorava allora qual penitenza le fosse preparata.26
20
Ivi, p. 1055. Ivi, p. 1479. 22 Ivi, p. 1344. 23 Ivi, p. 1212. 24 Ivi, vol. I. p. 105. 25 Ivi, p. 374. 26 Ivi, p. 377. 21
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Venezia ancor deliberante, quando era tempo d’aver già fatto, s’appigliò per l’ultima volta alla neutralità disarmata.27 Turchi a Costantinopoli, Cristiani a San Marco, e mercanti dovunque aveano essi fatto di Venezia la mediatrice dei due mondi d’allora.28 […] e Buonaparte aveva ragione e Venezia torto.29 Per Venezia infatti se non il più grosso erano certo il male più nuovo ed imminente.30 Venezia tutta silenziosa e tremante aspettava sulla soglia del palazzo la gran novella dell’ubbidienza o del rifiuto.31 Venezia rimase sola colla sua libertà di falso conio.32 Venezia si destò raccappricciando dalla sua letargia, come quei moribondi che rinvengono la chiarezza della mente all’estremo momento dell’agonia.33 Così adoperarono coloro verso Venezia che avea difeso per tanti secoli tutta la Cristianità dalla barbarie Mussulmana.34 Udii la maggior parte essere propensa a cercar ricovero nel territorio della Cisalpina, ove sarebbe sempre durata qualche speranza per Venezia; […].35 Venezia mi pare un sepolcro dove ci frugano i becchini per ispogliare un cadavere; […].36 Fortuna che l’armigero e fedele Piemonte non somigliava per nulla la sonnacchiosa Venezia; […].37 Ricordati di Venezia… e se puoi rivederla grande, signora di sè e del mare… cinta da una selva di navi, e da un’aureola di gloria. Figlio mio, che il cielo ti benedica!38
27
Ivi, p. 640. Ivi, p. 686. 29 Ivi, p. 698. 30 Ivi, p. 704. 31 Ivi, p. 731. 32 Ivi, p. 754. 33 Ivi, p. 812. 34 Ivi, p. 815. 35 Ivi, p. 816. 36 Ivi, vol. II, p. 863. 37 Ivi, p. 961. 38 Ivi, p. 1067. 28
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Vedere quandocchesia la mia Venezia armata di forza propria, e assennata dalla nuova esperienza riprendere il suo posto fra le genti italiche al gran consesso dei popoli, era il mio voto la fede di tutti i giorni.39 Se la Repubblica di San Marco fosse entrata a parte vigorosamente e constantemente nella vita italiana durante il Medio Evo, forse allo scadere de’ suoi commerci avrebbe trovato nell’allargamento in terraferma un nuovo fomite di prosperità. Invece nelle provincie italiane ella comparve ancora più da commerciante che da governatrice; non erano membra integranti del suo corpo, ma colonie destinate a nutrire il patriziato regnante.40 Venezia in quei primi rivolgimenti che le tolsero ogni appiglio in terraferma, chiudendole piucchè mai le vie già insuete del mare, rimase a dir poco in fil di morte.41 Venezia si chiudeva melanconica e dolorosa fra le sue moli marmoree, come il principe scaduto che si rassegna a morire d’inedia per non tender la mano.42 e la fine strozzata di quella lotta titanica confermò se non altro la nullità politica di Venezia, e che l’Europa non abbisognava omai d’alcun freno contro i Turchi, e che se anco ne abbisognasse frenarli certamente non toccava a lei, allora essa cominciò a stimarsi non quello che avrebbe voluto essere ma quello che era veramente.43 Venezia si ritrasse ultima dal campo delle battaglie italiane, e come disse Dante «A guisa di leon quando si posa».44
Si noti infine l’affinità tra una personificazione della Francia e una personificazione di Venezia, organizzate entrambi come estensioni, pur se in un ordine di grandezza personale e privato quella di Venezia. Una sorta di stilema che associa affettivamente le due entità geopolitiche: Credete anche voi, come i gazzettieri di Germania, che la Francia sia esausta, discorde e che si lascierà mettere i piedi sul collo dal primo venuto!… Guardatemi in viso ancora!… Io non sono che un medico, ma vi garantisco che ci vedo più lungi assai di tutti questi politiconi in toga e parrucca. La Francia omai non è più solamente in Francia; è in Svizzera, è nell’Olanda, è in Germania, è in Piemonte, è a Napoli, è a Roma, e qui! [a Venezia].45
39
Ivi, pp. 1148-1149. Ivi, pp. 1342-1343. 41 Ivi, p. 1344. 42 Ivi, pp. 1344-45. 43 Ivi, p. 1346. 44 Ivi, p. 1459. 45 Ivi, vol. I, p. 587. 40
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Pure Venezia è tanto in Francia ed in Svizzera come nel Mato-grosso, ma sembra che l’aria ci porti più facilmente qualche sospiro dei nostri cari.46
Si noti, nella categoria ancora inferiore, quella dei paesi e delle cittadine, l’abbondanza di caratterizzazioni disforiche e concrete. Prendiamo ad esempio la descrizione di Velletri, che sembra rappresentare quella condizione umana e materiale che Nievo ipotizzava fosse caratteristica delle entità geopolitiche minori. Si ricordi questo passo: «Noi animette solitarie pigionali d’un meschino corpicciuolo, confittevi entro o per prova o per penitenza, o per ammaestramento o per sovescio di future generazioni terminiamo l’orbita nostra in brevissimo giro com’è dei pianeti più piccoli e prossimi al sole». Il peggio poi si fu, che volendo egli se non poteva assaltar Napoli, accostarsi almeno al confine Napoletano, tolse la sua legione e me con essa da Castel S. Angelo e ci mandò a stanziare a Velletri, una cittaduzza campagnuola, quali se ne vedono tante nella Campagna di Roma, pittoresca di fuori, orribile sozza puzzolente di dentro: piena il giorno d’aratri, di carri, di mandre di buoi e di cavalli che vengono e vanno; la notte ricreata dal muggir delle vacche, dal canto dei galli, e dalle campanelle dei conventi. Un vero sito da ficcarvisi un poveruomo per guarirlo dalla malattia dei bei paesi e dei larghi orizzonti.47
Interessante anche la descrizione della «provincia», in questa personificazione disforica di un carattere della Provincia: La città dà mano alla villa e la villa alla città: belle case, bei giardini, e grandi commodi senza le stiracchiature di quel lusso provinciale che dice: rispettatemi perché costo troppo e devo durare assai!48
Per inciso si noti il trattamento retorico di due entità geografiche: la caratterizzazione disforica delle personificazioni di due fiumi caratteristici di due città, Firenze e Londra: A Firenze tutto mi piacque meno l’Arno, che per avere così bel nome, è molto piccolo fiume. Però giustizia vuole si osservi che tutti i fiumi soffrono dal più al meno un tal calo sopra i meriti decretati loro dalla fama. Io trovai soltanto il Tamigi che attenesse la promessa; ed anco fui avvilito di vederlo andar a ritroso ad un minimo buffo d’aria. Per un così immenso fiume l’è invero arrendevolezza schifosa!49
46
Ivi, vol. II, pp. 1496-1497. Ivi, p. 1015. 48 Ivi, p. 1137. 49 Ivi, pp. 1003-1004. 47
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La partizione teorica proposta da Nievo sembra dunque indicare, riguardo alla figura retorica della personificazione e alle entità geopolitiche minime, non tanto una maggiore ricorrenza nell’uso della figura retorica, quanto una maggiore ricerca di effetti grotteschi e defamiliarizzanti. A conferma di questa ipotesi si considerino le personificazioni di entità politiche e territoriali designate dal sostantivo «repubblica». Questa categoria di personificazioni viene a incarnare più delle categorie riguardanti i paesi, le città e i popoli, una dimensione di instabilità e di incompletezza, rappresentando la trasformazione geopolitica dell’Italia durante il periodo napoleonico e il Risorgimento. Detto altrimenti le personificazioni che implicano il sostantivo «repubblica» esprimono singolarmente, attraverso la categoria del grottesco, quel «viluppo dei casi» che le altre categorie costituirebbero tutte insieme. D’altra parte la dimensione di instabilità, di provvisorietà e di incompletezza delle personificazioni con il sostantivo «repubblica» sembra essere connessa, mostrare una analogia con quella generata dall’altro polo tematico del romanzo: lo sviluppo interiore distorto e incompleto dei bambini che vivono l’infanzia nello stato di natura. Credo si possa fare riferimento, in un caso come nell’altro, a una dimessone idilliaco grottesca, a quella «[…] inventività nella formazione, e deformazione, verbale […] sotto il segno, a voler semplificare, della morbidezza «idillica» da una parte, della caricatura e iperbole dall’altra, con le varie transizioni e sovrapposizioni tra queste due zone».50 Si considerino questi esempi e in particolare quelli riguardanti la Repubblica Cisalpina: Da ciò la tolleranza dei vecchi ordinamenti feudali; la quale si perpetuò come tutto si perpetuava in quel corpo già infermo e paludoso della Repubblica.51 Già da più che sei mesi Modena Bologna e Ferrara aveano dato l’esempio d’una servile imitazione di Francia dietro eccitamenti Francesi: avevano improvvisato come una bolla di sapone la Repubblica Cispadana.52 Per quelle monache, quasi tutte patrizie, Repubblica di San Marco e Religione cristiana formavano un solo impasto.53 Invece fra tanta calma di cielo e di terra, in un incanto sì poetico di vita e di primavera una gran Repubblica si sfasciava, come un corpo marcio di scorbuto; moriva una gran regina di quattordici secoli, senza lagrime, senza dignità, senza funerali.54
50
P. V. Mengaldo, L’epistolario di Nievo cit., p. 263. I. Nievo, Le Confessioni d’un Italiano, vol. I cit., p. 57. 52 Ivi, p. 694. 53 Ivi, p. 703. 54 Ivi, p. 741. 51
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Egli aveva già rimpastato intorno a Milano la Repubblica Cisalpina, minaccia piucchè promessa alla sempre provvisoria Municipalità di Venezia.55 Infatti il mattino appresso traversando il lago, e i giorni seguenti viaggiando pei neonati dipartimenti della Repubblica Cisalpina ella fu così serena e composta che me ne stupiva sempre.56 A gran fatica potei condurla in un altro canto dove si raccoglieva una gran turba femminile, la più molesta e ciarliera che avesse mai empito un mercato. Era una vera repubblica anzi un’anarchia di cervelli leggieri e svampati; per me non conosco essere che dica tante bestialità quanto una donna politica. Giudicatene da quanto ne udii allora! […]. Tutte quelle gole infaticabili si unirono allora a quel grido frenetico. Viva la Repubblica!… Viva Buonaparte!… Viva la Repubblica Cisalpina!… – Ehi! chiese timidamente alle compagne quella che voleva vestir di Scarlatto il Direttorio. – Sapresti dirmi dov’è e cos’è questa Repubblica?… Io non la vedo… È forse come Maria Teresa che stava sempre a Vienna e ci mandava qui un sotto-cuoco! – Morte al Governatore! gridò l’altra per purificarsi intanto le orecchie dalle memorie servili richiamatele dalla compagna. Indi si mise a darle un’idea chiara di quel che fosse Repubblica, accertandola ch’essa era come una padrona che non si prende cura di nulla, che vive e lascia vivere, e non fa lavorare la povera gente a profitto dei ricchi. – Vedi, soggiungeva essa. – La Repubblica c’è ma nessuno l’ha mai veduta; così non se ne prendono soggezione, e ciascuno può gridare fare girare strepitare a sua posta; come se non ci fosse nessuno. – Eh cosa dite mai che non c’è nessuno? S’intromise con una vociaccia arrocata dal gran gridare la Lucrezia. – Non vedete che ci sono i Francesi ed anco i Cisalpini!… – Giust’appunto, tornò a chiedere la prima – cosa vuol dire questa Cisalpina? – Caspita! è un nome come Teresina, Giuseppina e tanti altri. – No, no ve lo dirò io cosa vuol dire! soggiunse la Lucrezia – costei non ne sa proprio nulla.57 Aveva intanto stuzzicato la rintonacata Repubblica Ligure a movergli guerra, e vietato a lui di difendersi; […].58
Qui con una citazione dalla Vita di Ugo Foscolo di Giuseppe Pecchio:
55
Ivi, pp. 784-785. Ivi, vol. II, p. 932. 57 Ivi, pp. 938-940. 58 Ivi, p. 961. 56
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Io stesso vidi alcuna volta il cadente abate e il giovine impetuoso seder vicini sotto un albero nel sobborgo fuor di Porta Orientale. Li raggiungeva e piangevamo insieme le cose, ahi, tanto minori dei nomi!… Ben era quel Parini che richiesto di gridare Viva la Repubblica e muojano i tiranni! rispose – Viva la Repubblica e morte a nessuno! […].59 La Repubblica Romana era ita a soqquadro come un edificio di carte da giuoco: si stabiliva sotto il patrocinio del Re un Governo Provvisorio.60 […] e dopo diciassette giorni di catalessia risorgeva la Repubblica Romana alla sua misera vita.61 Sorse una nuova Repubblica Partenopea; insigne per una singolare onestà fortezza e sapienza dei capi, compassionevole per l’anarchia per le passioni spietate e perverse che la dilaniarono, sventurata e mirabile per la tragica fine.62 A voler narrare senza date la Storia della Repubblica Partenopea ognuno, credo, immaginerebbe che comprendesse il giro di molti anni; e furono pochi mesi! Gli uomini empiono il tempo, e le grandi opere lo allargano. Il secolo in cui nacque Dante è più lungo di tutti i quattrocento anni che corsero poi fino alla guerra della successione di Spagna. Certo fra tutte le Repubblichette che pullularono in Italia al fecondo alito della Francese, Cispadana, Cisalpina, Ligure, Anconitana, Romana, Partenopea, quest’ultima fu la più splendida per virtù e fatti repubblicani.63 […]; credeva riconoscerne i segnali in quel nuovo battesimo dato alla Repubblica Cisalpina che presagiva nuovi ed altissimi destini.64 Quando arrivò la notizia del mutamento della Repubblica in un Regno d’Italia presi le poche robe, i pochi scudi che aveva andai difilato a Milano, e diedi la mia dimissione.65 Se la Repubblica di San Marco fosse entrata a parte vigorosamente e constantemente nella vita italiana durante il Medio Evo, forse allo scadere de’ suoi commerci avrebbe trovato nell’allargamento in terraferma un nuovo fomite di prosperità. Invece nelle provincie italiane ella comparve ancora più da commerciante che da governatrice; non
59
Ivi, pp. 980-981. Ivi, p. 1040. 61 Ivi, p. 1042. 62 Ivi, p. 1004. 63 Ivi, pp. 1083-84. 64 Ivi, p. 1149. 65 Ivi, pp. 1150-1151. 60
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erano membra integranti del suo corpo, ma colonie destinate a nutrire il patriziato regnante, spoglio dei soliti mezzi di alimentare la propria ricchezza.66 dalla Francia mutata improvvisamente in Repubblica soffiava un vento pieno di speranza.67
Tenendo conto di quanto detto è interessante considerare le personificazioni dell’Italia. Si noterà che alcune di esse sono connotate dalla stessa dimensione di incompletezza che caratterizza molte delle personificazioni di «Repubblica». Secondo la partizione teorica di Nievo l’Italia apparterrebbe alla categoria delle personificazioni più stabili, che il più delle volte si risolvono in raffigurazioni allegoriche; e va certo detto che per Nievo nel nome Italia è implicita una dimensione territoriale unitaria anche se nella realtà storica e narrativa quella dimensione era assente. Si noti, per esempio, che per tre volte ricorre il sintagma «parte d’Italia». D’altronde, l’Italia nel romanzo è anche un’entità che si incarna in ordinamenti politici differenti, Repubblica, Regno, modificandosi per estensione, al fine di costituirsi non di espandersi. È allora interessante che la personificazione grottesca, che stringe nell’impossibilità naturale personificante e personificato, strumento privilegiato da Nievo per esprimere la propria riflessione sui guasti della diseducazione infantile, serva a rappresentare l’Italia piuttosto che le alte nazioni. A volte Nievo rappresenta l’Italia sottraendola alla stabilità figurativa che le spetterebbe in quanto nazione, ma in questo modo la rappresenta come una entità personificata più viva delle altre, capace di maggiore escursione semantica, e di suscitare, in quel momento, attraverso la categoria del grottesco, l’affetto del lettore. Allora infatti l’Italia era forse ai primordii della sua terza vita; primordii ignari e sconvolti come i primi passi d’un bambino.68
Si noti in questa personificazione l’effetto grottesco causato dalla impossibilità naturale in cui si trovano riuniti personificante e personificato: L’Italia, tutta in suo pugno sbocconcellata a capriccio, aveva tuttavia ritto a Milano lo stendardo dell’unità.69
Particolarmente interessante la relazione di continuità tra la Repubblica Cisalpina e la Repubblica Italiana, in quanto la prima era stata presentata al lettore,
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Ivi, pp. 1342-1343. Ivi, p. 1438. 68 Ivi, p. 1002. 69 Ivi, p. 1229. 67
VII. Italiani della letteratura
I luoghi d’Italia nelle ‘Confessioni’
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attraverso il tentativo di definizione delle popolane, come un significante cangiante, che per di più tornava ad avere senso attraverso l’accostamento con alcuni diminutivi, Teresina, Giuseppina. In sintesi il momento in cui la parola tornava ad avere senso veniva a coincidere con una connotazione affettuosa. In quella s’era adunata la Consulta di Lione pel riordinamento della Cisalpina, la quale ne uscì col battesimo d’Italiana, ma riordinata per bene, cioè secondo i nuovi disegni di Bonaparte, Primo console che ne fu eletto Presidente per dieci anni.70
Ad un livello di evidenza più basso, si noti, in due personificazioni di carattere allegorico, l’insistenza sull’aspetto materiale della personificazione. Nel primo caso «viscere», nel secondo caso l’ipostasi causata da «sommuoverne», nel terzo caso, «insudiciava»: L’Italia per due volte sorpassò l’Oriente e prevenne il Settentrione; per due volte fu maestra e regina al mondo; miracolo di fecondità, di potenza e di sventura. Ella rimugge ancora nelle viscere profonde; senza rispetto agli epicedi di Lamartine, e alla sfiducia dei pessimisti, ella può un giorno raggiungere chi sta dinanzi d’un passo, e si crede innanzi le mille miglia.71 e a quel tempo invece le braccia di Napoleone s’allargavano per mezza Europa e per tutta Italia a sommoverne a risvegliarne le assopite forze vitali.72 Tutta Italia s’insudiciava i ginocchi dietro le orme trionfali di Bonaparte ed egli ingannava questi sbeffeggiava quelli con alleanze con lusinghe con mezzi termini.73
In conclusione, se può essere trovato un nesso profondo tra il trattamento narrativo che Nievo ha riservato alla protagonista di uno dei due motivi principali del romanzo, l’amore, e direi l’amore infantile, cioè Pisana, e la protagonista dell’altro, il sentimento risorgimentale, cioè l’Italia, credo possa essere proprio nell’adozione di personificazioni e metafore defamiliarizzanti, che ridefinendo figurativamente l’oggetto in una dimensione grottesca ne attestano la maggiore vitalità e, altresì, suscitano affetto nel lettore.
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Ivi, p. 1131-1132. Ivi, p. 1254. 72 Ivi, p. 1147. 73 Ivi, vol. I cit., p. 694. 71
Italiani della letteratura: Ippolito Nievo
ROSA MARIA MONASTRA Spartaco nel Risorgimento. A proposito di una tragedia di Ippolito Nievo
Com’è noto, nel mondo antico – dall’età cesariana alla tarda latinità – il bellum spartacium alimentò una tradizione duplice, in parte ostile e in parte invece favorevole.1 Ma la vera e propria idealizzazione del personaggio, la rielaborazione delle sue vicende in senso universale e metastorico, è caratteristica solo della letteratura moderna e contemporanea. Il suo punto di partenza si può individuare in una tragedia del 1760, lo Spartacus di Bernard-Joseph Saurin: una tragedia che ebbe una grande risonanza, anche perché il contesto culturale illuminista era atto a valorizzarne le istanze antischiavistiche e antitiranniche. Non a caso essa suscitò il plauso di Voltaire e fu acclusa da Lessing alla documentazione che avrebbe dovuto servirgli per cimentarsi sullo stesso tema.2 Per la verità una prima apparizione di Spartaco sulle scene era già avvenuta qualche decennio prima, nel 1726, a Vienna, ma con un’impostazione fortemente negativa (oltre che dichiaratamente fantasiosa): l’opera musicale a lui intitolata dall’abate Giovan Claudio Pasquini e dal maestro Giuseppe Porsile3 lo ritraeva infatti
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Per una panoramica complessiva cfr. G. Stampacchia, La tradizione della guerra di Spartaco da Sallustio a Orosio, Pisa, Giardini 1976, partic. pp. 108 ss. 2 Oltre a complimentarsi per lettera con l’autore, Voltaire ne citò elogiativamente la tragedia nelle V parte delle Questions sur L’Encyclopédie (s.l. e s.i.t. ma Genève, Cramer, 1771, p. 37) dicendola «composée par un Français qui pense profondément». L’apprezzamento riguardava il modo di affrontare la realtà tremenda della guerra, e in particolare la sorte dei vinti. Più avanti, alla voce Esclaves, così Voltaire si pronunciava riguardo al bellum spartacium: «Il faut avouer que de toutes les guerres, celle de Spartacus est la plus juste, et peut-être la seule juste» (ivi, p. 294). Per quanto riguarda Lessing cfr. infra, nota 5. 3 Spartaco. Dramma per musica da rappresentarsi nell’Imperial Corte per comando augustissimo nel carnevale dell’anno MDCCXXVI. La Poesia è del Sig. Abate Giovan Claudio Pasquini. La Musica è del Sig. Giuseppe Porsile, Vienna, appresso Gio. Pietro Van Ghelen, Stampatore di Corte. All’iniItaliani della letteratura: Ippolito Nievo
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come uno sbruffone stoltamente invaghito di una giovane romana, tanto sicuro di sé da lasciarsi sconfiggere con facilità, alla fine addirittura letteralmente fuori di senno («il poverello / dato ha di volta a quel suo gran cervello»). I pochi tratti di tono elevato presenti nel libretto erano riservati quasi interamente al figlio di Crasso, Licinio; per il resto abbondavano i momenti comici, nei quali sostanzialmente veniva confinato lo stesso protagonista per la sua dichiarata origine pastorale e per le sue velleitarie ambizioni. L’impostazione filoromana e aristocratica del testo, insomma, non gli concedeva nessuna chance: vanaglorioso con la nobile prigioniera Vetturia e villano con la «bifolca» moglie Rodope, deriso dall’una e dall’altra, egli non aveva nemmeno l’opportunità di riscattarsi morendo. Un atteggiamento ben diverso si nota invece nella pièce di Saurin.4 Certamente anche qui la figura dell’ex-gladiatore veniva disegnata con scarsissima aderenza alle fonti storiche: quel che conta però è che se ne avviava l’assunzione nell’aura di un’atemporale lotta contro la sopraffazione. Divenuto eroe tragico, Spartaco cambiava origini sociali e perfino etnia, acquisendo affidabilità non solo sul piano delle armi ma anche su quello privato degli affetti: «fils d’un chef de Germains, né d’illustres ancêtres», egli amava, riamato, Emilia, figlia di Crasso; alla fine, in una suprema gara di abnegazione, l’uno e l’altra si davano la morte col medesimo pugnale. Benché qua e là affiorasse un punto di vista avverso ai romani (capaci, «en brigands», di ogni crudeltà), d’altro canto, per rendere lo scontro più drammatico, Saurin faceva di Crasso la perfetta controparte di Spartaco: lo dipingeva infatti come un condottiero d’animo generoso e leale, desideroso solo di salvare la figlia e di riportare la repubblica alla passata, gloriosa morigeratezza. A un certo punto addirittura lo rappresentava in atto di offrire all’avversario la mano di Emilia e il laticlavio con la prospettiva di un impegno comune per il bene dell’umanità. Un Crasso storicamente più credibile, determinato a sedare la sollevazione servile principalmente per personali interessi economici nel settore, sembra venir fuori dagli appunti e frammenti di Lessing.5 In una delle pochissime scene abbozzate, questi metteva a fronte i due nemici in una sorta di colluttazione ironica che non aveva nulla a che vedere con la retorica della virtù messa in campo da Saurin. D’altra parte, pur mostrando, rispetto a Saurin, una assai maggiore attenzione verso la tradizione storiografica, si direbbe che tutto sommato egli intendesse
zio, l’Argomento dell’opera delinea sommariamente la vicenda storica, per concludere: «Questo è il fatto, che serve al Dramma di puro appoggio, mentre il viluppo del medesimo intieramente si finge». 4 Cfr. Répertoire générale du théatre français. Théatre du second ordre. Tragédies, V, Paris, Nicolle 1818, pp. 71-134. 5 Per il progetto di Lessing, la cui prima notizia è del dicembre 1770, cfr. G.E. Lessing, Werke, II: Trauerspiele. Nathan. Dramatische Fragmente, Kommentar G. Hillen, Texteredaktion M.E. Biener, München, Verlag 1971, pp. 574-577 (e si veda la nota alle pp. 788-789). VII. Italiani della letteratura
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mantenere il solito intreccio amoroso, visto che pensava di introdurre nel dramma un’immaginaria figlia di primo letto di Crasso, prigioniera di Spartaco. Quel che conta, comunque, è che era talmente schierato dalla parte degli schiavi da operare una precisa selezione: mentre accantonava Floro per la sua tendenziosità filoromana, si proponeva a sua volta – con una precisa scelta di campo – di eliminare o modificare gli episodi che potessero mettere in cattiva luce i ribelli. Non l’ideologia ma l’amore appare al centro dell’attenzione del giovane Grillparzer nel lungo frammento Spartakus datato 1811:6 ed è un amore che deborda dagli schemi classicisti per aggirarsi nei labirinti oscuri dell’anima. Quello di Spartaco per la figlia di Crasso (qui denominata Cornelia) non è un sentimento positivo, vitale, reso difficile o disperato dalla situazione storica: è una passione torbida, distruttiva, che stravolge l’eroe, lo strappa agli affetti di un tempo, lo estranea addirittura a se stesso e lo sprofonda in una melanconia funebre. Intanto, altrove, l’interesse per la tragedia di Saurin attingeva nuovi impulsi dalla diffusione del giacobinismo. In Italia, ai primi dell’Ottocento, se ne registra la prima (e unica) traduzione a opera di Filippo Merlo; e una sua palese influenza si può scorgere nello Spartaco di Francesco Bonaldi.7 Col romanticismo si andarono ponendo le condizioni per andare oltre l’astratto umanitarismo settecentesco: tolto di mezzo l’assillo delle unità aristoteliche, l’affresco poteva divenire più ampio e mosso, mentre le nuove motivazioni ideologicopolitiche adesso dovevano comunque fare i conti con una più stringente coscienza storica. Ciò non toglie, tuttavia, che in certi casi (soprattutto, com’è ovvio, in ambito melodrammatico) si potesse continuare a «romanzare» la figura di Spartaco attribuendogli rovelli e lacerazioni sentimentali. La cosa più rilevante, in ogni modo, è la progressiva diffusione del «mito», che all’inizio degli anni ’30 varcava l’Atlantico grazie a Robert Montgomery Bird (The Gladiator, 1831): in Inghilterra, dove già una giovanissima Susanna Strickland (poi sposata Moodie e emigrata in Canada), aveva composto un romanzo sull’argomento (Spartacus, 1823), si registrano almeno due tragedie, Spartacus or the Roman Gladiator di Jacob Jones (1837) e Freemen and Slaves di William Ball (1838); in Francia ricordiamo il tentativo di Eugène Hugo, lo Spartacus di Charles Beuzeville (1844), quello di Hippolyte Magen (1847) e il «poema drammatico» Les Esclaves di Edgar Quinet (1853); in Italia, oltre al progetto manzoniano, troviamo le tragedie di Ippolito D’Aste, Giulio Carcano e
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F. Grillparzer, Sämtliche Werke, herausgegeben von P. Frank und K. Pombacher, II: Dramen II. Jugenddramen. Dramatische Fragmente und Pläne, München, Carl Hanser 1961, pp. 90833. 7 Cfr. C. Emmi, Il mito di Spartaco nel teatro italiano del primo Ottocento, in Seneca e le radici della cultura moderna, «Chronos. Quaderni del Liceo classico Umberto I di Ragusa», n. 24, dicembre 2006, pp. 165-92. Italiani della letteratura: Ippolito Nievo
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Ippolito Nievo (su cui appunto ci soffermeremo), e inoltre un melodramma (I Gladiatori di Peruzzini e Foroni) e un frammento di melodramma (Spartaco di Felice Romani). Se poi allarghiamo il discorso ad altri testi di tema gladiatorio, non incentrati sulla figura di Spartaco ma da quest’ultima evidentemente sollecitati, possiamo aggiungere all’elenco (che peraltro non ha nessuna pretesa di completezza) Le Gladiateur di Alexandre Soumet e Gabrielle Altenheim (1841) e The Fechter von Ravenna di Friedrich Halm (1854). A fronte di tale fortuna, va osservato però che i progetti incompiuti e i testi non rappresentati e/o non pubblicati furono parecchi: a uno stadio più o meno avanzato di elaborazione si arrestarono – come si è detto – i piani di Hugo, Manzoni, Felice Romani; inediti, vivente l’autore, rimasero lo Spartaco di Ippolito D’Aste e quello di Nievo; mai rappresentati, per intenzione autoriale o per altra circostanza, furono la stessa tragedia di Nievo e quella di Carcano, nonché Les Esclaves di Edgar Quinet. Quanto alle opere andate in porto, sulla scena e/o in tipografia, non si può dire che vi siano state vere e proprie rivelazioni. A conti fatti, tra anni ’20 e anni ’50, la leggendaria immagine di Spartaco circolava nell’immaginario liberal-democratico forse più di quanto effettivamente riuscisse a incarnarsi in un grande, memorabile evento letterario. Uno studio comparato degli atteggiamenti rinvenibili nelle sue diverse acclimatazioni potrebbe riuscire assai produttivo. Qui guardiamo all’Italia; e allora dobbiamo fare una prima, forse ovvia ma essenziale osservazione: e cioè che l’attenzione nei confronti del bellum spartacium vi appare legata principalmente alla questione dell’indipendenza nazionale. Ciò premesso, possiamo provare a distinguere alcuni orientamenti utili a inquadrare lo Spartaco di Nievo. Attentissimo alle fonti e al dibattito interpretativo fu sicuramente Manzoni, il quale, preparandosi, dopo il Carmagnola e l’Adelchi, a una terza tragedia da intitolarsi appunto Spartaco, postillava nervosamente l’Histoire romaine di Rollin e con acribia filologica cercava di ricostruire le vicende della guerra servile comparando Plutarco, Appiano, Eutropio, i frammenti sallustiani editi da Nardini sulla base di De Brosses, Floro e il lavoro di Freinsheim sulle Epitomae liviane.8 Benché sommario, il suo progetto sembra chiarissimo nelle linee di fondo: il protagonista doveva configurarsi come apportatore di un nuovo ideale di giustizia, contro l’arroganza romana e contro la stessa primitiva barbarie della massa servile. Come il principe Adelchi si offriva vittima sacrificale in uno scontro che non lasciava spazio all’innocenza, così allo schiavo Spartaco toccava immolarsi in una lotta ormai degenera-
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A. Manzoni, Postille all’‘Histoire romaine’ di Charles Rollin, in Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, a cura di P. Treves, Milano-Napoli, Ricciardi 1962, pp. 609-651; Id., Tutte le opere, I, a cura di F. Ghisalberti, Milano, Mondadori 1957, pp. 783-96 (e si vedano le note del curatore alle pp. 1104-1114). VII. Italiani della letteratura
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ta in incontrollabili violenze facendo comunque splendere l’utopia di un diverso modo di stare nel mondo: l’utopia che sarebbe stata propria del messaggio evangelico. Ed è superfluo rimarcare in tutto questo l’intreccio tipicamente manzoniano tra progressismo liberale e pessimismo cattolico. Sul pathos dell’amore impossibile tendeva a imperniarsi invece, come si è accennato, l’approccio melodrammatico. I Gladiatori di Peruzzini e Foroni9 proponeva un terzetto di amanti eroici, tanto sublimi da archiviare anche il più piccolo sussulto di gelosia per affermarsi monumentalmente nella morte: Spartaco, la moglie Clodia e la romana Virginia concordemente affermavano la loro grandezza d’animo senza mai indietreggiare di fronte al cattivissimo Crasso. Quanto all’incompiuta opera di Felice Romani, non sappiamo quale avrebbe potuto esserne lo sviluppo, ma certo, per quel tanto che possiamo vedere, essa doveva subordinare i riferimenti storici a un fittizio conflitto passionale: nelle scene iniziali infatti il protagonista appare dilaniato tra l’amore per Elia (o Delia), figlia di Crasso, e l’antico legame con la «fata» trace Gunloda (non senza evidenti echi da Norma).10 Molto sentita, comunque, doveva essere in entrambi i casi la spinta patriottica: come faceva notare un amico di Romani, Davide Levi, parlando con Meyerbeer, la rivolta degli schiavi era un soggetto di estrema attualità per «noi Italiani […] in un periodo di lotte persistenti per rivendicare la nostra indipendenza».11 Ed è significativo che il melodramma di Peruzzini e Foroni abbia subito un pesante intervento della censura, che acconsentì alla rappresentazione solo dopo alcune modifiche (ivi compresa quella del titolo, che originariamente avrebbe dovuto essere Spartaco). A una via di mezzo tra vecchi clichés e nuove esigenze di realismo possiamo ascrivere lo Spartaco di Giulio Carcano, apparso nel ’57 con la speranza di una messa in scena che però – come abbiamo già detto – non si realizzò mai.12 Per un verso Carcano riteneva che «in Spartaco il concetto sociale non esaurisse l’uomo»,13 e quindi gli inventava a tutto spiano patetici strazi dell’anima; per l’altro però rifuggiva dal farne una sorta di primo amoroso: a soffrire per amore – per amore di un nemico, il romano Clodio – era nella sua tragedia Glauca, figlia del gladiatore trace;
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I Gladiatori. Tragedia lirica in un prologo e tre atti di Giovanni Peruzzini posta in musica dal maestro Jacopo Foroni, da rappresentarsi nell’I.R. Teatro alla Canobbiana nell’autunno 1851, Milano, coi tipi di Francesco Lucca, s.a. [ma 1851]. Tanto irrilevante è l’interesse dell’autore per i fatti storici che egli situa l’azione «134 anni prima della venuta di Gesù Cristo». 10 Cfr. S. Verdino, Il poeta vincolato: Felice Romani tra rifacimenti e abbozzi. In appendice il frammento inedito dello ‘Spartaco’, in «Italianistica», XXXVI (2007), 1-2, pp. 59-74. 11 Cfr. E. Branca, Felice Romani ed i più reputati maestri di musica del suo tempo, Torino-FirenzeRoma, Loescher 1882, p. 278. 12 Cfr. la lettera a Ettore Novelli del 28 luglio 1857, in G. Carcano, Opere complete, Milano, Cogliati 1896, X: Epistolario, pp. 221-223. 13 Ivi, IX: Tragedie e drammi, p. 383. Italiani della letteratura: Ippolito Nievo
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quest’ultimo invece, incompreso dai suoi stessi compagni, aveva l’onere di continuare a combattere e morire con il sovraccarico di una paterna disperazione. Se dunque Carcano sottraeva l’eroe a ogni femminea debolezza, d’altro canto, mantenendo comunque il conflitto tra dovere e affetti, poteva assicurare al lettore (o all’ipotetico spettatore) il piacere del déja vu. Se raffrontato a tale soluzione, lo Spartaco nieviano si rivela meglio in tutta la sua ricchezza di motivi e di suggestioni: quale che sia il giudizio complessivo che vogliamo darne, infatti, non si può non riconoscergli una fisionomia di forte spessore, lontana tanto dalle tradizionali ambagi sentimentali, quanto da ogni altro tipo di banale superfetazione volta a far presa immediata sul pubblico. Non sappiamo se Nievo pensasse a una eventuale messinscena. Probabilmente però, a differenza delle commedie e dei drammi (per alcuni dei quali abbiamo prova che cercò di farli rappresentare, anche se ci riuscì solo con Gli ultimi anni di Galileo Galilei), probabilmente, dicevo, le sue due tragedie in versi – Spartaco appunto, e I Capuani – nascevano già in partenza come testi destinati alla lettura: lo fa supporre la presenza di alcune di quelle caratteristiche studiatamente antiteatrali che già Manzoni aveva evidenziato, con sornione puntiglio, nel Carmagnola e nell’Adelchi, e cioè «moltiplicità di personaggi», «lunghezza spropositata», «variazione e slegamento di scene».14 D’altra parte è anche vero che, rispetto a Manzoni, Nievo sfoltisce e dirada molto i monologhi, puntando soprattutto sui dialoghi: il che quanto meno dimostra, da parte sua, una preoccupazione di teatralità, in controtendenza rispetto all’ostentato disinteresse manzoniano riguardo a «quel che s’intende comunemente per azione».15 In ogni caso quello che possiamo affermare con sicurezza è che, se mai al nostro scrittore si fosse offerta l’occasione di affidare una delle sue tragedie a qualche compagnia, non avrebbe mai voluto un mattatore enfatico come Gustavo Modena, sulla cui recitazione «terroristica» egli si era trovato a ridere più di una volta16 (e si rammenti che qualche anno prima Modena aveva rivestito i panni di uno Spartaco confezionato proprio sulla sua misura, o meglio sulla sua dismisura, dal citato Ippolito D’Aste). Spartaco, dunque.17 La tragedia di Nievo, facendo immediatamente seguito all’al-
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A. Manzoni, Tutte le opere, VII: Lettere, a cura di C. Arieti, t. 1°, Milano, Mondadori 1970, p. 473. 15 Ibidem. 16 Per questa valutazione si veda già l’Antiafrodisiaco per l’amor platonico, a cura di S. Romagnoli, Napoli, Guida 1983, p. 41. E cfr anche Drammaturgia popolare, in Tutte le opere, I: Poesie, a cura di M. Gorra, Milano, Mondadori 1970, p. 42. 17 In attesa che la più recente iniziativa di pubblicazione delle Opere nieviane presso Marsilio giunga a Spartaco, dobbiamo rifarci all’edizione Faccioli (I. Nievo, Teatro, Torino, Einaudi 1962, pp. 473-619). Sulla questione dei manoscritti si veda P. Vescovo, Nota al testo in I. Nievo, Commedie. Pindaro Pulcinella, Le invasioni moderne, Venezia, Marsilio 2004, pp. 52-55. VII. Italiani della letteratura
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tra di argomento parimenti «archeologico», I Capuani, fa corpo con essa, configurando una sorta di dittico sulle difficoltà che minacciano dall’interno ogni tentativo di contrapporsi all’oppressore. Vi si avverte chiaramente una trama di allusioni all’attualità: mai però in termini «meccanici e troppo scoperti»,18 bensì con uno sguardo lungo, problematico, che mette in campo un’interpretazione del passato possibile solo a partire da una lucida interrogazione del presente. Il nodo che preme al nostro scrittore, e attraverso cui egli può parlare del proprio tempo, riguarda le condizioni che consentono di trasformare una rivolta in rivoluzione. Non basta la sofferenza che nasce da un potere prevaricante, non bastano il coraggio e la dedizione dei singoli: occorre una diffusa coscienza della situazione effettiva, occorre una chiara visione delle possibilità e degli ostacoli che essa pone; e occorrono altresì una forte coesione ai vertici e un altrettanto forte aggancio tra questi e le masse, le quali per poter venire controllate e dirette devono esser fatte partecipi di un grande progetto comune. Allorché Spartaco, a Criso il quale conta di mobilitare facilmente la miserabile plebe urbana, replica: «Trista la sorte di chi pon sua speme / Nel valor della fame», o allorché lo stesso, a un lucano coinvolto in un assurdo tentativo di rovesciare all’ultimo momento le sorti della battaglia, obietta: «O stolto, tu che da fortuna / Coronarsi l’ardir credi dei pochi / Non la prudenza e l’obbedir dei molti!»,19 non possiamo non avvertire, nell’autore, una precisa consapevolezza maturata dopo tanti disastrosi esiti del mazzinianesimo (da ultimo, e vicinissimo, il tentativo compiuto da Pisacane); non possiamo non pensare alla denuncia degli errori commessi dall’«intelligenza italiana» che da lì a non molto egli avrebbe avviato nel cosiddetto Frammento sulla rivoluzione nazionale.20 Per il resto, però, per quanto cioè riguarda l’orchestrazione e lo sviluppo della vicenda, non si notano forzature attualizzanti: Spartaco, come I Capuani, non è un testo a chiave; è un grande quadro storico dipinto con strumenti moderni, e cioè con il proposito di cogliere – nei conflitti di allora – una dinamica di rapporti e interessi in grado di avere ancora mordente. Per la costruzione di tale quadro Nievo certamente utilizzò la fonte più nota e diffusa, e cioè la plutarchiana Vita di Crasso, addotta anche da Carcano come riferimento storiografico di base; ma non si limitò, come Carcano, a ricamarci sopra
18 E. Faccioli (introd. a Il teatro italiano, V: La tragedia dell’Ottocento, Torino, Einaudi 1981, t. 1°, p. XXIX) ritiene che un tale limite sia avvertibile in parte nei Capuani («Capua come Venezia, Annibale come Napoleone, Roma come Austria»), anche se poi nel complesso giudica la tragedia nieviana «una pagina d’affresco impostata su larghi motivi che portano ad esiti poematici». 19 I. Nievo, Teatro cit., pp. 567 e 606. 20 Con tutta probabilità il Frammento fu composto tra le due campagne garibaldine, dopo Villafranca e prima della partenza da Quarto: cfr. in proposito M. Gorra, Introduzione a I. Nievo, Due scritti politici, Padova, Liviana 1988, pp. 14-31.
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una qualche storiella di intimo tormento, bensì volle intersecare diversi linee psicologiche e comportamentali che mostrassero concretamente da una parte le debolezze ma anche la perdurante forza della dominatrice Roma, dall’altra la vigorosa ma ancora divisa e viscerale ribellione dei dominati. A questo scopo, oltre che di Plutarco, lo scrittore dovette avvalersi di una più ampia messe di letture riguardanti la crisi della repubblica, in modo da poter rendere incisivamente un’atmosfera complessiva di intrighi, arroganza, corruzione e cinismo. Gli ottimati Crasso e Scauro, il parvenu Lentulo Battiato e sua figlia Emilia, il mercante di schiavi Partenio e il loro magister Erennio, costituiscono nella tragedia nieviana la variopinta piramide sociale che, nonostante gli inevitabili attriti, comunque si compatta nella difesa dell’establishment. Sull’altro versante stanno coloro che da tale establishment vengono umiliati, martoriati, sterminati: schiavi di varia provenienza costretti a combattere da gladiatori, un plebeo romano (Albo Mureno) ridotto in ceppi per debiti, e poi anche vittime illustri delle stragi sillane come i lucani Furio, Trebazio e Varrone. Proprio da questa parte, dove le sofferenze e la rabbia dovrebbero far valere una strategia comune, emergono invece personalismi e contrasti: i lucani sono ottenebrati dal desiderio di vendetta, i più pensano solo a riempirsi il ventre e la borsa, qualcun altro nutre devastanti sentimenti di gelosia. Senza stare troppo sulla scena e senza abbandonarsi mai a lunghe tirate, il protagonista giganteggia non solo per la sua alta moralità ma anche e soprattutto per la sua chiara visione delle cose, che lo spinge alla giusta decisione, quella di lasciare l’Italia. Solo il buon Lucceio se ne rende conto e cerca di spalleggiarlo; tutti gli altri, come invasati, reclamano di andare a Roma: perfino Odrisia, la sposa-profetessa, si lascia trasportare da una folle ambizione di potere. E l’eroe è costretto a cedere: tragicamente schiacciato dal fato, ma da un fato che non ha nulla di metafisico giacché attiene semplicemente all’insipienza, malafede, presunzione dei compagni. In cosiffatto contesto il vagheggiamento di una Tracia edenica propone in maniera intensa e drammatica una rêverie accennata anche da Carcano;21 ma laddove in Carcano il motivo resta episodico, ridotto a idillio familiare/pauperistico, qui acquista la suggestiva profondità di un’utopia primigenia, l’utopia di uno spazio incorrotto in cui sia possibile contrastare l’idra imperialistica: Oh sì lontano Ci ricovriam! Lontan di qui, sul vasto Libero Ponto, dove la marea Tanto sangue romano invendicato Lavò più volte!22
21
G. Carcano, Spartaco, a. 1°, sc. 3ª, in Opere complete, X cit., p. 403: «Lunge, lunge, / Oltre l’Alpe, oltre il mar, siede una terra / Inospita, selvaggia: ampie foreste, / Interminati paschi; irti, tremendi / Monti che toccan con le creste il cielo. / Là povera, deserta una capanna / Sorgea, libera un dì… Liberi ancora / Noi là vivremo». 22 I. Nievo, Spartaco, a. 3°, sc. 3ª, in Teatro cit., p. 553. VII. Italiani della letteratura
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Non manca, in questo Spartaco, il motivo amoroso, ma trattato senza alcuna concessione al patetismo strappalacrime: piuttosto con una spiccata inclinazione al tratteggio di figure femminili forti, sprezzanti, risolute anche nell’errore o nella crudeltà. Basti confrontare la coppia Emilia/Criso con quella di Carcano Glauca/Scauro: in Carcano è lui, il padrone, a nutrire qualche sensuale attrazione nei confronti della sua schiava, è lui a sbatterle in faccia il proprio progetto di nozze altolocate, mentre lei, oltre a perdonargli e a salvargli la vita, non sa far di meglio che suicidarsi; in Nievo la padrona è Emilia, lei che si gode il servo Criso e poi lo butta via, lei che va sposa a un uomo di rango, lei che – piuttosto che umiliarsi – preferisce provocare l’antico amante e farsi uccidere. Anche nel triangolo Selimbro/Spartaco/Odrisia è la donna a comandare, a respingere, a decidere: ma in questo caso una nota gentile, e tipicamente nieviana (si pensi a Il Varmo) emana dai ricordi d’infanzia di Selimbro: Te ne rammenti, Odrisia? Ambo fanciulli Perigliammo nei vortici dell’Esco Le tenerelle membra, e il dì confuse Pascean le mandre, che in due attigue stalle La notte dividea. Là pendevamo Insiem dal labbro di parenti antichi Che a te scoprian arcane cose e al tardo Selimbro dipingean di meraviglia L’ottusa fronte!23
C’è, inoltre, nello Spartaco di Nievo, come anche nei Capuani, una calcolata intrusione di elementi comici, organizzati però in maniera assai differente, anzi addirittura opposta, rispetto al prototipo di Pasquini e Porsile: qui infatti, lungi dall’aggredire il protagonista, la comicità serve a farne risaltare ulteriormente la distanza morale. E serve anche a smarcare il testo dal monocromatismo della tradizione classicista: basti pensare al contrappunto «basso» che ripetutamente proviene da personaggi come Partenio, Erennio, Albo Mureno, e che non solo scompiglia il registro «alto», accademico, inevitabilmente connesso alla tragedia in sciolti, ma nel complesso produce un effetto di realismo, calando un imprendibile antico in una più vivace e prossima popolarità: al punto che – condivisibilmente – Emilio Faccioli ha potuto intravedervi già «i modi delle “commedie” di Pietro Cossa».24 Anche la tragedia storica, insomma, fu per Nievo il luogo di una sperimentazione attraverso cui avviare un rinnovamento letterario consono all’esigenza di un più vasto rinnovamento, politico e civile. Dopo Spartaco, però, egli dovette ritenere più idoneo alle circostanze il romanzo contemporaneo, ambientato tra ieri e oggi, e si
23 24
Ivi, a. 1°, sc. 3ª, pp. 510-11. E. Faccioli, introd. a Il teatro italiano, V, 1° cit., p. XXIX.
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immerse completamente nelle Confessioni d’un Italiano. Appena finite le Confessioni, scelse l’azione diretta: e iniziò l’avventura garibaldina. Da Spartaco a Garibaldi. È famosa e citatissima la lettera di Marx a Engels in cui l’accostamento tra i due giocava tutto a favore del primo e a denigrazione dell’altro: per Marx non c’era paragone possibile, Spartaco fu davvero «grande generale (non un Garibaldi)».25 Di contro, circa un decennio appresso, un altro garibaldino, Raffaello Giovagnoli, avrebbe proposto una sovrapposizione tra le due figure nel segno di un’analoga lotta di liberazione:26 optando per il romanzo storicoarcheologico, con solidi fondamenti eruditi ma anche con sottile gusto modernizzante, egli avrebbe trasformato la rivolta dei gladiatori in una vicenda di cospirazione segreta ed esplosione rivoluzionaria, da leggere come un «doppio» della vicenda risorgimentale e insieme come una metafora applicabile ad altre situazioni. Donde appunto la sua grande fortuna: come notava Gramsci, lo Spartaco di Giovagnoli «è uno dei pochissimi romanzi popolari italiani che ha avuto diffusione anche all’estero, in un periodo in cui il “romanzo” popolare da noi era “anticlericale” e “nazionale”, aveva cioè caratteri e limiti strettamente paesani».27 A guardar bene, vi si potrebbero scorgere i primi sintomi della futura involuzione filocrispina e conservatrice dell’autore: ma intanto, con la sua dispiegata coralità, col suo variegato intreccio di profili e destini più o meno documentati o fittizi, il romanzo di Giovagnoli aveva aperto una nuova strada che alla fine avrebbe trovato nel cinema la sua più avvincente espressione.
25
Cfr. K. Marx-F. Engels, Opere, XLI: Lettere gennaio 1860-settembre 1864, a cura di M. Montinari, trad. di M.A. Manacorda, S. Romagnoli, M. Montinari, Roma, Editori Riuniti 1973, p. 176. La lettera di Marx è datata 27 febbraio 1861. 26 R. Giovagnoli, Spartaco. Racconto storico del secolo settimo dell’Èra romana, terza edizione riveduta e corretta, Milano, Carrara 1878, voll. 2. La prima edizione era uscita nel 1874 (ma in copertina 1873), Roma, tipografia del giornale L’Italie. 27 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi 1975, II, p. 845. VII. Italiani della letteratura
MICHELE CARINI L’umorismo nieviano: lo stato degli studi e alcune proposte
La rubrica Sull’umorismo, nella sezione Aspetti e temi della cultura nieviana della bibliografia dell’edizione critica delle Confessioni allestita da Simone Casini,1 raccoglie sei scritti di diversa lunghezza e consistenza concernenti il tema dell’umorismo nieviano. Se integriamo questo elenco, che già allinea i nomi di Michelangelo Filograsso, Carmelo Previtera, Maryse Jeuland Meynaud, Norbert Jonard, Emilia Mirmina e Giovanni Maffei (per un lasso di tempo che dal 1927 arriva al 1990), con gli interventi di Giancarlo Mazzacurati del 1985, di Paolo Croci del 1995 e di Elsa Chaarani Lesourd del 1996, e aggiungiamo infine i contributi di Francesca Testa e di Olivia Santovetti, otteniamo un insieme complessivo di circa una decina di titoli, relativamente sostanzioso.2 Il primo carattere che emerge chiaramente
1
I. Nievo, Le confessioni d’un Italiano, a cura di S. Casini, Parma, Fondazione Pietro Bembo / Ugo Guanda Editore 1999. 2 M. Filograsso, L’umorismo di Ippolito Nievo, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», vol. XXIX, 6, 1927, pp. 1-191; C. Previtera, La poesia giocosa e l’umorismo, tomo II, Milano, Vallardi 1942, pp. 421-23; M. Jeuland Meynaud, La poetica dell’umorismo nelle ‘Confessioni’ di Nievo, «Critica letteraria», a. IV, nn. 10 e 11, 1976, pp. 12-45 e 224-56; N. Jonard, Les ressources du comique dans l’oeuvre de Nievo, «Revue des études italiennes», 1-2, gennaio-giugno 1975, pp. 46-61; E. Mirmina, Moduli e funzione dell’umorismo in Nievo, in Ippolito Nievo nella cultura e nella storia del territorio: dall’illuminismo al romanticismo, Atti del convegno nazionale, Udine, Università degli studi di Udine, 1-3 dicembre 1988, 2 voll., vol. 1, Udine 1989, pp. 65-78; G. Maffei, Nievo umorista, in Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello, a cura di G. Mazzacurati, Pisa, Nistri-Lischi 1990; P. Croci, Argomentazione e comicità: l’‘Antiafrodisiaco per l’amor platonico’ di Ippolito Nievo, «ACME – Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano», vol. XLVIII, 1995; E. Chaarani Lesourd, Pratiques parodiques et projet littéraire dans le chapitre premier des Confessioni d’un Italiano d’Ippolito Nievo, «Chroniques Italiennes», XLV, 1/1996; F. Testa, Tristram Shandy in Italia. Critica, traduzioni, influenze, Roma, Bulzoni 1999, pp. 119-129; O. Santovetti, The Sentimental, the Italiani della letteratura: Ippolito Nievo
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dalla lettura di questo corpus è una certa eterogeneità: per esprimere alcune congruenze o filiazioni è necessario ricostruire il dibattito storiografico dal quale i contributi provengono, o di cui subiscono le influenze. Ho dunque aperto l’indagine alla più ampia bibliografia critica nieviana, cercando di includere i fondamenti, laddove le considerazioni connesse al carattere umoristico della scrittura di Nievo sono cospicue e non univoche, soprattutto per quanto riguarda le Confessioni (ma anche a proposito dell’Antiafrodisiaco, della produzione giornalistica, di alcuni racconti, di personaggi dei romanzi minori o dell’epistolario stesso). Dunque, prima di proporre una minima scansione cronologica, sottopongo un’ulteriore avvertenza, ovvia e famigerata, connessa all’univocità possibile dei riferimenti a una categoria come quella dell’umorismo: il problema è annoso e la consultazione dei testi critici ha richiesto anche una valutazione, pur minima, di quanto le diverse teorie fossero state assorbite da coloro che scrivevano a proposito dell’umorismo nieviano; ma non si tratta solo di un’istanza teorica più o meno consapevolmente perseguita: la mancanza di tratti precisi (o marcati, quantomeno) ha condizionato fortemente il taglio delle diverse indagini, in particolar modo delle prime. Partiamo, quindi, dalla prima monografia dedicata a Nievo: Il poeta soldato di Dino Mantovani.3 In questo testo, che ricostruisce l’intreccio della vicenda biografica e della produzione artistica dell’autore, leggiamo numerose valutazioni relative all’argomento in questione: a proposito della prima produzione poetica e dell’ammirazione verso Giusti, Mantovani scrive di un Nievo «inclinato all’umorismo, a una grande serietà di pensiero esprimentesi in forma scherzosa» e riprende in seguito: questo contrasto tra il comico e il serio, tra il duolo interiore e la piacevolezza apparente sarà sempre il [suo] carattere letterario più spiccato, nelle poesie, nelle lettere, nelle cose sue più sincere.4
Poche pagine prima, a proposito delle commedie, si può leggere: Tutte insieme le commedie […] son cose poco felici. Questo umorista nato non pare che avesse vero spirito comico.5
“Inconclusive”, the Digressive Sterne in Italy, in The Reception of Laurence Sterne in Europe, a cura di P. de Voogd, J. Neubauer, Londra-New York, Continuum 2004, pp. 205-206; G. Mazzacurati, Segnali e tracce di Sterne nell’opera di Ippolito Nievo. Nievo e il «sentimental humour» (intervento del 27 marzo 1985 al circolo filologico-linguistico di Padova) e Nievo dall’epistolario all’‘Antiafrodisiaco’: la catastrofe dell’amore romantico (già pubblicato nel 1985 negli «Annali dell’Istituto Universitario Orientale») in Id., Il fantasma di Yorick. Laurence Sterne e il romanzo sentimentale, a cura di M. Palumbo, Napoli, Liguori Editore 2006. 3 D. Mantovani, Il poeta soldato, Milano, Treves 1899. 4 Ivi, p. 51. 5 Ivi, p. 47. VII. Italiani della letteratura
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Sebbene il discorso critico sia in una certa misura coerente per ciò che riguarda la mancanza di un senso comico teatrale, alla quale si oppone una naturale capacità di porre in contrasto «il comico e il serio» nella migliore produzione dell’autore, Mantovani si serve di queste categorie in termini vaghi e solo intuitivamente definibili, in base allo specifico contesto. Questo rapido affondo, non esaustivo, non vuole sminuire la portata del discorso critico di Mantovani, ma solo dare un saggio della scrittura di un letterato partecipe della temperie culturale nella quale, pochi anni dopo la pubblicazione del Poeta soldato, Benedetto Croce, recensendo L’umorismo di Pirandello, scrive: La critica (dice il Cazamian, per l’appunto come avevo detto io) deve studiare il contenuto e il tono di ciascun umore, ossia la personalità di ciascun umorista. «Il n’y a pas d’humour, il n’y a que d’humoristes», conferma a sua volta il Baldensperger. Il dibattito sembra così giunto a un vero accordo. Ma così non sembra al Pirandello, che si prova ora a dare una nuova definizione e teoria dell’umorismo.6
Tralascio, in questa sede, ulteriori ricostruzioni della querelle, nonché superflue riprese del saggio pirandelliano: sottolineo, però, come la descrizione della cucina di Fratta sia annoverata tra gli esempi dello scrittore siciliano e come Croce, invece, pochi anni dopo, nel capitolo dedicato a Rovani e Nievo della Letteratura della Nuova Italia, contraddica l’asciuttezza della sua posizione, presentando tra i limitati aspetti positivi della produzione poetica nieviana la presenza «di forme semplici, di tono basso, con un lieve sorriso, con una venatura umoristica»; la stessa, forse, che sembra farlo inorridire quando Carlino ricostruisce le vicende materne (un Croce assai meno spigliato di Nievo denuncia allora «un tono quasi costante di caricatura e di beffa», «parole di scherzo e di scherno»).7 Dopo poco più di dieci anni, negli Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, è stampata la tesi di laurea di Michelangelo Filograsso: sette capitoli, per un totale di quasi duecento pagine, ripercorrono la formazione e la produzione dell’autore, soffermandosi in particolare sulle Confessioni: il titolo, programmatico, è L’umorismo di Ippolito Nievo. Se l’intestazione della tesi di Filograsso costituisce un esito estremo della labilità del lemma, esito in seguito ampiamente censurato, occorre registrare, da una parte, la sua partecipazione al dibattito (sono infatti nominati Mantovani e Croce, e anche Giovanni Rabizzani, autore della prima
6
B. Croce, ‘L’umorismo’ di Luigi Pirandello, in «La Critica», 20 maggio 1909, pp. 219-223; l’articolo è riportato integralmente in L. Pirandello, Saggi e interventi, a cura di F. Taviani, Mondadori, Milano 2006, pp. 1568-1571. 7 B. Croce, La letteratura della Nuova Italia. Saggi critici, vol. I, Bari, Laterza 1947 (prima ed. 1914), p. 126 e p. 132. Italiani della letteratura: Ippolito Nievo
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indagine sulle influenze di Sterne nella letteratura italiana8 – quest’ultimo, per inciso, non cita Nievo), dall’altra, il fatto che si opponga, se pur in maniera assai confusa, all’indicazione crociana, affermando di «accingersi a studiare lui, ultimo venuto, la caratteristica che gli sembra essenziale dell’arte del Nievo, cioè l’umorismo».9 Due soli esempi possono bastare a dare un’idea della varietà di significati che il termine assume nella trattazione di Filograsso: Amava quel popolo sano e vigoroso, da cui estrae una folla indimenticabile di personaggi villerecci: Martino il buono, Sandro Giorgi forte e ingenuo, Leopardo Provedoni illuso da una donna, Bruto suo fratello che dalla guerra torna gamba di legno, ma con idealità intatte al suo villaggio. Il tesoro di sentimenti virginei e robusti raccolto in quelle campagne gli ispira ora l’egloga ora l’idillio nel romanzo maggiore, e forma il fondo dell’umorismo di lui.10 Io dirò di più, o forse lo stesso con altre parole: siffatta diuturnità del personaggio principale, per cui dalla sua infanzia si naviga lentamente alla vecchiaia dell’Ottuagenario, pare a me che sia la forma dell’umorismo d’Ippolito Nievo nel suo maggior lavoro.11
In direzione opposta si muove, invece, Carmelo Previtera, nelle pagine dedicate a Nievo dell’opera, dal carattere enciclopedico, La poesia giocosa e l’umorismo. Previtera si dimostra ben consapevole della discussione nella quale si inserisce, sebbene appaia poi assumere in maniera pedissequa (e lievemente livorosa) le posizioni critiche di Croce: in generale, sul valore complessivo di un’opera oscurata da una vicenda biografica così importante (e in pieno corso di canonizzazione), e, in particolare, sul tratto qui in esame, per il quale si torna a parlare di venature, questa volta «satiriche e umoristiche», considerate «tracce di queste alte forme della comicità letteraria»:12 si nota dunque nuovamente un utilizzo sinonimico di termini tra loro distanti, alcuni dei quali per altro, sia detto con approssimazione, già codificati dalla retorica classica. Prendiamo a campione un giudizio, alquanto tranchant: Ma i toni salienti della sua arte non sono quelli canzonatori; ci sono qua e là motivi eroicomici, note pittoresche o caricaturali, però l’ispirazione fondamentale del Nievo è di ben altra natura: è anelito di vita, entusiasmo giovanile, poesia del costume regionale, forza di sacrifizio, spontaneità e moralità di patriottismo. Le sue pagine migliori e di più ampio respiro non hanno traccia di umorismo.13
8 G. Rabizzani, Sterne in Italia. Riflessi nostrani dell’umorismo sentimentale, Roma, Formiggini 1920. 9 M. Filograsso, L’umorismo di Ippolito Nievo cit., p. 4. 10 Ivi, p. 26. 11 Ivi, p. 62. 12 C. Previtera, La poesia giocosa e l’umorismo cit., p. 423. 13 Ivi, p. 422.
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Il 1952 è un anno di svolta: il volume ricciardiano delle Opere a cura di Sergio Romagnoli restituisce un ritratto approfondito dell’autore, una contestualizzazione della sua produzione e, soprattutto, un’edizione critica del testo delle Confessioni, al quale seguono altri scritti pubblicati integralmente o antologizzati.14 Cesare Bozzetti, pochi anni dopo, nell’ancora fondamentale La formazione del Nievo, ricostruisce l’apporto di alcuni autori stranieri, in particolare Rousseau, e, proponendo un influsso sterniano mediato dalla voce didimea del Foscolo traduttore, fornisce una prima ipotesi definitoria dell’umorismo nieviano: Un umorismo che sotto il denominatore comune di un brillante atteggiamento razionalistico e volterriano fa in realtà confluire tanti modi e toni diversi, quasi a risolverne e comporne le sottostanti disposizioni psicologiche, appassionate o critiche, polemiche o sfiduciate, realistiche o idealistiche, in una nozione e descrizione della realtà che alla fiducia nei sentimenti e nei valori morali sostituiscano uno scettico e divertito distacco da osservatore e parodista.15
Tali considerazioni, formulate in relazione alla stesura dell’Antiafrodisiaco, non risultano altrettanto pertinenti, se sovrapposte ad altre zone della produzione dell’autore, ma hanno una densità inedita, che pone in risalto le lacune di taluni discorsi critici citati. Prima di arrivare alla metà degli anni ’70, menziono solo di sfuggita un capitolo dello studio di Marcella Gorra, Nievo fra noi: il quarto, Variazioni nieviane su temi «biscottineschi»,16 che indaga le ascendenze portiane, altro serbatoio di suggestioni anche, e non solo, umoristiche; ricordo inoltre l’intento, esplicitato da parte della studiosa, di contrastare operazioni critiche deformanti, atte a costringere la produzione di Nievo in alcune categorie, tra le quali pure quella di umorista. A cavallo tra il 1975 e il 1976 appaiono gli articoli di due studiosi francesi: il punto di partenza di entrambi è una rapida ricostruzione del dibattito e la censura, come già accennato, del testo di Filograsso, «assolutamente deludente»17 secondo Marise Jeuland Meynaud e accusato da Norbert Jonard di «non preoccuparsi mai di caratterizzare l’umorismo, assumendo un atteggiamento che gli permette di rintracciarlo ovunque, in Pisana, in Lucilio, in Clara e anche negli episodi più strettamente storici come la caduta della repubblica di Venezia».18 Dunque Jonard intitola il suo saggio Les ressources du comique dans l’oeuvre de Nievo
14
I. Nievo, Opere, a cura di S. Romagnoli, Milano-Napoli, Ricciardi 1952. C. Bozzetti, La formazione del Nievo, Liviana Editrice, Padova 1959, p. 121; già citato in B. Falcetto, L’esemplarità imperfetta. Le ‘Confessioni’ di Ippolito Nievo, Venezia, Marsilio 1998, p. 23. 16 M. Gorra, Nievo fra noi, La Nuova Italia, Firenze 1970, pp. 133-163. 17 M. Jeuland Meynaud, La poetica dell’umorismo nelle ‘Confessioni’ di Nievo cit., p. 12. 18 N. Jonard, Les ressources du comique dans l’oeuvre de Nievo cit., p. 43, traduzione mia – la 15
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e, se ci è permesso utilizzare questa espressione, aggira la problematica classificatoria, concentrandosi sui caratteri comici della produzione e proponendo alcune fonti non ancora degnamente indagate, come quella bernesca (e il connesso genere burlesco): in conclusione riconosce l’«ambiguità costante» della produzione nieviana come tipica dell’ironia. Diversamente, Marise Jeuland Meynaud cerca di definire una poetica dell’umorismo, strutturando una vasta trattazione tripartita: le rappresentazioni dei contenuti narrativi, i moduli stilistici e le implicazioni dell’umorismo. Il contributo della Meynaud appare come un primo vero e proprio tentativo di valutazione formale, di analisi dei modi della scrittura umoristica nieviana: se non altro in questo caso il saggio offre una serie piuttosto ordinata di dati che la studiosa si propone in seguito di commentare. Meno convincente è una certa svalutazione della seconda parte del romanzo, dalla quale non sono tratti esempi (pur presenti), e che viene tacciata, forse in maniera frettolosa, di essere eccessivamente composita e irrisolta. Nel 1988, presso l’università di Udine, si tiene il convegno nazionale Ippolito Nievo nella cultura e nella storia del territorio: dall’Illuminismo al Romanticismo. In questa sede Emilia Mirmina dedica uno dei suoi due interventi a Moduli e funzione dell’umorismo in Nievo: il rilievo, che appare più significativo, è dato alla componente «territoriale», nella misura in cui la studiosa evidenzia come il microcosmo di Fratta sia «più ferocemente» oggetto di umorismo in quanto «venezievole», a differenza della zona pedemontana «che coltiva sentimenti antiveneziani per un senso atavico di frustrazione e di rivalsa»;19 ne consegue che la rappresentazione umoristica sia strettamente legata alla dinamiche interne del Friuli di tardo Settecento e che lo sguardo nieviano assuma un ruolo attivo nel successivo superamento delle medesime: Ambivalente è dunque la funzione – ed il significato – di questo umorismo, il quale è in sostanza la struttura espressiva mediante la quale, in un certo senso, si compie quell’ultimo tragico atto della storia dell’oligarchia veneziana e del dominio feudale in Friuli, che la rivoluzione illuministica non era riuscita a mandare a completo effetto.20
Innegabilmente efficace, la definizione resta però, come viene d’altronde dichiarato, funzionale; il fenomeno è analizzato, addirittura, rispetto a un suo esito posteriore nella decodifica di un processo storico, ma in sé è delineato come
citazione riportata è, di fatto, la parafrasi di un passaggio di un articolo, indicato da Jonard, del ’53 di Bozzetti (Le ‘Confessioni’ di Ippolito Nievo e la critica, «Studi Urbinati», XXVII, Nuova serie B 1953), il quale contesta duramente l’impostazione critica di Filograsso arrivando quasi a negare la portata dell’umorismo nieviano, sebbene poi, come si è visto, nel ’59 Bozzetti ritorni sul concetto e ne offra una formulazione. 19 E. Mirmina, Moduli e funzione dell’umorismo in Nievo cit., p. 68. VII. Italiani della letteratura
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«struttura espressiva», tramite la «solita» serie di riferimenti teorici impliciti (e condivisibili secondo un certo qual buon senso). E se la rivolta di Portogruaro e l’incontro con Napoleone a Udine (messi in relazione alla lettera di Bruto Provedoni) sono persuasivamente considerati momenti durante i quali il discorso umoristico rivelerebbe uno scetticismo destinato a dare una «lezione di realismo» e una «complessa e amara critica di una situazione – quella del ceto popolare –, che Nievo già a lungo aveva meditato»,21 nell’insieme ci pare che l’intervento non problematizzi sufficientemente la tematica nella seconda parte del romanzo. Nel 1990 la pubblicazione di Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello costituisce un punto di svolta, e non solo per la critica nieviana. All’interno del volume, l’articolo di Giovanni Maffei Nievo umorista istituisce una linea critica che influenzerà notevolmente i successivi contributi. La riflessione sulla presenza di elementi sterniani nella produzione di Nievo, elementi formali e tematici, mediati o meno dalla voce didimea del Foscolo traduttore del Viaggio sentimentale, era già stata rilevata almeno da Folco Portinari e, soprattutto, da Giancarlo Mazzacurati:22 Maffei in Effetto Sterne (e anche nel capitolo intitolato L’umorismo di Nievo della sua monografia Il romanzo di transizione, pure edita nel 1990)23 elabora una densa trattazione, ponendo al centro della questione umoristica il carattere di oralità: Sarà il caso di ricorrere anche al modello umoristico, umorale, di categoria sterniana, che Nievo amò molto, e di cui ritenne […] il tratto più caratterizzante: l’intermittenza, nel teatro del racconto, tra le scene ben arredate che simulano il «reale», dell’altra
20
Ivi, p. 69. Ivi, p. 71. 22 Di Portinari ricordiamo la Presentazione a Tutte le opere narrative di I. Nievo. Volume Primo. Romanzi, racconti e novelle, frammenti, Milano, Mursia 1967, p. XI e il saggio Un grande romanzo “inglese”, in Le parabole del reale. Romanzi italiani dell’Ottocento, Torino, Einaudi 1976; di Mazzacurati, i due fondamentali saggi Segnali e tracce di Sterne nell’opera di Ippolito Nievo. Nievo e il «sentimental humour» cit., e Nievo dall’epistolario all’‘Antiafrodisiaco’: la catastrofe dell’amore romantico cit.: nel primo sono censiti per la prima volta i riferimenti a Sterne e a sue opere nella produzione nieviana, epistolario compreso; è inoltre commentato il celebre passaggio del capitolo sesto delle Confessioni («Chi ha cercato in Inghilterra i creatori dell’umorismo non visse mai certamente a Venezia, nè mai passò per Portogruaro»). Il secondo articolo, riconducendo il fascio delle lettere a Matilde alla tradizione del romanzo epistolare tardo-settecentesco, sostiene la natura di esercizio parodico e deformante di quel genere per quanto riguarda l’Antiafrodisiaco e il superamento dunque di pose ortisiane – Mazzacurati commenta a tale proposito la citazione diretta di Sterne in relazione al nome di Leopardo nel quarto capitolo delle Confessioni. 23 G. Maffei, Ippolito Nievo e il romanzo di transizione, Napoli, Liguori 1990; la citazione successiva proviene dalle pp. 189-190 del medesimo volume. 21
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scena, che recita invece il dramma della forma, in cui sono esibiti, ostentati nel loro movimento presunto, un impulso, un processo, l’alea di una voce. […] A un progetto «anti-letterario» di questo tipo i grandi umoristi amati da Nievo, segnatamente Sterne e Heine, potevano prestare il modello di una scrittura poco architettonica, in qualche modo analoga all’informalità, all’estemporaneità del parlato.
Maffei si concentra specificamente sull’Antiafrodisiaco, La nostra famiglia di campagna e le Confessioni, oltre a ricostruire il contesto nel quale Nievo si poteva dire umorista. Il riconoscimento dell’influenza di Sterne (e del Foscolo traduttore), oltre ad avere un parallelo nella critica manzoniana (si pensi ai lavori di Ezio Raimondi, Giovanni Macchia, Salvatore Nigro e Pierantonio Frare), si rifletterà nelle pagine di Francesca Testa e di Olivia Santovetti, in studi concernenti la fortuna sterniana in Italia e in Europa:24 si colma così quella lacuna che abbiamo già ricordato nel pionieristico studio di Rabizzani.25 A metà degli anni Novanta due articoli si distinguono per consapevolezza teorica e lucidità interpretativa: il primo, di Paolo Croci, si concentra sul rapporto tra argomentazione e comicità nell’Antiafrodisiaco; il secondo, di Elsa Chaarani Lesourd, sulle strategie parodiche nel primo capitolo delle Confessioni. Croci elabora una sintetica ma approfondita rilettura del libello, arrivando a sostenere che esso sia «lo strumento con cui Nievo indaga in forma umoristica aspetti che solo di recente sono stati posti in luce dalla teoria letteraria», come il problema dell’«autorità dell’autore» e quello della «dimensione argomentativa implicita nel testo letterario».26 Chaarani Lesourd si sofferma sulla parodia di elementi del romanzo gotico e del romanzo storico (in questo senso articola delle considerazioni di Maffei sulle analogie tra la vicenda di Gertrude e quella di Monsignor Orlando): En condamnant, avec l’élégance de l’humour, les facilités systematiques du romantisme noir, en dévoilant pour ses lecteurs l’agonie d’un genre, Nievo prouvait par une expérience littéraire ce que Manzoni avait démontré en théorie dans son opuscule Del romanzo storico […] et lorsqu’il produit un travestissement burlesque d’un récit secondaire des Fiancés, tout en respectant un maître, se situe dans la ligne novatrice du meilleur réalisme manzonien, et parvient désormais à se démarquer de ses aspects le plus romantiques.27
24
F. Testa, Tristram Shandy in Italia. Critica, traduzioni, influenze cit.; O. Santovetti, The Sentimental, the “Inconclusive”, the Digressive Sterne in Italy cit. 25 G. Rabizzani, Sterne in Italia. Riflessi nostrani dell’umorismo sentimentale cit. 26 P. Croci, Argomentazione e comicità: l’‘Antiafrodisiaco per l’amor platonico’ di Ippolito Nievo cit., p. 58. 27 E. Chaarani Lesourd, Pratiques parodiques et projet littéraire dans le chapitre premier des ‘Confessioni d’un Italiano’ d’Ippolito Nievo cit., p. 15. VII. Italiani della letteratura
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Se nessuno dei due articoli è univocamente centrato sull’umorismo, si rivelano però stimolanti e convincenti le modalità di indagine, che scandagliano territori limitrofi e presentano conclusioni persuasive, tramite procedimenti argomentativi solidi ed equilibrati. Ci accingiamo dunque alla conclusione di questa rapida carrellata:28 nelle prime pagine del suo L’esemplarità imperfetta, Bruno Falcetto riprende Bozzetti sottolineando come «l’umorismo nieviano abbia una natura essenzialmente composita, che ne rispecchia la mobilità di atteggiamenti mentali e disposizioni psicologiche» e contesta la rigidità di «una netta separazione fra il Nievo “umorista” e il Nievo “ameno”», che conseguirebbe la «valorizzazione rigorosa dell’umorismo «di struttura» operata da Giovanni Maffei».29 I riferimenti alla nozione e a Sterne sono presenti in tutta la monografia, sebbene Falcetto, quando decide di affrontare specificamente alcuni aspetti della questione, preferisca servirsi delle categorie di ironia e comicità, isolandone tre modalità: «comico dell’autoritratto, comico del discorso diretto, comico del discorso interiore».30 Da questo percorso bibliografico ci sembra che emergano sostanzialmente due dati: da una parte, gli interventi divengono gradualmente più convincenti quanto più problematizzano la questione da un punto di vista tematico e formale; dall’altra, si avverte l’assenza di uno studio sistematico delle modalità dell’umorismo nieviano: sono tratti esempi da questa o quell’opera, in particolare dalle Confessioni, per la costruzione di ipotesi interpretative raramente finalizzate a un’oculata descrizione del fenomeno e, poi, a un tentativo ermeneutico – ad eccezione dell’Antiafrodisiaco e di alcuni racconti. Il proposito che ci appare dunque perseguibile è di sviluppare un’analisi retorica, narratologica e tematica di tutti gli eventi, in primo luogo formali, nei quali riconosciamo episodi di carica comica ironica, parodica, dai quali possa scaturire il guizzo umoristico.
28 Ricordo, senza alcuna pretesa di esaustività, ancora solo i nomi di Ugo Maria Olivieri e di Emilio Russo: il primo, almeno, per l’introduzione alla raccolta di scritti giornalistici, dove si legge: «l’umorismo diviene una tonalità in grado di trascrivere le abitudini mondane, i costumi e i tics della borghesia milanese e al contempo di esorcizzare la tentazione sempre incombente della posa eroica di tipo ortisiano», Un giornalista sconosciuto, in I. Nievo, Scritti giornalistici, a cura di U. M. Olivieri, Palermo, Sellerio 1996, p. 23; Russo, invece, per la curatela della Storia filosofica dei secoli futuri (e altri scritti umoristici del 1860), Roma, Salerno 2003. 29 B. Falcetto, L’esemplarità imperfetta. Le ‘Confessioni’ di Ippolito Nievo cit., p. 23. 30 Ivi, p. 159.
Italiani della letteratura: Ippolito Nievo
ITALIANI DELLA LETTERATURA: LEONARDO SCIASCIA
ANDREA SCHEMBARI Un lungo secolo «sentimentale». L’altro Settecento di Leonardo Sciascia1
Contrariamente a quanto previsto dal programma, non vi parlerò oggi del Quarantotto di Sciascia. Quell’intervento era stato pensato (e inizialmente comunicato) per “stare” all’interno di un panel di argomento tutto “siculo-risorgimentale”; ma dopo le modifiche all’organizzazione delle sessioni parallele, ho pensato di presentarvi invece – come in una sorta di lungo abstract – alcuni dei risultati che credo di aver raggiunto negli anni del mio dottorato di ricerca, recentemente concluso e frequentato sotto la guida del professore Antonio Di Grado. Il titolo del mio contributo ricalca dunque quasi esattamente quello della mia tesi (che mi auguro diventi volume al più presto), in cui ho cercato di affrontare alcune questioni, fra le tante, che derivano dal legame e dalla predilezione di Leonardo Sciascia per quanto prodotto dalla letteratura, dalla storia e dalla cultura del Settecento europeo. Ne è venuta fuori una raccolta di saggi (o sondaggi, come ho voluto chiamarli) che hanno certo lasciato fuori dall’indagine alcuni temi o autori di riferimento per lo scrittore di Racalmuto (Voltaire e Casanova, per citarne solo due) ma che credo stiano assieme in modo coerente nel quadro di un secolo che, per Sciascia, non è solo quello dei lumi e della ragione (come troppo spesso rivangato dalla critica), ma è anche quello del “sentimento”, parola che apre un ventaglio variegato di approcci alla questione. Nell’affrontarla la prima incertezza è stata, per così dire, epistemologica: come codificare, e in che termini, l’insistenza di uno scrittore verso un secolo? Come definire quel legame? Si è usata spesso, anche per Sciascia, la parola “funzione”. Non accostandola al Settecento, però; vi si è fatto ricorso per spiegare il rapporto fra Sciascia e alcuni
1 L’autore ha mantenuto il taglio discorsivo del testo letto durante la sessione parallela, aggiungendo soltanto le dovute note e indicazioni bibliografiche.
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dei suoi auctores: la «funzione Stendhal»;2 la «funzione Manzoni»;3 recentemente la «funzione Courier»:4 e abbiamo nominato tre autori nati ancora nel Settecento. Il ricorso a questo termine è, insomma, autorevolmente attestato ma, per chi vi parla, sembra rinviare a rapporti di eccessiva cogenza. Torna alla memoria l’espressione matematica “dipendenza funzionale”, come se nel declinare le sue idee di giustizia, o la sua coscienza storica, Sciascia dipendesse univocamente da Manzoni; o come se il modello di ironia polemica risultasse esclusivamente da Courier. Se così stessero le cose, il Settecento – che quelle “funzioni” contiene – sarebbe allora per Sciascia un vero e proprio sistema, all’interno del più grande sistema della letteratura. Ma proprio rileggendo la sua nota risposta alla domanda Che cos’è la letteratura?,5 mi pare che il processo creativo ed ermeneutico di Sciascia mostri di fare volentieri a meno di vincoli funzionali. Da quella formula affiora subito, è vero, la parola “sistema”: ma la metafora siderale lì utilizzata rimanda ad un’imponderabile eternità, governata dalle leggi del caso e dall’“accidenza”. Più che a una definizione, essa somiglia – per il lettore contemporaneo – alla descrizione di uno spazio, di uno scenario mutevole in cui hanno parte il movimento e la luce; sembra quasi la rappresentazione di un’esperienza visuale. Preso da una smania definitoria che attanaglia anche chi si sta formando alla ricerca, mi sono chiesto se si potesse allora chiedere alla scienza ottica di venire incontro al discorso critico. Scienza che, guarda caso, appunto nel Settecento perfezionava nuove e celebrate scoperte: e l’arte se ne appropriava. I pittori vedutisti trassero dallo sviluppo della camera ottica la riscoperta dell’esatta prospettiva albertiana, e nelle loro “vedute” spinsero quell’effetto tecnico al massimo grado, riuscendo a dar risalto a minimi particolari d’ambiente, nitidamente raffigurati e individuabili. Da Napoli a Venezia essi adottarono quella tecnica con la consapevolezza di avere parte nella cultura dei nuovi lumi, convinti che bisognava «vedere con ordine, con gli occhi e la mente insieme. Vedere le singole cose e il contesto che formano; ma sapendo che l’ordine non è della realtà oggetti-
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R. Ricorda, Stendhal forever, in Id., Pagine vissute. Studi di letteratura italiana del Novecento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1995, p. 182. 3 N. Mineo, Sciascia e la storia della colonna infame, in M. Picone, P. De Marchi, T. Crivelli, Sciascia, scrittore europeo, atti del convegno internazionale di Ascona, 29 marzo-2 aprile 1993, Basel-Boston-Berlin, Birkhäuser 1994, p. 33. 4 G. Traina, Sciascia polemista, in Id., Una problematica modernità. Verità pubblica e scrittura a nascondere in Leonardo Sciascia, Acireale-Roma, Bonanno 2009, p. 89. 5 «E allora: che cosa è la letteratura? Forse è un sistema di “oggetti eterni” (e uso con impertinenza questa espressione del professor Whitehead) che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità. Come dire: un sistema solare», L. Sciascia, Nero su nero, in Id., Opere (1971-1983), a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani 1989, p. 830. VII. Italiani della letteratura
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va, bensì della mente che valuta e coordina i dati del senso».6 Così quelle vedute si dissero “esatte”, perché esigevano una disciplinata idea del reale, e tagliavano confini tracciati con precisione. Le linee prospettiche sono lì, a delimitare ciò che è dentro da ciò che sta fuori, cosa è esposto da cosa si distanzia. Ma quest’esattezza rigorosa non si presta ancora a restituire l’immagine che Sciascia aveva del Settecento; o almeno non perfettamente, si direbbe sulla scorta del saggio sul Secolo educatore,7 contenuto nella raccolta Cruciverba. Un testo in cui si sostiene – com’è noto – l’idea di un secolo overflown, dilatato, il cui flusso trabocchi oltre gli argini imposti dal reticolo cronologico. Per restare alle metafore ottiche, si potrebbe allora pensare ad una vasta regione di spazio fotografata da un obiettivo grandangolare, in cui oggetti e figure, anditi e ombre, sono simultaneamente a fuoco; ma le cui frontiere sembrano spingersi oltre ogni reticolo prospettico e all’occhio che si spinge a inseguirle mostrano – ogni volta diversa – la traccia di una via di fuga, la linea curva che nasconde il punto di destinazione. Quell’immagine (quell’idea) di secolo “dilatato” tra avvisaglie secentesche e propaggini ottocentesche non era una novità; era balenata pionieristicamente, ai primi del XIX secolo, a Charles Lacretelle: Ce mot du dix-huitième ne se prend pas plus dans un sens absolu que ce lui du siècle de Louis Quatorze, et du siècle de Léon Dix, ou des Médicis. C’est une époque remarquable de l’esprit humain, et surtout c’est une introduction à de grands Evénèments. En la considérant aussi, on a l’avantage de pouvoir donner de l’unité et de la progression à un tableau historique.8
C’era, in questa precoce riflessione, un’esigenza di complessità e differenziazione delle analisi storiche di lungo periodo, debitrice delle esortazioni lanciate più di mezzo secolo prima dal Voltaire storiografo;9 ma c’era soprattutto un primo segnale di quella nuova consapevolezza, per cui le categorie di periodizzazione non potevano legarsi con fede ai rigidi tempi cronologici. Scrive Ricuperati:
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G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, vol. III, Firenze, Sansoni 1998, pp. 362-363. L. Sciascia, Il secolo educatore, in Cruciverba, Opere (1971-1983) cit., pp. 1006-1016. 8 C. Lacretelle, Histoire de France pendant le XVIIIe siècle, I, Parigi, Buisson 1810-1812, pp. II-III. 9 Come ricorda Le Goff, Voltaire aveva auspicato, sull’esempio delle discipline scientifiche, nuove narrazioni di «storia economica, demografica, storia delle tecniche e dei costumi e non solo storia politica, militare, diplomatica. Storia degli uomini, e non solo storia dei re e dei grandi. Storia delle strutture e non solo degli avvenimenti. Storia in movimento, storia delle evoluzioni e delle trasformazioni, e non storia statica, storia-quadro. Storia esplicativa, e non puramente storia narrativa, descrittiva – o dogmatica. Storia globale…», J. Le Goff, La nuova storia, Milano, Mondadori 1980, p. 24. 7
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In uno spazio-tempo complesso come il Settecento resta inevitabile il senso di un inizio e di una fine […] ma rimane sempre incombente il problema della non coincidenza tra tempo cronologico e tempo categoriale. Quando nel Cinque maggio Alessandro Manzoni parla di due secoli «l’un contro l’altro armato», non intende solo il Settecento e l’Ottocento, ma in realtà da una parte la cultura dei Lumi e della Rivoluzione, di cui egli stesso era figlio, e dall’altra il Romanticismo di cui però aveva visto soltanto gli inizi.10
E prosegue: Le categorie a posteriori […] non riescono a essere estranee ed esterne a chi le vive e rivive, come d’altronde mostrano per il Settecento tutte le metafore basate su luce, ragione, felicità, conoscenza, connesse al tempo vivente e contrapposte ai loro contrari, appartenenti a tratti del passato […]. Non innocente né neutrale, ogni categoria di periodizzazione investe non solo un’identità e relazione di spazio e di tempo, ma anche un essenziale rapporto tra epoche diverse, mettendole implicitamente tutte in una diversa relazione. Questo accade perché ogni categoria è in qualche misura conflittuale con quelle contigue e stabilisce legami più intensi e di comunicazione con altre più lontane. Ma ogni categoria, proprio perché costruzione storiografica complessa, non è solo una sovrapposizione: è anche in sé una restituzione di identità, un nuovo modo di stabilire relazioni tra un’epoca e un’altra.11
Ecco, mi pare che questo spazio-tempo della memoria letteraria, esteso e nitido, funzioni per Sciascia come un obiettivo fotografico da puntare su temi e problemi di altre epoche, a partire da quella che gli fu data da vivere; e ogni elemento di quel cronotopo – uomini, idee, storie – è una possibile chiave di accesso; e ogni autore può fare da filtro, essere la lente tonale che renda alcuni aspetti dell’immagine nella gradazione voluta. L’“obiettivo Settecento”, il “filtro autore” (e dunque: il “filtro Stendhal”, il “filtro Manzoni”, il “filtro Courier”): sono formule che indicano espedienti ermeneutici e narrativi solidamente noti agli sciascisti. Così rimodulate, però, sembra che acquistino un salutare senso di mobilità, di intercambiabilità; e che restituiscano con maggiore aderenza l’immagine del racconto – critico e d’invenzione – dello scrittore: spesso dilatato nei tempi curvi dei secoli passati, e filtrato dalla voce dei suoi auctores. E tornando al saggio sul Secolo educatore, vorrei notare come esso racchiuda un’indicazione precisa, anche se non immediatamente visibile, dei criteri con cui obiettivo e filtri vanno utilizzati. Esso, si sa, ha inizio nel segno di Ortega y Gasset; e non tanto – non solo – per l’ampia citazione che appare dopo poche righe:
10 G. Ricuperati, Le categorie di periodizzazione e il Settecento, in Id., Frontiere e limiti della ragione, a cura di D. Canestri, Torino, UTET 2006, pp. 173-174, passim. 11 Ibidem.
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Fué un momento maravilloso de la existencia europea. Un maximum de civilizaciòn acumulada y un minimum de luchas y discordias nacionales. Nadie sentia suspicacia que la incitase a cerrar su alma al projimo. Las almas estàn abiertas a todos los vientos, inspiradas por un gran optimismo y fe en el destino del hombre. Es el magnifico instante para la recepcion de claras normas cultas. Con todo su saber y perfeccionamiento técnico y administrativo, el siglo XIX no podia ser tan educador como el precedente. La Revolucion habia escindido la unidad cordial de cada pueblo.12
Senza che Sciascia lo ammetta esplicitamente,13 anche il fortunato titolo del saggio è mutuato dall’articolo El siglo XVIII, educador di Ortega. Dalle pagine del suo «El Espectador» (emblematicamnete debitore del foglio settecentesco di Addison e Steele, «The Spectator», pubblicato nel biennio 17111712), l’intellettuale spagnolo aveva rimpianto l’estraneità della cultura spagnola al vento di rinnovamento giunto dalla Francia sul finire del XVIII secolo; e gli effetti potevano essere registrati ancora nel 1930, in cui «cuanto mas se medita sobre nostra historia, mas clara se advierte esta desastrosa ausencia del siglo XVIII. Nos ha faltado el gran siglo educador».14 Ora, dopo il primo approccio giovanile a Ortega sul grosso volume unico delle Obras misteriosamente approdato a Racalmuto, Sciascia rilesse La rebelion de las masas nell’edizione curata da Salvatore Battaglia del 1945, riedita con una importante prefazione nel 1962; e la riprese, nella primavera del 1983 (per cui all’altezza dell’uscita di Cruciverba e, credo, della stesura del saggio) per un articolo da passare al «Corriere della Sera», in occasione del centenario della nascita del filosofo spagnolo: Salvatore Battaglia, che primariamente ha contribuito alla conoscenza di Ortega in Italia, tracciando nell’introduzione a La ribellione delle masse un nitido ed essenziale profilo dello scrittore, diceva tra l’altro:15 «[Di qualunque cosa] si occupi […] sempre la sua coscienza si pone dentro alle questioni, grandi o piccole che siano, per farle palpitare d’attualità. Ogni idea che passa per il filtro della sua critica riceve come una contrazione, in quanto è subito assalita nel suo centro e sfrondata da tutte quelle addizioni che le si sogliono sovrapporre per inerzia mentale: anche a costo di farla apparire
12 Cfr. J. Ortega y Gasset, El siglo XVIII, educador, in Id., Obras completas, Madrid, Revista de Occidente 1966, pp. 600-601; e L. Sciascia, Il secolo educatore cit., pp. 1006-1007. 13 Al punto da indurre al fraintendimento anche Claude Ambroise: «Egli si diverte (non è uno storico) a comporre il suo grand siècle, chiamandolo educatore», C. Ambroise, A che cosa serve il Settecento in Sciascia?, in A. Di Grado… [et al.], Leonardo Sciascia ed il Settecento in Sicilia, a cura di R. Castelli, Caltanissetta-Roma, Sciascia 1998, p. 44. 14 J. Ortega y Gasset, El siglo XVIII, educador cit., p. 600. 15 Cfr. anche S. Battaglia, Prefazione, in J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Bologna, Il Mulino 1962, p. XI (Roma, Nuove edizioni italiane 1945).
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schematica e scarna. Ma al tempo stesso essa rimane arricchita con un processo d’estensione, perché e riportata in una sfera di relazioni più larghe, chiamata a risolvere nuove situazioni, altre istanze».16
Guidato dalla felicità argomentativa di Battaglia, Sciascia chiariva così i due tempi del discorso ermeneutico di Ortega: l’accostamento diretto e deciso al tema della riflessione, la sua metabolizzazione e proiezione paradigmatica.17 È un processo cui si allude proprio nel saggio in questione, in cui Sciascia ammette di procedere, da quel momento, «più per lampeggiamento di sintesi che per estensione di analisi».18 Ma è come se l’«estensione, [l’]attualizzazione, [la] ricerca»19 della e sulla questione Settecento, per Sciascia (concentrata in particolar modo negli anni Sessanta e Settanta) abbia preceduto il momento della «chiarificazione, [della] presa di possesso»20 sintetica e finale del saggio, in cui il secolo che si fregia dell’aggettivo “educatore”, si presenta sotto specie di una tradizione testuale o, se si vuole, di una minima storia letteraria: un esercizio di periodizzazione culturale, personale e sentimentale. E nel dirlo “sentimentale” si tende ovviamente a renderlo molto più complesso e meditato di quanto si creda.
16
L. Sciascia, Ortega, l’intelligenza che discute di tutto, in «Corriere della Sera», 8 maggio 1983,
p. 3. 17 In un articolo di pochi anni prima, suggerito da un altro anniversario (venticinque anni dalla morte di Ortega) Sciascia chiarì la sua scoperta del filosofo spagnolo: «La guerra in Spagna era da qualche mese finita, e stava per cominciare quella mondiale, quando in una bottega di vecchi libri mi sono imbattuto nel grosso volume delle Obras di José Ortega y Gasset pubblicato dalla Espasa-Calpe (Bllbao-Madrid-Barcelona: e questi nomi di città erano per me ancora intrisi della passione con cui avevo seguito le vicende della guerra civile) nel 1932. Un volume rilegato in tela arancione, e stava accanto ad un altro di uguali dimensioni rilegato In tela rossa che portava il timbro di un circolo socialista di Zaragozza: El Capital di Marx. Era facile pensare che qualcuno li avesse portati dalla Spagna come preda dl guerra: mi commuoveva l’immagine di quel reduce dalla guerra fascista che chi sa per quale sentimento, interesse o intento, si era caricato di quei due pesanti volumi, portandoli dalla Spagna in Italia. Era un’immagine che dava alla fantasia e inclinava alla retorica. […] quel che più conta è che da Ortega ho appreso a leggere il mondo contemporaneo, il modo di risalire ai fatti, anche i più grevi ed oscuri, ai “temi”: e cioè di chiarirli, di spiegarli, di sistemarli in causalità e conseguenzialità. Non c’è “tema de nuestro tiempo” che Ortega non abbia affrontato e spiegato: e io vedo oggi la sua opera disporsi come a raggiera intorno al saggio che propriamente così s’intitola: El tema de nuestro tiempo», L. Sciascia, L’ho letto come uno scrittore d’avventure, in «Corriere della Sera», 2 novembre 1980, p. 3, ora in Id., Ore di Spagna, Milano, Bompiani 2000, pp. 31-32 (Marina di Patti, Pungitopo 1988, pp. 15-16). 18 Id., Il secolo educatore cit., p. 1007. 19 Id., Ortega, l’intelligenza che discute di tutto cit. 20 Ibidem.
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Peculiare al secolo è la parola “sentimento”, protagonista di una proliferazione semantica formidabile, favorita dal progresso delle scienze umane ed empiriche.21 Una proliferazione semantica ben presente a Sciascia, che l’aveva per tempo fatta riccamente declinare – nelle sue molteplici variazioni – all’abate Vella del Consiglio d’Egitto,22 proprio al suo personaggio meno fedele all’ortodossia del secolo, intriso com’è di gesuitici umori, campione di un’intrigata retorica, ultimo di una galleria di simulatori e dissimulatori da ancien régime. Impossibile dar conto delle diverse sfaccettature di significato che il “sentimento” ha assunto nel secolo: traccerei quindi una linea retta che unisce le Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture (1719) di J.B. Du Bos, in cui il sentimento è individuato in «quella parte di noi che giudica in base all’impressione che prova e che […] si pronuncia senza consultare la riga e il compasso. È insomma quello che comunemente viene chiamato sentimento»;23 alle riflessioni di Schiller sulla poesia sentimentale (1796), definita come capace di suscitare un sentimento misto che fa «collegare la rappresentazione dell’immaginazione con un’idea della ragione».24 Si potrebbe dire che un percorso simile abbia contraddistinto la graduale affezione di Sciascia per gli autori del secolo. Nell’articolo per il «Corriere» più volte citato, Sciascia incrociò per un attimo il «processo di estensione, […] di ricerca»25 di Ortega, con la recherche di Proust, facendole incontrare sul comune espediente della memoria, ma distinguendole per il prevalere della meditazione della prima sulla «sensazione, la sensività, la sensualità»26 dell’altra. Ecco dunque da dove arriva, l’«anti-proustiana memoria»27 di Sciascia, «volontaria, vigile e programmata»,28 pronta a riaccendersi per il causale e benefico incrocio di personalissime «intermittenze della ragione»:29 e non la metteremo certo in
21 È noto come la semantica culturale e morale subirono un sensibile arricchimento proprio in seguito all’acquisizione di metafore scientifiche derivate dalla chimica, dalla fisica, dalla matematica; cfr. G. Folena, Il rinnovamento lingustico del Settecento italiano, in Id., L’italiano in Europa, Torino 1973, pp. 5-66. 22 Cfr. L. Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, in Id., Opere (1956-1971), a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani 1987, pp. 524-528, passim. 23 J. B. Du Bos, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, a cura di E. Fubini, Milano, Edizioni Angelo Guerini e Associati 1990, p. 200. 24 F. Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, trad. di E. Franzini e W. Scotti, Milano, SE 1986, p. 42 e n. 25 L. Sciascia, Ortega, l’intelligenza che discute di tutto, cit. 26 Ibidem. 27 A. Di Grado, Leonardo Sciascia saggista, in Id., «Quale in lui stesso alfine l’eternità lo muta…». Per Sciascia, dieci anni dopo, Caltanissetta-Roma, Sciascia 1999, p. 21. 28 Ibidem. 29 Ibidem.
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discussione, ma il coinvolgimento certo più emotivo che intellettuale che traspare dai resoconti delle prime scorribande in soffitta del giovane Sciascia, tra i vecchi libri di un parente (il Paradoxe sur le comedien, prima sua vera lettura tout court settecentesca, lo colpì «non tanto per le cose che diceva ma per come lo diceva»30) sembra non abbandonare il ricordo, e anzi condizionare anche il rigoroso giudizio meditato del maturo scrittore; sentite un altro articolo del 1980 ancora su Ortega: Hemingway diceva che avrebbe dato un milione di dollari per ritrovarsi nella felice condizione dl leggere per la prima volta certi libri (e pensava principalmente ai libri di Standhal). Darei anch’io il milione di dollari che non ho per ritrovarmi a leggere per la prima volta certi autori, per rivivere quel senso di avventurosa felicità, di felice scoperta – Diderot, Stendhal, Tolstoj. E Ortega y Gasset. Decisamente, non l’ho letto come filosofo.31
«Quel senso di avventurosa felicità» era debitore, nell’apprendista lettore, di entusiasmanti suggestioni, di un’impressione d’ordine visivo, di accordo musicale, più che di un’immediata riflessione dei contenuti; il fatto è che era anch’esso un «primo apprendimento», come lo chiama Du Bos, che può e deve essere seguito dalla meditazione, dal ragionamento: i passaggi successivi che nei lettori di vero “sentimento”, non potranno che confermare quel primo, irresistibile giudizio. Certo le riflessioni di Du Bos e Schiller, così lontane eppure complementari, sono solo una piccola testimonianza di quanto prodotto dalla cultura europea sul tema; Sciascia poteva però trovarne eco nel fedele dizionario del Tommaseo, soprattuto tra le numerose glosse esplicative stese dallo stesso lessicografo dalmata, puntuali e analitiche: Quando distinguiamo i sentimenti e le idee, intendiamo discernere quel che concerne la volontà da quel che l’intelletto, sebbene le operazioni delle due facoltà sempre abbiano del promiscuo. Ma segnatamente ragionando intorno alle opere d’arte e all’uso della parola, cade di dover accennare a una siffatta distinzione.32
Nel “sentimento”, legato dapprima ad una originaria accezione sensistica ebbero gradatamente parte, durante il Settecento, il pensiero, il giudizio, l’intelletto. Al sentimento come gusto innato, lockeiana facoltà primaria di apprendimento, fa luogo il sentimento che riconosce, discerne e giudica, «a separare l’oro dalla sabbia».33 Con questo discernimento Sciascia lavora per delineare il suo Settecento. Nei saggi che compongono il mio lavoro ho cercato di verificare questa tesi su tre
30
L. Sciascia, Parigi, in Cruciverba cit., p. 1272. Id., L’ho letto come uno scrittore d’avventure, cit. 32 N. Tommseo, Dizionario della lingua italiana, vol. XVII, Milano, Rizzoli 1977, p. 549. 33 L. Sciascia, Ortega, l’intelligenza che discute di tutto cit. 31
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fronti: la scelta dei propri auctores, l’affezione a temi peculiari, il procedimento “retorico” della riscrittura della Storia. Si potrà allora rileggere sotto nuova luce la nota adorazione per Diderot e scoprire che Sciascia era verosimilmente meno attratto dal Diderot “letterato”, che dal pensatore e dal filosofo; e che a tenere assieme (nel pantheon dello scrittore) le figure del philosophe, di Stendhal, e di Courier, c’è una comune percezione del problema della posterità, dell’immagine da lasciare di sé alle generazioni future. Si scoprirà, per quanto riguarda i “temi”, che la “conversazione” per Sciascia, non è solo una facile figura analogica da sfruttare con finezza per dare una definizione del proprio scrivere: ma è innanzitutto, come insegna ormai una poderosa bibliografia europea, un modello culturale ben definito, classico e italiano (come ci ricorda Amedeo Quondam).34 Un modello che Sciascia mostra di conoscere alla perfezione e che sa descrivere nel suo settecentesco viaggio di ritorno d’oltralpe, facendolo rivivere tra i giardini all’italiana della Palermo del Consiglio d’Egitto, con tutto il peso del disfacimento, della banalità e della semplificazione subiti, autorevolmente denunciato dalle riflessioni intorno alla Buona Compagnia esposte sul Caffè da Pietro Verri35 e, anni dopo, da Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani.36 E si capirà, infine, che le “riscritture” della storia degli anni Sessanta, furono costruite con il gusto di dissimulare tra le righe del testo affascinanti e non ancora svelati richiami ai più fecondi pensatori di quello che Battaglia, in una lettera allo scrittore, chiamava «illuminismo albeggiante»:37 e non mi riferisco solo alla voce di Pascal che riecheggia nella Recitazione della controversia liparitana (e guarda caso – cosa ancora non rilevata – nel vicino lavoro di traduzione della Velada en Benicarlò di Azaña), ma anche all’imprevedibile affiorare delle Quinte obiezioni di Pierre Gassendi alla seconda meditazione cartesiana, che prestano al condannato Di Blasi (ancora nel Consiglio d’Egitto) le parole di un disperato, celebre e terribile soliloquio. Ma andiamo con ordine, cercando di concludere su questa convinzione il mio intervento. Steso sul tavolaccio nell’attesa terribile del rinnovo della tortura, Di Blasi dà ini-
34
A. Quondam, La conversazione. Un modello italiano, Roma, Donzelli 2007, p. 3. Cfr. P. Verri, La buona compagnia, in «Il Caffè» (1764-1766), a cura di G. Francioni e S. Romagnoli, Torino, Bollati Boringhieri 1993, pp. 447-448. 36 G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, in Id., Poesie e prose, vol. II, a cura di R. Damiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1988, p. 463. 37 La lettera, manoscritta su carta intestata del “Dipartimento di Filologia Moderna” di Napoli, è del 18 febbraio 1970; la citazione è tratta dall’originale visionato presso la Fondazione Leonardo Sciascia di Racalmuto: ma il testo è proposto quasi integralmente in G. Traina, Una problematica modernità. Verità pubblica e scrittura a nascondere in Leonardo Sciascia cit., pp. 186-187. 35
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zio a un lungo soliloquio del pensiero, sulla dualità di corpo e mente, e sulla conoscibilità della vera natura, dell’essenza delle cose; e comincia dai piedi devastati dal fuoco: Ma come, guardando così disteso, tra l’occhio e i piedi gli pareva ci fosse irreale distanza, così era distante il dolore. Pensava a quei vermi che stanno interrati nell’umido: tagliati in due, ciascuna delle due parti continua a vivere, e così si sentiva, una parte del suo corpo viva soltanto del dolore, l’altra della mente. Solo che l’uomo non è un verme, anche i piedi appartengono alla mente: e quando i giudici l’avrebbero di nuovo chiamato, avrebbe dovuto riconquistare questa parte del suo corpo ormai così lontana, quasi recisa; comandare ai piedi di posarsi a terra, di muoversi. Davanti ai giudici, toccava ai piedi esprimere la serenità, la forza della mente: i piedi che già per sette volte, qual suole il fiammeggiar delle cose unte, avevano subito tortura.38
Aveva provato a tenere lontano il dolore con la forza del pensiero, della mente, convinto – cartesianamente – che «è il pensiero quel che non può essere separato»39 dall’uomo, ma ora avvertiva se stesso vivo nel dolore e nella mente, e che i piedi appartenevano alla mente. Aveva ragione dunque, Mirzoza, la favorita del sultano Mangogul dei diderotiani Bijoux indiscrets, con i suoi propositi di «metafisica sperimentale»? Je vous disais donc que l’àme fait sa première résidence dans les pieds; que c’est là qu’elle commence à exister, et que c’est par les pieds qu’elle s’avance dans le corps. C’est à l’expérience que j’en appellerai de ce fait; et je vais peut-être jeter les premiers fondements d’une métaphysique expérimentale.40
Pare di sì. L’«experiénce», l’esperienza del dolore, la sofferenza patita accompa-
38 39
L. Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, cit., p. 620. R. Descartes, Meditazioni filosofiche, a cura di S. Landucci, Roma-Bari, Laterza 2007, p.
43. 40
D. Diderot, Les bijoux indiscrets, in Id., Oeuvres, texte établi et annoté par André Billy, Paris, Gallimard 1951, p. 104: «lls ont prononcé que l’âme est dans la téte, tandis que la plupart des hommes rneurent sans qu’elle ait habité ce séjour, et que sa première résidence est dans les pieds. – Dans les pieds! interrompit le sultan; voilà bien l’idée la plus creuse que j’aie jamais entendue. – Oui, dans le pieds, reprit Mirzoza; et ce sentiment, qui vous parait si fou, n’a besoin que d’étre approfondi pour devenir sensé, au contraire de tous ceux que vous admettez comme vrais et qu’on reconnaìt pour faux en les approfondissant. Votre Hautesse convenait avec moi, tout à l’heure, que l’existence de notre àme n’était fondée que sur le témoignage intérieur qu’elle s’en rendait à elle-méme; et e vais lui démontrer que toutes les preuves imaginables de sentiment concourent à fixer l’âme dans le lieu que je lui assigne. – C’est là où nous vous attendons, dit Mangogul. – Je ne demande point de gràces, continua-telle; et je vous invite tous à me proposer vos difficulties». VII. Italiani della letteratura
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gnano il razionalista, il cartesiano Di Blasi, sulla strada del materialismo più netto: e le fonti del suo ragionamento si possono ritrovare nell’alveo della tradizione del più intransigente sensismo libertino. Il suo disperato soliloquio continua infatti la divagazione (anti)metafisica, evocando da lontano, come accennato, le Quinte obiezioni di Pierre Gassendi alla seconda meditazione cartesiana:41 il dolore fisico, la mutilazione o la minorazione del corpo, danno alla solitudine una qualità assoluta, recidono anche quegli esili fili che nel più profondo dolore dell’anima pure riusciamo a mantenere tra noi e gli altri… Hai detto dell’anima… Davvero puoi ancora pensare all’anima, se la tortura ti ha dimostrato che il tuo corpo è tutto? Il tuo corpo ha resistito, non la tua anima; la tua mente che è corpo. E il tuo corpo, la tua mente, tra poco… Mas tu y ello juntamente en tierra en humo en polvo en sombra en nada… Ancora un poeta: un poeta che non amavi poi molto. Ma ora li ami tutti: sei come un ubriacone che non distingue più i vini.42
«Il tuo corpo ha resistito, non la tua anima. La tua mente che è corpo»; come dire «Chiamandomi carne, non mi togli lo spirito; chiamando te stesso spirito non ti togli la carne».43 E con l’ultimo verso del sonetto gongoriano Mientras por competir con tu cabello, il delirio del limpido giacobino (campione di una razionale e dissonante “civiltà perfezionata” nella Palermo codina e reazionaria) è ormai sfociato in integerrimo nichilismo. Ma credo a questo punto di aver esaurito il mio tempo, per cui vi ringrazio dell’ascolto, e vi rimando – per chi volesse – alla futura pubblicazione del mio lavoro.
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Cfr. R. Descartes, cit., p. 45 «La mente umana, e come la si conosca meglio che i corpi […] Sono quindi una cosa vera, veramente esistente; ma quale cosa? L’ho appena detto: una cosa che pensa. E che altro ancora? Per quanto mi sforzi con l’immaginazione, non trovo nient’altro. Non sono di certo quel complesso di membra che vien chiamato corpo umano…» 42 L. Sciascia, Il Consiglio d’Egitto cit., p. 620-621. 43 P. Gassendi, Opera, Lyon, Sorbière 1658, III, p. 864 (cit., in G. Ficara, Casanova e la malinconia, Torino, Einaudi 1999); ma cfr. P. Gassendi, Disquisitio metaphysica seu dubitationes et instantiae adversus Renati Cartesii metaphisicam et responsa, Paris, Librairie Philosophique J. Vrin 1962, p. 15 (Amsterdam, Iohannem Blaeu 1644): «Tametsi enim e carneum me dicas, non ideo facis exanimem; ut neque tametsi te mentalem geras, te idcirco facis excarnem. Quare et permittendum tibi, ut pro genio loquaris tuo; sufficitque, ut Deo propitio, neque ego sim plane caro sine mente, neque tu plane mens sine carne». Italiani della letteratura: Leonardo Sciascia
BANDELLO E L’IDENTITÀ CULTURALE NELLA
LOMBARDIA DEL CINQUECENTO
SANDRA CARAPEZZA Cultura toscana e identità lombarda nel novelliere
Il maggior novelliere italiano del XVI secolo, quello di Matteo Bandello, si apre con una novella narrata a Milano da un fiorentino. Emerge con chiarezza l’intenzione di definire già in sede iniziale due poli diversamente cruciali nella geografia dell’opera: l’uno, Milano, è il vero centro di gravità per il narratore lombardo, che lo sceglie come teatro di molte novelle e moltissime dedicatorie; l’altro, Firenze, svela la sua importanza in absentia, come si vedrà. Il contatto con la tradizione culturale italiana (ossia toscana) si stabilisce qui, nella prima novella, una volta per tutte. Ma la scelta di esordire in terra toscana non implica affatto l’ammissione della supremazia culturale toscana. Al contrario, con il suo libro, Bandello dichiara la propria volontà di deviare dalla strada inaugurata da Boccaccio e battuta poi da Sacchetti. E il tradimento si compie anche con la scelta di relegare Firenze in posizione marginale. Con la prima novella dunque si paga un tributo alla prosa del genere: dopo di ché il milieu toscano può essere accantonato a favore di ambientazioni più consone alle intenzioni dell’autore. Nella prima dedicatoria Bandello illustra la genesi della sua opera: rivolgendosi a Ippolita Sforza Bentivoglio, signora del palazzo di Porta Comense a Milano di cui l’autore era assiduo frequentatore, Bandello riferisce di essere stato sollecitato dalla nobildonna a comporre il suo novelliere («fare una scielta degli accidenti che in diversi luoghi sentiva narrare e farne un libro»)1 e di aver quindi raccolto senza un ordine cronologico i suoi scritti, assegnando a ciascuno di essi un «padrone» fra i nobili da lui frequentati. La dedicatoria, come si conviene alla natura deferente del testo, pone in primo piano la gentile destinataria: una volta scelto di dedicare ciascuna novella a una nobildonna o a un nobiluomo, Bandello avrebbe immedia-
1 M. Bandello, La prima parte de le novelle, a cura di D. Maestri, Alessandria, Edizioni dell’Orso 1992, p. 3.
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Sandra Carapezza
tamente reso omaggio, prima che ad altri, a Ippolita Sforza e, poiché la novella che segue era stata narrata a casa di lei a Milano, egli solo per questo motivo l’avrebbe inserita per prima nel novelliere. È evidente però che si tratta di una costruzione dell’autore: ambienti, temi e intreccio della novella stessa non possono non aver giocato un ruolo rilevante nella collocazione del racconto all’interno del libro. Le osservazioni sull’origine del novelliere e sul modo di procedere dell’autore contenute della dedicatoria corroborano implicitamente la tesi del rilievo assegnato alla prima novella. Ma prima di sapere quale sarà il «fierissimo accidente, altre volte a Firenze avvenuto»2 narrato – nella finzione – da Lodovico Alamanni (fiorentino) e scritto da Matteo Bandello (lombardo), l’autore si premura di ribadire un concetto che aveva già espresso nella dedica ai lettori con la quale si apre la raccolta: «io son lombardo e in Lombardia a le confini de la Liguria nato» e dunque «come io parlo così ho scritto».3 Non si tratta soltanto di un’excusatio topica d’esordio, giacché la questione è trattata esplicitamente almeno in una decina di occasioni, distribuite con una discreta omogeneità nell’opera (ma con un picco in sede iniziale). Professandosi lombardo,4 chi scrive dichiara a chiare lettere la propria novità. La prima dedica ai lettori e le lettere premesse alla prima e alla seconda novella insistono cioè sulla peculiarità della redazione bandelliana rispetto all’archetipo del Decameron, che consiste soprattutto – secondo quel che attesta qui l’autore – nella soluzione linguistica lombarda. Più avanti, nella dedica ai lettori a esordio della terza parte la confessione di essere lombardo è formulata con toni intensamente apologetici: neppure Omero, Virgilio e Livio furono al riparo dalle critiche, così anche chi scrive non può negare di avere detrattori, ma non per questo può mutare la propria lingua, essendo egli appunto lombardo e non toscano, pur ammirando la lingua toscana perché «molto castigata e bella».5 Di tutt’altro tenore sono invece le ultime affermazioni del novelliere a proposito della lingua, contenute nella dedica alla novella 24 della quarta parte, dove non si parla neppure più di lombardo, ma di «lingua contadinesca bergamasca»6 e, in
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Ibidem. Ivi, pp. 4-5. 4 Cfr. la novella 40 della prima parte, dove lo scrittore protesta di essere lombardo prima di introdurre come narratore Machiavelli, facondo dicitore toscano. Da Machiavelli, del resto, Bandello, nonostante l’esibita presa di distanza linguistica, attinge molte espressioni, come risulta dallo studio N. Borsellino, Schede per Bandello: boccaccismi e machiavellismi, in Id., La tradizione del comico, Milano, Garzanti 1989, pp. 163-177. 5 M. Bandello, La terza parte de le novelle, a cura di D. Maestri, Alessandria, Edizioni dell’Orso 1995, p. 7. 6 M. Bandello, La quarta parte de le novelle, a cura di D. Maestri, Alessandria, Edizioni dell’Orso 1996, p. 155. 3
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netto contrasto con il repertorio dei grandi citato nella dedica della terza parte, lo scrittore assicura la propria consapevolezza di non poter essere incluso neppure nel novero di quanti sono in grado di esprimere l’ombra dello stile di Boccaccio. Il topos modestiae, per giunta con citazione dantesca (ché «l’ombra del suo leggiadro stile» evoca «l’ombra del beato regno» del primo canto del Paradiso, verso 23), oltre ad essere in patente contraddizione con affermazioni precedenti, è vistosamente iperbolico. La «lingua contadinesca bergamasca» è un’evidente esagerazione: come esagerati e iperbolici sono gli intrecci a cui tale lingua dà vita. Alla costruzione delle storie, ovvero al mirabile dei casi, Bandello affida il successo del libro, secondo quel che egli stesso afferma a partire già dalla prima dedicatoria, dove confessa di aver raccolto le sue novelle «solo per tener memoria de le cose che degne mi son parse d’essere scritte»,7 non alle involuzioni dello stile, che anzi qualifica come «rozzo». Un’intenzione programmatica – paradossalmente proprio quella della rozzezza, sotto la quale si cela piuttosto la fedeltà al dettato locale – investe anche il versante stilistico e linguistico dell’opera, che infatti risulta omogeneo proprio nell’esibita antitoscanità. Dopo aver dichiarato (e quindi implicitamente difeso) lo stile lombardo, Bandello chiude la dedicatoria a Ippolita Sforza e cede la parola al narratore toscano della prima novella. Può risultare utile a questo punto, ora che siamo penetrati all’interno della narrazione, delimitata dalla cornice delle lettere, dare uno sguardo al complesso dell’opera, in prospettiva spaziale. Più del sessanta per cento delle novelle bandelliane è ambientato entro i confini attuali dell’Italia. Vero è che una suddivisione spaziale operata secondo gli assetti nazionali odierni, se ha il pregio di agevolare la percezione, rischia tuttavia di generare interpretazioni anacronistiche.8 È incontestabile comunque che la maggioranza delle novelle si concentri nell’area settentrionale della penisola. Scendendo nel dettaglio, esaminando per campione le prime dieci novelle si rileva che la prima, come detto, è ambientata a Firenze; se ne registra poi un’altra a Napoli, quindi cinque si svolgono nell’Italia settentrionale: una città della Lombardia non meglio specificata; Pavia (e Milano: la novella della duchessa di Cellant); Milano; Gazzuolo e di nuovo Milano. Rimangono tre novelle che varcano i confini italiani, a vantaggio della varietà del complesso. Il campione scelto è paradigma del novelliere: riflette infatti la predominanza del contesto lombardo (uso il termine in accezione estesa). Sono meno di quaranta le novelle che oltrepassano il territorio emiliano.
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M. Bandello, La prima parte de le novelle cit., p. 5. A proposito di spazi nazionali, converrebbe abbandonare i termini corrispondenti agli attuali confini di stato e sostituirli con quelli delle regioni o dei centri culturali. Cfr. M. Pozzi, Matteo Bandello, l’Italia e l’Europa, in «Matteo Bandello», I (2005), pp. 13-22: 20. 8
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La netta prevalenza delle ambientazioni nel nord della penisola confina la Toscana in posizione marginale. Tornando allora alla prima novella, è lecito affermare che, con la scelta di collocare al primo posto un racconto non solo ambientato a Firenze, ma anche riecheggiato ampiamente nelle cronache e nella letteratura, Bandello abbia voluto rendere omaggio in apertura del novelliere alla priorità culturale toscana. La novella ha per tema le malaugurate nozze rifiutate da Buondelmonte de’ Buondelmonti, origine della guerra interna alla città. Eppure, dopo questo esordio nel segno della tradizione letteraria, nel complesso delle quattro parti (duecentoquattordici novelle), se ne contano soltanto sei fiorentine. Il filone municipalista della novella di beffa, che aveva raggiunto il culmine con Sacchetti, è pressoché ignorato da Bandello, che rivendica orgogliosamente la propria inclinazione lombarda, non solo nelle scelte linguistiche. La vivacità di spirito che la tradizione assegna ai toscani e che, anche nel secolo di Bandello, i fiorentini sbandierano come tratto identitario (valga l’esempio di Anton Francesco Doni) anima una sola novella: la 28 della terza parte, dove un fanciullo fa tacere un predicatore goloso rinfacciandogli il suo vizio. Si tratta di una novella caratterizzata da una lunga introduzione storica, che racconta doviziosamente le cause e le conseguenze della presa di Otranto da parte dei Turchi; per far fronte alla minaccia orientale la Chiesa incentiva la predicazione: fra gli altri, frate Michele è inviato da Milano a Firenze, dove si esibisce in infiammati sermoni per mettere in guardia i fedeli dai rischi della penetrazione musulmana. Ma la sua corpulenza e la notorietà della passione culinaria smorzano l’efficacia delle sue parole, come ben sintetizza il ragazzino che con il suo motto irriverente svergogna il religioso durante l’omelia. Il giovanissimo anonimo è il solo campione della parola arguta tra i fiorentini, tradizionali maestri del genere. Emulo di tanti concittadini della novellistica precedente, anche il pittore Filippo Lippi9 riesce abilmente a trarsi d’impaccio, ma i suoi meriti non sono ascrivibili al cromosoma toscano, predisposto per natura alla prontezza di gesto e di parola; derivano invece dalle sue capacità di artista, perciò il suo caso si affianca nella novella a quello di Apelle e nell’epistola dedicatoria a quello di Leonardo. Gli altri fiorentini protagonisti delle novelle di Bandello sono figure esemplari per i loro comportamenti generosi o nobili: dapprima10 la «buona Gualdrada», di memoria dantesca, figlia di Bellincion Berti, che resiste all’amore dell’imperatore Ottone e giunge, lei umile cittadina, a far ravvedere il grande imperatore, dando prova di eccelsa virtù. Con Gualdrada e Ottone (che per Bandello è il terzo, mentre storicamente dovrebbe trattarsi di Ottone IV) siamo in un Medioevo che lo scrittore manipola ai propri fini: le fonti storiche infatti smentiscono la novella che si chiude con la dote largita alla virtuosa fiorentina dall’imperatore. Il
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Novella 58 della prima parte. Novella 18 della prima parte.
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passaggio di Ottone a Firenze sarebbe avvenuto infatti quando Gualdrada era già sposata. Evidentemente, l’allontanamento nel passato consente allo scrittore di trascurare l’esatta cronologia, a vantaggio dell’efficacia della novella, un misto di verità e invenzione. Gli altri exempla di matrice fiorentina hanno ambientazione contemporanea: in due casi11 il protagonista è Alessandro, il primo dei Medici a ricevere il titolo di Duca, che dimostra, anche in giovane età, giustizia e sapienza, con verdetti esemplari. Infine, un mercante fiorentino usa eccezionale cortesia con il notabile inglese Tomaso Cremonello (Thomas Cromwell) e viene largamente remunerato.12 Da questi esempi emerge un dato interessante: la Firenze di Bandello non solo non è la patria d’elezione dei beffatori (la stirpe di Filippo Brunelleschi è estinta per il libro bandelliano), ma non è neppure lo spazio congeniale per la comicità erotica, tipica della novellistica. La novellina del prete castrato che porta con sé in una borsa i suoi testicoli, destinati, prevedibilmente, a finire vittime del caso, qui nelle vesti di una affamata e ignara bambina,13 per esempio, ha un’ambientazione provenzale. Siamo di fronte a un caso di riuso del materiale novellistico, che non richiede la definizione di coordinate specifiche e porta i segni del suo carattere aneddotico universale, slegato dal suolo toscano. Novelline comiche (con un adeguato condimento di sessualità) come questa si trasferiscono nel novelliere di Bandello anche in terra francese. Firenze appare piuttosto come città di virtuosi che di beffatori, forse a compensare la marginalità in cui essa è relegata nell’economia geografica del novelliere. Se si allarga il cerchio alla Toscana si aggiungono quattro novelle: due senesi, una lucchese e una di Maremma, cronologicamente distese dal Medioevo di Pia de’ Tolomei (ancora una memoria dantesca) alla metà del Quattrocento. A un passato forse non troppo lontano dal caso di Pia, fa riferimento la novella che esalta il comportamento leale di Anselmo Salimbene.14 Infine, l’area toscana ospita due novelle d’amore: quella infelice di Niccolò senese,15 collocabile a metà Quattrocento, e quella, cronologicamente più sfumata (ma di età comunale) del giudice di Lucca, che riesce a concretare il suo amore.16 Un ultimo cenno a Siena è nella composita novella 41 della terza parte, una raccolta di curiosità, dove è elogiata la mirabile biblioteca di Pio II. La quarta parte delle novelle, che non ospita nessuna vicenda toscana, ricondu-
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Novelle 15 e 16 della seconda parte. Novella 34 della seconda parte. 13 Novella 39 della terza parte. 14 Novella 49 della prima parte. 15 Novella 58 della seconda parte. 16 Novella 28 della seconda parte. 12
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ce comunque alla città di Lucca, per la questione di Simone Turchi, a cui Bandello allude nella dedica ai lettori: lo sdegno dei parenti lucchesi del personaggio tanto crudelmente effigiato dalla novella avrebbe impedito la pubblicazione della Quarta parte a Lucca, dove erano state pubblicate le prime tre. La storia di Simone Turchi non avviene sul suolo toscano, ma si svolge ad Anversa. Vero è che qui si indugia con peculiare insistenza sui risvolti crudi, ma, nel complesso, l’opera riflette una Toscana abitata da figure positivamente esemplari. Il piano quantitativo però offre un’altra informazione: i fiorentini sono quasi irrilevanti rispetto alla gran massa dei lombardi che popolano il novelliere. Alla culla della cultura (e della novella, in particolare) e della lingua italiana Bandello non può che dirsi debitore, ma con la consapevolezza di chi si sente affrancato, una volta saldati i conti. La prima novella, le esaltazioni di Boccaccio e i ritratti di virtuosi toscani sono diverse forme del dovuto omaggio, ma accanto ad esse vivace spicca la professione di una cultura che attinge anche da altrove, soprattutto dall’entroterra frequentato direttamente. L’esperienza biografica allora anima il novelliere: ne sono segnale i personaggi (per tutti, la prima dedicataria, Ippolita Sforza), ma anche i luoghi. Il polo urbano che maggiormente catalizza l’attenzione di Bandello è naturalmente Milano. Ma lo spazio lombardo è rappresentato da una fitta serie di località (basti ricordare Gazzuolo, ma anche Como, Bergamo, Crema); talvolta, invece, la città non è specificata e il riferimento spaziale si limita all’indicazione generica di una città della Lombardia. Milano è al centro di poco più di venti novelle, nelle quattro parti della raccolta. La descrizione dello spazio urbano è dettagliata, con la menzione dei diversi quartieri, ma questa precisione descrittiva non è prerogativa soltanto milanese; rientra, semmai, nella poetica del verosimile sottesa all’opera bandelliana (o piuttosto al genere novellistico). Anche le novelle veneziane, per esempio, si svolgono in scenari minutamente tratteggiati, con attenzione ai rioni della città. L’intersezione tra spazio e tempo conferma, nel caso di Milano, l’intenzione di avvalorare i racconti collocandoli a ridosso del presente. Allo spazio noto corrisponde per lo più un tempo recente, spesso privo di riferimenti precisi e connotato dalle consuete formule di indicazione per il passato prossimo (variazioni sul tema dell’«or non è molto»). Talvolta è la puntuale descrizione di pratiche e usi civili o privati a consentire di situare nel tempo la novella, che fa appello all’esperienza quotidiana del pubblico. Per lo più, tuttavia, sono citati i signori della città, fra i quali un posto di rilievo occupa Galeazzo Sforza. Uno dei contesti privilegiati per l’ambientazione, dunque, è la Lombardia quattrocentesca: le novelle milanesi risalgono fino al 1440. Molti dei racconti si arrestano al di qua della soglia del sedicesimo secolo e ciò non vale solo nel caso di Milano, ma si configura come tendenza generale dell’opera. La regressione alla generazione precedente consente allo scrittore una discreta libertà, riducendo i rischi insiti nella cronaca troppo fresca e, d’altro lato, non comporta la rinuncia a un contesto storico e spaziale noto e dunque a costumi e prassi condivise o conosciute dal pubblico. Perciò Bandello pratica con frequenza il territorio quattrocentesco, che inoltre può vantare uno stato di benessere e di pace, poi VII. Italiani della letteratura
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distrutto dalle guerre d’Italia. Ma la retrodatazione al passato recente assume anche un valore di autorizzazione letteraria. La novella è un genere impresso fin dalle origini dal segno dell’oralità. Il filtro temporale tra i fatti narrati e il momento della narrazione si configura come il tempo di una proficua sedimentazione, durante il quale la novella si è costruita nella tradizione orale. Il tempo conferisce una valenza letteraria al racconto, ne legittima l’inclusione nel repertorio dei materiali narrativi da cui attinge il narratore di novelle. La molteplicità delle ambientazioni delle novelle è già nel Decameron, opera sicuramente fiorentina, ma non certo tacciabile di municipalistica chiusura entro lo spazio cittadino. Bandello però mostra di non aver elevato il precedente a intangibile modello. I suoi beffatori non sono di necessità fiorentini, come voleva un ricco filone novellistico tre e quattrocentesco, dalla spicciolata al caso esemplare di Sacchetti. La sua è una declinazione personale: da un lato, fortemente impressa dal segno dell’origine lombarda (che qui si è posta in evidenza su due piani: quello linguistico e quello delle ambientazioni), d’altro lato, però, (a scongiurare provincialistici campanilismi) dischiusa su tutto il continente, come dimostra ancora la dimensione spaziale, con la varietà degli scenari.
Bandello e l’identità culturale nella Lombardia del Cinquecento
MILENA CONTINI La corte e il territorio in Bandello
Partendo dalla convinzione che il Bandello scrisse gran parte delle novelle e la totalità delle lettere dedicatorie in Francia, è interessante indagare la sua percezione «a distanza» del territorio di appartenenza. Il Bandello, com’è ampiamente noto, si autodefiniva «lombardo»:1 fin dalla Prefazione ai lettori della Prima Parte tiene a sottolineare l’identità lombarda della propria lingua: Io non voglio dire come disse il gentile ed eloquentissimo Boccaccio, che queste mie novelle siano scritte in fiorentin volgare, perché direi manifesta bugia, non essendo io né fiorentino né toscano, ma lombardo.
e nella Prefazione della Terza Parte ai «candidi e umanissimi» lettori ribadisce il concetto: A questi dirò io, come mi sovviene altrove d’aver scritto, che io non sono toscano, né bene intendo la proprietà di quella lingua, anzi mi confesso lombardo, anticamente disceso da quelli ostrogoti che, militando sotto Teodorico ecc.
È vero che questo lombardo ebbe l’onore, diciamo così, di essere annoverato tra i Piemontesi illustri, ma l’Elogio2 del Napione del 1787 rientra nell’operazione di «accaparramento» di glorie nazionali per dimostrare a tutti costi la grandezza e soprattutto l’italianità del Piemonte:3 insomma, dato che nel 1748 il Tortonese era
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Il Bandello torna più volte a ribadire «io son lombardo» (I, 2, dedica; I, 40, dedica). L’Elogio di Matteo Bandello fu pubblicato nei Piemontesi illustri del 1787 (Torino, Briolo) e poi ripubblicato in Vite ed elogi d’illustri Italiani, voll. II (Pisa, Capurro 1818), alle pagine 121276. 3 A questo proposito si leggano le considerazioni del Gian Luigi Beccaria: «nell’ambito 2
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Milena Contini
stato aggiunto «agli altri stati della Real casa dominante»,4 all’intellettuale subalpino era parso che anche il castelnovese Bandello, morto da 187 anni, dovesse cambiare nazionalità! Del resto questa affannosa ricerca di celebrità piemontesi aveva portato il canonico De Giovanni e il Napione a cimentarsi nell’avventuroso tentativo di dimostrare le origini piemontesi niente meno che di Cristoforo Colombo.5 Si tenga presente inoltre che la scelta linguistica «non toscana» faceva del Bandello un autore gradito al Napione, spietato oppositore tanto dei riboboli fio-
più vasto di quel fervore col quale gli intellettuali piemontesi cercano per varia via di pareggiare i conti dei propri meriti culturali, primati e glorie coll’altre parti d’Italia, di costruire insomma della propria regione un’immagine italiana, per dare una “legittimazione storiografica” dell’appartenenza del Piemonte “all’area linguistico letteraria nazionale”», G. L. Beccaria, Intellettuali, Accademie, e «questione della lingua», in Piemonte tra Sette e Ottocento, in Atti del convegno «Piemonte e letteratura 1789-1870», a cura di G. Ioli, Torino, Regione Piemonte, Assessorato alla cultura 1985, p. 145. 4 A questo proposito si veda M. Pozzi, La frontiera orientale del Piemonte, in Lingua, cultura, società. Saggi della letteratura italiana del Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso 1989, pp. 312-322. 5 Questo tema fu trattato per la prima volta in una memoria dell’Accademia delle Scienze del 1805: Della patria di Cristoforo Colombo, in Mémoires de l’Académie royale des sciences de Turin, XV, Imprimerie des sciences et des arts 1805, p. 116 e seg. Questa memoria fu ripubblicata con integrazioni (Della patria di Cristoforo Colombo dissertazione pubblicata nelle memorie dell’Accademia Imperiale delle Scienze di Torino ristampata con giunte, documenti, lettere diverse ed una dissertazione epistolare intorno all’autor del libro De imitatione Christi, Firenze, Molini, Landi e comp. 1808). Il Napione, negli anni successivi, dedicò diverse pubblicazioni a questo argomento, che fu riproposto anche da Carlo Vidua, allievo del De Giovanni, in una lettera al Napione (Lettere del Conte Carlo Vidua, a cura di C. Balbo, Torino, Pomba 1834, vol. III, p. 459). Elenchiamo gli scritti napioniani dedicati a questo argomento: Del primo scopritore del continente del nuovo mondo e dei più antichi storici che ne scrissero, Firenze, Molini, Landi e comp. 1808; Della patria di Cristoforo Colombo, Dissertazione seconda, in Mémoires de l’Académie royale des sciences de Turin, XXVII, Imprimerie des sciences et des arts 1823, p. 73 e seg.; Discorso intorno ad alcune regole principali dell’arte critica relativamente alle due dissertazioni della patria di Cristoforo Colombo, Torino, Tipi allianei 1824; Lettera intorno ad uno scritto stampato a Genova nell’anno 1824 intitolato Annotazioni posteriori alla pubblicazione del presente ragionamento; cioè il ragionamento dei signori Serra, Carrega e Piaggio intorno alla patria di Cristoforo Colombo con alcune osservazioni sopra la storia letteraria della Liguria del padre Giambattista Spotorno, Torino, Bocca 1826; Lettera al Sig. Washington Irving sulla patria del Colombo, Torino, Pomba 1829. Anche il Denina fa riferimento alla possibile origine monferrina di Colombo nelle Rivoluzioni d’Italia: «Certamente non mancano forti ragioni per credere che Cristoforo Colombo, creduto comunemente genovese perché cominciò ad apprendere la marineria fra’ Genovesi, fosse del Monferrato e di un castello chiamato Cucaro, dove ancor sussiste una nobile famiglia discendente da un Francesco Colombo, creduto zio paterno di quel famosissimo navigatore», C. Denina, Delle Rivoluzioni d’Italia libri venticinque con giunte e correzioni inedite dell’autore, Firenze, Piatti 1820, vol. III, p. 382. VII. Italiani della letteratura
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rentini quanto dei barbarismi, che non a caso citò il novelliere anche nell’opera Dell’uso e dei pregi della lingua,6 dove si coglie altresì una certa simpatia del misogallico Conte di Cocconato per l’atteggiamento antifrancese e antispagnolo mostrato dal Bandello durante le guerre del primo ’500.7 Del resto il vizio di includere il Bandello tra i piemontesi da commemorare tornò anche nel periodo fascista: nel mensile «Alexandria», infatti, tra un ricordo dedicato a Giuseppe Borsalino, «il re dei cappelli», un pezzo dedicato alla «Befana del Duce» e un reportage sulla rinomata fagiolata di Castiglione d’Asti, trova spazio anche il goffo nonché brodoso articolo Con Matteo Bandello attraverso il Cinquecento, incluso nella serie Contributo alle celebrazioni dei Grandi Piemontesi;8 a qualche mese di distanza, seguiva il saggio di una più recente gloria castelnovese, il giornalista e scrittore P. A. Soldini (Il Bandello castelnovese) inserito invece nella collana I grandi italiani del Piemonte celebrati nella nostra provincia:9 non certo una delle cose migliori del Soldini, in questo caso piuttosto maldestro e fuorviato dalla volontà celebratrice. Dalla lettura delle novelle si apprende che il Bandello era fiero del proprio territorio di origine e dell’antichità del proprio casato (nella novella I, 23 arriva a inventarsi l’avo Bandelchil, per attestare le radici gote dei Bandelli): Castelnuovo è lodata per la salubrità dell’aria,10 per la morigeratezza dei costumi, per la popolo-
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Nel Dell’uso e dei pregi della lingua il Napione sottolinea che il Bandello può essere considerato un piemontese di cultura italiana: «qualora col Villani volessimo comprendere nel Piemonte anche il Tortonese, prima che fosse aggiunto agli altri stati della Real casa dominante», G. F. Galeani Napione, Dell’uso e dei pregi della lingua, Torino, Balbino e Prato 1791, I, p. 85. 7 M. Fubini Leuzzi, Gli studi storici in Piemonte dal 1766 al 1846: politica culturale e coscienza nazionale, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», LXXXI (1983), p. 128. 8 C. De Ferrari di Brignano, Con Matteo Bandello attraverso il Cinquecento, in «Alexandria», agosto 1935. 9 P. A. Soldini, Il Bandello castelnovese, in «Alexandria», ottobre 1935. 10 Si legga il seguente brano: «Sì come chiaramente è noto, la terra nostra di Castelnuovo è posta non molto lontano da le radici de l’Apennino, a la foce ove Schirmia scarca le sue per l’ordinario limpidissime acque in Po. Quivi è l’aria tanto temperata quanto in altro luogo di Lombardia. Del che fanno fede amplissima i molti uomini vecchi che vi si truovano e la sanità che di continuo vi persevera, perciò che molto di rado suol avvenire che straordinarie infermità vi regnino. E, tra l’altre, non ci è memoria che in nessuno di quella patria mai si ritrovasse gotta, se forse altrove non sono andati ad abitare. Io mi ricordo, quando era fanciullo, che per miracolo vedeva messer Pietro Grasso, il qual, essendo nato di madre milanese a Milano ed in Milano nodrito, ne la sua vecchiezza venne a fare il rimanente de la sua vita a Castelnuovo, così mal concio de la gotta, che non poteva andare né aiutarsi de le mani, ma se ne stava sempre a sedere; e conveniva che dai servidori in qua ed in là fosse portato, perciò che aveva i piedi gonfi, stravolti e da le gomme nodose resi assiderati ed attratti, e le mani in modo guaste ed i nodi de le dita di sorte aggroppati e fatti gonfi, che parevano carchi di nespole […] Ora io, che mi dilettava di fuggir il disagio più che io poteva ed imitare le grui e Bandello e l’identità culturale nella Lombardia del Cinquecento
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sità.11 Questi elogi non sfuggirono a Foscarina Trabaudi Foscarini de Ferrari, autrice di un altro articolo apparso su «Alexandria» (Castelnuovo Scrivia e il Bandello), la quale prese spunto dalle parole del Bandello («Quivi è l’aria tanto temperata quanto in altro luogo di Lombardia. Del che fanno fede amplissima i molti uomini vecchi che vi si truovano e la sanità che di continuo vi persevera, perciò che molto di rado suol avvenire che straordinarie infermità vi regnino. E, tra l’altre, non ci è memoria che in nessuno di quella patria mai si ritrovasse gotta, se forse altrove non sono andati ad abitare»; I, 23, dedica) per realizzare uno vero e proprio spot della località: Volete la salute? Volete diventar centenari? Volete tener lontana la gotta? Volete vivere sereni? Volete sfuggire le grandi calure? Andate a Castelnuovo.12
Il luogo però che riceve la maggior quantità di elogi è sicuramente Milano,13
le cicogne, soleva, come più in destro mi veniva, nel tempo de la state andare o in Valtellina a goder que’ freschi di Caspano e dei Bagni del Masino, o vero mi riduceva a Castelnuovo ne le case di mio padre, ove di luglio le notti sí fresche erano che io, che altrove a quei tempi non poteva lenzuolo sopra di me sofferire, quivi tutta la notte dormiva con una buona coperta a dosso, ed il giorno in una saletta terrena senza sentir caldo quel noioso tempo trapassava, avendo sempre compagnia d’amici nostri e di parenti» (I, 23, dedica). 11 «Essa colonia chiamarono Castelnuovo, che anco oggidí per la civiltà de le nobili famiglie e numerosità del popolo è famosa» (Prefazione alla Terza Parte). 12 F. Trabaudi Foscarini de Ferrari, Castelnuovo Scrivia e il Bandello, in «Alexandria», giugno 1934. 13 Si leggano, ad esempio, i seguenti passi: «Milano, come tutti sapete e ogni dì si può vedere, è una di quelle città che in Italia ha pochissime pari in qual si voglia cosa che a rendere nobile, populosa e grassa una città si ricerchi, perciò che dove la natura è mancata, l’industria degli uomini ha supplito, che non lascia che di tutto ciò che a la vita degli uomini è necessario cosa alcuna si desideri, anzi di più v’ha aggiunto la insaziabil natura dei mortali tutte le delicature e morbidezze orientali con le meravigliose e prezzate cose che la nostra età, ne l’incognito agli altri secoli mondo, ha con inestimabil fatica e pericoli gravissimi investigato. Per questo i nostri milanesi ne l’abbondanza e delicatezza dei cibi sono singolarissimi, e splendidissimi in tutti i lor conviti, e par loro di non saper vivere se non viveno e mangiano sempre in compagnia. Che diremo de la pompa de le donne nei loro abbigliamenti, con tanti ori battuti, tanti fregi, ricami, trapunti e gioie preziosissime? che quando una gentil donna viene talora in porta, par che si veggia l’Ascensa ne la città di Vinegia. E in qual città si sa che oggidì siano tante superbe carrette tutte innorate d’oro finissimo, con tanti ricchi intagli, tirate da quattro bravissimi corsieri come in Milano ognora si vede? ove più di sessanta da quattro cavalli, e da dui infinite se ne troveranno, con le ricchissime coperte di seta e d’oro frastagliate e di tanta varietà distinte, che, quando le donne carreggiano per le contrade, par che si meni un trionfo per la città, come già fu costume de’ romani quando con vittoria da le domite provincie e regi debellati e vinti a Roma tornavano. Sovviemmi ora ciò che l’anno passato VII. Italiani della letteratura
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teatro di numerose novelle: a Milano, ad esempio, si consuma l’ultima parte della celeberrima novella della contessa di Challant (Ardizzino è ucciso nella contrada de’ Meravegli, mentre la contessa è decapitata «nel rivellino del castello verso la piazza»; I, 4). Il Bandello visse a Milano a più riprese dal 1497 al 1500, dal 1506 al 1515 e dal 1522 al 1526.14 Nella città frequentò i circoli degli umanisti e i salotti aristocratici15 (legandosi soprattutto alla famiglia Bentivoglio): questi salotti erano
io udii in Borgonuovo dire a l’illustrissima signora Isabella da Este, marchesana di Mantova, la quale andava in Monferrato, essendo alora morto il marchese Guglielmo, per condolersi con quella marchesana. Ella fu onoratamente visitata da le nostre gentildonne come sempre è stata tutte le volte che ella è venuta a Milano. E veggendo insieme tante ricche carrette così pomposamente adornate, disse a quelle signore che le erano venute a far riverenza che non credeva che nel resto di tutta Italia fossero altretante sì belle carrette. In queste adunque delicatezze, in queste pompe e in tanti piaceri e domestichezze essendo le donne di Milano avvezze, sono ordinariamente domestiche, umane, piacevoli e naturalmente inclinate ad amare e ad essere amate e star di continovo su l’amorosa vita. E a me, per dirne ciò ch’io ne sento, pare che niente manchi loro a farle del tutto compite, se non che la natura le ha negato uno idioma conveniente a la beltà, ai costumi e a le gentilezze loro. Ché in effetto il parlar milanese ha una certa pronunzia che mirabilmente gli orecchi degli stranieri offende. Tuttavia elle non mancano con l’industria al natural diffetto supplire, perciò che poche ce ne sono che non si sforzino con la lezione dei buon libri volgari e con il praticare con buoni parlatori farsi dotte, e limando la lingua apparare uno accomodato e piacevole linguaggio, il che molto più amabili le rende a chi pratica con loro» (I, 9); «Milano, devete sapere, è oggidì la più opulente e abbondante città d’Italia e quella ove più s’attenda a fare che la tavola sia grassa e ben fornita. Ella oltra la grandezza sua che i popoli di molte città cape, ha copia di ricchissimi gentiluomini dei quali ciascuno per sé sarebbe sufficiente ad illustrare un’altra città. E s’un centinaio di gentiluomini milanesi i quali io conosco fossero nel reame di Napoli, tutti sarebbero baroni, marchesi e conti; ma i milanesi in ogni cosa attendeno più a l’essere e al viver bene che al parere. Sono poi tutti molto più vaghi de le belle donne, de le quali assai ce ne sono, e di star continovamente su le pratiche amorose, che in città che io mi conosca, e tutti per l’ordinario fanno a’ forestieri di molte carezze e gli vedeno molto volentieri. Stanno dunque tanto più su l’amorose pratiche quanto che vi trovano la pastura più grassa ed abbondante, essendo tutte le donne così vaghe degli uomini come essi sono di loro. Per questo si vedeno tutto il dì a belle schiere tutte le sorti d’uomini sovra le invellutate e superbamente guarnite mule, sovra correnti e snelli turchi, sovra velocissimi e leggeri barbari, sovra vivaci ed animosi giannetti, sovra feroci corsieri e sovra quietissimi ubini, con nuove fogge di vestimenti, or quinci or quindi passeggiare, che propriamente paiono pecchie o, come qui si dice, api che a torno a torno ai vaghi fiori vadano scegliendo il mele. Si veggiono altresì di molte indorate carrette con coperte carche di trapunti, che quattro schiumosi corsieri tirano, che par che si veggia trionfar un imperadore e dentro le carrette vi sono assise di bellissime donne, le quali sen vanno per la città diportando» (II, 8). 14 Sui soggiorni milanesi del Bandello si veda G. Morazzoni, La Milano e i Milanesi del Bandello, in «La Martinella di Milano», III, luglio-agosto 1949, settembre 1949, gennaio 1950. 15 A questo proposito si veda P. Portalupi, La casa degli Atellano in Milano, Milano-Roma, Besetti e Tummelli 1922. Bandello e l’identità culturale nella Lombardia del Cinquecento
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una sorta di surrogato della corte, che nella città lombarda di fatto non esisteva più. Essa sopravviveva solo nella memoria e il Bandello in qualche modo riuscì a resuscitarla attraverso le novelle, che riproponevano un passato cronologicamente non così distante, ma ormai fatalmente superato e lontano e divenuto di conseguenza mitico. Milano è descritta e raccontata da diversi punti di vista ed è curioso notare come l’immagine della città offerta dal Bandello somigli molto a quella attuale, tanto per i pregi quanto per le pecche: Milano è ricca,16 sfarzosa, elegante e i suoi abitanti sono votati al lavoro sì, ma anche al divertimento e ai piaceri della tavola, della carne, del lusso17 e del bello in genere. Milano è una città seria, ma libera e anche le sue donne godono di ampia libertà. Voi mi perdonarete s’io non lascio andar la mia moglie ov’ella vuole e se non le do tanta libertà quanta in Milano si costuma, perché io conosco il trotto e l’andar del mio polledro, non mi parendo di lasciargli la briglia sul collo. (I, 4, dedica)
Vengono ricordati il Duomo, il Castello Sforzesco18 e il Cenacolo, nel quale il Bandello narra di aver visto Leonardo all’opera19 durante il suo primo soggiorno presso il Convento delle Grazie. La «capitale» lombarda non è certo un paradiso terrestre: pur essendo una città generalmente onesta, non mancano certo i delinquenti da un lato e gli sprovveduti dall’altro («Ché se io questi dì vi lodai esso Milano, non vorrei perciò che voi credeste che tutti i milanesi fossero Salomoni e tra loro non fossero assai feudatarii de la badia di San Sempliciano»; II, 47) e, nei mesi estivi, il caldo rende l’aria soffocante («vi dico che in questi ardentissimi caldi che fuor di misura in questi giorni canicolari qui in Milano regnano, io ho messo da canto tutti i miei più gravi studii»; III,
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«dal nostro fertile e ricco Milano, patria d’ogni buona cosa abondevole» (III, 24). «con quelli abiti di varii colori e lunghi che in Milano dai gentiluomini s’usano, con certi pennacchi in capo» (I, 28). 18 «Tre belle cose sono in Milano: il domo e il castello e la mogliere del frate Ghiringhello» (IV, 8). 19 «Erano in Milano al tempo di Lodovico Sforza Vesconte duca di Milano alcuni gentiluomini nel monastero de le Grazie dei frati di san Domenico, e nel refettorio cheti se ne stavano a contemplar il miracoloso e famosissimo cenacolo di Cristo con i suoi discepoli che alora l’eccellente pittore Leonardo Vinci fiorentino dipingeva; il quale aveva molto caro che ciascuno veggendo le sue pitture, liberamente dicesse sovra quelle il suo parere. Soleva anco spesso, ed io più volte l’ho veduto e considerato, andar la matina a buon’ora e montar sul ponte, perché il cenacolo è alquanto da terra alto; soleva, dico, dal nascente sole sino a l’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare e il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì che non v’averebbe messa mano, e tuttavia dimorava talora una e due ore del giorno, e solamente contemplava, considerava, ed essaminando tra sé, le sue figure giudicava» (I, 58, dedica). 17
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17, dedica);20 inoltre la lingua milanese «ha una certa pronunzia che mirabilmente gli orecchi degli stranieri offende».21 Nonostante queste macchie, Milano è una delle città più piacevoli in cui vivere; la novella II, 31 si apre, ad esempio, con un’apologia del «parlar» milanese e con un elogio quasi iperbolico della città, messo in bocca al «bel favellatore» Carlo Attellano. Data la sua importanza, conviene citarne un brano: Il primo cardinale Trivulzo, che nato e nodrito era stato in Milano a fu già vecchio fatto cardinale, andò a star a Roma al tempo di papa Giulio secondo. Egli parlando non si poteva nasconder che non fosse milanese, sì schiettamente quel linguaggio parlava. Gli fu da molti detto che devesse mutar parlare ed accostumarsi a la lingua cortegiana; onde sorridendo rispose loro che gli mostrassero una città megliore e d’ogni cosa più abondante di Milano, che alora egli imparerebbe quell’idioma; ma che ancor non aveva sentito dire che ci fosse un altro Milano. E ben diceva egli il vero, perciò che a lo stringer de le balle pochi Milani si trovano. Onde io che per l’Europa e per l’Affrica sono tanti anni ito errando, a parlar da gentiluomo e dire veramente ciò che
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Il Bandello insiste più volte sulla insopportabile canicola milanese: «Questa state passata, essendo voi per gli estremi caldi che ardevano la terra partita da Milano e ridutta con la famiglia al vostro castello di San Giovanni in Croce nel Cremonese» (22, XXII, dedica); «A Milano […] era la stagione di luglio, nel tempo che i giorni canicolari sogliono esser alquanto fastidiosi» (I, 44, dedica); «Io questa state passata, per fuggir i caldi che talora sono eccessivi in Milano» (III, 52, dedica); «Era del mese di maggio, che il caldo suole molte fiate stranamente crescere; e nel vero quell’anno cominciò l’aria ad esser molto calda, e se altrove il caldo è fervente, in Milano è egli a simile stagione ferventissimo» (III, 20). 21 Riportiamo anche la prima parte del passo: «Egli è una gran cosa, madama mia osservandissima, che ogni volta ch’io voglio parlar de la mia patria Milano, ci siano pur assai che così mal volentieri m’ascoltino, massimamente se io mi metto a voler lodar quella città. E nondimeno ce ne sono molti che non si ricordando avermi talora ripreso che io voglia lodar la mia patria, entrano, non se n’accorgendo, nel pecoreccio di voler metter sovra le stelle alcune patrie loro che Dio per me vi dica come mertano esser lodate. E se io domando loro per qual cagione non vogliono che io dica bene de la patria mia, altro insomma non mi sanno che rispondere se non che il parlar milanese è troppo più goffo che parlar che s’usi in Lombardia, e quasi che non si vergognano chiamarlo più brutto che il bergamasco. Ma io non trovo mai, – per l’ordinario, dico, – che i tedeschi parlino altro linguaggio che il loro, i francesi quello di Francia, e così ogni nazione il parlar suo nativo. Io non vo’ già dire che la lingua cortegiana non sia più limata de la milanese, ché mi crederei dir la bugia; ma bene mi fo a credere che nessuna lingua pura che s’usi del modo ov’è nata, che sia buona. Si pigli pure e la toscana e la napoletana e la romana o qual altra si voglia, che tutte, non ne eccettuando alcuna, hanno bisogno d’esser purgate e diligentemente mondate, altrimenti tutte tengono un poco del rozzo ed offendono gli orecchi degli ascoltanti. Così credo io che il parlar milanese sia da sé incolto, ma si può leggermente limare. Tuttavia io non saperei biasimare chiunque si sia che la lingua sua volgare parli, che insieme con il latte ha da’ teneri anni bevuta» (I, 9). Bandello e l’identità culturale nella Lombardia del Cinquecento
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ne sento, io reputo Milano aver poche città che il pareggino e siano d’ogni cosa al viver umano necessaria sì abondevoli come egli è. Il perché Ausonio Bordegalese nel catalogo de le città mirabilissimamente lo commenda e quasi lo fa pari a Roma, in quei tempi che ancora Roma da’ barbari non aveva ricevuto danno, ma intiera e bella fioriva. Se adunque un poeta guascone lo loda, non riputo che a me debbia esser disdicevole aver fatto il medesimo e farlo ogni volta che me ne venga l’occasione22
Questa laus Mediolani ha ovviamente alle spalle una ricchissima tradizione (si ricordino l’Ordo urbium nobilium di Ausonio, nominato nel passo succitato, l’anonimo carme De Mediolano civitate, il De Magnalibus Mediolani di Bonvesin della Riva, il De Mediolano civitate di Benzo d’Alessandria, la Chronica de antiquitatibus civitatis Mediolani di Galvano Fiamma, il De laudibus Mediolanensis urbis di Decembrio, l’Oratio pro populo Mediolanensi di Iacopo Antiquari): in questa pagina bandelliana (e in altre) però non si legge il semplice desiderio di lodare una città, ma la volontà di identificarsi in essa. Il Bandello è ormai lontano e sradicato dal proprio territorio e quindi sente l’esigenza di trovare un luogo specifico da chiamare patria, anzi, con un termine tedesco molto più eloquente e denso di significati, un luogo da chiamare heimat: anche se visse a Milano solo 16 dei suoi 76 anni di vita, egli prova un forte senso di appartenenza nei confronti della città lombarda, che viene guardata dall’Aquitaine come la «casa» da celebrare con nostalgia. Per questo Antonia Tissoni Benvenuti ha sottolineato come il Bandello «sembra farsi più milanese proprio nel ricordo nostalgico degli anni dell’esilio».23 Nei ricordi del Bandello però c’è spazio anche per un’altra città, Mantova, luogo amatissimo dall’autore, che qui trovò «la corte» che abbiamo visto essersi ormai eclissata a Milano. Egli visse nell’elegante e brillante città di Francesco Gonzaga dal 1515 al 1522,24 divenendo intimo di Isabella d’Este:25 Era, come sapete, mio costume, quando in Mantova dimorava, mentre che madama Isabella da Este marchesa al suo amenissimo palazzo di Diporto si teneva, andar due o tre volte la settimana a farle riverenza, e quivi tutto il giorno me ne stava, ove sempre erano signori e gentiluomini che di varie cose ragionavano
Mantova è scenario di varie novelle, il Bandello però si abbandona raramente a
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II, 31. A. Tissoni Benvenuti, Milano sforzesca nei ricordi del Bandello: la corte e la città, in Gli uomini, le città e i tempi di Matteo Bandello, Atti del II Convegno internazionale di studi Torino-TortonaAlessandria-Castelnuovo Scrivia 8-11 novembre 1984, Tortona 1985, p. 123. 24 Su Bandello a Mantova si veda Sabbadini, Le relazioni letterarie di Matteo Bandello con l’ambiente mantovano, Tesi dell’Università Cattolica di Milano, anno 1967-68. 25 Su Bandello e Isabella d’Este si veda A. Luzio, R. Renier, La coltura e le relazioni letterarie di Isabella d’Este Gonzaga, in «Giornale storico della letteratura italiana», XXXIII-XLII 18991903. 23
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descrizioni della città, che è tratteggiata con contorni meno marcati rispetto a Milano. Egli regala solo qualche pennellata: ad esempio, sottolinea i forti contrasti climatici della città, freddissima d’inverno: E ancora che per tutta Lombardia le nevi fossero in grandissima abondanza e i freddi di strana maniera facessero tremar ciascuno, in Mantova nondimeno, che a freddissimi venti è sottoposta, fu il freddo sì intenso e le nevi in terra tanto durarono, che qualunque persona v’era restava stupidissima. Il nostro limpidissimo lago, che la città abbraccia e con le sue acque cinge, tutto in cristallina pietra era converso. Il piacevolissimo ed onorato Mincio, che per i nostri lieti campi discorrendo suole agli abitanti graziosissima vista porgere, in durissimo ghiaccio congelato, pareva che tutto di puro vetro fosse divenuto26
e rovente d’estate: Essendosi questa state, per fuggir gli intensi caldi che in Mantova a sì fatta stagione per lo stagnar de l’acque si sentono, la gloriosa eroina nostra commune padrona, la signora Isabella da Este marchesa di Mantova, ritratta ne la rocca ecc.27
La corte di Mantova però è più «visibile» di quella milanese da un punto di vista artistico: infatti le uniche «grandi» opere d’arte cinquecentesca citate dal Bandello, a parte il Cenacolo, sono quelle della corte di Mantova. Egli, nelle novelle, fa riferimento ai Trionfi di Andrea Mantegna28 e ne Alcuni fragmenti de le rime presenta invece un esercizio di ecfrasi «su una delle invenzioni manieriste che più colpirono l’immaginario dell’epoca»:29 la stanza della Caduta dei giganti ideata da Giulio Romano a Palazzo Te. A Mantova il Bandello incontrò il condottiero Luigi Gonzaga, signore di un piccolo feudo mantovano e primo cugino di Francesco, che si rivelò una conoscenza importante per le sorti del domenicano: il comandante infatti gli offrì protezione dopo la fuga da Milano del 152630 e lo «ospitò» a Castel Goffredo tra il 1538 e il 1541 (in questa piccola e raffinata corte il Bandello divenne precettore dell’incantevole Lucrezia Gonzaga di Gazzuolo). Mantova non è una patria, ma un luogo piacevole e, soprattutto, sicuro:
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I, 16. II, 5, dedica. 28 Enrico Mattioda ha sottolineato come Mantegna sia ricordato da Bandello anche nell’Oratio parentalis: «Andreae Mantineae clarissimorumque aliorum pictrum tabulae multae, maxima Gonzaga impensa, publico huius urbis decori consecratae», M. Bandello, Opera latina inedita vel rara, a cura di C. Godi, Padova, Antenore 1983, p. 287. 29 E. Mattioda, Bandello e le arti figurative (intervento in corso di pubblicazione). 30 Cfr. P. Gualtierotti, Matteo Bandello alla corte di Luigi Gonzaga, s. l., Vitam 1978. 27
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Il perché in quei dì ai fuorusciti di Lombardia fu la città di Mantova sicurissimo porto e refugio certo, ove il signor Francesco Gonzaga marchese, uomo liberalissimo, assai ne raccolse31
A questo proposito Fiorato si domanda se il soggiorno mantovano fosse stato per il Bandello un esilio forzato, un allontanamento volontario suggerito dalla prudenza o un semplice cambio di residenza. 32 Sicuramente Mantova fu per il Bandello un luogo tranquillo (non troppo lontano da Milano) nel quale mettersi al riparo dalle offese della storia. Mantova quindi è una città da ricordare con piacere e, se vogliamo, anche con nostalgia, ma una nostalgia assai diversa da quella provata per Milano. Una malinconia, diciamo, che si può provare per una dimora di villeggiatura e non per la propria «casa».
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I, 28. A. C. Fiorato, Bandello entre l’histoire et l’écriture. La vie, l’expérience sociale, l’évolution culturelle d’un conteur de la Renaissance, Firenze, Olschki 1979, pp. 242-243. 32
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GABRIELLA OLIVERO Joannes Tonsus traduttore di se stesso
Joannes Tonsus1 fu, secondo il suo primo biografo, Gerolamo Ghilini, «delle belle Lettere Latine, e Italiane intendentissimo; e nella Poesia Latina non invidiò chi che sia celebre professore»;2 la lode dell’opera oggi più celebre dello scrittore, il De Vita Emmanuelis Philiberti Allobrogum Ducis, et Subalpinorum Principis libri duo3 (annoverata tra quelle che «per la bellezza dello stile e per le materie in essa contenute, meritano presso a’ Letterati ogni più nobile commendazione, oltre all’immortalità del nome che s’acquistano, essendo colle stampe divulgate») è seguita, senza commenti, dall’affermazione «questa vita scrisse anco in Italiano»; la stessa notizia è data da Filippo Argelati4 e da Girolamo Tiraboschi.5
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Joannes Tonsus è la forma latinizzata di Giovanni Tosi (così si firma nelle lettere lo scrittore e con tal nome – o quello di Toso – viene indicato negli atti ufficiali e nello stemma di famiglia, conservato presso l’Archivio di Stato di Pisa (fondo dell’Ordine di S. Stefano, f. 32, provanza 39); spesso tuttavia prevale l’uso di indicarlo come Tonso, e così si farà in queste poche pagine. 2 G. Ghilini, Teatro d’huomini letterati aperto dall’abate Girolamo Ghilini academico incognito All’illustrissimo Signor il Signor Gio: Francesco Loredano, Venezia, per il Guerigli 1647, p. 137. 3 De vita Emmanuelis Philiberti Allobrogum Ducis, et Subalpinorum Principis libri duo Ioannis Tonsi Patricii Mediolanensis, Augustae Taurinorum, apud Io. Dominicum Tarinum 1596. 4 Ph. Argelatius, Bibliotheca Scriptorum Mediolanensium seu Acta et Elogia virorum omnigena eruditione illustrium, qui in metropoli Insubriae, oppidisque circumjacentibus ortis sunt, additis literariis monumentis post eorundem obitum relictis, aut in aliis memoriae traditis. Praemittitur Clarissimi Viri Josephi Antonii Saxii Collegii SS. Ambrosii, et Caroli Oblati, necnon Bibliothecae Ambrosianae Praefecti, Historia Literario-Typographica Mediolanensis ab anno MCDLXV, ad annum MD nunc primo edita; una cum indicibus necessariis locupletissimis, Mediolani, In Aedibus Palatinis 1745, tomo II, col. 1499. 5 Il Tiraboschi riporta la notizia nella sua Storia della Letteratura Italiana e anche nei Vetera Bandello e l’identità culturale nella Lombardia del Cinquecento
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La traduzione del De Vita probabilmente non fu pubblicata, ma ne ho trovato il manoscritto (ora in corso di stampa) presso la Biblioteca Reale di Torino, che era sfuggito alle ricerche perché adespota e perciò catalogato come «d’ignoto autore»;6 le indicazioni dei biografi antichi tuttavia permettono, credo, di considerarla opera del suo stesso compositore. Il testo italiano, privo di frontespizio, si apre con il titolo «Della Vita d’Emmanuel Filiberto duca di Savoia et principe di Piemonte. Libro primo», cui segue immediatamente la traduzione del testo; si nota tuttavia una certa cura grafica, non solo nella distribuzione ordinata della scrittura (23 righe per pagina, con margini ampi che ospitano i marginalia grazie ai quali è scandita la narrazione) ma anche nella resa in stampatello e a caratteri grandi del titolo e delle diciture «Libro primo» e «Libro secondo», nonché nella lettera capitale dell’incipit dei due libri in cui è articolato il lavoro.7 Non c’è dedicatoria, né è tradotta quella che introduce il testo latino, peraltro rivolta al principe di Spagna, il futuro Filippo III; poiché tuttavia la legatura è stata rifatta nel primo Ottocento (sul retro di copertina c’è infatti l’exlibris di Carlo Alberto) non è chiaro se tale assenza sia da imputarsi a problemi di conservazione (ma il resto del manoscritto è in ottime condizioni) o piuttosto non sia mai stata scritta. Per conseguenza non si può far altro che avanzare qualche supposizione circa i motivi e l’ambiente culturale che indussero l’autore a tradurre quanto aveva già composto. Nel 1596, quando l’editore Tarino diede alle stampe la Vita Emmanuelis Philiberti, Joannes Tonsus non era alla sua prima prova come biografo, poiché aveva già redatto, in Latino, quella di Alfonso Avalos (De Vita Alphonsi Davali), che circolava
Humiliatorum Monumenta, riprendendo una indicazione del Fontanino: cfr. G. Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana del Cavalier Abate Girolamo Tiraboschi, Venezia, presso Leonardo e Giammaria Fratelli Bassaglia 1796, tomo VII, parte III, pp. 960-961; Id., Vetera Humiliatorum Monumenta annotationibus, ac dissertationibus prodromis illustrata, quibus multa sacrae, Civilis ac Literariae Medii Aevi Historiae explicantur auctore Hieronimo Tiraboschio soc. Jesu in Braidensis Universitatis Rhetoricae Professore, Mediolani, Joseph Galeatius Regius Typographus 1766, vol. I, p. 310. 6 La segnatura è St. p. 177. Il volume, che porta il numero d’ingresso nella biblioteca D.C. 13992, è descritto come codice cartaceo del sec. XVII, in folio piccolo; la traduzione è detta «d’ignoto autore fatta sul principio del 1600». Cfr. Catalogo dei manoscritti di Storia Patria, Torino, Biblioteca Reale (dattiloscritto), p. 188. Il volume faceva parte della biblioteca di Carlo Alberto, di cui porta l’ex-libris; non è stato possibile ricostruire in che modo sia giunto in possesso del sovrano. 7 La lettera capitale del primo libro è ornata da un tremulo curvilineo lungo l’asta verticale con coronamento a doppio ricciolo, seguita dal resto delle lettere della prima parola in stampatello; più semplice, anche se anch’esso a caratteri con corpo maggiore e a stampatello, il primo vocabolo del secondo libro. La fine di ognuna delle due parti dell’opera è contrassegnata da un nodo Savoia. VII. Italiani della letteratura
Joannes Tonsus traduttore di se stesso
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manoscritta ed era ben nota alla corte torinese, essendo stata dedicata ad Emanuele Filiberto; il Latino era la lingua in cui aveva composto la maggior parte delle sue opere poetiche e, inoltre, dall’Italiano in Latino aveva volto le omelie di Monsignor Francesco Panigarola.8 Il Latino pare dunque essere la lingua privilegiata dall’autore milanese, che non spiega in alcun luogo i motivi che lo indussero a a scrivere anche in Italiano il suo lavoro; l’assenza della dedicatoria inoltre non consente di appurare né il momento in cui avvenne la traduzione né a chi fosse destinata. Tuttavia si può osservare che nel panorama delle biografie del secondo Cinquecento predomina nettamente la scrittura in Italiano, mentre è numericamente poco significativo l’insieme delle vite composte in Latino: si possono infatti ricordare soltanto, oltre a quelle di Tonso, due opere relative a personaggi storici più o meno contemporanei agli autori, cioè la Vita Vespasianis Gonzagae di Alessandro Lisca (Verona 1592), il De vita et rebus gestis Andreae Auriae Melphiae principis libri duo di Carlo Sigonio (Genova 1586) e pochi testi riguardanti invece personaggi più lontani nel passato, ossia due vite di Scipione Emiliano (una scritta ancora da Sigonio e l’altra da Antonio Bendinelli, rispettivamente pubblicate a Bologna, nel 1569, e a Firenze nel 1549) e una Magni Tamerlanis Scytarum imperatoris vita di Pietro Perondini (Firenze 1553); per converso le biografie di capitani o uomini di stato (tra cui certamente occorre annoverare quella di Emanuele Filiberto) scritte in Italiano superano la trentina.9 Questa preferenza linguistica trova una sua giustificazione anche in sede teorica, in quanto Torquato Malaspina, nel suo trattato Dello scrivere le vite, sostiene che queste debbano essere in volgare fiorentino piuttosto che in Latino.10 Malaspina era entrato nell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano (cui anche Giovanni Tonso apparteneva) nel 1571 e dal 1573 risiedette a Pisa dove Tonso era Provveditore allo Studio;11 lesse il suo trattato, che non fu dato alle stampe, all’Accademia degli
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Le Lettioni sopra dogmi fatte da f. Francesco Panigarola minore osservante alla presenza, e per comandamento del ser.mo Carlo Emanuele Duca di Savoia, l’anno 1582. In Torino. Nelle quali da lui dette calviniche come si confonda la maggior parte della dottrina di Gio. Calvino e con che ordine si faccia, doppo la lettera si dimostrerà (pubblicate a Venezia, presso Pietro Dusinelli nel 1584) erano state tradotte da Joannes Tonsus e pubblicate nel 1594: F. Francisci Panicarolae Disceptationes Calvinicae a Ioanne Tonso Mediolan. Patritio in latinum conversae, Mediolani, ex typographia Pacifici Pontii impressoris archiepisc. 1594. 9 Per uno studio delle biografie cinquecentesche e una rassegna delle medesime cfr. V. Caputo, La «bella maniera di scrivere vita». Biografie di uomini d’arme e di stato nel secondo Cinquecento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 2009. 10 T. Malaspina, Dello scrivere le vite, a cura di V. Bramanti, Bergamo, Moretti & Vitali 1991, p. 74. 11 Giovanni Tonso è registrato come Provveditore allo Studio Pisano a partire dal 1573. Cfr. A.S.Pi., Università di Pisa, II versamento, f. G 77, c. 79r. Bandello e l’identità culturale nella Lombardia del Cinquecento
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Alterati di Firenze il 20 e il 27 agosto del 1584: è impossibile che i due personaggi non si conoscessero ed è altamente probabile che Tonso abbia avuto almeno notizia della dissertazione sul modo di scrivere le vite, e forse anche che abbia avuto modo di leggerla o di assistere alla seduta accademica. All’idea di tradurre il suo testo possono inoltre aver contribuito anche due esempi famigliari a Tonso. Il primo è costituito dalla Vita del principe don Ferrando Gonzaga che l’amico Guiliano Goselini andava scrivendo, in Italiano, per onorare la memoria di Ferrante Gonzaga, suo defunto signore. Il legame tra i due letterati è ampiamente documentato dall’epistolario di Goselini, pubblicato postumo nel 1592 da Bartolomeo Ichino;12 non solo Goselini è il tramite fidato grazie a cui, dopo la vicenda che vide Tonso coinvolto – a torto – nel tentativo di eliminare Carlo Borromeo, questi riesce a mantenere i contatti con una serie di persone che curano i suoi interessi,13 ma soprattutto è la persona, «il Signor Giuliano Goselini mio, & parente, & strettissimo amico di molti anni»14 cui Tonso fa molto probabilmente leggere i propri lavori e che a sua volta giudica quelli del corrispondente.15 Il secondo esempio è costituito da quanto sosteneva un altro letterato a lui legato da rapporti epistolari e probabilmente di amicizia, Sperone Speroni, celebre personaggio al quale Tonso aveva, tra l’altro, parlato dell’amico Goselini, e al cui guidizio aveva sottoposto i di lui scritti, con gioia grandissima dell’autore.16 Sperone
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G. Goselini, Lettere di Giuliano Goselini, segretario già di don Ferrante Gonzaga poi del Re Catholico, appresso degli altri governatori, & capitani generali in quello stato, & in Italia, Venezia, appresso Paolo Megietti 1592. 13 Nella lettera del 3 luglio 1574 per esempio Goselini scrive «Tutte le lettere di V. S. si mandano sempre a buon recapito. Quando sarà seguita qualche risoluzione de le cose sue, V. Sig. mi farà gratia ch’io lo sappia per me, et per parteciparla con gli amici comuni. Intanto tengami ne la buona gratia sua, et mi comandi […]»; il 26 ottobre 1575 ribadisce «Al Lampugnano in contrada di Brera fu data subito la lettera di V. S. et così si fa ordinariamente di tutte»: cfr. G. Goselini, Lettere di Giuliano Goselini… cit., p. 193r, 166r. 14 Lettera firmata da Giovanni Tonso, datata da Firenze, probabilmente scritta nel dicembre 1574 (poiché vi fa riferimento Goselini in un’altra missiva del 26 gennaio 1575) e indirizzata a Sperone Speroni, in G. Goselini, Lettere di Giuliano Goselini… cit., p. 205r. L’albero genealogico di Tonso non permette purtroppo di chiarire in che maniera i due uomini fossero parenti. 15 «Bacio le mani a V. S. cordialmente di quanto mi scrisse a 29 del passato intorno al libro. Il conoscer la sua cortesia, & l’amor suo verso me non inferior al molto suo giudicio, non mi fa gustar a pieno le laudi, che le piace darmi, […] che se bene sono ambitioso de le sue laudi, mi contento però de le già ricevute: eccetto però se le piacerà darmi qualche avertimento, il quale mi abbia a esser molto più caro, per lo frutto, che ne trarrò, d’ogni laude che avanzi mio merito. […] Di Milano, a’ 13 di Aprile, del 76». La lettera, firmata da Giuliano Goselini, è priva di destinatario, tuttavia una serie di riferimenti interni suggeriscono che sia stata indirizzata a Giovanni Tonso. G. Goselini, Lettere di Giuliano Goselini… cit., pp. 169v170r. 16 Su questa vicenda, che qui interessa principalmente per via del legame tra Tonso e VII. Italiani della letteratura
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Speroni poteva costituire un’autorevole modello teorico in quanto aveva toccato nei suoi Dialoghi sia della natura della biografia (che definisce come «narratione di molti detti e fatti di un uomo solo»)17 sia della lingua e degli strumenti con cui darle efficacia. A tale questione aveva dedicato apposite dissertazioni (Dialogo della lingua, Dialogo della retorica, Del modo di studiare) – che ebbero all’epoca grande diffusione – nelle quali non solo ribadiva le tesi a suo tempo già esposte da Pietro Bembo, ma si faceva campione del volgare, che, secondo lui, doveva essere impiegato in ogni campo, essendo adatto a ritrarre sia «le cose gravi e gentili, che le vili e plebee».18 Bembo stesso aveva peraltro volto la sua Historia veneta dal Latino in Italiano,19 e il suo testo (che era stato ristampato nel 1570) senz’altro non era ignoto a Tonso che infatti sembra modellare la propria scrittura sui canoni toscani. La traduzione della Vita Emmanuelis Philiberti è infatti sicuramente una versione fedelissima del testo latino, a partire dalla costruzione della frase, di cui riprende i periodi ampi, ricchi di subordinate e costruiti con il verbo reggente in posizione finale, quando l’argomento è di tipo narrativo / discorsivo o quando l’autore si cimenta nei lunghi discorsi indiretti che mette in bocca ai protagonisti delle vicende (ispirandosi evidentemente al modello ciceroniano); diventa invece breve e secco, alla maniera di Cesare, nei momenti in cui si tratta di descrivere una battaglia o una situazione guerresca.
Speroni, cfr. V. Caputo, La «bella maniera di scrivere vita»… cit., pp. 203-206. In particolare cfr. G. Goselini, Lettere di Giuliano Goselini… cit., pp. 196v-197r. 17 S. Speroni, Dialogo della Istoria. Parte prima, in Opere di M. Sperone Speroni degli Alvarotti tratte da’ mss. originali, Venezia, appresso Domenico Occhi 1740, t. II, p. 225. Circa la vicenda editoriale dei Dialoghi di Sperone Speroni vedasi l’introduzione di Mario Pozzi all’edizione anastatica delle Opere speroniane (Roma, Vecchierelli Editore 1989). 18 S. Speroni, Dialogo della vita attiva e contemplativa, in Opere… cit., p. 4. Con maggior forza, in un altro dialogo, Speroni ribadisce la supremazia del volgare e condanna la scrittura in Latino, che spesso maschera vacuità di contenuti, dicendo: «Qualunque volta parlo o scrivo volgare d’alcuna cosa alquanto dal vulgo lontana […] parmi in non so che modo di vendicar la repubblica litterale dell’esser stata oppressa sì lungamente da alcuni pochi potenti; li quali ricchi solamente di parole Greche e Latine, per forza s’hanno usurpato il dominio delle scienzie»: S. Speroni, Del modo di studiare. Discorso secondo, in Opere… cit., t. II, pp. 504-505. Sull’importanza delle posizioni espresse dallo Speroni circa la il rapporto tra lingua e attività letteraria cfr. M. Pozzi, Introduzione alle Opere… cit., pp. XXXV-XLV. 19 P. Bembo, Della Historia vinitiana di m. Pietro Bembo card. volgarmente scritta libri dodici, Venezia, presso Gualtiero Scotto 1552. Lo Speroni stesso aveva tra l’altro sostenuto con forza la validità dell’esercizio del tradurre dai modelli latini e greci, affermando che «il tradurre uomo alcuna cosa d’una lingua in un’altra par propriamente il convertire lei a guisa di cibo ben digerito dall’altrui fantasia nella sustanzia del suo stesso intelletto; in guisa che sua divenuta, in ogni occasione assai acconciamente ne parli e disponga a suo senno». Cfr. S. Speroni, Del modo di studiare. Discorso secondo, in Opere… cit., t. II, p. 507. Bandello e l’identità culturale nella Lombardia del Cinquecento
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Così l’incipit del primo libro, che introduce l’argomento e presenta Emanuele Filiberto come condottiero e discendente di una stirpe gloriosa Gentes Allobrogum notissimas regem habuisse, quandiu principis unius imperio paruerunt: & earum provinciam ob amplitudinem, & potentiam, & opes, regnum appellatam fuisse, gravissimi historiarum scriptores tradidere. Ea deinde provincia multis ab hinc annis divisa est in partes duas: alteram, quam Galliarum reges obtinent, & Delphinatus dicitur; alteram, quae Sabaudia vocatur, & ab iis possidetur principibus, qui Sabaudiae Duces appellantur.20
richiama immediatamente alla mente il cesariano «Gallia omnia divisa est in partes tres» ed è resa con la stessa cadenza Leggesi in gravissimi scrittori d’historie che gl’Allobrogi, notevoli popoli, mentre sotto l’imperio vissero d’un prence solo, Re hebbero; et che la loro provincia, per ampiezza di sito, per potenza, et per dovizia, nome acquistò di regno. Fu poscia ella, molti anni ha, in due parti divisa; una, che i Re posseggono di Francia, e Delfinato si noma; altra da quei signori, che Duchi di Savoia si chiamano, tenuta; et è Savoia detta.21
Ancora una forma concisa adatta alla celebrazione delle virtù militari è adottata nella descrizione del comportamento del Duca di Savoia quando gli viene annunciata la morte del padre: Quanto al rimanente, punto non si scemò dell’usato militare costume, et delle solite usanze cosa non si mutò. Maggiore stima fece egli delle publiche facende, che della privata sciagura; et potè assai meno in lui l’affanno proprio, che il comune servigio dell’essercito. S’e’ piagnesse, non si poté saper di certo; ma per le ragioni che di sopra dicemmo, molti si diedero a creder di sì; et ancora, perché nella perdita di cosa cara, et affettuosamente amata, malagevole è molto il ritener le lagrime.22
L’andamento del testo italiano si adatta a quello latino, anch’esso mosso e spezzato, in modo tale da far risaltare il comportamento del biografato e proporlo anche come modello ideale per i successori, presentandolo in forma di massima («Maggiore stima fece egli delle publiche facende, che della privata sciagura; et potè assai meno in lui l’affanno proprio, che il comune servigio»). Giovanni Tonso assume così, secondo un consolidato modello umanistico, il ruolo di consigliere e precettore dei regnanti, di cui questo passo è solo uno dei molti esempi possibili:23
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J. Tonsus, De vita Emmanuelis Philiberti Allobrogum ducis et Subalpinorum principis libri duo, Augustae Taurinorum, apud Joannem Tarinum 1596, p. 1. 21 [J. Tonsus], Della vita d’Emmanuel Filiberto duca di Savoia et principe di Piemonte, p. 1 del manoscritto. 22 Ivi, p. 140 del manoscritto. 23 La funzione della letteratura come modello per il principe e l’idea di valersi di essa VII. Italiani della letteratura
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Caeterum, nihil de militari ratione imminutum, nihil de pristina consuetudine immutatum. Privata calamitas curae publicae, domesticus moeror imperatorio numeri cesserunt. An fleverit, incertum: flevisse nonnulli opinati sunt, iis de causis, quas supra commemoravimus, quodque in amissione amatae rei, charaeque non facile lachrymae teneantur.24
In altri casi invece, come si diceva, il costrutto appare molto più elaborato, come nel caso del discorso di Emanuele Filiberto di fronte agli altri condottieri dell’esercito di Carlo V, in cui sostiene la necessità di non ritirare le truppe. Il suo intervento, non senza motivo, è definito come «oratio» nella versione latina e occupa ben tre pagine, di cui si dà qui solo un saggio: Restabat unus Emmanuel Philibertus: qui ubi intellexit placere Caesari ut quae sentiebat exponeret; in hunc modum loquutus est. In earum rerum consultatione, quae antehac propositae sint, quid quisque senserit, non magnopere laborasse: aliorumque sententiam, suae praeferri sententiae haud aegre passum fuisse. Nihil vindicasse sibi: aliis multum, praesertim gravitate atque prudentia praestantibus viris facile tribuisse. Nunc diverse animum suum trahi, varieque affici: & ex eodem fonte molestiam haurire, & simul molestiae medicinam petere. Molestum esse, quod cogatura veterum praefectorum communi propemodum sententia dissentire. Rursus, ubi res ita postulet, atque nomini & saluti Caesaris consuli aliter omnino nequeat, nequaquam invitum, sed plane volentem libentemque ab eis discrepare. Cupere vero vehementer rationem ad veritatem revocari: ac ne quis consilio labatur, absque ulla animi perturbatione deliberari. Consuli, quaerique, discendendum ne sit, an in eisdem manendum castris: imo ne id consuli quidem. Plures enim esse, qui omnino proficiscendum, & iter noctu faciendum censeant. De iis se non multa dicturum: quorum consilium eiusmodi sit, ut nullum ab ipso hoste deterius, vel ad perniciem, vel ad minuendam Caesaris gloriam afferri possit. Nam ut omittantur sexcenta nocturni itineris incommoda, languor & vigiliae militum, & quod tenebris auferatur fortitudinis ignaviaeque discrimen, & adimatur pudor, qui militem vel perterritum, ignavumque coercere soleat, & in officio
come mezzo per istruire i regnanti è stata ampiamente indagata, a partire dall’insegnamento impartito nel Cortegiano di Baldassarre Castiglione: cfr. P. Burke, Le fortune del Cortegiano. Baldassarre Castiglione e i percorsi del Rinascimento europeo, Roma, Donzelli Editore 1998 e l’Appendice II (Tipologie culturali del gentiluomo di antico regime. Polemichette e noterelle a proposito di una nuova edizione del Libro del Cortegiano) del volume di Amedeo Quondam, «Questo povero Cortegiano». Castiglione, il Libro, la Storia, Roma, Bulzoni Editore 2000, pp. 545-602; inoltre il rapporto tra segretario e principe è stato indagato da Maria Luisa Doglio in L’occhio del principe e lo specchio del cortigiano: Rassegna di testi e studi sulla letteratura di corte nel Rinascimento Italiano (1954-1982) (Firenze, Olschki 1984) e in Il segretario e il principe: studi sulla letteratura italiana nel rinascimento (Alessandria, Edizioni dell’Orso 1993), oltre che nel saggio intitolato Dall’«institutio» al monumento: l’inedito ‘Simulacro del vero principe’ di Carlo Emanuele I di Savoia, compreso nel volume di studi offerti a Giovanni Getto, L’arte dell’interpretare (Cuneo, L’Arciere 1984). 24 J. Tonsus, De vita Emmanuelis Philiberti… cit., pp. 81-82. Bandello e l’identità culturale nella Lombardia del Cinquecento
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continere; qua ratione sperent hostem falli, tam propinquum, tam attentum posse? An dubitent quin praeclarum illud de ignibus, & defensorum simulatione consilium ab iis exploratoribus, qui in Caesariano exercitu ab huiusce belli initio incogniti versati sint & adhuc versentur, vix dimisso concilio hostibus enuntietur? Ii alienum timorem suam occasionem putent, arma celeriter expediant, ad castra advolent, atque in imparatos, discessuque impeditos incidentes, omnia tumultu, ac terrore compleant? Quod si hostis sponte quiescat, an etiam contumeliosis vocibus eum parsurum putent, quin continuo exclamet pristina amissa gloria fugere Caesarem, parvo accepto incommodo adeo perterritum, ut interdiu sese loco movere non auderet? Qui vero aliquanto maiorem existimationis rationem habentes, non quidem noctu discedendum, sed in iis castris diutius non consistendum, celeritatique studendum censeant, eos nimirum eo periculo moveri, ne Galli ad ea oppugnanda propere veniant: neque castrorum firmitati, neque virtuti militum satis confidere. Sed eorum consilium quem exitum habere? Nam si hostes castra oppugnaturos putent, an sperent cum abeuntibus praelium in itinere non commissuros? Si vero diffidant militem ob hesterni diei incommodum timidiorem, castra natura loci & opere munita defensurum; an confidant medio itinere sub sarcinis impeditum, aestu, labore, inedia confectum, patentibus campis, ingenti hostium multitudine undique circundatum fortius pugnaturum? Caesarem autem quomodo inde deducendum, qui insidere equo ob valetudinem non possit? Ac se polliceri quidem, prius se confodi concidique passurum, quam Caesari lecticam deserturum: sed idem pro caeteris omnibus se neque prestare posse, neque recipere. Iam vero uti se non tanti animi esse fateatur, ut collatis signis eo tempore in campis cum Regis exercitu confligendum censeat, quem Caesariano fere duplo maiorem esse constet, remque omnem nulla imposita dimicandi necessitate, aleae fortunae committendam putet; ita neque tanti timoris esse, ut de movendis sine caussa castris cogitandum arbitretur; neque quod pridie male pugnatum sit, se mognopere commoveri. Errare enim si qui in bellis omnes secundos rerum eventus sperent. […] 25
Il passo continua con altrettante interrogative retoriche e con la medesima complessità, cui si adegua la traduzione: Ad Em. Fil. restava solo il dire, il quale come vide che all’Imperadore piaceva che egli parlasse, queste o simili parole disse: «Nelle così molte volte per lo adietro proposte in consiglio, e’ non mi ha recato noia niuna l’altrui oppenione, qual ella si fusse, né mi sono tenuto ad onta giamai che il parere d’altri sia stato del mio miglior reputato; né soglio di me stesso gran cose presumere, anzi stimo tutti, et ho spetialmente in molta riverenza que’ che per senno et per gravità sono riguardevoli. Ma hora è l’animo mio malamente combattuto, et in diverse parti tirato; et da quel medesimo fonte, donde mi viene il male, io ne vado la medicina cercando. Ben mi dispiace, d’essere in questa occasione di parere diverso dal parere quasi comune de’ capitani vecchi; ma dove fa così bisogno, né in altra maniera alla riputatione, et al servigio si può provedere dell’Imperadore, allhora liberamente et volentieri, a chi che sia m’oppongo; et in que-
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Ivi, pp. 99-101. VII. Italiani della letteratura
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sto caso solamente desidero che la ragione habbia il suo luogo, et per non ingannare di giudicio, che le cose sieno senza passione bilanciate. È si propone adunque, e si mette in dubbio, se s’habbia a mover il campo, o se pur s’habbia a fermarsi nello stesso luogo. Anzi e’ non mi pare, che di questo si dubiti, poiché vogliono molti che in tutti i modi s’habbia a disloggiare, et a fare il cammino di notte. Ma intorno a questo, io non m’affaticherò molto, perché niuno parere, et per danno, et per vergogna dell’Imperadore, dallo stesso nimico si può dar di questo peggiore. Percioché mille disagi tralasciando, che accompagnar sogliono i viaggi di notte, il languir per la perdita del sonno, l’horrore delle tenebre, le quali ad un medesimo modo nascondono il valore et la viltà de’ soldati, et quella vergogna pure, che bene spesso tiene i codardi, e paurosi a freno; con qual ragione s’ha egli a sapere, che i nimici tanto vicini, et così desti si possano ingannare. Hor dubitiamo noi, che quel prudente aviso del fuoco, et dell’apparenza de’ falsi difensori, appena fornito il consiglio, non sia palesato a’ Francesi da quelle spie, le quali mal conosciute, insino dal principio della guerra hanno tenuto, e tutta via tengono stretta dimestichezza nel nostro campo. E non crediamo noi che il nostro timore habbia a crescer a’ nimici ardire, et che perciò eglino tostamente habbiano a dar di mano all’armi, et venirsene volando a’ nostri alloggiamenti, dove cogliendoci all’improvviso, et impediti nel partire, chi non vede che ogni cosa sarà piena di tumulto, di confusione, et di spavento? Ma pogniamo caso, che l’inimico non si mova; et che? starà egli cheto? e non ci befferà egli? e non alzera le grida insino al cielo dicendo, che Cesare perduta tutta l’antica, et usata sua gloria, se ne fugge per picciola percossa talmente spaventato che non ha havuto ardire di moversi di giorno? Hora quelli pure, che fanno alquanto maggiore stima dell’honore, et che non dicono già che di notte si debba partire, ma non vogliono che qua s’habbia più lungamente a dimorare, al sicuro temono che i Francesi non vengano subito ad assaltarci, et punto non si confidano nella mano, et nel cuore de’ nostri soldati. Ma qual fine s’hanno eglino proposto, o qual effetto attendono dal loro consiglio? Percioché, se dubitano che i nimici non vengano ad assalir il nostro campo, perché non dubitano ancora, che più facilmente non vengano a combattere in mezo del viaggio, mentre se n’anderemo? Et se credono che i soldati, impauriti per la percossa di hieri, non bastino a difendere gl’alloggiamenti, et per arte, et per natura assai forti, come sperano, che in mezo del cammino, impediti dalla masseritie, dalla fatica, dal caldo, et dal digiuno afflitti, circondati in campo aperto da grandissima moltitudine di nimici, debbano più valorosamente combattere? Ma come s’ha egli a conducere Sua Maestà che, per le tanto gravi infermità sue, non può reggersi a cavallo? E veramente, per quel che tocca a me, farò io sempre che questo petto sia scudo al suo, e più tosto mi lascerò tagliar a brano a brano, che io mai la lettica sua abbandoni; ma questo né posso io far, né prometter per altri, e però si come io liberamente confesso, di non esser di tanto ardire, che io giudichi doversi hora a bandiere spiegate venir in campagna a battaglia con l’essercito del Re, che il doppio è più del nostro per numero di soldati maggiore; et senza necessità di combattere arrischiar ogni cosa, et lasciarla in arbitrio della fortuna; così non sono d’animo così vile ch’io possa volger l’animo a pensare di mover il campo senza cagione. Né mi da noia la fresca perdita di hieri; perché senz’altro s’inganna quegli che si dà a credere che le cose in guerra debbano sempre felicemente seguire. […]26 26 [J. Tonsus], Della vita d’Emmanuel Filiberto duca di Savoia et principe di Piemonte, pp. 177-179 del manoscritto.
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In alcune occasioni invece il linguaggio si fa estremamente tecnico, come nel lungo excursus sulla fabbricazione delle armi da fuoco, in cui si fa distinzione tra quello che è chiamato sclopetum e la bombarda: per quanto concerne il primo, cioè l’archibugio (o schioppo), l’autore si sofferma su tutti i particolari non solo della preparazione dell’oggetto in sé e della polvere da sparo, ma indugia anche, con spirito di filologo, sulla etimologia dei nomi delle varie parti. Così per esempio chiama la canna del fucile scapum poiché «lamina, tanquam vectem (scapum vocemus licet) ad arborum similitudinem, quarum truncus ad radicem amplificatur, cacumen versus progrediens attenuatur, hac ratione conformavit»,27 ma inizialmente non ne dà il corrispettivo italiano, limitandosi a parlare di una «lama» che «da latini “scapo” vien detto, come appunto è un tronco d’albero, che nel fondo è grosso, et verso la cima si va assottigliando»;28 dopo poche righe però viene utilizzata la parola «canna», insieme a molti altri termini specifici: «trivella», «rigoletto di ferro», «manecchia», «cassa […] dal latino capsa», «serpentina» e così via. Questo medesimo passo tuttavia dà modo all’autore di esprimere il suo giudizio su tale «peste […] del genere umano» in termini squisitamente letterari, e non troppo dissimili (anzi si direbbe volutamente simili a)29 da quelli di Lodovico Ariosto: Giovanni Tonso infatti, a proposito delle bombarde dice che Queste machine, come detto habbiamo, alla natura s’avvicinano del folgore. Per ciò che prima la fiamma si vede, che lo scoppio s’oda; et è il rimbombo grande, e spaventevole, in modo che ne’ luoghi piani et aperti, lontano quaranta et cinquanta miglia si può sentire; nello stesso tempo che lo splendore si vede del fuoco, arriva la palla al destinato segno, et poscia tuona; tutte le cose che trova, spezza, et atterra.30
Il periodo finale («tutte le cose che trova, spezza, et atterra») riprende la climax ariostesca «arde, abbatte, apre e fracassa»31 dell’Orlando Furioso e il passo si conclu-
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J. Tonsus, De vita Emmanuelis Philiberti… cit., p. 42. [J. Tonsus], Della vita d’Emmanuel Filiberto duca di Savoia et principe di Piemonte, p. 70 del manoscritto. 29 Ci si potrebbe chiedere in che misura la suggestione delle tesi di Sperone Speroni e della controversia tra Ariosteschi e Tassiani abbia influenzato, consapevolmente o meno, Giovanni Tonso. 30 [J. Tonsus], Della vita d’Emmanuel Filiberto duca di Savoia et principe di Piemonte cit., pp. 7374 del manoscritto. 31 «Un ferro bugio, lungo da due braccia, / dentro a cui polve et una palla caccia. // Col fuoco dietro, ove la canna è chiusa, / tocca un spiraglio che si vede a pena; / a guisa che toccasse il medico usa / dove è bisogno d’allacciar la vena: / onde vien con tal suon la palla esclusa, / che si può dir che tuona e che balena; né men che soglia il fulmine ove passa, / ciò che tocca arde, abbatte, apre e fracassa», L. Ariosto, Orlando Furioso, IX, 28-29. 28
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de con la condanna di questi strumenti, di fronte ai quali coraggio e virtù guerresca non contano nulla: Per ciò che nelle battaglie puossi far d’huomini molto maggiore recisione che prima far non si solea; et quello che è di ciò peggio, niuna differenza scorgere si può tra il capitano et il privato soldato, né tra l’ardito et il codardo, che et l’uno et l’altro può essere di lontano ferito; né per difendersi dal colpo, né quegli, più che questi di speranza porre in buona et fina armatura. Et come non può la viltà d’animo di chi che sia impedire che, stando egli in aguato, non uccida di lontano ogni fortissimo soldato, così a niuno valoroso battagliero, per fuggir la morte dalla mano d’un vil soldatuccio, la virtù giova dell’animo, o la possa delle forze.32
L’argomentazione ricalca da vicino le tesi espresse nell’Orlando Furioso da Lodovico Ariosto che ritiene responsabile la «macchina infernale», inventata in Germania, della fine della civiltà cavalleresca: […] Per te la militar gloria è distrutta Per te il mestier de l’arme è senza onore; per te è il valore e la virtù ridutta che spesso par del buono il rio migliore; non più la gagliardia, non più l’ardire per te può in campo al paragon venire.33
Anche in altri punti della narrazione della vita e delle gesta di Emanuele Filiberto, Giovanni Tonso si mostra letterato che consapevolemente riecheggia i capolavori letterari: per esempio, parlando della stirpe dei Savoia e degli antenati del Duca, si sofferma sulle principesse che sono andate in sposa a grandi della terra; tra queste Beatrice, figlia di Tommaso I, è data in moglie a Raimondo Berengario «Thomae autem primi filia Beatrix nomine, Raimondo Berengario Narbonensis provinciae Comiti nupta, filias quinque peperit; quarum una Caesari, aliae quatuor, totidem Regibus in matrimonio collocatae sunt»;34 nella versione italiana la frase, con evidente calco dantesco,35 diventa: «Beatrice, figlia di Tommaso primo, essendo maritata a Raimondo Berengario, Conte di Nerbona, hebbe cinque figlie, l’una delle quali fu Imperadrice, et l’altre quattro, tutte reine».36
32 [J. Tonsus], Della vita d’Emmanuel Filiberto duca di Savoia et principe di Piemonte cit., pp. 7475 del manoscritto. 33 L. Ariosto, Orlando Furioso, XI, 26. 34 J. Tonsus, De vita Emmanuelis Philiberti… cit., p. 6. 35 Dante, Par., VI, vv. 133-134: «Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina, / Raimondo Beringhiere, […]». 36 [J. Tonsus], Della vita d’Emmanuel Filiberto duca di Savoia et principe di Piemonte cit., p. 10 del manoscritto.
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Pochissime sono, per converso, le connotazioni settentrionali della scrittura della Vita: una occorre nella resa della endiadi latina «rudes et ignaros»37 che diventa «bambi, e sciocchi», dove «bambi» è voce gergale diffusa in Piemonte e Lombardia;38 in un altro caso invece, nella sezione in cui descrive i tratti fisici e morali di Emanuele Filiberto, per tradurre l’espressione «ille mihi maledicit, et omnibus modis me laedere conatur»39 l’autore mette in bocca al Duca immagini molto più vivaci, quali «mi va quegli frastagliando e scardassando et si sforza di farmi danno»,40 che per un attimo restituiscono il colore della lingua parlata e lasciano intravvedere quelle formulazioni che solo in rari casi Giovanni Tonso si concede. Infatti la norma toscaneggiante e la struttura della frase modellata sul Latino sono assolutamente dominanti, sia nella traduzione della Vita, sia nelle altre opere dell’autore, sia anche nelle lettere che di lui si sono conservate. Un unico caso forse fa eccezione e presenta una sintassi frammentata, spia dell’emozione e della paura provata: si tratta di un passo di una lettera indirizzata al Cardinale Carlo Borromeo, in cui lo scrittore descrive l’assalto notturno alla sua casa e la fuga precipitosa da Cremona: «circa le quattro hore a romor di popolo è stata sforzata la porta et battuta per terra, et a pena io ho scampato la vita fra le archibugiate et spade nude et arme da punta, essendo minacciato ad alta voce se mi lascio trovare in Cremona ch’io sarò fatto in pezzi»,41 dove il passaggio dal gerundio a una sorta di discorso indiretto libero, giocato sui tempi del presente, segnala indubbiamente una situazione davanti a cui anche il dottissimo scrittore non frappone alcun filtro letterario alla sua narrazione, altrimenti sempre molto sorvegliata.
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J. Tonsus, De vita Emmanuelis Philiberti… cit., p. 22. [J. Tonsus], Della vita d’Emmanuel Filiberto duca di Savoia et principe di Piemonte cit., p. 36 del manoscritto. Il termine è attestato anche nella novella X della Seconda parte de le novelle di Matteo Bandello, nella forma singolare («Taccio il bambo, quel maestro Simone […]» dove Simone è presentato come modello di stoltezza). Cfr. M. Bandello, Seconda parte de le novelle, a cura di D. Maestri, Alessandria, Edizioni dell’Orso 1993, p. 90. 39 J. Tonsus, De vita Emmanuelis Philiberti… cit., p. 230 del manoscritto. 40 [J. Tonsus], Della vita d’Emmanuel Filiberto duca di Savoia et principe di Piemonte cit., p. 432 del manoscritto. 41 Lettera del 20 giugno 1567, Biblioteca Ambrosiana, F. 110 inf., n. 234. 38
VII. Italiani della letteratura
ITALIANI DELLA LETTERATURA: GABRIELE D’ANNUNZIO
CHIARA ARNAUDI I personaggi dell’Unità d’Italia nelle letture di D’Annunzio al Vittoriale
«Io so quel che ho messo e metto ne’ miei libri. Ma so veramente tutto quel che posi e pongo? Son io solo che so? O v’è un lettore nel mondo che sa, leggendo i miei libri, quel ch’io ignoro?».1 Questo breve appunto autografo di Gabriele D’Annunzio sul contenuto dei libri intesi sia come opere da lui scritte, sia come libri da lui posseduti e letti permette di indagare il rapporto che lega il poeta ai suoi indispensabili strumenti di lavoro senza i quali non avrebbe potuto scrivere né un solo rigo né un solo verso. Di fatto, D’Annunzio ha sempre posseduto biblioteche attrezzatissime ma quando giunge a Gardone Riviera dopo l’impresa fiumana è quasi totalmente sprovvisto proprio dei suoi compagni di lavoro, tanto che nel febbraio del 1922 ordina di trasferire nell’eremo del Garda «sia la «bibliothecula gallica» depositata nel veneziano palazzo Barbarigo, sia i libri della Capponcina sui quali da più di dieci anni vigila a Roma l’«amicissimo» Tenneroni».2 Il poeta è impaziente di riavere di nuovo con sé i suoi preziosi strumenti di «operaio artiere artista», come testimonia l’amico Ugo Ojetti: «Oggi egli era felice: dovevano giungere a Brescia, in giornata, le trenta casse dei testi di lingua che prima d’andare in Francia alle Lande egli aveva raccolti nella Capponcina a Settignano […] li descriveva raggiante, con la sua memoria inesorabile e col parlare netto e scolpito, così che d’ogni libro evocato rivedevo il sesto, la coperta, il frontespizio, l’emblema dello stampatore, i caratteri della stampa».3 Inizialmente le trenta casse vennero depositate nei sotterranei del Vittoriale, in uno stato che ne impediva addirittura il reperimento: i circa
1
Archivio Personale del Vittoriale, Appunti, impressioni, lemma 847, inv. 11181. A. Andreoli, I libri segreti. Le biblioteche di Gabriele D’Annunzio, Roma, De Luca 1993, p. 91. 3 U. Ojetti, La casa di D’Annunzio, in Id., D’Annunzio. Amico, maestro, soldato (1894-1944), Firenze, Sansoni 1957, p. 144. 2
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trentamila volumi non avevano alcun ordine, nessuna suddivisione e soprattutto non vi era nessun catalogo per la consultazione. Inoltre, nella Villa Cargnacco – così si chiamava il Vittoriale prima della trasformazione – appena acquistata dal poeta vi era anche la preziosa biblioteca del precedente proprietario, Henry Thode, storico dell’arte e studioso del Santo di Assisi, nonchè marito di Daniela von Bülow, nipote di Listz e figliastra di Wagner. Si pensi che il vasto patrimonio librario accumulato dallo storico dell’arte nel corso degli anni vantava anche una copiosa raccolta di spartiti musicali appartenuti a Liszt e Wagner, tutti divenuti proprietà del poeta in seguito all’acquisto della Villa. Ma la situazione relativa alle diverse biblioteche presenti non ebbe alcuna evoluzione fino al 1929, quando D’Annunzio chiamò al Vittoriale Antonio Bruers, esperto bibliotecario e vice cancelliere della Reale Accademia d’Italia, con il quale il poeta era in contatto epistolare attraverso Annibale Tenneroni già dal 1919. Bruers riuscì in un’impresa assai ardua, che era appunto quella di oridinare tutti i libri del Comandante, di inglobare nella nuova biblioteca che si stava creando anche quella Thode e soprattutto di creare un catalogo a schede per autore e una parte di quello per materie, entrambi ancora oggi consultabili.4 Occorre, però, precisare che la biblioteca privata di D’Annunzio al Vittoriale non è conservata in un unico ambiente come forse si potrebbe pensare, ma i libri sono sparsi in tutte le stanze della Villa, perché il poeta «vuole presenti i libri ovunque, come l’aria, come la luce, perché, quanto e più della luce e dell’aria, gli è necessario il pensiero».5 Inoltre, i volumi sono stati collocati seguendo in parte un ordinamento per materie, in parte le particolari esigenze estetiche e simboliche di ogni singola stanza create da D’Annunzio per la sua ultima dimora. Infatti, in alcuni casi il reperimento dei libri intorno a un determinato argomento, tema o soggetto può non sempre risultare completo ed esaustivo. Ma, nonostante questo, è possibile individuare i volumi posseduti dal poeta relativi a un argomento specifico, come allo stesso modo è possibile ricostruire, ad esempio, la biblioteca francescana, quella petrarchesca, quella dantesca oppure quella relativa alla poesia delle origini e moltissime altre. La biblioteca di D’Annunzio ingloba, dunque, in sé molte biblioteche, e tra queste figura anche quella risorgimentale,6 che conta quasi 200 volumi – 180 per la precisione – in
4 Attualmente a questi strumenti di ricerca per il reperimento e la consultazione dei volumi si aggiunge un inventario computerizzato ad oggi però non ancora completo, poichè manca gran parte della Stanza del Mappamondo. 5 A. Bruers, La biblioteca del Vittoriale, in Id., Nuovi saggi dannunziani, Bologna, Zanichelli 1938, p. 164. 6 Per quanto riguarda il panorama critico relativo al rapporto che lega D’Annunzio al processo risorgimentale si rimanda al saggio di Antonio Bruers, Un ricorso storico nel Risorgimento italiano. Gioberti e D’Annunzio, in G. D’Annunzio, Il pensiero e l’azione, Bologna, Zanichelli 1934
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massima parte conservati nella Stanza del Giglio, un piccolo studio nel quale il poeta ha voluto fossero collocati i volumi di storia e letteratura italiana. All’interno della stanza si possono addirittura individuare alcuni palchetti «risorgimentali» (XIX-XX e XLIII-IV) ma non solo, in quanto anche l’Officina, l’Apollino e il Pianterreno ospitano diversi libri relativi allo stesso argomento. La biblioteca appare, dunque, piuttosto variegata e per questo è stato necessario suddividerla in diverse sezioni tematiche: la prima parte più consistente (circa 60 volumi) riguarda tutta una serie di testi dedicati alla figura di Garibaldi (la vita, le gesta, le memorie, i ricordi dei compagni) di autori importanti come Giuseppe Guerzoni, Giuseppe Cesare Abba, Augusto Vecchi che, insieme al Generale, hanno partecipato attivamente all’Unità d’Italia.7 Un’altra sezione piuttosto nutrita (42 volumi) raccoglie gli studi relativi al processo risorgimentale come Il Trentino nel Risorgimento di Livio Marchetti e Il Trentino la Venezia Giulia e la Dalmazia nel Risorgimento italiano di Lancillotto Thompson.8 Seguono poi alcuni volumi (14) sulla figura e sulle opere di Camillo Benso Conte di Cavour e Giuseppe Mazzini (19 volumi). Inoltre si possono trovare anche alcune pubblicazioni relative ai Mille (15), che raccolgono importanti testimonianze e descrivono le loro imprese vicino a Garibaldi.9 A questa già folta schiera si aggiunge anche una sezione dedicata ai luoghi e alle battaglie del Risorgimento: Gaeta, Marsala, la battaglia di Lissa. In ultimo non mancano diverse monografie dedicate ai personaggi del Risorgimento: Gioberti, Ricasoli, Vittorio Emanuele II, Bixio, Crispi. Ma il dato più rilevante riguarda i molti volumi (circa 30) che riportano tra le loro pagine note di lettura del poeta: segni a margine, note di commento che riempiono gli spazi bianchi lasciati dalla stampa, angoli piegati, sottolineature, frasi o
e a quello di Dario Bonomo, Risorgimento nazionale e rinascita latina in Giosue Carducci e Gabriele D’Annunzio, Bologna, Patron 1961. Poi, molto studiata è stata la Notte di Caprera di Elettra o Canzone di Garibaldi; si vedano in particolare le note e i commenti in G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, vol. II, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, Milano, Mondadori 1984. Manca tuttavia uno studio specifico sui volumi risorgimentali conservati ancora oggi nella biblioteca del Vittoriale che vorrei brevemente descrivere anche se in misura ridotta. 7 Si vedano ad esempio: G. Guerzoni, Garibaldi, 2 voll., Firenze, G. Barbèra 1889 (collocazione: Stanza del Giglio, XLIII, 8/B-9/B); G.C. Abba, Cose Garibaldine, Torino, S.T.E.N. 1912 (coll.: Stanza del Giglio, XLIV, 14/B); A.V. Vecchi, La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi narrate da Jack la Bolina (Vittorio Vecchj), Bologna, Zanichelli 1882 (coll.: Stanza del Giglio, XX bis, 24/B). 8 L. Marchetti, Il Trentino nel Risorgimento, 2 voll., Milano-Roma-Napoli, Società editrice Dante Alighieri 1913 (coll.: Stanza del Giglio, XLIV, 10/B-11/B); [L. Thompson], Il Trentino la Venezia Giulia e la Dalmazia nel Risorgimento Italiano, Milano, Risorgimento 1914 (coll.: Stanza del Giglio, LXXX, 7/C). 9 Si veda in particolare il volume di G.C. Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille, Bologna, Zanichelli 1913 (coll.: Stanza del Giglio, LXXX, 9/C). Italiani della letteratura: Gabriele D’Annunzio
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parole cerchiate, cartigli bianchi o annotati. Proprio questi volumi densi di annotazioni nascondono informazioni importantissime, che diventano uno strumento fondamentale ma tutto sommato poco utilizzato dagli studiosi per la ricostruzione delle fonti e in particolare per l’esegesi della sua opera, come osserva Antonio Bruers in un ormai famoso saggio: «Lo studio dei libri del Vittoriale, conferma la grande austerità artistica di Gabriele D’Annunzio e contribuisce a documentare l’influenza che la sua opera ha esercitato sui contemporanei, e il fascino che essa irradierà, immortabilmente nell’avvenire».10 Quindi, i volumi annotati della biblioteca risorgimentale nascondono anch’essi tra le loro pagine tutta una serie di dati utili per comprendere il punto di vista del poeta nei confronti del processo di unificazione, un processo storico tanto articolato e complesso che, come testimoniano appunto le moltissime note di lettura ai diversi volumi, D’Annunzio ha studiato con particolare attenzione e dedizione. Innanzitutto, il poeta ha dimostrato un interesse particolare nei confronti dei personaggi che hanno contribuito all’Unità d’Italia e al loro valore dimostrato nel corso delle diverse battaglie. Prima fra tutte emerge la figura di Garibaldi – quasi una quindicina sono i volumi annotati –, infatti una personalità multiforme come quella del Generale (marinaio, eroe, autodidatta, scrittore dilettante, uomo d’azione, uomo superstizioso) non poteva non destare l’attenzione di un’altrettanta personalità multiforme come quella di D’Annunzio. Ma, leggendo e scorrendo tutti questi volumi, si può notare che è soprattutto l’uomo d’azione ad interessare il poeta, l’uomo che tenta un’impresa rischiosa, quasi impossibile, che sa di leggenda, un uomo-eroe di cui D’Annunzio tenterà di prendere le sembianze nell’impresa fiumana, non a caso ultima propaggine dell’Unificazione italiana. Il volume che riporta forse il maggior numero di annotazioni dannunziane è Garibaldi di Giuseppe Guerzoni, pubblicato da Barbèra nel 1889;11 occorre però precisare che il poeta ne possedeva anche un’altra copia conservata nell’Officina ma decisamente meno segnata.12 Le prime note di lettura si riscontrano oltre la metà del libro in corrispondenza del capitolo V dal titolo Roma 1849, dedicato alla difesa della Repubblica romana da parte di Garibaldi contro le truppe francesi. L’episodio da sempre considerato una testimonianza politica e ideale di altissimo valore è stato utilizzato da D’Annunzio come fonte – a tutt’oggi inedita – per la stesura di una parte (XVII-XVIII) della Notte di Caprera di Elettra, non a caso libro di ispira-
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A. Bruers, La biblioteca del Vittoriale cit., pp. 172-73. G. Guerzoni, Garibaldi cit. 12 Id., Garibaldi, Firenze, G. Barbèra, [s.d.] (coll.: Officina, F/1, 24/A); il volume risulta mutilo delle prime 129 pagine, forse proprio per questo D’Annunzio ha preferito utilizzare l’edizione completa, già citata, conservata nella Stanza del Giglio alla quale si è scelto di fare riferimento. 11
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zione nazionale e patriottica contenente alcune liriche che celebrano i personaggi del Risorgimento.13 Per la descrizione dell’assedio di Villa Corsini, teatro appunto dei combattimenti in difesa di Roma nel 1849, D’Annunzio si è servito proprio del I volume di Guerzoni, giacchè vi è una perfetta corrispondenza dei segni di lettura in matita blu presenti sul volume e il testo dannunziano: La Villa è perduta […] Garibaldi solo non lo volle credere, e verso sera fu udito ancora dire, come un sonnambulo, a Emilio Dandolo: «Andate con una ventina de’ vostri più bravi a riprendere Villa Corsini». Il bravo ufficiale guardò trasognato l’uomo che gli dava ordine sì strano; ma Garibaldi replicò: «Pochi colpi e subito alla baionetta,» e il Dandolo prontamente: «Stia tranquillo, Generale, m’han forse ucciso il fratello e farò bene».14
Mentre i versi della Notte di Caprera recitano: Perduta omai l’altura; folle impresa tentare un altro assalto […] «Orsù, Emilio Dandolo, riprendete Villa Corsina! Su, di corsa, con vénti dei vostri prodi più prodi, a ferro freddo!» Ed il nomato tremò nel cuore udendo il nome suo in bocca della stessa Gloria. Caduto eragli già il fratello su la scalèa, spento. E disse: «O fratello, teco verrò!» (parte XVII, vv. 49-50, 56-63).15
Il confronto tra i due testi dimostra senza dubbio che il volume di Guerzoni è la fonte dalla quale D’Annunzio ha attinto per la stesura dei versi appena citati (si noti anche la ripresa del dialogo); a questo si deve aggiungere una lettera di D’Annunzio a Benigno Palmerio, suo segretario ai tempi della Capponcina, dello stesso periodo (13 agosto 1900) in cui il poeta stava componendo i versi della Notte di Caprera: «Caro Benigno, […] Se hai occasione di andare alla Capponcina, prendi fra i miei libri […] la Vita di Garibaldi del Guerzoni e Da Quarto al Faro di G. C. Abba. E spediscimeli per posta».16
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Si vedano le odi Alla memoria di Narciso e Pilade Bronzetti, A uno dei Mille e la canzone Per la morte di Giuseppe Verdi, in D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria cit., pp. 268-272, 285-287, 322-326. 14 G. Guerzoni, Garibaldi cit., p. 305. 15 G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria cit., p. 306. 16 Carteggio con Benigno Palmerio. 1896-1936, a cura di M.M. Cappellini e R. Castagnola, Torino, Aragno 2003, p. 102. Italiani della letteratura: Gabriele D’Annunzio
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Dunque, si può ipotizzare che quel volume di Guerzoni, ancora conservato al Vittoriale, potrebbe essere proprio lo stesso che D’Annunzio custodiva nella biblioteca della Capponcina e richiesto a Palmerio nel momento della composizione della Canzone (il poeta si trovava in quel periodo a Viareggio). Se così fosse assumerebbe un’importanza ben superiore rispetto a quella che, fino ad oggi, gli era stata riservata dalla critica nello studio e nel reperimento delle fonti di Elettra.17 Un altro personaggio che ha destato l’attenzione di D’Annunzio è Giuseppe Mazzini, e in modo particolare il suo programma relativo all’irredentismo italiano. Infatti, nel secondo volume di Livio Marchetti Il Trentino nel Risorgimento,18 densissimo di note di lettura, il poeta pone diversi segni a margine in matita blu e un cartiglio con la dicitura «Appello di Mazzini» in corrispondenza del capitolo XV (Dopo il sessantasei). L’energico appello di Mazzini ai suoi connazionali aveva come obiettivo quello di incitarli a respingere l’accordo con l’Austria che consegnava alcune terre italiane alla dominazione straniera, cioè il Trentino, la Venezia Giulia, Fiume e la Dalmazia in seguito alla fine della Terza Guerra d’Indipendenza (25 agosto 1866): Nostro – se mai terra italiana fu nostra – è il Trentino: nostro fino al di là di Brunopoli, alla cinta delle Alpi retiche […] E italiane vi sono le tradizioni, le civili abitudini: italiane le relazioni economiche: italiane le linee naturali del sistema di comunicazioni: italiana è la lingua, su 500.000 abitanti, soli 100 mila sono di stirpe teutonica.19
Con queste vibranti parole Mazzini aprì la strada a una nuova fase dell’irredentismo: occorreva di fatto completare il processo di unificazione nazionale, rivendicando appunto le cosiddette «terre irredente», soggette cioè a dominio straniero ma ritenute italiane per cultura, lingua e tradizioni. La propaganda irredentista ebbe ampio seguito in tutta Italia, soprattutto grazie a Guglielmo Oberdan,20 Cesare Battisti, Fabio Filzi e in ultimo D’Annunzio che nel settembre del 1919 si diresse con una folta schiera di legionari alla volta di Fiume per riconquistarla. È facile, dunque, comprendere il motivo per cui il poeta, fautore dell’impresa fiumana, ha dimostrato tanto interesse per le fasi iniziali della rivendicazione delle «terre irredente» che comprendevano – come già ricordato – anche Fiume e la Dalmazia.
17 La critica in precedenza, pur segnalando il testo di Guerzoni come una delle fonti della Notte di Caprera, non aveva istituito un confronto tra i brani annotati dal poeta nel volume e i versi della canzone, tralasciando così la possibilità di stabilire con certezza le fonti impiegate. 18 L. Marchetti, Il Trentino nel Risorgimento cit. 19 Ivi, p. 256. 20 Guglielmo Oberdan, eroe irredentista, è stato ricordato da D’Annunzio nel Teneo te Africa, in G. D’Annunzio, Prose di ricerca, 2 voll., a cura di A. Andreoli e G. Zanetti, Milano, Mondadori 2005, pp. 2507-10.
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Non a caso, infatti, molto annotato è il volume di Lancillotto Thompson Il Trentino la Venezia Giulia e la Dalmazia nel Risorgimento Italiano:21 ancora una volta D’Annunzio si sofferma sull’«L’Italia irredenta», ossia quelle terre d’Italia che, liberata Roma, durarono sotto signoria austriaca» (il Trentino, il Friuli Orientale con Gorizia, Trieste, l’Istria con le isole del Quarnero, la Dalmazia).22 Ma, particolarmente interessante è il capitolo XIV (L’anno tragico), ricco di segni a margine in matita blu e rossa, sottolineature e un cartiglio con la dicitura «Garibaldi nel Trentino 1866», che descrive appunto l’azione di liberazione del Trentino da parte di Garibaldi nel 1866: E Garibaldi in pochi giorni liberava gran parte del Trentino […] tra una vittoria e l’altra, lanciava ai trentini un proclama: «[…] Combatteremo insieme per la libertà e l’Unità d’Italia; e qui, su questi vostri monti, formidabili difese per uomini liberi, serrandoci la mano, giureremo insieme il Finis Austriae – il fine della dominazione straniera.23
D’Annunzio, dunque, si concentra di nuovo sulla figura di Garibaldi, il fautore dell’Unità d’Italia, lui unico eroe d’Italia e della sua Unificazione, lui condottiero dei Mille. Così appariva la figura del Generale al Comandante-D’Annunzio, una figura che lo ha sempre profondamente attratto, tanto da considerarsi egli stesso un secondo Garibaldi che con l’impresa di Fiume porta a compimento il processo di unificazione dell’Italia (Fiume sarà annessa all’Italia nel 1924 fino al 1947).24 D’Annunzio diventa, dunque, l’artifex della più «Grande Italia», e non a caso intitolerà una sua opera tarda proprio Per la più grande Italia.25 In ultimo, solo un rapidissimo accenno alla figura di Camillo Benso conte di Cavour, figura sulla quale il poeta si sofferma apponendo un angolo superiore piegato nel volume di Vittorio Vecchi La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi narrate da Jack la Bolina (Vittorio Vecchj),26 dove è riportata una lettera del conte all’Ammiraglio Persano pregandolo di far sapere a Garibaldi che «l’impresa non può rimane-
21
L. Thompson, Il Trentino la Venezia Giulia e la Dalmazia nel Risorgimento Italiano cit. Ivi, p. 1. 23 Ivi, p. 153. 24 È curioso segnalare che D’Annunzio figura addirittura in una cartolina illustrata tra le personalità del Risorgimento italiano insieme a Cavour, Mazzini, Salandra e Garibaldi; si veda il volume di Augusto Traina e Patrizia Veroli Gabriele D’Annunzio. Le immagini di un mito, Palermo, L’Epos 2003, pp. 143-45. 25 G. D’Annunzio, Per la più grande Italia, in Id., Prose di ricerca cit., pp. 3-157. 26 V. Vecchi, La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi narrate da Jack la Bolina (Vittorio Vecchj), Bologna, Zanichelli 1882 (coll.: Stanza del Giglio, XX bis, 24/B). Oltre al volume appena citato si veda anche C.B. Cavour, Opere politico-economiche, Napoli, Angelo Mirelli 1860, (coll.: Pianterreno XLVII, 65), volume che riporta anch’esso sporadici segni di lettura. 22
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re a metà. La bandiera nazionale inalberata in Sicilia deve risalire il Regno ed estendersi lungo la costa dell’Adriatico finchè ricopra la Regina del mare. Si prepari dunque a piantarla colle proprie mani, caro Ammiraglio, sui bastioni di Malamocco e sulle torri di S. Marco».27 Appare evidente che l’attenzione di D’Annunzio è rivolta non tanto verso la figura di Cavour in sé, quanto piuttosto verso le sue parole di approvazione a continuare l’impresa intrapresa da Garibaldi. D’altra parte agli occhi di D’Annunzio uno statista e un diplomatico come Cavour esercitava certamente meno interesse rispetto all’eroe dell’impresa dei Mille. Questa scarsa attenzione nei confronti di colui che fu definito dai suoi contemporanei «l’architetto» delle maggiori imprese risorgimentali non deve stupire, poiché il poeta è sempre stato attratto invece dai grandi condottieri e conquistatori (lui stesso è stato condottiero e dopo Fiume verrà chiamato «Il Comandante»). Si pensi, ad esempio, al vero e proprio culto che D’Annunzio ha nutrito per Napoleone Bonaparte, al quale ha dedicato la lunga e ormai famosa Favilla «Il compagno dagli occhi senza cigli». La breve analisi delle annotazioni dannunziane sui volumi dedicati ai personaggi dell’Unità d’Italia ha rivelato sostanzialmente un ritorno continuo e costante del poeta sulla figura di Garibaldi, forse perché – come già ricordato in precedenza – vedeva se stesso come un «novello Garibaldi» fautore e continuatore dell’impresa dei Mille che egli in seguito ha portato a termine con l’impresa di Fiume insieme ai suoi legionari e alla stesura della Carta del Carnaro da parte di Alceste De Ambris, un documento costituzionale dai tratti avveniristici per gli aspetti democratici e libertari che lo caratterizzavano. Ma il dato ancora una volta più rilevante è senza dubbio la gran quantità di volumi annotati presenti nella biblioteca privata del Vittoriale, volumi che diventano uno strumento di ricerca fondamentale ma poco utilizzato dagli studiosi per l’individuazione delle fonti di cui il poeta si è servito, per l’esegesi di diverse opere (ad esempio la Notte di Caprera di Elettra), per comprendere le dinamiche che portarono il poeta alla marcia di Ronchi e alla conseguente impresa fiumana. Questi volumi, infatti, come ha scritto il poeta nell’Atto di donazione del Vittoriale «non a impolverarsi ma a vivere son collocati i miei libri di studio, in così grande numero e di tanto pregio che superano forse ogni altra biblioteca di ricercatore e ritrovatore solitario».28 Così, i libri di D’Annunzio a lui «necessari come il respiro» diventano allo stesso modo «necessari» per comprendere «certi lati del carettere dell’artista (dal modo col quale egli ha utilizzato la fonte), o quando ci permetta di vedere in qual maniera s’è arricchito il suo stile o il suo vocabolario».29
27 28
Ivi, p. 175. Atto di donazione del Vittoriale, in «Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia», 4 dicembre
1930. 29 M. Praz, D’Annunzio e «l’amor sensuale della parola», in Id., Bellezza e bizzarria. Saggi scelti, a cura di A. Cane, Milano, Mondadori 2002, p. 650.
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CHIARA GAIARDONI Trionfi, pantheon e identità nazionale. Qualche appunto su un motivo di lunga durata
Nelle pagine che seguono intendo rendere conto, per brevi assaggi, di una ricerca in corso volta a ricostruire una linea storica di lunga durata mediante lo studio analitico di alcuni momenti non solo testuali, la quale prende l’avvio, secondo la prospettiva che vorrei suggerire, dal Trecento di Petrarca – in particolare dai Trionfi – e si snoda, appunto, nel lungo periodo, tra arte e letteratura. Rivolgerò per ora la mia attenzione al segmento temporale che copre la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. L’ipotesi di partenza è la seguente: l’emergere di un tema che si può denominare dei templi laici, del pantheon; penso in primis, com’è naturale, (ma non solo) ai Sepolcri di Foscolo. Giustamente, in un intervento recentissimo, Carlo Sisi1 considera come alla trasfigurazione poetica foscoliana corrispondesse la struttura di un pantheon (da intendersi anche come luogo del culto della memoria, con finalità patriottiche) esemplato sulle teorie francesi post-rivoluzionarie intorno alle tombe. Ma occorre aggiungere che i Sepolcri concorrono anzitutto alla formazione di un’idea di altare laico-classicistico, che diviene continuazione e contraltare di quello cristiano. L’aspetto – per noi non secondario – etico-civile di tale tematica, consiste proprio nel legame tra l’evocazione dei grandi esempi di virtù anche politiche e il conseguente partecipe interesse foscoliano. Un tale interesse attraversa, possiamo dire, tutti i Sepolcri, e si rivolge alla difficile situazione dell’Italia di allora, ancora molto lontana dall’indipendenza. Ma penso in particolare ai versi centrali del carme, dedicati a Firenze e alle tombe in Santa Croce: «Ma più Beata [Firenze] ché in un tem-
1 C. Sisi, Iconografia neoclassica dei ‘Sepolcri’, in I ‘Sepolcri’ di Foscolo. La poesia e la fortuna, Convegno per il bicentenario della pubblicazione dei Sepolcri 1807-2007 (Firenze, 28-29 marzo 2008), a cura di A. Bruni, B. Rivalta, Bologna, Clueb («Testi e studi di Filologia e Letteratura») 2010, p. 207.
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pio accolte / serbi l’itale glorie, uniche forse da che le mal vietate Alpi e l’alterna / onnipotenza delle umane sorti / armi e sostanze t’invadeano ed are / e patria e, tranne la memoria, tutto» (vv. 180-185). La poesia foscoliana dunque − è cosa nota − suggella, fissa l’identificazione di Santa Croce come pantheon italiano, pochi anni dopo la costruzione del monumento a Machiavelli avvenuta nel 1787; e l’importanza di quest’ultima nella prospettiva di un forte riferimento culturale agli illustri della nazione è stata bene segnalata dalla storica Erminia Irace in Itale glorie (2003), uno studio dedicato proprio al rapporto tra “religione” dei grandi e identità italiana: «Con Machiavelli arrivò e si impose l’idea di nazione toscana, nella versione che della nazione dava la cultura laica e illuminata, la quale abbozzò l’inizio di un culto pubblico per i grandi uomini nazionali, segnando l’avvio del filone che in seguito si sviluppò nelle forme della vera e propria religione laica».2 Ma si consideri poi il rapporto strettissimo di questo richiamo forte, in sede poetica, a un’idea di altare pagano, di templi laici, abbiamo detto, con gli altari scultorei, ad esempio canoviani. Parteciperà al tema – è questo il secondo momento del nostro percorso − anche la canzone al Mai di Leopardi, composta nel gennaio 1820 e anch’essa, come All’Italia e Sopra il monumento di Dante, di argomento, potremmo dire, patriottico. Già l’incipit si svela per noi di certo interesse Italo ardito, a che giammai non posi Di svegliar dalle tombe I nostri padri?
se pure i padri cui pensa il poeta sono qui piuttosto gli antichi che quelli appartenenti a un passato più recente. E poi, più avanti, il motivo riemerge: Veggiam che tanto e tale È il clamor de’ sepolti, e che gli eroi Dimenticati il suol quasi dischiude, A ricercar s’a questa età sì tarda Anco ti giovi, o patria, esser codarda.
Ma guardiamo al testo dedicato al Mai soprattutto per la sua seconda parte, con le presenze in figura di identità nazionale: il discorso poetico si rivolge, lo ricordo, con una successione incalzante, a Dante («Eran calde le tue ceneri sante…»), poi a Petrarca («E le tue dolci corde…»), e a Cristoforo Colombo, all’Ariosto, al Tasso, all’Alfieri.3
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E. Irace, Itale glorie, Bologna, Il mulino 2003, pp. 118 (per Foscolo vedi le pp. 129-139). Per un richiamo, in questa prospettiva, dell’Angelo Mai ai Sepolcri, cfr. M. A. Terzoli, Un VII. Italiani della letteratura
Trionfi, pantheon e identità nazionale
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Pur in modo diverso rispetto a Foscolo, Leopardi rimodula, laicizza qualcosa che al principio serbava una connotazione sacra: e la prospettiva si dovrebbe allargare – anche questo è uno degli intenti del mio lavoro – all’idea di pantheon dalla classicità alla sua trasformazione e secolarizzazione tra i moderni. Aggiungo inoltre un tassello non certo privo di interesse e inerente alle possibili tangenze dell’opera leopardiana con la tematica oggetto della nostra analisi: il poeta collaborò con il mecenate pistoiese Niccolò Puccini al progetto di quest’ultimo legato al giardino romantico della villa di Scornio; Leopardi infatti stese, nel ᾿32, l’iscrizione per il busto di Raffaello collocato nel parco, una delle numerose sculture di letterati, artisti e scienziati poste ad esempio delle virtù italiche, che si disponevano – si dispongono tutt’ora – non solo nel giardino, ma anche nell’imponente Pantheon costruito all’interno di esso e vicino alla villa.4 Il poeta, in una lettera del ᾿27, promise una visita a Niccolò Puccini; non è probabile che essa abbia effettivamente avuto luogo, ma è senz’altro condivisibile il parere di Francesca Fedi, occupatasi a lungo dei rapporti di Leopardi con il figurativo, secondo la quale è quasi impossibile che egli accettasse di collaborare al progetto di Puccini senza conoscere a fondo il suo piano complessivo, che tra l’altro, ricorda anche la studiosa, aveva coinvolto tutto l’ambiente legato all’«Antologia» (ad esempio Giordani redasse diverse epigrafi, e tra queste l’iscrizione del busto di Canova).5 Sul versante figurativo, in epoca, nell’accezione più inclusiva, neoclassica, partecipa alla continuazione del motivo anche iconografico non solo la scultura, per la quale abbiamo accennato a Canova e agli altari, e che dovremo ricordare quindi anche per le numerose serie di statue, di busti, volti alla costituzione di pantheon dagli intenti più o meno patriottici; ma anche la pittura si vede coinvolta in un certo riemergere del nesso parata-trionfo. Intendo considerare da questa prospettiva un’opera del più alto rappresentante del neoclassicismo pittorico, Andrea
lettore dei ‘Sepolcri’ ostinato e d’eccezione: Giacomo Leopardi, in I ‘Sepolcri’ di Foscolo cit.; poi in Ead., Nell’atelier dello scrittore. Innovazione e norma in Giacomo Leopardi, Roma, Carocci 2010, pp. 155175: 174. Ma vd. anche C. F. Goffis, La canzone ‘Ad Angelo Mai’ ed il suo antagonismo con i ‘Sepolcri’, in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, vol. IV. Tra illuminismo e romanticismo, Firenze, Olschki 1983, pp. 677-702; P. Italia, Foscolo in Leopardi: i ‘Sepolcri’ e le canzoni «patriottiche», in ‘Dei sepolcri’ di Ugo Foscolo, Atti del Convegno (Gargagnano del Garda, 29 settembre-1 ottobre 2005), Milano, Cisalpino 2006, vol. II, pp. 721-740. 4 Cfr. G. Bonacchi Gazzarini, Puccini e Leopardi, in Niccolò Puccini. Un intellettuale pistoiese nell’Europa del primo Ottocento, Atti del Convegno di studio (Pistoia, 3-4 dicembre 1999), a cura di E. Boretti, C. d’Afflitto e C. Vivoli, Firenze, Edifir 2001, pp. 201-222; sul Parco di Scornio e il Pantheon si veda poi Ead., Il Pantheon nel giardino romantico di Scornio. Storia e restauro, Firenze, Polistampa 1999. 5 F. Fedi, Mausolei di sabbia. Sulla cultura figurativa di Leopardi, Lucca, Maria Paccini Fazzi 1997, pp. 179-181. Italiani della letteratura: Gabriele D’Annunzio
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Appiani (1754-1817): mi riferisco al ciclo dedicato ai Fasti di Napoleone, il quale decorava, al tempo, la balaustra della Sala delle Cariatidi del Palazzo reale a Milano, purtroppo distrutto dai bombardamenti del ᾿43. I trentanove quadri pittorici, chiamati fasti a gloria delle imprese napoleoniche, vennero dipinti su tela (a monocromo, per alludere anche al bassorilievo antico) ed esposti in una prima versione durante la Festa Nazionale del 26 giugno 1803, ma conclusi quattro anni più tardi; essi celebrano Napoleone in una ventina di episodi, ed è inevitabile il ripresentarsi del tema trionfale, non solo in senso più ampio: le tele quinta, sesta e settima illustrano l’ingresso dei francesi a Milano del 15 maggio 1796 e il relativo corteo organizzato a mo’ di trionfo che vedeva protagonista naturalmente Napoleone, dallo sguardo mesto e quasi partecipe della sorte italiana. Appiani si ispirò alla Colonna Traiana e all’ingresso trionfale lì riprodotto (ad ogni modo l’esempio antico agisce nell’opera in senso complessivo),6 ma i suoi modelli dell’ingresso trionfale attraversano la modernità (si riconosce un ricordo dei mantegneschi Trionfi di Cesare) e si ritrovano, vivificati, nel presente: nelle manifestazioni trionfali organizzate nell’ambito delle feste napoleoniche, cui lo stesso pittore poté assistere.7 D’altra parte il prodotto dell’Appiani va valutato in un contesto storico-culturale, quello napoleonico appunto, in cui la tematica del trionfo si impone in modo prepotente e va di pari passo con l’utilizzo della “romanità” a fini politici, celebrativi. Risulta peraltro riduttivo considerarlo solo un utilizzo: era in realtà fare propri e rinnovare dei dati culturali percepiti nel segno della continuità. E così si arriva a quella che mi piace chiamare, utilizzando le parole di Antonio Pinelli autore di uno scritto autorevole sul tema, «ossessione trionfalistica».8 Immagini quindi, quelle dipinte da Appiani, tanto presenti, allora, nel sentire comune; ma sarà la parola affidata alla poesia a corrisponderle, da un punto di vista altro, in forza e vivacità: Leopardi pochissimi anni più tardi, nella canzone rivolta All’Italia posta ad apertura dei Canti (titolo dell’edizione romana, 1818: Sull’Italia), tratteggia in un passaggio che ben possiamo chiamare figurativo le medesime battaglie napoleoniche e pare quasi tradurre alcune scene di lotta dell’opera pittorica milanese: «Io veggio, o parmi, / Un fluttuar di fanti e cavalli, / E fumo e polve, e luccicar di spade / Come tra nebbia lampi».9 Pensiamo ora all’opera di Vincenzo Monti, non solo perché non si può esclu-
6
Cfr. E. Bairati, La ‘Costruzione’ della Storia nei ‘Fasti di Napoleone’, in I ‘Fasti di Napoleone’ di Andrea Appiani. Ricostruzione di un ciclo pittorico perduto, Vicenza, Neri Pozza 1997, pp. 70-71. 7 Cfr. ivi, p. 116. 8 A. Pinelli, Feste e trionfi: continuità e metamorfosi di un tema, in Memoria dell’antico nell’arte italiana, II. I generi e i temi ritrovati, Torino, Einaudi 1985, p. 348. 9 Non sono la prima a segnalare il parallelismo: si veda Storia dell’arte italiana, tomo 6, II. Settecento e Ottocento, Torino, Einaudi 1981, p. 921. VII. Italiani della letteratura
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dere che egli abbia offerto spunti testuali significativi e a Foscolo e a Leopardi circa l’argomento su cui poniamo adesso l’attenzione, ma anche perché in ogni caso toccata dal motivo delle tombe dei grandi che fungono da memento in chiave anche civile; Di Benedetto cita suppergiù in questi termini l’atto terzo del Caio Gracco − prima rappresentazione Milano 1802, ma la tragedia fu composta in Francia nel 1800 – e ne rileva la contiguità tematica rispetto alla rivoluzione da poco avvenuta oltralpe, all’istituzione del Panthéon (1791), ma anche ai foscoliani Orazione a Bonaparte e (secondo) Ortis. Nella tragedia montiana infatti Caio Gracco, rivolto alla moglie Licinia, dice che non vorrà da lei, quando sarà morto, un «tributo […] di sospiri» e «di lagrime»: Licinia dovrà piuttosto condurre il figlio alla tomba, «insegnargli […] con la voce / pargoletta a chiamar l’ombra paterna» e raccontare «le rie sventure» del padre Caio, «onde [il figlio] apprenda virtù»; solo così egli «esulterà nell’urna»10. Soffermiamoci anche su un componimento poetico di poco precedente (Milano, 1797) e legato a un’occasione precisa, il congresso indetto al fine di stabilire il confine orientale d’Italia e chiuso poi col Trattato di Campoformio; titolo della canzone, appunto, Il Congresso di Udine.11 Anche in questo caso, argomento primo è l’Italia, nel suo così travagliato momento politico, personificata nei versi introduttivi come spesso accade nella poesia civile (si veda ad esempio la prima lassa della successiva All’Italia leopardiana): «Tu muta siedi, ed ogni scossa i rai / Tremando abbassi, e nella tua paura / Se ceppi attendi, o libertà non sai»; e la seconda stanza si apre con le sepolture dei grandi, degli antichi:12 Di quei prodi le sante Ombre frattanto Romor fanno e lamenti entro le tombe, Che avaro pie’ sacerdotal calpesta. E al sonito dell’armi, al fiero canto De’ Franchi Mirmidoni e delle trombe, Sussurrando vendetta alzan la testa. E voi l’avrete, e presta, magnanim’Ombre. (vv. 23-30)
10
Vd. V. Di Benedetto, Lo scrittoio di Ugo Foscolo, Torino, Einaudi 1990, p. 175. Il testo corredato da commento è compreso in V. Monti, Poesie (1797-1803), a cura di L. Frassineti, prefazione di G. Barbarisi, Ravenna, Longo 1998. 12 I versi 23 e 24 del Congresso di Udine, in particolare, sono per l’appunto riportati da Aldo Borlenghi nella Storia letteraria d’Italia a cura di Balduino, perché di essi si riconosce l’eco nell’Angelo Mai di Leopardi (e nel passaggio critico viene citata anche la canzone All’Italia); vd. A. Borlenghi, Vincenzo Monti, note e bibliografia di G. Pizzamiglio, in Storia letteraria d’Italia, nuova ed. a cura di A. Balduino, vol. 10, tomo I, Milano-Padova, Vallardi-Piccin Nuova Libraria 1990, p. 283 (e cfr. M. M. Lombardi, Allusioni montiane e foscoliane nelle ‘Canzoni’ di Leopardi, in «Strumenti critici», n. s., XIX, maggio 2004, p. 278). 11
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Occorre non sottovalutare poi, per il ricorrere del motivo negli scritti montiani, gli stimoli dall’antico derivati dalla non breve permanenza del poeta ferrarese − protratta fino alla svolta “repubblicana” − nella Roma neoclassica, raggiunta già nel 1778 (e quindi penso a forti suggestioni dall’antichità classica da un lato; dall’altro a quelle provenienti da un ambiente culturale, quello romano di fine secolo, che vive e promuove con fervore il nuovo gusto e la nuova sensibilità artistici, successivamente ascritti al neoclassicismo); milieu nel quale era interamente calato, e basti qui ricordare, a titolo d’esempio, la sua collaborazione con uno dei periodici più attenti e ricettivi alla mutata temperie, il settimanale «Giornale delle Belle Arti e della Incisione antiquaria, Musica e Poesia», edito dal 1784 al 1788, sul quale apparvero Al Signor di Montgolfier e La Prosopopea di Pericle.13 E ancora: fanno da premessa, azzarderei quasi da sfondo, agli scritti foscoliani e leopardiani qui citati, gli ideali, la cultura, la letteratura giacobini prima francesi, in seconda battuta – ma questa è per ora soltanto un’ipotesi – italiani. Da un lato ricordo come la Francia della Rivoluzione fece propria l’idea del mausoleo destinato a custodire le spoglie dei cittadini illustri (cito le pantheonizzazioni di Mirabeau e Voltaire); dall’altro lato è una fine studiosa del momento e del movimento rivoluzionario francese – e mi riferisco alla Mona Ozouf della Fête révolutionnaire14 – a segnalarci l’importanza, circa la simbologia desumibile dalle Feste della Liberazione, dei motivi classici, antichi come le colonne trionfali; ma anche la presenza, nelle Feste della Federazione, di scenografie che molto esplicitamente prendono a modello il trionfo romano (e comunque diffuso è in tutta la Francia per così dire “giacobina” l’uso del carro trionfale). Per Voltaire si è organizzato un vero e proprio trionfo, dopo il quale la salma è approdata appunto al Pantheon parigino. Tutto questo ha un’indubbia ripercussione in ambito culturale – e ritengo che in Italia ancor più che oltralpe, laddove venisse individuata, tale tematica andrebbe inevitabilmente valutata come funzionale all’intento primo perseguito dal giacobinismo nostrano, ovvero quello patriottico. Ma sembrerà chiaro oramai come un apparente doppio motivo, quello dei trionfi e del pantheon-altare laico, sia riconducibile in realtà ad un unico nodo concettuale, quello della successione di figure, dei cortei, della parata, della rassegna di grandi. Con un salto temporale cerchiamo allora un’origine, un punto d’avvio della linea qui solo abbozzata: nel poema (incompiuto) in capitoli di terzine dantesche
13
Sui periodici romani di ambito artistico pubblicati negli anni Ottanta del Settecento cfr. L. Barroero, Le arti e i lumi. Pittura e scultura da Piranesi a Canova, Torino, Einaudi («Piccola storia dell’arte») 2011, pp. 53-63; a p. 58 si ricorda il contributo di Vincenzo Monti al «Giornale». 14 M. Ozouf, La festa rivoluzionaria. 1789-1799, trad. di F. Cataldi Villari, Bologna, Pàtron 1982 [1976]. VII. Italiani della letteratura
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composto da Petrarca nella seconda metà del Trecento, i Trionfi. Parte strutturante del testo sono appunto le sfilate di personaggi: si tratta di passaggi essenzialmente descrittivi, ma che fungono da possibile archetipo, seppur non l’unico, del motivo di cui andiamo cercando le tracce. L’opera si sviluppa – nel suo stato di provvisorietà, poiché l’autore non giunse mai alla redazione definitiva – in un succedersi di visioni, in cui trionfano la Morte sull’Amore e la Castità, la Fama sulla Morte, fino al trionfo finale dell’Eternità; e il trionfo è proprio inteso in modo classico: come parata marziale. Penso ad esempio al Triumphus fame, dove, nell’ordine, appaiono Cesare, Scipione, l’Africano Minore, Ottaviano Augusto e così via. La storia dell’umanità, afferma anche Contini, è introdotta in elenchi di chiara ascendenza dantesca; ma Petrarca a sua volta ebbe tra le fonti prime, con tutta probabilità, non solo la Commedia ma anche l’Amorosa Visione del Boccaccio, anch’essa in terzine dantesche. Pure l’opera boccaccesca è appunto una visio, in cui peraltro trovano spazio dettagliate ekphraseis degli affreschi contenuti in due sale dove il protagonista viene condotto; dipinti raffiguranti i trionfi allegorici di Sapienza, Gloria, Ricchezza e Amore (prima sala) e di Fortuna (nella seconda). Altri elenchi, insomma: di scrittori (e quindi poeti, storiografi, ecc.), di eroi desiderosi di gloria, di grandi personaggi romani, ecc. Assai lungo è stato il dibattito sul rapporto fra le due opere, Trionfi petrarcheschi e Amorosa Visione: della vexata quaestio, non mi interesso; mi limito a ricordare come sia ipotizzabile un fitto intreccio Petrarca-Boccaccio in proposito. Torniamo piuttosto ai Trionfi, e al loro seguito. Perché il poema avrà anzitutto una fiorente tradizione iconografica: proprio i codici illustrati dell’opera petrarchesca saranno decisivi per l’affermazione del tema trionfale nell’arte del primo Rinascimento. Fra i vertici, le tele dei Trionfi di Cesare dipinte a Mantova dal Mantegna – ma lo stesso Mantegna è autore di una serie di tele raffiguranti I Trionfi petrarcheschi, andati perduti; il tema va ad intrecciarsi con la tradizione trionfale letteraria, di tipo profano-popolare, del Quattrocento; e a sua volta si pone in proficuo rapporto con le feste carnascialesche in cui parte non secondaria avevano i trionfi degli antichi imperatori15 (nelle feste fiorentine di Lorenzo il Magnifico, esempio primo, figuravano quattro trionfi antichi, fra i dieci carri della processione: quelli di Cesare, Pompeo, Ottaviano e Traiano). Del resto la stessa opera di Petrarca non venne solo diffusamente riprodotta, ma anche ampiamente rappresentata, messa in scena, o assunta quale fonte primaria degli allestimenti trionfali. La mia indagine inoltre si sta rivolgendo naturalmente a tutte le possibili riprese nei secoli XVI e XVII, tra letteratura (anche religiosa) e figurativo. È insomma un intreccio di linee, quello ora suggerito, che attraverso l’intensa rimodulazione motivica sembra riemergere poi proprio tra fine Sette e inizio Ottocento.
15 Sull’argomento, ma più in generale sui trionfi nel Quattrocento, cfr. G. Carandente, I Trionfi nel primo Rinascimento, Roma, Eri 1963.
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RASSEGNE DI GRANDI
PIERO BOCCHIA Un esempio di lotta interiore nell’ultimo Petrarca: «ma, pur che l’alma in Dio si riconforte» (TM II, 49)
se vincere victoria summa est (Sen. 9.1.92) La lotta interiore Per comprendere il verso in esame «ma, pur che l’alma in Dio si riconforte» (TM II, 49) alla luce del tema della lotta interiore occorrerà anzitutto chiarire che cosa sia la lotta interiore, quale significato assuma questa tematica nell’opera di Petrarca, e in riferimento a quali presupposti culturali tale immagine prenda forma nell’immaginario petrarchesco. A riguardo, lo stesso autore fornisce interessanti indicazioni nella Familiaris decima del diciassettesimo libro, rispondendo a Giovanni Aghinolfi che lo critica aspramente per il suo trasferimento a Milano. Petrarca, infatti, confessa all’amico che la causa di una scelta così «politicamente scorretta» è la sconfitta della propria lotta interiore; citando l’Epistola ai Romani Francesco ammette di trovarsi nella medesima situazione di Paolo: «non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (Rm. 7.19). E come l’Apostolo anche Agostino, di cui Francesco in questa lettera cita l’Enarratio 118, testimonia la natura intimamente contraddittoria dell’uomo, ontologicamente teso al bene e, al contempo, impotente a raggiungerlo con le sue sole forze. Afferma Petrarca: Mi piace ricordare gli affanni di quell’uomo così grande [‘Agostino’] e la lotta interiore del suo cuore […] e tanto più il ricordo mi piace perché ciò avvenne in questa stessa città [‘Milano’] nella quale sto ora provando qualcosa di simile (Fam. 17.10.13).1
1 Per le citazioni dell’Epistolario petrachesco (Familiares e Seniles) si fa riferimento alle traduzioni di U. Dotti: F. Petrarca, Le Familiari, a cura di U. Dotti, Torino, Aragno 2004-2009, 5
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Petrarca, dunque, nel solco della tradizione dei Padri, usa l’immagine della lotta interiore («intestinum … bellum») – secondo il grande medievista Lewis, addirittura, «il tema favorito del Medioevo»2 – per descrivere l’assetto spirituale che determina ogni scelta del singolo uomo; un assetto spirituale naturalmente dominato da un anelito al bene e alla felicità («tutti vogliamo essere felici, né potremmo non volerlo tanto è in noi insita, sin dalla nascita, questa inestirpabile volontà» Fam. 17.10.21), ma al contempo ferito da un’inclinazione mortifera, che misteriosamente mette l’uomo contro se stesso («ma non tutti facciamo ciò che porta alla felicità; anzi, a dir vero, ben pochi sono quelli che vogliono seguire quell’unica strada, e angusta, che conduce alla felicità» ibid.), o ancora come suggestivamente richiama il Canzoniere: «ché co la morte a lato / cerco del viver mio novo consiglio, / et veggio ’l meglio, et al peggior m’appiglio» (RVF 264.134-136). La tradizione cristiana, e con essa Petrarca, chiama tale inclinazione «peccato originale»; non a caso in questa medesima lettera Francesco cita nuovamente Paolo: «“Se faccio ciò che non voglio non sono io a compierlo ma il peccato che abita in me”. Conclusione profonda […] e che ben può essere rivolta contro di me» (Fam. 17.10.11). Perdere la lotta interiore L’animo dell’uomo, pertanto, è teatro di una lotta tra due impeti contrastanti: l’uno tende al bene; l’altro resiste, si oppone strenuamente, blocca l’inestirpabile tensione alla felicità: «imperat animus sibi et resistitur» (Fam. 17.10.17). Ed è proprio questa resistenza che Petrarca adduce a spiegazione della sua decisione di soggiornare a Milano. Davanti all’Aghinolfi, infatti, egli non può che confessare di essere vittima del suo peccato, il peccato di chi desidera la fama mondana, di colui che è avvinto, per dirla con il Secretum, alla «catena della gloria». Francesco riconosce di anelare alla «vera lode» che oltrepassa la fama mondana, ma non riesce a desiderarla interamente: «Una sola cosa mi amareggia molto, ed è quella di non volere pienamente ciò che voglio solo in parte e che invece, se non mi illudo, voglio volere pienamente» (Fam. 17.10.24). In questa sede, non sono tanto gli sviluppi della biografia petrarchesca a inte-
voll., e F. Petrarca, Le Senili, a cura di U. Dotti, Torino, Aragno 2004-2010, 3 voll. Per le citazioni del Canzoniere e dei Triumphi si cita dalle seguenti edizioni: F. Petrarca, Canzoniere, a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori 2004 (1989) e Id., Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, a cura di V. Pacca e L. Paolino, Milano, Mondadori 1996. 2 C.S. Lewis, The allegory of Love. A study in Medieval Tradition, Oxford New York, Oxford University Press 1985(1936), p. 55. VII. Italiani della letteratura
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ressare il nostro percorso, quanto il lucido discernimento del Nostro che individua la ragione del suo trasferimento a Milano nella sconfitta della propria lotta interiore. Beninteso, non intendiamo certo assegnare univocamente alla tradizione dei Padri e del Medioevo cristiano il tema lotta interiore, dal momento che tale topos trova espressione già nella poesia classica. Né intendiamo rastremare in modo arbitrario l’enorme potenziale semantico di questa tematica nell’opera del Petrarca (basti pensare alla variante amorosa della lotta interiore che permea il Canzoniere e parte dei Triumphi o alla triplice distinzione della stessa lotta interiore contro il peccato enucleata nel De otio religioso: mundi laquei, carnis illecebrae, demonum doli); tuttavia occorrerà rammentare che il nostro a fondo è funzionale all’analisi puntuale del verso «ma, pur che l’alma in Dio si riconforte» (TM II, 49) in cui è la lotta interiore contro il peccato tout court ad essere evocata. Vincere la lotta interiore: la forza di Dio e la categoria di prova Prima di procedere, tuttavia, occorre discernere il modo in cui è possibile vincere la guerra spirituale. In sostanza Petrarca fornisce due risposte: la prima, pescata direttamente dalla tradizione cristiana, viene riassunta nella succitata Familiaris: se è vero che [‘sogg. = noi uomini’] abbiamo avuto una nostra libertà di scelta, abbiamo tanto compresso tale libertà col peso del peccato, tanto l’abbiamo legata coi lacci delle pessime consuetudini che, senza la costante presenza dell’aiuto di Dio, a malapena essa può tendere verso l’onesto (Fam. 17.10.22).
Sine presentissima Dei ope [‘libertas’] vix ad honesta consurgat recita il brano petrarchesco: il peccato, dunque, appare sanabile solo dall’intervento di una forza divina presentissima. Indubbiamente dal punto di vista biografico per Francesco l’esempio più limpido di questa vittoria è il fratello Gherardo, monaco certosino a Montrieux, non a caso ricordato in una lettera a Lelio come «[‘colui che’] ha saputo navigare fra le tempestose miserie del mondo meglio di qualsiasi altro che io ricordi» (Fam. 16.8.10). Il fratello, destinatario di alcune importanti epistole, è letteralmente venerato da Francesco, di una venerazione che conserva tratti di autentica e accorata sincerità: quasi che l’esperienza di Gherardo, ripetutamente visitato in monastero e destinatario insieme alla sua comunità del De otio religioso, sbaragli quella contraddizione tra dottrina e sentimento della vita che, come evidenzia De Sanctis, è acutamente sentita dal Petrarca.3 Gherardo è per Francesco l’esempio di uomo libero,
3
«Quello che sente è in opposizione con quello che vede […]. Il suo amore non è così
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miles Christi (Fam. 10.3.3), strappato dalla servitù del peccato grazie alla destra di Dio: dalle tenebre di tanti errori te ha strappato un repentino mutamento della destra dell’Eccelso; io a poco a poco mi levo tra mille fatiche, credo, perché si comprenda che a nulla giovano l’aiuto della cultura e l’operosità dell’ingegno ma che tutto è dono di Dio, che forse porgerà anche a me la sua mano quando confessi francamente la mia debolezza (Fam. 10.3.17).
In perfetta conformità con la tradizione cristiana, la prima risposta di Petrarca identifica nella forza di un Dio presente, operante nella storia, l’unica risorsa per vincere la propria interiore lotta fra tensione al bene e inclinazione al male. Gherardo, infatti, è «felice» e «sicuro» proprio perché la sua vita è sorretta dalla grazia di Dio: «tu, in grazia di Dio, ormai sei in porto: felice l’ora in cui sei nato, felice ogni prova [«omne periculum»] che attraverso tante esperienze anche terrificanti ti ha condotto all’amore della sicurezza» (Fam. 10.3.41, trad. nostra). Di capitale interesse è il lessema periculum che nell’alveo della cultura cristiana petrarchesca ha un’accezione tecnica indicante la categoria di «prova». Secondo questa mens ogni evento è una «prova», un modo in cui l’uomo viene interpellato a conoscere e amare Dio. Vi è dunque un nesso sostanziale tra «prova» o periculum, e lotta interiore; è la prova, infatti, a innescare la lotta interiore e a rendere cogente con l’adesione a Dio la sconfitta del peccato. Petrarca intuisce che per Gherardo la «prova» è un’opportunità per conoscere e amare Dio. «Felice» allora è il fratello perché, pur chiuso dentro le quattro mura di un monastero, in virtù della grazia supera da vincitore le prove dell’esistenza. Vincere la lotta interiore: l’ideale del saggio e la virtù della fortezza Oltre all’ipotesi fornita dalla tradizione cristiana e reperita nella testimonianza del fratello, secondo Petrarca esiste un’altra strada per vincere la lotta interiore. Scrive l’Autore all’amico cardinale Giovanni Colonna: Non mi vergognerò certo di vantarmi familiarmente con te d’aver impiegato parecchio tempo e studio per trovarmi sempre pronto e armato contro i lutti improvvisi e per poter realizzare in me, almeno in qualche misura, l’insegnamento di Seneca: «Il saggio sa che tutto gli può accadere, e quando qualcosa gli accade, dice: lo sapevo» (Fam. 4.12.21).
possente che lo mette in istato di ribellione verso le sue credenze, né la sua fede è così possente che uccida la sensualità del suo amore», F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo e G. Ficara, Torino, Einaudi-Gallimard 1996, pp. 251-252. VII. Italiani della letteratura
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È l’ideale del saggio, che caratterizza come un refrain l’intero arco della parabola artistica e biografica del Petrarca, a rappresentare la strada alternativa; e lo studio è l’«arma» che rende capace l’animo umano di fronteggiare i colpi del caso. La forza dell’uomo, dunque, in questo caso non è più la destra del Dio «presentissimo» nella storia, ma l’ascesi umana verso la «virtù»: Sia i nostri contemporanei, sia i nostri posteri hanno o avranno certo di che ammirarti, lodarti, celebrarti, onorarti – afferma Petrarca rivolgendosi ancora a Giovanni Colonna –: una forza d’animo non abbattuta dalle sventure e la generosa maestà di uno spirito veramente romano (Fam. 7.13.22).
È proprio lo spirito romano di Seneca e Cicerone l’alimento costante dello «stoicismo istintivo»,4 come lo chiama Santagata, che persegue una disciplina etica intesa come atteggiamento tendenzialmente impermeabile alla prova, finalizzata a produrre una sopportazione al destino che coincide con una elevatio animi ad sidera. La forza dell’uomo risiede in definitiva nella sua fortezza (fortitudo), «la più salda virtù che sappia opporsi al cieco furore del destino» (Fam. 24.5.7); rimedio imprescindibile alle prove dell’esistenza, declinato nei suoi aspetti di pazienza e moderazione nel De remediis utriusque fortuna. Il saggio di fronte alla morte L’espressione più compiuta di questo modello etico deve essere fornita innanzi alla prova più ardua che umanamente sia concepibile: la morte. Non a caso è proprio intorno al tema della morte che Petrarca costruisce, eminentemente nelle Seniles, un’immagine dì sé che corrisponde all’ideale del vecchio saggio stoico. La morte diventa il cruccio di Petrarca, la percezione angosciosa del tempo che passa assurge a Leitmotiv della sua opera volgare e latina; la morte, infatti, è la prova estrema che esalta la percezione quotidiana di paura davanti agli eventi della vita (come scrive a Boccaccio: «Ogni ora e ogni istante ci portano qualcosa di nuovo; ogni passo comporta quei mille rischiosi e sdrucciolevoli ostacoli che affrontare è doloroso ed evitare è difficile» Sen. 6.2.4); e giacché l’intera ascesi del saggio ha lo scopo di anestetizzare il sentimento inevitabile che l’impatto con le circostanze storiche suscita, innanzi ad essa morte tale proponimento di vita viene enfatizzato, conclamato, portato alle sue estreme conseguenze: «Rimanere imperterrito tra cose che appaiono così terribili e guardare la morte con sguardo fermo, questo è il giusto mezzo, degno davvero di un saggio» (Fam. 22.12.13).
4 M. Santagata, I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel ‘Canzoniere’ di Petrarca, Bologna, Il Mulino 2004 (1992), p. 10.
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La fortezza del saggio e dei grandi comandanti militari diviene secondo questa proposta etica la virtù di tutti, nulli … ignota (Sen. 4.1.27), «che insegna a deprezzare la morte e a non aver paura di ciò che è terribile» (ibid.). Così, ad esempio, all’amico e condottiero Pandolfo Malatesta, Francesco scrive: «se qualcosa di doloroso è accaduto, è accaduto per noi, ma tale dolore va superato con la grandezza e la fortezza d’animo, anche perché non paia che si ami troppo noi stessi e che non si sappia tollerare con coraggio le nostre sventure» (Sen. 13.11.7); e al grammatico Donato Albanzani, «se pure tutto il mondo mi cadrà addosso, esso mi sotterrerà non dico con volto lieto e immobile, ma almeno fermo e sicuro» (Sen. 10.4.10). La morte, in quanto culmine di prova, verifica l’attendibilità del programma morale di Petrarca; egli pertanto vi ritorna costantemente mostrando la plausibilità del suo modello. E vi insiste anche nella sequenza onirica dei Triumphi da cui è estrapolato il verso che titola il nostro saggio: «ma, pur che l’alma in Dio si riconforte» (TM II, 49). La lotta interiore di Laura nei Triumphi: una differenza poetica tra Dante e Petrarca Questo verso condensa la risposta di Laura all’interrogativa indiretta del protagonista: «deh, dimmi se ’l morir è sì gran pena» (TM II, 30). Laura dovrebbe rispondere con cognizione di causa; infatti, il precedente capitolo dell’opera ha descritto la morte della donna dopo l’incontro con il personaggio di Morte. La vicenda del quadro successivo mette in scena, per l’appunto, il dialogo onirico tra Petrarca personaggio e il fantasma di Laura. Contestualmente a questo dialogo, il poeta vuole sapere come abbia affrontato la prova, il periculum estremo della vita. In sostanza Petrarca chiede a Laura se ha vinto l’ultima, decisiva lotta interiore della sua esistenza. L’opinione del volgo attribuisce alla morte una «gran pena»; ma Francesco rifugge da questa sentenza e volendo capire che cosa ne pensi la donna offre lo spunto alla risposta di Laura: «Negar» disse «non posso che l’affanno / che va inanzi al morir, non doglia forte, / e più la tema dell’etterno danno; // ma, pur che l’alma in Dio si riconforte, / e ’l cor, che ’n se medesmo forse è lasso, / che altro ch’un sospir breve è la morte? (TM II, 46-51).
a) La morte La sfera semantica dominante pertiene al tema della lotta interiore: la figura etimologica «morte»/«morir» insiste sul momento estremo di prova, l’«ultimo passo» (v. 52); il lessema «tema», pur smorzato dalla litote «Negar […] non», segna il trapasso della paura dal livello fisico («affanno», con suggerimento fonico delle fricative geminate, a evocare il «fiato corto» del morente) al piano spirituale.
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b) La paura La paura è un ingrediente fondamentale della lotta interiore; la «prova», infatti, con tutta la sua carica d’inesorabile imprevisto può generare un timore che influisce sulla decisione del soggetto. Abbiamo già evidenziato che nella concezione petrarchesca l’ascesi del saggio è finalizzata proprio ad inibire la paura, a mortificare la struttura di reazione che l’uomo naturalmente vive nell’impatto con i casi dell’esistenza. Secondo l’ideale di saggio stoico, infatti, solo nella misura in cui vince la paura l’uomo rimane se stesso anche nell’ultimo istante di vita. Laura, inizialmente, non nega la drammaticità del momento e conferma la voce del volgo: la «doglia» è «forte», e la «tema» per ciò che potrebbe avvenire in futuro lo è ancor di più («etterno danno», con sintagma dantesco). Cionondimeno già l’impiego della litote, «Negar […] non», suggerisce la divaricazione del suo pensiero dall’opinione del volgo, poi effettiva nella seconda terzina. c) La forza di Dio La congiunzione avversativa «ma» introduce, infatti, la pars construens della risposta della donna; il momento estremo, afferma Laura, può essere percepito e vissuto per quello che effettivamente è: un «sospir breve». La condizione perché ciò avvenga è l’affidamento dell’anima e del cuore in Dio: «ma, pur che l’alma in Dio si riconforte» (TM II, 49). Il lessema che in questo frangente narrativo polarizza la lotta interiore è «riconforte» rincalzato dalla rima ricca «forte» (v. 47). Il verbo «riconfortare» individua infatti quale sia la «forza» di cui l’anima e il cuore dell’uomo possono e devono disporre nel momento della prova: la forza stessa di Dio. Ciò che consente di superare la spinta centrifuga della paura – che inevitabilmente destinerebbe l’uomo alla ritirata dalla prova – è la forza di Dio. Il complemento di stato in luogo figurato, «in Dio», appalesa l’interlocutore dell’anima e del cuore, linguisticamente marcato nello stesso verbo («riconforte») dall’infisso -con- (-cum-). È l’energia di Dio, non l’ascesa del saggio, che qui rende l’uomo «forte», ovvero capace di «fortezza», quella virtù che in termini scolastici consente alla volontà dell’uomo di seguire la rettitudine dell’intelletto. Laura, e con essa l’uomo, è metonimicamente evocata dal «cor» – sintatticamente rilevato con un’anastrofe quale soggetto dell’azione e irradiato dalla linea fonetica dai nessi -or e co-/-co-, «riconforte»/«forse»/«morte» –, a rilevare la dimensione affettiva evidenziata anche dal verbo: l’«opera presentissima» di Dio sembra qui colmare la debolezza affettiva dell’uomo. d) La chiave intratestuale Poniamo ora in relazione questa risposta di Laura con il capitolo precedente; ovvero, verifichiamo come queste parole «rileggono» la sequenza poetica della morte di Laura. Sotto questa specola assume particolare rilievo il dialogo tra Laura e la personificazione della Morte. La donna, infatti, venuta a conoscenza della possibilità di trovare la morte, così risponde alla sua interlocutrice: «Come piace al
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Signor che ’n cielo stassi / ed indi regge e tempra l’universo, / [‘sogg. = tu Morte’] farai di me quel che degli altri fassi» (TMI, 70-72). Ancora una volta l’entità trascendente viene citata («Signor»); e in termini espliciti la sua collocazione è riferita ai «cieli» – ribadita, peraltro, dall’avverbio di luogo «indi» –; si badi bene, non sulla terra dove pretende svilupparsi la finzione allegorica. Pertanto – occorre notare – in questo episodio Dio è indipendente dal sistema dei personaggi congegnato da Petrarca; il significante «Dio», pur raffigurato nel sistema degli attanti, non ha un referente nella macchina finzionale. e) Conclusione Questo verso, dunque, «Come piace al Signor che ’n cielo stassi» (TMI, 70), che conclude il discorso diretto di Laura in vita, svela l’idea fondamentale del discorso poetico petrarchesco su Dio. Un discorso che assevera Dio, ma non lo include nel sistema dei personaggi; ne invoca la forza, ma non la personifica. Il divino esiste ma non è personaggio, non si fa storia, non entra in dialogo con il dramma degli altri personaggi. Come, dunque, Laura può trovare forza in Dio se Egli risiede nei cieli, se nella finzione narrativa Egli è un referente indipendente dal sistema dei personaggi, se la donna innanzi alla Morte è raffigurata sola? Unicamente se la forza di Dio è oggetto di un pensiero, di uno sforzo immaginativo del personaggio o risultato raggiunto dall’enfasi umana che cerca di gettare un ponte fra la terra, una «waste land» ante litteram, e il cielo armonico, puro e incorruttibile. Questo in ultima analisi è il Dio di Petrarca, l’oggetto di una strenua devozione la cui «presentissima opera» è richiamata da un punto di vista dottrinale, quale citazione in un certo senso obbligata da secoli di tradizione cristiana. Nel breve volgere di alcuni decenni assistiamo dunque ad un cambiamento di mentalità rispetto a Dante che si traduce in un diverso paradigma finzionale. Il poeta fiorentino, infatti, nella Commedia raffigura la forza di Dio operante nella storia finzionale attraverso un coerente sistema di personaggi – le «tre luci» per dirla con Singleton –, presentati quali terminali dell’iniziativa divina: è grazie a Virgilio che Dante vince la propria lotta interiore; e la paura è vinta proprio nella misura in cui la guida è riconosciuta e seguita come strumento di un’iniziativa che eccede le forze del suo pur fervido ingegno. In Petrarca, invece, il richiamo poetico all’entità trascendente non implica la sua compromissione nella scena narrativa; il cielo, nella finzione petrarchesca, è separato dalla terra. Che cosa spiega questo grado zero di oggettività finzionale di Dio? Vi è un brano del De vita solitaria che illustra in modo assai perspicuo una certa concezione sottesa a questo fenomeno poetico. In questo passo Petrarca, sulla scorta dei Psalmi penitentiales, riflette sul fatto che Dio è presente in ogni luogo. Ebbene, se l’uomo fosse consapevole che Dio è dappertutto non avrebbe il coraggio di peccare; tuttavia l’uomo pecca. Ecco secondo Petrarca il motivo di tale caduta:
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Che cosa c’inganna, se non il fatto che non vediamo con gli occhi colui [‘Cristo’] che crediamo presente col cuore?» [Quid hic prestigii est, nisi quia quem presentem corde credimus oculis non videmus…?]. Così ritorniamo a quello che Cicerone – che certo non conosceva Cristo – rimproverava agli antichi, là dove dice: «Non potevano veder nulla con lo spirito, e tutto riferivano agli occhi […]. È proprio di un grande ingegno distogliere lo spirito dalle sensazioni, e allontanare il pensiero dalla consuetudine». A questo dunque tendiamo anche noi con tutte le nostre forze, a vedere qualcosa con l’animo dopo aver domati i sensi e vinta la consuetudine. Apriamo, finalmente, e snebbiamo quegli occhi interiori con cui si vedono le cose invisibili: vedremo che Cristo è presente (De vita solitaria 1.5).5
In sintesi, la perdita di oggettività finzionale dell’iniziativa divina è direttamente proporzionale al processo di interiorizzazione del rapporto con Dio qui con eccezionale cura, ma anche altrove, asseverato.
5 Per la citazione del De vita solitaria cfr. F. Petrarca, De vita solitaria, in Opere latine, a cura di A. Bufano, Torino, UTET 1975, pp. 261-565.
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GIOVANNA CORLETO Gli ideali cavallereschi nel messaggio civile del Boccaccio
Il periodo napoletano rappresenta una fase cruciale, ancora poco studiata,1 nello sviluppo della vocazione letteraria di Boccaccio e in particolare di quella matrice cortese che segnerà tutta la sua produzione, compreso il Decameron, il primo grande libro della narrativa occidentale moderna, ove la rielaborazione di modelli e schemi letterari diversi fa da filtro della narrazione realistica. La tradizione cortese così cara al Boccaccio giovane, quella classica della sua formazione, quella più vicina alla sua esperienza fiorentina2 guidano, infatti, la comprensione e l’ordine armonico della varietà dei casi umani. «Comincia il libro chiamato Decameron, cognominato Prencipe Galeotto»,3 è l’apertura dell’opera, ad evocare subito il mondo della cavalleria e dell’amore cortese. Sono i valori appresi nei fasti della corte regale angioina, sono le tracce profonde lasciate dalla frequentazione dei testi della classicità latina nella fornitissima biblioteca reale di Roberto d’Angiò, ad incidere sugli ideali di onestà e gentilezza, sulle istanze di ordine e simmetria, sull’ideale di misura, cui Boccaccio ispira il suo disegno di società, quasi a temperare l’aggressività e la licenza del nuovo mondo borghese. Un disegno che nasce dalla mediazione tra i valori cortesi di liberalità e magnanimità di una ormai lontana società feudale e quelli della nuova società borghese che mira a scrollarsi di dosso il peso di moralistiche espressioni.
1
Non a caso un importante progetto di ricerca guidato da Giancarlo Alfano, Carlo Vecce ed altri va nella direzione di attutire questo gap. 2 Per L. Battaglia Ricci, Boccaccio, Roma, Salerno Editrice 2000, p. 123: «il capolavoro della narrativa occidentale sarà debitore a pari titolo della cultura cortese napoletana e della cultura municipale fiorentina». 3 G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi 1992, p.3 (I ed. 1980). Rassegne di grandi
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Ma, prima che nel Decameron, cogliamo il segno della cultura cavalleresca, che tanto peso avrà, poi, nella nostra letteratura del ’400 con Boiardo, Pulci, Ariosto, nell’opera che più rappresenta il cimento del genere epico del Boccaccio, la Teseida. Ne ri-assumiamo, qui, il carattere peculiare di epica amorosa, come Francesco Bruni4, Rita Librandi5 hanno nei loro scritti autorevolmente definito. Iniziato da Boccaccio a Napoli e concluso nel 1341, dopo il ritorno a Firenze, il poema è dedicato alla vicenda amorosa, che ruota intorno ad Emilia, Arcita e Palemone. La Teseida è il primo esperimento di poesia epica in volgare, come Boccaccio stesso dichiara: ma tu o libro, primo a lor cantare di Marte fai gli affanni sostenuti, nel volgar Lazio più mai non veduti6
dove Marte, dio della guerra, sta per poesia epica e volgar Lazio per volgare italiano. Giustamente Boccaccio invoca, nel raccontare una storia d’arme e d’amore, l’aiuto di Marte, il dio della guerra dalle guance rosse, di Venere, madre di Amore, e di Cupido, dio di Amore. Siate presenti, o Marte rubicondo, nelle tue armi rigido e feroce, e tu, madre d’amor, col tuo giocondo e lieto aspetto, e ‘l tuo figliuol veloce co’ dardi suoi possenti in ogni mondo; e sostenete e la mano e la voce di me che ‘ntendo i vostri effetti dire con poco bene e pien d’assai martire.7
Nel Teseida, Boccaccio assoggetta la componente bellicosa dell’epica cavalleresca ad una profonda reinterpretazione. Influenzato dal Roman de Thèbes e dalla Tebaide di Stazio, Boccaccio fa di Teseo un eroe che si batte per un giusto Marte, conferisce una funzione civilizzatrice ai costumi barbarici e alle Amazzoni, ricondotte, attraverso il matrimonio, dalla società “ferina” delle donne-guerriero alla società naturale fatta di uomini e donne. È Teseo a trasformare il duello tra Arcita e Palemone in un torneo amoroso, alla stregua dei tornei cavallereschi dalla fun-
4
Cfr. F. Bruni, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, Bologna, Il Mulino 1990. Cfr. R. Librandi, Corte e cavalleria della Napoli Angioina nel ‘Teseida’ del Boccaccio, in «Medioevo Romanzo», IV, 1977. 6 G. Boccaccio, Teseida, in Id., Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di V. Branca, vol. VI, Milano, Oscar A. Mondatori 1992, XII, ottava 84, p. 200. 7 Ivi, Invocazione, ottava 3, p. 106. 5
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zione anche ludica, rappresentati nella Napoli angioina nell’anfiteatro puteolano; è ancora Teseo a far sposare Emilia con Palemone, a dimostrazione che il successo nelle armi non è più condizione necessaria del successo amoroso. È, dunque, da condividere la conclusione cui Bruni perviene di «un’epica amorosa o meglio di una storia d’amore che attraversa il territorio delle armi».8 Ed in questa “riduzione dell’epica” mi pare di scorgere la funzione civilizzatrice di Venere di lucreziana memoria.9 «Amor vincit omnia» sarà, dopo poco più di un secolo, nel 1483, il motto di un altro poema epico l’Orlando Innamorato, in cui il Boiardo fa dell’amore un tutt’uno con l’onore e la gloria dei cavalieri. L’amore che per Boccaccio è, insieme alla fortuna, una delle forze essenziali della vita, è sì riscoperta della sensualità come gioia di vivere, ma anche amor cortese, sulla scorta del De amore di Andrea Cappellano. Se per quest’ultimo e per tutta la cultura del Duecento, la passione e il desiderio, che nascono dalla visione della bellezza fisica di una persona dell’altro sesso, sono destinati a rimanere inappagati, secondo un codice di comportamento volto alla sublimazione e all’autocontrollo,10 in Boccaccio, invece, il desiderio viene soddisfatto senza sensi di colpa, come nella novella di Simona e Pasquino.11 E l’amore è il protagonista della novella che apre la IV giornata, nella quale si racconta «di coloro li cui amori ebbero infelice fine». La racconta Fiammetta, il cui nome non a caso ricalca la biografia letteraria amorosa e la produzione giovanile di Boccaccio legata all’ambiente cortese della Napoli angioina.12 In Tancredi e Ghismunda si deposita tutta la memoria della cultura cortese. Echi di letture classiche (Ovidio in particolare) e medievali (romanzo cortese, lirica stilnovistica, Dante) affiorano nella trama di questa storia cupa, nella quale il principe di Salerno, Tancredi, follemente geloso della figlia Ghismunda, ne provocherà il suicidio, dandole in pasto il cuore del giovane da lei amato. Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai, e gio-
8
F. Bruni, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana cit., p. 201. So bene che autorevoli studi (cfr. e.g., V. Branca, F. Bruni) hanno escluso la possibilità che Boccaccio abbia letto Lucrezio, da non individuare, quindi, come fonte neanche per la descrizione della peste. Il mio vuole essere solo un ricordo della funzione civilizzatrice attribuita a Venere nei confronti di Marte nel sorgere della civiltà organizzata, cfr. Lucrezio, De rerum natura I, vv. 31-44. 10 Ne è un esempio Francesca che, avendo ceduto al desiderio, ha peccato: Dante Alighieri, Inferno V, vv. 100 e sgg. 11 G. Boccaccio, Decameron cit., IV, 7. 12 Il riferimento è al Filocolo, dove per la prima volta compare il nome della dama dell’autore, colei che gli impone di riscrivere la storia d’amore di Florio e Biancifiore, derivata dai romanzi cortesi conosciuti dal giovane Boccaccio presso la corte napoletana. 9
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vane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea. E dimorando col tenero padre, sí come gran donna, in molte dilicatezze, e veggendo che il padre, per l’amor che egli le portava, poca cura si dava di piú maritarla, né a lei onesta cosa pareva il richiedernelo, si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante. E veggendo molti uomini nella corte del padre usare, gentili e altri, si come noi veggiamo nelle corti, e considerate le maniere e’ costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto del padre, il cui nome era Guiscardo, uom di nazione assai umile ma per vertù e per costumi nobile, più che altro le piacque…13
Ghismunda non è Francesca, lei rivendica fino in fondo la sua autonomia di scelta e la consapevolezza di amare un uomo socialmente inferiore a lei. Naturalità dell’istinto amoroso, democrazia dell’eros, difesa appassionata della nobiltà d’animo, ed insieme rivendicazione di misura ed equilibrio nel comportamento sono i principi su cui si fonda l’etica individuale di Ghismunda che si lascia alle spalle gli ideali di nobiltà del padre. Rimane valida per Boccaccio – ed è questo un ulteriore elemento di valore cavalleresco – la pregiudiziale che l’amore è tale solo se sussiste tra persone “nobili”, nobili di sangue, ma anche nobili di animo. «Quantunque Amor volentieri le case de’nobili uomini abiti, esso per ciò non rifiuta lo ‘mperio de’ poveri».14 Anche Boccaccio come Dante, Guinizzelli, Cavalcanti, per affermare il principio secondo cui l’amore alberga nei cuori nobili, usa la parola chiave di questa teoria: il termine gentile nella sua accezione di nobile: Federigo «sì come il piú de’ gentili uomini avviene, d’una gentil donna, chiamata, monna Giovanna, s’innamorò».15 In questa novella si celebra la fusione dei valori cortesi, riflessi nella liberalità dell’aristocratico Federigo, che per un amore impossibile si riduce a possedere il solo falcone, e dei valori di fedeltà coniugale della borghese monna Giovanna con il suo amore materno. Al di là della diversità dei sistemi di valori di partenza alla fine monna Giovanna riconoscerà la grandezza dell’animo di Federigo e, sposandolo, lo salverà dal dissesto economico. Il sacrificio del falcone, gesto di generosità e di servitù disinteressata, avvicina, infatti, Giovanna alle idealità cortesi che prima l’avevano lasciata indifferente e insensibile alla prodigalità di Federigo, il quale «giostrava, armeggiava, faceva feste e donava, e il suo senza alcun ritegno spendeva»16 mentre Giovanna «niente di queste cose per lei fatte né di colui si curava che le faceva».17 La gentilezza dei due protagonisti è riflessa nel loro modo di parlare, nella loro
13
G. Boccaccio, Decameron cit., IV, 1 p. 472. Così la narratrice Emilia, ivi, IV, 7, p. 547. 15 Ivi, V, 9, p. 683. 16 Ibidem. 17 Ibidem. 14
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comune retorica, nelle vere e proprie orazioni che i due si rivolgono, discorsi costruiti da Boccaccio con un pari livello di stile, nobilmente sostenuto, senza indulgere a differenze di classe o di sesso. Boccaccio, infatti, ha avuto cura di costruire l’incontro risolutivo tra Federigo e Giovanna attraverso un confronto di discorsi equivalenti, anche nella durata: al breve scambio di battute iniziale «Bene stea Federigo!… Io son venuta a ristorarti…»18 seguono, infatti, le due orazioni più lunghe dell’una «Federigo ricordandoti tu…»19 e dell’altro «Madonna, poscia che a Dio piacque»20 Da notare, Giovanna chiama Federigo per nome e gli si rivolge col “tu”, questi chiama Giovanna “madonna” e le si rivolge col voi. Federigo usa il “voi” secondo i modi della allocuzione cortese sancita da tutta la tradizione lirica. Anche in Cisti21 si può riscontrare la fusione dei valori borghesi e dei valori cortesi. Cisti rappresenta il caso simmetricamente inverso rispetto a Federigo degli Alberighi: questi è il gentiluomo che con la cortesia fonde la masserizia, Cisti è il borghese che sa assurgere alle virtù cortesi. Oltre a ciò, Cisti ama le belle forme del vivere, che della cortesia sono la cornice necessaria: si noti l’insistenza del narratore sulla bontà dei vini, sulla lindura degli abiti, sulla pulizia dei bicchieri che paiono d’argento tanto brillano. Il senso del vivere splendido è reso come sempre dalla menzione di determinati oggetti significativi (che ricordano la «tovaglia bianchissima» di Federigo degli Alberighi, altro segno di un vivere aristocraticamente raffinato). Da rilevare che Boccaccio non indugia su descrizioni gratuite, fini a se stesse, delle cose. Gli oggetti sono evocati solo se sono strettamente funzionali all’azione narrativa: nel caso specifico essi contribuiscono a rendere il senso del vivere splendido di Cisti. Nel tratteggiare la figura di Guido Cavalcanti,22 Boccaccio tesse l’elogio della cortesia, che si manifesta nello stile e nei modi. Egli affida alla voce narrante di Elissa la rappresentazione di una società armonica, estranea alla violenza economica e alla esasperata ricerca di guadagno. Vuole rappresentare, idealizzandole, le belle e laudevoli usanze della Firenze dei tempi passati. Alla descrizione iniziale è affidata, infatti, la nostalgica rievocazione di una società improntata ai costumi cortesi (banchetti, tornei, prodigalità nello spendere) della più antica aristocrazia cittadina, costumi che la classe dei mercanti ha in parte fatto suoi. Tema della novella: le gentili brigate della Firenze “cortese e godereccia” di fine Duecento e la figura solitaria e pensosa del raffinato filosofo Cavalcanti, che passeggia meditando tra i sepolcri di marmo posti tra il Battistero di San Giovanni e la
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Ivi, p. 686. Ivi, p. 687. 20 Ivi, p. 689. 21 Ivi, VI, 2. 22 Ivi, VI, 9. 19
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chiesa di Santa Reparata (oggi Santa Maria del Fiore).23 Filosofo eminente, uomo capace di generosità e di eloquenza, Cavalcanti si dimostra, contrariamente a quanto ritengono i membri dell’allegra brigata, per nulla «abstratto dagli uomini».24 È capace, infatti, di un sagace motto di spirito e di un gesto pronto, un salto con il quale si cava d’impaccio e mostra la sua superiorità sulla brigata di Betto Brunelleschi che cerca di prenderlo in contropiede: Guido, tu rifiuti d’esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu avrai trovato che Idio non sia, che avrai fatto? A’ quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: «Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace»; e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fusi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se ne andò.25
L’incontro tra Guido Cavalcanti e la compagnia di Betto Brunelleschi consente il confronto tra il giovane intellettuale solitario ed il gruppo di giovani, amanti della compagnia e del divertimento. Guido, il “primo amico” di Dante, rappresenta la realizzazione più alta dell’ideale di uomo immaginato da Boccaccio, quell’ideale di cultura armonica in cui si riassumono in perfetto equilibrio tutti i valori della vita. Egli incarna, infatti, le massime virtù ammirate dallo scrittore, nonché tutte le qualità proprie del perfetto cavaliere: – cortesia: virtù che lo rende generoso della sua ricchezza e servile verso chi ritiene che la meriti («gentile uom»); – industria: virtù borghese che egli esplica nello svincolarsi da situazioni difficili e nel superare ostacoli con una prontezza e una destrezza straordinarie, sia con l’azione rapida e sicura del salto, sia con la padronanza della parola, grazie alla quale l’aristocratico Cavalcanti riesce a dominare la realtà; – cultura: virtù che lo distingue dagli altri eroi e lo rende superiore: infatti le sue meditazioni filosofiche creano intorno a lui un isolamento maggiore, solenne, un’atmosfera leggendaria di lontananza e di mistero che lo elevano ad eroe della civiltà fiorentina. Il suo immediato motto («Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace»), nucleo della novella determina l’assunto secondo cui senza la cultura l’uomo è come morto. I gentiluomini della brigata radunatisi intorno all’elegante motteggiatore, nonostante possiedano la cortesia (non a caso Boccaccio li chiama “Signori”), sono equiparati ai morti perché non hanno la cultura. Si intravede il
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Ivi, p. 756. Ibidem. 25 Ivi, p. 757. 24
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germe della concezione della “cultura” dell’Umanesimo. Solo messer Betto, il mediatore tra Cavalcanti e il gruppo di giovani scapestrati, riesce a comprendere il tagliente motto del valente filosofo, guadagnandosi così il riconoscimento dei compagni di brigata di «sottile intendente cavaliere»: se voi non l’avete inteso: egli ci ha onestamente in poche parole detta la maggior villania del mondo, per ciò che, se voi riguarderete bene, queste arche sono le case de’ morti, perciò che in esse si pongono e dimorano i morti; le quali egli dice che sono nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non letterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra.26
La rappresentazione concreta del motto, con cui Guido ribalta la situazione di fronte all’ostilità della brigata che vuole prendersi gioco di lui, consiste nell’agile «salto» al di là dell’arca di marmo, metaforicamente rappresentante il male del mondo: un gesto di nobiltà, scandito in perfetto stile atletico che definisce la persona fisica di Guido, la sua educazione cavalleresca, e nel contempo sottolinea il carattere sdegnoso, sfuggente e inafferrabile del personaggio. Risulta, dunque, evidente quanto il filtro della tradizione letteraria alta venga esaltato al massimo: le virtù cavalleresche, gli elementi della civiltà cortese, appresi a Napoli alla corte angioina, come cultura, onestà, nobiltà, misura si propongono come ideali di un modello di società che, per realizzarsi, richiede una sorta di mediazione tra i valori dei “cavalieri della spada” e quelli della nuova etica borghese, dei cavalieri cioè dell’industria, in un equilibrio dinamico tra tradizione e rinnovamento.
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Ivi, pp. 757-758.
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GIUSEPPE ANTONIO CAMERINO La lettera ‘Sul Romanticismo’ di Alessandro Manzoni
La lettera al Marchese Cesare d’Azeglio sui principî della letteratura romantica elaborata da Alessandro Manzoni è stata qualche anno fa ripubblicata, a cura di Massimo Castoldi, nell’Edizione nazionale ed europea delle opere dello scrittore lombardo, con l’aggiunta in Appendice del saggio Riflessioni sul Bello e altre pagine di Ermes Visconti.1 È un documento che presenta almeno due fasi molto distanziate nel tempo. Dopo aver ricopiato in pulito il primo abbozzo, Manzoni avrebbe inviato il 22 settembre 1823 (la data è in calce), la sua lettera a d’Azeglio, intitolata Sul romanticismo, in risposta a un’altra, del 12 agosto, in cui il suo destinatario l’aveva definito un difensore della causa romantica («[…] nella gran lite coi classici, nissuno meglio di lei ha servito la causa»).2 Ho detto avrebbe perché c’è stato chi, sulla base di due redazioni manoscritte non autografe presenti alla Braidense di Milano, ha ipotizzato una fase redazionale intermedia tra l’autografo originale e il testo del ’23.3 Manzoni considerava questa sua lettera un fatto privato; e invano negli anni a seguire d’Azeglio cercò di ottenerne un’autorizzazione alla stampa. Tuttavia qualcuno tra i più intimi amici dello scrittore, forse Tommaso Grossi o monsignor Luigi Tosi, ne fece circolare copie, ovviamente non autografe, una delle quali per-
1 A. Manzoni, Sul Romanticismo. Lettera al marchese Cesare d’Azeglio, Premessa di Pietro Gibellini, a cura di Massimo Castoldi, In appendice «Memoriale sul Romanticismo», «Notizia sul Romanticismo in Italia», «Riflessioni sul Bello» di Ermes Visconti, Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani 2008, pp. LXXXII+485. 2 Sulla lettera di d’Azeglio si veda nell’Introduzione, ivi, p. XLIX, nota 2. 3 Cfr. A. Manzoni, Scritti linguistici e letterari, a cura di Carla Riccardi e Biancamaria Travi, in Tutte le opere di A. M., a cura di Alberto Chiari e Fausto Ghisalberti, vol. V, t. III Milano, Mondadori 1991, pp. 480-483.
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Giuseppe Antonio Camerino
venne nel 1846 a Marino Falconi, direttore della «Gazzetta italiana», che si pubblicava a Parigi, e amico della marchesa Cristina Trivulzio di Belgioioso, la quale, fondando sempre nella capitale francese la rivista mensile «L’Ausonio», volle inserire la Lettera manzoniana nel fascicolo inaugurale, datato marzo di quello stesso anno, malgrado l’opposizione dell’autore,4 omettendo il nome del destinatario. A questa pubblicazione negli anni successivi ne seguirono altre, mai autorizzate (si veda alle pp. LIX s. dell’Introduzione del curatore del citato volume in esame). Dunque la prima apparizione a stampa della lettera Sul Romanticismo non si basava sull’autografo originale del 1823, che invece, circa un sessantennio dopo (Manzoni era già morto), sarà affidato dal gesuita padre Felice Cicaterri al bibliotecario del Woodstock College, negli Stati Uniti, nei cui archivi è ancora oggi conservato. Manzoni aveva seguito le vicende delle stampe da lui non approvate, ma solo nel 1870 (Castoldi indica però 1871), in un clima storico-letterario profondamente modificato rispetto all’epoca della sua missiva al marchese d’Azeglio e sia pur condizionato da un madornale errore dell’editore milanese nella fase di preparazione di una nuova edizione riveduta delle Opere varie,5 rielaborò, attraverso una minuziosa revisione delle bozze, consistente in almeno quattro giri, di cui esiste testimonianza documentata sempre presso la biblioteca Braidense, una versione più ridotta della Lettera, autorizzandone la pubblicazione appunto nel suddetto volume: versione, questa, ora dal curatore messa a testo nella presente edizione del Centro Nazionale Studi Manzoniani. È una scelta che va rispettata, anche se altre, pur legittime considerazioni avrebbero potuto portare a una scelta diversa. La presente edizione comprende, oltre alla redazione apparsa nelle ricordate Opere varie (pp. 555), il primo abbozzo che precede la stesura della Lettera effettivamente inviata a d’Azeglio il 22 settembre 1823 e quest’ultima medesima stesura (rispettivamente alle pp. 59-92 e 93-120), nonché parziali materiali di bozze che precedettero la tarda versione (alle pp. 121-190). Non si tratta, come è evidente, di una edizione critica, anche perché si sarebbe dovuto tener presente, nel modo più ampio possibile, la notevole circolazione di testimoni non autografi che hanno accompagnato per quasi mezzo secolo la tradizione della Lettera manzoniana. Manca un apparato di varianti, sia pur limitato ai testimoni autografi che il curatore ha preso in considerazione. Inoltre, a me sembra discutibile, e anche curioso, quanto il curatore afferma di fronte ad alcuni rari casi in cui lo scrittore non cancella una lezione precedente dopo averne postillato, in interlinea o in margine, un’altra alternativa; e cioè: «Ho preferito […] mettere a testo la lezione originaria e trattare la variante come fosse una nota d’autore, in modo conforme ai criteri che ho adottato per la Lettera a Victor Cousin» (p. 453). Ma fino a che punto trattare una variante come se fosse una chiosa d’autore può considerarsi una scelta illuminata?
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Si veda alla p. LVII, nota 3, della già cit., Introduzione del curatore. VII. Italiani della letteratura
La lettera ‘Sul Romanticismo’ di Alessandro Manzoni
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La lettera del ’23 era stata elaborata in una fase di ricerca letteraria molto connotata da riflessioni anche originali nel vivo del dibattito sulle poetiche romantiche, che per Manzoni era un dibattito di livello europeo, com’è noto, a cominciare dalla importantissima sua lettera del 17 ottobre 1820 a Claude Fauriel, il quale progettava sul romanticismo italiano e sulla relativa querelle con i classicisti un lavoro: progetto giudicato da Manzoni «important pour tout le monde, et pour nous autres italiens surtout; […]».6 Le circostanze diverse che hanno determinato la Lettera del ’23 e quella del ’70 si riflettono anche in alcuni casi specifici. Per esempio, è notevole il caso riguardante un luogo dei tassiani Discorsi sul Poema Eroico, di cui Manzoni nel 1820, nell’indicare a Fauriel gli articoli letterarî più importanti apparsi sul «Conciliatore», segnalava nel Foglio Azzurro (n° 27) la riproduzione di un brano dei suddetti Discorsi, secondo libro, riferito all’improbabile verosimiglianza del meraviglioso mitologico e assai meno polemico rispetto alla lezione dello stesso brano che si trova nel primo libro dei Discorsi, in cui invece Tasso parlava del meraviglioso mitologico «freddo ed insipido» e giudicava i poemi dei gentili «fondati sopra la falsità dell’antica religione». Quest’ultima lezione Manzoni invece citerà nella tarda stesura della lettera Sul Romanticismo del 1870, denotando in età avanzata un irrigidimento estremo contro la mitologia classica, nonché contro la mitologia pagana, ancora non molto marcato ai tempi della questione romantica, anche se il suo intimo amico, Ermes Visconti, tra l’altro, si era mostrato il più intransigente, tra i collaboratori del «Conciliatore», nello sforzo di liberare l’arte letteraria dalle costrizioni delle regole classicistiche.7 Resta comunque il fatto che solo nella lettera pubblicata nelle Opere varie il brano tassiano viene chiamato in causa nella sua forma più rigida. Resta il dubbio che tale irrigidimento non fosse stato condiviso dal Manzoni del 1823. Lo stesso curatore della edizione in esame osserva non a caso che lo scrittore lombardo si mostra «duramente polemico col Tasso per l’uso eccessivo di elementi fantastici e di personaggi immaginari».8 Mi sia concesso pure di sottolineare che l’accusa manzoniana alla «imitazione servile dei Classici […]» (p. 8), che riprendeva l’invettiva oraziana contro gli imitato-
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Opere varie, Edizione riveduta dall’autore, Milano, Stabilimento Redaelli dei Fratelli Rechiedei 1870. 6 Ineludibile per il rapporto Manzoni-Fauriel il contributo di Irene Botta, Manzoni a Fauriel: L’«Indication des articles littéraires du Conciliateur», in «Studi di filologia italiana», vol. XLIX (1991) pp. 203-249. Alle pp. 243-249 vi è riportata la citata lettera manzoniana, nuovamente collazionata sull’autografo ambrosiano e nell’Edizione del Centro Nazionale Studi Manzo niani, vol. 27, è apparso nel 2000 il Carteggio Alessandro Manzoni-Claude Fauriel, Premessa di Ezio Raimondi, a cura della stessa Botta. 7 Su questo si veda ancora il già cit. saggio di Irene Botta a p. 218 (e n. 2). 8 A. Manzoni, Sul romanticismo cit., p. 11. Rassegne di grandi
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res, servom pecus, citata però soltanto nel primo abbozzo della Lettera, nella stesura al d’Azeglio non presentava il polemico epiteto servile («imitazione dei classici propriamente detta»).9 Ma al di là di questi rilievi, c’è una sostanziale convergenza di idee e di gusto letterario tra i due testi tanto distanziati negli anni; idee e gusto letterario che in Manzoni si alimentarono a lungo nel suo stretto sodalizio con un protagonista del «Conciliatore», Ermes Visconti, autore di scritti teorici fondamentali per il romanticismo lombardo, tra i quali Idee elementari sulla poesia romantica (1818) e Riflessioni sul Bello, un saggio che Manzoni annunciava con entusiasmo al suo amico Fauriel in data 29 gennaio 1821: «[…] m’ont laissé une impression de verité que je n’avais jamais éprouvée en lisant les autres traités sur la même matière […]». Sono idee indirizzate verso una poetica del rifiuto netto degli arbitrî dell’immaginazione raccolte verso la fine del 1822 sotto il titolo definitivo di Riflessioni sul Bello, e su alcuni rapporti di esso colla ragionevolezza, colla morale, e colla presente civilizzazione Europea: un saggio che resta imprescindibile per la genesi della manzoniana lettera Sul romanticismo, come pure esplicitato nella stesura del ’23 inviata a d’Azeglio (ma non nell’ultima!): «un mio amico mi fece la grazia di comunicarmi in manoscritto un suo Trattato sul Bello; opera che, se non m’inganno, riunisce due pregi singolari: d’essere affatto nuova, e di contenere la ricapitolazione di tutto ciò che è stato detto d’importante sul soggetto».10 Ed è certamente soprattutto questo luogo della Lettera che giustifica l’inserimento in questo volume della Edizione nazionale manzoniana dello scritto viscontiano (oltre che di altri due sopra menzionati). Riprendendo in mano la sua lunga missiva a d’Azeglio dopo poco meno di mezzo secolo, il romanziere lombardo dovette anzitutto preoccuparsi di eliminare nella parte iniziale tutti i riferimenti occasionali che l’avevano generata (a cominciare dai cenni sulla Pentecoste, componimento che d’Azeglio aveva conosciuto un po’ in ritardo e desiderava dare alle stampe), ma ovviamente ribadisce e rafforza tutti gli argomenti a favore della concezione romantica della letteratura: dalla confutazione della mitologia antica ancora adottata dai classicisti, ai quali nella tarda versione della stessa Lettera oppone il maraviglioso soprannaturale dei grandi autori della letteratura italiana, da Dante a Tasso (ma Petrarca, menzionato già nella stesura del ’23, subisce poi un ridimensionamento drastico) alla presa di distanza dai moduli della letteratura arcadica e pastorale; dal rifiuto della imitazione servile degli antichi classici, la cui morale naturale sarebbe stata fondata su falsi presupposti, alla rivendicazione della letteratura romantica come apportatrice di moderni e nuovi e veri fermenti morali; dalla polemica (di poco attenuata nella versione ultima) contro le regole arbitrarie, e specialmente quella delle due unità drammatiche, all’appassionata difesa delle poetiche romantiche, molto forte e decisa nella versione del ’23, più attenuata
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Ivi, rispettivam. alle pp. 8 e 95. A. Manzoni, Sul romanticismo cit., p. 102.
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La lettera ‘Sul Romanticismo’ di Alessandro Manzoni
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invece nell’ultima, in cui, tra l’altro, non si fa più esplicita menzione dell’utile per iscopo e dell’interessante per mezzo e ci si limita soltanto al primato del vero «l’unica sorgente d’un diletto nobile e durevole; giacchè il falso può bensì trastullar la mente, ma non arricchirla, nè elevarla; e questo trastullo medesimo è, di sua natura, instabile e temporario, potendo essere, come è desiderabile che sia, distrutto, anzi cambiato in fastidio, o da una cognizione sopravvegnente del vero, o da un amore cresciuto del vero medesimo».11 Ho già notato, a proposito di questa impegnativa ed elaborata, ancorché tardiva, puntualizzazione sul vero, come l’ultimo Manzoni venga ad affiancare Leopardi, il quale l’aveva di molto preceduto in questa tormentata distinzione tra falso e vero, tra errori e ameni inganni dell’immaginazione e dura e gelido vero della ragione: con la grande differenza però che Leopardi non potette mai rinunciare definitivamente alla funzione per lui vitale del falso in poesia; e, almeno limitatamente ai Canti, solo una volta si illuse «[…] che conosciuto, ancor che tristo, / ha i suoi diletti il vero. […]» (Al conte Pepoli, vv. 151-152).12 Ma per restare a Manzoni, è indiscutibile che le verità della ragione sono strettamente correlate ai valori morali e alle verità del Vangelo: un assioma che nella lettera Sul romanticismo resta fermo fino alla stesura definitiva. Il romanticismo manzoniano è inconcepibile senza le verità e l’esperienza del cristianesimo (a prescindere dalle venature giansenistiche presenti nella fase immediatamente successiva alla conversione dello scrittore). È al cristianesimo che va ricondotto per Manzoni il sentimento tutto moderno dell’infinito o quello della speranza della vita eterna che riscatta i dolori più atroci e le più atroci ingiustizie della natura e della storia. Come osservava del resto già Visconti nel suo già ricordato saggio Riflessioni sul bello, i pagani «immaginarono lineamenti per la divina adolescenza d’Apollo e per la maestà di Giove; ma l’ideale verità del Messia, dipinto da Leonardo, nell’Ultima Cena sarebbe stata per essi un enimma».13 Come si vede, le viscontiane Riflessioni tallonano sempre da vicino la Lettera a d’Azeglio; ed essendo le stesse, come s’è detto, edite nel medesimo volume comprendente il testo manzoniano e altre pagine dello stesso Visconti, quelle Riflessioni meriterebbero una ulteriore analisi a parte.
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Ivi, p. 44. Mi sia concesso, su questo confronto Manzoni-Leopardi riguardo al concetto di vero, rinviare a G.A. Camerino, Profilo critico del romanticismo italiano, Novara, Interlinea («Biblioteca letteraria dell’Italia unita») 2009; si veda almeno alle pp. 45 e 78. Sulla momentanea illusione leopardiana – legata alla composizione della canzone Al conte Pepoli – di poter generare poesia con l’arido vero, mi sia concesso invece rinviare al mio volume, Lo scrittoio di Leopardi. Processi compositivi e formazione di tόpoi, Napoli, Liguori («Critica e letteratura») 2011; cfr. almeno le pp. 124 e 160-162. 13 E. Visconti, Riflessioni sul bello, in A. Manzoni, Sul romanticismo cit., p. 358. 12
Rassegne di grandi
ITALIANI DELLA LETTERATURA: FEDERICO DE ROBERTO
ROSALBA GALVAGNO L’Italia di Consalvo Uzeda nei ‘Vicerè’ di Federico De Roberto
Il nome dell’Italia ricorre in maniera discreta ma costante lungo tutta la narrazione dei Vicerè. Nella parte conclusiva del discorso tenuto da Consalvo nell’ultimo capitolo del romanzo, al momento, come vedremo, della sua perorazione finale, irrompono ad esempio due riferimenti letterali alla «patria» e all’«Italia». Il celebre «discorso-programma» tenuto dal giovane candidato al Parlamento nazionale ha luogo la domenica dell’otto ottobre 18821 nella palestra ginnastica del convento dei PP. Benedettini, dove il principino aveva trascorso il Noviziato e che ora sceglie come teatro della sua performance pre-elettorale, mosso da «una sua idea».2 Questa «idea», che non verrà esplicitata dal narratore e neanche da Consalvo, riguarda verosimilmente il desiderio di rivalsa del principe di Francalanza di predicare la libertà dal luogo stesso della sua ex-prigione, il convento di San Nicola appunto, dove all’età di quindici anni era stato rinchiuso dal padre per esservi educato. Quando gli capita di rivedere e di ripercorrere in occasione dei preparativi del meeting elettorale l’«enorme e nobile monastero» tristemente devastato da «generazioni di soldati e studenti succedutisi dal Sessantasei», non può non rimemorare quel suo «remotissimo passato»: Un custode, facendogli da guida, narrava le magnificenze del convento, le feste sontuose, l’abbondanza dei conviti, la nobiltà dei Padri, e rammaricavasi mostrando le rovine presenti. «Qui stavano i novizii, tutti figli dei primi baroni: bei tempi! Adesso ci vengono i figli dei ciabattini!» Il prestigio della nobiltà e della ricchezza era dunque veramente imperituro, se quel povero diavolo parlava così d’una riforma che giovava
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Lo stesso giorno dell’intervento del vero Presidente del consiglio dell’epoca, Antonino De Pretis, durante la sua campagna elettorale in Lombardia, a Stradella. 2 F. De Roberto, I Viceré, in Id., Romanzi novelle e saggi, a cura di C. A. Madrignani, Milano, Mondadori 1984, p. 1076 (parte III, cap. 9). Si cita da questa edizione. Italiani della letteratura: Federico De Roberto
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ai suoi pari… Consalvo voleva rispondere: «Avete ragione…» ma il rumore delle martellate che veniva dalla palestra gli rammentava la necessità di nascondere i propri sentimenti, di rappresentar la parte che s’era assunta. Lì, fra quelle mura, egli s’era messo col partito dei sorci ai quali Frà Cola voleva tagliar la coda: se qualcuno gli avrebbe fatto una colpa di quel remotissimo passato?… Bah! Chi si rammentava delle monellate d’un ragazzo! Giovannino era morto, non poteva tornar dall’altro mondo a contraddirlo! E quand’anche?…3
È proprio quest’ultima frase pseudo-interrogativa − «E quand’anche?…» − che svela la modalità enunciativa forse più autentica di Consalvo, una modalità della negazione che la teoria analitica definisce diniego della realtà o anche sconfessione (Verleugnung),4 che equivale a una sorta di riconoscimento della realtà tuttavia rifiutata. Non appena infatti Consalvo viene sfiorato da un pur vago senso di colpa, cerca immediatamente di sbarazzarsene, di sconfessarlo appunto. Inoltre in questo brano viene ribadito il contrasto fra l’ideale democratico che egli ha abbracciato e la sua educazione e il suo stesso sangue, che lo inducono a nascondere i suoi sentimenti. È importante, quanto alla soggettività di Consalvo, sottolineare questo tratto della dissimulazione, che si affianca all’altro, capitale, della sfida.5 Sono infatti questi due tratti − della sconfessione-dissimulazione e della sfida −, che fanno di Consalvo un personaggio attualissimo, assolutamente inedito e originale al tempo della sua nascita letteraria.6 Potrebbero sembrare allora paradossali certe fragilità del superbo principe di Francalanza prossimo a esibirsi nella palestra ginnastica inondata da una marea di gente: «Consalvo avanzavasi, pallidissimo, […], assordato, abbacinato, sgominato dallo spettacolo. […]. “Basta… basta…” diceva Consalvo, a bassa voce, con un senso di vera paura dinanzi a quel mare urlante». «Ora Consalvo, vinta la commozione paurosa, […] sorrideva, sicuro di sé, gonfio il cuore di fiducia superba».7 Inizia così, dopo un momento di quasi smarrimento, il discorso del nostro eroe
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Ivi, p. 1077. Diversa dalla più familiare denegazione (Verneinung). Per la differenza tra «negazione» e «sconfessione» cfr. S. Freud, La negazione (1925) e Feticismo (1927), in Id., Opere, vol. X, Torino, Boringhieri 1978, pp. 197-201 e pp. 491-497. 5 «Nondimeno guardava tutti in viso, quasi in atto di sfida, per non darla vinta a suo padre che aveva per forza voluto metterlo lì dentro», I, 6, 589 «Consalvo piantò a un tratto gli occhi negli occhi del padre, guardandolo fisso, con un’espressione dura, come di sfida, e lasciato improvvisamente il lei:», II, 8, 867, corsivi nostri. 6 Un critico ha parlato di Consalvo come di «un arrivista tipico del passaggio dalla modernità a quella che alcuni chiamano la postmodernità», D. Ferraris, De Roberto e l’invenzione del consalvismo, in Atti del Convegno internazionale L’Unità d’Italia nella rappresentazione dei veristi, 13-17 dicembre 2010, Monastero dei Benedettini, Catania, Acireale-Roma, Bonanno 2012. 7 III, 9, 1080 e 1081. 4
VII. Italiani della letteratura
L’Italia di Consalvo Uzeda nei ‘Vicerè’ di Federico De Roberto
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che vince la commozione paurosa trasformandola addirittura in sicurezza e fiducia superba. Il discorso che Consalvo riesce a tenere per ben due ore, nonostante la stanchezza del pubblico e la sua propria, e che occupa circa dieci pagine8 dalle quali abbiamo ritagliato alcune indispensabili sequenze è, nel romanzo, l’ultimo di una serie di discorsi pronunciati da Benedetto Giulente9 e dallo stesso Consalvo, che aveva già avuto modo di esibire le sue doti di esperto e prolisso oratore.10 Esso è costruito secondo una calcolata retorica, che fa uso del discorso misto: diretto, indiretto e talvolta indiretto libero con discrete incursioni metadiegetiche del narratore, che si manifesta specialmente attraverso i circostanziali avversativi («veramente», «ma»), concessivi («tuttavia»), modali («francamente»), temporali («ormai»),11 vere e proprie spie dell’enunciazione nell’enunciato, che permettono di identificare con una certa esattezza la sua voce le rare volte in cui essa interviene. Numerose didascalie riportate in corsivo e tra parentesi tonde punteggiano il discorso e servono a scandire il commento del pubblico e dei cronisti-giornalisti intervenuti al meeting. L’oratore, oltre a suddividere la materia trattata in svariati temi: politici, istituzionali ed economici (lo Satuto, la quistione sociale, la politica estera, la quistione delle finanze, il sistema tributario, i trattati di commercio, la marina mercantile, la riforma postale e telegrafica, la legislazione dei telefoni, e perfino l’idra burocratica), correda la sua orazione di aneddoti, come quello del ricordo infantile di Garibaldi,12 o quello di Voltaire e del suo parrucchiere,13 di massime, proverbi, aforismi − italiani, francesi e inglesi − complicati talvolta dalla figura dell’equivoco come ad esempio il motto inglese the right man in the right place addotto da coloro che combattono le candidature operaie i quali, secondo Consalvo, «dimenticano che questa citazione è una spada a due tagli, e che allorquando
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Ivi, 1081-1091. Su Consalvo «politico» si leggeranno F. Spera, Il vaniloquio dei Viceré, in «Lettere Italiane», XXIX (1977), 4, pp. 446-461; C. A. Madrignani, Retorica e Rettorica dei discorsi politici di Consalvo, in «galleria», numero dedicato a F. De Roberto, a cura di S. Zappulla Muscarà, XXXI (1981), 1-4, pp. 78-86; C. Spalanca, L’ascesa politica del principe Consalvo, in Gli inganni del romanzo. ‘I Vicerè’ tra storia e finzione letteraria, presentazione di A. Di Grado, Atti del Congresso celebrativo del centenario dei Viceré, Catania, 23-26 Novembre 1994, Catania, Fondazione Verga 1998, pp. 223-240. 9 I, 8, pp. 670-671; I, 9, pp. 696-697. 10 III, 2, pp. 925-927; III, 4, pp. 959-964. 11 III, 9, pp. 1085-1089. 12 III, 9, pp. 1082-1083. Per l’analisi di questo ricordo mi permetto di rinviare a R. Galvagno, L’Unità d’Italia e Garibaldi nell’«aneddoto» di Consalvo Uzeda, in Atti del Convegno internazionale L’Unità d’Italia nella rappresentazione dei veristi cit., pp. 113-133. 13 III, 9, p. 1087. 14 Ibidem. Italiani della letteratura: Federico De Roberto
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il Parlamento dovesse occuparsi di quistioni operaie, the right men in the right places sarebbero appunto i cittadini operai»,14 e di citazioni anche letterarie sulle quali torneremo a proposito dell’Italia. Va menzionato ancora l’uso singolare dell’enumerazione dei nomi,15 una figura quest’ultima che, proprio in riferimento all’interminabile discorso di Consalvo, si avvale di una puntuale definizione metatestuale, quella di «nomenclature monotone»,16 affine alla straordinaria figura della «litania» che, variamente specificata, ricorre cinque volte nel romanzo, le ultime due proprio nel discorso di Consalvo, nella stessa pagina e a distanza ravvicinata.17 Vanno infine segnalate alcune figure della ripetizione come l’anafora, spesso inscritta nella frase ternaria («Come un brillante…come un attor tragico…come un ciarlatano») o anche nella più ampia figura del ciclo («quel partito…»), la geminatio («il primo, il primo…») e l’adibizione quasi caricaturale del chiasmo: «monarchia democratica […] sentimenti democraticamente monarchici», «Amministrazione della giustizia… giustizia dell’amministrazione…» «Discentrare accentrando, accentrare discentrando».18 Proponiamo ora un’analisi della figura o dell’idea che Consalvo esibisce dell’Italia e dei suoi corollari risorgimentali − patria, libertà, unità, progresso, democrazia − in un brano che si colloca nell’esordio del suo discorso, per poi passare alla sequenza finale pronunciata invece nell’epilogo: il mio programma, in mancanza d’altri meriti, avrà quello della brevità: esso compendiasi in sole tre parole: Libertà, progresso, democrazia… (Battimani fragorosi ed entusiastici). Un superstizioso contento occupa l’animo mio, nell’udir voi, liberi cittadini, coronare d’applausi non me, ma queste sacre parole, […]. Concittadini, la mia fede in questi grandi ideali umani non è nuova, non data da questi giorni, in cui tutti la sfoggiano, come i galanti vantano le grazie della donna desiderata… (Ilarità) protestando di non volerne i favori… (Nuova ilarità) ma di star paghi a sospirarla da lungi… (Risa generali). La mia fede data dall’alba della mia vita, quando i pregiudizii di casta che io conobbi, ma che non mi duole di aver conosciuto, perché ora sono meglio in grado di combatterli… (Benissimo!) mi vollero chiuso qui, tra questi muri.19
In questa sequenza Consalvo pronuncia per la prima volta con una certa enfasi la parola «fede», una parola chiave del suo discorso, che sarà ripetutamente proferi-
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«Sfilavano tutti gli uomini di Stato passati e presenti, entravano in ballo Machiavelli, Gladstone, Campanella, Macauley, Bacone da Verulanio…», ivi, p. 1088. 16 III, 9, p. 1089. 17 «Uno di essi sorse in piedi, e in mezzo al silenzio generale cominciò con voce stridula la litania delle adesioni. […]. Finalmente la litania finì», ivi, p. 1081. 18 Ivi, pp. 1085-1091. 19 Ivi, p. 1082. VII. Italiani della letteratura
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ta accanto a un altro significativo termine: «redenzione». La missione politica del principe assume così la sacralità di una vera e propria ascesi, di una «conversione».20 Egli stesso d’altronde era stato convertito una prima volta al «partito dei liberali»21 dal cugino Giovannino e poi, di passaggio a Roma al rientro dal suo lungo viaggio in Europa, era stato convertito alla politica dall’ascolto fortuito di alcune parole pronunciate sbadatamente dall’onorevole Mazzarini.22 A questo punto è importante rilevare la similitudine con la quale in un lungo passaggio del suo discorso l’oratore paragona la fede all’ardua vetta sublime conquistata dall’alpinista, preceduta a sua volta da quella che paragona la fede alla bandiera conquistata in battaglia dal capitano. Due similitudini agonistiche dunque, che servono a sottolineare lo slancio della fede: Questa fede mi è cara com’è cara al capitano la bandiera conquistata nella battaglia… (Scoppio di battimani). All’alpigiano che passa tutti i suoi giorni tra le cime dei monti, il grandioso spettacolo nulla dice, o ben poco; all’alpinista che è partito dalla pianura, che ha conquistato a grado a grado l’ardua vetta sublime, il cuore s’allarga di gioia, si gonfia di giusta superbia nel contemplare il meritato orizzonte […]. Io sono responsabile della mia vita; e la mia vita è stata tutta spesa in un’opera di redenzione: […].
La metafora dell’alpinista, ricorre anche in un breve ed elegante testo teorico di Federico De Roberto, La morte dell’amore, precisamente nel secondo dei sei esempi raccolti nel trattatello. Il narratore di questo esempio intitolato L’assurdo (1892) è uno dei molteplici doppi (o personaggi delegati) dell’Autore, Ettore Baglioni, il quale, argomentando sulla felicità che ci sfugge a causa della nostra inesplorabile natura, aggiunge: Quando io paragonavo l’uomo nuovo che quella passione aveva fatto di me, al lamentabile personaggio antico, dal cuore sanguinante, dallo spirito ottenebrato, dalle energie distrutte, io sentivo, sì, dilatarmi il petto come nel respirare l’aria purissima d’una vetta alpina dopo aver traversato una paludosa maremma: però, più forte della gioia era sempre la paura che quell’incredibile metempsicosi si risolvesse in un fatale ritorno alla sciagurata esistenza di prima.23
La stessa immagine della vetta alpina è stata adibita dunque nel contesto di un
20 Che era cominciata con una «conversione» culturale: «La fama della sua conversione si diffuse subito», III, 2, p. 923. 21 II, 5, p. 806. 22 «“E voi, principino, non pensate di mettervi nella vita pubblica?….” Parole dette così, sbadatamente, per continuare a parlare; ma Consalvo ne fu abbagliato», III, 2, p. 921. Ma si legga per intero questo paragrafo capitale (ivi, pp. 921-922). 23 F. De Roberto, La morte dell’amore, a cura di M. D’Onofrio, Roma, Salerno Editrice 1994, pp. 47-48.
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discorso amoroso e in quello di un discorso politico. La tensione che anima l’«uomo nuovo» Ettore Baglioni e, analogamente, l’«uomo nuovo» Consalvo Uzeda,24 è la medesima tensione che la derisoria comparazione della fede nei nuovi ideali umani con la donna desiderata ma sospirata da lungi, prospetticamente conferma. Il secondo corno della metafora alpina − il cuore che si allarga di gioia e si gonfia di giusta superbia nel contemplare il meritato orizzonte − riprende inoltre le già citate frasi che precedono l’entrata nell’agone di Consalvo: «[…], vinta la commozione paurosa, […], gonfio il cuore di fiducia superba»,25 dove si oppongono, come nel frammento amoroso, la paura e la gioia. Insomma la conquista dell’oggetto − metaforicamente la vetta alpina −, foriero di gioia e di superbia non elimina (nel caso di Ettore Baglioni), oppure segue (nel caso di Consalvo) la paura da cui il Soggetto è investito davanti al rischio di una caduta: un fatale ritorno alla sciagurata esistenza di prima per il protagonista de L’assurdo, un eventuale fiasco elettorale per il personaggio dei Viceré. L’Italia è definita anche alla fine di un lungo periodo, un ciclo esattamente, questa «gran patria comune», la quale, sostiene Consalvo, potrà nascere dall’impegno di «quel partito26 che assicurerà nel modo più equo, per la via più diretta, nel tempo più breve, la prosperità, la grandezza, la forza della gran patria comune».27 Alla nuova «fede» inoltre, dovranno obbedire le iniziative del legislatore, una figura − anche questa enfatizzata dalla iteratio − grazie alla quale il principe, memore della lezione paterna, mira a far perdurare il vecchio potere dei Viceré sotto le forme nuove della democrazia rappresentativa, purché insomma si continui a dettar legge.28 Vediamo infatti Consalvo prodursi, a partire dal detto francese «Si jeunesse savait! Si vieillesse pouvait!», in una articolata riflessione intorno ai requisiti del legislatore, che si chiude su un curioso autoritratto: «Ma, come tutte le cose umane, queste istituzioni non sono perfette, bensì perfettibili, e a tal opera di continuo miglioramento io dedicherò tutte le mie forze, scevro come sono da paure e da feticismi».29 Tuttavia basta ripercorrere l’intero romanzo per trovare sia le tracce vistose
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«L’ostinazione, la durezza di cui aveva dato prova anche con lei erano sciocche, degne d’un Uzeda stravagante, non dell’onorevole di Francalanza, dell’uomo nuovo che egli voleva essere», III, 9, p. 1096, corsivi nostri. 25 III, 9, p. 1081. 26 Sintagma quest’ultimo enfatizzato da ben cinque martellanti ripetizioni anaforiche, ivi, p. 1085. 27 Ibidem. 28 «Il ragazzo stordito un poco dal baccano, domandò: “Che cosa vuol dire deputato?” “Deputati” spiegò il padre “sono quelli che fanno le leggi nel Parlamento.” “Non li fa il re?” “Il re e i deputati insieme. Il re può badare a tutto? E vedi come lo zio fa onore alla famiglia: quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!…”», I, 9, p. 697. 29 Ivi, p. 1086. VII. Italiani della letteratura
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della paura che attanaglia Consalvo nei confronti del padre, della pazzia e della morte violenta, sia le tracce del suo feticismo: l’idolatria della nobiltà e del suo stesso titolo, Principe di Francalanza, considerato come un feticcio, un miracoloso «talismano»,30 per cui la disinvolta affermazione − «scevro come sono da paure e da feticismi» − rivela piuttosto lo stile perverso della sconfessione che non quello nevrotico della denegazione o, ancor meno, della semplice menzogna. Consalvo procede dunque col suo discorso fino a propinare la storia dell’intera umanità che il narratore ironicamente si incarica di riassumere attraverso una rapida sintesi commentando alla fine: «L’attenzione del pubblico cominciava a diminuire, tuttavia molti si sforzavano di seguirlo in quella corsa pazza».31 Ora, proprio sul finire di questa «corsa pazza» insorgono ben tre citazioni dantesche. La prima riguarda la lingua di Dante, la seconda riporta il celebre verso ventiduesimo del terzo canto dell’Inferno: Così, «un giorno non lontano, rivendicati i nostri naturali confini (Applausi vivissimi), riunita in un sol fascio la gente che parla la lingua di Dante (Scoppio di applausi) stabilite le nostre colonie in Africa e forse anche in Oceania (Benissimo!) noi ricostruiremo l’Impero romano!» (Ovazione). Subito dopo passò alla quistione delle finanze. «Quivi sospiri, pianti ed alti guai…» (Ilarità).32
La terza citazione si legge più avanti nel punto in cui Consalvo tace per un momento prima di attaccare la perorazione finale: Questi parlava da un’ora e mezza, era tutto in sudore, la sua voce s’arrochiva, […]. A un tratto alcune seggiole rovesciate dalla gente che scappava fecero un gran fracasso. Tutti si voltarono, temendo un incidente spiacevole, una rissa; l’oratore fu costretto a tacere un momento. Riprendendo a parlare, la voce gli uscì rauca e fioca dalla strozza; non ne poteva più, ma era alla perorazione.33
30
«“Mi eleggano pel blasone e pei feudi, che m’importa? Purché mi eleggano!”. […]: “Il mio più grande titolo all’elezione è quello di principe!” Ciò che egli esprimeva con la facezia era la verità. “Principe di Francalanza”: queste parole erano il passaporto, il talismano che operava il miracolo di aprirgli tutte le vie», ivi, p. 1064. Il titolo nobiliare («Principe di Francalanza») – un puro significante («queste parole») – assume curiosamente il valore di quegli oggetti magici (feticci), qui propriamente miracolosi («il talismano che operava il miracolo di aprirgli tutte le vie»), magistralmente indagati da M. Fusillo, Feticci. Letteratura, cinema, arti visive, Bologna, Il Mulino 2012. 31 Ivi, p. 1087. 32 Ivi, p. 1089. 33 Ivi, p. 1090. Italiani della letteratura: Federico De Roberto
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È attraverso il magnifico hapax «strozza»34 che risuona in questo brano un’ulteriore sintomatica citazione dantesca,35 poiché se quella relativa alla «lingua di Dante» viene piegata alla propaganda politica addirittura imperiale, e quella che riporta il verso del canto degli ignavi − «Quivi sospiri, pianti ed alti guai…» − viene parossisticamente addotta a stigmatizzare i guai finanziari, in modo diverso si configura la cupa e sotterranea evocazione degli iracondi-accidiosi danteschi identificati talvolta dalla critica anche coi superbi e con gli invidiosi. E chi può vantare in sommo grado questi tre vizi o peccati (ira, superbia, invidia) se non l’ultimo rampollo della mala razza degli Uzeda?36 Il nostro brano pur marcato dall’inconfondibile sarcasmo dell’Autore, sembra evocare la scena infernale della palude stigia, più scopertamente richiamata nel frammento di Ettore Baglioni, dove all’immagine della vetta alpina seguiva, ci si ricorderà, quella opposta della «paludosa maremma» e dove, per di più, la «metempsicosi» del Soggetto amoroso poteva risolversi in un fatale ritorno all’indietro.37 Anche Consalvo, come il suo doppio Ettore Baglioni teme o comunque rischia, nel momento di massima tensione della sua corsa pazza verso il trionfo, un incidente spiacevole, di essere travolto dalla violenza di una rissa. «La voce nitida, ferma, sicura»38 di Consalvo all’inizio della sua orazione, dopo una prolungata actio di ben due ore, si arrochisce nella strozza come quella degli iracondi, facendo così somigliare il principe, per un momento, all’afasico duca d’Oragua.39 Tuttavia egli si rianima per la perorazione finale, dove farà riferimento all’Italia e, di nuovo, a Dante: Il pensiero della nostra patria è quest’Italia che il pensiero di Dante divinò, e che i nostri padri ci diedero a costo di sangue (Vivissimi applausi). La nostra patria è anche quest’isola benedetta dal sole, dov’ebbe culla il dolce stil novo e donde partirono le
34 Ricorrono nel romanzo alcune interessanti varianti lemmatiche: strozzanti, strozzarlo, strozzata, strozzate, strozzava. 35 «Quest’inno si gorgoglian nella strozza», Inferno, VII, 129. 36 Una lettura sensibile alla dimensione cristiana del peccato è quella di G. Giudice: «I Viceré sono il libro del disamore. Il disamore, l’odio, la brutalità sono la grande perversione cristiana. Ma vi sono presenti e catalogabili tutti i peccati cattolici; se si vuole quelli stessi dell’inferno dantesco: lussuria, gola, avarizia e prodigalità, ira, violenza e malizia, frode contro chi si fida e contro chi non si fida; tutti i tipi di frode: dalla ipocrisia alla baratteria, alla ladreria, al tradimento, alla simonia. Vi sono falsari e superstiziosi. Ogni personaggio si carica di uno o di molti di questi peccati». Introduzione a I Vicerè e altre opere di Federico De Roberto, a cura di G. Giudice, Torino, UTET 1982, pp. 17-18. 37 Cfr. F. De Roberto, L’assurdo, in Id., La morte dell’amore cit., p. 48 e supra, p. 5. 38 III, 9, p. 1081. 39 «Una seconda volta, con voce strozzata, senza un gesto, senza un moto, il duca aveva cominciato». I, 9, pp. 696-697.
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più gloriose iniziative (Nuovi applausi). […]. Io, quindi, se volgerò la mente allo studio dei grandi problemi della politica generale, credo di potervi promettere che avrò a cuore come i miei proprii gli affari più specialmente riguardanti la Sicilia, questo collegio, la mia città natale e tutti i miei singoli concittadini (Grande acclamazione).40
Come si delinea allora l’Italia in questa perorazione finale? Per circoscriverne la figura, se di figura si può parlare, serve mettere a confronto proprio quest’ultimo passaggio del discorso di Consalvo con il discorso di Benedetto Giulente reduce dal Volturno, nel quale risaltano i nomi tutelari dei grandissimi poeti che hanno costruito l’Italia prima dell’Italia: «Cittadini!» cominciò, con voce chiara e ferma.41 «Noi non possiamo e non dobbiamo ringraziarvi di questa trionfante accoglienza, sapendo come i vostri applausi non siano diretti alle nostre persone, ma all’idea generosa e sublime che guidò il Dittatore da Quarto a Marsala» […] «…sogno di Dante e Machiavelli, sospiro di Petrarca e Leopardi, palpito di venti secoli… ad essa, alla gran patria comune… alla nazione risorta… all’Italia una… gli evviva, gli applausi, il trionfo…» […] «Noi abbiamo fatto il dover nostro» continuava l’oratore «come voi il vostro. Non poche gocce di sangue, ma la vita stessa avremmo voluto immolare alla gran causa… degni d’invidia, non di rimpianto, sono quelli che poteron dire morendo: «Alma terra natìa, la vita che mi desti ecco ti rendo…»42
Ma si può risalire ancora più indietro, all’immagine dell’Italia presente nelle tre lettere scritte da Benedetto alla sua amata Lucrezia: Egli era veramente un buon giovane, studioso, un po’ esaltato, infiammato delle dottrine liberali dello zio, bruciante d’amore per l’Italia: scrivendo alla ragazza le diceva che le sue passioni erano tre: lei, la madre e la patria che bisognava redimere.43 Lucrezia, vedendo quei preparativi di partenza, smaniava all’idea di lasciare Giulente, il quale le scriveva: «L’ora del cimento sta per sonare; io correrò al posto dove il dovere mi chiama, col nome d’Italia ed il tuo sulle labbra!». […]. Arrivando in città, Lucrezia trovò una lettera del giovane, il quale le annunziava che andava a raggiungere Garibaldi per compiere il proprio dovere verso la patria e le raccomandava di non piangerlo se la sorte gli avrebbe concesso di morire per l’Italia.44
40
III, 9, pp. 1090-1091. Anche la voce di Consalvo sarà «nitida, ferma, sicura […], debole ma chiara» all’inizio del suo discorso, ivi, p. 1081, corsivi nostri. 42 I, 8, pp. 670-671. Per il verso citato alla fine del brano cfr. G. Leopardi, All’Italia, vv. 59-60, in Id., Canti, introduzione di F. Gavazzeni, note di F. Gavazzeni e M. M. Lombardi, Milano, BUR 1998, p. 99. 43 I, 3, p. 499. 44 I, 8, p. 657 e p. 666. 41
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Un semplice confronto lessicale tra i testi di Giulente e il testo di Consalvo è sufficiente a tracciare, nonostante alcuni parallelismi letterali («la gran patria comune» ad esempio), la differenza che corre fra l’Italia del giovane garibaldino animato dalle fatidiche tre passioni (Lucrezia, la madre e la patria) e l’Italia degli affari dell’ultimo scorcio dell’Ottocento agognata da Consalvo, anche se il principe non tralascia la citazione dotta e patriottica col suo ricorso a Dante e perfino al dolce stil novo, la cui culla egli situa in Sicilia. E mentre per il giovane «patriotta» Giulente, l’Italia si inscrive ancora nell’immaginario retorico, poetico e politico della nostra grande tradizione letteraria per la quale la Nazione è raffigurata, attraverso le metonimie «sogno» «sospiro» «palpito» «risorta» «una», come uno stupendo benché dolente corpo di donna, questa consistenza corporea dell’Italia sembra essersi del tutto dissolta nell’immaginario di Consalvo. Egli cita infatti solo Dante del quale ricorda il pensiero che divinò per primo la Nazione italiana, e il dolce stil novo, due fonti letterarie importantissime che evocano qualcosa forse di ancora più profondo e originario quanto alla nascita dell’Italia: la lingua, una lingua che Consalvo di fatto riconduce alla sua isola e alla sua città. È attraverso una triplice anafora («i miei […], la mia […] i miei […]») che egli scivola, in modo quasi impercettibile per il lettore, dalla Nazione di Dante ai confini familiari e confortanti del suo milieu d’origine.45 Il discorso di Consalvo ha una sorta di coda, di secondo tempo che il narratore giudica come il discorso vero rivolto alla vecchia prozia con la quale il neodeputato tenta di recuperare, sempre mosso dall’interesse economico, il rapporto che si era guastato a causa della sua apostasia.46 Il pronipote è sicuro di riconquistare l’affetto della malandata zitellona, perché ne conosce il punto debole, la malattia che accomuna tutti gli Uzeda, l’irresistibile vanità di casta: Travolto dalla foga oratoria, nel tripudio del recente trionfo, col bisogno di giustificarsi agli occhi proprii, di rimettersi nelle buone grazie della vecchia, egli improvvisava un altro discorso, il vero, la confutazione di quello tenuto dinanzi alla canaglia, e la vecchia stava ad ascoltarlo, senza più tossire, soggiogata dall’eloquenza del nipote, divertita e quasi cullata da quella citazione enfatica e teatrale.47
Il rapporto tra donna Ferdinanda e Consalvo si è rovesciato in quest’ultima scena del romanzo, dove è il nipote adesso a soggiogare, quasi cullandola con la sua parola seducente, quella prozia dalle cui labbra pendeva da piccolo durante la lettura del Mugnòs. Ed è questo transfert alimentato da una parola enfatica e teatrale, che non cessa di affermare l’antico prestigio nobiliare dei Vicerè e che lega
45
III, 9, pp. 1090-1091 cit., supra, p. 8 (p. 900). III, 2, p. 924 e III, 5, p. 991. 47 Ivi, p. 1101. 46
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indissolubilmente tutti i membri della famiglia Uzeda. L’Italia diventa allora, nel discorso di Consalvo, una nuova «commenda» come ne avevano avuto sempre nel passato i suoi potenti antenati: Questo direbbe il Mugnòs redivivo; questo diranno con altre parole i futuri storici della nostra casa. Gli antichi Uzeda erano commendatori di San Giacomo, ora hanno la commenda della Corona d’Italia. È una cosa diversa, ma non per colpa loro! E vostra Eccellenza li giudica degeneri! Scusi, perché?48
Siamo decisamente agli antipodi da quell’idea generosa e sublime che aveva guidato il Dittatore da Quarto a Marsala, lontanissimi dal sogno di Dante e Machiavelli, dal sospiro di Petrarca e Leopardi, dal palpito di venti secoli… che avevano fatto rimembrare a Benedetto Giulente la leopardiana «alma terra natìa». Siamo cioè agli antipodi dall’immagine antica e possente dell’Italia simile a un corpo di donna da riparare, amare, ricostituire nella sua unità. Ma se l’Italia è per Consalvo un mero beneficio, un nuovo oggetto per predatori rapaci quali sono sempre stati gli Uzeda,49 tuttavia essa potrebbe ancora appartenere a quella filiazione simbolica − letteraria, politica, ideale − che è alla base del mito risorgimentale. Il topos cortese e romantico derisoriamente rovesciato da Consalvo («la mia fede in questi grandi ideali umani non è nuova, non data da questi giorni, in cui tutti la sfoggiano, come i galanti vantano le grazie della donna desiderata… […] protestando di non volerne i favori… […] ma di star paghi a sospirarla da lungi…») dal quale è partita la nostra riflessione, ne è forse una conferma. Solo che questa donna desiderata (come l’Italia?), nonostante il sarcasmo col quale Consalvo sconfessa di volerne i favori anziché sospirarla da lungi, scomparirà, anzi è già scomparsa dal desiderio del principe interamente votato all’ascesi politica e quindi al potere per il quale non esita a sostituire (sacrificare?) l’oggetto ideale con una vicereale «commenda».
48 49
Ivi, pp. 1101-1102. Che eccita «l’istinto sanguinario dei vecchi Uzeda predoni», I, 7, p. 620.
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DANIELA DE LISO L’Italia de ‘I Viceré’
Un romanzo granitico, che s’apre con una morte maestosa e con atmosfere irrespirabili, è forse la dichiarazione più eloquente di un pessimismo politico,1 dal quale la neonata Unità d’Italia non riesce a venir fuori illesa. I Viceré sono proprio l’«opera pesante, che non illumina l‘intelletto come non fa mai battere il cuore» di cui parlava Croce nella sua epocale stroncatura, ma il fascino, per il lettore moderno, et pour cause, sta proprio tutto in quell’aria asfittica, nell’idea di morte, di fallimento sempre incombente sui personaggi più o meno decisivi, che ingombrano ad ogni angolo la stanza dell‘inchiostro derobertiano2.
1
Scrive Campailla: «La tesi gobettiana del Risorgimento senza eroi, come rivoluzione fallita, è preannunciata da De Roberto in un radicalismo estremo, con implicazioni ideologiche di più larga portata, al di là dell’occasione storica contingente, tali da rammentarci che, in fondo, il «libro terribile» vagheggiato con l’incompiuto L’Imperio, la bibbia negativa sul Potere, egli già lo aveva scritto con I Viceré», S. Campailla, Le figure mostruose del potere, in Gli inganni del romanzo. ‘I Viceré’ tra storia e finzione letteraria, Atti del Congresso celebrativo del centenario dei Viceré, a cura di A. Di Grado, Catania 23-26 novembre 1994, Catania, Fondazione Verga 1998, p. 86. 2 «Ma il fatto è che la critica italiana, per abitudine idealistica e tendenziale vocazione borghese, è portata a cercare la «poesia» nell’opera degli scrittori e a riconoscerla in certi «motivi centrali» che niente hanno a che vedere con la ragione storica alla quale lo scrittore obbedisce. E lo scrittore invece non cerca la «poesia», non ne medita formule e definizioni nuove, ma si tiene stretto al suo dettatore e demone. È stato detto che la «poesia» di De Roberto sarebbe in quel pathos della nobiltà che esercita affannosamente l’animo dei suoi personaggi; un elemento tale, insomma, da riscattare l’aridità di partenza. E, al contrario, proprio in quella aridità è la «poesia» dei Viceré, quando almeno si dia alla parola il significato di apprendimento storico di un problema nuovo», L. Baldacci, Il mondo di Federico De Roberto, in F. De Roberto, I Viceré, Scritti introduttivi di L. Baldacci e L. Sciascia, Torino, Einaudi 1990, p. XXV. Italiani della letteratura: Federico De Roberto
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I Viceré sono editi per la prima volta nel 1894. L’Unità è ormai una condizione ventennale; dunque il tempo giusto perché da una «delusione» si possa passare ad una «disperazione», come suggeriva Sciascia.3 De Roberto, per quanto, come Verga, Capuana e Pirandello, vanti la sua esperienza giornalistica «continentale», è un meridionale4 – anche se non meridionalista, come sottolineava Tedesco5 –, perciò la sua percezione dell’Unità è quella di un uomo del Sud, che non tarda molto a spogliare Garibaldi dell’aura eroica6 e a guardare con occhio critico alle disattese promesse del Parlamento italiano per il recupero di un Sud, già allora, tristemente e storicamente, arretrato e povero. Del resto il pessimismo7 politico con cui ne I
3
Cfr. L. Sciascia, Perché Croce aveva torto, «la Repubblica», 14-15 agosto 1977, ora in F. De Roberto, I Viceré, scritti introduttivi di L. Baldacci e L. Sciascia cit., pp. XXVII-XXVIII. 4 Interessante, per una ricostruzione biografica, che connette De Roberto, dal punto di vista genealogico, ai suoi Viceré ed ovviamente per i significati che tale rapporto può assumere per la valutazione dell’opera è la lettura di G. Grana, De Roberto aristocratico borghese, in Id., ‘I Viceré’ e la patologia del reale, Milano, Marzorati 1982, pp. 27-35. 5 Natale Tedesco, per il quale De Roberto non è certo un meridionalista, sostiene: «egli partecipava anche e con acutezza a quel generico, ancorché fermo, sentimento di pubblica rivolta morale contro le nefandezze del tempo, ma con l’animo distaccato e non appassionato, come di chi sa che nulla di nuovo c’è sotto il sole. Come di chi sa che deve patire il tempo suo di “scontento universale”, ed è ben consapevole che nella storia siciliana egli sta rappresentando una parte della realtà più vasta, per consegnarcene il significato che a lui, in quel momento, appare più vero», N. Tedesco, La norma del negativo. De Roberto e il realismo analitico, Palermo, Sellerio 1981, p. 85. 6 I pochi riferimenti a Garibaldi, contenuti nel testo, non contribuiscono certo a costruirne un’immagine eroica; l’eroe dei due mondi è presentato, infatti, insieme Bixio e Menotti, piuttosto nella sua “normalità” di uomo: «Bixio e Menotti erano alloggiati alla foresteria; l’Abate li evitava, ma il Priore, per prudenza – diceva – usava agli ospiti tutti i riguardi, s’informava premurosamente se avevano bisogno di nulla, metteva la Flora a disposizione del figlio dell’anticristo, che passava i suoi momenti d’ozio coltivando rose. Un giorno, tra i novizii, che erano scemati di numero perché molte famiglie avevano ritirato i loro ragazzi in quel trambusto, vi fu grande aspettativa: Menotti veniva da loro», F. De Roberto, I Viceré, in Id., Romanzi Novelle e Saggi, a cura di C. A. Madrignani, Milano, A. Mondadori Editore (I Meridiani) 2004, p. 665; d’ora in poi citerò I Viceré. 7 Dell’inevitabilità del pessimismo scriveva lo stesso De Roberto: «Il figurino intellettuale, ai nostri giorni, è il pessimismo; viene di Germania, ma i sarti d’ogni altro paese lo adottano. Se questo scorcio di secolo avrà in avvenire una denominazione, si può scommettere che sarà chiamato il tempo dello scontento universale. Nessuna fede, nessuna illusione sorregge gli uomini che sembrano aver visto il fondo di tutto; in religione, in politica, in filosofia, in arte, un dilettantismo infecondo fa continuamente passare da un sistema ad un altro col preconcetto che tutti si equivalgono nell’impotenza a contentarci. Il disagio è da per tutto; in questa tensione di spirito, la ribellione alle leggi naturali, alle condizioni primordiali dell’esistenza fa presto a scoppiare», F. De Roberto, Maupassant e Tolstoi, in «Fanfulla della domenica», 31 agosto 1890. VII. Italiani della letteratura
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Viceré si racconta dell’Italia unita non sembra affatto stonare nel coro dei romanzi parlamentari ottocenteschi, da La conquista di Roma della Serao, al Daniele Cortis di Fogazzaro, a quell’incompiuto L’onorevole Scipioni verghiano, all’altro incompiuto derobertiano L’Imperio.8 Il romanzo, come è noto, si apre, nel 1855, con una morte o meglio con una scena di grande confusione e concitazione: servitù all’erta, familiari sbigottiti e preoccupati, andirivieni concitato di una plebaglia curiosa e fiduciosa di poter ricavare qualche quattrino in più dalla inattesa, ma non indesiderata morte della principessa Teresa Uzeda di Francalanza. Il palazzo degli Uzeda diviene, sin dalle prime battute, dunque, il teatro in cui prendono corpo le anime varie della sicilianità postunitaria, ma soprattutto il microcosmo ideologico della grande famiglia Uzeda, la cui natura è subito svelata dal lavapiatti don Casimiro: «Un colpo al cerchio e un altro alla botte! […] In questa casa chi fa il rivoluzionario e chi il borbonico; così sono certi di trovarsi bene, qualunque cosa avvenga!»9. Quasi tutti i personaggi hanno una posizione politica10, ad eccezione di don Giacomo, il principe di Francalanza, e di alcune donne del romanzo: Chiara, la principessa Margherita, la cugina Graziella, la contessa Matilde, donna Isabella Fersa, Teresa. Di Giacomo diremo subito che le sue preoccupazioni ed i suoi interessi, sin dall’incipit del romanzo, sono circoscritti alla sfera dei beni degli Uzeda. Al principe di Francalanza non importa nulla della politica locale o nazionale, fino a quando non sono messi a repentaglio i beni e l’egemonia degli Uzeda. Dunque, i suoi comportamenti, lungi dal poter essere confusi con una posizione politica,
8
A questo proposito si legge in Spinazzola: «Ma l’icasticità peculiare della critica al parlamentarismo espressa nei Viceré deriva proprio dal fatto di aver ambientato il racconto non nella capitale, ma in una provincia remota, nella quale le nuove istituzioni appaiono come importate dall’esterno e il senso della democrazia non ha radici, o le ha ancora meno salde che altrove. D’altronde la trovata basilare del libro sta nel concedere tutto lo spazio scenico ai nemici naturali del sistema parlamentare: solo gradatamente i borbonicissimi Uzeda si convertono alla causa liberale, via via che si accorgono di poterla strumentalizzare allo scopo non solo di conservare ma di accrescere il loro dominio, meglio di quanto glielo consentisse il regime assolutista», V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti 1990, p. 53. 9 I Viceré, p. 444. 10 Sull’ideologia politica, che emerge dal romanzo, scrive Spinazzola: «In effetti il criterio attualizzante adottato da De Roberto esalta al massimo l’impatto polemico di una tesi storiografica focalizzata su casi recenti e recentissimi, ma destinata ad avvalorare una concezione generale dell’esistenza, a sua volta provocatrice. Oggetto del racconto sono la vittoria apparente e il fallimento sostanziale della rivoluzione patriottica in Sicilia, quindi nel Mezzogiorno e nell’Italia intera; l’esito delusivo del processo risorgimentale viene peraltro assunto come prova dell’inaffidabilità di ogni ideologia, ogni mitologia di progresso, giacché nulla cambia nelle vicende umane, e se una evoluzione si produce è verso il peggio, non verso il meglio», V. Spinazzola, Il romanzo antistorico cit., p. 33. Italiani della letteratura: Federico De Roberto
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sono esclusivamente dettati da una buona dose di opportunismo e di previdente accortezza.11 Ragioni differenti ha, invece, il disinteresse delle donne alle questioni politiche, connesso, come è, ad una certa idea della femminilità: la donna si rapporta unicamente con lo spazio della famiglia che crea o da cui proviene. Chiara è unicamente ossessionata dal desiderio di dare al marchese suo marito un erede; Margherita è solo la moglie del principe di Francalanza; la cugina Graziella ha sempre desiderato essere la moglie del principe di Francalanza; la contessa Matilde è solo la figlia del barone Palmi e la moglie tradita del contino Raimondo; donna Isabella Fersa ha l’unica ambizione di essere oggetto indiscusso dell’ammirazione maschile; Teresa tradurrà la sua remissiva natura di bambina, dopo un effimero smarrimento amoroso per il cugino Giovannino, nella ossessione religiosa e moralistica della maturità. Lucrezia e donna Ferdinanda costituiscono, ciascuna per un differente motivo, delle eccezioni. Lucrezia, la figlia destinata a restare zitella, dalla dispotica volontà materna, conosce le lusinghe dell’amore del giovane di belle speranze, quantunque non nobile ed ascritto proprio a quella classe di notai e avvocati aborrita dall’albagia dei Viceré, Benedetto Giulente, e fa «la liberale», solo fino a quando, carpito al principe suo fratello il consenso per le auspicate nozze, sviluppa nei riguardi dell’ambizioso marito un disprezzo, da cui guarirà solo quando Consalvo, con l’aiuto tacito del duca d’Oragua, sottrarrà a Giulente l’agognato seggio parlamentare: le idee politiche di Lucrezia sono, insomma, solo funzionali alla rivendicazione di un ruolo, negatole dalla madre, di spicco nella famiglia. Donna Ferdinanda, caparbiamente preoccupata di difendere la naturale purezza della razza, contro una classe operosa di alto e medio borghesi, che, grazie alla cultura, ambisce a collocarsi nei ruoli politici decisivi del nuovo governo italiano, nelle dispute casalinghe relative all’orientamento politico, che i nuovi rivolgimenti storici sembrano suggerire come più conveniente agli Uzeda, non sembra aver dubbi: «Non mi parlare anche tu del progresso!» saltò su donna Ferdinanda. «Il progresso importa che un ragazzo deve rompersi la testa sui libri come un mastro notaio! […] Si facevano rispettare i signori, a quei tempi… non come ora, che danno ragione agli scalzacani!…»12
Se in Lucrezia la fede liberale, propugnata negli anni dell’amore per Giulente, appare, insomma, niente più di un capriccio muliebre, la fede borbonica di donna
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In merito al ruolo della politica nel romanzo è interessante rileggere A. Di Grado, Presentazione, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, Atti del Congresso celebrativo del centenario dei Viceré, a cura di A. Di Grado, Catania 23-26 novembre 1994, Catania, Fondazione Verga 1998, pp. 9-10. 12 I Viceré, p. 548. VII. Italiani della letteratura
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Ferdinanda ha radici ben profonde: si nutre del disprezzo vicereale verso il resto del mondo, della consapevolezza che il progresso, amico dei liberali e propugnato dai sostenitori dell’unità nazionale, che significa tradimento ai Borboni, sia naturale nemico dei Viceré e dei loro privilegi di casta.13 Il medesimo disprezzo, per ragioni diverse, anima don Blasco. La sua storia di monaco benedettino che non “ora” e non “labora”, ma porta in giro senza infingimenti, né rimpianti la sua condotta riprovevole di monaco con amante prediletta, la Sigaraia, e prole illegittima, è raccontata da De Roberto tra le righe di altre storie degli altri cadetti della famiglia Uzeda, ma al romanziere don Blasco sta più a cuore degli altri. Lo si capisce da quella ininterrotta indignatio, che non lo aiuta ad accettare la sua predestinazione. Il monaco urla contro «gli italiani», contro i «democratici», contro «i sanculotti», fino a quando, protetto dalle mura e dai privilegi di San Nicola, può godersi la vita e la libertà, ma appena, ad Unità sancita, il potere temporale dei conventi viene annullato e le confraternite religiose sciolte, in un attimo capirà che i sanculotti gli hanno ridato un’insperata libertà. Ritornato al secolo, nessuno gli impedirà di farsi a suo modo «principe», di accaparrarsi tutto quello che sin da bambino gli era stato negato anche soltanto di sognare: denaro, proprietà, potere. A don Blasco è completamente estranea l’idea di patria italiana, gli è estranea, a ben vedere, qualsiasi fede politica. Egli non è fedele ai Borboni che hanno dato alla sua famiglia dignità vicereale perché crede che la Sicilia possa essere meglio governata da loro, perché sia convinto che la divisione dell’Italia conservi alle realtà locali, dotate di autonomi poteri, maggiori possibilità di progresso e benessere; è fedele ai Borboni perché il loro potere rappresenta la garanzia più autorevole della conservazione dei propri privilegi, di uno status clericale, che, tutto sommato, si ferma all’obbligo di indossare la veste talare. Se avesse potuto immaginare che lo scioglimento delle confraternite religiose e l’asta dei beni della Chiesa sarebbero presto divenuti una realtà utilissima proprio a lui, alla realizzazione del suo sogno di potere e ricchezza, egli avrebbe vestito subito la giubba rossa, proprio come si affretterà a fare, quando dei beni di San Nicola diverrà lui stesso padrone. Se don Blasco ha certamente ottenuto dall’Italia unita libertà e ricchezza, molto più deve alla causa patriottica il fratello, don Gaspare, duca d’Oragua, la cui dettagliata biografia costruita da De Roberto rivela subito le ragioni di astio nei riguardi di una famiglia che, in quanto secondogenito, gli aveva riservato un magro piatto, perché più succulento apparisse quello del principe di Francalanza. Ma sarà proprio questa condizione ad alimentare la sua bramosia di ricchezza e potere e a fargli accettare le lusinghe dei rivoluzionari, degli anti-borbonici. Don Gaspare è un
13 Cfr. R. Contarino, Gli inganni della letteratura dall’‘Illusione’ ai ‘Viceré’, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria cit., p. 101.
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maestro di qualunquismo e di trasformismo, è il vero re Tentenna del romanzo; non esprime mai chiaramente la sua opinione, a meno che la situazione politica non sia di una lapalissiana evidenza. De Roberto non perde occasione per sottolineare la sua totale incapacità politica, la sua presunzione, la sua ignoranza, la sua scarsa lungimiranza, così che il suo straordinario trionfo politico coincida con la evidente e totalizzante condanna dell’inettitudine e dell’ignoranza dei suoi concittadini, felici di esprimere la loro sconcertante preferenza per un rappresentante tanto inadeguato al Parlamento. Qualsiasi democratico e liberale d’Italia sarebbe stato in grado di smascherare le manovre del duca, ma i liberali catanesi sono uomini abituati ad avere un padrone, a ritenere quel padrone dotato di qualità superiori e degno di rispetto per il solo nome che porta. Il duca d’Oragua è un padrone e, ai loro occhi, proprio perché è nato padrone sarà in grado di difendere i diritti della città e della Sicilia in quel Parlamento italiano che è una sorta di luogo immaginifico, dove, secondo i sostenitori del duca, sono destinati a sedere solo uomini di evidente nobiltà e, dunque, superiorità. La sua elezione sarà una festa dell’intera città, che si svolgerà, lo sottolinea Sergio Campailla,14 in concomitanza con il parto mostruoso di Chiara, velo tetro che non riesce ad appannare la gioia collettiva, che si fa quasi ebbrezza sulle ali della folla esplosa nelle strade cittadine e ricorda l’allegria contagiosa delle feste patronali, in cui tutti si sentono personalmente legati al santo, per una grazia richiesta o ricevuta. Benedetto Giulente è l’unico ad aver compreso le ragioni, ma anche le assai limitate doti del duca Gaspare, che, tuttavia sostiene, primo tra tutti, perché nutre la duplice speranza di essere ammesso in famiglia e di diventarne il delfino. Quando il lettore lo conosce sembra tirare un sospiro di sollievo, perché finalmente, dopo aver familiarizzato con una galleria per nulla confortante di egoisti, affaristi, qualunquisti, imbroglioni ed avari Uzeda e non, ha l’impressione che uno spiraglio di luce si apra nel cupo affresco narrativo di De Roberto per far posto ad una macchia di luce. La prima volta che i lavapiatti di casa Uzeda parlano di lui, al funerale della principessa, nelle loro parole astiose c’è una sorta di avvertimento del contrario, per dirla alla maniera pirandelliana: proprio quell’astio sembra la prima garanzia della sua distanza dagli altri personaggi; gli uomini piccoli odiano di solito coloro che, pur essendo piccoli uomini, sanno raggiungere le più alte vette. Benedetto, intanto, è l’unico che ha studiato, se si eccettuano gli studi discutibili di don Eugenio e la passione per l’araldica di donna Ferdinanda, e la sua fede patriottica è sincera. Pur non rinnegando le ambizioni di nobiltà della sua famiglia, è convinto che sarà egli stesso l’artefice della propria fortuna: studia per fare l’avvocato e coniuga in sé l’assennatezza derivata dal sapere e l’irruenza giovanile che lo guiderà ad arruolarsi senza esitazione alcuna con le truppe garibaldine.
14 Cfr. S. Campailla, Le figure mostruose del potere, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria cit., p. 83.
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Al suo ritorno, ferito, sarà accolto come un eroe e parlerà, ciceroniano oratore, dal balcone del Palazzo di città, senza timore alla folla di «gran patria comune», di «nazione risorta», di «Italia una», abusando leziosamente di tòpoi e preterizioni, interrotto dal fragore degli applausi. Direi che le pagine che riproducono il discorso di Benedetto sono le uniche, nel romanzo, in cui chi legge riesce a sentire, sfrondando la pagina dalla leziosità di una retorica spicciola, perfettamente consona al personaggio di Benedetto, l’anelito patriottico. Ma Benedetto, ammettiamolo pure, è destinato al fallimento, a suggerirlo è il sarcasmo sferzante, ne parlava già Spinazzola,15 che De Roberto utilizza nel costruire il suo personaggio. Le simpatie del lettore nei suoi riguardi si spengono progressivamente con il suo ingresso nella famiglia Uzeda, che gli fa, senza dubbio, dimenticare la sincerità della fede patriottica. Insomma, in un romanzo ambientato nel tempo in cui la Penisola è percorsa dai più intensi fremiti rivoluzionari di sempre, considerando la storia ben poco “indignada” del nostro Paese, l’anelito patriottico, il desiderio di una patria autonoma, progredita ed unita trovano posto nello spazio ridotto del discorso di ritorno di un personaggio, tutto sommato, secondario e destinato al fallimento. Il pessimismo di De Roberto, lo dice bene Natale Tedesco,16 si svela proprio in questa evidente discrasia; egli non crede che la Sicilia abbia aderito all’Unità in maniera convinta e non ci crede perché conosce la “sua patria”, ne conosce gli uomini, la povertà, il lavoro duro compromesso dalla siccità o dalle gelate, ne conosce l’ignoranza diffusa, l’isolamento anche orgoglioso e non crede che alla sua terra l’Unità abbia giovato, non crede che abbia giovato a quelli che, paradossalmente, nell’Unità hanno creduto, che per essa hanno combattuto; ha giovato, come sempre, a quei nobili che, come il duca d’Oragua, hanno compreso subito che «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri…». La gente comune, il popolo minuto, che entra solo da gregario nelle pagine de I Viceré, ma con la vis dirompente della verità, presto comprenderà di aver solo creduto ad una favola bella, di cui il solito colera si premurerà di annunciare l’epilogo: Allora, perché s’era fatta la rivoluzione? Per veder circolare pezzi di carta sporca, invece delle belle monete d’oro e d’argento che almeno ricreavano la vista e l’udito, sotto l’altro governo? O per pagare la ricchezza mobile e la tassa di successione, inaudite invenzioni diaboliche dei nuovi ladri del Parlamento? Senza contare la leva, la più bella gioventù strappata alle famiglie, perita nella guerra, quando la Sicilia era stata sempre esente, per antico privilegio, dal tributo militare? Eran dunque questi tutti i vantaggi ricavati dall’Italia una?17
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V. Spinazzola, Il romanzo antistorico cit., p. 108. N. Tedesco, La norma del negativo. De Roberto e il realismo analitico cit., p. 96. 17 I Viceré, pp. 813-814. 16
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A De Roberto la sua Sicilia post-unitaria appare incapace di reazione alla nuova terribile ondata di povertà che, ovviamente, si abbatte su un’isola, che, come in quegli anni sentivano bene gli altri veristi siciliani Verga e Capuana, contribuiva col denaro o con la leva militare delle braccia giovani sottratte ai campi a far più forte e salda un’Italia da cui non sembrava dovessero provenire benefici evidenti, se non a quelli che ricchi erano sempre stati e che grazie alle nuove speculazioni erano diventati più ricchi ai danni del solito popolo strumentalizzato dai borbonici quanto dai liberali. Se non bastassero affermazioni del genere a consolidare l’idea poco felice che la Sicilia di De Roberto ha dell’Unità, la più solida e sconsolata conferma arriva al lettore dal bildungsroman di Consalvo, che occupa tutta l’ultima parte de I Viceré. Il lettore lo ha lasciato giovane scapestrato e ribelle, avido e qualunquista e lo ritroverà impegnato in un viaggio che prima gli fornisce l’esatta consapevolezza dei suoi limiti e poi l’inattesa rivelazione di un futuro non immaginato: Aveva promesso alla zia di baciare, oltreché le mani a Francesco II, anche i piedi al Santo Padre: egli soppresse questa seconda visita, poiché gli conveniva mutare non solo le abitudini ma anche le idee. Fin a quel momento era stato borbonico nell’anima e clericale per conseguenza, quantunque non credente, anzi scettico sulle cose della religione al punto di non andare a sentire la messa […] Adesso, per mettersi e riuscire nella nuova via, egli doveva esser liberale e mangiapreti come Mazzarini.18 È ben chiaro, sin dall’inizio, che Consalvo non ha fede politica; come a tutti gli altri Uzeda, non gli importa nulla dell’Italia; è come suo padre, che detesta. È un protagonista, che non ammette antagonisti, la scena deve essere unicamente sua: a questo sacrifica ogni cosa.19 Quando lo vediamo chino sui libri, a leggere quel tutto, di cui non gli interessa nulla, per un attimo sembra ingannare lo stesso De Roberto con la sua cieca determinazione; sembra quasi che il personaggio incapace di sentimenti e di idee originali sia sul punto di imparare qualcosa dai suoi libri, di portare a termine una vera e propria conversione culturale. Ma le letture di Consalvo, piccolo cameo che De Roberto concede alla sua passione per lo studio, quelle letture, che, per la loro varietas, avrebbero fatto scuotere il capo a Seneca, servono solo a regalargli la parola, a donargli quell’eloquenza, di fronte alla quale Benedetto Giulente deve impallidire e che gli consentirà di annichilire e conquistare un pubblico deluso che ha disperatamente bisogno di credere ancora in qualcuno ed in qualcosa. Proprio quando, mentre lo osserviamo muovere i suoi primi passi pubblici, siamo sul punto di restare affascinati da lui, De Roberto ci legge nel pensiero e ci riporta alla realtà; eccoli i pensieri di Consalvo:
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Ivi, p. 922. Cfr. V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, cit., p. 33. VII. Italiani della letteratura
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Monarchia o repubblica, religione o ateismo, tutto era per lui questione di tornaconto materiale o morale, immediato o avvenire.20
Dai libri e dalla vita Consalvo ha imparato, secondo una prassi politica modernissima e molto alla moda in Italia, come forse De Roberto non avrebbe immaginato, l’arte di vendere la propria immagine, lusingando tutti gli elettori, promettendo ai ricchi, ai nobili e ai poveri e gettando qualche briciola, di tanto in tanto, del proprio potere agli uni, agli altri, agli altri ancora, per rabbonirli, come si fa con un cane che non siamo ancora riusciti ad addomesticare del tutto, quando digrigna pericolosamente i denti perché ha fame: E dichiarava: «Io sono monarchico per la necessità di questo periodo transitorio. Milioni e milioni d’uomini liberi possono volontariamente riconoscersi e vantarsi sudditi di un uomo come loro? Io non ho nessun padrone!». E in questo era sincero, perché avrebbe voluto esser egli stesso padrone degli altri.21
Bisogna riconoscere che, nonostante, o forse proprio per la natura bieca dei suoi progetti, il fascino di Consalvo è straordinariamente costruito dall’autore. Il lettore, in particolare quello moderno, che non si aspetterebbe mai di trovare nel romanzo che Croce aveva definito, in poche parole, inutilmente noioso, non riesce a smetter di sorprendersi di fronte alla meticolosa costruzione del suo perfetto piano di conquista: la vita di Consalvo è consacrata all’ambizione, eppure come si può odiarlo? Non sbaglia un colpo: abbandona, indenne, il municipio nelle mani del solito perdente Benedetto Giulente, un attimo prima che precipiti nel baratro dei debiti da lui contratti; compie la sua campagna elettorale come una perfetta macchina da guerra, stringendo migliaia di quelle sudice mani dalle quali ha impiegato tutta una vita a difendersi; pronuncia sistematicamente, nascondendo ogni nota di ribrezzo, le parole rivoluzione, democrazia e libertà come se non fosse mai stato un padrone. Due discorsi, uno grandioso e pubblico, l’altro vero e privato, lo condurranno all’epilogo desiderato, che poi sarà l’epilogo de I Viceré. Grandioso è anche l’allestimento del primo dei due discorsi, quello che dovrà conquistargli l’elettorato nelle ultime ore di campagna elettorale. Al confronto, che pure viene inevitabilmente in mente, il discorso di Benedetto, di ritorno dal Volturno, suscita quasi un sorriso bonario e agli antipodi sta la campagna elettorale che nella prima fase del romanzo concluderà, incapace di parole, il deputato che lo ha preceduto, il duca d’Oragua, suo zio. La scena è a San Nicola, nella sala grande dell’ex-convento, in cui è stato educato, contro la sua volontà; è il luogo in cui tutto è cominciato, quello in cui è stato
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I Viceré, p. 953. Ivi, p. 997.
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sorcio, spia, il luogo in cui ha fumato la prima sigaretta cattiva, quello in cui ha capito che cosa vuol dire essere un Uzeda. Dopo un solo istante di emozione, alla vista della sala gremita, del magnifico apparato messo su grazie all’aiuto del suo principale sostenitore, quel Baldassarre, Uzeda bastardo, ex servo e ora convinto liberale, Consalvo costruisce il mirabile pastiche oratorio, in cui riuscirà a conciliare tesi tra loro contraddittorie ed inconciliabili, cosa che ovviamente sfugge al suo incantato uditorio. Il secondo discorso di Consalvo, una sorta di monologo, che si fa quasi interiore, quantunque avvenga alla presenza di un’ammalata ed inacidita donna Ferdinanda, contiene la cruda analisi dei tempi presenti e la rivelazione del pensiero di Consalvo, rappresentante degno della stirpe dei Viceré. Alla zia, anacronisticamente fedelissima ai Borboni, che ora lo disprezza ed intende diseredarlo perché egli ha tradito con la sua elezione al Parlamento di Italia tutto ciò cui un Uzeda avrebbe dovuto esser fedele, egli tenta di raccontare la sua versione della realtà, parlando, in realtà, a se stesso, forse per la prima volta, con assoluta chiarezza ed onestà intellettuale: Vostra Eccellenza giudica obbrobriosa l’età nostra, né io le dirò che tutto vada per il meglio; ma è certo che il passato par molte volte bello solo perché è passato… L’importante è non lasciarsi sopraffare… Io mi rammento che nel Sessantuno, quando lo zio duca fu eletto la prima volta deputato, mio padre mi disse: «Vedi? Quando c’erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio va in Parlamento».22
È questo il discorso vero, non quello tenuto «dinanzi alla canaglia», è qui che il vero Consalvo emerge, ritrovando tutte le maniacali idee di superiorità, il disprezzo per quelle migliaia di mani callose e sporche che ha dovuto stringere, per quei sorrisi che ha dovuto dispensare, per quell’Italia di borghesi e poveracci, con i quali si dovrà misurare per conservare il suo piccolo potere. La razza dei Viceré, che sembrava destinata all’estinzione, alla degenerazione fisica e morale, sin dalle prime pagine del romanzo, rinnova, dunque, nelle parole di Consalvo, il suo vigore, ambiziosamente proiettata verso la difesa del proprio diritto al dominio, al potere, alla ricchezza. Quando il giovane deputato pronuncia la frase che chiude, icasticamente, il romanzo – «No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa» – il lettore sa che egli ha ragione, perché ha imparato, nelle lunghe ed affollate pagine di questo romanzo artatamente verista e impersonale che i confini tra bene e male non sono così netti, che la degenerazione è solo un’altra faccia dell’evoluzione e, che ha ragione Consalvo, ultimo di una lunga schiera di uomini di carne e letteratura: «La
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Ivi, p. 1099. VII. Italiani della letteratura
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storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi», darwinianamente determinati, lo aggiungiamo, a preservare, sotto le insegne di un qualunque vincitore, la propria razza.
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LAVINIA SPALANCA Le novelle di guerra di Federico De Roberto e la crisi del modello unitario*
1. Ideologia o realismo? Se è questa la dilaniante tensione che alimenta le pagine dell’ultimo De Roberto, scisso fra l’accorato patriottismo di retorici scritti interventisti e la lucida e a tratti impietosa disamina della vita militare, offerta nelle coeve «novelle della guerra»,1 a prevalere è la carica dissacratoria del secondo termine. «Il realismo smentisce l’ideologia», per dirla con Madrignani, a ribadire la pervicace opzione estetico-etica dell’autore.2 Sbaglierebbe, tuttavia, chi identificasse l’ultimo realismo derobertiano con la piatta mimesi dei canoni ottocenteschi, perché a rinnovare i moduli del passato, come la più recente eredità verista, è uno sperimentalismo declinato sovente in chiave espressionistica. Ad attestarlo è già la prima delle novelle derobertiane, La «Cocotte», apparsa
* Il presente contributo costituisce una rielaborazione del Cap. IV (Lo scacco dell’ideale. La guerra insensata di Federico De Roberto), contenuto nel nostro volume: Il martire e il disertore. Gli scrittori e la guerra dall’Ottocento al Novecento, Lecce, Pensa MultiMedia Editore 2010, pp. 99-140. 1
Editi da Treves nel 1919 e nel 1920, Al rombo del cannone e All’ombra dell’olivo contengono alcuni scritti giornalistici derobertiani composti, rispettivamente, «durante la guerra» e «durante le trattative della pace». Col segreto intento «di conoscere come si vince» e «di trovare nella lezione del passato la rivelazione dell’avvenire», l’autore si volge ai libri di storia e di letteratura nel tentativo di decifrare il «quid obscurum» che circonda i recenti fatti d’arme, a partire da un’ottica dichiaratamente nazionalistica. Parallelamente alla pubblicazione degli articoli, e precisamente dal febbraio del 1919 all’aprile del 1923, De Roberto dà alle stampe nove «novelle della guerra», riedite parzialmente nella silloge La «Cocotte», Milano, Vitagliano 1920. A differenza degli scritti giornalistici coevi, le novelle si caratterizzano per l’ambivalenza ideologica dell’autore nei confronti del conflitto appena conclusosi. 2 C. Madrignani, Introduzione a F. De Roberto, Romanzi, novelle e saggi, Milano, Mondadori-I Meridiani 1979, p. LXVII. Italiani della letteratura: Federico De Roberto
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sulla «Rivista d’Italia» dal 28 febbraio al 31 marzo 1919. Nessuna linearità cronologica, nessun rispetto delle convenzioni spazio-temporali connotano il componimento, che fonda la sua tessitura narrativa sul contrasto stridente fra amore e guerra. Protagonista è l’ufficiale Raimondo, uomo tutto Patria e Famiglia, perfetta incarnazione della propaganda bellica. Filtrata dall’ottica del personaggio maschile è infatti la celebrazione dei più retrivi ideali nazionalistici, dall’esaltazione della madre-patria all’equazione esercito-scuola-famiglia. L’esibizione del tipico bagaglio interventista è spia del volontarismo ideologico derobertiano, inteso a sopperire a un’impotenza esistenziale e storica – l’impossibilità di partecipare alla prima guerra mondiale – e ad esorcizzare una marginalità geografica – l’isolamento in Sicilia – inalberando il vessillo dell’identità nazionale. E tuttavia non si può parlare di un’autentica adesione a quei valori. Siamo negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto, quelli dell’impresa dannunziana di Fiume e dei prodromi del fascismo, col suo nazionalismo oltranzistico e razzista. Se raffrontata al fanatismo ideologico dei futuri intellettuali di regime, la posizione dello scrittore siciliano, pur nella ribadita adeguatio a quel clima, risulta alquanto differente, se non addirittura estranea. Ha ragione ancora Madrignani a rintracciare una matrice ottocentesca, nel senso di «un perbenismo patriottico e familiare», alla base della presunta fede interventista dell’autore.3 Una caratteristica che potrebbe costituire un “limite” e che invece si rivela uno straordinario punto di forza di quest’ultima produzione, concretizzandosi spesso, a livello formale, in un realismo narrativo non privo di vibrazioni espressionistiche. Entrando nel merito dello stile, si noti come alla giustificazione ideologica del conflitto, e alla parallela sublimazione estetico-etica della donna – la giovane Adriana, moglie dell’ufficiale Raimondo – il narratore alterni l’ironico contrappunto degli inserti realistici affidati agli altri personaggi; specie allorché si scopre che la diletta sposa, pur di rivedere il marito in guerra, ha assunto i grotteschi panni della cocotte. Ma il piano della contingenza empirica si rivela in tutta la sua evidenza – con punte di assoluta comicità – soprattutto nella parte conclusiva della novella, dedicata all’impietoso ritratto dell’ottusa burocrazia militare. Pur nella tensione dialettica, riflessa nella struttura stessa del racconto, La «Cocotte» documenta quindi la scarsa compattezza ideologica dell’autore o, meglio, la sua profonda disillusione esistenziale e storica. Ad essere posta in discussione, infatti, non è tanto la validità degli ideali eroici, quanto l’inerte passività dell’esercito. Ma senza che per questo si approdi a una vera e propria condanna del militarismo, e difatti la stessa opzione monolinguistica, in funzione della caratterizzazione sociale dei personaggi – tutti ufficiali dell’alta borghesia – è ancora spia di un sentimento unitario. Anche quando s’intravede la figura alternativa del contadino-sol-
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Ivi, p. LVIII. VII. Italiani della letteratura
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dato, quest’ultima è posta al servizio della propaganda, nell’ottica di un populismo che riecheggia gli ideali dell’epoca.4 A distanza però di pochi mesi, e precisamente nell’aprile del 1919, De Roberto pubblica un’altra novella – La posta – che pone chiaramente in discussione diversi valori condivisi, segnalandosi per il protagonismo sociale e linguistico del contadino-soldato.5 A tutto vantaggio, in primo luogo, dell’efficacia espressiva del componimento. Se ufficialità fa rima con uniformità, la rappresentazione della diversità sociale presuppone l’apertura ad esiti sperimentali. Lo si evince, nella Posta, dal cospicuo impiego della parlata dialettale, a sostanziare un pastiche plurilinguistico destinato a sconfessare qualunque pretesa di unificazione nazionale. La novella mette infatti il dito nella piaga dell’analfabetismo e, soprattutto, rivela la totale estraneità al conflitto da parte del soldato. Correlativo del contrasto linguistico italiano-dialetto è l’antitesi fra realtà bellica e realtà d’anteguerra, quest’ultima incarnata dalla «vita dei campi» cui il protagonista – il siciliano Cirino Valastro – orienta ossessivamente i suoi pensieri. L’innesto dialettale non riveste, in questo caso, una funzione esornativa o caricaturale, ossia quel tocco di colore locale che vivacizzi la narrazione. È indicativo, piuttosto, della grave arretratezza culturale dell’esercito nei primi decenni del Novecento. Meglio di qualunque teorizzazione, l’impiego del vernacolo comunica infatti l’invincibile piaga dell’analfabetismo, sconfessando l’utopia, di ascendenza deamicisiana, di una normalizzazione linguistica veicolata dall’esercito e dalla scuola. Si pensi alle missive ricevute da Cirino, tradotte dal dialetto in italiano dal suo superiore, che aprono un terribile squarcio sulla realtà meridionale del latifondo. Fra una decifrazione e l’altra delle lettere, torna ad incombere il fuoco nemico, invisibile ma minaccioso. È nel tentativo di stanare una mitragliatrice austriaca che
4 Come dimostra questo passaggio della novella, impregnato di retorica: «I suoi soldati si erano accomodati senza tanta pena alla vita di trincea, ritrovando quella dei campi dalla quale venivano. […] ufficiali e soldati erano vestiti tutti dello stesso saio»: F. De Roberto, Novelle di guerra, a cura di R. Abbaticchio, saggio introduttivo di N. Zago, Bari, Palomar 2010, p. 37. Sulla figura del contadino-soldato si vedano le acute notazioni di U. Carpi, «La Voce». Letteratura e primato degli intellettuali, Bari, De Donato 1975, pp. 110-120 (ora riedito presso Lecce, Pensa MultiMedia 2003) e M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, Bologna, il Mulino 1989, pp. 204-205, 230, 323, 341. 5 Pubblicata su «Le sette rose» nell’aprile del 1919. Come osserva Natale Tedesco, «De Roberto manifesta una schietta adesione alle sofferenze dei proletari buttati nel gran rogo guerresco, concedendo loro un protagonismo cui le oltranze linguistiche danno una identità sociale più concreta. Lo spazio accordato ai linguaggi regionali caratterizza le dimore reali da cui provengono i nuovi protagonisti, ribaltando il nazionalismo sul quale si fondava l’ultima impresa dell’unitarismo», N. Tedesco, Le «novelle della guerra» e la pluralità dei mondi reali, in Id., La norma del negativo. De Roberto e il realismo analitico, Palermo, Sellerio 1981, p. 176.
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un corpo scelto, fra le cui fila è il soldato siciliano, è spedito in avanscoperta. L’operazione è narrata dagli stessi commilitoni in un plurilinguistico impasto di parlate regionalistiche, correttivo a qualunque oleografica rappresentazione: «Ma narrate un po’ come è andata!». «Sor tenente» rispose Ghezzi «il primo merito gli è stato di Terra Bruciata». Era il nomignolo che i compagni davano al Siciliano. Sull’attenti, con lo sguardo al suo ufficiale, questi pareva non avesse udito. «Scender giù gli è stato facile come bere un ovo» cominciò il Toscano, ancora ansante per la gran fatica della montata «benché quel po’ po’ di sassonia che ci rotolava sotto a’ piedi facesse un buggerìo d’inferno. […] Valastro rimaneva ancora ad udire, attentissimo, come si trattasse d’un altro. Malvini dovette interrogarlo: «Ebbene?». «Nienti, signor tenenti» rispose allora, stringendosi un poco nelle spalle. «Tutto il forti fùdi di rampicarsi supra di la macchia, ca la sintinella si aveva addormisciuto a terra, col fucili in mezzo ai gambi. Ci salto supra, ci afferro le cannarini e ci dico: «Arrosvégliati, carogna!…». Lui spalanca l’occhi, e si metti a trimari: «Cammarata!… Cammarata!». «Io mi chiamo Valastro Cirino e non Cammarata», ci arrispondo, mentri mi levo il cinto dei pantaluni e l’attacco com’un Ecceomo.6
Se a stravolgere la retorica dell’eroe guerriero è la caratterizzazione linguistica dei soldati, la degradazione grottesca degli ufficiali, sottoposti a una ricorrente deformazione caricaturistica, è in funzione della rappresentazione non mistificata della realtà storica. La diseroicizzazione dell’ufficiale, che si specchia nella sapida parodia della gerarchia, è esemplificata da un’ulteriore novella dell’ottobre ’19 – All’ora della mensa – ambientata in uno squallido Comando di Tappa popolato da mediocri burocrati dell’esercito. Il primo ad essere introdotto, facendo il verso al gergo militare, è «il maggiore Costarica cavaliere Evaristo, riservista anzianotto, grigio di pelo». L’esercito italiano, già preso di mira nella Cocotte, è ridotto a una galleria di mostri: Il capitano Gerolamo Pascucci, funzionante da aiutante maggiore, abbondava tanto di adipe, con una statura appena regolare, quanto ne difettava il comandante: […] il quarto ufficiale, il tenente Galvagni, era senza meno il più scalcinato di tutti. […] Costui vestiva una divisa sciatta, una giubbettina corta di vita, corta di maniche, la cui tinta grigioverde dava nel gialliccio, dal lungo uso, o dalla cattiva qualità, e forse per tutt’e due le cagioni. Quel giallume gli s’era diffuso fin sulla pelle del viso e delle mani, ed un catarro gastro-enterico non gli consentiva di prender parte alla mensa costituita dai suoi compagni e superiori.7
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F. De Roberto, Novelle di guerra cit., pp. 114-116. Ivi, pp. 141-142. VII. Italiani della letteratura
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Pur nei toni fin troppo accesi, anche quest’ennesima novella documenta con forza l’ambivalenza ideologica derobertiana, l’oscillazione costante fra l’astratto patriottismo, emergente qua e là in alcune prose, e una visione grottescamente deformata del reale, come quella qui espressa. 2. Dimidiato fra ideologia e realismo, in un’altra novella dell’aprile 1921, La retata, De Roberto alterna a spunti di comicità vernacolare – funzionali alla caratterizzazione antieroica dei personaggi – elementi tipici della propaganda del tempo, come la denigrazione dell’avversario. Com’è noto, nell’anno precedente la marcia su Roma prende forza la diffusione del verbo fascista con le sue rivendicazioni nazionalistiche, nel segno dell’orgoglio della razza e dell’esigenza di dominio. Mediante un abile artificio retorico – l’impiego della narrazione indiretta a conferire veridicità al racconto – si esaltano le eroicomiche gesta di un soldato italiano, aduso ad esprimersi in un pittoresco dialetto. Finito nella rete dei nemici – tutti descritti come bifolchi ignoranti – il sergentino li prende per il naso declamando la grandezza degli italici vettovagliamenti, a confronto col rancio stitico degli austriaci. Per quanto l’uso del dialetto privi la novella di epiche risonanze, permane inalterata la logica del pregiudizio ideologico, che qui si fa più radicale che mai. Secondo quest’ottica lo stesso antibellicismo caratteristico di una delle più belle novelle derobertiane – La paura – non acquista i caratteri dell’ostilità generalizzata verso la guerra, bensì si configura come preciso j’accuse nei confronti della Grande Guerra, ossia quel tipo di conflitto armato, sfiancante e logorante, che condanna il soldato a una morte ingloriosa e insensata. L’antibellicismo derobertiano, dunque, è l’esito di una cultura eroica totalmente disattesa dalla realtà del conflitto. Lo smacco dell’ideale è definitivamente compiuto, ai danni dello stesso esercito. Anche se i veri protagonisti della novella, più che la figura dell’ufficiale spogliata progressivamente della sua funzione mediatrice, sono gli umili fanti. Quasi si fossero dati convegno i protagonisti dei precedenti racconti, entrano in scena i soldati con l’intreccio polifonico dei loro dialetti, mentre il nemico lancia le prime avvisaglie. È l’inizio della fine. Come dei numeri tirati al lotto, ad uno ad uno, con lento e implacabile ingranaggio, i militari muoiono per coprire un posto di vedetta rimasto sguarnito, perché così vuole la cieca logica del conflitto. Persino il loro canto malinconico funge da preannuncio mortuario: «E mi comandi ch’el mio corpo in sei tocchi el sia taglià: el prin tocch al Re d’Italia, el second tocch al Battaglion!…» «El terz tocch a la mia mamma, per regordagh el so fioeu… El quart tocch a la mia tosa, per recordagh el prim amor!…» Italiani della letteratura: Federico De Roberto
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«Il quinto pezzo alle montagne, che lo fioriscano di rose e fior: il sesto pezzo alle frontiere, che si ricordino del fucilier!».8
Un corpo tagliato in sei pezzi, questo l’esito della loro triste parabola. Sei soldati morti inutilmente in un lento calvario, una «via crucis» che fa esplodere la rabbia del narratore contro l’immoralità dell’esercito, composto dagli «imboscati, dagli eroi da poltrona, dagli speculatori che lucravano sulla grande sciagura»,9 mentre i soldati sono esposti a morte certa, quei soldati che esprimono – nell’innocenza dei loro dialetti – l’umile rassegnazione della vittima. Ma ecco l’eccezione impersonata da Morana. Il prode, il valoroso, il veterano della campagna di Libia, il tipico eroe da mitografia interventista, di fronte alla bestia che lo aspetta al varco dice no. Rifiuta la fine ingloriosa, invaso da un tremito irrefrenabile di paura. Prima si chiude in un contegno sordo e ostinato, poi compie l’atto disperato frutto di alterazione psichica, il gesto che compendia in sé tutta l’assurdità della vicenda. Non il naufragio collettivo alla Rubé, protagonista del coevo romanzo borgesiano,10 ma la solitaria protesta dinanzi alla logica autoritaria: E prima che nessuno avesse tempo di comprendere che cosa volesse dire, che cosa stesse per fare, corse lungo il fosso, fino al cunicolo, si chinò ad afferrare il moschetto, ne appoggiò al ciglio di fuoco il calcio, se ne appuntò la bocca sotto il mento, e trasse il colpo che fece schizzare il cervello contro i sacchi del parapetto.11
3. A partire dal fulminante attacco, sino alla crudezza espressionistica dell’explicit, La paura si connota senz’altro come la novella di guerra più memorabile. Tale è la sua potenza visionaria da riverberarsi su una composizione successiva, accomunata
8
Ivi, p. 276. A proposito della ripartizione delle membra del soldato, osserva acutamente Guaragnella: «I destinatari delle parti del corpo smembrato sono il Re, il Battaglione, la mamma, la fidanzata, le montagne, le frontiere. Come dire: una parte del corpo ritorna a quella terra che ha un valore simbolico fortissimo per l’uomo di trincea, che sotto e dentro la terra vive la sua vita. La guerra di trincea, il rintanarsi del combattente nella terra, produsse un paesaggio dominato da una ambivalenza: la terra era al tempo stesso minaccia permanente e rifugio»: P. Guaragnella, Il teatro di guerra nel De Roberto postremo, in «Belfagor», LXIV (2009), 4, p. 408. 9 F. De Roberto, Novelle di guerra cit., pp. 283-284. 10 Che si conclude appunto col naufragar fra la folla del protagonista: G. A. Borgese, Rubè, Milano, Mondadori 1921. 11 F. De Roberto, Novelle di guerra cit., p. 295. VII. Italiani della letteratura
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alle precedenti da un sottile gioco intertestuale. Il trofeo, apparsa su «Le opere e i giorni» nel marzo-giugno ’22 – l’anno dell’ascesa del fascismo – esibisce la stessa atmosfera angosciosa, dominata dall’invisibilità della minaccia nemica. In questo universo di desolazione, spiccano per intensità espressiva i ritratti degli ufficiali nemici, tratteggiati all’insegna di un vero e proprio zoomorfismo: è il caso dello Chefarzt, il colonnello austriaco che si esprime nella «lingua di quei porci», denominato lo «Scifazzo», ossia «il truogolo dove si dà da mangiare ai maiali».12 Come si vede, la caratterizzazione dell’avversario è nel segno della più scontata ostilità nazionalistica, in linea con le tendenze reazionarie dell’epoca. Prigionieri degli austriaci brutti e cattivi, gli italiani esibiscono al contrario una superiorità morale e, soprattutto, un fascino irresistibile, cui non sono esenti le stesse mogli dei colonnelli asburgici. Come quella dello «Scifazzo», che si arrende volentieri a un nostro ufficiale. Non è un caso, allora, che il dono del «trofeo» da cui la novella prende il titolo – un paio di bellissime corna di cervo – sia destinato all’austriaco nell’epilogo sarcastico del componimento. A incarnare ulteriormente la dialettica derobertiana fra ideologia e realismo, e la conseguente crisi del modello unitario, è infine L’ultimo voto, apparsa su «La lettura» nel marzo-aprile 1923. È soprattutto nell’immagine del groppo scuro in cui si aggroviglia la rete, «come se un grosso insetto avesse occupato il centro della ragna», che si condensa il realismo espressionistico della novella. Quel grosso insetto altri non è che il cadavere di un ufficiale: La salma era piegata contro la siepe, col braccio sinistro, mutilato della mano, attorno al paletto; il ginocchio a terra; il braccio destro disteso e la pistola ancora spianata; il capo eretto e la mascella fracassata; l’elmetto tutto acciaccature, il petto crivellato come il disco di un bersaglio; il viso mummificato, bianco come una maschera di cera, ma incorrotto; le palpebre chiuse, l’uniforme lacera. Stoffa, cuoio, membra, tutto era irrigidito e solidificato: pareva un’opera di scultura, un simulacro intagliato nella pietra e nel legno. Ma l’innumerabilità dei colpi, le mutilazioni, la fierezza dell’atteggiamento nella stessa caduta attestavano l’eroismo dell’immolazione.13
Il ritratto del capitano morto è forse il documento più eloquente del conflittuale approccio alla politica caratteristico dello scrittore siciliano. L’oscillazione fra la cruda rappresentazione del reale e la riemergente idealizzazione è pienamente esemplificata dall’impiego di immagini oppositive: da una parte la salma ridotta a brandelli – «la mascella fracassata», «il petto crivellato», «il viso mummificato», il corpo «irrigidito» e «solidificato» – dall’altra la spoglia intatta e inalterabile: «viso mummificato ma incorrotto», «ma l’innumerabilità dei colpi, le mutilazioni, la fierezza dell’atteggiamento attestavano l’eroismo dell’immolazione».
12 13
Ivi, p. 342. Ivi, pp. 378-379.
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È evidente come l’autore tenti di conciliare la sua visione deformata del reale con le prescrizioni dell’ideale nazionalistico.14 E tuttavia anche L’ultimo voto si conclude nel segno dell’arido vero. Se la prima parte è inquadrata dalla prospettiva ingenuamente spiritualistica dei soldati, nell’ottica di una religiosità popolare,15 la seconda parte, quella dell’incontro del protagonista con la cinica moglie del capitano morto – nel frattempo convolata a “giuste” nozze con un altro ufficiale – è contraddistinta dal più crudo realismo. La «compagna adorata» si rivela infatti una donna falsa e calcolatrice. Il contrasto fra l’ideale e il reale si definisce anche stavolta, dunque, con la vittoria del secondo termine, e la stessa sublimazione della donna, che informa la prima parte del componimento, è destinata ad acquisire una connotazione ironica e straniante, esattamente come avveniva nel racconto proemiale, La «Cocotte». Le «novelle della guerra» testimoniano quindi le interne tensioni dell’autore e il lento franare di presupposti astratti e irrealizzabili nell’urto con la storia. Una dinamica per certi versi affine a quella che percorre il Rubè di Giuseppe Antonio Borgese. Dimidiato fra un’enfasi patriottica di matrice interventista e una spietata tendenza alla demistificazione autocritica, il protagonista del romanzo borgesiano del ’21 – come l’autore di queste novelle – incarna il tracollo dell’ideologia proprio in un momento – gli anni del fascismo – in cui prende corpo il mito della guerra nazional-popolare.16 Nonostante la disperata ricerca di soluzioni eroiche, e talvolta persino misticheggianti, l’intellettuale novecentesco è destinato infatti ad abitare, in compagnia del suo tremendo disincanto, un universo senza Patria e senza Dio.
14 Una dinamica già attestata dall’epilogo tragico della Posta, come rivela la caratterizzazione del soldato morente: «Il viso era sbiancato, ma intatto: non una macchia sul petto, nei fianchi, alle spalle», ivi, p. 134. 15 «Correvano leggende intorno a lui ed ai suoi soldati della 5ª Compagnia: l’improvviso ritrovamento di quello scomparso, la riapparizione di quel morto, il suo miracoloso preservamento fra le nevi, il faticoso ricupero in mezzo al fuoco, avevano prodotto, narrati di bocca in bocca, un’impressione profonda. Lo spiazzo dietro la baracchetta era, dalla sera innanzi, mèta d’un pellegrinaggio. Ogni combattente aveva negli occhi dell’anima lo spettacolo dei grandi macelli, la visione dei tanti morti amati e rimpianti, ma nessuno faceva pensare quanto questo. I più umili di spirito restavano lì, fermi, come aspettando qualche altra cosa, un più grande miracolo, forse – chi sa? – una resurrezione…», ivi, pp. 384-385. 16 Sull’argomento si veda in particolare il saggio di N. Tedesco, Borgese, De Roberto, la guerra e il fascismo: tra pluralità linguistica e modello unitario, in Id., La tela lacerata. Strutture conoscitive e invenzioni narrative (1880-1940). Con un’appendice estravagante, Palermo, Sellerio 1983, pp. 44-51.
VII. Italiani della letteratura
VIII. Italiani della Letteratura: Dante
Tra Toscana e Italia: Dante nel Cinquecento Dante e dantismi per il Centocinquantenario La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti
TRA TOSCANA E ITALIA: DANTE NEL CINQUECENTO
LORENZO BOCCA Dante nei ‘Discorsi’ e nei ‘Dialoghi’ di Sperone Speroni
La pubblicazione del Discorso nel quale si mostra l’imperfettione della ‘Commedia’ di Dante contra al ‘Dialogo delle lingue’ del Varchi di Ridolfo Castravilla (misterioso personaggio identificato successivamente – ma senza grandi margini di sicurezza – con diversi letterati di area non esclusivamente toscana, tra cui Lionardo Salviati, Ortensio Lando, Girolamo Muzio, Bellisario Bulgarini e, più recentemente,1 Ludovico Castelvetro) farà esplodere, a partire dal 1572, una articolata questione dantesca,2 che impiegherà mezzi e strumenti diversi da quelli messi in campo in seguito alla pubblicazione delle Prose bembiane. Non più una censura – legata a questioni formali – della scelta polilinguistica e polistilistica di Dante, strettamente intrecciata alla nozione di ascendenza classica dei tre stili ed alla convinzione che la materia filosofica non sia adatta alla poesia, ma un rifiuto che si fonda perlopiù sulle riletture della Poetica aristotelica di recente «riscoperta». La condanna strutturale formale e contenutistica del poema dantesco che emerge dal Discorso di Castravilla darà naturalmente vita ad una fittissima disputa sul valore della Commedia – e, più in generale, sul ruolo della poesia – in cui si intrecceranno numerose voci, in contesti culturali diversi: il mio intervento seguirà in parti-
1 P. Procaccioli, Castelvetro VS Dante: uno scenario per il Castravilla, in Ludovico Castelvetro. Letterati e grammatici nella crisi religiosa del ’500, Atti della XII giornata Luigi Firpo, Torino, 2122 settembre 2006, a cura di M. Firpo e G. Mangini, Firenze, Olschki, pp. 207-49. 2 Per una bibliografia di base sull’argomento rimando a M. Barbi, Della fortuna di Dante nel secolo XVI, Pisa, Nistri 1890; B. Weinberg, A history of literary criticism in the Italian Renaissance, Chicago, Chicago University Press 1961; A. Vallone, L’interpretazione di Dante nel Cinquecento, Firenze, Olschki 1969; G. Mazzacurati, L’albero dell’Eden. Dante tra mito e storia, a cura di S. Jossa, Roma, Salerno 2007 e alle voci specifiche dell’Enciclopedia dantesca, diretta da U. Bosco, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana 1996.
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colare la complessa rete che si viene a stringere tra Siena e Padova durante gli anni Settanta ed Ottanta del secolo, mostrando la continuità di quei rapporti tra Veneto e Toscana iniziati a partire dalla fine degli anni Trenta, grazie ad alcuni esuli fiorentini (penso, in particolare, a Benedetto Varchi e al suo ruolo di tramite per l’aristotelismo degli Infiammati padovani). Scopo di Castravilla è dimostrare che la Commedia Non è pur poema, e, dato e non concesso, che fosse poema, non è poema heroico, e, dato, e non concesso, che fosse poema heroico, è in fra i poemi heroici malo poema, ed è tutto pieno di imperfettioni in tutte le sue parti, cioè nella favola (dato e non concesso che habbia favola) e nel costume e nella dianea, o vuol dir concetto, e nella dizione, o vuol dire elocuzione.3
Una posizione importante tra i suoi sostenitori sarà assunta dal senese Bellisario Bulgarini (cui si deve anche la curatela della prima edizione a stampa (1608) del Discorso). Il futuro accademico Intronato, infatti, nelle Considerazioni di Bellisario Bulgarini, gentilhuomo sanese, sopra ’l Discorso di M. Giacopo Mazzoni, fatto in difesa della Comedia di Dante, opera una sistematica critica della poesia dantesca, non solo sottolineandone il contrasto con la teoria dei generi e le correnti reinterpretazioni aristoteliche, ma anche tramite perduranti preconcetti linguistici e stilistici ereditati dal primo Cinquecento. Elementi a cui si aggiunge un vero e proprio culto moralistico del vero, inteso come rifiuto d’ogni elaborazione fantastica o rappresentazione suggestiva delle passioni, specie in campo religioso. Stimolate dalla Difesa di Mazzoni, che Bulgarini conosce grazie ad Orazio Capponi – cui indirizzerà il proprio scritto con una lettera datata 1576 –, le Considerazioni circolano manoscritte fino al 1583, anno in cui verranno pubblicate a Siena presso Luca Bonetti («contro mia voglia», scriverà in numerose lettere Bulgarini), in difesa dal plagio rappresentato dal Breve et ingegnoso discorso contra l’opera di Dante (Padova, Meietti 1582) del monsignore padovano Alessandro Cariero che, verisimilmente, venne a contatto con lo scritto bulgariniano durante il soggiorno senese del 1579. Nello scritto del prelato padovano le accuse alla Commedia si fondano sul solito richiamo all’inosservanza dei principi aristotelici, all’uso di metafore «meccaniche» e plebee e di parole oscene e disoneste: la sinopia dello scritto di Bulgarini è evidente, ed infatti la priorità dello scritto del senese viene presto attestata e difesa da diversi letterati (si veda, ad esempio la lettera di Mario Bardi Bandini a Bulgarini del 27 luglio 1582, pubblicata da Barbi:4 «quanto a le fatiche di V.S. contro la Comedia di Dante comparse avanti all’Ill.mo e Rev.mo Sr. Cardinale D’Este sotto nome di A. Carero,
3
M. Rossi, I discorsi di Ridolfo Castravilla contro Dante e di Filippo Sassetti in difesa di Dante, Città di Castello, Lapi 1897, p. 31. 4 M. Barbi, Della fortuna di Dante… cit., p. 348. VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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sono state poco vedute, e da chi l’ha vedute è stato conosciuto il furto»). Per liberarsi dall’accusa di plagio, Cariero non soltanto sostiene la precedenza cronologica della sua opera, retrocedendone l’ideazione e la parziale composizione al 1577, ma compie una vera e propria conversione filodantesca: nel 1583, presso Meietti, apparirà infatti l’Apologia di Monsignor Alessandro Cariero Padovano contra le imputazioni del signor Bellisario Bulgarini sanese. Palinodia del medesimo Cariero nella quale si dimostra l’eccellenza del poema di Dante, scritto in cui il prelato rovescia la prospettiva del Discorso, sostenendo che la Commedia non solo è opera «di vera virtù christiana», ma «disputa di cose naturali, humane e divine mediante i luoghi e le persone che egli introduce, non ad ostentazione di dottrina, ma con quella imitazione che fa l’uomo degno del nome di poeta».5 Tralasciando le qualità critiche del Breve et ingegnoso discorso e dell’Apologia – facilmente smontata da Bulgarini nel 1588 con la Difesa di Bellisario Bulgarini in risposta all’Apologia di Monsignor Alessandro Cariero – il religioso veneto è verisimilmente stato il mediatore, negli ambienti culturali padovani, dello scritto dell’accademico di Siena: e proprio intorno a questi stessi anni si può ipotizzare la lettura dello scritto di Bulgarini da parte di Speroni, cui forse, visto il ruolo culturale forte nell’area veneto-padana – è superfluo il riferimento ai due Tasso –, si può anche attribuire l’improvviso cambio di rotta di Cariero.6 Speroni, definito da Girolamo Benivieni in una lettera a Vincenzio Borghini «gran fautore di Dante», tra il 1582 e 1588, anno della morte, comporrà quello che si può considerare il suo maggiore intervento all’interno della querelle dantesca: un’opera circolata manoscritta (con attribuzioni contrastanti: Bulgarini stesso, nell’Antidiscorso del 1608, immaginava che autore ne fosse Cariero) e pubblicata soltanto nel XVIII secolo da Forcellini e Dalle Laste, con il titolo redazionale di Sopra Dante Discorso secondo, in una sezione delle Opere speroniane in cui sono raccolti scritti, i trattatelli, a diverso livello di elaborazione formale e concettuale. Naturalmente, questo testo (ripubblicato da Filippo Fanzago con il significativo titolo di Apologia di Dante, in occasione del sesto «Centenario di Dante», fra il gran numero di opere ricordate da Carlo Dionisotti)7 segue un Discorso primo, su cui non mi soffermo, non risultando altro che un canovaccio di appunti, difficilmente collocabili cronologicamente (e forse neppure pertinenti agli anni Ottanta), dedicato
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Enciclopedia dantesca cit., s.v. Cariero, Alessandro. Questa è anche la posizione sostenuta dal biografo di Speroni, Marco Forcellini: «Sperone non fu contento di difender Dante da sé: indusse il Cariero, che su tal proposito frequentemente con esso lui ragionava, a ritrattarsi di quanto aveva scritto contra quel poeta», M. Forcellini, La vita, in S. Speroni, Opere, rist. anastatica dell’edizione Occhi a cura di M. Forcellini e N. Dalle Laste (Venezia, 1740), a cura di M. Pozzi, Roma, Vecchiarelli 1989, V, p. L. 7 C. Dionisotti, Varia fortuna di Dante, in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi 1980, pp. 255-303. 6
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per lo più all’interpretazione allegorica di alcuni personaggi, e ad un disarticolato tentativo di commento delle prime terzine dell’Inferno. Il Discorso secondo, maggiormente organico, riprende l’organizzazione in dieci particelle dello scritto di Bulgarini, per demolirlo con quell’asprezza tipica di Speroni critico che, come nota il suo biografo settecentesco, usualmente scriveva senza troppi filtri «tutto ciò che gli dettava il calor della mente, la quale nell’ira si riscaldava ferocemente»;8 sono numerosi infatti – oltre alle involuzioni e circonvoluzioni strutturali – gli epiteti ai limiti dell’insulto («Bestia senese» è forse quello maggiormente ricorrente) affibbiati a Bulgarini, considerato un meccanico «materiale e stordito», buono soltanto alla cucina e alla bottega (luoghi infimi quanto il «tinello» destinato, durante la polemica sulla Canace, a Giraldi Cinzio). L’apologia si apre con un’introduzione in cui è indagata l’intenzionalità del poema dantesco: appoggiandosi inizialmente a Carlo Lenzoni, presto però accantonato perché il fiorentino «ragiona come si dee, benché ciò faccia imperfettamente»,9 Sperone sostiene – sulla scorta della conclusione della Vita nuova e delle interpretazioni di Trissino e Castelvetro – che lo scopo principale di Dante è la lode di Beatrice, figura di quella grazia che può condurre alla salvezza anche l’uomo vizioso; appare così, nella lettura speroniana, la centralità e l’egemonia dell’intento morale, che emerge fin dall’esegesi del colle e della selva oscura o del personaggio di Virgilio, maggiormente argomentate, tuttavia, nel primo Discorso dantesco. Partendo da questo presupposto, Speroni può sillogizzare riguardo la vera natura del viaggio, affermando la falsità di ogni interpretazione onirica dell’ascesa del poeta (sostenuta, ad esempio, da Castravilla, Castelvetro e Bulgarini) e difendendo così l’universalità del percorso di redenzione: «dalle cose dette s’intende che la opra di Dante non fusse sogno; perché in sogno le laudi date a Beatrice sarebbero sognate, non vere: né ello in sogno potea divenir veramente virtuoso, se in sogno non basta il pentirsi de’ peccati» (V, 505). Sostenendo la preminenza del fine etico della Commedia, Sperone ne organizza la difesa, concludendo quanto il poema di Dante sia «virtuoso […] e grave, e guardi più alla sentenzie e alla verità, che alle parolette delicate, come ne’ sonetti e ballate: parla di filosofia e d’altre scienzie» (V, 506). Questa affermazione, apparentemente incidentale, mostra con chiarezza la struttura e gli elementi che informano lo scritto speroniano, in cui è centrale la predominanza del concetto, aristotelicamente inteso come immagine filtrata dall’intelletto delle cose percepite, di cui la forma non è che ulteriore riflesso. Il Discorso sopra Dante mostra infatti un’evidente continuità con il pensiero del Dialogo
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M. Forcellini, La vita cit., p. XLV. S. Speroni, Sopra Dante Discorso secondo, in Id., Opere cit., V, p. 504. D’ora in poi per le citazioni da questo ed altri testi tratti dalla medesima silloge, utilizzerò il numero romano per indicare il tomo e le cifre arabe per la pagina. 9
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Dante nei ‘Discorsi’ e nei ‘Dialoghi’
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delle lingue (collocabile negli anni Quaranta), in cui Pietro Pomponazzi, il Peretto, proclama la necessità dell’egemonia speculativa sull’imitazione e la vacua ornamentazione linguistica, perché, come Sperone scrive nel frammento Dell’arte oratoria, databile agli anni Sessanta, «costui che imita solo come il Bembo, costui non ha né arte né intelligenza» (V, 542). Il passo successivo è la difesa dell’unità del poema dalle affermazione di Bulgarini che, individuando in esso almeno tre invocazioni, vi riconosce tre azioni, tre scopi e tre peripezie differenti: Né per diverse invocazioni fatte nel principio delle tre cantiche, né in esse cantiche più volte, come nello Inferno canto 32 né nel canto 29 del Purgatorio, né nel canto 22 del Paradiso si dee dire che la operazione sia più di una: perché occorrendo difficoltà nelle cose trattate, è ben fatto ricorrere allo ajuto di Dio. (V, 506-7)
Ma la questione che, naturalmente, preme maggiormente a Speroni è quella linguistica, e per più pagine il padovano si impegna a difendere l’elocutio dantesca, contro accuse di stampo bembesco: autore certo lodato nell’Orazione in memoria di Pietro Bembo, ma ironicamente respinto in una lettera a Felice Paciotto del 19 maggio 1581: «se ozio alcuno ci avanzarà, vediamo un poco se il nostro Dante […] è degno d’esser letto […] o s’è nulla, siccome il Bembo soleva dirmi» (V, 280). Emerge in Speroni un sottile antibembismo, che appare di preferenza in scritti non esplicitamente pensati per la pubblicazione, come si è visto nel trattatello citato in precedenza, e che sovente si ammorbidisce in un tentativo di inserire le Prose in un circuito culturale ed ideologico più prossimo alla propria riflessione; spiegando, ad esempio, la diffidenza bembiana per la Commedia come un «singolare artificio» (III, 167) di maestro – come si legge nell’orazione funebre, «né finita, né recitata» (II, 158), per il cardinale –, quasi Bembo temesse che l’eccellenza della materia sviasse dall’umile cura della parola. Riprendendo le riflessioni degli ambienti fiorentini, Sperone riconosce, nella Commedia, il raggiungimento di una vera maturità linguistica: «in vero fin al suo tempo non era stata usata la lingua tosca se non a parlare di cose basse: e fu egli il primo che la innalzò» (V, 507); contro la barbarica licenziosità della commistione delle lingue deplorata da Bulgarini, Speroni sostiene il valore – come nel contemporaneo Dialogo della istoria – del linguaggio misto, sulla scorta dell’interpretazione trissiniana del De Vulgari eloquentia. Questa eterogeneità non rimane però una semplice giustapposizione di forme differenti, ma è un vero e proprio linguaggio nuovo, che Sperone non esita a definire «toscanissimo» (V, 510); Dante è un demiurgo, come Cicerone per il latino, che è riuscito a riplasmare una lingua, «facendola ricca ed alta di mendica che ella era», onorandola «non meno di Omero la Greca e Virgilio la latina» (V, 511). Prova ulteriore della superiorità di Dante nel campo linguistico sono le imitazioni che Sperone trova non solo nella Cronica di Giovanni Villani e nelle opere di Boccaccio, ma anche (operando, in questo senso, una sorta di rovesciamento dell’operazione di Varchi) nei RVF, in cui, tra l’altro, individua alcuni errori interpretativi del testo dantesco: Tra Toscana e Italia: Dante nel Cinquecento
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Il Petrarca crede di imitare Dante dicendo «Quando mia speme già condutta al verde» [RVF, XXXIII, 9] e s’inganna quanto alla cosa e quanto alla lingua. Quanto alla cosa, che non è vero che la speranza condotta al verde si intenda mancare, figurandosi da Dante e da ognuno la speranza esser verde. Ma il Petrarca par che ciò dica a imitazione di Dante, ove ne parla nel canto III del Purgatorio, ed il Petrarca crede che il verso di Dante sia «Mentre che la speranza è fuor del verde»: e il verso non dice così […]. Ma dice il vero verso: «Mentre che la speranza ha fior del verde [Pg. III, 135]». (V, 510)
Un linguaggio, quello di Petrarca, cha a volte sente del «pedagogo delle commedie» (V, 511) molto più di quello dantesco, sostiene il padovano ribaltando l’accusa di Bulgarini; e non solo nel lessico delle gotiche allegorie dei Trionfi, di cui Sperone offre un fitto elenco di vocaboli a suo parere censurabili: Che il Petrarca faccia ciò nei suoi Trionfi è chiaro: perché egli dice interna, impingua, alvo, alse, astro, cerebro, Cartago, compagna, curvo, disapre, da imo, digno, divorzo, egra, feritade, fervidamente, funereo rogo, difalca, ebe, erma, interstizio, labbia, monton, mortifero, mancipio, migra, macra di valore, nubilo, parco, percusse, relinque, nigra, pigra, socco, speco, seca, Tebro, vestigio. Né pur ne’ Trionfi, li quali non può iscusare chi accusa Dante, ma ne’ sonetti e nelle canzoni, che sono eligie o epigrammi, il Petrarca imitando Dante forma novi vocaboli pedagogici e molto strani; e non si può difendere con Aristotele. (V, 511)
Esplicitato così il proprio sottofondo ideologico in questa parte introduttiva, Sperone può iniziare la vera e propria opera di demolizione dello scritto di Bulgarini, affrontando, seppur disordinatamente, le particelle del senese: contro le accuse di inventio favolosa ed impossibile, Sperone allega l’autorità non solo dei Padri della Chiesa, che parlano di satiri e di giganti, ma anche, indirettamente, di Aristotele, sostenendo la necessità dell’inserzione di mirabilia (anche tratte dalle fonti antiche) nella poesia, perché «è [degno] del meraviglioso il poeta» (V, 512). Dopo aver difeso, con gli stessi argomenti avanzati nella parte introduttiva del Discorso, l’unità del poema e la verisimiglianza del viaggio narrato, Sperone si concentra sulla legittimità di imitar se stessi in poesia: vengono ripresi i ragionamenti abitualmente impiegati per inserire la lirica all’interno del sistema dei generi aristotelici, e il padovano sostiene le proprie affermazioni con un exemplum altrettanto tradizionale, quello del pittore e dell’autoritratto, con un gusto per le arti visive che si ritrova spesso nella sua opera, dove più volte è chiamata in causa la triade Michelangelo Raffaello Tiziano. Nella sovrapponibilità tra autore e personaggio, Sperone trova quindi una profonda eticità e paragona l’ascesa di Dante, «di brutto divenir bello», al rogo rigeneratore della fenice, miracolo di cui non si «de’ biasimar ma ammirar la natura» (V, 514). La struttura del poema non è l’unico elemento in grado di garantirne la moralità: per Speroni, anche i diversi personaggi introdotti nella Commedia, compresi i dannati dell’Inferno, suscitando orrore e, di riflesso, disgusto per il vizio, concorrono all’innalzamento del lettore; e ciò concede a Dante la libertà, censurata da Bulgarini, di «dire male della patria» (V, 516): una scelta che, per il padovano, assume il medesimo valore delle condanne dei profeti VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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veterotestamentari. Da questo profondo intento etico (che Speroni riconosce e mostra in un affollarsi di esempi tratti dalle tre cantiche), deriva anche l’impossibilità di considerare il poema un’opera satirica, secondo l’accusa mossa da Bulgarini, anche perché la satira, taglia corto Sperone, si rivolge in primo luogo ai vivi per spingerli ad emendarsi dal vizio, non assumendo cioè quel valore universale che invece individua nel poema dantesco. Terminato l’intermezzo sulla moralità del poema, Speroni ritorna a concentrarsi sull’elocutio, trattando però della scelta delle metafore e delle similitudini, richiamandosi inizialmente all’autorità di Lenzoni e poi alla pratica delle Sacre Scritture, in cui, proprio come nella Commedia, sono usate metafore basse e triviali, che non molto si discostano dalla definizione di s. Domenico «drudo della Chiesa di Dio»10 (V, 517), epiteto di cui Speroni non esita a ritrovare l’antecedente nel Cantico dei cantici, secondo l’interpretazione di Bernardo di Chiaravalle. Con un piacere che non è difficile veder trasparire dalle pagine, ed un gusto per la minuta disquisizione sofistica che gli è tipico, il padovano si dedica a smantellare la condanna della metafora del sole «lucerna del mondo» (Pd. I, 38), che già aveva turbato Della Casa. E dopo l’ironica disquisizione sui diversi combustibili e i loro odori, conditi con divertiti riferimenti al contenuto del tristo sacco di Maometto (If. XVIII, 26-7), Sperone chiude il brillante discorso con un richiamo, quasi incidentale, all’elemento centrale e maggiormente duraturo del suo pensiero, la presa di coscienza di una ormai definitiva separazione tra le parole e le cose, ciò che fornisce tutta la carica innovativa dei suoi Dialoghi delle lingue e della retorica degli anni Sessanta: «per questo leggendosi che Saturno era nominato Stercurio e che Laerte stercorava i suoi campi, non ne sentiamo l’odore: quasi la natura seguiti la parola, e non la parola la natura» (V, 517-8). Prima di concludersi in una serie di appunti disordinati, spesso non più che semplici richiami a versi e personaggi, o citazioni incomplete, il Discorso affronta organicamente un ultimo punto, la decima delle particelle bulgariniane; la Commedia, sostiene Sperone, non è un un disgregato poema episodico, in quanto in tutti gli episodi è possibile riconoscere necessità e verosimiglianza, nonché la bellezza – il richiamo è a Paolo e Francesca – o la loro profonda valenza etica: «li altri episodi delli eretici [If. XI] o degli intercettori di se stessi [If. XIII] sono nobilissimi a chi ha intelletto» (V, 518). Una larghezza nell’ammettere l’inserzione di divagazioni episodiche che richiama, in maniera abbastanza evidente, le posizioni che Sperone assunse, durante la revisione romana della Liberata, riguardo la vicenda di Olindo e Sofronia, di cui si mostrò, stando alle Lettere poetiche, unico difensore (proprio come, negli scritti virgiliani degli anni Sessanta, rifiutava le
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La citazione esatta è «l’amoroso drudo \ de la fede cristiana» (Pd. XII, 55-56). L’immagine era stata censurata dal Casa, così come la metafora solare ricordata più avanti: cfr. G. Della Casa, Galateo, Milano, Garzanti 1988, XXII. Tra Toscana e Italia: Dante nel Cinquecento
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Lorenzo Bocca
espunzioni di Vario e Tucca all’Eneide): «Parlando allo Sperone, desidero che li diciate ch’io m’induco a rimuover l’episodio di Sofronia, non perch’io anteponga l’altrui giudizio al suo, dal quale fu accettato per buono; ma perch’io non vorrei dar occasione […] di proibire il libro».11 Nonostante l’evidente urgenza del Discorso, che ne caratterizza anche la forma, spesso confusionaria ripetitiva e feroce nei suoi attacchi personali, questo scritto è pur sempre il più organico intervento di Speroni nel coevo dibattito dantesco, esito però di una lunga fedeltà al poeta della Commedia evidentissima anche in altre opere del padovano. Se nel Discorso della precedenza de’ Principi dei primi anni Settanta Sperone ritorna, incidentalmente, sul ruolo di Dante come creatore linguistico, costretto, come Cicerone filosofo, a lottare vittoriosamente contro una «lingua mal presta [che] non giva presso al concetto» (II, 379) è soprattutto nella seconda parte del Dialogo dell’Istoria (1585-88) che il padovano si impegna nella lode della Commedia, affermandone la centralità nella paideiva dell’intellettuale, al pari delle opere di Petrarca e Boccaccio. Collocando la poesia sullo stesso piano delle altre arti intellettuali, come la teologia e la matematica, Sperone ne afferma la nobiltà, ed ammettendovi argomentazioni dottrinali, può analizzare contestualmente la Commedia e i RVF, riprendendo una distinzione ormai tradizionale, che Ludovico Dolce aveva icasticamente rappresentato negli epiteti di Messer Settembre e Messer Maggio, contrapponendo il sugo e la dottrina di Dante alla leggiadria stilistica di Petrarca: Nessun poema, quanto alla cosa che vi si tratta, trovasi al mondo in alcuna lingua, che a quello di Dante né che al Petrarca, quanto alla forma del trattamento, si possa punto agguagliare. […] e sempre essendo sovran poeta, fu sempre astrologo, sempre filosofo, sempre teologo cristiano: onde egli ancora col suo Virgilio possa cantar di se stesso «Primus ego in patriam mecum» con quel che segue: perché fu il primo che poetasse altamente nel comun nostro romanzo, tessendo i versi in un novo modo non più tenuto da alcuno de’ suoi processori, ma molto meglio per la eccellenza della materia: lì sta la laude. (II, 273)
L’approvazione incondizionata per la creatività linguistica di Dante è evidente (ed è certamente in linea con l’aspirazione di Speroni ad una letteratura radicalmente contemporanea, non fondata su alcuna modellizzazione classicista), e nel resto del dialogo vengono in più luoghi riprese alcune idee cardine della riflessione linguistica speroniana; in primo luogo la pari dignità dei diversi volgari della penisola, compresi quelli maggiormente criticati da Dante – romano e bergamasco – e la necessità, mediata dall’interpretazione trissiniana del De vulgari eloquentia, di una fusione tra i volgari italiani, per poter creare un comun romanzo atto, nel caso del Dialogo in questione, alla scrittura storiografica:
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T. Tasso, Lettere poetiche, a cura di C. Molinari, Parma, Guanda 1996, XLII, 1. VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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Né si de’ il Tosco meravigliare, che nell’officio di far l’istoria, il comun romanzo, il quale accoglie diverse voci, non tutte belle egualmente sia preferito al Toscano solo, cioè al perfetto fra le altre lingue d’Italia […]. Assomigliasi il comun romanzo al corpo intero d’un animale, al capo o all’occhio il toscano; onde se il corpo, che vive e opra col capo insieme sua miglior parte, ha molti ancora delli altri membri non belli tutti, ma necessari alla sua salute» (II, 278)
La proposta di questa lingua mista rappresenta un’implicita difesa alle accuse che, sulla linea bembiana, venivano rivolte alla Commedia e presenta richiami ben evidenti alla riflessione del Discorso sopra Dante; questa natura quasi normativa che Speroni percepisce nel poema dantesco, emerge con chiarezza ancora maggiore negli interventi in difesa della Canace, tragedia che, come la Gerusalemme o il Pastor fido, susciterà un ampio dibattito. Negli scritti apologetici contro Giraldi Cinzio della fine degli anni Cinquanta, ricorre più volte il nome di Dante, a ribattere accuse che vertono principalmente sull’opzione metrica utilizzata (una fusione di quinari settenari ed endecasillabi) e la scelta dell’argomento, storia di incesto e di violenza tratta da Heroides, XI. Il richiamo a De vulgari eloquentia, II, 5 serve, nell’Apologia (1558), per garantire la liceità della particolarissima commistione di versi all’interno dell’opera, difendendola dalle accuse di Giraldi Cinzio, che ritrovava nella presenza di metri differenti il medesimo errore condannato da Aristotele nell’Ippocentauro di Cheremone: «la mistura degli eptasillabi ed endecasillabi insieme ha più del tragico, che non il semplice endecasillabo» (IV, 156). Analogamente, il De vulgari eloquentia viene da Speroni impiegato per difendere la presenza di versi ancor più corti, i quinari, rifiutati da Giraldi: «De’ pentasillabi parlò già Dante. E con giudicio diede lor luogo in quel suo alto e illustre stile che egli tragico nominò; e questa sola sua autorità manda in fumo ogni calunnia del maldicente, e mostra chiaro con l’ignoranzia la impudenza e presunzione di tal bestia» (IV, 161). Lo stile di Sperone polemista è evidentissimo, nonostante l’opera circolasse anonima, e la stessa foga è anche nella difesa della materia ovidiana, censurata da Giraldi Cinzio perché in Canace e Macareo, fratelli incestuosi, riconosceva una scelleratezza tale da rendere impossibile ogni identificazione e, di riflesso, qualsiasi compassione e purgazione. Nella Lezione IV Sperone ricorda, contro quest’ultima condanna, diverse novelle della giornata IV del Decameron, in cui Boccaccio fa «cader pietà sopra persone che per amore avevano peccato contro le leggi dell’ospitalità, contra jus gentium, contra la fede pubblica e similmente contra la riverenza del padre» (IV, 171); tutti riferimenti che, con fine espediente retorico, concorrono a creare una climax che si conclude, naturalmente, al cospetto della bufera infernale del canto V dell’Inferno. L’episodio di Paolo e Francesca, su cui Sperone si concentrerà nuovamente più di trent’anni dopo, non può che rappresentare la giustificazione definitiva all’impossibilità di ogni catarsi, di cui Giraldi Cinzio accusava la Canace: Ora se questo Dante, tanto severo ed acerbo, che vuole accrescere con le sue parole il castigo delle persone dannate, trovando poi duoi cognati Paulo e Francesca, pur non li Tra Toscana e Italia: Dante nel Cinquecento
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biasima, ma eziandio ha tanta compassione, che cade come corpo morto, e piange la loro miseria; dovremo noi dire che questi sieno scelerati? (IV, 178)
Il rapporto tra Speroni e Dante non si discosta molto da modalità che si possono considerare tipiche del XVI secolo: un confronto difficile con un’auctoritas ingombrante, in cui spesso convivono due modelli complementari di fruizione, e il tentativo di difendere la Commedia dai suoi detrattori si interseca tautologicamente con l’implicito riconoscimento del suo valore normativo. La mobilità dei differenti schemi interpretativi non fa che ribattere la permeabilità delle culture nell’Italia del Cinquecento, mostrando una dinamica interscambiabilità, chiaramente dominata dal tentativo di creare non solamente una lingua, ma una cultura veramente nazionale, che possa riconoscersi in sistemi ricorrenti e condivisi. I vari tentativi filodanteschi (tra cui gli scritti speroniani assumono un ruolo importante) del Cinquecento – Cesare Balbo, per il XVI secolo, parlava infatti di una «gloria crescente e diffondentesi» per il poeta della Commedia – contribuiscono certamente a creare e stabilizzare, pur tra periodiche oscillazioni, un vero e proprio mito di Dante, al quale ripetutamente verrà attribuita, dalle differenti politiche culturali che si sono succedute in Italia, la paternità tanto della lingua quanto della patria. Con esiti a volte grotteschi, siano le Lecturae istituzionalizzate o certe divagazioni retoriche, che non mancheranno di toccare anche le arti figurative, come nel caso delle epigrafi del monumento di Dante a Trento, o del capolavoro pompier di Eugenio Agneni, Le ombre dei grandi uomini fiorentini che protestano contro il dominio straniero (1857), conservato ma purtroppo non esposto alla GAM di Torino, in cui Dante, guida di una Lega di gentiluomini straordinari, tra cui Petrarca, Machiavelli e Boccaccio, dilaga sotto il portico degli Uffizi travolgendo l’invasore.
VIII. Italiani della Letteratura: Dante
GRETA CRISTOFARO Per una possibile conciliazione tra filosofia e teologia: Pd I commentato da Benedetto Varchi
Le Lezioni sul Dante di Benedetto Varchi, preparate dopo il suo ingresso nell’Accademia Fiorentina nel 1543, offrono uno spaccato alquanto rappresentativo della questione dantesca a metà del Cinquecento, e si inseriscono in un panorama che, fino ad allora dominato dal dominio bembiano, stilistico e di ascendenza platonica, inaugura a pieno titolo un nuovo intento esegetico, a favore di un’interpretazione morale e filologica della Commedia.1 Ovviamente, la difesa del volgare di fronte agli attacchi dei suoi detrattori è la naturale eredità dell’ambiente padovano frequentato da Varchi verso la fine degli anni trenta. La posizione varchiana ricorda, infatti, quella di Speroni, incontrato proprio all’Accademia degli Infiammati, il quale, per quanto influenzato dal dominio bembiano di quegli anni, si distacca parimenti da certo bembismo retorico. Questa sarà anche la tesi linguistica di Varchi, argomentata più ampiamente
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L’Accademia Fiorentina, composta da studiosi di eterogenea provenienza, (Francesco Verini, Giovan Battista Gelli, Giovanni Strozzi, Pier Francesco Giambullari, Niccolò Martelli, Cosimo Bartoli, Mario Tanci, Piero Trucioli, Ugolino Martelli, Damiano di San Geminiano, Benedetto Varchi, Leonardo Tanci, Guglielmo Persani da Bibbiena, Lodovico Epifani, Selvaggio Ghettini, Francesco D’Ambra, Piero Fabrini, Andrea di Chimenti Ticci, Jacopo Marchesetti, Giovanni Cervoni, Angelo Segni, Ventura Strozzi, Lelio Bonsi, Lorenzo Minori, Tommaso Ferrini, Jacopo Baroncelli, Annibale Rinuccini, Giovan Battista Adriani, Nero del Nero, Baccio Bandini, Bernardetto Buonromei, Niccolò Fabbrini, Giova Battista Vecchietti, Galileo Galilei, Jacopo Mazzoni) «permise tuttavia la costituzione di un gruppo sostanzialmente amalgamato e concorde […] non solo nella difesa della lingua […]; ma anche nell’assunzione di un principio unico di ricerca e nell’applicazione, su un esemplare come Dante, del concetto-base di giudizio, l’utile-dulci ragionato e adottato nelle del secondo Cinquecento», cfr. A. Vallone, L’interpretazione di Dante nel Cinquecento. Studi e ricerche, Olschki, Firenze MCMLXIX, pp. 142-143. Tra Toscana e Italia: Dante nel Cinquecento
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nell’Ercolano, pubblicato nel 1570, e che con le Prose della volgar lingua e il Dialogo delle lingue, continua una diatriba di argomento linguistico e stilistico, che approderà a una più aperta polemica antibembiana nei Ragionamenti di Lenzoni, nuovamente concentrato su questioni essenzialmente linguistiche. Varchi occupa, quindi, una posizione mediana, e l’organizzazione del problema linguistico da lui proposta passim nel corso delle sue Lezioni sul Dante, offre un decisivo contributo all’opera dell’Accademia Fiorentina nata, come sostiene Gelli, «per utilità di questa lingua o per dir meglio, usando le parole stesse del nostro Boccaccio nella quarta giornata, di questo nostro Fiorentino volgare».2 E tuttavia, pur aderendo al principio classico della convenientia,3 da lui attribuito meritevolmente a Dante nelle presenti Lezioni, lo scopo di queste lecturae è la formulazione di un giudizio di valore sui contenuti, commentando le materie che il poeta tratta per i lettori dotti e non dotti con l’alternanza di plurilinguismo e componenti della parlata materna. La sua attenzione è diretta all’edificazione del ragionamento e fornisce indicazioni sull’organizzazione dei materiali e sulla vastità degli argomenti della Commedia, che riassumono tutti i problemi terreni, metafisici e teologici del Medioevo, trattati sempre in modo deduttivo e aprioristico, e procedendo da verità prime e assolute a verità particolari e concrete. Si è scelto di prendere in considerazione il corpus di lezioni relative a Paradiso I, in quanto la parafrasi dotta e il continuo parallelo tra lettura letterale e allegorica fanno emergere, in questo luogo più che altrove, il denso conglomerarsi di nozioni filosofiche e teologiche differenti. Anzi, nel ricostruire gli aspetti principali del poema, Varchi pone la teologia in rapporto alle alte attività intellettuali dell’autore, pensandole come un insieme di discipline gerarchicamente ordinate e dirette alla conoscenza di Dio, senza per questo correre il rischio di limitarne, da un punto di vista cristiano, lo spettro di azione. Ritiene che Dante spieghi, difenda ed elabori poeticamente il contenuto dell’annuncio cristiano, ricorrendo agli indirizzi filosofici di Aristotele e Platone che non gli sembrano in contrasto con la dottrina. Così considerato, il linguaggio della filosofia diventa la base su cui il poeta organizza strutturalmente e tematicamente tutta la posizione teologica del Paradiso. Nella Commedia, le concezioni aristoteliche e platoniche, e in minor misura quelle di
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G.B. Gelli, Letture edite e inedite di Giovan Batista Gelli sopra la Commedia di Dante, a cura di C. Negroni, Firenze, Bocca 1887, 2 voll., p. 616. In proposito si veda F. Bruni, Sistemi critici e strutture narrative, in Ricerche sulla cultura fiorentina del Rinascimento, Napoli, Liguori 1969, pp. 1196. 3 Cfr De Vulgari eloquentia, II, I, 8: «Sed optime conceptiones non possunt esse nisi ubi scientia et ingenium est: ergo optima loquela non convenit nisi illis in quibus ingenium e scientia est. Et sic non omnibus versificantibus optima loquela conveniet, cum plerique sine scientia et ingenio versificentur, et per consequens nec optimum vulgare. Quapropter, si non omnibus competit, non omnes ipsum debent uti, quia inconvenienter agere nullus debet». VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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Averroè, svolgono in tal modo una funzione mediatrice tra esistenza e valore teologico, richiamando il concetto divino di un principio primo che va al di là dell’intelligenza e che, nell’ultimo canto, si trasforma alla luce del neoplatonismo ortodosso. Se infatti l’aristotelismo rappresenta uno dei principali campi di indagine del Rinascimento,4 tale profilo è quasi rovesciato quando Dante approfondisce la presenza di Dio nell’interiorità dell’uomo, che è di chiara impostazione platonica. Da questo punto di vista, Varchi ha il merito di mettere a fuoco in quale misura le argomentazioni filosofiche siano propedeutiche all’esposizione delle verità di fede descritte nella Commedia. Conferma così che l’orizzonte filosofico greco, ellenico e orientale è, per Dante, una tradizione in grado di offrire un valido orientamento tematico centrato sull’allegoria dell’anima della tradizione cristiana. Resta tuttavia da indagare quale delle teorie filosofiche e teologiche scelga per descrivere l’atto finale del suo poema. Restando pur sempre un uomo di chiesa, Dante è un teologo cattolico che mette al giusto posto tutte le tendenze volte a esaltare la subordinazione della creatura alla visione beatifica, dimostrando che per il raggiungimento del bene escatologico non esistono separazioni intellettuali, ma solo diversità culturali. Nel rivolgersi a lui («mio duce, signore e mio maestro»),5 Varchi non adopera dittologie e preferisce porre l’accento sulla compresenza, in Dante, di diverse identità tra loro irrelate («non meno teologo e filosofo che poeta»),6 precisando che «in qualunque autore che si piglia a dichiarare, si possono, anzi debbono considerare due cose principalmente: le sentenze, cioè le cose che si scrivono, e le parole colle quali si scrivono esse cose».7 L’interesse che suscita in lui la poesia delle cose presenti nella
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Spetta a Bruno Nardi il merito di aver dato forse il maggior contributo decisivo alla questione. Scrive infatti in L’aristotelismo dalla metà del Quattrocento alla metà del Cinquecento, alla fine dei suoi Studi su Pomponazzi, Le Monnier, Firenze 1965: «Alla metà del Quattrocento l’Aristotelismo domina ancora la cultura europea, e in Italia ha le sue roccaforti in Padova e Bologna, cui s’affiancano Ferrara, Pavia, Perugia e Napoli; e non solo medici e filosofi proclamano la loro fedeltà alla concezione aristotelica della natura, ma perfino i teologi seguaci di S. Tommaso si professano ancora aristotelici, per ciò che concerne la struttura dell’universo, e dell’aristo-telismo fanno il più largo uso nell’illustrazione del dogma. Dirò di più: la concezione aristotelica della natura, nel suo schema fondamentale, s’intravede ancora nello sfondo di opere platoniche del Rinascimento come la Teologia di Marsilio Ficino e i Dialoghi dell’amore di Leone Ebreo», ivi, p. 371. 5 B. Varchi, Sopra il primo canto del Paradiso, in Id., Lezioni sul Dante, Firenze, Società Editrice delle storie del Nardi 1841, pp. 192, d’ora in avanti citato con la sigla SIP, seguita dal numero di pagina. 6 SIP, p. 193. 7 Ibidem. Nel ragionamento fatto intorno al rapporto tra cose e parole, sembra agire la teoria platonica esposta nel Cratilo, che si conclude con l’affermazione: «a me persuade assai queTra Toscana e Italia: Dante nel Cinquecento
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Commedia riguarda prevalentemente quella filosofia il cui fine è il riconoscimento assoluto della Teologia cristiana la quale è necessarissima a volere intendere gli autori cristiani, e massimamente Dante, e massimamente in questa ultima Cantica, dove egli è tutto teologo, servendosi nondimeno della Filosofia sempre e in tutte quelle parti dove ella non discorda dalla Teologia.8
Fatte salve le differenze tra Filosofia e Teologia, l’interrogativo resta: dopo la scrittura dell’Inferno e del Purgatorio, la stesura del Paradiso segue uno schema filosofico aristotelico o platonico? E dal punto di vista teologico si tratta di uno schema tomista o agostiniano? Per quanto la sua trattazione offra più spunti di riflessione che soluzioni definitive, è interessante fin da subito osservare come Varchi sia convinto di proporre una interpretazione quasi pionieristica, ritenendo di essere riuscito a mettere in evidenza il sincretismo culturale dell’autore, sfuggito perfino ai competenti che evitano le contaminazioni tra campi disciplinari solitamente tenuti ben distinti.9 Muovendo da questa persuasione, egli avanza uno studio del primo canto del Paradiso di tipo comparativista, ponendo la filosofia e la teologia dei pensatori pagani a confronto con la filosofia e la teologia di quelli cristiani. Ci si trova dinnanzi a due tipi di discorso portati avanti con eguale enfasi sino alla fine. Il primo interpreta la poesia come una valorizzazione del pensiero di Aristotele; il secondo distingue la filosofia aristotelica sia da quella tomista che da quella agostiniana, il
sta teoria d’una similitudine, per quanto possibile, delle parole con gli oggetti» (Cratilo 435a). L’importanza conferita alla retta corrispondenza delle parole coi concetti richiama quell’idea di convenientia che, in Dante, si configura come scelta insieme estetica e morale e individuata da Varchi nel suo lavoro. Tuttavia questa mimesi platonica, peraltro enunciata anche in Fedro 249e in relazione all’idea del Bello ideale («Bisogna che l’uomo sia capace di assurgere a quella che si chiama un’idea, andando da una molteplicità di sensazioni ad una unità raggiunta col pensiero. Questo è un ricordarsi degli enti che un tempo l’anima nostra ha contemplato, tenendo dietro a un dio, guardando dall’alto le cose che ora diciamo essere, levando il capo verso ciò che veramente è»), non è mai applicata, nella Commedia, al tema della conoscenza come invece accade in Platone. Ecco quindi che Varchi individua giustamente in Aristotele la fonte più accreditata per la mimesi artistica messa in opera da Dante, in quanto essa vuole riprodurre attraverso il sensibile un mondo delle idee che sia sinolo di materia e forma. 8 SIP, pp. 194-195. 9 Precisa Varchi già nel Proemio: «E di tutte queste cose è necessario aver cognizioni almeno in parte a chi vuole interpretare Dante si nell’altre due Cantiche e sì in questa massimamente, e sebbene questo modo d’interpretare non è stato usato né dagli antichi, che io sappia né da′ moderni, nondimeno giudicandolo utilissimo, e desiderando di giovare, mi sforzerò con tutto l’animo d’osservarlo», SIP, p. 195. VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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che dimostra la molteplicità del pensiero dantesco. L’essenziale è, per Varchi, soffermarsi sulle cose filosofiche e culturali più decisive della cantica, perché è in rapporto alla logica e alla fenomenologia di tali cose che è possibile comprendere, nel modo più appropriato, il contributo teorico di Aristotele al percorso gnoseologico del pellegrino. Nell’ottica varchiana, Dante subordina la ratio aristotelica all’auctoritas delle Sacre scritture, ma illumina l’intero assetto dell’universo aristotelico con il divinus radius neoplatonico che penetra e risplende nella prima terzina del canto («La gloria di Colui, che tutto muove, / Per l’universo penetra, e risplende / In una parte più, e meno altrove», Pd I, vv. 1-3). Tuttavia, per quanto le premesse della lectura siano essenzialmente pitagoriche,10 la conclusione resta dichiaratamente aristotelica. Se la differenza sostanziale tra filosofi e teologi è da ravvisare nella adesione alla teoria creazionista ex nihilo, Varchi sostiene invece che la presunta discordanza tra filosofia e teologia si ferma qui. La convinzione che «tutte le cose della luna in giù sono generate e mantenute immediate dai cieli e dalle menti ed Intelligenze loro, e mediate da Dio» è, dunque, una «proposizione non teologica, intesa come avemo detto, ma filosofica».11 La pretesa conciliabilità trova terreno comune nella adesione a una gerarchia puramente aristotelica in sette gradi, dal primo gradino di una scala in discesa che, partendo dalle Intelligenze degli Angeli, incontra via via l’anima razionale degli uomini, l’anima sensitiva degli animali bruti, l’anima vegetativa delle piante, i metalli e le pietre, misti inanimati perfetti, gli agenti atmosferici, misti imperfetti e, infine, i quattro elementi. Ipotizzando questo quadro teorico, Varchi procede alla definizione da attribuire alla teologia del Paradiso, inserendola pur sempre nella grande questione delle verità filosofiche o del maestro Aristotele o del divino Platone. Essa risulta una disci-
10 Fin dal proemio, le premesse pitagoriche e neoplatoniche emergono nella considerazione che il globo è separato in «parte celeste e divina» e in «parte terrena e mondana», e rendendo possibile l’ipotesi che nella descrizione del Paradiso tutte le cose esistano per partecipazione ai numeri «per che Pittagora poneva li princípi de le cose naturali lo pari e lo dispari, considerando tutte le cose esser numero», come già in Conv. XIII, 17. Scrive Varchi: «Dovemo sapere, che come tutti i numeri consistono in indivisibile ed in un punto solo, di maniera che mai non si truovano due numeri i quai siano egualmente distanti dall’unità, fonte e principio di tutti i numeri, così tutte le spezie delle cose consistono in un punto solo ed indivisibile, di maniera che non si truovano mai due spezie le quali siano egualmente distanti dalla prima e vera unità, cioè da Dio, glorioso e sublime fonte e principio di tutti gli enti. E sempre tanto è più nobile ciascuna spezie e più perfetta, quanto ella è meno rimota e lontana dal suo genere più nobile e più perfetto, come altre volte si dichiarerà particolarmente; basti ora sapere così in genere ed in universo, che delle cose quelle sono più nobili e più perfette, che meno si discostano e s’allontanano dal primo e più alto cielo, il quale è nobilissimo e perfettissimo di tutti gli altri», SIP, pp. 190-191. 11 SIP, p. 199.
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plina che, al di là di ogni variazione di contenuti, è vincolata all’ideale di un sapere assoluto e, perciò, è immutabile; tuttavia, dopo aver preso in considerazione le diverse parti della Bibbia, egli dichiara che Dante, nella cantica teologica per eccellenza, non esaurisce la filosofia, piuttosto la trasforma, definendo razionalmente i principi che regolano l’assegnazione delle essenze terrene, ma anche il modo in cui in esse è presente il principio divino, affinché sia giustificabile la loro sottomissione a Dio. Evidenzia l’ipotesi che nel poema la collocazione del cosmologismo entro la prospettiva categoriale aristotelica esasperi i contrasti tra scientia e fides. Rende così chiaro che la provenienza della teologia e della filosofia da una comune matrice crea l’aporia: nel linguaggio poetico del Paradiso esiste il sistema delle formule esplicative della fede dell’autore, un sistema che pone il dogmatismo a fronte del criticismo della scienza. Il modello aristotelico di una filosofia teologicamente competente non riesce a imporsi, perché non può ridurre i contenuti che il poeta trae dalla dottrina biblica e dalla fede cristiana in una organizzazione deduttiva di enunciati apofantici formalmente omologhi a quelli filosofici della Metafisica aristotelica.12 Varchi separa poi il concetto della metafisica come teologia dalla teologia cattolica e mette in evidenza i segni del desiderio intellettuale e spirituale che ha spinto il poeta a scrivere del viaggio oltremondano. Leggendo la seconda terzina, «Nel ciel che più della sua luce prende / fu′ io, e vidi cose che ridire / né sa né può chi di là su discende» (Pd I, 4-6), si comprende che se nelle prime due cantiche la poesia si tingeva della finzione poetica del realismo, qui invece convoglia tutta la metafisica dell’anima nella contemplazione del mistero del Dio cristiano. E dunque, benché la Commedia abbia alla base affermazioni aristoteliche e tomiste cui l’autore fa riferimento (nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu), esse sono ancillari al processo dello spirito e alla funzione educatrice dei sensi che si verificherà nella fase finale dell’opera, quando Dante descrive la visione della Trinità e l’incarnazione («Quella circulazion che si concetta / pareva in te come lume rifles-
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Cfr Aristotele, Metafisica, VI, 1, 1026 10. Scrive il filosofo: «Se c’è qualcosa di eterno, di immobile e di separato, la conoscenza di esso deve appartenere ad una scienza teoretica, ma certamente non alla fisica (che si occupa delle cose in movimento) né alla matematica, bensì ad una scienza che è prima di entrambe […] Solo la scienza prima studia le cose separate ed immobili. Sebbene tutte le prime cause siano eterne, queste cose sono eterne in modo speciale, perché sono le cause di ciò che del divino è accessibile a noi. Di conseguenza. Ci sono tre scienze teoretiche: la matematica, la fisica e la teologia: giacché se il divino è dappertutto esso è specialmente nella natura più alta e la scienza più alta deve avere per oggetto l’essere più alto […] Se non ci fossero altre sostanze oltre quelle fisiche, la fisica sarebbe la scienza prima; ma se c’è una sostanza immobile, essa sarà la sostanza prima e la filosofia la scienza prima; e in quanto prima anche la più universale perché sarà la teoria dell’essere in quanto essere e di ciò che l’essere in quanto essere è o implica». Si veda in proposito quanto sostenuto da Dante nella Epistola a Cangrande, 16. VIII. Italiani della Letteratura: Dante
Per una possibile conciliazione tra filosofia e teologia
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so / dalli occhi miei alquanto circunspetta, / dentro da sé, del suo colore stesso / mi parve pinta della nostra effige; / per che ‘l mio viso in lei tutto era mosso», Pd I, vv. 127-132).13 Nell’atto contemplativo, il piano naturale non viene annullato da quello sovrannaturale, ma subisce una profonda purificazione in vista dell’unione e della divinizzazione dell’anima a cui Dio assegna la grazia. Anche se Varchi intende la lucerna del mondo come grazia illuminante,14 la stessa che ha concesso a Dante, in corpore, di affrontare un itinerario altrimenti consentito alla sola anima, è a un altro testo che viene affidata la conciliazione di quegli opposti filosofici tra cui il commentatore oscilla nell’analisi del canto. Nel suo trattato d’arte, Libro della beltà e grazia, questi due concetti sono affrontati in termini puramente estetici: la grazia rimane un principio immateriale che «non nasce da’ corpi né dalla materia, la quale di sua natura è bruttissima», bensì «dalla forma che le dà tutte le perfezioni che in lei si trovano». Ecco che quando si parla di anima umana, «perché la propria forma dell’uomo è
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La ricerca di premesse autorizzanti nel mondo della filosofia aristotelica è atteggiamento condiviso dagli intellettuali cinquecenteschi. Anche Gelli, che tiene le sue lezioni dantesche all’Accademia fiorentina dal 1541, fa riferimento all’Etica aristotelica prima ancora che ai teologi cristiani, per spiegare la tripartizione tematica nel poema, indugiando in particolar modo sulle «tre maniere del vivere» individuate nel primo libro del filosofo. All’Inferno corrisponderebbe dunque la vita voluttuosa, al Purgatorio quella civile, e infine al Paradiso quella contemplativa, sempre secondo la successiva spiegazione del quinto libro. E in particolare: «La terza vita, chiamata, come noi dicemmo di sopra, dal Filosofo contemplativa, ha ben per fine, come tengono i filosofi, la verità, ma non quella che conobbero eglino; essendo piaciuto alla divina Providenza di ascondere queste cose a’ sapienti, e revelarle a’ parvoli e semplici di cuore. Imperochè la verità della quale intendono eglino, secondo la distinzion data di lei da loro, è una adequazione e un pareggiamento delle cose con l’intelletto, per la quale l’intelletto le intende come elle sono, ed elle non sono altrimenti che come le intende l’intelletto. Ma perché queste son tutte verità particulari, elle non posson mai empiere e saziare interamente il nostro intelletto». Se ne deduce che anche per Gelli, come poi per Varchi, la filosofia aristotelica che dà fondamento all’impostazione poematica è compendiata dagli insegnamenti teologici. 14 Il passaggio dantesco, che ricorre chiaramente al metaforismo solare e all’immagine della ceralacca di derivazione vittorina (Pd I, 37-42), non manca di essere analizzato da Varchi col ricorso a terminologie aristoteliche: «dal movimento e lume del cielo, e massimamente del sole, come agenti universali, si producono quaggiù e generano della materia mondana tutte le cose; e però il cielo è come suggello, cioè agente, e la materia come cera, cioè paziente; e però disse altrove questo medesimo poeta colla medesima similitudine, nell’ottavo Canto di questa Cantica: La circular natura ch’ è suggello / Alla cera mortal ec. E questa è la sposizione letterale. Quanto al senso allegorico potemo dire, secondo alcuni, LA LUCERNA DEL MONDO, cioè la grazia illuminante di Dio; SURGE A’ MORTALI, influisce negl’intelletti ed anime nostre, cioè manda buone spirazioni», SIP, p. 269. Tra Toscana e Italia: Dante nel Cinquecento
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l’anima, dall’anima viene all’uomo tutta quella bellezza che noi chiamiamo grazia, […] la quale non è altro, secondo Platone, che un raggio e splendor del primo bene e somma bontà, la quale penetra e risplende per tutto il mondo in tutte le parte». La grazia promana, quindi, dal sommo bene, che permea un universo mosso da un Primo Fattore. Non a caso, Varchi sostiene che «della quale opinione [di Platone] non è lontana quella sentenza divina d’Aristotele nel primo Cielo, la quale tolse et interpretò divinamente Dante nel principio del Paradiso, quando disse: “La gloria di Colui che tutto muove / Per l’universo penetra e risplende / In una parte più o meno altrove”».15 Ne consegue come il primo canto del Paradiso sia visto dal commentatore non solo come il terreno di conciliazione tra filosofia e teologia cristiana, ma anche come il luogo in cui il poeta compie una rivoluzione della filosofia naturale, sia aristotelica che platonica, perché investe Dio di intelletto e volontà,16 facendogli creare l’universo dal nulla e l’uomo a sua immagine e somiglianza, e scrivendo di Lui come di un’entità d’amore che ordina tutto il creato verso la perfezione finale.
15 Cfr. B. Varchi, Libro della beltà e grazia. Benedetto Varchi al Molto Reverendo et illustrissimo Mons. Leone Orsino Vescovo di Fregius, in Trattati d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, I, Bari 1960, pp. 83-91 e 386-395. 16 Il problema del rapporto fra intelletto e volontà è stato già affrontato da Cristoforo Landino nelle sue Quaestiones Camaldulenses. Non trovando soddisfacente né la posizione intellettualistica né quella esclusivamente volontaristica, l’autore propende per una interrelazione tra le due, per quanto il primato vada sempre alla conoscenza, che consente la piena realizzazione degli uomini, nati «ad recte agendum et ad verum investigandum», Quaest. Camaldulenses, lib. I, p. 3.
VIII. Italiani della Letteratura: Dante
VALENTINA MARTINO Dante nella ‘Difesa della lingua fiorentina e di Dante, con le regole da far bella e numerosa la prosa’1 di Carlo Lenzoni
Quando «la importuna e presta morte, la quale interrompe bene spesso alla maggior parte de’ mortali nel mezo del corso, inaspettatamente ogni disegno»,2 si oppone ai desideri e ai progetti umani, spetta agli amici e collaboratori più cari accogliere il compito di portare avanti il lavoro di chi, com’è piaciuto a Dio, è passato a miglior vita. E così, colui che fra tre amici si ritrova solo, non può dimenticare i due che in vita amò per le loro rare virtù, per le grandi qualità e per l’opera terrena. Chi è sopravvissuto agli altri non può che prendersi cura del loro lavoro, altrimenti destinato a restare incompiuto e sconosciuto, per permettergli di venire alla luce. Bisogna farlo, non solo in onore di chi non c’è più, ma tanto più se la sua opera costituisce un omaggio alla patria. È necessario, poi, mantenere continuità d’intenti e far nascere l’opera in un contesto ben protetto, in cui vi sia chi possa difenderla dai possibili attacchi di chi non ama abbastanza quella stessa patria.
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Per quanto riguarda la presentazione della Difesa, opera spesso nominata ma poco letta, pubblicata a Firenze presso lo stampatore ducale Torrentino nel 1557 (così secondo il colophon; nel frontespizio si legge invece 1556), nonché per le indicazioni bibliografiche in merito all’opera, ai suoi protagonisti e all’Accademia Fiorentina, faccio riferimento al mio articolo La ‘Difesa della lingua fiorentina e di Dante, con le regole da far bella e numerosa la prosa’ di Carlo Lenzoni, di prossima pubblicazione nel «Giornale storico della letteratura italiana». Per la trascrizione dei passi utilizzo l’esemplare conservato nella Biblioteca Universitaria di Padova (collocazione 48.C.66): lo cito come Difesa e indico il numero della pagina direttamente nel testo. Nel trascrivere uniformo alle consuetudini odierne l’uso dell’h, degli apostrofi, degli accenti e della punteggiatura; rendo et con e; riduco le preposizioni articolate all’uso moderno. In questo contributo mi soffermo in modo particolare sulla nascita della Difesa in seno all’Accademia e sul Ragionamento secondo a difesa universale e particulare del divinissimo nostro poeta, Dante Alighieri. 2 Cito dalla lettera dedicatoria premessa da Cosimo Bartoli alla Difesa e rivolta a Cosimo de’ Medici. Tra Toscana e Italia: Dante nel Cinquecento
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Era la fine dell’agosto del 1555 quando il cinquantaduenne Cosimo Bartoli, fiorentino appassionato di disegno, architettura, matematica e musica, nonché di lettere e filosofia, piangeva la morte dell’amico Pierfrancesco Giambullari, anch’egli fiorentino e di soli otto anni più anziano. Il suo più sentito e vivo ricordo si tradusse in un’intesa orazione funebre dedicata all’esegeta dantesco e studioso di grammatica. Un’altra perdita aveva toccato Bartoli quattro anni prima, quando il quasi coetaneo Carlo Lenzoni (1501-1551), anch’egli fiorentino, fortemente partecipe delle vicende pubbliche e culturali della loro città nonché amico comune con Giambullari, morì, rimembrato dalle parole pubbliche di un Cosimo particolarmente toccato.3 Nonostante la dipartita dei due amici, la storia di un importante legame, intriso di interessi culturali nutriti e portati avanti in comune per almeno una quindicina di anni, non era però destinata a finire. Le radici di questo sodalizio affondavano nella Firenze cosimiana degli anni Quaranta, al momento del risveglio della cultura fiorentina, e si nutrivano degli stimoli e delle discussioni nate e sviluppate in seno all’Accademia degli Umidi, alla quale Bartoli e Giambullari furono ammessi il 25 dicembre 1540, poco prima che essa diventasse Accademia Fiorentina per volere di Cosimo I. Mentre Bartoli rivestiva il ruolo principale nella trasformazione dell’Accademia, Lenzoni, che vi fu accolto il 20 gennaio, assisteva all’ampliamento di interessi del gruppo, che affiancava alla vocazione letteraria l’apertura a tutti i settori del sapere. Alla morte, avvenuta una decina di giorni dopo, di Giovanni Norchiati, autore del Trattato de’ diftongi toscani (1539), che con Bartoli e Giambullari voleva porre al centro dell’attività dell’Accademia le lezioni che vi si tenevano, Lenzoni fu chiamato a svolgere il ruolo di aiutante di Bartoli e dei colleghi appena nominati come responsabili dei cambiamenti in corso e dei nuovi statuti che li sancivano. Si stava verificando il processo di trasformazione che ebbe il suo culmine l’undici febbraio 1541: caratteristiche e scopi della nuova associazione vennero ridefiniti alla luce delle osservazioni formulate da Bartoli e Giambullari, particolarmente legati a Cosimo I, gli intenti del quale si sarebbero rispecchiati negli statuti della nascente Accademia Fiorentina. Era la prima volta che il Duca faceva sentire in modo così forte la sua influenza nelle vicende del gruppo di intellettuali. Voleva investire nell’Accademia: essa era una parte dello Stato in grado di agire a livello culturale a Firenze e nell’intera Toscana ed era anche una sede nella quale far confluire le attenzioni e le forze dei giovani distogliendole dalla politica. All’interno dell’Accademia essi avrebbero potuto occuparsi della lingua toscana e dedicarsi al suo sviluppo non solo nell’ambito delle lettere, ma anche della scienza, estendendo i loro interessi a tutti gli ambiti del sapere. Nei progetti di Cosimo I lo studio della lingua e della cultura di
3 L’Orazione di M. Cosimo Bartoli sopra la morte di Carlo Lenzoni. Recitata nella Accademia Fiorentina è riportata al fondo della Difesa.
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Firenze, da diffondere presso tutta la popolazione, era il mezzo per arrivare a costruire uno stato coeso che godesse di prestigio anche agli occhi dei non fiorentini. Dopo aver assunto il nome di Fiorentina il 25 marzo 1451, l’Accademia compì la sua piena trasformazione nel febbraio successivo e diventò sede di lezioni in sedute pubbliche e di confronti in riunioni private. In questo cenacolo i tre amici, Lenzoni, Bartoli e Giambullari furono protagonisti nelle discussioni linguitiche che miravano a dare un posto centrale alla cultura fiorentina. Un segno dell’isolamento della cultura toscana, che andava aumentando, si intravvedeva nel calo del prestigio della Commedia, che i membri dell’Accademia si impegnarono a contrastare, in particolare con una forte presa di posizione in opposizione alle tesi di Bembo che, formulate vent’anni prima nelle Prose della volgar lingua (1525), esprimevano anche giudizi negativi nei confronti di Dante. Sin dal 1541 Cosimo Bartoli e Pierfrancesco Giambullari iniziarono a tenere lezioni su Dante, che sarebbero proseguite rispettivamente sino al 1547 e al 1548. Nel gennaio del 1542 l’Accademia approvò il Commento sopra l’Inferno di Dante di Giambullari e, nel marzo 1546, il suo Gello, dialogo nel quale figurano i personaggi di Giambullari, Gelli e Lenzoni, che verrà ripubblicato nel 1549. Quest’opera, così come il trattato Dell’origine di Firenze di Gelli, artigiano appassionato di Dante e di tutti i settori del sapere necessari a comprenderne l’opera, aveva provato ad avanzare l’infondata tesi dell’origine aramea di Firenze e della sua lingua.4 Nelle sue lezioni Gelli aveva già tessuto gli elogi di Dante, ripresi nei Capricci di Giusto bottaio (1546) e anche da Giambullari, e aveva mostrato la sua profonda ammirazione per il poeta della Commedia, allineandosi con gli intenti di Cosimo I. Gelli, nel suo Commento dantesco, lasciò trasparire i tratti della polemica contro Bembo, che emerge con forza e vivacità nel quarto e, sebbene in parte temperata, nel nono ragionamento dei Capricci. Nonostante i loro affermati propositi e i loro interventi a favore della lingua fiorentina, c’era infatti chi, come Varchi, intellettuale di valore ritornato in patria per volere di Cosimo I, continuava a sostenere la causa di Bembo e ad appoggiarsi sulle sue tesi. Secondo Varchi, addirittura, solamente Bembo poteva avere il merito di essere colui che aveva designato come fiorentina la lingua volgare. La rottura tra Varchi e i fiorentini Gelli, Bartoli, Giambullari e Lenzoni era segnata. Il 20 febbraio 1548 l’Accademia Fiorentina approvò uno scritto che andava a inserirsi in questo contesto in modo molto puntuale: si trattava di un elaborato in cui Lenzoni sosteneva con forza le posizioni dei fiorentini e di Gelli. Questo testo era destinato ad andare oltre lo stadio di documento approvato dall’Accademia: Lenzoni lo riprese e negli anni successivi lo ampliò fino a farne un’opera articolata
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Su questo aspetto vedi M. Pozzi, Mito aramaico-estrusco e potere assoluto a Firenze al tempo di Cosimo I, in Ai confini della letteratura, I, Alessandria, Edizioni dell’Orso 1998, pp. 237-246. Tra Toscana e Italia: Dante nel Cinquecento
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volta a costituire la difesa della lingua fiorentina e di Dante e a presentare un’originale teoria della prosa. Nel frattempo, tra il 1549 e il 1550, Lenzoni, Bartoli e Borghini compivano la revisione linguistica delle Vite degli artisti di Vasari e nel 1550 Bartoli pubblicò la sua traduzione de L’Architettura di Leonbattista Alberti seguita, un anno dopo, dal volgarizzamento Della consolazione della Filosofia di Boezio. E dal 1550 nell’Accademia Fiorentina si intraprese anche un percorso dedicato alla lingua toscana: i riformatori della lingua, radunati in un’apposita commissione il 3 dicembre, iniziarono a occuparsi appositamente del problema del volgare. I presupposti per affrontare la questione risiedevano in quella che era stata la prima e attesissima grammatica della lingua fiorentina, le Regole della lingua fiorentina composte tra 1546 e 1548 da Giambullari,5 che segnarono il momento in cui la cultura toscana iniziò a riappropriarsi della riflessione sulla lingua, fino ad allora in mano a studiosi di area padana e veneta che avevano fatto del fiorentino una lingua letteraria ben distante dalla dimensione parlata che competeva ai Fiorentini. Nel 1551 il Ragionamento sopra le difficultà del mettere in regole la nostra lingua di Gelli pose al centro il fiorentino in quanto lingua che sapeva farsi veicolo di cultura, ancora in pieno accordo con la politica cosimiana. Lenzoni intanto aveva dato alla sua opera la struttura di un dialogo: aveva terminato la difesa del fiorentino, affidandone le argomentazioni al personaggio di Gelli, ed era giunto a redigere quasi metà della difesa di Dante, imperniata sulle osservazioni di un Giambullari le cui posizioni, nella finzione del testo, divengono ancora più marcate. Oltre a dedicarsi alla stesura di queste prime due giornate, Lenzoni aveva portato avanti, sotto forma di appunti, anche la terza, dedicata all’elaborazione delle sue «regole da far bella e numerosa la prosa». Questo articolato lavoro, nato nel contesto di forti sodalizi culturali e in risposta a ben precise posizioni teoriche, rischiò però di non vedere la luce. Furono le pronte mani degli amici Giambullari e Bartoli ad accogliere, alla sua morte, le sue carte. Dopo il 9 giugno 1551, quando Lenzoni fu sepolto in Santa Maria Novella, il manoscritto venne affidato a Giambullari che ne diventò curatore tanto attento da consegnare ai lettori l’intera opera nel rispetto degli intenti dell’autore e, in particolare, anche la terza Giornata senza ritoccarla e ordinandone i frammenti che ripropose nella forma originale. Occupandosi della Difesa, Giambullari voleva anche conservare lo spirito con il quale Lenzoni l’aveva concepita e rimanere a esso fedele. Giambullari vi riuscì già a partire dal momento in cui, riconosciutosi debitore dell’amico defunto, scelse, nel sottolineare il legame fra poesia e pittura, di rinnovarne la dedica a Michelangelo, con il quale Lenzoni aveva intrecciato rapporti di amicizia quando il
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Nel 1552 Bartoli curò l’edizione delle Regole, che comparvero con il titolo Della lingua che si parla e si scrive in Firenze, che possiamo vedere nell’edizione critica a cura di I. Bonomi, Firenze, Presso l’Accademia della Crusca 1986. VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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padre aveva aiutato l’artista nel cantiere di lavoro dei gruppi sepolcrali di Giuliano e Lorenzo de’ Medici e al quale era vicino anche Cosimo I. Giambullari, ricordando che «bisogna che il vivo serva al defunto, e, come tenuto a morire anche egli, lo soccorra sempre e lo aiuti»,6 sembrava quasi presagire quello che sarebbe accaduto da lì a quattro anni quando, in seguito alla propria morte, avvenuta il 24 agosto del 1555, l’opera del Lenzoni avrebbe necessitato di un altro curatore che portasse alla luce l’edizione. Fu Bartoli ad accogliere l’eredità del lavoro e a portare l’opera alle stampe nella Firenze di Cosimo I. Inserì nell’edizione la sua lettera dedicatoria Allo Illustrissimo et eccellentissmo Sig. il S. Cosmo de’ Medici II Duca di Firenze e la sua Orazione sopra la morte di Carlo Lenzoni, nonché la lettera di Giambullari Al virtuosissimo Michelagnolo Buonarroti. Il legame dei tre amici – Lenzoni, Giambullari e Bartoli – poté rivivere sia nel paratesto della Difesa sia nella struttura del dialogo, al cui interno i compagni di Accademia discutono e sostengono le loro tesi di fronte a un interlocutore che non condivide le loro posizioni. Questa è la storia della pubblicazione della Difesa della lingua fiorentina e di Dante, con le regole da far bella e numerosa la prosa di Carlo Lenzoni. Nella Firenze cosimiana, dove Lenzoni aveva ricoperto incarichi di riguardo nelle magistrature e nella Tesoreria locale, si lavorava per consolidare maggiormente il prestigio e la tradizione letteraria di Firenze. La sua opera si inserì nel percorso di continuità che i critici fiorentini, nell’orbita della cultura toscana, cercavano di disegnare attraverso operazioni teoriche volte a difendere e a prolungare le esperienze dantesche. La storia della Difesa si inscriveva fra gli spazi e le dimensioni culturali della corte di Cosimo I e dell’Accademia degli Umidi divenuta Accademia fiorentina e si muoveva sui percorsi del testo manoscritto e di quello a stampa in un itinerario particolare, nel quale la perseveranza degli amici e collaboratori dell’autore giocò un ruolo fondamentale per la pubblicazione dell’edizione, peraltro rimasta unica. L’Accademia fiorentina, ai cui lavori prendevano parte anche repubblicani, prima esuli politici e poi rimpatriati a Firenze come Varchi, era centro culturale in cui si lavorava per arrivare a una nuova codificazione del volgare ed era centro politico in cui si dispievagano le volontà di Cosimo I e i suoi progetti per la formazione dello Stato toscano. La Difesa si inseriva fra le discussioni linguistiche in un preciso rapporto con la costruzione del sapere e con uno dei suoi luoghi di trasmissione per eccellenza: l’Accademia. I suoi membri erano uniti nel porre al centro la lingua madre, il fiorentino, quella lingua della quale solo loro, Fiorentini, erano in grado di definire le regole. Loro intento era anche quello di ribadire l’importanza della componente dell’uso della lingua, elemento che Bembo aveva rifiutato nella sua opposizione tra lingua parlata e tradizione letteraria. Secondo loro non c’era valida proposta, né a livello di toscano né di una lingua cortigiana, che potesse valere altrettanto e, ovviamente, nella loro opinione, i non Fiorentini, proprio come Bembo, non pote-
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Difesa cit., p. 5.
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vano permettersi di pronunciarsi in merito. Eppure, nonostante le loro intenzioni e nonostante l’appoggio di Cosimo, l’Accademia non riuscì ad arrivare all’elaborazione di un grammatica e di una retorica fiorentine. Lo constatò Gelli nel suo Ragionamento sopra le difficultà del mettere in regole la nostra lingua (1552), proprio due anni dopo che l’Accademia si era posta l’intento di elaborare una grammatica attraverso l’istituzione di un’apposita commissione. Firenze non avrebbe elaborato una sua teoria originale, se non fosse stato per la Difesa di Lenzoni. Solo quest’opera riuscì infatti a darci, nella sua terza parte, una nuova teoria della prosa. La Difesa si spingeva ancora oltre, superando la critica rivolta da Dante a Bembo in merito ai contenuti realistici, filosofici e teologici che permeano la Commedia. La Difesa è un documento significativo non solo per il preciso contesto spaziale e temporale nel quale si colloca, ma lo è soprattutto per ciò che in essa Lenzoni riuscì a fare. Egli andò oltre le polemiche di Varchi, portavoce del pensiero bembiano in Firenze e del Dolce e si mosse, in una critica puntuale, oltre Bembo sia per quanto riguarda la lingua fiorentina sia per ciò che concerne Dante. Lenzoni mosse ancora altri passi e si spinse sino alla replica di quanto, circa dieci anni prima, il veneto Bernardino Tomitano aveva sostenuto nei suoi Ragionamenti sulla lingua toscana in merito al suo Dante delle licenze metriche e linguistiche. E ancora una volta, come aveva fatto nei confronti di Bembo, Lenzoni costruì le sue risposte sull’analisi degli elementi formali. Il suo passo ulteriore fu quello di andare oltre a ciò che già c’era in termini di prosa: Lenzoni fu il primo a creare una originale teoria della prosa d’arte e diede la più a coerente trattazione cinquecentesca della lettura formale dei testi in volgare. Inoltre l’originalità di Lenzoni fu nel modo di condurre l’analisi: la lettura dei testi, volta a dare delle puntuali risposte ai giudizi netti di Bembo e a individuare in Dante ciò che gli altri non avevano ancora visto, ha in sé tratti della critica formale. Nella Difesa finalmente Lenzoni costruisce la difesa di Dante sul piano formale e rispondendo a tono agli appunti bembiani, replicando negli stessi termini, senza ricorrere a considerazioni in termini di sapienza, di filosofia o di teologia. Molti a Firenze si erano già impegnati nello studio e nella difesa della Commedia,7 ma avevano per lo più insistito sulla grandezza del contenuto e sulla sapienza di Dante, senza curarsi delle critiche di Bembo – e poi di tanti letterati – che vertevano invece sulla forma e sulla bravura stilistica in cui Petrarca eccelleva, mentre Dante era spesso ritenuto impreciso nella costruzione delle terzine e indotto a forzare la lingua poetica per consentirle di esprimere una materia non adatta alla poesia. Dopo Bembo i letterati avevano insistito sulle licenze di rima, sulla metrica irregolare, sulle parole inventate o stravolte. Lenzoni voleva mostrare ciò di cui si era accorto:
7 Cfr. G. Mazzacurati, Dante nell’Accademia Fiorentina in L’Albero dell’Eden. Dante fra mito e storia, a cura di S. Jossa, Roma, Salerno Editrice 2007, pp. 33-166.
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le licenze che si rimproveravano a Dante erano in realtà frutto della sua abilità e della sua maestria di poeta. Il secondo Ragionamento diventa la sede ideale in cui applicare la tecnica dell’analisi formale alla metrica dantesca per rispondere alle critiche rivolte a Dante. Nella finzione del dialogo, nella parte che Lenzoni portò a termine e sulla quale qui mi soffermo, Giambullari è ben consapevole dell’importante ruolo che ricopre difendendo per la prima volta la lingua e la metrica della Commedia. Dante «non ha bisogno d’essere rispettato, anzi non ha egli pur da tenere altro conto de le morsure de’ vostri grammatici che uno elefante indiano d’una zenzara de’ nostri monti, cagione credo fortissima quanto a noi che nessun fiorentino insino ad oggi ha mai preso la sua difesa» (p. 60). Il personaggio di Giambullari ricorda che la Commedia è ricca di «ammaestramenti» e di «diletti», che ha anche fini didattici, che è una sorta di enciclopedia e di storia locale. Mostra che nel suo poema Dante seguì la maggior parte delle indicazioni fornite da Aristotele nella Poetica, sull’epopeia, cioè sulla «poesia eroica», sebbene egli non avesse avuto modo di conoscere questo testo.8 Il Dante che Giambullari ritrae è il poeta che sa «trattare e ragionare di tutte le cose naturali, umane e divine, mediante i luoghi e le persone che egli introduce non ad ostentazione di dottrina» (p. 49), «che ha cercato con diligenzia le parole proprie. E quando e’ l’ha voluto ritrarre in tutto da l’uso del vulgo e dargli grandezza e maestà, si è servito, secondo le occasioni, de le forestieri, de le translate, de le adorne, de le finte, de le allungate, de le accorciate, de le alterate e insomma di tutte quelle che non son proprie» (p. 50). L’operazione lessicale eseguita da Dante consiste dunque nell’arricchimento della propria lingua effettuato sia per necessità sia per desiderio di ornamento. La disamina di Giambullari prosegue serratamente con l’argomento della «limatura de’ versi e circa la durezza, la asprezza e la mala qualità di molti di loro» (p. 58): essi sono stati concepiti dal poeta, vero imitatore della natura, con estrema attenzione e consapevolezza, e soprattutto «alterando (come si vede) le cesure e gli accenti in vari e diversi modi, e particularmente col tirare, ora uno ora amendue i veri accenti acuti della ottava e della sesta in su la settima sedia, a causa di fargli pronunziare al dicitore, con quelli stessi assetti, accenti, suono e tempo che alla vera pronunzia e azzione naturalmente si conveniva» (p. 58). Si evince come l’abilità di Dante nel creare e nel limare i versi arrivi a toccare il significante sino a farlo aderire al significato. Giambullari, attraverso l’analisi dei versi danteschi, arriva a toccare il problema del «decoro delle parole» e del «decoro del poema»: gli strumenti dell’attenta lettura formale vengono utilizzati sui medesimi versi che erano stati oggetto d’accusa nelle parole di Bembo. Giambullari ripercorre così tutti i terreni sui quali ha appena verbalmente combattuto per la difesa di
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Infatti, sebbene dal Duecento non fosse totalmente sconosciuta, la Poetica ebbe la sua prima traduzione in latino nel 1948, a Venezia e a cura di Giorgio Valla; nel 1508 comparve l’edizione aldina del testo greco. Tra Toscana e Italia: Dante nel Cinquecento
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Dante e ribadisce l’importanza dello studio che se ne fa nell’ambito dell’Accademia: Vedete oramai, Signore, come le calunnie di Dante agevolmente si annullan tutte e come egli, nella elezzione, nel titolo, nella disposizione, nel decoro, nelle parole, nello stile, ne’ versi, nelle comparazioni e in qualsivoglia altra cosa generale o particulare, sì acerbamente stata dannata, apparisce e si mostra sempre poeta non solo accurato, eccellente e magnifico, ma divino e veramente maraviglioso, e come, non ostante che e’ si trovasse nel più orrido secolo, del quale si legghino scritti di questa lingua, in una estrema povertà di buoni autori latini, non che di greci, i quali poco avanti di lui fu tenuto che non si potessero intendere, in 34 anni che e’ visse in patria e in 22 poi dello esilio, nelle infinite avversità di fortuna che egli ebbe, si mostrò tale e si portò di maniera che negli affanni così pubblici come privati, seppe in modo cantar d’amore che per avventura niuno il passa. E nelle tre composizioni non solo di grande spazio si lasciò a dietro tutti que’ che aveano scritto innanzi a lui, ma non è egli stato raggiunto ancora da chi, dietro a le sue pedate, ha cercato poi seguitarlo. Per la qual cosa non vi sia maraviglia se questa Accademia lo celebra e lo onora sopra d’ogn’altro, poi che secondo che avete visto, così merita la sua virtù e la gloria che egli ha guadagnata alla patria nostra, non solo in Toscana ed in tutta, ma dovunque il divinissimo suo Poema, se non in tutto, almanco il parte, vien conosciuto (p. 73).
Lenzoni, che nella seconda Giornata della Difesa supera Bembo attraverso le osservazioni formali delle quali si fa portavoce il personaggio Giambullari, va ancora oltre nell’ultima parte del suo dialogo: riprende le indicazioni del veneziano in merito al rapporto tra prosa classica e moderna, nella quale si possono cercare i tratti distintivi della prima, e identifica il legame tra le norme individuate nei classici e l’opera, non solo di Petrarca e di Boccaccio, ma anche di Dante. Attraverso la terza Giornata risulta ancora più evidente come la Difesa della lingua fiorentina e di Dante sia frutto della ricerca di un fiorentino, membro dell’Accademia, che, dopo aver superato Bembo affrontandolo sul terreno della forma e dopo aver accettato – nonché apprezzato – i vari livelli di registro9 e le parole basse dell’Inferno e del Purgatorio, mostra un Dante maestro di lingua e di retorica. Così, mentre illustra le caratteristiche necessarie ad avere un’arte della prosa e della poesia in volgare, mostra finalmente che la Commedia è un valido esempio di riferimento per una buona forma.
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«Atteso che sì come un vestito reale non può esser tutto d’oro o di gemme preziose, rispetto a lo esser composto di varie cose, alcune delle quali, separate da l’altre, sono regie veramente, alcune mediocri, alcun’altre vile e abiette, e pur tutte insieme fanno il composto regale, così la poesia grande non può esser sempre di cose rarissime, anzi sommamente le è necessario lo avere d’ogni cosa essendo la varietà uno de’ grandi ornamenti che dare se le possino in modo alcuno», Difesa, p. 166. VIII. Italiani della Letteratura: Dante
DANTE E DANTISMI PER IL CENTOCINQUANTENARIO
DAVIDE RUGGERINI Aspetti della fortuna editoriale di Dante nel Risorgimento
Rispetto al Dante «oscuro e barbaro», come era considerato da alcuni letterati del Settecento,1 nell’Italia del Risorgimento il sommo poeta acquistò spiccati caratteri di attualità e di rispondenza alle istanze dei patrioti italiani, divenendo «riferimento simbolico delle aspirazioni civili e identitarie della nazione, di cui fu considerato ideale unificatore dal punto di vista linguistico e politico».2
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Cfr. Dante oscuro e barbaro. Commenti e dispute (secoli XVII e XVIII), a cura di B. Capaci, saggio introduttivo di A. Battistini, Roma, Carocci 2008. Nel Settecento Dante Alighieri è considerato oscuro, irto, propriamente «gotico», come definito da Saverio Bettinelli nelle Lettere virgiliane (1757) che, scrive Petrocchi, «rappresentano l’attacco più spavaldamente aggressivo alla Commedia», cfr. G. Petrocchi, Il Paradiso di Dante, Milano, Rizzoli 1978, p. 32. Occorre, tuttavia, tenere conto che il Settecento vide anche importanti imprese editoriali, come la prima edizione completa delle opere dantesche, La Divina Commedia di Dante Alighieri con varie annotazioni e copiosi rami adornata, Venezia, presso Antonio Zatta 1757-1758, in 4°, voll. 4. 2 N. Sapegno, Disegno storico della letteratura italiana, Firenze, La Nuova Italia 1961, p. 66. Sui processi di costruzione dell’identità nazionale si vedano: il pregevole saggio di I. Porciani: Stato e nazione: l’immagine debole dell’Italia, in Fare gli italiani: scuola e cultura nell’Italia contemporanea, vol. I, a cura di S. Soldani e G. Turi, Bologna, Il Mulino 1995, pp. 385-428; L’identità nazionale nella cultura letteraria italiana, Atti del III Congresso nazionale dell’ADI (Lecce-Otranto, 20-22 settembre 1999), a cura di G. Rizzo, Galatina, Congedo 2001; E. Irace, Itale glorie, Bologna, Il Mulino 2003. Sui rapporti fra mito dantesco e cultura risorgimentale si vedano A. Ciccarelli, Dante and the Culture of Risorgimento. Literary, political or ideological icon?, in Making and remaking Italy, edited by A. R. Ascoli and K. von Henneberg, Oxford, Berg 2001, pp. 77-102.; F. Mazzoni, Il culto di Dante nell’Ottocento e la Società Dantesca Italiana, in Firenze e la lingua italiana fra Nazione ed Europa. Atti del Convegno di Studi. Firenze, 27-28 maggio 2004, a cura di N. Maraschio, Firenze, Firenze University Press 2007, pp. 105-123. Nel 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, il tradizionale ciclo delle Letture Classensi (settembre-ottobre 2011) è stato dedicato al culto di Dante nel Risorgimento italiano. Infine, il 23 e 24 novembre 2011 si è svolto a Dante e dantismi per il Centocinquantenario
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La costruzione del culto dantesco fu veicolata dalle arti più varie, delle quali quella tipografica non è che una fra le più significative, accanto a letteratura, musica, pittura, teatro, scultura e architettura monumentale.3 Un ruolo non secondario svolsero le celebrazioni ufficiali, in occasione del centenario del 1865 nella Firenze capitale, l’istituzione di società dantesche e la creazione di cattedre specificamente dedicate alla filologia e all’ecdotica delle opere del sommo poeta.4 Anche nel settore delle discipline bibliografiche si realizzarono ambiziosi progetti, tuttora considerati validi strumenti di ricerca come la Bibliografia dantesca, pubblicata a partire dagli anni Quaranta, a cura di Paul Colomb De Batines,5 e, alla fine del secolo, quella della Cornell University Library.6 La straordinaria fortuna editoriale di Dante nell’Ottocento si spiega alla luce dei complessi fenomeni di appropriazione ideologica delle vicende della sua biografia e dei contenuti della sua opera da parte delle varie correnti del pensiero politico ottocentesco, analizzati da illustri studiosi del passato – si rimanda in particolare a Mazzoni, Barbi, Vallone, Scotti, Salvemini.7 Tra i contributi più recenti meritano
Firenze il Convegno di Studi Culto e mito di Dante. Dal Risorgimento all’Unità, organizzato a cura della Società Dantesca Italiana. 3 Cfr. Dante Vittorioso. Il mito di Dante nell’Ottocento, a cura di E. Querci, Torino, Allemandi 2011. 4 Sembra che il primo ad ideare una cattedra dantesca sia stato Giulio Perticari agli inizi dell’Ottocento. Cfr. L. Bertuccioli, Memorie intorno alla vita del conte Giulio Perticari, Venezia, Milesi 1823. 5 Bibliografia dantesca, 2 voll., a cura di P. C. De Batines, Prato, Tipografia Aldina 18451846. Seguirono un Indice generale, a cura di A. Bacchi della Lega, Bologna, Romagnoli 1883 e le Giunte e correzioni, a cura di G. Biagi, Firenze, Sansoni 1888. Oggi la Bibliografia dantesca è disponibile anche in edizione anastatica, 3 voll., a cura di S. Zamponi, Roma, Salerno 2008. 6 Catalogue of the Dante collection, presented by W. Fiske, compiled by T. W. Koch, New York 1898-1900, strutturata in Dante’s Works, Works on Dante e una Appendix-Iconography, completata successivamente da una Addenda del 1920. Nonostante risultino pubblicati nel secolo successivo, è opportuno citare anche G. Mambelli, Gli annali delle edizioni dantesche, Bologna, Zanichelli 1931 utili per la ricostruzione della produzione editoriale dantesca nel Risorgimento, sia pure con alcune riserve: «Spesso non à avuto visione diretta delle Opere, à lavorato con bibliografie e cataloghi dei quali, chi à pratica, sa con quanta circospezione bisogna servirsi»: cfr. M. Di Nardo, Dante e Tommaseo, in Studi su Dante, prefazione di G. Galbiati, vol. VI, Milano, Hoepli 1941, p. 272. 7 G. Mazzoni, Dante nell’inizio e nel vigore del Risorgimento, in Almae luces malae cruces, Bologna, Zingarelli 1941, pp. 59-88; M. Barbi, Dante. Vita, opera e fortuna, Firenze, Sansoni 1952; A. Vallone, La critica dantesca nell’Ottocento, Firenze, Olschki 1958; M. Scotti, Dante nel pensiero di Mazzini, in Mazzini e il mazzinianesimo, Atti del XLVI Congresso di Storia del Risorgimento italiano, Roma, I.S.R.I. 1974; G. Salvemini, Dell’amor patrio di Dante, in A. Galante Garrone, Salvemini e Mazzini, Messina-Firenze, G. D’Anna 1981, pp. 410-422. Si veda anche A. Monti, VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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una segnalazione quelli di Fabio Di Giannatale, che spaziano dalla lettura neoghibellina di Foscolo, alla interpretazione moderata di Pellico e di Balbo, alla ricostruzione e all’analisi delle posizioni di intellettuali e scrittori politici italiani in esilio a Londra, a Parigi e a Bruxelles nella prima metà dell’Ottocento, per i quali il poeta rappresentava «il gran padre degli esuli».8 Oltre a Foscolo, nei testi dei maggiori intellettuali del secolo, da Leopardi e Manzoni a Gioberti, Rosmini, Mazzini sino a De Sanctis, le opere del sommo poeta assurgono a fondamento della costruzione culturale e politica dell’Unità nazionale. La sua biografia fu oggetto di numerose trasposizioni letterarie, cariche di valenze etiche, che proliferarono in età romantica e lungo tutto il corso dell’Ottocento,9 non senza deformazioni ed enfasi retoriche,10 in parte denunciate anche agli inizi del secolo successivo.11 Le ragioni ideologiche non bastano, tuttavia, a spiegare la fortuna di Dante nel Risorgimento: è necessario, infatti, considerare anche le innovazioni tecnologiche, introdotte nella produzione editoriale, a partire dagli anni Trenta, che modificarono profondamente i ruoli tradizionali dell’età manuale della stampa,12 con l’emergere di una moderna figura di editore.13
Dante nel Risorgimento, in Studi per Dante, prefazione di N. Zingarelli, vol. III, Milano, Hoepli 1935, pp. 223-249. 8 F. Di Giannatale, Foscolo interprete di Dante, in «Trimestre», XXXV (2002), 4, pp. 411-437; Id., Dante nell’interpretazione di due moderati dell’Ottocento: Silvio Pellico e Cesare Balbo, in «Trimestre», XXXVI (2003), 1-2, pp. 93-109; Id., L’Esule tra gli esuli. Dante e l’emigrazione politica italiana dalla Restaurazione all’Unità, Pescara, Edizioni Scientifiche Abruzzesi 2008. 9 P. Costa, Vita di Dante, Milano, Bettoni 1825, G. B. Fanelli, Vita di Dante raccolta dai migliori eruditi , Pistoia, dalla Tipografia Cino 1837; C. Balbo, Vita di Dante, Torino, Pomba 1839; G. A. Scartazzini, Vita di Dante, Milano, Hoepli 1883. Si veda, inoltre, M. G. Caruso, Io ghibellino esagerato, Lecce, Manni 2010, antologia di brani tratti da romanzi rari, pubblicati tra il 1839 e il 1873, in cui emerge l’immagine di Dante «eroe foscoliano» in epoca risorgimentale. 10 Come afferma Mazzoni: «Giusti nel 1847 scrisse che Dante e l’Italia erano diventati una specie di garofano o di noce moscata per dar sapore alle vivande più sciapite», cfr. G. Mazzoni, Dante nell’Ottocento e nel Novecento, in Dante e il Risorgimento, Milano, Hoepli 1941, p. 7. 11 Cfr. R. Renier, Dantofilia, dantologia, dantomania, in «Il Fanfulla della Domenica», 12 aprile 1903. 12 M. G. Tavoni, Precarietà e fortuna nei mestieri del libro in Italia: dal secolo dei lumi alla Restaurazione, Bologna, Pàtron 2001. Come noto, agli inizi del secolo Lord C. M. Stanhope inventò con il meccanico Walker, il torchio tipografico in ferro che stampava un foglio in un sol colpo. Nel 1810 fu costruita la prima macchina da stampa piano-cilindrica, azionata a vapore, che consentiva la stampa in un formato più ampio e una velocità maggiore. Il torchio meccanico fu utilizzato per la stampa del Times a Londra nel 1814. Fu introdotto in Italia a Torino dall’editore Pomba nel 1830. Negli anni Trenta nacque la cromolitografia e, con la scoperta della fotografia, si realizzarono i primi cliché. 13 Tra i primi studi sugli editori del Risorgimento spiccano quelli su Felice Le Monnier e Dante e dantismi per il Centocinquantenario
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In merito all’attenzione e alla condivisione di interesse per il sommo poeta da parte di editori risorgimentali, si potrebbe fare riferimento alla testimonianza di uno dei suoi più illustri esponenti. Nel 1837 Gaspero Barbèra, non ancora collaboratore dell’editore Le Monnier, osservando a Genova, nella vetrina del libraio Gravier, una raccolta in lingua italiana, stampata a Parigi, intitolata Poeti italiani con una scelta di poesie italiane dal 1200 sino a nostri tempi,14 comprensiva di Dante, Petrarca, Tasso e Ariosto, esclamava: Come! Ci si manda libri stampati a Parigi, che nessuna censura c’impedirebbe di stampare in Italia? Come! Non ci sono editori in Italia, che abbiano coraggio a fare intraprese di esito così sicuro come è la ristampa dei nostri classici? È forse più agevole stampare l’italiano a Parigi che in Italia?15
Queste domande, dal sapore un po’ retorico,16 rivelano come egli avesse presenti le potenzialità di sviluppo editoriale in un settore fertile come quello dei classici italiani nell’Italia risorgimentale. A convalidare la sua intuizione, nel mese di dicembre, usciva, in millecinquecento copie, il commento della Commedia, a cura di Niccolò Tommaseo per il Gondoliere di Venezia.17 Nello stesso anno Felice Le
gli Atti del convegno del 1981 presso il Gabinetto Vieusseux, sugli editori fiorentini del secondo Ottocento, fra i quali Barbèra, Salani, Leo Samuel Olschki. Si veda Editori a Firenze nel secondo ottocento, Atti del Convegno (13-15 novembre 1981). Gabinetto Scientifico Letterario di G.P. Vieusseux, a cura di I. Porciani, prefazione di G. Spadolini, Firenze, Olschki 1983, seguiti dagli studi su Bemporad, Carabba, Pomba e UTET, Sommaruga, Treves, Zanichelli. Si veda anche C. Ceccuti, Le Monnier dal Risorgimento alla repubblica (1837-1987). Centocinquant’anni per la cultura e per la scuola, con introduzione di G. Spadolini, Firenze, Le Monnier 1987. 14 Poeti italiani con una scelta di poesie italiane dal 1200 sino a nostri tempi, a Parigi presso Lefèvre e Baudry 1836, in 16°. 15 G. Barbèra, Memorie di un editore pubblicate dai figli, Firenze, Barbèra 1883, p. 30. Rappresentano una fonte significativa per comprendere le caratteristiche dell’editoria risorgimentale, insieme agli Annali bibliografici e catalogo ragionato delle edizioni di Barbèra, Bianchi e Comp. e di G. Barbèra […] 1854-1880, Firenze, Barbèra 1904. 16 Il rilievo enfatico va ridimensionato se si considera obiettivamente quanto l’editoria italiana aveva prodotto sino ad allora. Le edizioni del testo dantesco erano già numerose: quella milanese della Società dei Classici del 1804, a Pisa di Giovanni Rosini (1804-1809), a Livorno del 1806, a cura di Gaetano Poggiali, e a Brescia, curata dal canonico veronese Giovanni Jacopo Dionisi e stampata da Nicolò Bettoni nel 1810. L’edizione del testo e la riproposizione delle chiose di antichi commentatori ebbero significativi precedenti: l’Ottimo (Pisa, Capurro 1827-1829), Pietro Alighieri (Firenze, Piatti 1845), Benvenuto da Imola (Imola, Galeati 1855-1867); Francesco da Buti (Pisa, Nistri 1858-1862); Jacopo della Lana (Milano, Civelli 1865) e infine l’edizione numerata con il commento di anonimo fiorentino (Bologna, Romagnoli 1866-1874). 17 La Commedia di Dante Allighieri col Comento di N. Tommaseo, Venezia, Co’ tipi del VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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Monnier pubblicava la Commedia, a cura di Giovan Battista Niccolini, Gino Capponi, Giuseppe Borghi e Fruttuoso Becchi, subito esaurita.1Nel 1840 Barbèra fu assunto da Le Monnier, il quale inaugurava, proprio in quell’anno, la sua Biblioteca Nazionale, destinata a svolgere un ruolo rilevante nell’ambito dei processi di costruzione di una coscienza identitaria.19 Scrive Maria Gioia Tavoni: «Barbèra fu, insieme con Le Monnier, l’editore fiorentino la cui formazione venne maggiormente segnata dal lungo, tormentato e generoso processo risorgimentale».20 Dal 1849 al 1863 l’edizione Le Monnier della Commedia con il commento di Brunone Bianchi ebbe ben nove impressioni per un totale di 22.750 esemplari. Le Rime vendettero 14.750 copie.21 A partire dal 1854 Barbèra si mise in società con i fratelli Beniamino e Celestino Bianchi e alle Memorie affidò considerazioni sull’esito delle proprie pubblicazioni, in particolare di quelle dedicate alla Commedia nella Collezione Diamante: «I volumi più fortunati furono i quattro Poeti, la Divina Commedia più di tutti; ricordo non meno di sei edizioni, ognuna a non meno di tremila esemplari».22 E ancora: «Il primo volume della Collezione Diamante fu la Divina Commedia di Dante Alighieri, messa fuori nell’agosto che si esaurì in poco meno di un anno».23 La Collezione Diamante, concepita con lo scopo di raccogliere «i più famosi prosatori e poeti antichi ed anche moderni»,24 ebbe subito notevole successo per la stampa nitida che consentiva una facile e gradevole lettura25 e per la qualità della direzione, affidata al Carducci dal 1858.
Gondoliere 1837. La seconda edizione dello studioso dalmata fu pubblicata a Milano da Francesco Pagnoni nel 1854 La terza uscì in occasione del Centenario, seguita, a distanza di quattro anni, da una ristampa popolare che uscì a dispense. Queste uscirono lentamente, furono eseguite in modo mediocre, accompagnate da disegni che Tommaseo stesso dichiarò «mostruosi». Cfr. M. Di Nardo, Dante e Tommaseo cit., p. 262. 18 La Divina Commedia ridotta a migliore lezione coll’aiuto di vari testi a penna da G. B. Niccolini, G. Capponi, G. Borghi e F. Becchi, Firenze, Le Monnier 1837, in 8°, voll. 2. L’intenzione di questi Accademici della Crusca era quella di ricondurre il testo alla “primitiva originalità”. Si tratta di una delle prime opere di Felice Le Monnier, che pubblicò anche La Divina Commedia di Dante Alighieri, col Comento di Paolo Costa notabilmente accresciuta da B. Bianchi, Firenze, Le Monnier 1844. 19 Cfr. S. Iossa, L’Italia letteraria, Bologna, Il Mulino 2003. 20 M. G. Tavoni, Carducci e Barbèra fra lettere edite e inedite, in Carducci nel suo e nel nostro tempo, a cura di E. Pasquini e V. Roda, Bologna, Bononia University Press 2009, pp.281-292, in part. p.285. 21 Cfr. C. Ceccuti, Le Monnier dal Risorgimento alla repubblica cit., p. 20. 22 G. Barbèra, Memorie cit., p. 127. 23 Ivi, p. 129. 24 Ivi, p. 127. 25 Sulla Collezione Diamante cfr. M. G. Tavoni, Carducci e Barbèra fra lettere edite e inedite, in Dante e dantismi per il Centocinquantenario
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Barbèra fu pronto a cogliere anche le opportunità che l’unificazione italiana e le innovazioni tecnologiche di allora, con particolare riferimento all’utilizzo della stereotipia, offrivano allo sviluppo dell’editoria scolastica:26 Pubblicai inoltre di Pietro Fraticelli il Commento già edito alla Divina Commedia, e ritoccato accuratamente per questa mia edizione […] e dalla prima che pubblicai nell’ottobre [1860]27 non saprei agevolmente dire quante ristampe n’abbia fatte. Dico ristampe e non edizioni, perché dopo la seconda edizione, della quale veramente rifeci la composizione, le altre furono tutte stereotipe; eccellente sistema per poter dare i libri di scuola a poco prezzo, ristampandoli senza lo scomodo e la spesa della ricomposizione tipografica.28
Barbèra fu particolarmente tempestivo: lo studio di Dante nei licei, infatti, venne inserito nei Programmi del 1860 con Regio Decreto 4463 che dava attuazione alla legge Casati29, successivamente estesa, con l’unificazione, a tutta l’Italia, determinando un notevole aumento del commercio del libro scolastico su scala nazionale.30 Nel 1867 Barbèra inaugurava una Nuova Collezione Scolastica secondo i programmi del Ministero della Pubblica Istruzione, che tre anni dopo accoglieva al suo interno una Divina Commedia con il commento di Raffaele Andreoli,31 «napoletano, che incontrò molto il favore dei maestri, perché è veramente il più scolastico fra i commenti».32 Nel 1892 anche la casa editrice fondata da Giulio Cesare Sansoni pubblicava la
Carducci nel suo e nel nostro tempo cit., pp. 281-292, in part. p. 287. La Collezione, predisposta in agili e graziosi contenitori, fu così denominata in analogia con i caratteri tipografici minuscoli utilizzati (carattere mobile corpo 4) e con il formato fra i più piccoli in commercio. Cfr. G. Barbèra, Memorie cit., p. 127 n. 26 Il rapporto fra Dante e l’editoria scolastica, capitolo non secondario della sua fortuna nell’Ottocento, risale almeno alla seconda edizione della Divina Commedia, con il Comento di N. Tommaseo, Milano, Pagnoni 1854, che presentava, alla fine delle note di ciascun canto, piccoli saggi estetici che dovevano servire come esercitazioni per i giovani. 27 La Divina Commedia, col comento di P. Fraticelli, Firenze, Barbèra 1860. 28 G. Barbèra, Memorie cit., p. 172. 29 Regio decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna. 30 Scrive l’editore: «attesoché gran parte d’Italia era liberata dagli Austriaci e dai Borboni di Napoli, io trovo ricordato un notevole aumento di lavorazione in Stamperia», G. Barbèra, Memorie cit., p. 180. 31 La Divina Commedia di Dante Alighieri col comento di R. Andreoli, Firenze, Barbèra 1870. Cfr. R. Di Loreto D’Alfonso, Le carte Barbèra della Biblioteca Nazionale di Firenze, in «Rassegna Storica Toscana», XXVIII (1982), 1, p. 77. Cfr. L. Dalmasso, I programmi nella storia dell’istruzione secondaria italiana (1860-1953), in «Rassegna dell’istruzione media», VIII (1953), 10, pp. 289-300. 32 G. Barbèra, Memorie cit., p. 371. VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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sua Divina Commedia, curata da Tommaso Casini,33 all’interno della Biblioteca scolastica di classici italiani, diretta dal Carducci. Il poeta aveva inviato ai suoi collaboratori alcune raccomandazioni specifiche, in cui sottolineava la necessità di rispettare il rigore filologico nei testi scolastici.34 Sul finire del secolo anche Pascoli offriva il suo originale e magistrale contributo al settore: nell’Introduzione a Epos, l’antologia latina che curò per le superiori, egli ribadiva la necessità che nel nostro Paese, per preservare «la vivida virtù dell’anima italica», gli studenti tenessero sempre a memoria «i libri degli scrittori più grandi delle nostre due gloriose letterature: l’antica di Vergilio, la nuova di Dante».35 Fra l’altro, promise al suo «editore primo», Raffaello Giusti, anche un commento alla Commedia, sempre per le scuole secondarie, purtroppo mai portato a termine. Tra i progetti non realizzati si può ricordare in questo contesto il manuale I diritti e i doveri del cittadino. Libro di lettura per le scuole secondarie inferiori e specialmente per le scuole tecniche che avrebbe dovuto raccogliere estratti da Platone, Dante, Shakespeare, Omero, Virgilio, Hugo, «con grande unità di stile, con molta pulizia di lingua», da destinarsi con ogni verosimiglianza alla notissima «Biblioteca scolastica».36 Oltre al ruolo svolto dalla scuola e dagli editori più avveduti, per comprendere il vigore con cui Dante penetrò, anche attraverso il libro e l’attività editoriale, nell’immaginario degli italiani, è opportuno volgere l’attenzione da un lato alle pubblicazioni illustrate e dall’altro allo sforzo compiuto dalle case editrici nella direzione di una sua più ampia divulgazione popolare. Tra le prime realizzazioni di pregio figura la Divina Commedia in quattro volumi in-folio con 125 incisioni di gusto neoclassico, disegnate da Luigi Ademollo e incise in rame da Giovan Paolo Lasinio, stampata a Firenze dalla tipografia all’insegna dell’Ancora fra 1817 e 1819. La dedica al Canova conferma l’intento di ottenere un’edizione celebrativa monumentale che, sul piano dell’arte tipografica, anticipava le realizzazioni scultoree e pittoriche, in cui trovò espressione il culto dantesco nell’Italia dell’epoca. Notissime, inoltre, sono le incisioni che Paul Gustave Doré elabora per la Divina Commedia, pubblicata dall’editore Hachette tra il 1861 e il 1868, con effetti scenici di notevole impatto espressivo, «attraverso i quali i ragazzi della mia gene-
33 La Divina Commedia, a cura di T. Casini, nuova presentazione di F. Mazzoni, Firenze, Sansoni 1892. 34 G. Carducci, Epistolario, XVII, pp. 47-49, Bologna, Zanichelli 1955. 35 G. Pascoli, Epos, vol. I, Livorno, Tip. Giusti 1897. 36 M. G. Tavoni-P. Tinti, Dal «mio editore primo» a Zanichelli, Bologna, Pàtron 2012. Ringrazio gli autori di avermene consentito la lettura in anteprima. In merito alle antologie italiane, M. G. Tavoni, Da lettere inedite e da paratesti: novità sulle antologie italiane di Giovanni Pascoli, in «Studi e Problemi di Critica testuale», Pisa-Roma, LXXXII (2011), 2, pp. 233-244.
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razione», scriveva Mazzoni, «sentirono Dante innanzi di poterlo leggere e capire».37 L’opera, ristampata più volte da Sonzogno, costituì un vero long-seller editoriale. La straordinaria capacità tecnica e illustrativa, che valse al Doré l’appellativo di «Rubens dell’illustrazione», ebbe il merito di avvicinare il poema di Dante ad un pubblico più ampio, forse meno acculturato, ma certo non meno sensibile alla potenza icastica delle illustrazioni. Nonostante gli editori abbiano cercato di contenerne i costi tipografici, essa non risultò, tuttavia, accessibile se non a pochi cultori e alle istituzioni più accreditate. Nello stesso decennio, in particolare nell’ambito delle feste centenarie di Dante nella Firenze capitale del 1865, vide la luce l’Album dantesco38 che recuperava e rilanciava in altra veste, destinata ad ottenere una più ampia eco, la pregevole versione, cui si è già accennato, realizzata dalla tipografia all’insegna dell’Ancora. Rispetto alle edizioni illustrate, accessibili ad una ristretta élite, avvicinabile da parte di una più larga fascia di fruitori fu la Commedia illustrata nei luoghi e nelle persone,39 uscita a fascicoli a Milano tra il 1896 e il 1897. La distribuzione a dispense consentiva di contenere i costi, ravvicinava i rientri ed era in grado di attirare una clientela meno facoltosa, coinvolta dal fascino delle illustrazioni e fidelizzata grazie ad una politica di riduzione dei prezzi. La formula era già stata sperimentata con successo alcuni anni prima dalla Vita Nuova dell’editore romano Perino il quale, per interessare gli acquirenti e aumentarne la vendita, ne modificò addirittura il titolo in Gli amori di Dante raccontati da lui medesimo.40 La popolarizzazione del testo dantesco aveva avuto un certo impulso a partire dalle celebrazioni del 186541 e le case editrici avvertirono ben presto la necessità di orientare la produzione verso edizioni per un pubblico più ampio, anche attraverso la modulazione dei formati.42 La divulgazione popolare trovò nuovi spazi nelle stampe a largo smercio come cartoline, calendari tascabili, figurine: immagini di rapido consumo e documenti
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G. Mazzoni, Dante nell’Ottocento e nel Novecento cit., p.18. Album dantesco contenente centoventicinque tavole in rame: 44 dell’Inferno, 40 del Purgatorio e 41 del Paradiso, disegnate ed incise da Ademollo, Nenci, Nasello, Masselli ed altri celebri artisti, dedicato al più grand’uomo del secolo Dante Alighieri, Firenze, Giglioni 1865. Le manifestazioni si svolsero a Firenze capitale e decretarono il culto di Dante come vate, nume tutelare dell’Italia. La «Civiltà Cattolica» le criticò, però, aspramente: «La città è è piena d’ornamenti, di tabernacoli, di festoni tricolori, d’archiléi, di trabiccoli, di altarini, che la direste il paese di cuccagna [..]. La minor parte è toccata al popolo», cfr. A. Monti, Dante nel Risorgimento cit., p. 239. 39 Commedia illustrata nei luoghi e nelle persone, a cura di C. Ricci, Milano, Hoepli 1896-97. In tutto 32 fascicoli. 40 Gli amori di Dante raccontati da lui medesimo (Vita Nuova e Canzoniere), Roma, Perino 1888. 41 A titolo di esempio: una rievocazione di Dante nell’opuscolo, Scene della nuova Capitale, Firenze, Tip. Birindelli 1865, in -16°, Strenna per l’anno nuovo di Don Mentore, Torino, Speirani 1865, in -24°, Le grida di dolore del 1859 e del 1865, Firenze, Tip. Fiorentina 1865, in -24°. 38
VIII. Italiani della Letteratura: Dante
Aspetti della fortuna editoriale di Dante nel Risorgimento
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minimali del vivere quotidiano che testimoniano la penetrazione del mito dantesco anche all’interno di classi sociali prima escluse. Verso la fine del secolo si assiste, infatti, all’avvento di varie aziende guidate da imprenditori in grado di recepire il valore promozionale dei più popolari fermenti culturali in atto e che, per eterogenesi dei fini, in qualche misura, concorrevano allo sviluppo di processi identitari. Molto diversificate si presentano così le forme in cui si declina l’editoria in quegli anni: dalle imponenti opere illustrate alle più minute cartoline, alle litografie su scatole di fiammiferi e nei pacchetti di sigarette e a tutta una produzione minore che favorì una vasta diffusione dell’iconografia dantesca. Le immagini di Dante e dei personaggi della Commedia si diffusero nei libri di testo delle scuole, nelle oleografie, nelle cartoline, persino nei calendari dei barbieri, nei segnalibri, sui quaderni e sulle copertine degli album da collezione, sulle scatole dell’industria dolciaria, quali, ad esempio, quelle del Cioccolato-Cacao Costanzo Decri di Genova e sulle confezioni di vari generi alimentari. Verso la fine del secolo, l’industriale veneziano Luigi Baschiera richiedeva alla azienda litografica dei fratelli Doyen di Torino di stampare sulle scatole dei fiammiferi una serie di 32 immagini in cromolitografia a tre colori, riprese dalle illustrazioni in bianco e nero di Doré. Nel mondo contadino e operaio queste «figurine» furono inserite entro piccole cornici ed esposte accanto alle immagini del Sacro Cuore o di Garibaldi, tipiche icone, in cui cominciavano a riconoscersi le classi popolari di allora. La trovata pubblicitaria della Doyen conobbe numerose imitazioni. È opportuno un riferimento anche al concorso Alinari del 1901 per l’illustrazione della Divina Commedia, destinato a segnare un momento importante della fortuna di Dante nel Novecento43 che proseguì con connotati sempre meno elitari e con una diffusione sempre più capillare. Nel 1904 il tipografo Virgilio Alterocca di Terni realizza, con l’aiuto di incisori laziali, una «Galleria dantesca» composta da cento cartoline in fototipia, che riproducevano, in formato minore, altrettante tavole della Divina Commedia Alinari. Si riproponeva così l’intuizione della Doyen: anche coloro che non disponevano di ingenti risorse economiche potevano ripiegare sulle cartoline Alterocca, corredate dei versi essenziali per accedere alle più famose cantiche dantesche. Gli esempi sono numerosi: dalla vita di Dante nelle
42 Si segnalano, a titolo di esempio, l’edizione Sonzogno nella «Biblioteca Classica Economica» del 1873, quella di Padova, in minuscolo formato, dei fratelli Antonio e Luigi Salmin del 1878; a Torino quella della Tipografia Salesiana del 1881; A. de Gubernatis, L’Inferno dichiarato ai giovani di Firenze, Niccolai 1891. 43 Si veda La Commedia dipinta. I concorsi Alinari e il Simbolismo in Toscana, Firenze, Alinari 2002. La Divina Commedia. Nuovamente illustrata da artisti italiani, a cura di V. Alinari, fu edita tra il 1902 e il 1903 dai F.lli Alinari e stampata dai F.lli Landi. Il suo alto costo, però, la rese appannaggio di una ristretta élite.
Dante e dantismi per il Centocinquantenario
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Davide Ruggerini
figurine Liebig, diffuse tra il 1914 e il 1920, alle cartoline delle ditte Alinari, Giusti, Salesiana, Sborgi, sino a quelle disegnate verso gli anni Cinquanta per la Lavazza. Si può, dunque, ritenere che Dante abbia rappresentato una delle prime manifestazioni identitarie dell’Italia unita più popolarmente diffuse fra un numero sempre crescente di italiani. La diffusione editoriale rappresentò uno degli elementi imprescindibili dell’appropriazione culturale da parte della Nazione di uno dei suoi più celebrati pater patriae.1Il fenomeno, che con cautela si potrebbe definire di massa, si protrae fino ai nostri giorni, anche nel mondo del teatro e dello spettacolo.
LA PERCEZIONE DELL’ITALIANITÀ IN DANTE E NEI SUOI INTERPRETI
LUCA CARLO ROSSI La percezione dell’italianità negli antichi commenti alla ‘Commedia’
Intendo qui il termine “italianità” nell’accezione di “senso di appartenenza a una comunità che si riconosce in un’identità culturale e linguistica”. Per sviluppare tale sentimento occorrono, da un lato, modelli di riferimento, che si siano posti coscientemente o siano stati individuati come attori nel processo costitutivo e, dall’altro, serve una volontà di adesione, un progetto culturale che sostenga la diffusione e la penetrazione dei modelli attraverso le azioni dei singoli individui, dei movimenti organizzati, delle istituzioni. Nell’esercizio che propongo mi concentro sul versante più strettamente linguistico dell’italianità, trascurando gli aspetti culturale e politico, pur con esso intrecciati, che porterebbero troppo lontano il discorso, dilatandolo oltre i limiti prefissati. Segnalo solo che il metodo valutativo qui applicato, ossia la misurazione dell’italianità – comunque la si voglia intendere – attraverso i commenti, che funzionano sempre da termometro della temperie culturale della loro epoca e del loro ambito geografico di provenienza, meriterebbe un’applicazione non solo a un singolo autore considerato nel corso della storia (il caso Dante si presta a meraviglia), ma anche su vasta scala, per esempio al canone degli autori fissato in un preciso momento per costruire e saldare la coscienza di un comune patrimonio culturale e linguistico di appartenenza. Dante è (o forse, come spingerebbero a dire certi desolanti episodi della contemporaneità, è stato) uno dei maggiori monumenti esibiti nella costruzione dell’italianità, avendo egli stesso messo in moto il meccanismo della propria assunzione a fondatore di una nuova idea totalizzante di letteratura e di poesia attuata, per l’appunto, nella lingua volgare d’Italia, uno strumento avvertito dai letterati suoi contemporanei come insufficiente all’espressione di alti contenuti sapienziali, privo di una codificazione qualificante. A settecento anni di distanza il poeta è ancora indicato fin dai primi approcci scolastici come il padre della lingua italiana, titolo volto a sottolineare gli elementi di continuità e di persistenza fra il suo italiano e il nostro, tutto sommato superiori ai più vistosi segni di mobilità e di frattura.1 È un La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti
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risultato stupefacente, che va certo oltre le aspettative dello stesso Dante, consapevole della mutevolezza progressiva delle parlate naturali: infatti non si è ancora realizzata quella totale estraneità linguistica fra noi contemporanei e i vestustissimi che egli predicava fra concittadini distanti secoli fra loro (Conv., I 5 9 sia in D.v.e., I 9 7), né la lingua con cui parla la Commedia si è disseccata del tutto.2 La capacità dantesca di plasmare uno strumento linguistico in grado di superare almeno le principali barriere comunicative d’Italia scaturisce come conseguenza del progetto totalizzante della Commedia, punto d’arrivo di un percorso individuale che, precisatosi via via, approda alla convinzione di poter salvare l’uomo dallo stato di miseria e di condurlo alla felicità eterna (secondo quanto il poeta dichiara nell’Epistola a Cangrande), ossia alla contemplazione di Dio, l’Amore perfetto che tutto inchiude. Per realizzare questo disegno più che ambizioso, Dante fa i conti con le culture classica, romanza e scritturale, le assorbe e le trasforma nell’edificio cristiano della Commedia, un testo che si presenta come profetico e sacro, con l’annuncio di eventi eccezionali, un libro-mondo. Egli dissemina i vari tasselli della sua riflessione all’interno di una narrazione vera e propria, in cui i suoi interlocutori ideali compaiono in veste di personaggi o richiamati mediante metonimia. Per rendere operante il suo messaggio, Dante deve “inventare” una nuova lingua letteraria, capace da un lato di eguagliare gli altri volgari europei mediatori di cultura (il francese su tutti), e, dall’altro, in grado di funzionare come mezzo alternativo al latino, lingua artificiale e immutabile, perfetta per i contenuti sapienziali perché garante di una comunicazione sovranazionale e atemporale, di immensa durata. Con l’esperienza diretta dei volgari parlati nelle regioni d’Italia che ha frequentato, prima e soprattutto dopo l’esilio, e con lo studio dei testi volgari, specialmente quelli poetici, a partire dalle rime della scuola federiciana fino a marginali prodotti municipali, come mostra il catalogo esibito nel De vulgari eloquentia, Dante dapprima ravvisa una sostanziale conformità delle diverse parlate, poi teorizza l’esistenza di una sola lingua letteraria per tutta l’Italia (percepibile, come il profumo della pantera, ma invisibile), infine la realizza stanandola dalla «ytalia silva» (D.v.e., I 15 1 e 18 1), con una capacità opportunamente definita demiurgica da Bruno Migliorini3 e profetica senz’altro, ma su basi ben concrete e razionali, profondamente radicata alla contingenza che legava Dante a Bologna.4
1 G.L. Beccaria, Mia lingua italiana. Per i 150 anni dell’unità nazionale, Torino, Einaudi 2011, pp. 13-14, 16-19. 2 Accolgo l’interpretazione di G. Gorni, «Se quella con ch’io parlo non si secca» (Inferno XXXI 139), in Operosa parva per Gianni Antonini, studi raccolti da D. De Robertis e F. Gavazzeni, Verona, Valdonega 1996, pp. 41-46. 3 B. Migliorini, Storia della lingua italiana (1960), introduzione di G. Ghinassi, Firenze, Sansoni 1988, vol. I, pp. 167-180. 4 Si veda l’importantissima edizione commentata del De vulgari eloquentia a cura di M.
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La frammentata e confusa situazione politica dell’Italia nei primi anni dell’esilio dantesco non offriva il migliore terreno perché vi potesse germogliare «la coscienza della sua sostanziale unità culturale, che le avrebbe permesso di accogliere una comune lingua letteraria e civile, più adatta che il latino ad accomunare tutti gli Italiani»; tuttavia Dante, nella sua solitaria avventura intellettuale, sente e rivela questa coscienza, scrivendo la Commedia, il libro nel quale «gli Italiani riconobbero la loro propria lingua riplasmata e sublimata».5 Nel poema Dante ha davvero ottenuto l’impasto teorizzato a proposito del volgare illustre, un volgare destinato in prima battuta alla letteratura e poi ad evolversi nella lingua degli italiani, diventando il vulgare latium nella sua piena esplicazione civile.6 I poeti volgari illustri, spiega D.v.e., I 15 6, pieni di discernimento in fatto di volgari («vulgarium discretione repleti»), hanno il diritto-dovere di allontanarsi dal proprio volgare: in ossequio al principio enunciato, Dante mantiene una sostanziale fedeltà al proprio parlare materno (fedeltà che è fondamento, all’altezza del Purgatorio, della lode di uno dei poeti volgari da lui più ammirati, Arnaut Daniel, che, appunto, «fu miglior fabbro del parlar materno» Purg., XXVI 117), ma con aperture alle altre parlate volgari d’Italia e inserzioni di provenzale e di latino.7 La domanda che mi sono posto è: come hanno reagito i commentatori trecenteschi della Commedia davanti a questa lingua? Anticipo che è impossibile dare una risposta univoca e netta, considerati gli eterogenei fattori concomitanti che entrano in gioco: la specifica finalità e la destinazione di ciascun commento, la competenza del singolo chiosatore, la varietà delle notazioni, gli accidenti della trasmissione, molto spesso attiva più che quiescente, e infine la distribuzione cronologica e geografica, con le sue persistenti incertezze di datazioni, relative e assolute. Si potrà tuttavia isolare qualche tratto di una riflessione magari estemporanea, ma significativa in relazione al rilevante peso specifico della Commedia, il primo testo volgare che provoca un lavorio esegetico fino ad allora riservato ai classici latini e ai testi biblici. Offro pertanto alcuni spunti legati a schedature via via accumulate, in attesa di conferme o di smentite frutto di una mirata rilettura a tappeto dell’intero corpus glossografico dantesco. Prima di verificare l’atteggiamento dei commentatori nei confronti dell’italianità
Tavoni edita in Dante Alighieri, Opere, edizione diretta da M. Santagata, Mondadori, Milano 2011, vol. I, pp. 1065-1547; sulla stretta connessione fra composizione del trattato e le realtà culturali e politiche bolognesi cfr. pp. 1115-1116. 5 Le due citazioni provengono da Migliorini, Storia della lingua italiana cit., p. 168. 6 M. Tavoni, Introduzione alla sua edizione del De vulgari eloquentia cit., p. 1099. 7 G. Nencioni, Il contributo dell’esilio alla lingua di Dante, in Dante e le città dell’esilio. Atti del Convegno internazionale di Ravenna, 11-13 settembre 1987, a cura di G. Di Pino, Ravenna, Longo 1989, pp. 177-198, soprattutto pp. 191-192. La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti
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dantesca, è opportuno riflettere sul loro rapporto con la propria lingua e sulla relazione che questa istaura col volgare di Dante. In via di massima si può affermare che, se è il commento è steso in latino, la destinazione è per un pubblico più acculturato di quello in grado di capire e leggere il volgare, è per un insieme di lettori colti che, grazie alla locutio secundaria diffusa in modo trasversale alla penisola italiana, riescono a meglio familiarizzarsi con una locutio primaria a loro parzialmente lontana.8 Si assiste al rovesciamento della visione dantesca del Convivio (I V 6-15, VI e VII), secondo la quale il commento è servo del testo suo signore e pertanto la lingua del commento a un testo volgare deve essere parimenti volgare, altrimenti si verificherebbe un’intollerabile infrazione gerarchica. Però il latino del commento veicola e in qualche modo facilita l’affermazione del volgare dantesco laddove ci sono difficoltà e resistenze culturali e/o linguistiche, per esempio attraverso la riformulazione e la parafrasi puntuale. Inoltre chi glossa in latino un testo volgare si pone in continuità con una prassi secolare e trae proprio da questa ascendenza la forza per nobilitare di fatto il testo commentato. Chi commenta in volgare la Commedia si pone invece sullo stesso piano del volgare dantesco, in un rapporto paritario, e ciò spiega perché i commentatori toscani di nascita privilegino il loro volgare, probabilmente avvertito come gravitante nell’orbita diretta della lingua dantesca e a essa omogeneo;9 la sola eccezione in questo campo è costituita dal bolognese Iacomo della Lana, che, forte di una fiorente tradizione letteraria locale, usa il proprio volgare in funzione difensiva contro l’affermazione della lingua poetica dantesca,10 in una contrapposizione che sarà risfoderata oltre centocinquant’anni dopo, in un clima culturale profondamente mutato e per questioni squisitamente politiche, da parte di Martino Paolo Nibia.11 8
D’altra parte va precisato che l’uso del volgare non implica un abbassamento del livello di formazione culturale del commentatore e del suo pubblico ideale: infatti Iacomo della Lana applica alla lettura della Commedia il metodo interpretativo riservato alle opere dottrinali e sapienziali, e scrive nel suo volgare bolognese, anche se la sua ampia diffusione è garantita in rimaneggiamenti toscani e in traduzioni-rifacimenti latine. Uno sguardo generale sul commento di Lana e sulla sua tradizione in M. Volpi, Iacomo della Lana, in Censimento dei commenti danteschi. 1. I commenti di tradizione manoscritta (fino al 1480), a cura di E. Malato e A. Mazzucchi, tomo I, Roma, Salerno Editrice 2011, pp. 290-315. 9 Integro qui e sviluppo la notazione di S. Bellomo, Dizionario dei commentatori danteschi. L’esegesi della ‘Commedia’ da Iacopo Alighieri a Nidobeato, Firenze, Olschki 2004 pp. 20-21, secondo cui l’opzione linguistica pare legata non tanto alla cronologia, quanto alla geografia: i commentatori toscani e soprattutto fiorentini scelgono il volgare, mentre gli altri mostrano una certa preferenza per il latino. 10 Per l’antagonismo campanilistico laneo cf. M. Volpi, «Per manifestare polida parladura». La lingua del commento lanèo alla ‘Commedia’ nel ms. Riccardiano-Braidense, Roma, Salerno Editrice 2010, pp. 29-30. 11 L.C. Rossi, Per il commento di Martino Paolo Nibia alla ‘Commedia’, in Filologia umanistica. Per Gianvito Resta, a cura di V. Fera e G. Ferraù, Padova, Antenore 1997, vol. III, pp. 1690-1692. VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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L’opzione linguistica del commento sembra in qualche modo connettersi alla percezione dell’alterità (relativa, s’intende) della lingua dantesca: infatti, se consideriamo l’utilissima tabella di Bellomo,12 su dieci commentatori non toscani,13 solo due, il menzionato Lana e Maramauro, adottano il proprio volgare, mentre i restanti otto ricorrono al latino. Invece oltre un terzo dei quindici esegeti toscani usa il volgare14 e i rimanenti quattro15 scelgono il latino per dare prestigio al poema, ma anche per ragioni contingenti legate ad aree e persone distanti dalla parlata toscana (Pietro Alighieri è attivo fuori di Toscana, a Verona; Guido da Pisa scrive per il genovese Lucano Spinola, suo allievo e dedicatario del commento). A riequilibrare la situazione forse troppo schematica qui delineata provvedono i numerosi travasi dei corredi esegetici dal latino al volgare e viceversa; inoltre gli apparati notulari si mescolano, si frantumano e si confondono a seconda del caso e della necessità. Il fatto è che, una volta entrato in circolazione, un commento assume forme e subisce adattamenti che vanno oltre le intenzioni originarie: il mercato culturale lo plasma e trasforma a seconda delle esigenze del momento, con inattese contaminazioni. Mediante queste operazioni vengono superate le difficoltà di circolazione in Italia dei commenti, testimoniate dal giudice bergamasco Alberico da Rosciate, che così motiva, attorno al 1340, la sua traduzione-adattamento in latino del commento di Iacomo della Lana, scritto originariamente in volgare bolognese: Hunc comentum […] composuit quidam dominus Jacobus de la Lana […] in sermoni vulgari tusco. Et quia tale ydioma non est omnibus notum, ideo ad utilitatem volentium studere in ipsa Comedia transtuli de vulgari tusco in grammaticali scientia litteratorum.16
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S. Bellomo, Dizionario cit., pp. 17-19. Escludo dal conteggio i capitoli riassuntivi, computo singolarmente gli autori di redazioni plurime, considero come singola identità anche gli aggregati di chiose. 13 Graziolo Bambaglioli (Bologna), Anonimo Lombardo (padano, tra Veneto e Lombardia), Anonimo Teologo (padano), Iacomo della Lana (Bologna, attivo tra Bologna e Venezia), Alberico da Rosciate (Bergamo), Chiose Ambrosiane (Romagna), Chiose Filippine (Napoli), Guglielmo Maramauro (Napoli), Benvenuto da Imola (Imola, attivo fra Bologna e Ferrara), Menghino Mezzani (?, Ravenna). 14 Iacopo Alighieri (Firenze, attivo in Romagna), Chiose Berlinesi (Pisa), Chiose Palatine (Firenze), Ottimo commento (Firenze), Chiose Selmi (Siena?), Andrea Lancia (Firenze), Giovanni Boccaccio (Firenze), Falso Boccaccio (Firenze), Francesco da Buti (Pisa), Anonimo Fiorentino (Firenze), Chiose Cagliaritane (Arezzo). 15 Guido da Pisa (Pisa), Pietro Alighieri (Firenze, attivo a Verona), Giovanni (?) da Lucca (Lucca), Filippo Villani (Firenze). 16 M. Petoletti, Alberico da Rosciate lettore della ‘Commedia’, in Maestri e traduttori bergamaschi fra Medioevo e Rinascimento, a cura di C. Villa e F. Lo Monaco, Bergamo, Civica Biblioteca «Angelo Mai» 1998 (supplemento a «Bergomum», vol. XCIII, 1998, nn. 1-2), p. 53. La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti
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Difficile dire perché Alberico definisca toscano il bolognese di Iacomo: le competenze geolinguistiche del notaio bergamasco sono ignote, quindi è forse troppo ottimistico immaginare che egli si riferisse a una versione del Lana fiorentinamente caratterizzata.17 Occorre piuttosto tener conto di una certa elasticità delle indicazioni diatopiche medievali, tanto più che, a detta di Nencioni, molti fatti linguistici cavalcano l’Appennino, accomunando i due opposti versanti, e dunque è possibile lo scambio.18 Ma in modo ancor ancor più semplice credo che Alberico qualifichi genericamente come toscano ogni linguaggio d’Italia che non sia il suo volgare bergamasco.19 È infine interessante notare che, quanto alla consistenza numerica della tradizione manoscritta, si fronteggiano sostanzialmente due commenti integrali scritti uno in volgare e l’altro in latino: rispettivamente quello di Iacomo della Lana, 1324-1328, e quello di Benvenuto da Imola, 1375-1380 ca, considerati anche nei diversi rimaneggiamenti subìti (riduzione a una o due cantiche; adattamenti in lingua diversa dall’originale), interventi tutti che documentano comunque l’affidabilità e l’autorevolezza a lungo assegnata agli autori originari, anche quando la separazione di competenze fra cultura volgare e cultura latina tende ad affievolirsi, e l’italianità è ormai un dato di fatto all’interno della nazione-società, secondo l’espressione coniata da Francesco Bruni.20 Torno a considerare la reazione dei commentatori davanti alla lingua dantesca. Il differenziale linguistico fra lettori e Commedia non è tale da ostacolare il passaggio del testo dantesco, crea però qualche difficoltà circoscritta soprattutto al lessico quando è estraneo alla loro parlata locale. La decifrazione di alcuni rariora verba della Commedia, specie quelli legati ad ambiti materiali (animali, come ramarro; arti e mestieri: maciulla, veggia, chiappa) è un inciampo che, senza inficiare la complessiva operazione esegetica, provoca diversi comportamenti: il commentatore tenta una spiegazione indicando sinonimi locali, anche a integrazione di quelli reperiti in altre chiose dantesche a sua disposizione, oppure, se è sprovvisto di risposta adeguata, non affronta il problema specifico e continua tranquillamente trascurando quanto non è riuscito a intendere in modo compiuto. D’altronde non mancano casi di forte sensibilità interpretativa, che sottolineano il “dialettalismo evocativo” dantesco come elemento caratterizzante di alcuni personaggi: per esempio il fiorentino Ottimo, quando chiosa il verso dedicato all’adulatore lucchese Alessio Interminelli
17
Come fa Volpi, «Per manifestare polida parladura» cit., p. 26 n. 59. G. Nencioni, Il contributo dell’esilio cit., pp. 180-181. 19 Sulla diffusione trecentesca del toscano nella poesia cfr. R. Casapullo, Il Medioevo, Bologna, il Mulino 1999, pp. 235-244, appartenente alla serie Storia della lingua italiana diretta da Francesco Bruni. 20 F. Bruni, Italia. Vita e avventure di un’idea, Bologna, Il Mulino 2010. 18
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(Inf., XVIII 124) «Ed elli allor, battendosi la zucca», osserva: «Qui messer Alessio parla lucchese; ché chiamano il capo zucca dileggiatamente».21 Sotto questo profilo, gli antichi commenti si pongono problemi analoghi ai nostri e rispondono con gli strumenti a loro disposizione, talora imprecisi, ma non per questo infondati. L’assegnazione da parte di alcuni commentatori a questa o a quell’area italiana di parole come mo, issa, barba, co ha valore indiziario non trascurabile, e costituisce una verifica ulteriore alle rilevazioni scientifiche degli atlanti linguistici: tanto è vero che l’uso dei commenti danteschi come serbatoi di tipi lessicali ha avuto un recente incremento, anche grazie alla sensibilità linguistica delle più recenti edizioni filologicamente accertate. Una menzione d’onore va riservata alle numerose ricerche effettuate da Fabrizio Franceschini, che permettono di conoscere da vicino le dinamiche reattive degli antichi esegeti in materia di lessico e di competenze linguistiche,22 alle quali si affiancano degnamente i contributi di Andrea Mazzucchi, concentrato sul versante napoletano,23 e di Matteo Motolese, attento a registrare le reazioni dei commentatori nella percezione della lingua poetica tecnicamente intesa (neoformazioni dantesche, microsintassi, scarti della lingua poetica rispetto a quello che viene di volta in volta percepito come uso normale, note grammaticali).24 In tale prospettiva, sarebbe utile aggiungere un’analisi dettagliata delle parafrasi, praticata con varia sistematicità ed estensione più o meno in tutti i commenti, dal momento che la riformulazione del testo dantesco serve a colmare le difficoltà di comprensione della lettera, a partire dal livello più elementare, e consente di evidenziare differenti interpretazioni fondate sulla decifrazione dei rapporti grammaticali e sintattici (per fare un solo esempio, basta verificare le varie analisi grammaticali di versi come «forse cui Guido vostro ebbe a disdegno») o sulle varianti a disposizione. La parafrasi diventa mediazione comunicativa, soprattutto nei punti più ostici per densità dottrinaria e conseguente innalzamento stilistico. Segnalo in particolare il caso di Guido da Pisa che, pur mostrando una certa sintonia linguistica nei confronti del conterraneo Dante, è il solo ad eseguire una costante e puntuale Deductio textus de vulgari in latino per l’Inferno, la sola cantica da lui glossata,
21
G. Nencioni, Il contributo dell’esilio cit., p. 183. F. Franceschini, Commenti danteschi e geografia linguistica (1998), Tra secolare commento e storia della lingua: «ora», «mo», «issa/istra», «adesso», «avale» (2003), I volgari nelle ‘Glose’ mediolatine di Guido da Pisa (2006), raccolti in Id., Tra secolare commento e storia della lingua. Studi sulla ‘Commedia’ e le antiche glosse, Firenze, Cesati 2008, pp. 157-77, 179-203, 205-35. 23 A. Mazzucchi, Commenti danteschi antichi e lessicografia napoletana, in «Rivista di studi danteschi», VI (2006), pp. 321-370. 24 M. Motolese, Appunti su lingua poetica e prima esegesi della ‘Commedia’, in Studi linguistici per Luca Serianni, a cura di V. Della Valle e P. Trifone, Roma, Salerno Editrice 2007, pp. 401-419. 22
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come esercizio preliminare alla discussione esegetica e da essa separata. Probabilmente Guido, dotato di uno spiccato interesse linguistico per i volgari italiani e anche per altre lingue moderne,25 persegue un intento didascalico per garantire al suo diretto destinatario genovese, il nobile Lucano Spinola, una comprensione del senso letterale passo dopo passo, una sorta di traduzione interlineare delle terzine dantesche. Nel complesso la Commedia considerata dalla specola dei commenti antichi mostra di avere una soglia piuttosto bassa di comprensibilità letterale, soprattutto nelle parti più narrative e discorsive (diverso è il discorso per le sezioni speculative, dove entrano in gioco le competenze culturali, filosofiche e teologiche dei lettori). Con il poema Dante centra davvero il bersaglio di inventare un “italiano” letterario, un volgare illustre, mobile, apertissimo, che funziona trasversalmente lungo la penisola; subisce adattamenti fono-morfologici, puntualmente registrati nei testimoni del poema realizzati nelle varie regioni d’Italia, ma non viene intaccato nella sostanza. L’assenza di precise reazioni da parte degli antichi commentatori davanti all’italianità linguistica non lascia trarre conclusioni certe. Tuttavia si deve notare che l’autorevolezza della Commedia fa sì che presto venga affermata la potenzialità del toscano di essere un volgare che, fra gli altri, si offra come lingua grammaticalmente regolata, stabilita e ampiamente condivisa, sul modello del latino. E dunque con tutte le caratteristiche per imporsi come il volgare d’Italia più adatto alla letteratura, e in particolar modo alla poesia. La precisa affermazione del toscano come lingua della poesia italiana si deve al giudice padovano Antonio da Tempo, che opera in un’area strategica per la prima diffusione della poesia dantesca, e che menziona la Commedia, titolo al quale preferirebbe quello di Tragedia.26 Il suo trattato sulla versificazione volgare, Summa artis rithimici vulgaris dictaminis, in latino ma con esemplificazioni in volgare, è del 1332 e contiene un passo celeberrimo che constata l’eccellenza e la preminenza del toscano sugli altri volgari, nel capitolo finale Quare magis utimur verbis Tuscorum in rithimando. Lo stralcio è ampiamente riportato in tutte le storie letterarie, ma lo si è sempre inteso come un apprezzamento meramente epidermico, un po’ sul modello degli elogi snobistici e politicamente impegnati che Brunetto Latini e Martin da Canal avevano riservato al francese. In realtà, come hanno di recente chiarito Furio Brugnolo e Zeno Lorenzo Verlato, Antonio da Tempo sostiene che il toscano è più “comune”, cioè condiviso e intelligibile, perché partecipa più di altre lingue
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F. Franceschini, I volgari nelle ‘Glose’ mediolatine cit. Sulle perplessità di Antonio da Tempo e di alcuni commentatori danteschi antichi si veda E. Bertin, Briciole di fortuna dantesca tra le carte fiorentine, I. Un’insolita denominazione della ‘Commedia’, in «Rivista di studi danteschi», VIII (2008), pp. 341-345. 26
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della natura stabile e regolata della literatura, ossia della gramatica, cioè del latino, e per questo è più adatta di altre all’uso scritto (se è vero che la “scrivibilità” per eccellenza è quella del latino).27 Circa finem autem huius operis quaeri posset quare magis utimur verbis Tuscorum in huiusmodi rithimis quam aliorum. Et responsio est in promptu: quia lingua Tusca magis apta est ad literam sive literaturam quam aliae linguae, et ideo magis est communis et intelligibilis. Giunti quasi alla conclusione di quest’opera, ci si potrebbe chiedere perché nei componimenti poetici come quelli qui allegati preferiamo usare la lingua toscana piuttosto che qualche altra. E la riposta è immediata: per il fatto che la lingua toscana si conforma più di altre lingue alla norma grammaticale del latino [cioè alla stabilità e alla regolarità del latino], ed è per questo che essa è più condivisa (e condivisibile) e comprensibile.
Fra i commentatori trecenteschi alla Commedia, per quanto ho potuto vedere, il primo a recare tracce di una equivalente consapevolezza circa la letterarietà potenziale ed effettiva del toscano usato da Dante è l’intelligentissimo maestro romagnolo Benvenuto da Imola (il suo Comentum è databile al 1380 circa).28 A Inf., XXIII 76 uno degli ipocriti bolognesi (Catalano o Loderingo) capisce «la parola tosca» di Dante e risponde a tono: Et fingit quod antequam Virgilius responderet unus obtulit se sponte; unde dicit: et un
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F. Brugnolo-Z.L. Verlato, Antonio da Tempo e la «lingua tusca», in La cultura volgare padovana nell’età di Petrarca. Atti del Convegno di Monselice-Padova, 7-8 maggio 2004, a cura di F. Brugnolo e Z.L. Verlato, Padova, Il Poligrafo 2006, pp. 257-300; il testo di Antonio, tratto dall’edizione critica di R. Andrews della Summa (1977), è riportato a p. 258, la traduzione è a p. 295. I due studiosi (pp. 298-300) avanzano anche l’ipotesi che Antonio da Tempo sia giunto a questa tesi attraverso una personale reinterpretazione (se non fraintendimento) del passo del D.v.e., i 10 2, in cui Dante confronta le tre lingue letterarie romanze, e in particolare, seguendo la lezione videtur quando Dante enuncia il secondo e fondamentale privilegio del volgare italiano: «quia magis videtur initi gramatice que comunis est». Sull’opposizione videntur/videtur (nel caso della forma plurale, attestata dalla tradizione manoscritta, soggetto della frase sono i poeti italiani appena nominati; videntur compare nell’edizione Mengaldo) si veda quanto scrive Tavoni nella sua edizione mondadoriana (pp. 1119, 1239-1240), dove accoglie l’emendamento videtur. 28 Sulle varie redazioni dell’esegesi di Benvenuto si veda l’aggiornato medaglione di P. Pasquino, Benvenuto da Imola, in Censimento dei commenti danteschi. 1 cit., pp. 86-120. Cito il Comentum dall’edizione Lacaita (Benvenuti de Rambaldis de Imola Comentum super Dantis Aldigherii Comoediam, a cura di G.F. Lacaita, Firenze, Barbèra 1887, 5 voll.) presente nella banca dati del Dante Dartmouth Project (http://dante.dartmouth.edu/). La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti
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ch’intese la parola tosca, hoc ideo dicit, quia loquela tusca inter alias italicas est maxime cognoscibilis, et quia iste erat bononiensis, et vicinus Florentiae, quae est confinis Bononiae
L’affermazione «loquela tusca inter alias italicas est maxime cognoscibilis» è un riconoscimento del fatto che, soprattutto grazie alla lingua dantesca della Commedia, il seme dell’italianità linguistica piantato da Dante aveva dato il suo frutto. La constatazione della prossimità geografica di Bologna a Firenze, che facilita la conoscenza dei rispettivi volgari, è una spiegazione aggiuntiva particolare che nulla toglie all’asserzione sul toscano come lingua più facilmente conoscibile, anzi rispetta e valorizza la verosimiglianza artistica della scena infernale.29 Certo, una più piena congruenza con l’affermazione di Antonio da Tempo si registra circa un ventennio più tardi nell’asserzione di Filippo Villani, fiorentino doc e particolarmente acuto nelle notazioni linguistiche della sua debordante Expositio al primo canto dell’Inferno («ut ostenderem vicinitatem lingue fiorentine ad gramaticam»),30 tuttavia la glossa di Benvenuto assume rilievo proprio perché proveniente da un romagnolo, che anche altrove sottolinea la superiore proprietà espressiva e la maggior piacevolezza del fiorentino rispetto alle altre parlate d’Italia: quando Farinata riconosce l’accento di Dante, il maestro così commenta (Inf., X 25): «la tua loquela, bene dicit quia nullum loqui est pulcrius aut proprius in Italia quam florentinum». Il fiorentino di cui parla Benvenuto è però una parlata che si è aperta ad accogliere suggestioni esterne e ha perso alcune peculiarità troppo schiette, come si desume da quanto dice riflettendo sul fiorentino antico di Cacciaguida a confronto con quello recente di Dante (a Par., XVI 33) ma non con questa moderna favella, quasi dicat, sed antiqua; quia, ut dictum est in capitulo praecedenti, tempore illius florentini non discurrebant per mundum, nec per consequens dimittebant proprium idioma patriae, sicut nunc multi faciunt. Sed certe quidquid dicatur, florentini qui hodie peregrinantur loquuntur multo pulcrius et ornatius, quam illi qui numquam recesserunt a limine patriae, quia dimittunt multa vocabula inepta, quae sunt Florentiae, et assumunt alia convenientiora.
La sensibilità linguistica di Benvenuto si rivela in queste e altre note disseminate nel Comentum dantesco che meriterebbero di essere estrapolate e studiate nel loro complesso. Importa qui segnalare che, essendo la Commedia l’unico testo volgare commentato dall’auctorista imolese, abituato nei suoi lavori sui classici latini a con-
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Nelle lezioni bolognesi Benvenuto è un po’ meno esplicito sulla comprensibilità generale del fiorentino in Italia: «& unus qui cognoscebat linguam tuscam, que bene cognoscitur (& iste erat unus Bononiensis, qui fuerat in officio Florentie) dixit…», edizione in La ‘Commedia’ di Dante Alighieri col commento inedito di Stefano Talice da Ricaldone, pubblicato per cura di V. Promis e di C. Negroni, Milano, Hoepli 1888², vol. I, p. 318. 30 M. Motolese, Appunti su lingua poetica e prima esegesi cit., pp. 408-409. VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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frontare le strutture del latino con quelle del volgare, non solo mediante il ricorso a termini ed espressioni del volgare ma anche attraverso l’esercizio della costruzione della frase e della parafrasi, esposti in un latino plasmato sulla sottostante parlata romanza, egli si trova anche a riflettere sui rapporti tra il volgare dantesco e il proprio, e a saggiare i livelli di comprensione del poema. In qualche caso Benvenuto è capace di riconoscere errate interpretazioni del testo dantesco da parte dei lombardi causate dall’ignoranza degli usi linguistici toscani: sono notazioni geolinguistiche interessanti, al di là della loro esattezza, perché denotano la consapevole attenzione posta al grado di comprensibilità del testo.31 Benvenuto ha chiaro che esiste un «commune vulgare Italicorum»32 al quale Dante ha dato un apporto individuale formidabile, promuovendolo a strumento letterario duttile e perfezionato, persino superiore al latino se adeguatamente sollecitato: il volgare di Dante non solo ha vinto in eloquenza quello degli altri autori volgari, ma ha toccato vette concettuali e stilistiche che difficilmente altri «viri excellentissimi» avrebbero raggiunto in latino. Ita hic noster Dantes, quamvis in litera non superaverit alios, tamen in vulgari transcendit eloquentiam ceterorum; imo, quod mirabile est, illud quod viri excellentissimi vix literaliter dicere potuissent, hic autor tam subtiliter et obscure sub vulgari eloquio paliavit.33
Se, come si è anticipato, risulta azzardato trarre conclusioni generali, si potrà tuttavia riferire l’impressione complessiva suscitata dalle scarse attestazioni di un pre-sentimento dell’unità linguistica propiziata dalla Commedia. Ed è la seguente: l’antica esegesi dantesca manifesta una bassa percezione cosciente dell’italianità lin-
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Oltre al caso segnalato da Motolese, Appunti su lingua poetica e prima esegesi cit., p. 410, relativo a Inf., I 81, sul differente uso delle proposizioni in fiorentino e in italiano settenrionale (la considerazione, scrive Benvenuto, è necessaria «cum audiverim aliquos Lombardos non intelligentes istum modum loquendi, qui pervertebant sententiam literae»), riporto la glossa a Inf., IX 54 (le Furie gridano: «Mal non vengiammo in Tesëo l’assalto», ed. Petrocchi): «Et hic nota quod istud est vulgare tuscum, non lombardum, unde vidi multos deceptos hic exponentes: mal non vengiamo, idest bene vindicavimus: imo debet exponi per oppositum sic: mal non vengiamo, idest male fecimus quod non vindicavimus in Theseo insultum quem fecit contra nos, et ideo male cessit nobis; et est modus loquendi Tuscorum, quia dicunt, male non fecimus sic». I commenti lombardi criticati da Benvenuto non sono stati identificati da A. De Simoni, «Alii dicunt…». Il rapporto con la tradizione nel ‘Comentum’ di Benvenuto da Imola (Inferno), in «Rivista di studi danteschi», VII (2007), pp. 243-301 (per il primo caso cfr. p. 253 n. 22). 32 A Inf., I 70: «Si etiam loquamur allegorice, dico quod bene dicit, quia secundum commune vulgare Italicorum, et usitatum modum loquendi, omne illud dicitur tardum, quod non venit ad determinatum finem suum, nec consequitur quod petit». 33 Glossa a Inf., I 86-87. Si noti che Benvenuto accoglie l’accezione positiva dei tecnicismi La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti
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guistica presente nel poema, ma documenta per contro un’implicita, effettiva, alta adesione e un assorbimento subliminale di tale italianità. Di fatto la Commedia coagula una lingua letteraria e la diffonde; e in tal senso Dante ha concretamente realizzato quanto aveva cominciato a esprimere prima della Commedia, nel De vulgari eloquentia, ossia l’«esigenza unitaria, di una ideale unità linguistica e letteraria, proposta e richiesta a una reale, frazionata varietà, un’unità insomma che supera, ma nel tempo stesso implica questa varietà», come ha insegnato Carlo Dionisotti.34
subtilitas e obscuritas, qualità che mettono in luce, rispettivamente, l’abilità speculativa e dialettica di Dante, e la forza sintetica della sua poesia, che richiede uno sforzo per essere penetrata. Sui due concetti cfr. F. Bruni, Semantica della sottigliezza, in «Studi medievali», XIX (1978), pp. 1-36, e Obscuritas: retorica e poetica dell’oscuro. Atti del 28. Convegno interuniversitario di Bressanone, 12-15 luglio 2001, a cura di G. Lachin e F. Zambon, presentazione di F. Brugnolo, Trento, Dipartimento di scienze filologiche e storiche 2004. 34 C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana (1951), in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi 1967, p. 35. VIII. Italiani della Letteratura: Dante
DOMENICO D’ARIENZO Da fiorentini sulla questione della lingua: Dante tra ‘De vulgari eloquentia’ e ‘Convivio’
Nel 1302 Dante viene definitivamente «sbandito» da Firenze, la sua patria. Comincia il pellegrinaggio che lo porterà, sempre freneticamente, fino alla ricomposizione degli anni terminali della sua esistenza, «di qua, di là, di giù, di su» per l’Italia. Non che in precedenza il poeta fosse rimasto rintanato tra le mura sempre più ampie della città del Giglio: anzi, proprio in nome della municipalità fiorentina, egli aveva intrapreso il viaggio fatale verso Roma, al giro di secolo; così come occorre non mai dimenticare gli ormai certi «viaggi di studio e aggiornamento» antecedenti il 1300, tra cui quelli, fondamentali, in Bologna: il primo tra il 1286 e il 1287, il secondo, pur molto dibattuto, tra il 1291 e il 1294, ma non certo per concludere il suo «cursus honorum» universitario. Ora, però, un surplus di drammatica energia emotiva lo segue e ne infervora la penna: è l’aspirazione a rientrare che via via s’affievolisce; i cari affetti lasciati in città; il ricordo della stessa Firenze, così prodiga e così avara. Eppure, al suo occhio indagatore, l’inesausta ricerca della verità, di una verità, di una motivazione «ontologica» al tutto, permette una «panottica» visione d’assieme d’un problema che solo marginalmente aveva intravisto ai tempi della Vita Nova e delle Rime fiorentine: la lotta che da decenni oppone Guelfi e Ghibellini sul territorio italiano è solo una bagarre, amara e tragica quanto si vuole, e Dante lo proverà sulla pelle, ancora e ancora, almeno fino alla battaglia della Lastra del 1304, dopo cui «farà parte per se stesso», ma appunto scontro di retrovia, di fronte al ben più grave e impellente e profondo problema della frammentazione delle «Nazioni» italiane, solo marginalmente legato alla divisione in fazioni politiche. Questo intervento non intende affrontare, se non implicitamente, la definizione di quello che s’intende per Nazione all’altezza temporale della composizione del De vulgari eloquentia e del Convivio, concetto ancora in via d’elaborazione, che Dante mostra di intendere essenzialmente come un problema politico; concetto che lascia solo intravedere, nella sua essenza, la singolarità d’ogni popolo, la coscienza della sua unità d’origine e di cultura attraverso il rispetto per le sue proprie tradizioni, La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti
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allo scopo precipuo di mantenere quella gelosa custodia che permette lo svolgimento delle proprie peculiarità, distintive perché opposte o complementari a quelle d’un’altra comunità. Preme piuttosto rimarcare, in questa sede, l’audace idea, prefiguratrice delle migliori teorizzazioni, cinquecentesche prima, ottocentesche poi, che un’ideale unità sociale, per il Nostro comunque di difficile realizzazione se non proprio utopistica, è bensì perseguibile attraverso alcuni gangli, alcuni snodi fondamentali del vivere comune che in andamento armonico procedono dall’alto verso il basso e viceversa: tra di essi, in primis, la lingua condivisa. Tenendo ben fermo che a Dante, in realtà, poco sembrava interessare la concordia tra le genti d’Italia, se non finalizzata alla ben più importante pace imperiale, non si può non rimarcare che il frutto più importante della meditazione «a chiasmo» dei due trattati, rimane appunto la straordinaria intuizione di una «entità» nazionale che può emergere, vivissima, in forza proprio della comune lingua volgare, tenuta ben distinta dall’«artificiale» e fisso latino, da cui pure s’è generato il complesso delle lingue europee. Un passo del VE, a tal proposito, è illuminante, perché fa capire quanto Dante, nel momento in cui si tiene lontano dalla sua feroce polemica antimunicipale, abbia chiara la fondante forza dell’«uso» della lingua come fattore di coesione sociale, primo intellettuale dell’era moderna: Se dunque la lingua cambia entro una stessa gente, […] progressivamente nel tempo, e non può in alcun modo stare ferma, necessariamente cambierà in modi diversi presso genti che abitano separate e distanti, come cambiano in modi diversi costumi e abitudini quando non sono stabilizzati né dalla natura né da un comune vincolo sociale – consortio –, bensì nascono da diverse convenzioni umane aggregate in loco. (VE, I, IX, 10)*
Ne consegue la creazione di una nuova figura, che Dante rivendica con orgoglio: se dall’«homo» è disceso l’«homo civis», come insegnano Aristotele e Tommaso, il fiorentino s’incammina per un sentiero mai battuto da alcuno, rinvenendo l’homo latinus che, in questo caso, è proprio da tradurre con «italiano»; non già come «italico», che ne accentuerebbe erroneamente l’aspetto etnico, valido invece quando si parla dei volgari della Penisola: in quanto agiamo come uomini che sono cittadini, abbiamo la legge, secondo la quale il cittadino si definisce buono o cattivo. In quanto agiamo come uomini che sono italiani, abbiamo alcuni segni semplicissimi e per i costumi e per le abitudini e per il
* Questa e tutte le altre citazioni dal VE s’intendono basate sulla traduzione di Mirko Tavoni, presente in D. Alighieri, Opere, Volume primo (Rime, Vita Nova, De Vulgari Eloquentia), a cura di C. Giunta, G. Gorni, M. Tavoni, con introduzione di M. Santagata, Milano, Mondadori 2011. VIII. Italiani della Letteratura: Dante
Dante tra ‘De vulgari eloquentia’ e ‘Convivio’
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modo di parlare, rispetto ai quali si ponderano e si misurano le azioni italiane: e questi sono i segni più nobili delle azioni che sono degli italiani. (VE, I, XVI, 3)
Mettendo da parte per il momento «i simboli sociali condivisi – altra possibile traduzione del polisemico signa – […] rispetto al modo di parlare», cosa siano i simplicissima signa et morum et habituum è questione difficile da dipanare e non del tutto inerente alla nostra argomentazione; basti tenere fermo, che una prima, larvata forma di «nazionalismo» è ancora lungi dall’irrompere: sarà solo Francesco Petrarca, in cui non si riscontra più un pensiero unitario di natura politica, a chiamare «barbari» tutti i non italiani, nel quadro dell’esaltazione della cultura classica romana. Dante è, piuttosto, totalmente partecipe della concezione universalistica per cui «sacerdotium» e «imperium» sono le due supreme funzioni del mondo, nate per collaborare – beninteso che la seconda è subordinata alla prima –, portando così a compimento l’unità cristiana e romana dell’Occidente, secondo il disegno agostiniano e l’effimera realizzazione carolingia. Tutta la complessa dinamica che conduce alla sovranità degli stati, ugualmente insofferenti dell’autorità imperiale e delle ingerenze ecclesiastiche, è appena intravista dall’exul immeritus, che pure dei fermenti e dei malesseri dell’inizio del secolo XIV diventerà ideale portavoce, attraverso le terzine della Commedia, perché ancora gli manca, e così sarà per buona parte degli intellettuali preumanisti, la percezione piena di un fondamentale fattore aggregativo qual è l’evoluzione storica di un popolo colta nel suo complesso, ad essi difettando il senso della «prospettiva» di una storia comune, se non in funzione mitopoietica. Eppure Dante ha dalla sua la capacità di concepire la forza «biologica» dei volgari, capaci di rimanere stabili nel tempo, così da poter essere fattore indispensabile per la tenuta sociale di una comunità (sub invariabili sermone civicare, «partecipare di una comuna cittadinanza per mezzo di una lingua invariabile», VE, I, IX, 9); ma anche di rinnovarsi e mutare nel tempo, magari grazie ad interventi autorevoli, come vedremo tra poco. Quasi a «raffrenare» queste clamorose intuizioni, però, sta, sul versante politico del suo pensiero, la tenace esaltazione dell’unità culturale dell’Occidente, ristretto geograficamente e persino etnicamente all’Europa centro-sud occidentale, attraverso l’«espunzione» della Grecia e dell’Oriente e gli «acquisti» recenti di Germania, culla dell’«imperium», e Inghilterra, portatrice di una sempre più influente visuale filosofica e culturale, dei cui dictatores illustres egli comunque poco conosce o, quantomeno, niente utilizza quando, in VE II, VI, attraverso un serrato ragionamento deduttivo inerente la forma più alta di costruzione delle frasi, che altrove, nello stesso capitolo, definisce opportunamente «congrua», sceglie esempi provenzali, francesi e italiani, in accordo alla tripartizione, all’interno dell’area romanza, in lingue volgari d’oc, d’oïl e del sì, a ciascuna delle quali corrispondono, per intima natura, diversi modi di produzione artistica, che è parte della macro distinzione europea. Nationes come «gens», dunque per Dante, ma solo in senso etico ed etnico: La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti
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regioni formatesi anticamente e via via stabilizzate o parzialmente modificate; se invece spostiamo il discorso sul piano politico, allora in lui non riusciamo a ritrovare una concezione eminentemente «nazionale», tanto urgente è la figura ideale di un monarca supremo che tutto regoli, allo scopo di preservare la pace. Il vero momento in cui percepisce il carattere distintivo della italianità, cioè, è quando concepisce una comunità di «parlanti», magari in lotta tra di loro per futili campanilismi, ma assolutamente capaci di intendersi e intendere un patrimonio linguistico condiviso. Una breve relazione, questa, che vuole essere una piana riflessione sugli ideali politici di Dante prima e durante la stesura delle due opere teoriche, sospese tra l’amarezza del sempre più certo esilio e l’urgenza della composizione «a pieno regime» della Commedia: proprio per questo, si cercherà di solo lambire la tentazione di rileggerle alla luce del massimo poema o della Monarchia, dimenticando così, come troppo spesso s’è fatto, l’evoluzione nel tempo delle meditazioni dantesche, sempre più volte alla ricerca d’un assoluto di natura primariamente, se non essenzialmente, spirituale. Non intendiamo peraltro entrare nelle annose discussioni che vertono sulle date di composizione dei due trattati, su dove siano stati composti e su quale dei due sia nato prima, limitandoci a fissare come «terminus post quem» il 1303 e «terminus ante» il 1307: il periodo, dunque, e questo sì è importante rimarcare, immediatamente successivo alla condanna a morte del 1302, punteggiato dagli infruttuosi tentativi di rientro in Firenze assieme agli altri fuoriusciti e dalla sofferta accettazione del dato di fatto che un diverso destino da quello che aveva vagheggiato lo attendeva in vita. Come rende Dante questo stato d’animo dimidiato tra la volontà di far parte d’un consesso intellettuale e l’ignoto futuro? Di certo egli sente che nessuno più di lui ha il diritto di scrivere su «come» scrivere; ed è altrettanto vero che l’incipiente stesura della Commedia già gli lasciava intravedere la grandezza del disegno. Ma ai suoi occhi non bastava quella lampante prova, peraltro ancora agli inizi: ecco dunque farsi strada l’idea che occorreva per il volgare una difesa «scientifica», che si dipanasse attraverso due trattati, uno in latino, l’altro proprio in volgare, quale migliore e più consona introduzione per il suo poema. Saranno, quindi, proprio gli studi filosofici, di cui, durante l’itinerarium mentis in deum, se non screditerà, certo livellerà l’importanza, a rappresentare il substrato delle sue argomentazioni. Quegli studi cui s’era dedicato in un primo tempo già dopo la morte di Beatrice; che non aveva tralasciato nei rari momenti di libertà che l’agone politico gli consentiva: ora ad essi chiedeva aiuto e conforto nell’ora più difficile, quella dell’esilio. E premeva a Dante un altro intento, non meno importante: quello di rialzare la sua fama. Col tempo, la sua cacciata da Firenze e le conseguenti peregrinazioni hanno assunto carattere quasi epico, per il lettore distratto della Storia, ma occorre non mai dimenticare che Dante era un essere umano del suo tempo e che l’accusa rivoltagli era gravissima e infamante: egli era tacciato d’essere, senza il VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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bisogno di alcun testimone, «fama publica referente», barattiere, reo d’illeciti guadagni e d’estorsioni, di resistenza al papa, di strenua opposizione alla venuta del suo messo, Carlo di Valois, e agli aiuti chiesti da re Carlo di Sicilia, e come tale condannato in contumacia e proscritto a voce di pubblico banditore. Dante dunque si appresta alla stesura dei due trattati: a quale lettore intende rivolgersi? Lungo e fuori luogo sarebbe disquisire sulla differenza tra il lettore empirico, qualsiasi lettore colto nella sua individualità, fatta di conoscenze e proprie aspettative, e il lettore modello, il lettore-tipo che il testo, ogni testo, praticamente chiama a collaborare e parimenti cerca di creare, secondo quelli che sono i modelli già mirabilmente tracciati da Umberto Eco o Gérard Genette, per fare solo due illustri esempi tra i tanti possibili; eppure, alcune brevi indicazioni di massima le possiamo trarre dalle parole che lo stesso Dante utilizza all’inizio dei suoi discorsi teorici, affermando preliminarmente che le due figure, al di là delle apparenze, sembrano quasi convergere in una che, come nella straordinaria «agnizione» dell’ultimo canto del Paradiso, si rivela essere lo specchio dello stesso poeta. Se lo sconfinato universo di lettori cui Dante si rivolge con la Commedia è quello della posterità, il lettore empirico del VE e del Convivio, suo contemporaneo, fortemente interessato ad una espressione linguistica precipua e diversa dal latino che unisca le genti d’Italia, ma in una prospettiva «nobilitante», sa bene che, come dice Aristotele, «la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade», che abbia avuto o meno l’opportunità di sedere alla beata mensa «dove lo pane de li angeli si manuca» (Cv, I, I; 7, tratto dal Salmo, LXXVII, 25). Colui che ha potuto dedicare la vita agli studi, il lettore-tipo del VE, dunque, si troverà fianco a fianco con chi, preso «da la cura familiare e civile» oppure perché ha vissuto in luogo «da gente studiosa lontano», non ha goduto di questa perfezione, rimanendo nel contempo con «la umana fame» di sapere; ma poiché, per ineffabile disegno divino, «ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch’elli ama» (Cv, I, I, 8), sarà proprio Dante, che pure di quella mensa può raccogliere solo le briciole e ben comprende «la misera vita» di chi è intento ai pubblici uffici, alla vita di tutti i giorni, alle varie professioni, ad accollarsi l’onere e l’onore di soddisfarne il bisogno di conoscenza. Ed ecco crearsi un ponte tra il côté colto dei lettori-tipo danteschi, d’altro canto anche lo sviluppo ragionativo appena richiamato dell’incipit del Convivio è basato su due stringenti sillogismi e sulla serrata concatenazione di premesse maggiori, minori e conclusione, e quelli appartenenti ad un ceto di media cultura, cui Dante ricorda d’essersi già rivolto ai tempi della Vita Nova (Cv, I, I, 16), in accordo a quell’inesausto dialogo con l’altro da sé che, a fianco della sublime fattura versificatoria della Commedia, fa del corpus dantesco preso nella sua interezza, il più prezioso tesoro della letteratura mondiale d’ogni tempo. Nessun uso del latino, con costoro, sebbene nel primo trattato, con una contraddizione che è comunque tipica di questa fase del suo pensiero, Dante sottolinei La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti
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la maggiore nobiltà e la maggiore capacità espressiva del latino, rispetto al volgare: già, ma a rispetto a quale volgare, se nel primo libro del VE, si ritrova perfettamente rovesciata la tesi del Convivio? Per rendere più efficaci le sue meditazioni sulla migliore forma possibile di governo imperiale e sulla lingua comune degli italiani, pure intraprese nel contemporaneo VE – e, per inciso, più penetrante la forza d’urto del «sacrato poema» –, sarà d’obbligo dunque l’uso di un volgare «illustre, aulico, cardinale, curiale» che, da tanti cercato come una pantera dall’alito aulentissimo, parafraso qui le ben note parole di VE I, XVI, 1, è in realtà il «suo» volgare, quello delle sue canzoni dottrinali, assolutamente consono ormai ad essere usato anche come lingua filosofica, proprio perché da lui stesso «illustrato». Seppur giustificatissime filologicamente e necessarie, insomma, le «impossibili» ricerche su quale dei due trattati sia nato prima, da un punto di vista contenutistico nulla potranno aggiungere alla constatazione che queste sono opere gemelle forse composte, e sospese persino, parallelamente; preparatorie da un lato della Monarchia ma, soprattutto, delle terzine della Commedia: versi così cogenti da indurre uno spirito tanto volto alla simmetria e all’amor di perfezione a lasciare VE e Convivio, appunto, non finiti. Questo lettore «creato» da Dante, dunque, divide con lui anzitutto una «sospetta» conoscenza geografica del territorio europeo, derivata dal libro I delle Historiae adversum paganos di Paolo Orosio, il discepolo di Agostino immortalato nel canto X del Paradiso («Ne l’altra piccioletta luce ride / quello avvocato de’ tempi cristiani / del cui latino Agustin si provide», vv. 118-120); «problematica» all’occhio moderno, ma indubitabilmente chiara e concisa per i tempi del fiorentino, tanto da influire in modo decisivo sulla cartografia dell’epoca, quantomeno su quella dell’aria meridionale d’Europa, comprendente proprio Spagna, Francia e Italia, le zone linguistico-geografiche su cui più si diffonde il VE. Per amor di completezza, si deve comunque ricordare che per molto tempo s’è ritenuto che Paolo Orosio e Isidoro di Siviglia, vissuto circa un secolo e mezzo dopo, avessero realizzato mappe specifiche, piuttosto dettagliate, derivate dai prototipi classici, Erodoto, Plinio il Vecchio, naturalmente Tolomeo, per illustrare i propri testi geografici, cosa che oggi è messa fortemente in discussione. Sembra infatti più probabile che nel corso dei secoli i copisti abbiano prodotto versioni molto semplificate e sempre più fraintendenti delle antiche mappe d’epoca classica, per illustrare gli scritti, comunque molto simili, di Orosio e Isidoro, senza tener conto della corrispondenza precisa tra il contesto della mappa e il contenuto dei testi stessi. È proprio attraverso questa partizione geografica che il passo del VE relativo alla distribuzione geografica degli idiomi d’oc, d’oïl e del sì nell’Europa meridionale diventa più chiaro, soprattutto per gli ambiti assegnati alla lingua del sì. Perché degna di nota è la vaghezza dei contorni territoriali delle tre aree linguistiche scaturite dallo «spegnimento», a causa della blasfema costruzione della Torre di Babele, della lingua perfetta con la quale Adamo aveva parlato a Dio che, per VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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inciso, era una lingua determinata, l’ebraico, e non il principio generale strutturante della lingua, ovvero la regola soggiacente ad ogni lingua naturale. Ad oriente, dunque, troviamo la lingua greca, che interessa «una porzione dell’Asia e una porzione dell’Europa» (VE, I, VIII, 2); a settentrione l’indistinto mondo germanico, dove si sovrappongono «Schiavoni, Ungari, Tedeschi, Sàssoni, Inglesi e molte altre nazioni» e dove «tutti dicono jo», voce che corrisponde all’odierno tedesco ja e che è ancora presente in alcuni idiomi scandinavi; «tutto il resto d’Europa – inferisce Dante – […] tenne un terzo idioma […] ora [al presente, scil.] tripartito (tripharium)»: solo se si tiene presente, insomma, quella accentuata rotazione antioraria che tanto deformava il profilo cartografico del nostro territorio nazionale, si comprende perché la Francia viene considerata a sud rispetto alle regioni germaniche, col conseguente retaggio linguistico che la affratella a Spagna e Italia, secondo uno schema diffusivo logicamente inattaccabile. (Foto 1) Nulla ci impedisce di pensare che queste divisioni linguistiche Dante le facesse avendo dinanzi una raffigurazione cartografica, soprattutto quando sottilizza che i parlanti in lingua d’oïl sono press’a poco – quodam modo – settentrionali, rispetto a quelli di lingua d’oc, che tengono la parte occidentale della bassa Europa, la Linguadoca, nell’attuale Francia meridionale, a partire dai confini dei Genovesi, a Januensium finibus incipientes; e a quelli del sì, che ne occupano la parte orientale: il territorio del sì è, pertanto, circoscritto dai limiti continentali che segnano il principio e il semicerchio delle Alpi: a ovest dai fines Januensium e a nord dalla devexio Apennini, che sia questo «il declivio» o «l’arco» delle Alpi Pennine, così come, verso SE., si fissano solo se si discende l’intera Penisola e arrivano al «corno d’Ausonia» (Pd., VIII, 61): «vale a dire – sono ancora parole del VE – sino a quel promontorio d’Italia dal quale incomincia l’insenatura del mare Adriatico» e, ancora, in perfetta corrispondenza con esso, «fino alla Sicilia»: Dante ha qui in mente, senza ombra di dubbio Plinio il Vecchio e Pomponio Mela, che già avevano parlato di duo cornua. Quale raffigurazione dell’Italia, allora, si presentava ai suoi occhi e a quelli dei suoi contemporanei? Quella di una Penisola, anzitutto, decisamente orientata da NW. a SE., attraverso l’anomalo stiramento in direzione est-ovest della porzione centro-settentrionale e la torsione in senso nord-sud della porzione meridionale, come si può vedere nella seconda foto, in cui si sovrappone all’Italia «tolemaica», in verde, che Dante comunque non conosceva, il più corretto profilo cartografico ancor oggi utilizzato; un’Italia che presenta il sinus Hadriaticus e il mare Tyrrhenum, queste e le prossime sono espressioni già di Orosio, rispettivamente secondo i punti cardinali, l’uno a borea e l’altro ab africo che, con il deciso spostamento prospettico in senso antiorario di cui abbiamo detto, corrispondono in Dante alla «sinistra» e alla «destra», a «settentrione» e a «mezzogiorno»: ecco perché egli divide l’Italia «in destra e in sinistra», appunto, secondo una linea di demarcazione segnata dallo iugum Apenini; «lo dosso d’Italia» di Pg. XXX, 86, che, secondo un immagine mutuata dalla Pharsalia di Lucano:
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come un colmo di tetto spiove di qua e di là a diverse grondaie e per l’una e l’altra parte distilla le acque […] a diversi siti […] e il lato destro ha come scolatoio, canale di scarico, «grundatorium», il mar Tirreno, mentre il lato sinistro versa nell’Adriatico» (VE, I, X, 6)
Per Dante, infatti, in accordo ad Orosio, i mari d’Italia sono il Tirreno e l’Adriatico, che si estende fino all’oriente di Sicilia, non il Mar Ionio, che mai menziona. L’Appenino che egli tanto bene conobbe, nel corso degli ultimi diciannove anni della sua vita, divide, oltreché le acque, anche le genti d’Italia e i loro linguaggi; è anzi la base, il fondamento stesso dell’etnografia linguistica del VE. A ulteriore integrazione di queste nozioni geografiche relative all’Italia, sta la perfetta descrizione, proprio a commento del passo del Paradiso summenzionato, che di essa fa Benvenuto da Imola (1338-1388), il precoce e interessantissimo commentatore dantesco della seconda metà del Trecento, che col poeta fiorentino divise un analogo sistema di valori culturali, oltreché la triste sorte dell’esilio: la Penisola è sì longa et stricta in modum navis – quindi, all’osservazione frontale, praticamente orizzontale –; essa, inoltre, a meridie per longum habet Thyrrhenum, a septentrione mare Adriaticum, ab oriente pharum Messanense, ab occidente autem clauditur altis montibus, qui dividunt eam a Gallia et Germania; ma, se la si guarda meglio, conclude Benvenuto attraverso il ricorso ad una «ricordanza» petrarchesca (Lettera a Luchino Visconti del 1347) e forse attraverso il supporto delle più precise carte marine che Dante non conosceva, est similis tibiae hominis cum tota coxa et pede. (Foto 3, in cui è riprodotta una carta geografica della seconda metà del Quattrocento) Per il poeta fiorentino, più in particolare, il territorio italiano, inteso nel senso della geografia politica del tempo e delimitato in qualche modo dalle sue stesse precoci peregrinazioni, si configura sì come regione naturale, ma ancor più come macro-regione linguistica: la terra del sì, che sta tra fines Januensium e devexio Apenini, distendendosi fino a duo cornua meridionali. Anche in questo senso, comunque, e forse proprio per l’importanza attribuita alla dorsale appenninica, numerosi restano i suoi distinguo, come la non inclusione dei volgari delle città troppo vicine ai confini d’Italia, segnatamente Trento, Torino e Alessandria perché, secondo un ragionamento sconcertante quanto logicamente stringente, «se pure avessero un volgare bellissimo – pulcerrimum –, in luogo di quello osceno – turpissimum – che si ritrovano, dovremmo comunque negare che sia volgare italico, a causa della commistione con i volgari stranieri» (VE, I, XV, 7). O quella di Corsica e Sardegna, perché «i Sardi, […] non sono italici ma agli Italici sembrano doversi accompagnare», essendo addirittura «privi di un loro proprio volgare» (VE, I, XI, 7). Italia come regione fisica, linguistica eppure non politica, perché per forza di paradosso impossibilitata al raggiungimento di una unità d’intenti proprio per la forza centrifuga dei diversi centri di potere che s’erano andati formando nei due secoli precedenti. VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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Questo accadeva perché, nel XIII secolo, se in Europa ogni comune, si pensi ad esempio alle città imperiali tedesche o ai grandi comuni proto-borghesi delle Fiandre, puntava al massimo di autogoverno essenzialmente entro le proprie mura, costruendo una mobile coesistenza col rappresentante locale del potere costituito, messo imperiale o autorità vescovile che fosse, nella nostra Penisola – e in parte nella Francia meridionale –, le grandi famiglie che avevano dato origine ai comuni, secondo una dinamica sociale prodromica del Rinascimento, cioè di un’epoca affatto diversa, e proprio per questo fortemente avversata da Dante, «laudator temporis acti» che dalla maggior parte di esse fu cavallerescamente ospitato negli anni dell’esilio, tendevano a sviluppare nuclei di potere di sempre maggiore forza propulsiva, attraverso il frequente ricorso ad una politica aggressiva nei confronti delle autorità imperiali e papali presenti sul territorio, oltreché dei comuni limitanei: tra l’uno e l’altro paradigma, insomma, si marca la differenza tra comune e città-Stato, che contraddistinguerà il XIV secolo. Dante, in conclusione, si rivolge sì all’Italia quale culla dell’Impero, ma all’Italia sola, non ai letterati del resto d’Europa, che avrebbero certo compreso un testo in latino, ma non l’essenza delle canzoni e della sua poesia; non agli stessi Italiani, parola che, come sostantivo denominale esemplato sul modello «Sicilia-siciliano», aveva fatto la sua timida comparsa da soli settant’anni, nel nostro volgare. Volto a questo altissimo scopo, egli decide di difendere strenuamente le ragioni della sua lingua madre, «dono di grandissimi benefici» (Cv, I, XIII, 2), veicolo comunicativo in grado di garantire quantomeno un «afflato» nazionale in consorzi civili capaci di battagliare anche per poche spanne di linea di confine: che l’Italia ricordi d’essere il cuore pulsante dell’Impero, però; il luogo da cui tutto è nato, così da garantirsi un futuro politico degno e soprattutto, e questo è il vero lascito dantesco, una autonomia culturale, questa sì, Nazionale. Senza una lingua comune, fatta non solo di comunicazione verbale ma anche d’espressione scritta, che rappresenti, codifichi, unisca e rafforzi i legami tra le genti d’Italia, questa aspirazione è destinata a rimanere tale. Da cosa sono affetti, se non da «pusillanimità», «li malvagi uomini d’Italia», «li abominevoli cattivi d’Italia che hanno a vile questo prezioso volgare», «lo volgare italico» (Cv, I, XI), che mentre depotenziano la loro lingua non s’accorgono di frustrare ogni possibile armonia politica? Forse occorrerà attendere ancora a lungo, opina Dante, prima che tutti s’accorgano che la lingua di tutti gli italiani «sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce» (Cv, I, XIII, 12), mettendo finalmente in condizione un’intera nazione, non più divisa tra letterati e illetterati, di godere opere d’alto pensiero, di godere una comune letteratura. Occorre anzitutto cercarlo, questo inestimabile tesoro; ma egli sa dove trovarlo: nel primo libro del VE, messosi alla ricerca del migliore dei volgari italiani, al termine di quella cavalcata a tratti schiettamente divertita tra «i boschi e i pascoli La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti
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d’Italia», dove egli ben sapeva non esservi (VE, I, XVI, 1), con un repentino balzo, Dante si eleva a vette altissime, prefigurando la lingua che parlerà l’homo latinus, che sarà, come detto, simplicissimum signum locutionis: simplicissimum, dunque nobilissimo, proprio perché nella sua essenza, riconduce ai tratti linguistici basilari e comuni all’Italia e solo ad essa; pur sempre signum, obiettivo ideale, in quanto segnacolo che sostanzia il carattere distintivo della italianità attraverso la lingua comune, adatta alla più alta poesia, illustre sotto tutti gli aspetti. Questa lingua, e gli altri signa, non sono propri di nessuna città d’Italia, e sono invece comuni a tutte: e fra essi si può ora discernere quel volgare a cui sopra davamo la caccia, che spande il suo profumo in ogni città e non dimora in nessuna. […] Dunque, avendo raggiunto ciò che cercavamo, definiamo volgare illustre, cardinale, aulico e curiale in Italia quello che è di ogni città d’Italia e non sembra essere di nessuna, e con il quale tutti i volgari municipali degli italiani si misurano, si soppesano e si confrontano. (VE, I, XVI, 4; 6)
Dante ha tracciato il profilo suo e della sua magmatica lingua: chi, se non lui, appartiene a tutti senza essere di nessuno? Chi, se non lui, è la pietra di paragone di settecento anni di letteratura? Il volgare illustre auspicato nel VE è già realtà vivissima, talmente funzionale da essere in grado di esprimere ardui passaggi filosofici nelle pagine del Convivio, dopo aver dato prova delle sue qualità poetiche nei delicati frammenti della Vita Nova. Con queste due opere, unite inestricabilmente, Dante ha inteso dare inizio alla storia della letteratura italiana, unendo sotto una sola insegna il complesso dei volgari municipali. Con queste parole, egli si erge consapevolmente a padre della letteratura degli italiani.
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Figura 3 La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti
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PIERANGELA IZZI Memoria della ‘Commedia’ nei ‘Sonetti’ del Burchiello
Petrarca e Burchiello piacevole, che per sonetti han cotanta memoria l’un per dir bene e l’altro dilettevole1 […] quando vogliam leggere un sonetto, il Petrarca e ’l Burchiello n’han più di cento, che ragionan d’amore e di dispetto (LXIII, 12-14).2
Se il connubio Petrarca-Burchiello,3 in quanto auctoritates, rispettivamente per la poesia lirica e per quella comica, risulta essere ormai consolidato nella tradizione letteraria quattro-cinquecentesca, come si evince chiaramente dalle rime del Sommariva e del Berni, non meno diffusa è la pratica degli scrittori di citare esplicitamente nei loro versi il Dante della poesia burlesca: S’i’ avessi l’ingegno del Burchiello,
1
Il sonetto si legge nel ms. Udinese Ottelio, 10, c. 270v, trascritto in Introduzione a Burchiello, Sonetti inediti, raccolti ed ordinati da M. Messina, Firenze, Olschki 1952. 2 F. Berni, Rime, a cura di D. Romei, Milano, Mursia 1985. 3 G. Belloni, Burchiello, Domenico Giovanni, detto il, nella ristampa, del 1994, del Dizionario critico della Letteratura Italiana, Torino, Utet 1974, I; S. Carrai, Domenico di Giovanni, detto il Burchiello, in Letteratura italiana. Dizionario bio-bibliografico e indici, Torino, Einaudi 1990, XL; L. Boschetto, Un documento sul soggiorno del Burchiello a Roma, in «Nuova rivista di letteratura italiana», I (1998), 1, pp. 271-275; Id., Burchiello e il suo ambiente sociale: esplorazioni d’archivio sugli anni fiorentini, in M. Zaccarello, La fantasia fuor de’ confini. Burchiello e dintorni a 550 anni dalla morte (1449-1999), Atti del Convegno (Firenze, 26 novembre 1999), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2002, pp. 35-54. La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti
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io vi farei volentieri un sonetto, ché non ebbi già mai tema e subietto più dolce, più piacevol né più bello
(LVIII, 1-4).4
Altri gli attribuiscono arbitrariamente modi di dire, facezie e racconti: Chi crederebbe mai che questo arlotto, disse il Burchiello, così me incatenasse5 Mosè ci fu; ma quando vidde il mare, fuggissi, come nel Burchiello è scritto, lassandoci una legge singulare.6
Giungono persino a considerarlo «quarta corona poetica volgare»7 della nostra letteratura, secondo il topos da lui stesso istituito nel sonetto CLXXVII: S’Amore e Carità suo fuoco accese Dante cantare e tristi e lieti regni et a noi noti fare e nostri ingegni sempre Calïopè gliel condiscese. E se ’l Petrarca alle leggiadre imprese puose mano alla penna et ire e sdegni faccendo i versi suoi sí dolci e degni, nulla Elicona mai dir gli contese. Nostro Boccaccio che fingendo a caso dona al suo edïoma tal diletto, quel gli promisse il fonte di Parnaso. Ma quel Burchiel che Cloto n’ha or tolto, chi ne concesse al suo dolce intelletto canto, riso e piacere in gioco vòlto?
4 5
(1-14).8
F. Berni, Rime cit. E. Pèrcopo, I sonetti faceti di Antonio Cammelli, Napoli, Jovene 1908, CXXXVII, vv. 5-6, p.
174. 6 A. Doni, Dell’Orsilago, vv. 31-33, in Id., I Marmi, a cura di E. Chiòrboli, 2 voll., Bari, Laterza 1928, I, p. 119. 7 Introduzione a I sonetti del Burchiello, a cura di M. Zaccarello, Torino, Einaudi 2004, p. VIII. 8 Questa citazione, così come tutte le altre, è tratta dall’edizione Einaudi de I sonetti del Bruchiello, che riproduce, per gentile concessione della Commissione bolognese per i testi di lingua, l’edizione critica curata da Zaccarello nel 2000. Si fa presente che nelle citazioni si è adoperato il corsivo per evidenziare i casi di analogie e corrispondenze che sono stati poi illustrati nel corso del lavoro.
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«Anima inquieta di artista, che d’amore visse, amore per la patria sua bella, amore per l’arte sua della quale si servì per canzonare, per deridere, per ridere, per amare»,9 così Burchiello viene presentato al pubblico milanese nell’opera teatrale in quattro atti,10 ideata da Anna Franchi11 e messa in scena il 12 maggio 1911, come il Dante comico. Ed è proprio ai rapporti intertestuali che si instaurano tra il poema dell’Alighieri e il corpus burchiellesco, una raccolta di 223 testi ascrivibili in parte all’area tematica comico-realistica e in parte alla tecnica versificatoria «alla burchia»,12 che intendo dedicare questo mio contributo. Mi propongo di esaminare, necessariamente per campioni, i principali echi di Dante nei Sonetti del Burchiello al fine di definirne meglio le diverse forme di ricezione e i vari livelli di assimilazione, sia in ambito tematico sia in ambito stilistico, e di mostrare, così, in quale misura e con quale frequenza l’autore, anche e soprattutto nella prospettiva dell’italianità linguistica, abbia inserito nei suoi «Sonetti» ingredienti attinti alla Commedia.13 La presenza di dantismi nell’opera del Burchiello è ormai un dato acquisito nella critica più recente. Studiosi del livello di Michelangelo Zaccarello14 – al quale
9
Prefazione al Burchiello. Quattro atti, Milano, Libreria Editrice Milanese 1912, p. XXI. Sulla recensione dello spettacolo cfr. G. Crimi, Burchiello e le sue metamorfosi: personaggio e maschera, in Auctor/Actor. Lo scrittore personaggio nella letteratura italiana, a cura di G. Corabi e B. Gizzi, Roma, Bulzoni 2006, p. 111, n. 69. 11 Si vedano E.M. Fusco, Scrittori e idee. Dizionario critico della letteratura italiana, Torino, Società Editrice Internazionale 1956; Dizionario generale degli autori contemporanei, 2 voll. Firenze, Vallecchi 1974, I, p. 538. 12 Emilio Pasquini (Letteratura popolareggiante, comica e giocosa, lirica minore e narrativa volgare del Quattrocento, in Storia della letteratura italiana. Il Quattrocento, Roma, Salerno 1996, pp. 803-911: 828) la definisce «una scomposizione della realtà nei suoi elementi e una loro ricomposizione in una realtà diversa, tra visionaria e onirica». Cfr. M. Zaccarello, Burchiello e i burchielleschi. Appunti sulla codificazione e sulla fortuna del sonetto «alla burchia», in Gli irregolari nella letteratura, Atti del Convegno di Catania (31 ottobre-2 novembre 2005), Roma, Salerno 2007. 13 Sui rapporti tra Dante e il secolo XV cfr. C. Dionisotti, Dante nel Quattrocento, Atti del Congresso Internazionale di Studi Danteschi (20-27 aprile 1965), Firenze, Sansoni 1965, I, pp. 333-378; G. Resta, Dante nel Quattrocento, in Dante nel pensiero e nella esegesi dei secoli XIV e XV, Atti del Convegno di Studi realizzato dal Comune di Melfi (27-2 ottobre 1970), Firenze, Olschki 1975, pp. 71-91; qui anche alle pp. 449-470 T. Pisanti, Dante nell’Europa del Trecento e Quattrocento; F. Tateo, Dante fra latino e volgare nel Quattrocento, in Dante nei secoli. Momenti ed esempi di ricezione, a cura di D. Cofano, Foggia, Edizioni del Rosone 2006, pp. 39-57. 14 La fantasia fuor de’ confini. Burchiello e dintorni a 550 anni dalla morte (1449-1999), Atti del Convegno (Firenze, 26 novembre 1999) cit.; M. Zaccarello, Schede esegetiche per l’enigma di Burchiello, ivi, pp. 1-34; I sonetti del Burchiello cit. 10
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si deve il merito di aver allestito l’edizione della vulgata quattrocentesca delle poesie15 dopo aver opportunamente provveduto ad emendarla e corredarla di apparato delle varianti16 – e di Giuseppe Crimi,17 che ha condotto una scrupolosa indagine sulla tradizione e sulla fortuna burchiellesche, hanno già segnalato il fenomeno, catalogando una serie di rimandi danteschi. Dal preliminare scrutinio di questi studi, largamente integrato dalla ricognizione che ora ripropongo, è emerso un regesto alquanto significativo, riconducibile sostanzialmente a due categorie: la memoria tematica e la memoria testuale. Se da un lato il Burchiello non esita a riproporre, anche mediante l’impiego di sinonimi e di associazioni mentali, temi o immagini desunti dal repertorio della Commedia, è pur vero che dall’altro intreccia una fitta rete di corrispondenze formali, siano esse lessicali siano esse sintattiche, con il testo dell’Alighieri. All’interno di queste due dimensioni si è tentato di modulare il grado di intensità attraverso il quale i dantismi entrano a far parte della raccolta burchiellesca, ora in modo esplicito ora in modo velato, tramite procedimenti di deminutio e di variato, che oscillano tra la riduzione del prestito e la rielaborazione del modello. In primo luogo mi soffermerò sulla memorabilità testuale di grado zero, che «consiste nei richiami riflessi, ovvero nell’utilizzazione di un lessico che compare sì in Dante, ma è di uso generalizzato, non distintivo e non accompagnato […] da particolari segnali di ordine metrico o sintattico che lo possano rendere significativo».18 A titolo esemplificativo rinvio al lessema compagna, con il significato di compagnia: 15
Si tratta dell’incunabolo fiorentino edito il 24 novembre 1481 da Francesco di Dino cartolaio. 16 I sonetti del Burchiello, ed. critica della vulgata quattrocentesca a cura di M. Zaccarello, Bologna, Commissione per i testi di lingua 2000. Sull’edizione si vedano C. Segre, Burchiello: il barbiere che giocava con le parole, in «Corriere della Sera», 29 dicembre 2000; M. Berisso, La poesia del Quattrocento, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, La tradizione dei testi, coordinato da C. Ciociola, Roma, Salerno 2001, X, pp. 524-526; E. Garavelli, Recensione a I sonetti del Burchiello, in «Neuphilologische Mitteilungen», CII (2001), 4, pp. 487-490; M. Marti, Recensione a I sonetti del Burchiello, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CLXXVIII (2001), pp. 289-294; G. Masi, Filologia ed erudizione nel commento del Doni alle ‘Rime’ del Burchiello, in Cum notibusse et comentaribusse. L’esegesi parodistica e giocosa del Cinquecento, Seminario di Letteratura Italiana, Viterbo, 23-24 novembre 2001, a cura di A. Corsaro e P. Procaccioli, Manziana, Vecchiarelli 2002, pp. 147-172; M. Malavasi, Burchiello a Roma e l’«Arca di Noè», in Studi di Italianistica per Maria Teresa Acquaro Graziosi, a cura di M. Savini, presentazione di F. Sabatini, Roma, Aracne 2002, pp. 239-257. 17 G. Crimi, Noterelle burchielleshce, in «La Cultura», XL (2002), 1, pp. 109-119; Id., Ispirazione proverbiale, polisemia e lessico criptico nei sonetti del Burchiello, in Studi di Italianistica per Maria Teresa Acquaro Graziosi cit., pp. 69-93; Id., L’oscura lingua e il parlar sottile. Tradizione e fortuna del Burchiello, Manziana, Vecchiarelli 2005. 18 E. Curti, Dantismi e memoria della ‘Commedia’ nelle ‘Stanze’ del Poliziano, in «Lettere Italiane», LII, (2000), 4, pp. 530-568: 532. VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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che ne scrivevâ tutta la compagna, […] (LXXXVIII, 4)
sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto. (Inf., XXVI 101-102)19 i’ mi ristrinsi a la fida compagna: […] (Purg., III 4) Tanto dice di farmi sua compagna (Purg., XXIII 127).
Tale lessema, sia pur presente nella Commedia, risulta essere una forma ampiamente adoperata nel Due-Trecento20 da possibili intermediari tra l’Alighieri e il Burchiello. Segue un grado medio di intensità «rappresentato da rimandi al limite del preterintenzionale, in qualche caso frutto di tradizione passiva: si tratta di vocaboli, sintagmi o nessi sintattici certamente di origine dantesca, ma che emergono quasi inconsapevolmente nella memoria dell’autore, ormai divenuti tessere linguistiche del patrimonio letterario volgare».21 Rientrano in questa categoria espressioni quali: a capo chino sanza far ma’ motto, […] (LXXXVII, 16)
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto. (Inf., XXXIII 48)
Non andar sanza scorta (CXXXIV, 15)
passando per li cerchi sanza scorta, […] (Inf., VIII 129)
dichin sanza dimoro (CLXX, 15)
domandò ’l duca mio sanza dimoro: […] (Inf., XXII 78)
Et io ne vidi accender piú di mille (VI, 12)
Vedi París, Tristano»; e piú di mille (Inf., V 67) Io vidi piú di mille in su le porte (Inf., VIII 82).
19
Le citazioni sono tratte da La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Torino, Einaudi 1975. 20 Cfr. G. Ghinassi, Il volgare letterario nel Quattrocento e le ‘Stanze’ del Poliziano, Firenze, Le Monnier 1957, p. 23. 21 E. Curti, Dantismi e memoria della ‘Commedia’ nelle ‘Stanze’ del Poliziano cit., p. 533. La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti
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Infine, è possibile registrare un grado secondo di allusività, «costituito dai dantismi evidentemente intenzionali e per questo solitamente molto significativi, capaci di caratterizzare il verso»22 con una connotazione squisitamente dantesca. Segnalo, a tal proposito, le perifrasi «spera» e «spera mattutina», impiegate rispettivamente nei sonetti XL e CLXXXII per indicare il sorgere del nuovo giorno,23 che richiamano alla memoria, con variatio semantica, la «stella mattutina» di Par., XXXII 108. Al di là delle convergenze testuali a grado zero alcuni fenomeni spiccano sul piano lessicale • nomi propri che nel corpus burchiellesco subiscono un’alterazione dell’accentazione tradizionale rispetto al modello dantesco, come si desume dal confronto operato da Zaccarello24 tra il distico del sonetto CXXX e i primi due versi di Inf. XXX, in cui l’antroponimo Semelè è ossitono: Che pazia è crucciarsi per Seméle come fece Giunon contra ’ Thebani, ella e ’l morano delle gazavele (CXXX, 9-11)
Nel tempo che Iunone era crucciata per Semelè contra ’l sangue tebano, come mostrò una e altra fiata, […] (Inf., XXX 1-3)
• lessemi dalla funzione nobilitante: comune e popol, miserere mei (LXIII, 4)
«Miserere di me», gridai a lui, […] (Inf., I 65) del fallo disse ʽMiserere mei’, […] (Par., XXXII 12)
cantano il Miserere colle Luia (XIX, 17) •
cantando ʽMiserere’ a verso a verso (Purg., V 24)
lemmi usuali che in entrambi gli autori trovano una giusta collocazione all’interno del verso come parole-rima:
22
Ibidem. M. Zaccarello (I sonetti del Bruchiello cit., p. 57) individua un’altra perifrasi nel sonetto XLI, 9 («Arda la fiamma dell’eccelsa rota»), che riprende l’immagine della mistica rosa (Par., XXXI, 125-129), con le rime «infiamma: orifiamma: fiamma». 24 Si veda il commento all’edizione Einaudi de I sonetti del Burchiello cit., p. 184. 23
VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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Memoria della ‘Commedia’ nei ‘Sonetti’ del Burchiello
sempre alla lingua mi riman la cocca; […] (LIX, 11)
Chirón prese una strale, e con la cocca (Inf., XII 77)
che non si pinse mai da corda cocca (CLXXXIV, 3)
si dileguò come da corda cocca.
quivi a sedere al fuoco, sol soletto, […] (LXXV, 6)
Elli givan dinanzi, e io soletto
Cosí sognando cominciai «O lasso, […] (XCVI, 12)
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, […] (Inf., V 112)
dove allignar non può buona semenza (CXXII, 14)
Considerate la vostra semenza:25 […] (Inf., XXVI 118)
(Inf., XVII 136) (Purg., XXII 127)
• serie rimiche: è in questa terra una sí fatta usanza […] guardivisi il mantel s’e’ ve n’avanza!» (LXXIX, 10-14)
poi ch’è tanto di là da nostra usanza, […] si move il ciel che tutti li altri avanza. (Par., XIII 22-24)
hanno già messo sí lunghe le zanne […] che son buoni a ’ngrassar vigne di canne, […] (IX, 3-6)
le bocche aperse e mostrocci le sanne; […]. E ’l duca mio distese le sue spanne, […] la gittò dentro a le bramose canne. (Inf., VI 23-27).
Sul piano sintattico si rilevano costrutti che conservano, magari in contesti diversi, l’impronta dantesca: • l’avverbio allora, «inserito per creare una sorta di continuità logica», in Burchiello «produce un senso di smarrimento nel lettore»:26 Allora ebbon gran doglia le saliere (VII, 12)
25 26
Allor distese al legno ambo le mani; […] (Inf., VIII 40)
Ivi, p. 173. G. Crimi, L’oscura lingua e il parlar sottile. Tradizione e fortuna del Burchiello cit., p. 52.
La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti
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Pierangela Izzi
Allora una farfalla marzaiuola (XIV, 12)
Allora il duca mio parlò di forza
Allor si mosse una bertuccia in zoccoli (VI, 9)
Allor si mosse, e li tenni dietro.
(Inf., XIV 61) (Inf., I 136) Allora il mio segnor, quasi ammirando, […] (Purg., VII 61) Allora incominciai: «Con quella fascia (Purg., XVI 37) Allora udi’: «Dirittamente senti, […] (Par., XXIV 67) Allora udi’: «Se quantunque s’acquista (Par., XXIV 79)
• e vidi: formula è molto frequente sia nella Commedia sia nei Sonetti, che talvolta «iniziano proprio con un’analoga struttura, utilizzata, in senso parodico, per esprimere visioni fuori dal normale».27 Vi sono casi significativi anche al di là della collocazione incipitaria:28 E vidi poi un pagliaio di prosciutti (IX, 12)
E vidi poi, ché nol vedea davanti, […] (Inf., XVII 124)
E vidi le lasagne (X, 15)
e vidi gente per lo vallon tondo
E vidi un granchio senza la corteccia (XXVI, 9)
e vidi dietro a noi un diavol nero
(Inf., XX 7) (Inf., XXI 29)
• ripetizioni e imperativi raddoppiati: tutti gridando «Alla morte, alla morte!» (XXXVI, 5)
mosso Palermo a gridar: «Mora, mora!» (Par., VIII 75)
Toian gli vide e disse «Végli, végli! (I, 12)
Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!». (Inf., XIII 118)
27 28
Ivi, p. 18. Ibidem. VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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Memoria della ‘Commedia’ nei ‘Sonetti’ del Burchiello
• enumerazioni,29 costruite su lunghe liste di oggetti dall’uso più vario: Suono di campane in gelatina arrosto, el diamitro e ’l centro d’una fava et una madia cieca che covava (VII, 1-3)
quando con trombe, e quando con campane, con tamburi e con cenni di castella, e con cose nostrali e con istrane; […] (Inf., XXII 7-9)
Rose spinose e cavolo stantío, sententie vecchie e sangue di bucato (XXIX, 1-2)
[…], ma di gigli dintorno al capo non facëan brolo, anzi di rose e d’altri fior vermigli; […] (Purg., XXIX 146-148)
• enumerazioni, inoltre, «di soggetti che compiono azioni insensate e rese tali dal nascondimento dei significati effettivi»:30 Frati tedeschi colle cappe corte, paníco sodo e noce malïose, ricotte crude e succiole pietose (XXXVI, 1-3)
Frati godenti fummo, e bolognesi; io Catalano e questi Loderingo nomati, e da sua terra insieme presi (Inf., XXIII 103-106)
o «di figure di varia entità e tutte ridotte a scherno»:31 Democrito, Germia e Cicerone (XLVIII, 1)
Dïogenès, Anassagora e Tale, […] (Inf., IV 137)
Avicenna, Ipocrasso e Galïeno32 (CVI, 9)
Ipocràte, Avicenna e Galïeno, […] (Inf., IV 143).
29
Ivi, pp. 43-44. Sull’argomento si confrontino la posizione di Claudio Giunta (A proposito de I sonetti del Burchiello, a cura di M. Zaccarello (Torino, Einaudi 2004), in «Nuova rivista di letteratura italiana», VII (2004), 1-2, pp. 451-476: 457), secondo il quale non si tratterebbe di semplici elenchi privi di logica interna, di enumerazione caotoca, e di Domenico De Robertis (Una proposta per Burchiello, in «Rinascimento», VIII (1968), pp. 3-199), che considera l’accumulazione di oggetti e nomi semplicemente cataloghi incongrui. Una proposta analoga è stata avanzata da Leo Spitzer per spiegare lo stile enumerativo di Whitman (La enumeración caótica en la poesía moderna, in Lingüística e historia literaria, Madrid, Gredos 1982, pp. 247-300). 30 R. Nigro, Nonsense, doppi sensi e dissensi nei giocosi del Rinascimento, in Burchiello e burleschi, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato 2002, pp. III-XXXII: XIX. 31 Ibidem. 32 «la triade dei medici antichi, già presente a XXXIV, 12-14, è canonizzata da Inf., IV 143 e usata in incipit in rime di Boccaccio e Giovanni de’ Pigli», M. Zaccarello, I sonetti del Burchiello cit., p. 151, n. 9. La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti
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Pierangela Izzi
Infine, sul piano retorico, sono da notare • associazioni ossimoriche e paradossali:33 legati e sciolti hanno di molti emoli, […] (CXLVII, 9)
tal, che diletto e doglia parturíe.
e parmi con assentio temperato,34 […] (CLXXXVIII, 3)
a ber lo dolce assenzo d’i martíri
(Purg., XXIII 12)
(Purg., XXIII 86)
• anafore:
•
E fa’ che questo sia prima che ’l giorno […] Fa’ di darci cappon lessi et arrosto, giovani, grassi e non sien cotti al forno, […]. Fa’ che mi sia risposto (LVI, 9-15)
farà venirli a parlamento seco; poi farà sí, ch’al vento di Focara (Inf., XXVIII 88-89)
né salci né ranocchi in ferrarese, né tante barbe in Ungheria paese, né tanta poveraglia è in Milano; […] (LXVI, 2-4)
né l’un né l’altro già parea quel ch’era: […] (Inf., XXV 63)
perifrasi: Le zanzare cantavan già il Tadeo (XII, 1)
la faccia de la donna che qui regge, […] (Inf., X 80)
cotti nel sugo di spugna marina (CIII, 6)
verrà colui ch’i’ credea che tu fossi, […] (Inf., XIX 77)
33
Ivi, pp. 44-45. Ivi, p. 263: «assenzio: liquore distillato dall’omonima pianta medicinale, proverbialmente amarissima (come il fiele del v. sg.; cfr. l’ossimoro dantesco «dolce assenzio», Purg., XXIII)». 35 Ivi, p. XVIII. 34
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• metafore: dal conte Urbin, che ’l muso ancor si lecca: […] (CXIV, 6)
de’ remi facemmo ali al folle volo, […] (Inf., XXVI 125)
• sinestesia «talora espressa mediante zeugma»35 in Burchiello: fra Mugnone e settembre in una valle; […] (XIII, 4)
mi ripigneva là dove ’l sol tace (Inf., I 60).
Anche in ambito tematico si registrano vari gradi di intensità. Il grado zero si ha quando la convergenza Dante-Burchiello dipende unicamente da un oggetto comune, senza alcuna specifica corrispondenza verbale. Esempi di tal genere sono ravvisabili non soltanto nei passi dedicati agli animali parlanti,36 che agiscono in totale libertà, rendendosi protagonisti di azioni non consone al loro stato naturale: quant’io conobbi nel gridar d’un grue (XXVIII, 7)37
E come i gru van cantando lor lai, […] (Inf., V 46)
ma anche nei luoghi in cui prevale «il ribaltamento di ruoli tra gli animali: quelli di taglia minore minacciano, intimoriscono o feriscono quelli di taglia maggiore»:38 L’uccel grifon temendo d’un tafano andò gran tempo armato di corazza, tal ch’ancor per paura si scacazza (V, 1-3)
non altrimenti fan di state i cani or col ceffo or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani (Inf., XVII 49-51).
Un ribaltamento si ravvisa anche nel caso del capovolgimento delle funzioni tra uomini e animali «solitamente innocui e pacifici come le testuggini», che possono incutere timore: «e però le testuggine e ’ tartufi / m’hanno posto l’assedio alle calcagne» (X, 9-10)».39 Se il mundus inversus anima il corpus burchiellesco, immagini di «comica inversio-
36
G. Crimi, L’oscura lingua e il parlar sottile. Tradizione e fortuna del Burchiello cit., pp. 39-42. In ivi, p. 41 segnala altri casi di animali parlanti: dalla «bertuccia in zoccoli» alla «pulce morsa da un cane», dalle «testuggine e’ tartufi» alle «sventurate merle», dalla «gazza» al «granchio senza corteccia», dal «gatto» al «tafano», dal «lupo» alle «orse». 38 Ivi, p. 85. 39 Ivi, p. 87. 37
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ne» non mancano nella Commedia, alla quale Burchiello sembra essersi ispirato per la descrizione di uno stuolo di soldati ungheresi aggrediti da vespe: […] gli Ungheri eran forte impäuriti che le vespe gli avean rotti e sconfitti e cogli aghi del cul tutti feriti.
Si palesano, qui, tra l’altro «stilemi frequenti nelle narrazioni belliche come il caso di «forte impaüriti» e di «rotti e sconfitti».40 A chi, leggendo i versi 9-11 del sonetto CLII – sostiene Crimi –, non verrebbe in mente la terzina dantesca: Questi sciaurati, che mai non fur vivi, erano ignudi e stimolati molto da mosconi e da vespe ch’eran ivi (Inf., III 64-66)?
Un grado primo di memorabilità si verifica nel momento in cui «la convergenza tematica veicola anche consonanze testuali di qualche rilievo, palesi o occultate da sinonimi per desiderio di variatio».41 L’esempio più significativo è rappresentato dall’apparizione di Nebrotto, costruita in parte sulla presenza del gigante in Inf., XXXI 67-81: Nebrotto fe’ la torre di Babello per guardar l’oche dal falcon celesto che di state non porta mai cappello. E se tu non intendi questo testo, gíttati nelle braccia a Mongibello come chi dorme e sogna d’esser desto. (LX, 9-14)
«Raphèl maí amècche zabí almi», cominciò a gridar la fiera bocca, cui non si convenia piú dolci salmi. […] questi è Nembrotto per lo cui mal coto pur un linguaggio nel mondo non s’usa. Lasciànlo stare, e non parliamo a vòto; ché cosí è a lui ciascun linguaggio come ’l suo ad altrui, ch’ a nullo è noto».
Il richiamo a Dante risulta immediato al v. 9, per l’esplicito riferimento alla torre di Babele e, dunque, alla confusio linguarum, ma in Burchiello «agisce […] un ben più futile proposito; il passo, che gioca sull’ambiguità di falcon ‘torretta mobile da assedio”, impalcatura […] produce un’irriverente deminutio rispetto al dato biblico»,42 a cui si aggiunge l’aequivocatio del termine «cappello», attribuito al «falcone da caccia».43
40
Ivi, pp. 86-87. E. Curti, Dantismi e memoria della ‘Commedia’ in Poliziano cit., pp. 533-534. 42 C. Giunta, Discussioni a proposito de ‘I sonetti del Burchiello’, a cura di M. Zaccarello, Torino, Einaudi 2001, p. 462. 43 M. Zaccarello, Schede esegetiche per l’enigma di Burchiello, in La fantasia fuor de’ confini. Burchiello e dintorni a 550 anni dalla morte (1449-1999) cit., p. 5. 41
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Artifici retorici di tal genere non sono affatto sporadici nel corpus, e ben lo ha precisato Zaccarello, catalogando alcuni luoghi riconducibili alla categoria della deminutio. Abbiamo così, accanto alla descrizione dei «paladin condotti a tale / che ricogliendo van la spazatura»,44 o che «tornando da combatter monte Albano / disertarono un campo di lupini»,45 la declassazione dei miti e personaggi classici («Pirramo s’invaghí d’un fuseragnolo / a piè del moro bianco in die busilli / […] / e Virgilio rubò un soccodagnolo / per insegnare a balestrare a’ trilli, / e Bacco fé nel Po mille zampilli, / tanta pietà gli venne d’un rigagnolo»;46 «E Scipïone era smontato a piede / per far dell’erba alle chiocciole sue, / che avien fatto la scorta a Dïomede»;47 «sí come dice Seneca a Lucillo, / la salsa nihil val senza serpillo»),48 e anche dei personaggi biblici («Non fé tal viso il popol philisteo / quando Sansone sgangherò la porta / portandola in sul monte Cythareo, qual tu faresti colla vista smorta / trovandoti tra Ercole et Antheo / colla tuo parte d’una meza torta»;49 «Apparve già nel ciel nuova cumeta / quando Sanson metteva le caluggine / coniando Giuda le scaglie d’un muggine / per volerle poi spender per moneta»).50 Particolarmente significativo è il ricorso all’aequivocatio lessicale51 («e porti in sedia in mezo del camino»;52 «Ma quel colpo mortale / che diè con tanto sdegno Ercole a Chacco / mi fé fuggire un granchio fuor del sacco»;53 «beccò d’un pesceduovo preso a lenza»;54 «teneste lo ’nvito del diciocto»;55 «Dè parliàn de’ moscioni»),56 e verbale («Bench’io mangi a Gaeta pan di Puccio / diventato non son però puccino, / […]. / Molti dicon pur come / Burchiello ha in questo mal farneticato / da po’ che fu da’ Medici sfidato).57
44
XXII, 10-11. CLXXII. 9-11. 46 XLIII, 1-8. 47 LI, 9-11. 48 XL, 16-17. 49 CXXXIV, 9-14. 50 XLII, 1-4. 51 M. Zaccarello, La dimensione vernacolare nel lessico dei Sonetti di Burchiello, in «Cuadernos de Filologìa Italiana», III (1996), pp. 209-219: 212: «La forma piú semplice di aequivocatio lessicale […] la si ritrova nell’uso di un traslato vernacolare di forte contrasto semantico con il primo significato della parola: l’effetto di sorpresa e di nonsense è dato proprio dall’interferenza delle due interpretazioni in un contesto che ne tollera sola una. L’interferenza può avvenire nelle due direzioni: il traslato si sovrappone ad un contesto di senso già compiuto rendendolo ambiguo fin quando un secondo elemento determina il prevalere di una interpretazione». 52 LXXXII, 6. 53 XXII, 15-17. 54 XLVII, 17. 55 XXI, 4. 56 XXXI, 15. 57 CLIV, 1-2; 15-17. 45
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Al di là della «retorica dell’equivoco»,58 in cui «la metafora ed il gioco verbale in genere nascono in maniera occasionale ed estemporanea dal continuo rapporto con la lingua d’uso nell’ambiente mercantile ed artigianale di livello subalterno»,59 Crimi segnala il «rovesciamento, sebbene parziale»60 della figura di Orfeo («et Orpheo insegnò cantare a’ grilli / per fare innamorare un pizicagnolo»)61 e il sarcasmo graffiante nei confronti di Stazio («Però i cappon mattugi e’ liofanti / tengon serrato Statio in sagrestia»),62 dotato di un nome che si presta all’«ambiguità con la forma allora esistente di Eustachio / Eustazio».63 Un’altra convergenza tematica di primo grado si riscontra nel sonetto CCXVI, 9-17: la disputa tra «messer maestro Mariano da Pisa, ciurmatore protagonista di due facezie dell’Arlotto», e un impostore suo concittadino, che si prende gioco dei clienti farfugliando frasi confuse («Chicchi bichiacchi dice il tuo sanguigno, / intendi me che già studiai a Pisa / et ogni mal conosco sanza signo») richiama forse alla memoria quella dantesca fra Maestro Adamo e Sinone (Inf., XXX 100129): Marian[o] ch’ode scoppia delle risa, ond’egli stringe i denti e ’l viso arcigno, bestemmia ogni potenza alla ricisa; disputando in tal guisa, non ti dicendo del parlare il sesto, ʽSersitinors’ conchiudono in tedesco.
Quando si registra una combinazione di corrispondenze plurime, in cui l’unicità del termine, uniformemente alla similarità del contesto, rende significativo un rimando altrimenti trascurabile, si verifica il grado massimo di memoria tematica. Si veda, a tal proposito, il sonetto CCV: O successor di messer Giorgio Scali, o Simon mago, tu rovinerai per ogni grado cento che tu sali; colla prigione, e traitene se sai, per gl’infiniti tuoi solenni mali, empierannosi e cessi de’ tuo guai.
58
Sull’argomento si veda Nigro, Nonsense, doppi sensi e dissensi nei giocosi del Rinascimento cit., pp. III-XXXII. 59 M. Zaccarello, La dimensione vernacolare nel lessico di Burchiello cit., p. 210. 60 G. Crimi, L’oscura lingua e il parlar sottile. Tradizione e fortuna del Burchiello cit., p. 100. 61 XLIII, 3-4. 62 C, 5-6. 63 Ivi, p. 101. VIII. Italiani della Letteratura: Dante
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Nell’invettiva politica contro Puccio Pucci, che si conclude con una profezia di timbro dantesco («Confinato sarai, / Puccin gaglioffo, popolazo sozo, / chi ’n Piccardia e chi a Tagliacozo»),64 il riferimento a Simon Mago lascia presumere una totale adesione al modello trecentesco, che Zaccarello non esita a sottolineare affermando che «l’emistichio è preso di peso da Inf., XIX 1».65 Sulla base della ricognizione appena effettuata, che ha individuato, nel corpus burchielllesco, alcune caratteristiche costanti nell’impiego di stilemi, strutture sintattiche, nuclei tematici desunti dalla Commedia, si può, forse, trarre la conclusione che, lungi dall’essere meditato e colto, quello del Burchiello66 è un dantismo che rivela tratti popolari, che attinge ad un repertorio tradizionale, memorizzato mediante rime aspre («sozo» / «Tagliacozo» CCV; «Tagliacozzo» / «sozzo» Inf., XXVIII 17-21), espressioni ormai proverbiali («sanza far motto»; «sanza scorta»), allusioni ad episodi memorabili (Nebrotto, Simon mago). Un dantismo tradizionale, dunque, che si potrebbe definire medio, in quanto le varie occorrenze non rinviano quasi mai, salve poche eccezioni, a nuclei testuali ben circoscritti: l’impressione che ne deriva è quella di un’operazione di intarsi non affatto sistematica, ma piuttosto funzionale alla logica burchiellesca del nonsense,67 che si contraddistingue per un assiduo processo di assimilazione, rielaborazione e rigenerazione del modello, riconducibile alla variatio e ravvisabile nei seguenti fenomeni: • la memoria decontestualizzata, ovvero «una convergenza puramente formale, in cui i termini comuni hanno spesso diverso valore semantico e sono comunque collocati in un contesto differente dall’originale e tale da non poterlo richiamare neppure o per allusione o somiglianza di situazione».68 Si consideri il sonetto CLXXXI, 1-8: 64
CCV, 15-17. M. Zaccarello, Schede esegetiche per l’enigma di Burchiello cit., p. 24. 66 Si rammenti la sua appartenenza, in quanto barbiere, alla Corporazione dei Medici e Speziali. Sull’argomento cfr. Boschetto, Burchiello e il suo ambiente sociale: esplorazioni d’archivio sugli anni fiorentini cit., pp. 38-39: «Vorrei soffermarmi […] su tre aspetti legati alla vita di questa categoria. Il primo è il loro livello di alfabetizzazione, che come si evince dagli originali delle dichiarazioni al Catasto era estremamente basso, […]. La scarsa familiarità con la scrittura si coglie sia dalla calligrafia molto incerta di varie portate autografe, sia dai numerosi casi in cui il barbiere fa scrivere ad altri la portata, e si limita, spesso con evidente fatica, a sottoscriversi ad essa. Il basso livello di istruzione dei barbieri era del resto riconosciuto anche dagli statuti dell’Arte dei Medici e Speziali, che li ritenevano incapaci di tenere libri contabili, a differenza degli altri membri della corporazione […]. L’impressione insomma, pensando al caso di Burchiello, è che in questa situazione un barbiere-poeta dovesse rappresentare qualcosa di singolare». 67 M. Zaccarello, Una forma istituzionale della poesia burchiellesca: la ricetta medica, cosmetica e culinaria tra parodia e nonsense, in ‘Nominativi fritti e mappamondi’. Il nonsense nella letteratura italiana, Atti del Convegno di Cassino (9-10 ottobre 2007), a cura di G. Antonelli, C. Chiummo, Roma, Salerno 2010. 68 E. Curti, Dantismi e memoria della Commedia in Poliziano cit., p. 538. 65
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Da buon dí, gelatina mie sudata, te pur menar non mi bisogna atorno, che, voltando Inghilterra in un sol giorno, non temeresti vento né brinata. Da Moncia or or mi pari sprigionata: sembri il bel di Milan di banchi adorno, di dibattuti rossi e chiar d’intorno, d’un bollor tratto e messo una fïata.
Qui la catena di parole rima: adorno–intorno, seppure in un contesto diverso, rimanda a Par., XXX 109-114: E come clivo in acqua di suo imo si specchia, quasi per vedersi addorno, quando è nel verde e ne’ fioretti opimo, sí, soprastando al lume intorno intorno, vidi specchiarsi in piú di mille soglie quanto di noi là sú fatto ha ritorno
• lo spostamento dei dantismi rispetto alla loro posizione originaria. Il primo caso consiste nelle inversioni, con la collocazione a fine verso di un vocabolo che in Dante era posto all’inizio: E se fussi cosí non me ne giova, […] (CVII, 5)
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerchisi nello ’nferno Thesiphone, […] (CCIII, 12)
Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto
(Inf., IX 97)
(Inf., IX 48).
Un’altra variazione prevede l’inserimento ad una estremità di ciò che nell’Alighieri si trova al centro del verso: nel tempo che Tarquinio ebbe paura (XXII, 13)
e cui paura súbita sgagliarda, […] (Inf., XXI 27)
o, al contrario, il trasferimento in posizione centrale di ciò che era collocato ad un’estremità: a cui parlando di lor palma scemi, ]…] (LIII, 8)
che s’acquistò con l’una e l’altra palma, […] (Par., IX 123)
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Ora i’ son qui, Die gratia, e ’l caso è scuro, gratïa Dei, sicut tibi cui […] (LXXVII, 9)
(Par., XV 29)
• gli spostamenti semantici, in cui il termine dantesco viene sì reimpiegato, ma caricato di un significato differente. L’attributo mattutina nel sonetto CLXXXII («La spera mattutina / sarebbe tutta guasta e lacerata / s’ella discoprisse in Camerata»), sebbene richiami alla memoria Pur., I 115 («L’alba vinceva l’ora mattutina»), assume un valore diverso rispetto alla fonte da cui è tratta. In definitiva, pur mantenendo una certa, ovvia flessibilità nel riuso e nella risistemazione di formule desunte dalla Commedia, i Sonetti sembrano comunque rivelare una scrittura che si realizza nel rispetto di una «memorabilità» ormai consolidata. Burchiello mutua da Dante non solo lessemi, stilemi, espressioni stereotipe e costrutti sintattici, ma anche nuclei poetici. Si registrano sonetti che attingono a canti impiegati quasi come nuclei di massima memorabilità. Nonostante siano molteplici i rimandi all’intero poema, le tre cantiche non emergono con la medesima intensità: la memoria dantesca si concentra essenzialmente sull’Inferno, non solo sul piano numerico, ma anche su quello della significatività. Lo vediamo chiaramente sia in alcune zone narrative ben delineate (il vituperium),69 sia nell’inclusione del Dante più propriamente comico ed espressionistico che fornisce un ampio repertorio di vocaboli osceni e scurrili «spesso camuffati – nei testi burchielleschi – mediante metafore e doppi sensi, sebbene non manchino riferimenti crudi ed espliciti»70 e che trova piena realizzazione nella zona disumana e grottesca delle Malebolge. Dei tredici canti in cui si dispiega l’ottavo cerchio ben nove trovano riscontro nei Sonetti, come risulta dallo spoglio che Zaccarello ha operato sull’intero corpus burchiellesco, individuando, in particolare, una serie di analogie: che Narcisso lassò lor fonte Branda (XX, 11)
per Fonte Branda non darei la vista. (Inf., XXX 78)
a fonte Branda medican le gotte (CI, 3) Cosí su per la riva di Parnaso (XXI, 9)
69 70
tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura, […] (Inf., XVIII 8)
Sonetti LXXX-LXXXIII-LXXXIV-CLXV-CLXXVIII. G. Crimi, L’oscura lingua e il parlar sottile. Tradizione e fortuna del Burchiello cit., p. 46.
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1012 coniando Giuda le scaglie d’un muggine (XLII, 3)
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a la miseria del maestro Adamo; […] (Inf., XXX 61)
Drieto gli andavo cheto, et e’ per fuggir otio in quel vïaggio sempre parlò col cul d’ogni linguaggio. (LVIII, 15-17)
ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno; ed elli avea del cul fatto trombetta. (Inf., XXI 137-139)
Nebrotto fé la torre di Babello (LX, 9)
questi è Nembrotto per lo cui mal coto (Inf., XXXI 77)
che vi daran da otto o dieci volte. (LXXX, 11)
Taïde è, la puttana che rispuose (Inf., XVIII 133)
poi sia fonduto come argento o oro, Ed ecco a un ch’era da nostra proda, gittato in forma e torni in suo sembianza, s’avventò un serpente che ’l trafisse e poi ritorni a simile martoro. là dove ’l collo a le spalle s’annoda. (LXXXIV, 9-11) (Inf., XXIV 97-99) E ranocchi che stanno nel fangaccio, secondo che ne scrive Giovenale, fanno contro alla legge imperïale, dormendo fuor col capo in sul piumaccio: […] (CXLIX, 1-4)
E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso stanno i ranocchi pur col muso fuori, sí che celano i piedi e l’altro grosso, […] (Inf., XXII 25-27)
Le panche suonon sí terribilmente com’eglin son dal Ponte in giú passati et hanno cera come d’impiccati, […] (CLXIX, 5-8)
come i Roman per l’essercito molto, l’anno del giubileo, su per lo ponte hanno a passar la gente modo colto, […] (Inf., XVIII 28-30)
o Simon mago, tu rovinerai per ogni grado cento che tu sali; […] (CCV, 10-11)
O Simon mago, o miseri seguaci che le cose di Dio, che di bontade deon essere spose, e voi rapaci (Inf., XIX 1-3).
Marginali sono le espressioni stereotipe: or godi, Roma, di cotal prelato! (CXXII, 17)
Godi, Fiorenza, poi che se’ sí grande, […] (Inf., XXVI 1).
VIII. Italiani della Letteratura: Dante
Memoria della ‘Commedia’ nei ‘Sonetti’ del Burchiello
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Non sono da trascurare, peraltro, le occorrenze tematiche riconducibili al canto V dell’Inferno, concentrate in particolar modo sulla figura di Minosse, il giudice che, avvolgendo la coda, assegna alle anime dannate il luogo di penitenza: («E portandomi e diavoli a Minosso, / e’ mi potrebbe ben examinare / ch’ e’ mi trovasse in ciò cagione adosso»;71 «Ma quando voi sarete nelle volte / di Setanasso, arete, sí gran code / che vi daran da otto o dieci volte»;72 «e poi l’abbi Minosso in suo procinto, / e Sethanasso a oncia a oncia il tagli»;73 «Minosso ti condanni / con una lancia in cul d’un paladino / sicome un pesce di maza marino»).74 Di contro, i rimandi alle altre due cantiche sono di gran lunga inferiori. Se il Purgatorio è presente soprattutto con il canto XXIII, che ricorre ben cinque volte, per il Paradiso non emerge alcuna ripresa significativa. Burchiello, «strambo pirata di parole e rime»,75 opera evidentemente la sua fruizione del poema dantesco ispirandosi al registro comico dei richiami infernali. «Il mondo è un pasticcio di male, di diavoli e angeli, di inferno e poco paradiso e non è aiutato da costoro a rinsavire. Il caos domina su tutto, il male opprime come una mal’aria, non c’è bisogno di scendere all’inferno per provarlo, è già tra noi, perché coloro che dovrebbero sceverare e indicare le giuste vie ne sono posseduti».76
71
LVII, 9-11. LXXX, 9-11. 73 LXXXIV, 7-8. 74 CXII, 15-17. 75 G. Crimi, Burchiello e le sue metamorfosi: personaggio e maschera cit., p. 113. 76 R. Nigro, Nonsense, doppi sensi e dissensi nei giocosi del Rinascimento cit., p. XII. 72
La percezione dell’italianità in Dante e nei suoi interpreti
IX. Italiani della letteratura: Foscolo
Foscolo e gli altri esuli
FOSCOLO E GLI ALTRI ESULI
ANGELO FAVARO Ugo Foscolo o dell’arte tragica*
È necessario interrogarsi sulle ragioni per le quali Ugo Foscolo non si occupò in forma compiuta e sistematica dell’estetica teatrale, dal momento che egli fu costantemente interessato e impegnato nell’attività teatrale a vario titolo e in modi differenti. Noto è che egli compose quattro tragedie,1 di cui tre realmente e variamente messe in scena, inoltre numerosi documenti, non ancora completamente vagliati a tal fine, dimostrano l’attenzione non dilettantistica all’attività teatrale, nei suoi differenti aspetti. Si può dunque ipotizzare che il poeta dell’Ajace abbia formulato una teoria e pratica2 della messa in scena teatrale del testo spetta-
* Il presente studio apparirà con il titolo Per un’estetica teatrale di Ugo Foscolo: quale antico sulla scena moderna?, in forma completa e compiuta, con la necessaria documentazione, sul prossimo numero in uscita della rivista di studi «Misure critiche», si è voluto in questa sede presentare l’importante lavoro preparatorio e l’attività di ricerca che hanno consentito la successiva stesura del saggio, e tuttavia si trovano persuasivi il metodo e la proposta. 1
Le tragedie composte da Ugo Foscolo sono: Edippo (attribuito a Foscolo), Tieste, Ajace, Edipo, Ricciarda, oggi pubblicate nella prestigiosa e insuperata edizione critica dell’Edizione Nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, vol. II, Tragedie e poesie minori, a cura di Guido Bézzola, Firenze, Le Monnier 1961. Due sono i saggi storici di primo Novecento che aprono il discorso sulla produzione teatrale foscoliana: F. Viglione, Sul teatro di Ugo Foscolo, Pisa, fratelli Nistri 1904; E. Flori, Il Teatro di Ugo Foscolo con un’Appendice sul pensiero filosofico foscoliano, Bologna, Zanichelli (1907) 1925. Si veda anche l’ottima sintesi inerente le tragedie in M. A. Terzoli, Foscolo, Roma-Bari, Laterza 2000, pp. 21-22; 101-126. Di grande interesse per un’ampia e completa panoramica inerente l’attività intellettuale e di scrittura di Ugo Foscolo il volume di A. Granese, Ugo Foscolo. Fra le folgori e la notte, Salerno, Edisud Salerno 2004 e in particolare sull’attività teatrale del poeta pp. 209-227. 2 Si rifletta ancora oggi, come al tempo di Foscolo, sul fatto che: «Ogni esecuzione di Foscolo e gli altri esuli
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Angelo Favaro
colare tragico,3 cioè un’estetica tra innovazione sperimentale4 e tradizione consapevole.5 Quando si tratta di estetica teatrale si vuole intendere, nel presente contesto, una teoria della scrittura del testo drammatico e della sua messa in scena, ovvero una cura della parte compositiva, non semplicemente rispetto ai contenuti testuali, ma anche e soprattutto circa la forma che la tragedia, nella fattispecie secondo Foscolo, deve prendere, e dunque della prassi performativa, inerente tutto il complesso di varianti della messa in scena (regia, attori, scenografia, luci, costumi, etc.). Che Foscolo fosse uomo non ignaro del teatro è ormai indubitabile e non solo per il noto Piano di studi del 1796,6 in cui leggiamo con quale e quanta competenza, dividendo per generi letterari, chiaramente distinti sul margine sinistro del foglio, il poeta avesse posto in ordine cronologico i «Tragici», dei quali non è detto se avesse intenzione di studiare o se avesse già studiate le opere, quando cita i nomi di «Sofocle. Shakespeare. Voltaire. Alfieri».7 Se la “lista” è evidentemente incompleta, tuttavia dimostra con luminosa evidenza i “gusti” e il canone su cui il poeta volle formarsi: agli estremi troviamo Sofocle e Alfieri.8 Non si devono, inoltre, tacere né
un’opera letteraria destinata alla rappresentazione […] è il prodotto di una concretizzazione che tuttavia, in ragione del suo carattere ambiguo (si tratta di ricezione e di produzione allo stesso tempo), conserva in linea di principio l’aspetto generico del testo, perché questo aspetto non si risolve che nella ricezione da parte del pubblico»: W. D. Stempel, Aspetti generici della ricezione, in Teoria della ricezione, a cura di R. C. Holub, Torino, Einaudi 1989, p. 189. 3 Si assuma la definizione di “testo spettacolare” secondo la formulazione ormai comunemente accolta di M. De Marinis, Semiotica del Teatro. L’analisi testuale dello spettacolo, Milano, Bompiani 1982, pp. 9-23, già precisamente esposta dallo stesso in Lo spettacolo come testo, «Versus», XXI-XXII, 1978-1979, pp. 60-104. 4 Di «non occasionalità della sperimentazione teatrale foscoliana» parla E. Catalano, Le trame occulte, Bari, Edizioni Giuseppe Laterza 2002, p. 93. Si può altresì opportunamente rileggere il saggio di F. Fido, Tragedie «antiche» senza fato: un dilemma settecentesco dagli aristotelici al Foscolo, in Id., Le muse perdute e ritrovate, Firenze, Vallecchi 1989, pp. 11 e sgg. 5 Tra innovazione e tradizione è il titolo della prima sezione, divisa in due capitoli: Foscolo e il sentimento dei tempi nuovi, e Un classicismo impegnato, che apre il volume di G. Nicoletti, Foscolo, Roma, Salerno Editrice 2006, pp. 15-20. 6 Documento indispensabile come è stato più volte riconosciuto sin dal Carrer, che per primo ne diede notizia, e da tutti coloro che si sono occupati della formazione culturale e letteraria giovanile del poeta. U. Foscolo, Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808, a cura di Giovanni Gambarin, Edizione Nazionale delle Opere, vol. VI, Firenze, Le Monnier 1976, pp. 39. 7 Ivi, p. 5. 8 Si veda per completezza e per l’illuminante prospettiva V. Di Benedetto, Lo scrittoio di Ugo Foscolo, in particolare il capitolo XVI La figura dell’Alfieri, Torino, Einaudi 1990, pp. 191207. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
Ugo Foscolo o dell’arte tragica
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le numerose serate trascorse a teatro nel corso della sua vita,9 che documentano un’attenzione e una frequentazione se non professionale tuttavia costante del poeta dei Sepolcri, né i testi dichiaratamente inerenti allo spazio, alla prassi della scrittura teatrale, alla performance spettacolare: si pensi, par example, al breve manifesto Per la istituzione d’un teatro civico (1797), alla lettera inviata al Pellico sulla Laodamia, e a tutti i riferimenti costanti e agli accenni reperibili all’interno del suo monumentale e voluminoso epistolario, all’articolo pubblicato nel «Giornale del Lario» Sul nuovo teatro di Como (23 agosto 1813), e, dopo essere stato dal 31 agosto 1811 fino al 1814 revisore delle traduzioni dei testi teatrali,10 infine, al saggio Della nuova scuola drammatica in Italia (1826), composto un solo anno prima della morte. Nel comunicare in forma epistolare al Cesarotti, il 30 novembre 1795, a soli 17 anni, il Foscolo esprimeva entusiasticamente: […] Ardii scrivere una tragedia sopra un soggetto che fu già toccato da Crébillon e dal gran Voltaire. Sì; scrissi il Tieste, e con quattro attori soltanto. Qual ei siasi vedrassi frappoco dagli intendenti sulla scena cui l’affido. S’essi non l’accetteranno fra le lor favorite, basteranmi le lagrime e il terror degli ignari, che sono i principali oggetti dei miei versi. Certo ch’io non avrei avventurato la mia fatica e il mio nome, se Crébillon [Atrée et Thyeste, 1707] fosse meno intricato, e il grand’Autore del Maometto [Pélopides, 1772] più terribile, e più deciso. […] Trattanto io spero che voi non crederete ad un tratto, come tant’altri, che chi è giovane e che canta dell’odi, non possa accingersi a scrivere de’ poemi filosofici e delle tragedie.11
Sin dalle parole appassionate di questo giovanissimo indirizzate ad un magister severo e comprensivo, in una Venezia non molto lontana dai fermenti napoleonici che l’avrebbero ridotta alla resa il 12 maggio 1797, apprendiamo di un «ardire senza fine»: Niccolò si mette alla prova con il genere letterario più complesso e di difficile trattamento, il genere sublime per antonomasia nella partizione dei generi teatrali, secondo la celebre rota vergilii, e vi possiamo cogliere in nuce, ma distintamente, una prima dichiarazione di estetica teatrale, non del tutto autonoma dal
9
Si rileggano, fra i molti documenti, a mo’ d’esempio, le intense e appassionate lettere del Carteggio con Antonietta Fagnani Arese (1801-1803) ove gli appuntamenti a teatro sono frequenti, in U. Foscolo, Epistolario, vol. I, a cura di P. Carli, Edizione Nazionale delle Opere, Firenze, Le Monnier 1949, pp. 209-414. 10 Cfr. P. Bosisio, La rappresentazione dell’‘Ajace’ e la tecnica teatrale foscoliana, in «Belfagor», XXXV, 2, 1980, pp. 139-156: p. 142. Pagine irrinunciabili per esemplificare e mostrare la scrittura drammatica foscoliana e inserirla nel contesto più ampio dei dibattiti fra Settecento e Ottocento, ha scritto B. Alfonzetti, I finali drammatici da Tasso a Pasolini, Roma, Editori Riuniti 2007, pp. 91-108. 11 U. Foscolo, Epistolario, vol. I cit., p. 19. Foscolo e gli altri esuli
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modello alfieriano, «sebbene mediato e controcorrente»,12 ma efficace e in linea con la poetica foscoliana. Se è vero che sin da quegli anni «il modello dell’astigiano fermenti nel laboratorio tragico del poeta diciassettenne»,13 è comunque al Cesarotti antialfieriano che si rivolge. Quattro attori soltanto che agiscono nel corso di cinque atti, l’argomento scelto, anche se trattato da Crebillon e da Voltaire, è classicissimo, risalente al mito tragico per antonomasia, da cui discendono l’antefatto dell’Iliade e la trilogia eschilea.14 Dalla lettura del testo, versificato in endecasillabi sciolti, appaiono perfettamente rispettate le unità pseudo-aristoteliche. Al giovane Foscolo basterà (non è poco) che il pubblico, incolto, destinatario del suo lavoro, versi lagrime e provi terrore, perché l’oggetto dei suoi versi è proprio nelle lagrime e nel terrore: l’intreccio della tragedia non deve essere eccessivamente complicato, ma tale da coinvolgere, durante la messa in scena, il pubblico attraverso il ricorso al terribile, ovvero a ciò che possa suscitare decisamente spavento, ma non orrore. Foscolo, quasi a scusarsi di aver trattato un tema già affrontato da autori francesi amati dal Cesarotti, comunica a colui che aveva pubblicato il Ragionamento sopra il diletto della tragedia15 i difetti dei suoi predecessori francesi, che evidentemente ritiene di aver corretto con la sua opera. Insieme alla poetica, è un’estetica16 che Foscolo enuncia quando opera scelte che dalla composizione e struttura del testo drammatico si rifrangono sulla scena teatrale. Del successo della sua tragedia Foscolo informò il Cesarotti, in una lettera dei primi di febbraio, con tali parole: Mio Padre – Si vide il Tieste; si tacque, si pianse. Ecco l’elogio che faccio al Foscolo di diciott’anni. […] nel Tieste, benché di stile istudiato, di purissima semplicità, e di sommo calore, non avvi né lo stile vero, né il semplice nobile, né la passione ben maneggiata e dipinta.17
Il poeta dichiara, con la malcelata autocritica esposta al Cesarotti, la discrasia
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Insuperato il saggio di G. Nicoletti, Alfierismo mediato e controcorrente nel ‘Tieste’ foscoliano, in «Annali Alfieriani del Centro di Studi Alfieriani», Asti – Casa d’Alfieri 1985, pp. 172-183. 13 Ivi, p. 172. 14 C. Doni, Il mito greco nelle tragedie di Ugo Foscolo, Roma, Bulzoni 1997. 15 M. Cesarotti, Ragionamento sopra il diletto della tragedia, in Il Cesare e il Maometto tragedie del signor di Voltaire […] con alcuni ragionamenti del traduttore, Venezia, Pasquali 1762. Foscolo certamente conosceva da tempo lo scritto del maestro, e ne condensa alcune riflessioni, ma non fa mistero di ammirare l’Opera dell’Alfieri, più della drammaturgia francese. 16 Per una formulazione dell’estetica artistica di Ugo Foscolo necessaria si ravvisa la conoscenza del saggio di R. Cotrone, Ugo Foscolo: pensare il «bello» – La natura, la mimesi e le arti, Bari, Edizioni B.A. Graphis 20082, di cui irrinunciabili per la piena formulazione del presente studio sono apparse le pp. 33-51. 17 U. Foscolo, Epistolario, vol. I cit., pp. 39-40. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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insanabile che frattura il godimento della ricezione a teatro dalla intenzione autoriale (tanto estetica quanto poetica): è patente, a partire dalla prima prova drammaturgica, che Foscolo avverte l’impossibilità di stabilire una piena e tangibile coincidenza fra quel che il pubblico, che applaude il Tieste, comprenda e recepisca della tragedia, e la propria percezione testuale e della messa in scena. Il giovane Niccolò non sarà rimasto indifferente e si sarà interessato alla sua prima opera tragica e alla vita in scena di quella tragedia. Probabilmente, a rileggere uno scritto successivo di qualche tempo, ciò di cui poeticamente ed esteticamente è carente il Tieste, la cui dedica al «Tragico d’Italia» (Vittorio Alfieri) è una dichiarazione essenziale di poetica e di estetica tragica, anche e soprattutto per tutto quanto vi è contenuto, è proprio l’elemento paideutico. Dirà Foscolo, con piglio giacobino e repubblicano,18 in quello stesso 1797, ormai Venezia arresasi a Napoleone, rivolgendosi ai Cittadini e alle Cittadine: Il mezzo che si offre [cioè la scrittura teatrale] combina la onesta occupazione nelle ore di ozio, la virtuosa emulazione ed il soccorso alla povertà. Esiteremo, forse, o Cittadini e Cittadine, di prestarsi a questi oggetti? Si propone un Teatro Civico. Ci dedicaremo alla declamazione, alla musica ed a comporre per istruire il Popolo, lasciando al nostro genio se avremo aggravio alcuno.19
La tragedia per istruire il popolo Foscolo la annunciò spesso, ma non la scrisse mai, mai la mise in scena: il Timocrate, «Tragedia di Libertà» su cui disse lavorava «da molti mesi […], onde serva all’istruzione e al diletto del popolo»,20 rimase solo un progetto annunciato. Il documento che meglio, e più d’ogni altro, vale a configurare materia di discussione, sia per il destinatario sia per il momento biografico a cui risale, è la lettera al Pellico del 23 febbraio 1813: all’amico, che Foscolo considera con affetto21 e tratta con tenerissima fratellanza,22 indirizza consigli di scrittura drammatica e
18
A tal proposito ottimo e documentato il lavoro di P. Bosisio, Tra ribellione e utopia. L’esperienza teatrale nell’Italia delle repubbliche napoleoniche, Roma, Bulzoni 1990, soprattutto pp. 101-212. 19 U. Foscolo, Per la istituzione d’un teatro civico, in Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808, vol. VI, a cura di Giovanni Gambarin cit., p. 719. 20 Id., Epistolario, vol. I cit., p. 70, lettera 41 del 14 agosto 1798, indirizzata alla Società del Teatro Patriottico di Milano. 21 Si rileggano le commosse parole presenti nella lettera al Grassi, la prima volta che il Pellico è nominato, in U. Foscolo, Epistolario, vol. II, in Edizione Nazionale delle Opere, a cura di P. Carli, Firenze, Le Monnier 1952, p. 435. 22 Le lettere indirizzate a Silvio Pellico, contenute nel quarto volume dell’Epistolario nell’Edizione Nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, quelle del periodo fiorentino, sono un documento inoppugnabile dell’affetto e dell’amicizia fra i due intellettuali in anni difficili e in una situazione politica complessa. Foscolo e gli altri esuli
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pareri sulla tragedia, che prendendo le mosse dall’analisi di un tentativo di scrittura tragica di Pellico pervengono a definire quasi una summa dell’estetica drammaturgica foscoliana. La lettera viene composta con lo scopo precipuo di offrire un parere sulla tragedia Laodamia. Da Milano, il 26 dicembre, il Pellico23 aveva inviato il testo manoscritto al Foscolo, che si trovava a Firenze, ma il poeta lo ricevette soltanto il 12 febbraio. Non inopportuno rammentare che le parole di Ugo Foscolo sulla tragedia rivolte all’amico potevano giovarsi dell’esperienza che il poeta aveva effettuato con la scrittura e la messa in scena della sua tragedia Ajace e certamente della rilettura dell’Opera di Alfieri, rinnovata dalla frequentazione, in quel torno di tempo, con la contessa Luisa Stolberg d’Albany.24 Da un esame puramente illustrativo del codice teatrale foscoliano e precisamente condotto sul testo dell’Ajace, a descriverne struttura e articolazione, la tragedia ci si presenta di “forma” ancora genericamente e meditatamente alfieriana.25 E quel che evidentemente va segnalato, per l’argomento trattato, è che Ugo Foscolo fu regista o più esattamente metteur en scene dell’Ajace, ne studiò i costumi per gli attori, e compose gli elementi necessari alla scenografia,26 infine preparò e impostò nella recitazione, non senza una immane fatica, i suoi eroi tragici. Dalla lettura delle didascalie dell’Ajace prima e
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Silvio Pellico non pubblicò mai la tragedia in vita, essa apparve soltanto molti anni dopo la morte ad opera di I. Rinieri, Della vita e delle opere de Silvio Pellico: da lettere e documenti inediti, vol. III, Torino, R. Streglio 1901, pp. 55 e sgg. 24 Si consulti la bella edizione delle lettere L. M. C. E. Stolberg – Albany, Lettere inedite di Luigia Stolberg, contessa d’Albany, a Ugo Foscolo, e dell’abate Luigi di Breme alla countessa d’Albany, a cura di C. Antona Traversi, D. Bianchini, Firenze, E. Molino 1887. Utile: C. Pellegrini, La contessa d’Albany e il salotto del Lungarno, Napoli, Edizioni scientifiche italiane 1951, pp. 180189, in particolare a p. 186 si rievoca l’omaggio dell’edizione Didot delle Tragedie di Alfieri effettuato dalla Contessa al Foscolo il 10 ottobre 1812, e il biglietto della nobildonna che accompagnava il dono, oggi conservato presso la biblioteca Marucelliana di Firenze. Interessante M. Testi, Tra speranza e paura: i conti con il 1789: gli scrittori italiani e la Rivoluzione francese, Ravenna, Pozzi 2009, in particolare il capitolo su Ugo Foscolo in cui si affrontano alcuni importanti temi del suo dialogo con la Contessa, pp. 130-137. 25 U. Foscolo, Tragedie e poesie minori, vol. II, a cura di G. Bézzola cit., Ajace, pp. 61-138. La tragedia è divisa in 5 atti (I, 5 scene; II, 11 scene; III, 5 scene; IV, 8 scene; V, 7 scene, l’ultima scena funge da epilogo), per complessivi 1902 endecasillabi sciolti, con sei personaggi, che si alternano in scena (Agamennone, Ulisse, Ajace, Teucro, Calcante, Tecmessa, Araldo, come comparse mute le Donzelle Frigie ed i Guerrieri Achei). Sono rispettate le tre unità pseudoaristoteliche: l’azione, unica, ma con numerose digressioni nel mito iliadico, si svolge nell’arco delle ventiquattro ore di un solo giorno, non vi sono cambi di scena. 26 Si veda E. Flori, Il Teatro di Ugo Foscolo con un’Appendice sul pensiero filosofico foscoliano cit., p. 144. E per i costumi le numerose lettere di Foscolo, fra cui quella ricevuta dal Paolo Belli Blanes, U. Foscolo, Epistolario, vol. III, a cura di P. Carli, Edizione Nazionale delle Opere, Firenze, Le Monnier 1953, p. 523. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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della Ricciarda poi ricaviamo una inconfondibile perizia teatrale e inerente il testo spettacolare nelle sue varie articolazioni, e un’attenzione precipua a quanto il pubblico avrebbe fruito complessivamente dalla platea e dai palchi. Per quanto l’Ajace non sia propriamente tragedia di semplice ed efficace rappresentazione scenica, e che possa incontrare il favore di un pubblico vario, vi si potrebbe riconoscere lo statuto di vero e proprio esperimento transgenerico foscoliano: l’autore mostra di aver sviluppato una propria estetica della messa in scena di un testo drammatico, ma soprattutto quali siano le qualità che deve possedere, per essere compreso e fruito dal vario pubblico che affolla i teatri. E in tale direzione guida il giovane amico. Dopo aver apprezzato la prima scena della Laodamia come «prospettiva di un bellissimo edificio», che lo ha commosso fino alle lacrime, provocando un perfetto movere nel Foscolo lettore, ma che non avrebbe probabilmente sortito la medesima reazione sul Foscolo spettatore, prosegue affermando che offrirà all’amico un «giudizio – e schiettissimo, perché [è] amico dell’arte, e [del Pellico], e della verità di cui [si] pasc[e] e addolcisc[e] ogni amarezza».27 In primo luogo il poeta chiarisce che la «tragedia è un’azione operata da uomini i quali denno dalla madre natura avere sortiti caratteri forti d’anima», persone/personaggi con tali caratteri, prosegue, possono essere desunti dal drammaturgo (dal poeta) da due fonti apparentemente opposte: da un lato dall’esperienza della vita quotidiana, dalla realtà dunque, e d’altro canto dalle «storie», ovvero dai miti e/o dalla storia. Foscolo parla di uomini e non specificatamente di eroi, e di storie, senza definire se intenda gli intrecci del mito o le vicende storiche, ma quel che emerge chiaramente è che gli uomini, che agiscono nella tragedia, devono possedere, per natura, un carattere forte e che lo scrittore drammatico, per rendere un tale carattere, deve sapientemente mescolare la realtà quotidiana, gli elementi realisticamente intesi della vita, con la vicenda della tragedia. La forza propulsiva dei caratteri riesce più vera se l’autore drammatico la coglie dall’osservazione della realtà. Ma specifica Foscolo, attraverso un’ardita similitudine, che il poeta non può semplicemente osservare nella realtà “del mondo” i caratteri e descriverli, deve invece comportarsi «come fanno i sommi pittori e scultori i quali ci rappresentano volti d’uomini che noi confessiamo essere perfettissimi della specie umana; e nondimeno non troviamo tra’ mortali viventi verun modello che somigli a quelle figure: con che si viene a conseguire il nuovo, il mirabile, e il sublime».28 L’autore, una volta che ha trovato e sbozzato i caratteri, dovrà fare in modo che costoro risultino comprensibili agli spettatori a teatro, e per far sì che il pubblico reputi tali personaggi veri-verosimili è necessario che le passioni che li animano non appaiano immediate e immotivate
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Id., Epistolario, vol. IV, Edizione Nazionale delle Opere, a cura di P. Carli, Firenze, Le Monnier 1954, pp. 214-226. A Silvio Pellico, Firenze 23 febbraio 1813. 28 Ivi, p. 215. Foscolo e gli altri esuli
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ma «covate da gran tempo». Determinante al fine di definire la base di un’estetica teatrale foscoliana è il ricorso a tre elementi che avevano animato il dibattito sull’estetica teatrale tragica nel corso del Settecento e nei primi anni dell’Ottocento: si era differentemente concesso spazio alla novità a teatro e alla meraviglia fin dalla fine del Seicento, per giungere a progettare la «perfetta tragedia»,29 e Muratori avvia quel dibattito dall’inizio del secolo con il suo trattato Della Perfetta Poesia italiana (Modena 1706);30 in molti lo proseguiranno fino all’Opera dell’Alfieri, che «aveva proclamato la necessità d’affidare ai poeti le sorti della drammaturgia, o addirittura della storia; e da Monti a Foscolo, da Manzoni a Pellico a Niccolini, i poeti si presentano alla prova ad uno ad uno, a turno, quasi in un’accademia poetica, dove tema costante del concorso sia: idea della perfetta tragedia»31 (e fra costoro coloro che mettono in scena le loro opere all’idea uniscono anche la pratica teatrale). Quel che sembra potersi inferire dalla parole di Ugo Foscolo è proprio un nuovo paradigma estetico che superi la dominante del nuovo o del mirabile o del sublime, al fine di contemplare nella tragedia l’intrecciarsi ponderato di tutti e tre i principi, senza i quali non si può ritenere compiuta alcuna opera d’arte. «Finalmente, dati questi caratteri e queste passioni, l’autore deve nel breve spazio dal principio alla fine della sua azione far nascere tali accidenti che, quantunque naturalissimi e quasi minimi, ridestino quelle antiche passioni, le facciano operare fortemente in que’ forti caratteri, e sciolgano pietosamente e terribilmente l’azione»:32 l’intreccio tragico appare affidato completamente ai caratteri degli eroi o dei personaggi e alle loro passioni, in modo che nel corso dell’azione drammatica si giunga allo scioglimento suscitando pietà e terrore negli spettatori. Il vocabolario è ancora aristotelico, ma l’impianto estetico è molto più complesso. In sintesi la proposta di Foscolo si condensa in una teoria, che va poi messa alla prova del testo spettacolare, e comprende: 1. il «mirabile ne’ caratteri», che quanto più appassiona gli spettatori tanto più riesce a coinvolgerli, un «mirabile più credibile e più atto a percuoterci, perché dipende non da fatti di fortuna, ma dagli individui dell’umana natura»;33 2. il «vero
29
F. Doglio, Il teatro tragico italiano, Parma, Guanda 1960, p. CXIII. N. Mangini, Drammaturgia e spettacolo tra Settecento e Ottocento: studi e ricerche, Padova, Liviana 1979. Sempre essenziale la consultazione per i problemi di estetica teatrale del volume di M. Apollonio, Storia del teatro italiano dal Medioevo al Novecento, voll. II, Milano, BUR 2003, in particolare nel vol. II, il capitolo I teorici della tragedia, e seguenti, pp. 350-365. Documentato e opportuno per il dibattito estetico sul teatro fra Settecento e Ottocento il recente volume di P. Mechelli, La scena di prigione nell’opera italiana fra Settecento e Ottocento, Monaco, GRIN Verlag 2011. 30 Si consulti: Dal muratori al Cesarotti, tomo IV, a cura di E. Bigi, Milano – Napoli, Ricciardi editore 1960. 31 M. Apollonio, Storia del teatro italiano dal Medioevo al Novecento, op. cit., vol. II, p. 479. 32 U. Foscolo, Epistolario, vol. IV, a cura di P. Carli cit., p. 215. 33 Ibidem. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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delle passioni» che, per l’immediatezza con cui si riconosce, induce gli spettatori al movere prima che al ragionare; 3. «il semplice dell’azione, perché quanto l’azione è complessa tanto è meno credibile».34 Con una sistematica progressione il poeta che si fa drammaturgo enuncia una teoria epocale ed originale: tutto quel che l’autore drammatico progetta e inserisce nel suo testo non può prescindere da una duplice fruizione: quella della lettura, per cui è valido quanto propone, e quella dello spettacolo messo in scena a teatro, ove «le azioni piene di avvenimenti stranissimi piacciono sempre al popolo; ma al lettore non mai»;35 lo scrittore, lo spettatore, il lettore cooperano ciascuno a proprio modo alla vita del testo spettacolare. La teoria così come Foscolo la formula necessita di un soggetto a cui applicarla: dal soggetto – o argomento – deriverà il «seme dell’azione de’ caratteri e delle passioni».36 I caratteri agiranno sulla scena, grazie al soggetto prescelto, in una «discordia armonica».37 E porta ad esempio ancora il suo Ajace: nella tragedia i caratteri dei vari personaggi sono «discordi in parte e in parte consonanti tra loro, finché si giunge agli estremi che sono in tutto e per tutto discordi».38 Il Foscolo rimprovera moderatamente all’amico che avendo scelto di trattare una tragedia d’amore non occupi con il solo sentimento-evento dell’amore tutta l’azione: «nella tua tragedia molte cose si fanno […] così l’anima del lettore si distrae dalla divina passione di Laodamia».39 Infine, dopo aver analizzato i singoli personaggi della Laodamia, Foscolo conclude icasticamente: da questi caratteri adunque, e prescindendo da’ loro difetti, deriva che la tua tragedia è una lotta di scelleratissimi avveduti e forti, contro i virtuosissimi incauti e deboli: e quindi da una parte ispira orrore e non terrore, e dall’altra pietà senza nobile ammirazione degli sventurati: il che t’è avvenuto perché il contrasto de’ caratteri non è graduato né armonico.40
È doveroso ribadire e mettere in piena luce, dopo tutto quanto detto fin qui, che per Foscolo l’essenziale della messa in scena del testo drammatico risiede nella ricezione: se lo scopo della tragedia è suscitare aristotelicamente la pietà e il terrore, nel primo caso la pietà senza l’ammirazione è sentimento dimidiato, nel caso del terrore non va confuso con l’orrore.41
34
Ivi, p. 216. Ibidem. 36 Ibidem. 37 Ibidem. 38 Ibidem. 39 Ivi, p. 219. 40 Ivi, p. 221. 41 Opportuna la consultazione del volume di B. Alfonzetti, Il corpo di Cesare. Percorsi di una 35
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Quel che Foscolo42 aveva scritto al Pellico derivava dalla personale esperienza con il teatro e con la messa in scena, con il pubblico, in un’interazione estetica non sempre facilmente dominabile, dal momento che la vera funzione dell’arte tragica deve risiedere sì nel fatto d’arte, ma anche nella sua sostanziale funzione vichianamente43 paideutica e civile. E in quella lettera al Pellico confluisce altresì una riflessione che Foscolo stava effettuando per la composizione di una sua nuova tragedia, il cui primo annuncio è in una lettera del 14 settembre 1812, ma l’ultima stesura per la messa in scena è del 29 maggio 1813:44 Ricciarda45. Di notevole interesse sono gli appunti contenuti ne le Istruzioni per gli attori.46 Foscolo non solo compone la tragedia, la pone al vaglio
catastrofe nella tragedia del Settecento, Modena, Mucchi 1989. Sul problema estetico del conflitto fra terrore e orrore nel teatro tragico precedente l’esperienza foscoliana utile anche E. Mattioda, Teorie della tragedia nel Settecento, Modena, Mucchi 1994, pp. 30-46. Per una prospettiva odierna del problema tragico del terrore e della pietà, feconda la lettura di P. Ricoeur, Tempo e racconto, Milano, Jaca Book 1991, pp. 77-81. 42 Complessivamente nel ragionamento del Foscolo, così come esposto nella lettera al Pellico, pare potersi individuare ben tessuta la lezione di Antonio Conti: A. Conti, Dissertazione sopra la Ragion poetica del Gravina, in Prose e poesie, Venezia, Pasquali 1756, voll. II, in particolare vol. II, pp. CLXIII-IV; vol. I, CXLVIII. Numerosi sono i riscontri di una lettura e conoscenza completa dell’opera di Conti effettuata dal Foscolo nel corso della sua permanenza e Venezia e poi a Milano, si veda, fra molti, un solo esempio: L. Carrer, Vita di Ugo Foscolo, a cura di Carlo Mariani, Bergamo, Moretti e Vitali edizioni 1995, pp. 121-145; 311, n. 186. Sul Conti si consulti il bel volume di G. Baldassarri, S. Contarini, F. Fedi, Antonio Conti: uno scienziato nella République des lettres, Padova, Il poligrafo 2009. 43 Si ricorra all’insostituibile saggio di Vitilio Masiello, Foscolo e Vico. Le fondazioni foscoliane della coscienza tragica, in Atti dei Convegni Foscoliani (Milano febbraio 1979), vol. II, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato 1988, pp. 435-455. 44 Foscolo, Epistolario, vol. III, a cura di Plinio Carli cit., p. 148 sgg. – pp. 267 sgg. Non ci si soffermerà ad analizzare la breve tragedia Ricciarda che è pienamente alfieriana, nel rispetto ancora delle tre unità pseudo-aristoteliche e con numerosi prestiti linguistici nella versificazione desunti da Petrarca; dalla storia del Medioevo, a cui Foscolo si stava appassionando fin dal 1811, è tratto l’argomento dell’angosciante vicenda salernitana di una trentennale lotta fra Guelfo e Averardo, fratelli, e della storia d’amore impossibile fra i loro rispettivi figli Ricciarda e Guido. 45 Molto suggestiva e non priva di interesse estetico e poetico l’intuizione critica di Alberto Granese, a seguito degli studi di W. Binni, Ugo Foscolo. Storia e poesia, Milano, PBE 1982, che ritiene la Ricciarda tragedia con la quale Foscolo tenta di «liberarsi da un magma profondo di sentimenti, di decantarli, sul piano linguistico-stilistico, per non sentirsene minacciato, quando contemporaneamente, componeva i luminosi frammenti fiorentini delle Grazie», in Ugo Foscolo. Tra le folgori e la notte cit., p. 227. 46 In U. Foscolo, Tragedie e poesie minori, a cura di Guido Bézzola cit., pp. 215-225. Foscolo approntò queste indicazioni per gli attori, proprio perché non poté personalmente essere preIX. Italiani della letteratura: Foscolo
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di esperti, si veda ad esempio la lettera alla contessa d’Albany,47 e poi della censura milanese, ma al momento della messa in scena bolognese, volendo ancora una volta curare egli personalmente la regia e i costumi, si preoccupa seriamente di come gli attori debbano recitare, forte dell’esperienza attoriale dell’Ajace, in cui si era trovato a dover istruire dei comici48 per farli divenire faticosamente eroi tragici: «Così infermo e bisognoso di quiete, vado sclamando e agitandomi per domare i comici, e farli diventare eroi: ed arrabbio spesso»49 scrive, e successivamente rivolgendosi al Fabbrichesi,50 capocomico, lo esorta a far attenzione ai singoli attori e alle singole parti della Ricciarda. Se aveva «diretto la prima recita» dell’Ajace di necessità, come aveva detto alla famiglia,51 così provvede a dare un’impostazione di recitazione e registica propriamente foscoliana anche alla prima della Ricciarda, fondata su una propria convinzione estetica precisa: la tragedia deve arrivare a colpire il pubblico suscitando il terrore e la pietà, in una sorta di necessaria empatia con i personaggi eroici che agiscono in scena. Tutto contribuisce a tal scopo: la scenografia, gli accessori, i costumi e evidentemente più di tutto le capacità attoriali. È nella dislessica percezione della messa in scena che «piacque» al pubblico, ma «spiacque» al poeta,52 cioè in una sorta di incomponibile divaricazione che risiede la consapevolezza drammaturgica di Foscolo. Di straordinario interesse è l’articolo Sul nuovo teatro di Como53 (1813), in cui, fra gli altri rilievi, il Foscolo sottolinea la necessità di adeguare tutto lo spazio interno del teatro «agli spettacoli dei nostri giorni». L’attenzione di Ugo Foscolo, che si
sente a Bologna, a sorvegliare e preparare gli attori, che dal 12 settembre, la tragedia andò in scena per la prima volta al Teatro del Corso, la sera del 17 settembre. 47 U. Foscolo, Epistolario, vol. IV cit., pp. 268-269. 48 Id., Epistolario, vol. III, a cura di Plinio Carli cit., in particolare la lettera di Blanes in cui si dice esplicitamente che vuole il copione dell’Ajace: «ond’io possa apprendere perfettamente a memoria la mia, per quindi essere in istato di bene rappresentarla sotto la tua direzione», p. 523. 49 Id., Epistolario, vol. III cit., la lettera ad Andrea Mustoxidi, venerdì 29 novembre, 1811, p. 543. 50 Id., Epistolario, vol. IV cit., pp. 280-281. 51 Id., Epistolario, vol. III cit., p. 497. 52 «La Tragedia fu pessimamente recitata… Guelfo avrebbe fatto eccellentemente se non avesse voluto far troppo, Ricciarda pareva una ragazza sentimentale, anziché una principessa innamorata altamente; piacque nondimeno al pubblico; a me spiacque moltissimo. Averardo fu sostenuto ragionevolmente. Ma Guido fu recitato in modo ch’io stesso che lo aveva meditato e scritto e riletto non intendeva ciò che quel disgraziato fantoccio vestito in scena da Eroe volesse dire»: U. Foscolo, Epistolario, vol. IV cit., pp. 349-350. 53 Id., Sul nuovo teatro di Como, in Prose politiche e letteraria dal 1811 al 1816, vol. VIII, a cura di L. Fassò, Edizione Nazionale delle Opere, Firenze, Le Monnier 1933, pp. 367-371. Foscolo e gli altri esuli
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firma Didimo Chierico, è non solo volta alla parte esterna, ma anche all’interno, e in particolar modo, ancora coerentemente con la propria estetica, alla fruizione del pubblico che deve poter assistere allo spettacolo completamente e senza “impedimenti’ o distrazioni all’illusione scenica. Si è citato l’articolo per ribadire, se ce ne fosse ancora necessità, una perizia estetica posseduta da Foscolo sempre funzionale alla ricezione spettacolare e che tiene presenti le innovazioni della sua contemporaneità. Infine dalla lettura, che non si può effettuare compiutamente in questa sede, dell’abbozzo d’articolo Della nuova scuola drammatica in Italia,54 con tanta energia e lucidità composto,55 ricaviamo che Foscolo dimostra di possedere una visione estetica raffinatissima e propria del testo spettacolare: egli dalla lettura dell’edizione manzoniana delle tragedie (Molini, Firenze, 1825) ritiene che il poeta deve essere poeta e «guardarsi dall’accompagnare i lavori della sua immaginazione con discussioni di teorie e regole dell’arte poetica»56 che lo renderebbero soltanto pedante; e in secondo luogo «in quanto alle illustrazioni storiche ogni autore di tragedia che professa la fede e la diligenza ne’ fatti, e giustifica ad uno ad uno i materiali su cui fonda il suo lavoro, non giova per nulla alla storia e nuoce alla poesia».57 Procede non tessendo semplicemente una teoria della verisimiglianza e dell’uso delle fonti storiche, ma proponendo una visione estetica del testo spettacolare tragico – in scena o alla lettura – in cui fondante appare l’illusione di realtà (nel mito così come nella storia), che il drammaturgo dovrebbe riuscire a generare attraverso il suo testo.58 Non si può rendere pienamente e credibilmente “storico” un testo tragico
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Id., Della nuova scuola drammatica in Italia, in Opere, a cura di Enzo Bottasso, Torino, UTET 1962, vol. II, pp. 847-889, da cui si cita per comodità. 55 Cesare Foligno, curatore della pubblicazione del testo nell’XI volume dell’Edizione Nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, Saggi di letteratura italiana (tomi II), Firenze, Le Monnier 1958, tomo I, pp. LXXXIX-XCVII, tomo II, pp. 559-618, propone la suggestiva idea che Foscolo volesse scrivere un breve trattato, almeno da quanto si ricava dalla mole di materiale che il poeta raccolse e dai numerosi appunti, ma poi si risolse a buttare giù un articolo, comunque incompleto. «Foscolo intorno a questo lavoro spese più cure che non usasse almeno negli ultimi suoi anni; che dunque attribuì importanza al suo lavoro e l’ebbe caro»: così Foligno, p. XCII. 56 U. Foscolo, Della nuova scuola drammatica in Italia cit., p. 851. 57 Ibidem. 58 Non è questo il luogo per riprendere le osservazioni del Fubini, su cui sarebbe ancora importante riflettere e la cui comprensione piena aprirebbe numerosi filoni di studio, tuttavia non si vuole passare sotto silenzio una affermazione, funzionale al discorso intrapreso dal critico, secondo la quale: «Nello scritto foscoliano Della nuova scuola drammatica in Italia vi è l’espressione di un’esigenza non appagata, anzi nemmeno sentita dal primo Romanticismo italiano: incapace a dare una teoria sua dell’arte, il Foscolo appare perspicace nel notare alcune deficienze nel pensiero degli italiani del tempo suo», M. Fubini, Ugo Foscolo. Saggi, studi, note, Firenze, La Nuova Italia 1978, p. 278. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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a partire dalla considerazione che il «discorso [cioè la recitazione] in versi è implicita, e nondimeno manifestissima concessione […] che i loro discorsi [cioè dei personaggi in scena] sono invenzioni […] e ne viene per direttissima, inevitabile, evidentissima conseguenza che tutto è finzione»:59 una finzione tanto insostenibile, a rileggere quanto si è detto per la lettera al Pellico sulla Laodamia, in quanto non bisogna ingannare il pubblico dei lettori o a teatro, volendo dissimulare con le giustificazioni documentarie storiche qualcosa di differente dalla finzione, perché «il secreto in qualunque lavoro della immaginazione sta tutto nell’incorporare e identificare la realtà e la finzione, in guisa che l’una non predomini sovra l’altra, e che non possano mai dividersi, né analizzarsi, né facilmente distinguersi l’una dall’altra».60 L’estetica tragica di Ugo Foscolo consiste, dunque, in una percezione completa del testo spettacolare dalla duplice prospettiva del poeta e della propria poetica e da quella dello spettatore travolto dall’illusione teatrale, ma in grado di comprendere pienamente e sinceramente sentire l’intenzione poetica autoriale, o di fraintenderla, a seconda di come viene caricato il complesso congegno della messa in scena.
59 60
U. Foscolo, Della nuova scuola drammatica in Italia cit., p. 851. Ivi, p. 864.
Foscolo e gli altri esuli
LUCA FERRARO Tassoni da De Sanctis a Foscolo: un esempio di mutazione nel canone
Per quasi cent’anni dopo la morte del Tasso, l’arte s’imbarbarì; sì perché le armi, i costumi e la letteratura spagnola immondarono tutta l’Italia, sì per l’ingegno prepotente del Marino, il quale, cercando novella via, traviò, e tirò seco gli altri a smarrirsi».1
Bastano poche parole al Foscolo de I vestigi della storia del sonetto per presentare un’immagine del Seicento in linea con quella di De Sanctis, che getterà un’ombra di pregiudizio sul XVII secolo di cui ancora fatichiamo a liberarci. Come sempre è Marino il massimo interprete dello spirito corrotto dei tempi, che tutti avvolge con le sue rime sensuali e licenziose, figlie di una poetica quanto più possibile lontana dall’idea di letteratura civile che per tutto il XIX secolo infiamma le pagine di scrittori patrioti di giudizi netti su chi meriti di essere introdotto nel canone e chi invece debba esserne escluso. Nessuno o quasi dell’età barocca salva De Sanctis dalla condanna al naufragio e così fa anche Foscolo, con due eccezioni. Ecco come continua nei Vestigi del sonetto: «Due felice ingegni di quell’età scansavano le universali barbarie: l’uno è il Chiabrera […] l’altro è il Tassoni».2 La ragione del «salvataggio» dell’antibarocco Chiabrera può essere intuibile, ma perché accostargli sulla scialuppa proprio il controverso poeta modenese? Nei suoi scritti critici Foscolo ha, come De Sanctis, in mente la creazione di un canone in cui includere gli autori che trova più esemplari per riempire di valori il contenitore ancora vuoto della patria. Leggendo il Saggio sui poemi narrativi, che traccia per ogni tipologia di poema una definizione ben precisa con archetipi segnalati ed analizzati, accolti o aspramente criticati, non si potrà che convenirne. Proprio in quanto si discosta tanto rispetto a quella desanctisiana, la lettura foscoliana di
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U. Foscolo, Vestigi della storia del sonetto, in Id., Prose politiche e letterarie (edizione nazionale, vol. VIII), Firenze, Le Monnier 1972, p. 139. 2 Ibidem. Foscolo e gli altri esuli
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Tassoni può essere un utile strumento per percepire la mutazione dal canone creato dal Foscolo critico, seguito per buona parte dell’Ottocento, a quello straordinariamente resistente inaugurato dallo studioso napoletano. Nella Storia della letteratura italiana di De Sanctis Secchia rapita e Scherno degli Dei sono definiti poemi comici comparsi al principio del secolo, dove sono volte in ridicolo le forme mitologiche ed epiche. Ma è comico vuoto e negativo, perché gli manca il rilievo nel contrasto di altre forme, e nulla è di positivo nello spirito de’ suoi autori, il TASSONI e il BRACCIOLINI. Nel loro spirito quelle forme sono morte e perciò ridicole.3
L’eroicomico è riso fine a se stesso, figlio di un’età vuota di valori e destinato a lasciare solo poche pagine scolorite dal tempo perché «il comico non chiude in sé alcuna affermazione, anzi viene da indifferenza e scetticismo» ed ha «tutt’i segni di una dissoluzione morale».4 Di questo mondo dissoluto che, dice il grande critico con una felice immagine, «sonò così spesso la tromba epica»,5 non un poema è sopravvissuto perché «erano capricci individuali, e mancava l’argomento del secolo».6 Quest’ultima considerazione in particolare sarà una mannaia che reciderà ogni opinione positiva perlomeno fino agli anni ’60 sul Tassoni e la sua produzione.7 Gli studiosi successivi dimostrano di credere al Modenese quando definisce la Secchia «capriccio spropositato fatto per burlare i poeti moderni».8 Ad inizio Novecento gli studiosi tassoniani puntano in particolare a tracciarne il profilo, riconducendo al suo estro capriccioso e bizzarro ed al suo pessimo carattere le motivazioni dell’invenzione dell’eroicomico, insieme all’attacco di nemici personali. La Secchia sarebbe quindi una banale opera satirica, scritta per livore e per regolamento di conti. Come tale è invecchiata rapidamente e poco godibile risulta ad un lettore moderno. Uno dei due studiosi che maggiormente insistono su questo punto è Venceslao Santi, artefice della monumentale Storia nella Secchia rapita,9 che
3
F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, (vol. 2), Milano, European book 1982, p. 474. Ivi, p. 473. 5 Ivi, p. 476. 6 Ibidem. 7 Salvo alcune interessanti eccezioni, come i Vociani, di cui qui non possiamo occuparci. Si rimanda a P. Zanfrognini, Per la ‘Secchia Rapita’, in «La Voce», diretta da G. Prezzolini, anno II, 14, 17/03/1910. 8 A. Tassoni, Lettera al Barisotti, 16/01/1616, in Id., Lettere, II, 12, in G. Rossi (a cura di), Le lettere di Alessandro Tassoni tratte da autografi e da copie e pubblicate per la prima volta nella loro interezza da Giorgio Rossi, Bologna, Romagnoli-Dell’acqua 1910. 9 V. Santi, La storia nella Secchia rapita, in Memorie della R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Modena. Memoria della sezione di Lettere, S. 6, I, Modena, Società tipografica 1906, pp. 87-467; IX, 1910, pp. 3-447. 4
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punta a ricondurre ogni personaggio ed evento del poema ad una copertura di persone ed eventi contemporanei. Leggiamo cosa scrive sul carattere del Modenese: Alessandro Tassoni, in cui all’altezza dell’ingegno ed alla ricchezza della dottrina non corrisposero altrettanta gentilezza di maniere, non ebbe, né poteva avere, amicizie durature. Il proposito deliberato di contraddire agli altri, il carattere violento e vendicativo, il linguaggio mordace, maledico e satirico […] contribuirono, anziché a procacciargli la benevolenza dei suoi contemporanei, a suscitargli contro l’avversione e l’odio.10
L’altro è Giovanni Nascimbeni, che afferma: «È opinione ormai accettata dai più che Alessandro Tassoni, indipendentemente dai fini generali di politica o d’altro […] abbia voluto nella Secchia rapita riprodurre uomini e fatti del tempo suo comicamente deformati e travestiti».11 Il ritratto più fortunato del poeta eroicomico è con un fico, che ne simboleggia l’estro bizzarro, cui Santi dedica un’intera monografia.12 In conclusione si può dire che dall’«effetto De Sanctis» si salvano in parte solo le Filippiche. Ben diverso è il ritratto che ne dà Foscolo. Della servitù dell’Italia è un accorato appello agli Italiani a seguire l’esempio dei padri, imbracciando le armi per liberare la Penisola dall’occupazione straniera, cercando di accordare il popolo ed il sovrano contro i ministri smembratori d’Italia e asserviti a padroni stranieri. I temi ed i toni, pur con qualche differenza, non sono lontani da quelli delle Filippiche attribuite a Tassoni, che hanno come soggetto, lo ricordiamo, la liberazione dalla cattività spagnola. Solo arroccandosi attorno a Carlo Emanuele I di Savoia ed al suo ambizioso progetto espansionistico i piccoli stati italiani potranno ottenere l’indipendenza. Le Filippiche sono una violenta arringa che fin dall’incipit, calco dell’«Usque tandem» ciceroniano, chiamano alle armi i nobili italiani. Leggiamo dalla prima pagina: «Negli animi nobili non credo che sieno ancora svaniti affatto quelli spiriti generosi che già dominarono il mondo, che i nostri nemici gli abbiano con gli artifici loro quasi tutti infettati di non meno empi che servili pensieri».13 Il Modenese capisce di chiedere molto ai nobili italiani, ma «le azioni degli uomini grandi non sogliono regolarsi dal comun volere».14 La
10 V. Santi, Il fedelissimo amico di Alessandro Tassoni, in Atti e memorie della R. Accademia di Scienze, Lettere, ed Arti in Modena. Memoria della sezione di Lettere, S. 6. I, Modena, Società tipografica 1926, p. 37. 11 G. Nascimbeni, Prefazione, in La Secchia rapita, Lanciano, Carabba 1914, p. 5. 12 V. Santi, Il fico di Alessandro Tassoni, Modena, Società tipografica modenese 1921. 13 A. Tassoni, Filippiche contra gli spagnoli, in Id., Annali e scritti storici e politici, vol. 1, a cura di P. Puliatti, Modena, Panini 1990, p. 219. 14 Ivi, p. 221.
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necessità di intervento è immediata, perché degli stati italiani solo Venezia rimane libera, seppur accerchiata dagli Spagnoli e dal Turco.15 Tassoni credeva, come ha dimostrato Mazzacurati, in un potere assoluto pacificante, capace di avere la meglio sulle piccole realtà locali padane.16 L’appello alla guerra può essere considerato dettato da convinzione autentica. La stessa Secchia, pubblicata quasi 10 anni dopo, può essere letta come la frustrazione del desiderio infranto di un potere unico che possa accorpare i piccoli ducati per sconfiggere gli Spagnoli.17 Accorate e piene di speranza sembrano queste parole: «Se ci mettiamo in cuore di non voler essere più soggetti a’ popoli stranieri e di voler eleggere i principi del nostro sangue, nati ed allevati con i costumi nostri d’Italia, tutta Europa insieme, non che tutta la Spagna, non ci farà violenza».18 Con le parole che seguono si chiude la prima delle due Filippiche: «Tutti sono membri di un medesimo corpo, che è l’Italia […] se si ritireranno dalla causa comune per rispetti privati, interverrà loro come alle membra del corpo umano quando tutte s’apportano del servizio del ventre per vana pretensione di precedenza».19 Una tale orazione, scritta con il rischio di carcerazione, non poteva non piacere a Foscolo. Significativamente, conclude le sue pagine sulla servitù dell’Italia proprio citando le Filippiche: «Il Tassoni […] esortava i signori e cavalieri Italiani a confederarsi col principe di Piemonte che guerreggiava contro la Spagna, allora dominatrice d’Italia, e nessuno si mosse».20 Ecco dunque spiegato il motivo per cui Foscolo discosti Tassoni dal buio morale che avvolge il suo secolo. Il poeta di Zante lo riconosce come una voce fuori dal coro che in tempi di servilismo tuonava, come lui, spronando alla libertà. Tuttavia per quanto riguarda le Filippiche anche dopo De Sanctis permane un giudizio positivo, seppur in parte inquinato dalle cattiva reputazione della Secchia. Ancora in pieno Novecento al Tassoni estroso e bizzarro è stato riconosciuto il merito delle orazioni contro gli Spagnoli, deprecando-
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Ivi, p. 224. Inserisco la citazione in nota: «Questo «progressismo» tassoniano […] come quello di Perrault si legherà esplicitamente al potere di Luigi XIV e alla sua «pax augusta», così appare affiliato alle simbologie politiche del grande regno, al mito alessandrino di un potere pacificante che estenda i propri confini […] affiliato cioè alle forme ideali dell’assolutismo monarchico», in G. Mazzacurati, Alessandro Tassoni e l’epifania dei “moderni”, in Id., Rinascimenti in transito, Roma, Bulzoni 1996, p. 176. 17 Cfr. G. Mazzacurati, Alessandro Tassoni… cit.; G. Mazzacurati, Il Rinascimento dei moderni, Bologna, il Mulino 1985, in particolare p. 186. 18 A. Tassoni, Filippiche… cit., p. 226. 19 Ibidem. 20 U. Foscolo, Della servitù dell’Italia, in Id., Prose politiche e letterarie (edizione nazionale, vol. VIII), Firenze, Le Monnier 1972, p. 280. 16
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lo per il riso fine a se stesso di altre opere. Foscolo, invece, mostra di apprezzare anche il linguista e critico, dialogando con le Considerazioni sopra le rime del Petrarca. Nel suo scritto intitolato Postille al Petrarca, pubblicato nell’edizione nazionale, si dimostra molto interessato alle osservazioni linguistiche sul Canzoniere, talvolta accettandone le conclusioni.21 Ma anche come difensore del Modenese dimostra di non lesinare energia e verve polemica. Un caso eclatante è lo scontro con il Biagioli, commentatore ottocentesco di Petrarca, che aveva così descritto l’autore delle Considerazioni: Il Tassoni, colle sue disoneste, e sozze, e sciocche critiche al Petrarca, s’è tirato addosso tanto sprezzo e disdegno, che non è italiano che, di lui pensando, non si senta rincirconire tutti i sangui; ed io son uno che vorrei piuttosto morir di sete, che bere a quella sua marcia Secchia.22
A queste parole Foscolo risponde con violenza e sdegno: Il Commento pubblicato da lei mi dolse tanto più, quanto che non essendo accomodato al secolo nostro, riesce macchiato qua e là di motti aspri e fors’anche illiberali e insieme impotenti, ma indegni più che altro sì di lei che li ha scritti […] Così nelle Rime del Petrarca, non era da lei, signor mio, né da uomo veruno, di latrare contro al Tassoni, scrittore che, per quanto talvolta andasse in bizzarrie, era gigante verso di noi; […] del resto, quando il Tassoni e il Muratori non avessero altro merito che la lor devozione all’Italia, con che in faccia a tanti pericoli rivelarono a viso aperto l’uno la tirannide degni Spagnuoli23
Oltre che per l’intellettuale, il polemista ed il linguista, non mancano toni entusiastici anche per il poeta, di cui sono valutati positivamente i sonetti e soprattutto la Secchia rapita, letta nella stessa chiave patriottica delle Filippiche. Questo è l’elemento di maggior interesse del pensiero foscoliano, quello che appare più stridente se accostato agli scritti di De Sanctis. Ecco come presenta il poeta eroicomico nel suo saggio sui poemi narrativi:
21
U. Foscolo, Postille al Petrarca, in Id., Prose politiche e letterarie (edizione nazionale, vol. VIII), Firenze, Le Monnier 1972, pp. 169-170. 22 N. G. Biagioli, Rime di Michelagnolo Buonarroti il vecchio, pp. XXXIX-XL, in A. Bruni, Nicolò Giosafatte Biagioli commentatore di Petrarca, in Il canone letterario nella scuola dell’Ottocento. Antologie e manuali di letteratura italiana, a cura di R. Cremante e S. Santucci, Bologna, Clueb 2009, p. 363. 23 U. Foscolo, Epistolario raccolto e ordinato da F. S. Orlandini e da E. Mayer, volume terzo ed ultimo, Firenze, Le Monnier 1854, pp. 259-260 [c. n.]. La polemica è analizzata da A. Bruni, Nicolò Giosafatte Biagioli commentatore di Petrarca, in Il canone letterario nella scuola dell’Ottocento. Antologie e manuali di letteratura italiana, a cura di R. Cremante e S. Santucci, Bologna, Clueb 2009. Foscolo e gli altri esuli
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l’effort le plus heureux de l’alliage du ridicule avec la dignité de la poesie heroique appartient à Tassoni […] Tandis que le mouvais gôut des «Concetti» et des Espagnols innondait l’Italie, Tassoni fut presque le seul qui s’en soit préservé. Il était critique subtil, et grammairien exact sans pédanterie […] courtisan sans servilité, et patriote dèpouillé de toute prevention pour son pays; grand poète qui a réussi à se frayer une route nouvelle, et la laisser impracticable à tout d’autres Italiens qui l’ont suivi en foule.24
Il giudizio sulla personalità di Tassoni è diametralmente opposto a quello enunciato dagli studiosi post-unitari. A Foscolo serve, nella costruzione di exempla su cui edificare la sua idea di tradizione, un personaggio controcorrente, uno che nel secolo per antonomasia della servilità ossequiosa sia «courtisan sans servilitè». «Io nacqui così amico di schiettezza e di libertà che neanche me medesimo so lusingare».25 Parole del genere così come la prefazione intera dei Pensieri (intitolata Perché l’autore non dedichi le opere sue), non possono non essere apprezzate da Foscolo. Il suo aver percorso con l’invenzione eroicomica una via novella, come l’autore dell’Ortis stesso aveva fatto, lo rende anche grande poeta, oltre che grande patriota. Anche su lingua e stile, difatti, non lesina gli elogi: «Son language est pur, noble, elegant, sans ombre d’affectation, et il a eu soin d’animer son style plus de la chaleur d’un historien, que de la flamme d’un poète fantastique».26 C’è da rimanere stupiti, ricordando che nel saggio sui poemi narrativi il riferimento è senza dubbio alla Secchia, «chief-d’ouvre of the heroicomic».27 Il linguaggio tassoniano è privo di affettazione, più simile a quello di uno storico che a quello di un poeta fantastico. Queste parole sono un modo per nobilitare il poema e la sua capacità di non perdere smalto nel corso del tempo. Da critico rigoroso nella sua stesura di un canone preciso del genere poema, apre il saggio distinguendone i vari sottogeneri tra romantic (Furioso), heroic poem (Liberata), heroicomic (Secchia rapita), burlesque (Ricciardetto) e satyrique (Animali parlanti del Casti).28 L’invenzione di Tassoni è distinta in modo netto da quella di Casti, al quale è riservata una critica feroce. Al di là della piattezza dei personaggi e del misero bagaglio allegorico, che sdoganato tutto nel primo canto rende superflui gli altri, il problema del modello satirico è il riferimento a persone viventi, mascherate negli Animali parlanti con volti zoomorfi. Dopo pochi anni la godibilità del poema viene meno, perché nessuno è in grado di
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U. Foscolo, Poemi narrativi (testo francese), in Id., Saggi di letteratura italiana II, edizione nazionale delle opere, (a cura di) C. Foligno, Firenze, Le Monnier 1972, p. 54. 25 A. Tassoni, Pensieri, in Id., Pensieri e scritti preparatori, a cura di P. Puliatti, Modena, Panini 1986, p. 631. 26 Ivi, p. 56. 27 Ivi, p. 4. 28 Ibidem. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
Tassoni da De Sanctis a Foscolo
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coglierne i riferimenti e «il n’y a que l’interêt de la littérature et de la langue nationale qui puisse conserver le poëme».29 Critiche interessanti sono anche quelle rivolte al Ricciardetto di Fortiguerri, archetipo del burlesco, che è «sans d’autre intention que de faire rire ses amis».30 Puro divertissement, che il critico attento mostra di non deprecare, apprezzandone lo stile seppur mostrando alcune riserve: «Sa diction est pure, mais sans elégance; ses plaisanteries sont vulgaires».31 Ricapitolando, le obiezioni poste al poema satirico sono, in sostanza, la poca permanenza dei riferimenti e quindi la poca fruibilità; quelli al poema burlesco sono l’essere riso fine a se stesso, fatto per divertire gli amici, e la volgarità delle plaisanteries. Sono tutte critiche che da De Sanctis in poi saranno rivolte anche a Tassoni. Pietro Puliatti, che nella sua Bibliografia tassoniana traccia minuziosamente l’intera parabola della fortuna della Secchia, nota come ad inizio XX secolo essa venga spiegata «nel senso di un legame con la realtà storico-sociale contemporanea, che nel caso del Tassoni si restringe perlopiù alla provincia con sporadiche puntate in altri ambienti: Roma e la corte pontificia».32 Da oratore patrio, viene ridimensionato alla stregua del Casti foscoliano, divenendo cantore «di una polemica spicciola, di una trita quotidianità municipale, di un realismo becero ed ingaglioffito». 33 L’invenzione eroicomica, come dice Natale Busetto ad inizio Novecento, è solo uno specchio della società contemporanea al poeta ed dei suoi personaggi: «Non sono gli eroi, grottescamente contraffatti, dei cicli epici medioevali […] ma personaggi o cavati dalla realtà contemporanea o foggiati ed atteggianti […] secondo quella realtà».34 Se dopo la Storia della letteratura italiana l’eroicomico è accostato al burlesco o, più spesso, alla pura satira, spicca nettamente per contrasto l’opinione foscoliana. L’attacco personale è ammesso nel capolavoro tassoniano, ma è considerato secondario, poiché «son but est tout-à fait national. Tassoni était ennemi de toute domination etrangère en Italie».35 Tra il poeta eroicomico e l’oratore delle Filippiche Foscolo non vede alcun diaframma, accostando entrambe le opere al comune intento di denunciare la miseria italiana e spronare all’orgoglio patrio, mostrando la meschina conseguenza della frammentazione in tanti piccoli staterelli tra i quali
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Ivi, p. 22. Ivi, p. 46. 31 Ivi, p. 50. 32 P. Puliatti, Bibliografia di Alessandro Tassoni, (2 voll.), Firenze, Sansoni 1969-70, p. 362. 33 Ivi, p. 363. 34 N. Busetto, La poesia eroicomica (Saggio di una nuova interpretazione), in «L’ateneo veneto», XXVI (1903), p. 523. 35 U. Foscolo, Poemi narrativi… cit., p. 56. 30
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scoppiano insignificanti baruffe per motivi frivoli (nel poema) o apertamente chiamando all’appello toto corde i patrioti alla insurrezione (nelle orazioni). Correttamente Puliatti parla per la recezione ottocentesca del poema di «operazione di ridimensionamento in senso patriottico della Secchia, che, assumendo funzione primaria anche rispetto alle stesse Filippiche, viene chiamata a svolgere ruolo di simbolo sia in quanto valore insurrezionale e stimolo d’italianità, sia in quanto condanna dell’inerzia degli Italiani di fronte al dominio straniero».36 In definitiva tutti gli aspetti della Secchia rapita sono interpretati in questa chiave. Un esempio calzante riguarda le cosiddette «parti serie», di cui anche Carducci e Croce parlano, comunemente individuate nelle storie degli amori di Luna e di Endimione e di Tarquinio e Lucrezia cantate dall’aedo Scarpinello. Sia Croce che Carducci le vedono come pezzi di bravura, che fanno da agente di contrasto nella chimica dell’opera. Ancora Croce le distingue da quelle eroicomiche affermando che in Tassoni «si ritrova la tendenza e l’attitudine alla poesia sensuale, che dà materia, nella Secchia rapita, all’idillio degli amori della Luna ed Endimione».37 Più avanti si rende più esplicito: «Tutto ciò era sempre involto nella forma barocca, o con essa si congiungeva. Ma, in quell’involucro e in questa lega, erano serbati, ed è sempre agevole discernerli, i due elementi di ben diversa provenienza […] l’uno, quello barocco, affatto intellettualistico e perciò frigido; l’altro, quello sensuale, pertinente al sentire e all’immaginare, e perciò caloroso».38 Laddove Croce distingue in modo netto parte comica ed epica, come si faceva fin dal Seicento, Foscolo considera le parti serie, nelle quali Tassoni indulge ad uno stile più ornato, una parodia dei «poetès les plus léchés».39 Appare evidente che tutti gli elementi criticati dalla Storia della letteratura italiana in poi non sono ignorati nel saggio sui Poemi narrativi, ma considerati positivamente perché altra è la prospettiva. Le bizzarrie del poema non passano sotto silenzio ma sono considerate penetranti e collocate al posto giusto («il le place presque toujours à propos»).40 Sicuramente il temperamento del Modenese era tale che «il ne pouvoit rien dire, rien faire, rien écrire, pas meme son testament, sans donner aux choses les plus graves une bizzarrerie sérieuse et passionée, et un mépris inattendu», ma il suo pregio è nell’aver avuto «le bon sens d’éctire d’après les indications de sa propre nature».41 Per concludere, l’Heroicomique si distingue, nelle stesse parole di Foscolo, nettamente sia rispetto al satyrique che al burlesque, perché
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P. Puliatti, Introduzione, in A. Tassoni, Annali e scritti storici, Modena, Panini 1990, p. XV. B. Croce, La poesia sensuale, in Id., La poesia e la letteratura italiana nel Seicento, «La Critica», XXV (1927), fascicolo V, pp. 269-299, p. 270. 38 Ivi, p. 271. 39 U. Foscolo, Poemi narrativi… cit., p. 58. 40 Ibidem. 41 Ibidem. 37
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il à puisé la plaisanterie dans les travers des individus et des nations existantes, et il les a peints héroiquement pour obtenir de ce contrast l’effet qu’un peintre feroit rèsulter en habillant un Adonis acec l’armure d’Achilles et la massue d’Hercule à la main.42
Ciò che conta rimarcare con forza è che il pensiero foscoliano non rimane isolato, ma contribuisce alla creazione di un canone che permane immutato fino a quella grande cesura che fu la Storia desanctisiana. Basta fare due rapidi esempi. Il contemporaneo Robustiano Gironi, nella sua Vita di Alessandro Tassoni, traccia del poeta barocco la stessa silhouette foscoliana: «Il Tassoni, ben lungi dal mettersi in cammino collo schiavo gregge degli imitatori, osò col suo ingegno aprire una via allora sconosciuta, e fissare così una nuova meta a chiunque nutriva una vampa di poetico ardore».43 La Secchia «sarà sempre noverata tra i poetici lavori che più onorano la nostra Italia».44 Il poema è considerato ancora attuale, visto che «viene letto con somma avidità anche ai giorni nostri».45 All’altro capo del percorso, un contemporaneo di De Sanctis dello spessore di Luigi Settembrini nell’affrescare nella sua Letteratura italiana il pantheon dei grandi scrittori italiani ha per il Modenese toni di elogio che qui non suonano nuovi: «Alessandro Tassoni mestamente sorrideva. Quel sorriso, che è carattere degli Italiani, diede un carattere nazionale al suo poema».46 «Uomo libero in mezzo a un’età di servi e corrotta, pensò da sé, sprezzò ogni autorità, non dedicò mai un libro a nessuno, fu critico acuto, poeta d’ironia».47 Per quanto riguarda la sua opera, Settembrini dice che «il suo poema, che pare uno scherzo, è una protesta».48 Questa breve messa in rilievo di tesi può fermarsi, avendo come solo obiettivo il registrare una volta di più quanto l’operazione di De Sanctis sia stata profonda, quanto il suo giudizio su chi dovesse appartenere ai «sommersi» e chi ai «salvati» a lungo insindacabile, capace di proiettare la sua ombra lunga, almeno per quanto riguarda il Seicento, fino ad oggi, condannando al dimenticatoio o quasi poeti ed opere che l’Ottocento pieno ancora apprezzava e che ai giorni nostri stiamo ancora riscoprendo dopo lunghi anni di silenzio. Alessandro Tassoni, che solo negli ultimi 20 anni è stato oggetto di un nuovo approccio critico non pregiudiziale, è un caso evidente.
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Ivi, p. 62. R. Gironi, Vita di Alessandro Tassoni, in La secchia rapita. Poema eroicomico di Alessandro Tassoni con la vita e le note compilate da Robustiano Gironi, Milano, Società tipografica de’ classici italiani 1806, p. 19. 44 Ibidem. 45 Ivi, p. 20. 46 L. Settembrini, Letteratura italiana, vol. II, Torino, Utet 1927, pp. 272-281, p. 272. 47 Ivi, p. 273. 48 Ivi, p. 274. 43
Foscolo e gli altri esuli
ALESSANDRO VITI Foscolo iniziatore della fortuna della figura letteraria dell’esule politico nel Risorgimento italiano
Le ultime lettere di Jacopo Ortis è considerata a buon diritto l’opera che ha aperto la via al mito letterario dell’unità nazionale, ascrivendo così Ugo Foscolo al ruolo di padre nobile del Risorgimento. Il valore inaugurale dell’Ortis risulta tanto più evidente se si riconosce il fatto che l’idea della nazione italiana risale non prima che all’inizio dell’Ottocento, come viene dimostrato, documenti alla mano, dal lavoro dello storico Alberto M. Banti, a partire dalla pubblicazione de La nazione del Risorgimento (2000). Ovviamente, l’idea di una comunità spirituale e di una tradizione letteraria e culturale italiana è ben più antica, ma l’aspirazione a un’effettiva unità politica è di epoca moderna: praticamente assente nella cultura settecentesca, aveva ricevuto un’attenzione complessivamente modesta anche durante il triennio giacobino, con la pubblicistica patriottica del tempo impegnata a discutere differenti piani di riforma politico-costituzionale.1 Tuttavia quest’idea, a partire dai primi anni dell’Ottocento, si trasforma in uno dei temi cruciali del lavoro intellettuale, che, per usare un termine novecentesco, diventa engagé. I testi letterari si rivelano ben più efficaci di qualsiasi trattato politico per plasmare la coscienza di molti futuri patrioti disposti a rischiare l’esilio, la prigione, la vita per l’ideale dell’Italia unita. Il giovane Mazzini, leggendo l’Ortis nel 1822, incominciò a pensare che si dovesse lottare per la libertà della patria: «L’Ortis che mi capitò allora fra le mani, mi infanatichì: lo imparai a memoria. La cosa andò tanto oltre che la mia povera madre temeva di un suicidio».2 L’episodio cruciale è notoriamente quello in cui Jacopo visita le tombe dei grandi italiani del passato in Santa Croce tributandogli appassionati omaggi, suggerendo così l’idea di una comunità ideale da rendere
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A. M. Banti, La nazione del Risorgimento, Torino, Einaudi 2000, p. 26. G. Mazzini, Scritti editi ed inediti, Imola, Galeati 1938, Vol. LXXVII, p. 8.
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finalmente fattuale tramite l’azione politico-rivoluzionaria; il romanzo però si può significativamente leggere in prospettiva anticipatrice della lotta per la nazione anche in riferimento a un tema come quello dell’esilio, che, a partire dagli anni venti del secolo, si ritaglia un ruolo fondamentale nella costruzione della mitologia risorgimentale. Nel convenzionale repertorio della retorica nazionalistica, la figura dell’esule errante con la patria nel cuore compare sotto varie declinazioni in numerose opere, in gran parte liriche, spesso intrisa di risvolti autobiografici.3 Foscolo rappresenta il precursore e l’iniziatore di questa tradizione. Nell’inviare in omaggio a Vittorio Alfieri il volume de Le ultime lettere di Jacopo Ortis, Foscolo sottolinea come il libro sia stato scritto in tre anni di esilio.4 Il fantasma dell’esilio incombe sin dall’esordio del romanzo, con l’intreccio che prende il via nel momento immediatamente successivo a un avvenimento storico cruciale come il trattato di Campoformio (1797) che, grazie ad un accordo di Realpolitik tra Napoleone e l’Austria, decreta la fine della breve esperienza della Repubblica veneziana nata sull’onda della rivoluzione. Lo scenario vede un grande numero di sbanditi improvvisamente in fuga da Venezia. Sin dalla prima lettera si viene a sapere che anche Jacopo compare nelle liste di proscrizione, ma si rifiuta di seguire i compagni sulla via dell’esilio, rifugiandosi invece sui colli Euganei, la terra dei suoi padri. Scrive: «Merita poi questa vita di essere conservata con la viltà, e con l’esilio? Oh quanti de’ nostri concittadini gemeranno pentiti, lontani dalle loro case».5 L’intera prima parte del romanzo è quindi contrassegnata da un esilio mancato, o meglio da un esilio dimezzato, visto che è comunque presente il senso di distacco da Venezia, la patria politica di Jacopo. Il soggiorno sui colli è vissuto come ricerca di un idillio al di fuori delle incalzanti vicende storiche. Ma questa tregua è caduca, e il temperamento inquieto di Jacopo lo porta a lasciarsi coinvolgere dall’impossibile amore per Teresa, che complica la situazione fino a rendere inevitabile una sua fuga. Da questo momento comincia il vero esilio di Jacopo ramingo per le diverse città italiane; la causa scatenante è quindi legata all’amore deluso, ma non bisogna dimenticare l’elemento politico, che è quello che gli impedisce di tornare a Venezia. Sarà allora corretto dire che l’esilio di Jacopo Ortis è al contempo politico e amoroso, in parallelo con la biforcazione tematica dell’intero romanzo (a ribadire la centralità del tema dell’esilio nella sua costruzione). I lamenti che Jacopo effonde nelle sue peregrinazioni di esule colpiranno
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Su questo argomento mi sia concesso di rimandare a «Ascoltate degli esuli il canto». Un’antologia tematica della poesia risorgimentale, a cura di A. Viti, Cuneo, Nerosubianco 2010. 4 U. Foscolo, Epistolario, a cura di P. Carli, edizione nazionale, Firenze, Le Monnier 1949, vol. I, p. 161. Lettera da Milano dell’ottobre 1802. 5 U. Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Gambarin, edizione nazionale, Firenze, Le Monnier 1955, p. 296. Lettera del 13 ottobre ’97. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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profondamente l’immaginario risorgimentale. L’amarezza è espressa in maniera particolarmente esplicita nelle lettere da Firenze: Non v’è gleba, non antro, non albero che non mi riviva nel cuore, alimentandomi quel soave e patetico desiderio che sempre accompagna fuori delle sue case l’uomo esule, e sventurato.6 Ed eccomi di città in città, e mi pesa sempre più questo stato di esilio e di solitudine.7
Ma già sui colli Euganei Jacopo dimostra di sentirsi esule, senza patria: «E chi non ha patria, come può dire lascierò qua o là le mie ceneri?».8 L’aspetto politico del romanzo è quello che incontrerà la sensibilità degli scrittori che, a partire dagli anni Venti e fino al 1861, saranno costretti all’esilio dalla loro partecipazione alla fase più acuta dei movimenti per l’unificazione. Esiste una vastissima produzione lirica, incentrata sulla figura dell’esule, che è letteralmente intrisa di elementi tematici e stilistici foscoliani: il motivo più riconoscibile è certamente quello del sepolcro, l’angoscia data dal timore di venir seppelliti in terra d’esilio, sorta di dannazione eterna per cui neanche le proprie spoglie potranno tornare nella madrepatria, per essere onorate e compiante dai propri cari e connazionali. Negli Inni Sacri scritti da Terenzio Mamiani, gli accenti più caldi si hanno nel finale di A San Terenzio (1833-36), quando il poeta esprime tutta la sua amarezza di esule rivolgendosi confidenzialmente al santo omonimo. Il maggior timore di Mamiani è proprio quello di esser sepolto in terra straniera: Io l’are tue più non vedrò, né dopo aggiunto il fine del mortal corso, di posar concesso mi fia le carni travagliate e stanche nel suol dolce nativo in sul ruscello di Gènica, e alle quete ombre pietose degli alti pioppi ove de’ giusti il sonno dormon le lacrimate ossa paterne: quanto ancor l’aure spirerò, vedrammi il Sol tra forestiere, invide genti viver ramingo e in qualche strania fossa lasciare il mio cener proscritto.9
Nel suo Ultimo carme (1838-43), frammentario testo ricostruito e pubblicato
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Ivi, p. 404. Lettera del 7 settembre ’98. Ivi, p. 407. Lettera del 25 settembre ’98. 8 Ivi, p. 304. Lettera del 12 novembre ’97. 9 T. Mamiani, A San Terenzio, in Id., Poesie, Firenze, Le Monnier 1864, pp. 210-11. 7
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postumo da Tommaseo, Giovita Scalvini intreccia il motivo sepolcrale con quello degli affetti familiari perduti. Il poeta in esilio è angosciato dal timore di non rivedere più la madre, e dal pensiero delle sofferenze dell’anziana donna rimasta sola: Di te, madre, mi duol, sola rimasta Nella vedova casa a’ tuoi cadenti Anni ad angerti il cor, lunge seguendo Coi miseri pensieri in pellegrine Terre i passi del figlio.10
Il latente senso di colpa per i dolori della madre dell’esule lontano è un altro motivo foscoliano che ricorre in molte liriche risorgimentali. Come ulteriore esempio valga Solitudine (1834) di Niccolò Tommaseo, che ha come sottotitolo proprio A mia madre: E allor che, infermo e vedovo D’ogni terreno affetto, le notti solitarie sul letticciuol negletto e ciechi i dì trarrò; allor turbata e in pianti, o madre, a me davanti l’immagin tua vedrò.11
Molto influenti si riveleranno anche i passi in cui Jacopo porta in giro la propria sofferenza di proscritto vagando solitario nello scenario selvaggio delle Alpi, le montagne che segnano geograficamente quei confini nazionali che all’Italia sono negati sul piano politico: Sono salito su la più alta montagna: i venti imperversavano; io vedeva le querce ondeggiar sotto a’ miei piedi; la selva fremeva come mar burrascoso, e la valle ne rimbombava; su le rupi dell’erta sedeano le nuvole – nella terribile maestà della Natura la mia anima attonita e sbalordita ha dimenticato i suoi mali, ed è tornata per alcun poco in pace con sé medesima.12
Giovita Scalvini apre il suo Il fuoruscito (1825) con l’esule protagonista in fuga sulle stesse Alpi occidentali:
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G. Scalvini, Ultimo carme, in Id., Scritti, a cura di N. Tommaseo, Firenze, Le Monnier 1860, pp. 300-301. 11 N. Tommaseo, Solitudine, in Id., Opere, a cura di A. Borlenghi, Napoli, Ricciardi 1958, p. 55. 12 U. Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis cit., pp. 370-71. Lettera del 25 maggio ’98. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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Fuggitivo per l’alpi e senza sonno vo da due notti e già la terza cade. Trae turbinoso per gli abeti il vento, si versa ad or ad or nembo dirotto, e all’umid’aere stride la rapita fiamma dei pini.13
Giovanni Berchet crea un’immagine particolarmente forte in una delle sue poesie patriottiche più celebri, Il romito del Cenisio (1823). Il vecchio rifugiato sul passo del Cenisio, che ammonisce gli stranieri narrandogli le sventure del paese che si apprestano a visitare, colpisce l’immaginazione risorgimentale («Da quest’Alpi infino a Scilla/è delitto amar la patria,/è una colpa il sospirar»).14 Foscoliana già dal titolo, L’ombre dei grandi italiani a Firenze di Francesco dall’Ongaro ribadisce il concetto già dantesco dell’esilio come prova cruciale in grado di forgiare l’animo di uomini resi ancor più forti e determinati a lottare per la patria: L’esilio ai cor magnanimi È scola e non pena: ai combattenti profughi schiude più larga scena: l’esilio è tuba, ond’esce maggiore il grido.15
Un’altra strada aperta da Foscolo è proprio il culto di Dante in quanto esule (il ghibellin fuggiasco), cacciato dalla propria patria per il suo amore verso di essa. Tra i molteplici modelli de Le ultime lettere di Jacopo Ortis, quello dantesco si configura come un’ispirazione a livello profondo, prevalentemente in riferimento al tema dell’esilio. Già nelle prime lettere l’ossessione sepolcrale di Foscolo si appoggia a una citazione di Cacciaguida: «O fortunati! e ciascuno era certo/della sua sepoltura; e ancor nullo/era, per Francia, talamo deserto» (Pd. XV, 118-20). Il personaggio foscoliano è palesemente identificato con Dante: li accomunano il carattere orgoglioso e, soprattutto, la condizione materiale di esilio (l’uno da Firenze, l’altro da Venezia) speso vagando tra le varie città italiane. La vicinanza è conseguentemente spirituale, dato che Jacopo si riconduce perfettamente al modello archetipi-
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G. Scalvini, Il fuoruscito, testo critico dall’autografo a cura di R. O. J. Van Nuffel, Bologna, Commissione per i testi di lingua 1961, p. 3. 14 G. Berchet, Il romito del Cenisio, in Id., Poesie, a cura di E. Bellorini, seconda edizione, Bari, Laterza 1941, p. 35. 15 F. Dall’Ongaro, L’ombre dei grandi italiani a Firenze, in Id., Fantasie drammatiche e liriche, Firenze, Le Monnier 1866, pp. 272-73. Foscolo e gli altri esuli
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co dantesco che prevede al contempo l’essere esiliato e l’esiliarsi, ovvero l’amarezza ed il rimpianto intrecciati all’orgoglio di essersene andati per scelta. Durante il Risorgimento Dante viene venerato come profeta e anticipatore della lotta contro gli invasori e per l’unità nazionale. Dante era il vate che prefigurava il destino dell’Italia unita (sebbene l’idea dell’Italia come nazione indipendente fosse stata a lui del tutto estranea), obiettivo da raggiungere attraverso un percorso segnato da lunghe sofferenze, tra cui quella dell’esilio. La serie di volumi curata da Carlo Del Balzo, Poesie di mille autori intorno a Dante Alighieri (1905), che raccoglie tutte le opere letterarie che nel corso della storia hanno avuto Dante come argomento o protagonista, permette di evidenziare come i riferimenti danteschi aumentino drasticamente di frequenza nei decenni del Risorgimento. In molte di queste opere, in gran parte poesie, l’esilio è posto in primo piano come tratto caratterizzante della biografia dantesca. Padre della letteratura italiana, Dante acquista una valenza ancor più accentuatamente «paterna» per il fatto di collegarsi con l’idea di patria, e specificamente di una patria ingiustamente perduta. In quanto scrittore che, grazie alla Commedia, ha saputo trasformare il proprio esilio in vittoria sul piano artistico, Dante rappresenta un modello in cui immedesimarsi per tutti i letterati esuli nelle varie città europee. Quando l’unificazione permetterà il rientro dei patrioti, l’idea di aver compiuto la missione già auspicata da Dante, riuscendo a coronare il sogno a lui negato di tornare onorevolmente in patria, farà dedicare la vittoria all’illustre predecessore idealmente vendicato. Dal momento in cui Foscolo stesso, come già il suo personaggio, parte in esilio politico, si avvicina ancor più al modello dantesco. Nel finale del secondo dei due articoli danteschi sulla Edinburgh Review, Foscolo, citando l’Epistola XII, si sofferma sui patimenti dell’esilio di Dante e sul modo in cui egli seppe mantenere la sua grandezza d’animo,16 autorizzando un paragone con le sue vicissitudini che non sfugge ai lettori inglesi. Foscolo, il primo e più famoso tra i fuorusciti, era visto come una sorta di reincarnazione ideale di Dante. Lui stesso avallava questa associazione dedicandosi a studi come il Discorso sul testo della Divina Commedia (1825).17
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U. Foscolo, Studi su Dante, a cura di G. da Pozzo, edizione nazionale, Firenze, Le Monnier 1979, vol. I, pp. 140-45. 17 «Foscolo further attempted to reconstruct his persona through cultural transference, by presenting through himself a new translation of the italian tradition, a new model of Dante: the medieval poet, also an exile, gave Foscolo the voice to speak, and Foscolo became a new Dante», C. Gaudenzi, Exile, translation and return: Ugo Foscolo in England, in «Annali d’italianistica», XX (2002), p. 230. Mia traduzione: «Foscolo cercò ancora di ricostruire la sua personalità attraverso la traslazione culturale, presentando attraverso sé stesso una nuova versione della tradizione italiana, un nuovo modello di Dante: il poeta medievale, a sua volta un esule, diede a Foscolo la voce per parlare, e Foscolo divenne un nuovo Dante». IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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L’esilio volontario di Foscolo dall’Italia ebbe inizio nel 1815, con la sua fuga dalla Milano della Restaurazione per cercare rifugio dapprima in Svizzera e poi in Inghilterra. Questa scelta drastica e coraggiosa ha avuto un grosso peso nella formazione dell’eroica immagine risorgimentale del poeta. Giuseppe Mazzini sottolineò la coerenza morale e politica del poeta esule additandolo come esempio da seguire per le nuove generazioni, Carlo Cattaneo proclamò che, abbandonando «per sempre l’Italia afflitta da regali ire straniere»,18 Foscolo avrebbe dato «all’Italia una nuova istituzione: l’esilio».19 In realtà, l’idea di esilio è presente in Foscolo ben prima del 1815, accompagnandolo sin dalla gioventù e permeando tutte le sue opere maggiori. Soprattutto, ha un nucleo profondo di significato che va oltre la contingenza politica. Lo stesso Jacopo Ortis è solo in parte un esule politico: egli prova sì compassione e solidarietà per i compagni di proscrizione, ma è spinto da una soverchiante forza interiore a distaccarsi da essi, sin dalla iniziale scelta di non seguirli per rifugiarsi sui colli Euganei fino al radicale rifiuto finale, in cui abbandona la lotta dandosi la morte. I veri esuli politici nel romanzo sono altri, «i martiri perseguitati dal nuovo usurpatore della mia patria. Quanti andranno tapinando e profughi ed esiliati, senza il letto di poca erba né l’ombra di un ulivo».20 Jacopo partecipa della loro condizione, ma in più è spinto sulla via dell’esilio da un’inclinazione personale slegata da ogni contingenza politica: Nojato di tutto il mondo, diffidente di tutti, camminando sopra la terra come di locanda in locanda.21 Io dovrei fuggire prima me stesso.22
L’irrequietezza che spinge Jacopo ad esiliarsi è anteriore non solo all’incontro con Teresa, ma anche alla proscrizione susseguente la caduta di Venezia. Ci sono in lui dei moti interiori profondi che fanno sì che egli non possa mai sentirsi appagato. Quello di Jacopo è uno stato di erranza esistenziale riconducibile alla contemporanea sensibilità romantica. A quel modello si aggiunge una coloritura politica determinata dalla situazione italiana nel momento di stesura del romanzo, e come architrave della costruzione romanzesca l’infelice storia d’amore con Teresa. La dialettica tra terra d’origine e terra d’esilio è in realtà fuorviante per l’animo di Jacopo come per quello di omologhi personaggi romantici quali Hyperion, Childe
18
C. Cattaneo, Ugo Foscolo e l’Italia, in Id., Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, a cura di A. Bertani, Firenze, Le Monnier 1948, vol. I, p. 304. 19 Ibidem. 20 U. Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis cit., pp. 359-60. Lettera dell’11 maggio ’98. 21 Ivi, p. 390. Lettera del 19 luglio ’98. 22 Ivi, p. 419. Lettera del 6 febbraio ’99. Foscolo e gli altri esuli
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Harold, René. Essi non sentono come loro patria il luogo in cui sono nati e cresciuti, così come una patria non possono trovare in nessuna delle loro peregrinazioni. L’elemento politico, condiviso con una collettività, e quello sentimentale, strettamente personale, non sono che due espressioni, per quanto importanti, della situazione d’esilio che domina l’Ortis. La loro semplice somma non è sufficiente a descrivere il peso rivestito dal concetto di esilio, che permea il disegno foscoliano ad un livello ancora più profondo e staccato da ogni contingenza. «L’esilio è il momento di più intensa significazione di tutto il mondo spirituale del Foscolo»,23 ha scritto Eugenio Donadoni. L’Ortis si inserisce naturalmente nel corpus di un autore che, in una lettera ad Antonietta Fagnani Arese, si definisce «esule dalla mia patria, straniero a tutto il mondo»,24 e che di conseguenza lascia che l’esilio entri in maniera più o meno esplicita in buona parte delle sue opere. Nel Sesto tomo dell’Io (1800-01) il protagonista si esprime in questi termini: «La patria?… il cielo non me ne ha conceduto».25 Così l’apertura del frammento di un progettato carme intitolato All’Oceano (1805): «Io nato in Grecia piena di avventure; e condotto in Egitto e in Atene, – ora dal fato medesimo mi veggo esiliato –».26 Quindi in Foscolo il concetto di esilio politico tende a sfumare, a confondersi in un sentimento di sradicamento esistenziale: «Un vano esilio, di cui la causa remota può essere politica, ma che è per vero incapacità di vivere una vita completa».27 Le liriche, in particolare i due grandi sonetti che trattano il tema dell’esilio e della fuga, permettono di capire come il tema sia una costante del suo immaginario poetico, biograficamente fondata su un trauma natale. Scritti a ventiquattro anni, sia In morte del fratello Giovanni che A Zacinto hanno come tema centrale l’esilio, che nel primo si intreccia con la morte, nel secondo con l’investitura poetica. Le «straniere genti»28 cui il poeta si rivolge In morte del fratello Giovanni non sono i francesi invasori, bensì gli abitanti di Milano, la città dove egli si trovava al momento di stesura della poesia, nel 1802. La lontananza che Foscolo sente con più dolore è quella da Zacinto, ovvero Zante, l’isola greca in cui è nato e da cui si è presto distaccato per raggiungere prima Spalato e poi Venezia: «Né più mai toccherò le sacre sponde/ove il mio corpo fanciulletto giacque,/Zacinto mia».29 Il senso di esilio va
23
E. Donadoni, Ugo Foscolo pensatore, critico e poeta, Palermo, Sandron 1910, p. 123. U. Foscolo, Epistolario cit., vol. I, p. 291. La lettera è ipotizzata risalire alla fine di ottobre 1801. A questo proposito si vedano le note del curatore dell’edizione. 25 U. Foscolo, Sesto tomo dell’Io, in Id., Prose varie d’arte, a cura di M. Fubini, edizione nazionale, Firenze, Le Monnier 1951, p. 10. 26 U. Foscolo, All’Oceano, in Id., Tragedie e poesie minori, a cura di G. Bézzola, edizione nazionale, Firenze, Le Monnier 1961, p. 345. 27 M Fubini, Ugo Foscolo, Firenze, La Nuova Italia 1962, p. 143. 28 U. Foscolo, Poesie e carmi, a cura di G. Folena, F. Pagliai, M. Scotti, edizione nazionale, Firenze, Le Monnier 1985, p. 96. 29 Ivi, p. 95. 24
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Foscolo iniziatore della fortuna
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visto come una «condizione di caduta, di definitivo esilio da un luminoso luogo d’origine».30 La condizione di esilio esistenziale di Foscolo deriva da un senso di sradicamento nato ben prima del trasferimento in Inghilterra, e anche della battaglia di Campoformio, le due tappe di perdita della madrepatria politica. Il trauma iniziale risale a quando, poco dopo la nascita, abbandona definitivamente Zante. Le origini del giovane Niccolò sono greche, l’Italia e la sua cultura non sono che una «patria adottiva»,31 come la definisce lui stesso in una lettera. La tradizione risorgimentale italiana, impegnata a consolidare il mito del Foscolo patriota, si è impadronita della figura del poeta dei Sepolcri, sminuendo per motivi politici l’importanza della sua cultura originaria e assumendone solo l’aspetto più astratto e nobile, quello del legame con l’antica Ellade. Maria Antonietta Terzoli invece sottolinea la necessità di approfondire il lato neogreco della cultura foscoliana, portando alla luce tracce di tradizioni elleniche nelle sue opere, come ad esempio il rituale della ciocca di capelli recisa in segno di lutto per la morte dell’amato, che viene descritto nell’ultimo incontro con la madre di Jacopo Ortis.32 L’esilio originario di Foscolo è quindi dalla Grecia, e paradossalmente la terra d’esilio sarebbe proprio l’Italia, di cui pure ha cantato appassionatamente. Quando lascia Milano, Foscolo è spinto dall’esigenza di salvaguardare un’indipendenza più artistica che politica: «il rifiuto di giurare obbedienza, non si fondava sulla difesa-proclamazione dei valori nazionali, dell’indipendenza della patria, come venne interpretato poi nel Risorgimento, ma su quella dei valori dell’arte, della poesia, la cui autonomia era per Foscolo unica salvaguardia alla sua mercificazione progressiva».33 Nel lungo esilio inglese, com’è noto, non produce più opere creative, ma soltanto di filologia e di critica. Foscolo combatte così l’amarezza del distacco cercando di riallacciarsi alla tradizione culturale dell’Italia abbandonata; non vuole tornarvi effettivamente, ma desidera solo ricongiungersi ai suoi padri poetici. La differenza sostanziale tra l’esilio di Foscolo e quello degli altri profughi italiani è che mentre essi accettavano l’esilio come una necessità contingente e anelavano un ritorno in patria, Foscolo guardava all’Italia come ad un’esperienza conclusa; mai egli pensò di tornare, piuttosto progettò diverse volte un mai realizzato ritorno in Grecia. Per i vari Berchet, Scalvini, Rossetti, Foscolo fu certamente un ispiratore, non però un compagno di lotte. Il pessimismo che nei suoi ultimi anni nutrì sugli sviluppi della lotta di liberazione, unitamente al suo carattere difficile, gli alienò anzi le simpatie della maggior parte degli altri esuli italiani in Inghilterra.
30
M. Cerruti, Introduzione a Foscolo, Bari, Laterza 1990, p. 85. U. Foscolo, Epistolario cit., p. 203. Lettera a Francesco Melzi del 14 giugno 1804. 32 M. A. Terzoli, Foscolo, Bari, Laterza 2000, pp. 175-76. L’intero capitolo ottavo del saggio (pp. 169-78) è dedicato alla questione greca. 33 S. Chemotti, L’esilio del Foscolo in margine a una originale interpretazione di Sebastiano Aglianò, in Atti dei convegni foscoliani, Roma, Istituto poligrafico e zecca dello stato 1988, vol. III, p. 229. 31
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Il mito risorgimentale di Foscolo quindi comprende solo in parte la complessità del poeta italo-greco; se è vero che non vanno trascurati gli aspetti politici-nazionali di alcuni passaggi dell’Ortis, dei Sepolcri e anche della Lettera Apologetica (1825) che tanto colpì Mazzini, si è visto come la sua concezione di esilio trascenda decisamente l’ottica politica entro la quale il tema verrà connotato nei decenni successivi alla sua morte. L’ambivalenza del rapporto di Foscolo con l’Italia va vista come sintomo del periodo di transizione in cui egli ha operato. Il suo ruolo è quello di cerniera tra l’intellettuale settecentesco e quello romantico e risorgimentale, di un precursore più che di un attivista. In un’opera come l’Ortis è possibile leggere il «Risorgimento in nuce, ma dai successivi scrittori e politici patriottici egli si distingue per la mancanza di un’utopia, che diriga e unifichi le forze d’azione».34 La lettura risorgimentale di Foscolo ha comprensibilmente evidenziato per nobili scopi alcuni aspetti della sua personalità a scapito di altri: una costruzione mitografica perfettamente riuscita, considerando l’importanza rivestita dal modello foscoliano in una missione coronata dal successo come quella dell’unità d’Italia.
34
M. Fubini, Ugo Foscolo cit., p. XIV. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
DONATELLA DONATI Ugo Foscolo: silenzi e sfoghi dall’esilio
1. Ugo Foscolo lasciò Milano diretto in Svizzera la sera del 30 marzo 1815, senza bagaglio, senza pastrano, portando con sé solo pochissime carte, probabilmente non immaginando che quella sua decisione l’avrebbe allontanato per sempre dall’Italia. La sua discesa in campo, avviata in gioventù con un ruolo definito e attivo come pubblicista politico e militare di carriera e continuata nel tempo esponendosi sempre in azioni e gesti di primo piano, nella turbolenta atmosfera creatasi fra il disfacimento del Regno d’Italia, travolto dai disastri di Napoleone, e l’insorgenza della Restaurazione, finì per costargli assai cara, proprio in quella stessa capitale lombarda, snodo essenziale e doloroso della sua geografia. E fu l’esilio.1 Quello di Foscolo fu un esilio volontario e drammatico, maturato fra tormenti e incertezze, la cui decisione fu soltanto accelerata dalla richiesta di giuramento di fedeltà all’Austria, dal momento che la sua posizione a Milano si era fatta assai difficile, forse insostenibile, e l’esilio dovette sembrargli ancorché necessario per sfuggire alla polizia austriaca, indispensabile per fugare i sospetti sulla sua figura di patriota e di scrittore.2
1 Nel presente contributo ci si riferisce all’esilio del solo periodo trascorso in Svizzera (aprile 1815-agosto 1816), non solo per ragioni di spazio, ma anche perché la successiva situazione di Foscolo, e le condizioni oggettive del suo lungo soggiorno inglese, renderebbero necessario un ampliamento del discorso in altre direzioni. 2 Si rammenti in proposito che nel febbraio 1815 usciva il libello, pubblicato anonimo, ma scritto dal senatore Leopoldo Armaroli, Sulla rivoluzione di Milano seguita nel giorno 20 aprile 1814, sul primo suo governo provvisorio e sulle quivi tenute adunanze de’ collegi elettorali, memoria storica con documenti, che associava Foscolo al partito responsabile dell’assassinio del Prina e lo indicava al pubblico ludibrio sotto le vesti «di un letterato estero, parassita delle mense ministeriali […] poeta, autore de’ Sepolcri e dell’Ajace, promosso capo-squadrone».
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2. Nell’Epistolario foscoliano3 latitanze e presenze di destinatari e corrispondenti sono particolarmente espressive quando le ricerchiamo a valle di quel fatto traumatico che fu la fuga da Milano. A partire dall’aprile del 1815 si registra un crollo numerico dei personaggi coinvolti nel carteggio, in parte “fisiologico”, per la volontà di proteggere se stesso e i destinatari, per la clandestinità che imponeva precauzioni e lunghi giri delle missive inviate e ricevute, per l’espatrio che determinava l’aggravio delle tariffe postali, in parte frutto di uno spaesamento e di quello che potremmo chiamare il ripiegamento depressivo dell’esule, condizione psicologica ampiamente condivisa fra coloro che dell’esilio fecero esperienza.4 Ma mentre gli esuli del tempo furono «generalmente inclini a lamentare il proprio infelice stato e ad invocare la pietà altrui»,5 in Foscolo la tendenza è visibilmente contrastata e rovesciata da un temperamento orgoglioso, sdegnoso e indomito, che lo spinge a tacere e ritrarsi in se stesso piuttosto che a esprimersi sollecitando compassione negli altri: caratteristica che fece di lui un personaggio molto più criticato di quanto non meritasse. Abbiamo così prove documentate di sospensioni nell’usuale scambio epistolare: è il caso del carteggio con Luisa Stolberg d’Albany alla quale il Foscolo scrive la prima lettera dall’esilio solo dopo tre mesi dall’arrivo in Svizzera, in data 4 agosto 1815, o di quell’altro con Quirina Mocenni Magiotti a cui risponderà solo a partire dal 31 ottobre. In una lettera, del 20 dicembre 1815, spiegherà a Quirina le ragioni di certi suoi silenzi: ti farà meraviglia ch’io non abbia via e persone da conversare scrivendo; pur così è; non che le vie manchino, ma non tutti hanno cuore, non tutti hanno memoria; pochissimi inoltre meritano ch’io scriva; e a questi per l’appunto temo d’essere causa di mille noie, massime nel paese ove stanno.6
E in un’altra ancora, diretta al banchiere Gaspero Porta in data 23 dicembre 1815, ribadisce la riluttanza a scrivere, e tuttavia l’impossibilità di astenersene quando l’indigenza e lo stato d’isolamento, acuito dall’inverno svizzero, lo rendono indispensabile:
3
Le lettere e le opere di Foscolo citate a testo e nelle note fanno riferimento a: U. Foscolo, Edizione Nazionale delle Opere, Firenze, Le Monnier 1933-1994, 23 voll., che si abbrevia rispettivamente con le scritture Epistolario e Opere EN, seguite dal numero del volume di riferimento. 4 W. Spaggiari, La lettera dall’esilio, in, Scrivere lettere. Tipologie epistolari nell’Ottocento italiano, a cura di G. Tellini, Roma, Bulzoni 2002, pp. 41-81. 5 Ivi, p. 45. 6 Lettera n° 1786. A Quirina Mocenni Magiotti, Hottingen 20. XII. 1815, in Epistolario VI, p. 149. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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da più mesi mi sono appigliato al sistema di scrivere raramente, e di non incomodare gli amici; ma la necessità era chiamata dagli antichi deità onnipotente: io non esagero tanto; credo bensì che senza esagerazione la si possa chiamare deità prepotente.7
In Foscolo povertà e bisogno, mai ostentati né pateticamente esibiti, sono piuttosto dichiarati a testa alta dopo aver vinto una lunga battaglia con istintivi moti di vergogna. Solo allora è possibile palesare all’interlocutore la propria situazione, talvolta presentandola con la stoica saggezza con cui sembra far fronte allo squallore della grama esistenza e alle preoccupazioni per un futuro quanto mai incerto. Ascoltiamo cosa scrive, sempre nella stessa giornata del 23 dicembre, all’amico Sigismondo Trechi: Del resto io sono apparecchiato a tutto; e con le forze del mio corpo che si sono riavute, mi sento rifare anche l’anima: non che il coraggio salvi uno dal precipizio; nondimeno lo aiuta a cadervi da uomo: e il vedere come gli uomini mi abbandonino, non mi giova poco a fortificarmi contro la morte; il che è pur grande compenso per chi è costretto a pensarci ogni giorno.8
In altri momenti invece, a far capolino fra le righe è l’ironia alla Sterne e più che a Ugo potremmo pensare a Didimo, che discorre dall’esilio sorridendo, fra il malinconico e lo smaliziato, delle piccole e grandi croci della vita da profugo. Con questa voce scrive per la prima volta dalla Svizzera alla contessa d’Albany, a cui parla di sé in terza persona con il nome di Didimo, costruendo una pagina narrativa di impronta settecentesca, dove con ritmo distaccato ed elegante misura, si racconta nella veste di esule che «Vive di poco e con poco: senza servo, nè copista, nè barbitonsore» e che per questo «a forza di sfregiarsi le guance, ha imparato a maneggiare i rasoi da sé».9 Ma non mancano accenti di dura polemica quando scrive che si compiace «di vivere oscurissimo in terra neutrale, per non avere a che fare né con ebrei né con samaritani; tutta canaglia»10 riferendosi chiaramente, sotto la veste allegorica, ai colori austriaci e francesi da cui non solo è ben deciso a star lontano, ma sui quali con forza lascia cadere il pesantissimo e irredimibile giudizio. La motivazione a tacere nasce però anche da altre situazioni. Talvolta la scelta di non farsi vivo o di diluire nel tempo le notizie di sé è il risultato di una decisione diplomatica, della necessità di una pausa di riflessione, della volontà di non lasciarsi trascinare da un moto d’ira o da uno stato emotivo troppo coinvolgenti. Così all’irriverente risposta che l’Albany gli invia in data 15 agosto 1815,11 lettera piena
7
Lettera n° 1791. A Gaspero Porta, Hottingen 23. XII. 1815, in Epistolario VI, p. 167. Lettera n° 1792. A Sigismondo Trechi, Hottingen 23. XII. 1815, in Epistolario VI, p. 168. 9 Lettera n° 1720, Alla contessa d’Albany, Ouffenau, 4. VIII. 1815, in Epistolario VI, p. 61. 10 Ibidem. 11 Lettera n° 1723, Della contessa d’Albany, [Firenze]15.VIII.1815, in Epistolario VI, p. 64. 8
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di malgarbo in cui accusa sostanzialmente il poeta di essersene andato da Milano senza alcun motivo se non quello di rendersi originale, non risponderà che a distanza di mesi,12 dopo aver emendato la sua missiva dall’irritazione e dal risentimento giustamente esplosi in una lettera mai inviata, conservata nelle carte della biblioteca Labronica,13 molto più virulenta di quella effettivamente spedita. 3. Il temperamento virile e l’orgoglio ad esso connaturato consentono al Foscolo l’effusione senza filtro del proprio sentire solo con la «Donna gentile» alla quale è possibile aprire l’animo e specchiarsi di rimando nella sofferenza partecipata e condivisa di lei. È infatti il carteggio con Quirina l’osservatorio privilegiato per conoscere e capire il versante nascosto e privatissimo dell’esilio elvetico.14 È qui che lo spirito guerriero di Foscolo può trovare finalmente riposo e conforto nella confessione. Sono le lunghissime lettere a Quirina che raccontano i fastidi e le difficoltà quotidiani, le deprivazioni dell’intellettuale che ha perso i libri, il dolore e l’esitazione dell’uomo incerto sul da farsi, le preoccupazioni per la madre, la delusione per gli amici che sente meno solleciti o più prudenti di un tempo; è qui che il perseguitato politico e l’artista di genio lasciano il passo a un Ugo che talvolta, non sempre, appare precocemente invecchiato, in qualche occasione persino dubbioso di sé, e ormai scettico circa la possibilità di poter aspirare alla quiete e al conforto dell’amore e del calore di una famiglia. Anche la povertà e l’umiliazione narrate all’amica, escono dirette e immediate dalla penna di Ugo senza l’artificio dei filtri letterari che abbiamo visto prima. A titolo di esempio si legga la lettera in cui racconta i tentativi per vendere l’orologio allo scopo di saldare i conti al parroco dal quale era a pigione: Io non ti so descrivere due circostanze tremende all’anima mia: l’una il rossore col quale io proferiva la mia mercanzia; l’altra la diffidenza con che i compratori m’andavano squadrando dalla testa alle piante! – Ecco cosa io devo patire in questi giorni ne’ quali ho chiuso l’anno trentesimo settimo della mia vita! –15
o quella in cui lamenta di non avere maglie per l’inverno, faccenda definita una
12
Lettera n° 1788, Alla contessa d’Albany, Hottingen 21. XII. 1815, in Epistolario VI, pp. 154-
164. 13
Cfr. Lettera n° 1729, in Epistolario VI, pp. 73-79 (dalla minuta autografa, in Labr. XXXVII, c. 296, che a sua volta è accompagnata da altri tre abbozzi interrotti). 14 Il carteggio Foscolo-Quirina, relativo al periodo dell’esilio svizzero, consta di 74 lettere, di cui 31 del poeta e 43 dell’amica fiorentina. 15 Lettera n° 1823, A Quirina Mocenni Magiotti, Hottingen 20. I. 1816, in Epistolario VI, p. 222. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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«disgrazia fra l’altre»,16 o ancora la lettera in cui descrive le orripilanti minestre in casa del parroco17 tutte realtà minime, frangenti dolorosi per chiunque, ma certamente ancor più difficili da affrontare e soprattutto da riferire per un uomo come Foscolo che visse sempre la mancanza di denaro come una sorta di vergognosa malattia da tener celata. 4. Della forte tensione psicologica che connotò il soggiorno in Svizzera, fecero le spese anche gli amici più cari di Foscolo come Silvio Pellico e Sigismondo Trechi. Il primo accusato di freddezza ed eccessiva prudenza, il secondo, colpevole di quella che potremmo definire una più che infelice battuta riguardante il denaro, ricevettero rimostranze severe e sferzanti parole di risentimento a cui seguirono pentimenti, reciproche scuse e commosse dichiarazioni di affetto da ambo le parti. Nella lettera al Trechi l’esuberante vis polemica di Foscolo, arrabbiato e deluso dal comportamento dell’amico, si dispiega in uno sfogo di caustica energia che lascia travolto il lettore e, a maggior ragione, possiamo figurarci l’effetto che avrà prodotto sul mortificato destinatario.18 Leggiamone un breve rovente stralcio: non mi sta bene, a me che ho sdegnato di vendermi ai premi de’ principi, ed ho, come voi lo sapete più ch’altri, anteposto l’esilio, e la miseria, e la fame e la nudità […] alla disonestà; non mi sta bene il prostrarmi sotto l’avvilimento dell’altrui carità […] voi mi tenete come accattone vilissimo che come, stretto dal bisogno, ha teso la mano a voi, così l’avesse stesa o fosse per istenderla a tutti gli altri. Or sappiate che a nessuno ho chiesto aiuto se non a voi; e voi mi avete sconfortato per sempre dal chiederne ad altri;19
Ma il temperamento del poeta non poteva contenere solo nel conforto, benché prezioso, di Quirina e nei ripresi contatti con gli amici di un tempo la sete di esperienze, l’esuberante affettività e il bisogno di nuove relazioni interpersonali. Nell’ambiente zurighese frequenta la piccola cerchia che fa capo al libraio-editore Füssli, conosce Jacob Heinrich Meister20 con il quale intrattiene un rapporto anche
16 17
Lettera n° 1808, A Quirina Mocenni Magiotti, [Hottingen] 6. I. 1816, ivi, p. 198. Lettera n° 1796. A Quirina Mocenni Magiotti, Hottingen 27. XII. 1815, in Epistolario VI, p.
179. 18
Cfr. Lettera n° 1832, A Sigismondo Trechi, Hottingen 3. II. 1816, in Epistolario VI, pp. 238-
243. 19
Ivi, p. 240 Jacob Heinrich Meister (1744-1826), zurighese di nascita, letterato e intellettuale, battezzato da Voltaire «le martyr de Zurich» perché nel 1769 subì il bando e la privazione della cittadinanza, per un suo scritto antireligioso (De l’origine des principes religieux), soggiornò a lungo a Parigi dove dal 1770 al 1782 diresse la Correspondance littéraire. Allo scoppiare della 20
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epistolare, riprende i contatti con una dama milanese tanto sfortunata quanto bella, Matilde Viscontini Dembowski.21 Ma non basta: sentimentalmente inquieto e sempre disponibile all’avventura erotica o al fantasma di questa, intreccia una complicata e singolare relazione con Veronica Pestalozza, di cui frequenta assiduamente anche il marito, e parallelamente a tale storia, proprio nello stesso periodo, rimane coinvolto nell’oscura vicenda di Spiridione Castelli e Lucia Negri22 reiterato garbuglio di passione, adulterio e fughe ripetute, con ogni probabilità un caso di plagio ai danni della donna, ben evidente agli occhi del poeta che conosceva i due protagonisti dai tempi di Milano, ma ignota agli occhi dei cittadini di Zurigo che credevano i due italiani marito e moglie. Ebbene Ugo cerca di aiutare la Negri, che ha partorito da pochi mesi il figlio della colpa, ad allontanarsi dall’amante-persecutore, ma il Castelli, lo accusa per sventarne il piano, e per vendetta, di essere il seduttore di sua moglie, con una capacità di convincimento, sostenuta anche da una buona conoscenza della lingua tedesca, che per qualche tempo sembra in grado di compromettere la posizione del Foscolo presso conoscenti e amici svizzeri. Nella primavera del ’16 in un momento particolarmente duro in cui la burrascosa conclu-
rivoluzione passò in Inghilterra e dopo poco tempo tornò a vivere a Zurigo dove la sua condanna era stata annullata. (Notizie ricavate dalla nota alla Lettera n° 1743, in Epistolario VI, p. 93) 21 Matilde Viscontini (1790-1825) di ricca famiglia borghese, e sentimenti liberali, è nota, più che per la sua amicizia con Foscolo, per aver suscitato la non corrisposta passione in Stendhal, conosciuto nel 1818 a Milano, e per essere rimasta coinvolta nel 1821 nel processo Confalonieri, senza tuttavia riportare troppo gravi conseguenze. Ai tempi dell’esilio svizzero di Ugo Foscolo soggiornò a lungo a Berna in attesa di conseguire una completa separazione legale da suo marito, il generale Gianbattista Dembowski. (Notizie ricavate dalla nota alla Lettera n° 1736, in Epistolario VI, p. 84) 22 Lucia Negri, nata Nani, moglie di Benedetto Negri, maestro di musica del Conservatorio di Milano e madre di due bambini abbandona una prima volta la casa del marito, nell’autunno del 1814 per seguire Spiridione Castelli a Parigi, a sua volta coniugato con Regina Hartmann e padre di un figlio. Lo scandalo era ben noto a Milano. Foscolo li conosceva entrambi sia perché frequentava saltuariamente come conoscente la casa dei Negri a Milano, sia perché subiva, nonostante ne provasse una forte antipatia, l’invadenza appiccicosa del Castelli, che voleva a tutti i costi intrattenere un qualche legame col poeta. Il caso riportò tutti e tre a Zurigo, dove Castelli spacciava la Negri per sua moglie e cercava di sfruttare la conoscenza del Foscolo per intrufolarsi come traduttore e compilatore di un dizionario nella cerchia zurighese frequentata dall’esule italiano. Foscolo era fortemente turbato dal fatto che quest’uomo, effettivamente indegno, potesse sconfessare il buon nome degli italiani nell’ambiente più che puritano di Zurigo e probabilmente fu sincero il suo personale impegno nell’aiutare la Negri, tuttavia il suo progressivo coinvolgimento nella vicenda appare improntato a una certa imprudenza, forse non priva di qualche ambiguità nel rapporto che si venne a creare con Lucia. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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sione della relazione con Veronica e il coinvolgimento nello scandalo turbano nel profondo la coscienza di Ugo, così egli scrive a Quirina: «Questa lunga, forzata, terribile solitudine e di corpo, e di mente, e di cuore; questo non poter parlare a persona amica – questo, questo è il mio carnefice vero»23 che è la cifra per sintesi del suo patire l’esilio: una lunga, lunghissima se andiamo a considerare anche il periodo inglese, sequela di giorni dove non si ricostituirà mai più quel senso forte di appartenenza a un paese, a una gente, a una patria che rende sopportabile e persino non troppo amara l’inevitabile solitudine individuale. Ho ricordato questi due episodi non tanto per le vicende in se stesse, ma perché entrambi ci permettono di accedere a un altro piano di “silenzi e sfoghi” epistolari, piano che è forse più interessante perché strettamente correlato all’attività creativa di Foscolo. Nei tumultuosi giorni di questo intrico di emozioni, calunnie, paura e pentimenti, dove a tratti neppure le buone intenzioni sembrano del tutto innocenti, Foscolo anticiperà a Quirina, in data 20 marzo 1816, di volerle inviare a breve una lunga lettera-memoriale24 in cui le avrebbe narrato per filo e per segno i penosi casi appena trascorsi e il rimorso che lo tormenta. Noi sappiamo che si trattava del fatto di aver denunciato, in preda a un furioso attacco di gelosia, all’infelice marito di Veronica il disinvolto atteggiamento della donna con un altro innamorato, rivale del poeta. E la lettera-confessione, in data 23 marzo 1816, sulla relazione con Veronica verrà iniziata e scritta per un buon tratto. A noi ne rimane l’autografo alla biblioteca Labronica di Livorno,25 anche se questo, palesemente interrotto, non sviluppa fino alla conclusione tutta l’evoluzione della storia. La lettera incompiuta, che presumibilmente rimase tale poiché Foscolo si pentì della decisione di parlare con Quirina della vicenda Pestalozza, è per noi fra le più interessanti poiché costituisce sia il resoconto autobiografico, ancorché parziale, di un caso singolare occorso al poeta durante l’esilio, sia un altro indizio dell’evidente riluttanza a portare a termine scritture puntualmente autobiografiche. E c’è di più: entro la prima metà del mese di marzo 1816 Foscolo si era sentito costretto dal suo coinvolgimento nello scandalo Negri-Castelli a redigere un resoconto della vicenda che nelle sue intenzioni doveva fornire sia le prove della sua buonafede e innocenza sia un circostanziato atto d’accusa per lo spregevole Castelli. Di questo memoriale, sempre in Labronica, abbiamo un apografo e dei brandelli di minuta autografi e dalla corrispondenza con Sigismondo Trechi sappiamo che queste carte furono inviate a Milano, ma che Foscolo fu vivamente sconsigliato di intraprendere azioni legali contro il Castelli. Anche in questo caso tuttavia manca la conclusione della vicenda, manca il completamento del verbale
23
Lettera n° 1880, A Quirina Mocenni Magiotti, [Hottingen] 20. III. 1816, p. 343. Cfr. ivi, p. 344: Lettera n° 1880 cit.: «Un dì […] saprai tutto storicamente». 25 Labr., XXXVII, cc. 349-356. 24
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come era stato progettato, anche qui la realtà sembra venire a noia all’autore, che perde interesse a una scrittura circostanziata e storica, prettamente biografica. Dunque un altro silenzio, almeno apparentemente. Ma l’eco del reale torna, potente e riconoscibile, nell’opera e non è improprio cogliere la risonanza fra i reperti della Labronica prima citati e la Notizia intorno a Didimo Chierico nella sua redazione svizzera che accompagnava, con aggiunte e correzioni rispetto alla precedente redazione pisana, l’Ipercalisse.26 Senza però spingerci troppo innanzi a cercare precise e puntuali corrispondenze: Didimo è sempre fatalmente insidioso e la scrittura che lo riguarda assai criptica, così da concederci raramente interpretazioni prive di forzature. Connettere i rimorsi di cui Ugo fa ammissione con Quirina al titolo dei tre capitoli del manoscritto greco di Didimo, interpretandoli puntualmente, è una possibilità suggestiva che tuttavia non va oltre il campo delle ipotesi. Non può comunque passare inosservato che «rimorsi» e «tenebre corporee» e poi ancora «tenebre che avviluppano l’anima», e tutta quanta la tessitura del passo aggiunto all’ultima redazione della Notizia, facciano pensare a un’ispirazione letteraria che si è nutrita avidamente delle conturbanti esperienze di quel periodo. Del resto Foscolo evita di proposito, in tutta la sua opera, la coincidenza fra ioautoriale e io-protagonista, quale si determina nella forma esplicita dell’autobiografia: non si misura mai direttamente con questo genere, bensì gioca a più riprese e con insistenza a parodiarlo, a forzarlo e trasgredirlo, quasi volesse studiarne le potenzialità. Dobbiamo dunque tener sempre presenti tutti i gradi di libertà che il poeta si concede, come l’accentuato livello di trasfigurazione del vissuto personale, la predilezione per il gioco della mescidanza fra vero e falso, fra realmente accaduto e immaginario, fra scrittura privata e scrittura concepita per la pubblicazione. Foscolo portò con sé in Inghilterra sia le lettere della Pestalozza sia il verbale della vicenda Negri-Castelli. Che neppure qui furono materiali inerti da un punto di vista progettuale e creativo, come si evince dall’autografo di sommari, citazioni e poche pagine abbozzate di romanzo27 dove riaffiora l’ombra dei personaggi e delle
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Ricordiamo che la Notizia intorno a Didimo Chierico nasce di accompagnamento alla traduzione del Viaggio sentimentale, è quindi pubblicata la prima volta nell’estate del 1813 a Pisa, viene poi riproposta, e parzialmente rielaborata, per l’uscita presso Füssli a Zurigo nel 1816. Per comodità del lettore si riporta il passo della Notizia indicando fra parentesi quadra dove terminava la prima redazione, in modo da valutare la significatività dell’integrazione: «Uno de’ cinque libri de’ quali è composto il manoscritto greco citato poc’anzi, ha per intitolazione: Tre amori. [Termina qui la redazione del 1813] E i tre capitoli di esso libro cominciano: Rimorso primo; Rimorso secondo; Rimorso terzo: e conlude: Non essere l’Amore se non inevitabili tenebre corporee le quali si disperdono più o men tardi da sé ma dove la religione, la filosofia o la virtù vogliano diradarle o abbellirle del loro lume, allora quelle tenebre ravviluppano l’anima, e la conducono per la via della virtù a perdizione. Riferisco le parole; altri intenda», in Opere EN V, p. 178. 27 Anche questo autografo è conservato nei manoscritti labronici (Labr. XXI, sez. B, cc. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
Ugo Foscolo: silenzi e sfoghi dall’esilio
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storie in cui si era imbattuto a Hottingen, ma al tempo stesso rielaborate, intersecate con altre vicende e figure del soggiorno londinese. In un passo della lettera a Quirina scritta il 20 gennaio del ’16, lettera che abbiamo già avuto occasione di citare prima, nel contesto emotivo in cui il bisogno di sfogo e di comunione con l’altro paiono invadere l’animo dello scrivente, leggiamo: Della mia odissea ti narrerò ogni cosa per lettere, e mi conoscerai sino nell’utero materno; ma non per filo e per segno; bensì or una parte or un’altra della mia vita; notando esatto l’epoche, ma non seguendole ordinatamente; sì perché non ho testa a tant’ordine, e sì perché scrivo non quando me lo propongo, bensì quando e come posso, e pigliandomi di grazia ciò che la mia memoria mi manda alla penna. Scriverò ad ogni modo tanto e sì spesso, e noterò gli anni e i mesi in guisa che altri potrà un giorno estrarne con poca fatica un ragionevole libricciuolo.28
Non fu così: le ultime righe di questo stralcio di lettera sono un’altra promessa mancata a Quirina e al potenziale biografo, perché sappiamo bene che qualsiasi tentativo di scrivere una biografia del Foscolo, «il ragionevole libricciuolo» ipotizzato dal poeta – con vezzo riduttivo ma anche con tutta la consapevolezza che sta dietro l’aggettivo “ragionevole” –, è operazione complessa e problematica, nonostante la ricchezza dei suoi carteggi. D’altra parte l’indiscutibile valore dell’epistolario foscoliano trova ragione proprio nell’essere terra di transizione tra il piano puramente biografico e il piano testuale in cui l’elaborazione conta assai più del contenuto e la voce di chi racconta e scrive è più seducente e rivelatrice di qualunque puntiglioso resoconto di accadimenti reali.
13-25). Si può inoltre leggere in Appendice III, Sommari e abbozzi di un romanzo, in Epistolario VIII, pp. 497-512. 28 Lettera n° 1823, A Quirina Mocenni Magiotti, Hottingen 20. I. 1816, in Epistolario VI, p. 224. Foscolo e gli altri esuli
STEFANIA BARAGETTI «Non ho in mira che l’Italia»: i carteggi di Giovanni Berchet
Fuggito da Milano il giorno dell’arresto di Federico Confalonieri, il 13 dicembre 1821, Giovanni Berchet giunse il 28 dello stesso mese a Parigi, dove, insieme ad altri cospiratori, fu accolto nell’Hôtel de Hollande dal marchese Giuseppe Arconati Visconti, detto Peppino, e dalla moglie Costanza Trotti Bentivoglio, anch’essi allontanatisi dal Lombardo-Veneto. L’esilio di Berchet durò ventiquattro anni, trascorsi fra Gran Bretagna, Francia, Svizzera, Belgio, Olanda e Germania; la testimonianza più viva e concreta è affidata allo scambio epistolare con la marchesa Arconati, amica e confidente, assiduo anche dopo il rientro dell’autore in Italia, nel 1845 (quattrocentotrentotto sono le lettere scritte a Costanza fra il 1822 e il 1851).1 La missiva che inaugura il carteggio, inviata da Parigi nel febbraio 1822,
1 G. Berchet, Lettere alla marchesa Costanza Arconati, a cura di R. Van Nuffel, con il contributo della Fondation Universitaire de Belgique, Roma, Vittoriano 1956-1962, 2 voll.; integrano il corpus epistolare una missiva del 17 febbraio 1829, da Londra, e nove brani di lettere (maggio 1822-febbraio 1823) che figurano nell’appendice del vol. II, pp. 252-256. Sull’edizione si vedano le recensioni di M. Pecoraro, al vol. I (in «Lettere italiane», IX [1957], 3, pp. 307-318), e quella di M. Scotti al vol. II, in «Giornale storico della letteratura italiana», LXXXII (1965), 142, pp. 137-147. In merito al rapporto con la nobildonna si segnalano, fra gli altri, J. Boulenger, Berchet et Costanza Arconati, in «Il Risorgimento italiano», VI (1913), 4, pp. 657-719 (ove è una sezione contenente quarantaquattro missive della nobildonna, degli anni 1832-1841, indirizzate al poeta, pp. 681-719); A. Calace, L’amicizia di Giovanni Berchet per la marchesa Costanza Arconati, in «Nuova Antologia», LXV, 1° novembre 1930, 1407, pp. 4063, e 16 novembre 1930, 1408, pp. 216-234; Z. Arici, G. Berchet e Costanza Arconati Visconti anni di esilio e di attesa (1821-1838), in Studi sul Berchet, pubblicati per il primo centenario della morte, Milano, Liceo Berchet 1951, pp. 171-200. Fondamentale rimane la monografia di E. Li Gotti, G. Berchet. La letteratura e la politica del Risorgimento nazionale (1783-1851), Firenze, La Nuova Italia 1933 (in particolare le pp. 213-254, per l’epistolario). Infine, sul salotto parigino
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dopo la partenza di Costanza per il castello di Gaesbeek presso Bruxelles, dà voce allo stato d’animo dell’esule, secondo i parametri consueti nelle scritture dei fuoriusciti; malinconia, solitudine, gelosia nei confronti degli altri conoscenti della nobildonna si intrecciano alla consolazione riposta nell’amicizia, sollievo alle tribolazioni sortite dall’allontanamento forzato dalla patria.2 Sentimenti destinati a inasprirsi durante il lungo periodo, fra maggio 1822 e luglio 1829, trascorso a Londra, dove Berchet si rifugiò dopo che l’Austria aveva chiesto al governo francese la sua estradizione. L’incertezza del futuro e l’indifferenza verso il paese ospitante, l’ostentazione dei disagi fisici imputati per lo più al clima (sarà così per molti esiliati in Inghilterra, soprattutto per quelli meridionali, come Luigi Settembrini) e la nostalgia della patria e della famiglia, che si fece più dolorosa alla notizia della morte del padre,3 emergono dalle lettere recapitate da Londra, che lasciano altresì spazio alle riflessioni sulla situazione politica italiana ed europea, nonché ai giudizi severi sui compatrioti esuli sul suolo britannico; motivo costante, questo delle divisioni e dei contrasti, nelle prose degli espatriati. A più riprese, infatti, Berchet rivelò a Costanza di avere preso le distanze da quella che chiama «la brigata dei volenti la libertà», formata, fra gli altri, da Foscolo («cagione […] più di rabbiette, che d’altro»),4 dai bresciani Camillo e Filippo Ugoni, da Benigno Bossi e da Santorre di Santarosa, il quale, insieme al conte Luigi Porro-Lambertenghi e a Giuseppe Pecchio, si era adoperato per l’indipendenza della Grecia (1824).5 Eppure, nonostante il proposito di circoscrivere la cerchia delle frequentazioni, Berchet seguì con apprensione i destini dei volontari coinvolti nelle vicende greche e spagnole, dolendosi per la morte di Santarosa nel 1825, e raccogliendo le sottoscrizioni per soccorrere i connazionali rientrati dalla penisola iberica, come Gaetano Borsieri, fratello di Pietro.6 L’autore fu inoltre restio ad accettare le collaborazioni giornalistiche, una delle forme di sostentamento cui gli esuli del primo Ottocento amavano (o dovevano) ricorrere, come si evince da una missiva a Victor Cousin del 2 dicembre 1822,7
animato da Costanza cfr. M. Tatti, Il Risorgimento dei letterati, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2011, pp. 163-165. 2 A Costanza, Parigi, 24 febbraio 1822, in Lettere… cit., vol. I, pp. 3-4. 3 A Costanza, Londra, 16 gennaio e 19 giugno 1827, ivi, pp. 147, 162. 4 A Costanza, 3 agosto (Highgate) e 4 novembre (Londra) 1822, ivi, pp. 21, 30. 5 Sulle testimonianze degli esuli nel periodo risorgimentale si veda W. Spaggiari, «Quest’enorme Babilonia»: lettere dall’esilio [2002], in Id., 1782. Studi di italianistica, Reggio Emilia, Diabasis 2004, pp. 196-237. 6 Cfr. le missive a Costanza, da Londra, del 17 ottobre e 28 novembre 1823, e del 5 luglio 1825, in Lettere… cit., vol. I, pp. 49, 54-55, 100-101. 7 La lettera è pubblicata da E. Li Gotti, Le disavventure editoriali d’un poeta, in «Giornale storico della letteratura italiana», LI (1933), 102, pp. 73-98, alle pp. 76-78. Cfr. inoltre Lettere… cit., vol. II, pp. 254-255 (a Costanza, [Londra], 22 maggio, 22 giugno e 17 agosto 1822). IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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mentre a Claude Fauriel, alle prese con la stampa e la traduzione in prosa del poemetto berchettiano I profughi di Parga, nello stesso anno comunicava di essere alla ricerca di un impiego.8 Di lì a poco, infatti, Berchet fu assunto nella società commerciale del concittadino Ambrogio Obicini, in qualità di contabile, anche se la mansione non corrispondeva pienamente ai suoi interessi, come riferì ad Antonio Trotti Bentivoglio, fratello di Costanza, il 14 agosto 1826: «Questo fare il commerciante, ed ogni dì trovarmi sempre sott’occhio gli stessi oggetti, le stesse lettere, le stesse frasi, mi fa a quando a quando perder pazienza».9 La speranza di rientrare a Milano, espressa più volte nel carteggio, è offuscata dalle critiche agli avversari politici, aggressive anche nelle scelte lessicali.10 La dinastia sabauda, a detta di Berchet, è «l’istigatrice delle persecuzioni», mentre l’imperatore Francesco I, chiamato «Franceschino» con chiaro intento parodico, è definito «Crapa pelada dell’Istro» e «anima di rospo».11 I funzionari austriaci sono «assassini della nostra povera Italia», mentre la buona società ambrosiana, accusata di acquiescenza al dominio straniero, è ritenuta responsabile della corruzione morale della città, assimilata a una «fogna di mal costume» e all’«Averno», in cui, come l’autore precisa a Costanza che periodicamente vi si recava per amministrare le proprietà di famiglia, «l’andarvi è facile, l’uscirne è l’imbroglio».12 Al governo austriaco Berchet rimproverava la confisca dei beni dei fuoriusciti, che nel 1825 aveva colpito anche Peppino e Costanza (alla quale, peraltro, l’autore intimò di non domandare la grazia a Francesco I),13 nonché la detenzione nella prigione dello Spielberg dei cospiratori lombardi, fra i quali Silvio Pellico, «fiore dell’onestà»,14 e Federico Confalonieri, al cui tentativo di evasione, fallito nel 1829, aveva prestato da lontano il
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La missiva (Londra, 14 giugno 1822) è riprodotta in R. Van Nuffel, Lettere di Berchet a Claude Fauriel, in «Giornale storico della letteratura italiana», LXXV (1958), 135, pp. 98-103, alle pp. 100-101. Sulle vicende che ritardarono la stampa de I profughi di Parga, editi soltanto nel 1823, a Parigi, per i tipi di Firmin Didot, cfr. E. Li Gotti, Le disavventure editoriali d’un poeta cit., pp. 73-78, e A. Cento, Fauriel agente dei romantici italiani ovvero le disavventure editoriali di due poeti, in «Giornale storico della letteratura italiana», LXXIV (1957), 134, pp. 346-353, alle pp. 346-350. 9 Cfr. Il Risorgimento italiano in un carteggio di patrioti lombardi, 1821-1860, a cura di A. Malvezzi, Milano, Hoepli 1924, pp. 59-60, a p. 60. 10 Sul «confidente dettato» delle lettere a Costanza, che ricalca modi e strutture del linguaggio colloquiale, cfr. A. Mangione, Stile epistolare del Berchet, in «Convivium», XXVI (1958), 5, pp. 607-612, a p. 608. 11 A Costanza, da Parigi, 4 marzo 1822, e da Londra, 4 e 7 novembre 1823, 20 gennaio 1824, in Lettere… cit., vol. I, pp. 5, 52, 54, 60. 12 A Costanza, Londra, 3 gennaio 1823, 5 luglio 1825, 8 settembre 1826, ivi, pp. 34, 101, 138. 13 Ivi, p. 90 (Londra, 8 marzo 1825). 14 Ivi, pp. 6-7, a p. 7 (Parigi, 11 marzo 1822). Foscolo e gli altri esuli
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proprio contributo anche Berchet, incaricato da Costanza di contrattare la fuga del conte con un intermediario vicino agli ambienti austriaci.15 La solidità della monarchia costituzionale inglese, oggetto di ammirazione per i viaggiatori già dal secolo precedente, offriva invece un modello politico alternativo all’impero asburgico, mentre il decreto di emancipazione dei cattolici votato dalla Camera dei Comuni nel 1829 era, secondo Berchet, un segnale di progresso e di civilizzazione, auspicabile anche in Italia e in Austria: «Chissà che anche le nostre speranze un giorno non siano più sogni! Viviamo con qualche fiducia. Un gran cambiamento in Europa s’è fatto in questi due anni».16 Numerosi, però, sono i ragguagli di segno sostanzialmente negativo sulla popolazione inglese; le critiche all’accoglienza fredda riservata agli esiliati si fondono a quelle rivolte al pubblico delle lettrici, ostile alle novità editoriali italiane e caratterizzato da una conoscenza superficiale della tradizione poetica, circoscritta a un canone limitato di autori (Dante, Tasso e Metastasio), negli anni in cui invece, con metodi e intendimenti diversi, il fronte degli esuli italiani, da Foscolo a Panizzi, era assai attivo nella promozione, a diverso titolo, dei monumenti letterari del paese di origine.17 Alcune tematiche costanti dell’epistolario (lo sdegno per l’indifferenza straniera, l’auspicio dell’indipendenza italiana, le difficoltà materiali dell’esilio, l’inerzia delle forze politiche) sono trasferite nella produzione in versi fra il 1822 e il 1826. Diffuse in fogli volanti, e poi confluite nel volume delle Poesie (la prima edizione, del 1824, reca una falsa data, mentre la seconda risale al 1826), le sei romanze riecheggiano la delusione del poeta per l’esito dei moti del 1821.18 Forte è la condanna di Carlo Alberto nella prima, Clarina,19 mentre il motivo della priorità dell’azione patriottica sugli affetti privati e sull’esercizio delle lettere si affaccia anche nell’epistolario, quando Berchet racconta a Costanza di essersi meravigliato di vedere, a Rotterdam, una statua dedicata a Erasmo e non a coloro che avevano combattuto
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Sulla vicenda cfr. E. Bellorini, Giovanni Berchet e l’ultimo vano tentativo per liberare Federico Confalonieri dallo Spielberg, in «Archivio storico lombardo», XXXIX (1912), 17, pp. 360-372. 16 A Costanza, Londra, 10 febbraio 1829, in Lettere… cit., vol. I, pp. 206-207, a p. 207. 17 Si vedano le missive a Costanza, da Londra, del 25 settembre 1822 e 27 gennaio 1827 (ma 1826), ivi, pp. 26-28, 117-118. Cfr. M. Tatti, Il Risorgimento dei letterati cit., pp. 107-125. 18 Sulle romanze cfr. V. Spinazzola, La poesia romantico-risorgimentale, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, Milano, Garzanti 1969, vol. VII (L’Ottocento), pp. 959-1067, alle pp. 972-984 (La poesia come spettacolo di Giovanni Berchet); A. Cadioli, Introduzione a Berchet, Roma-Bari, Laterza 1991, pp. 92-108; G. Berchet, Lettera semiseria. Poesie, a cura di A. Cadioli, Milano, Rizzoli 1992, pp. 244-297; I. Bertelli, L’itinerario umano e poetico di Giovanni Berchet, Pisa, Giardini 2005, pp. 131-155. 19 Carlo Alberto è definito «vile» (v. 12), mentre il suo nome «esecrato […] / va […] in ogni gente!» (vv. 79-80); cfr. Clarina, in Lettera semiseria. Poesie cit., pp. 247-255, alle pp. 248, 253. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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per la libertà dell’Olanda.20 Riflessione riproposta un decennio dopo nella missiva all’Arconati del 1° giugno 1837, in cui il confronto fra lo stile della prosa di Cesare Balbo e quello di Carlo Botta (prediletto per la ricchezza lessicale) dà adito alla polemica contro la «frenesia linguistica» che, a detta di Berchet, era predominante in Italia, facendo passare in secondo piano le più urgenti questioni politico-civili.21 Il ricordo doloroso dei connazionali rinchiusi nello Spielberg (ne Il romito del Cenisio il padre di Silvio Pellico lamenta la sorte del figlio «avvinto in ceppi»)22 si mescola al biasimo per l’oppressore, formulato sulla contrapposizione fra la coccarda tricolore e l’uniforme bianca, gialla e nera dell’esercito austriaco, «colori esecrabili / a un italo cor», come si legge in Matilde. Anche l’emblema dell’aquila, rievocato nell’ultima romanza, Giulia,23 è al centro del travaso fra pratica della poesia e confessione epistolare, transitando nella missiva a Costanza del 3 agosto 1822, in cui l’Austria è ironicamente definita «Carissima Aquila».24 Attestato nelle romanze Il rimorso e Matilde, il termine «esoso» connota il nemico, mentre la condizione morale di Matilde e di Giulia, protagoniste degli omonimi componimenti, è qualificata con l’aggettivo «tapina», di largo impiego nella lirica romantica di intonazione popolare.25 Nonostante le riserve sulla società milanese, Berchet attendeva con impazienza le notizie e le opere dei conoscenti rimasti in patria. In merito ai Lombardi alla prima crociata di Tommaso Grossi, l’esule, esprimendo non poche perplessità sulle dimensioni dell’opera, sostenne che era opportuno comporre poemi brevi, perché i lettori, sollecitati dagli eventi politici, non potevano più dedicare alla poesia «tutto quel tempo che la vacuità intellettuale permetteva ai nostri padri di spendere dietro a mere finzioni».26 E se positivo fu il giudizio condiviso con Fauriel sul Marco Visconti, elogiato per lo stile, la lingua e l’efficace scenario storico,27 prudente, invece, risultò il commento sui Promessi sposi. Alla marchesa, che gli aveva inviato una copia del romanzo, ovviando alle inadempienze di Manzoni, l’11 settembre 1827 Berchet scrisse che il libro «tutto insieme è una bellissima cosa», salvo poi mostrare alcune titubanze sui risvolti religiosi e morali, e su quattro capitoli reputati noiosi
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Lettere… cit., vol. I, pp. 12-13 (Rotterdam, 18 aprile 1822); il tema ricorre nella romanza Clarina, in Lettera semiseria. Poesie cit., pp. 251-252, vv. 49-60. 21 Lettere… cit., vol. II, pp. 40-42, a p. 41. 22 Il romito del Cenisio, in Lettera semiseria. Poesie cit., pp. 257-266, a p. 265, v. 119. 23 Lettera semiseria. Poesie cit., p. 280, vv. 49-50 (Matilde), p. 297, v. 102 (Giulia). L’immagine della coccarda tricolore figura in Clarina, p. 250, vv. 38-40. 24 Lettere… cit., vol. I, pp. 21-22, a p. 21. 25 Lettera semiseria. Poesie cit., p. 272, v. 55 (Il rimorso); pp. 278-279, vv. 15 e 41 (Matilde); p. 293, v. 55 (Giulia). 26 A Costanza, Londra, 19 settembre 1826, in Lettere… cit., vol. I, pp. 139-140, a p. 139. 27 Ivi, vol. II, pp. 29-31, a p. 30 (Parigi, 12 febbraio 1835). Foscolo e gli altri esuli
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(25-28: l’aiuto offerto a Lucia da donna Prassede e don Ferrante, il colloquio fra il cardinale Borromeo e don Abbondio, la descrizione della carestia);28 del resto, l’esule non condivideva né il «gran teologare» che si faceva in contrada del Morone, né l’adesione di Manzoni alle teorie esposte da Victor Cousin in due lezioni sulla guerra tenute alla Sorbona nel 1828, attraversate da «una tinta di misticismo religioso» e di «accomodante quietismo politico».29 A ridosso delle insurrezioni del 1831 si fece incalzante l’impegno patriottico di Berchet, che nel frattempo aveva lasciato Londra per assumere l’incarico di precettore di Carletto Arconati, figlio di Costanza, peregrinando fra Scozia, Belgio e Germania, dove la frequenza dei corsi universitari a Bonn e il dialogo con i maggiori storici e filologi (da Schlegel a Niebuhr) trovano testimonianza nel carteggio con la nobildonna, ricco di informazioni sugli ambienti culturali tedeschi,30 e nell’attività poetica del fuoriuscito, che, incoraggiato da Fauriel e da Niebuhr, si cimentò nella traduzione di vecchie romanze spagnole (1837), dedicata a Costanza, attingendo in particolare dai romanceros di Sepúlveda (1551) e di Escobar (1612).31 La volontà di contribuire alla formazione di una coscienza morale e civile del popolo guidò Berchet nella composizione de Le Fantasie, fra il 1827 e il 1828, date alle stampe a Parigi nel 1829, per le cure di Giovita Scalvini.32 «Non ho in mira che l’Italia» è il proposito espresso nella lettera-prefazione agli amici rimasti in patria, datata «Piccadilly, 5 gennaio 1829»,33 in cui trova conferma la priorità del prosimetro, considerato efficace anche in prospettiva politica (la lettera, come è noto, potrebbe avere fornito qualche spunto a Leopardi per la dedica premessa all’edizione fiorentina dei Canti del 1831).34 Spinto dall’urgenza storica, Berchet si avval-
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Ivi, vol. I, pp. 169-170, a p. 170. A Costanza, Londra, 24 luglio 1827 e 25 novembre 1828, ivi, pp. 166, 194. Cfr. E. Bellorini, L’amicizia di Giovanni Berchet per Alessandro Manzoni, in «Giornale storico della letteratura italiana», XXX (1912), 60, pp. 399-415; V. Monzini, Manzoniane cautele, in Studi sul Berchet cit., pp. 221-233; A. Cottignoli, Manzoni fra i critici dell’Ottocento, Bologna, CLUEB 20022 (1978), pp. 57-72. Fu inoltre Costanza a tenere informato l’esule in merito all’allestimento della Quarantana, asserendo che il romanziere vi attendeva febbrilmente, «con scapito della sua riputazione, della sua pace e […] della sua borsa» (cfr. la missiva a Berchet, da Gais, del 3 luglio 1841, in J. Boulenger, Berchet et Costanza Arconati cit., pp. 718-719, a p. 718). 30 Si vedano le quindici missive inviate da Bonn fra il 12 dicembre 1829 e il 9 aprile 1830, in Lettere… cit., vol. I, pp. 219-244. 31 In merito alle vicende editoriali della traduzione delle romanze spagnole, edita a Bruxelles (1837), cfr. E. Li Gotti, Le disavventure editoriali d’un poeta cit., pp. 81-85. 32 Su Le Fantasie cfr. A. Cadioli, Introduzione a Berchet cit., pp. 108-122; la nota introduttiva in G. Berchet, Lettera semiseria. Poesie cit., pp. 298-301; I. Bertelli, L’itinerario umano e poetico di Giovanni Berchet cit., pp. 157-178. 33 Agli amici miei in Italia, in Lettera semiseria. Poesie cit., pp. 303-333, a p. 305. 34 Per il possibile rapporto con la lettera leopardiana, datata Firenze, 15 dicembre 1830, 29
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se dunque di un episodio glorioso del passato lombardo (la vittoria della Lega dei comuni sul Barbarossa) per risvegliare la penisola dalla «supina tolleranza della servitù».35 Dalla rassegna di immagini e formule registrate nelle romanze e nelle lettere a Costanza il poeta attinse per Le Fantasie; ecco dunque ritratti gli oppressi che «tacenti prostransi» con le «fronti vacue / d’ogni viril concetto», il nemico indicato con la locuzione «tèutono / dominator» («vil Tèutono» nella romanza Il romito del Cenisio),36 e i prigionieri dello Spielberg rievocati dalla moglie di Confalonieri, Teresa, alla quale Berchet riservò parole di ammirazione nel carteggio con l’Arconati.37 Dopo la visita a Parigi sollecitata dalla Rivoluzione di luglio, Berchet si trasferì a Ginevra per meglio seguire le vicende italiane, in un susseguirsi di ragguagli più o meno attendibili, puntualmente riferiti alla fidata interlocutrice. In questo frangente nacque l’ode All’armi! All’armi! inviata a Costanza il 12 marzo 1831, e pubblicata, nello stesso mese, nell’Antologia repubblicana di Bologna, una sorta di manuale poetico ad uso degli insorti, sul modello del Parnasso democratico di trent’anni prima; «un’inezia», a detta dell’autore, scritta per smentire i molteplici componimenti erroneamente attribuitigli.38 L’ottimismo iniziale, altresì riposto nelle operazioni coordinate oltralpe da Filippo Buonarroti e dal Porro-Lambertenghi, vacillò ben presto dinanzi al fallimento dell’insurrezione in Savoia, all’inerzia della monarchia sabauda e all’insuccesso dell’impresa in Romagna del generale Carlo Zucchi, in cui Berchet aveva riposto fiducia, pur nella consapevolezza della penuria di uomini e di mezzi a disposizione, e dell’ostacolo (che il poeta colse lucidamente) rappresentato dall’inestirpabile e dannoso orgoglio municipalistico. A fronte dell’ennesima disillusione l’esule ripiegò su posizioni moderate, sposando la linea dell’attesa e della prudenza, non senza rivolgere parole di aperta condanna contro il paese d’oltralpe per la revoca degli aiuti alla causa italiana nel 1831;39 del resto, «l’odio al governo e alla
cfr. G. Leopardi, Lettere agli amici di Toscana, a cura di W. Spaggiari, Milano, Mursia 1990, pp. 142-144. 35 Agli amici miei in Italia, in Lettera semiseria. Poesie cit., p. 318. 36 Le Fantasie, ivi, pp. 335-377, a p. 373, vv. 665-666, 669, 673-674; cfr. inoltre Il romito del Cenisio, ivi, p. 263, v. 89. 37 Le Fantasie, ivi, pp. 374-375, vv. 689-704. Su Teresa Confalonieri l’esule scriveva: «ho molta simpatia ed affezione a quella donna, molta stima al di lei carattere, molta pietà per le sventure sue» (a Costanza, Londra, 16 luglio 1824, in Lettere… cit., vol. I, p. 76). 38 Lettere… cit., vol. I, pp. 250-251, a p. 250 (Ginevra, 12 [ma 13] marzo 1831). 39 Si vedano le nove missive inviate alla nobildonna, da Ginevra, fra il 26 febbraio e il 9 aprile 1831, ivi, pp. 246-257. Cfr. inoltre A. Calace, Giovanni Berchet e la Rivoluzione Italiana nel 1831, in «Rassegna storica del Risorgimento», XVI (1929), 2, pp. 415-430; E. Li Gotti, G. Berchet. La letteratura e la politica… cit., pp. 329-346; E. Rota, Il pensiero politico di G. Berchet, in Studi sul Berchet cit., pp. 31-73, alle pp. 49-58. Foscolo e gli altri esuli
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persona» di Luigi Filippo fu unanime, e anche Manzoni, come riferiva Costanza al poeta, lo aveva esteso «a tutta la Francia, e siccome l’amava smisuratamente ora la butta giù troppo».40 Se la notizia delle restrizioni della libertà di stampa votate dalla Dieta di Francoforte (1832) fu commentata con una citazione ironica da Le mariage de Figaro di Beaumarchais,41 gli sviluppi delle ribellioni in Polonia indussero il poeta a prendere le distanze dalle iniziative isolate. I moti di Savignano, nel 1843, furono infatti assimilati a «ragazzate» che «scemano sempre più di decoro al povero paese», e non meno dura fu la reazione alla notizia delle esecuzioni dei rivoltosi romagnoli e degli insorti di Alicante: «abbastanza sangue parmi per un secolo in cui tanto si ciarla di carità e d’amore».42 Invariato rimase inoltre il disappunto nei confronti dell’Austria, che nel 1838 aveva concesso l’amnistia agli esuli in concomitanza con l’incoronazione di Ferdinando I a re del Lombardo-Veneto; provvedimento che rianimò in Giuseppe Arconati la speranza di rientrare quanto prima in Italia (cosa che si verificò nel 1840),43 mentre Berchet, ritenendolo subdolo, decise di non inoltrare al governo la domanda di rimpatrio, avvenuto soltanto nel 1845, in virtù del rilascio fortuito di un permesso di soggiorno in Piemonte.44 La fiducia riposta nei princìpi di libertà e di indipendenza (rimasta immutata anche in occasione di un evento che molto colpì Berchet, la cerimonia fastosa della traslazione della salma di Napoleone a Les Invalides, nel 1840)45 si riaccese ovviamente nel ’48; ma gli esiti rinsaldarono le convinzioni sull’Italia, «terra delle fandonie, e de’ credenzoni».46 Nelle lettere a Costanza che coprono gli anni fra il
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A Berchet, Bellagio, 23-24 luglio 1832, in J. Boulenger, Berchet et Costanza Arconati cit., pp. 687-689, a p. 688. 41 A Costanza, Baden, 15 luglio 1832, in Lettere… cit., vol. I, pp. 269-270; cfr. Le mariage de Figaro, V, 3, dove si asserisce che a Madrid si può stampare liberamente, purché non si parli di religione, politica, morale, teatro e di personaggi autorevoli. 42 Cfr. le missive da Baden, del 4 settembre 1843, e da Pau, del 19 maggio 1844, in Lettere… cit., vol. II, pp. 149, 170. 43 La questione è ripercorsa nelle lettere di Costanza a Berchet (12 settembre 1838-16 marzo 1839), da cui trapelano le notizie dei continui ripensamenti del marito (influenzati dalla nevrastenia che lo affliggeva) in merito all’opportunità di compilare la richiesta di rientro; situazione che impedì al poeta di esprimere il proprio parere: «D’altronde poi come voler consigli quando s’ha a fare con Peppino così ostinato e schivo di sentire ragioni?» (Bordeaux, 11 marzo 1839, in Lettere… cit., vol. II, p. 113). Cfr. J. Boulenger, Berchet et Costanza Arconati cit., pp. 701-716. 44 Sull’amnistia accordata ai fuoriusciti si parla nelle missive a Costanza, da Baden, del 13 e 19 settembre 1838, e da Bordeaux, del 22 dicembre 1838 (Lettere… cit., vol. II, pp. 96-98, 105-106); cfr. anche E. Bellorini, La fuga da Milano e l’esilio di Giovanni Berchet, in «Archivio storico lombardo», XXXVII (1910), 13, pp. 425-436, alle pp. 433-435. 45 Lettere… cit., vol. II, pp. 126-127 (a Costanza, Parigi, 18 dicembre 1840). 46 A Costanza, Roma, 5 marzo 1847, ivi, p. 205. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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rientro in patria, nel 1845, e la morte, nel 1851, irrompe la riflessione politica a scapito delle allusioni alla produzione letteraria più recente, come l’Arnaldo da Brescia di Niccolini (una copia fu recapitata a Berchet nel 1843, a Marsiglia) e i versi di Giuseppe Giusti, elogiati per lo stile mordace e per lo «sguardo acuto e malizioso sulle magagne del secolo».47 Da Roma, l’autore apostrofò il governo pontificio, protetto dall’Austria e intriso di gesuitismo; inoltre, l’elezione di Pio IX non parve preannunciargli grandi cambiamenti: «il solito proverbio romano anche adesso si verifica: Papa nuovo governo vecchio», scriveva il 10 marzo 1847 all’Arconati.48 L’eco delle Cinque giornate spinse Berchet a recarsi a Milano, il 2 aprile 1848, dove prese parte al Governo provvisorio di Gabrio Casati.49 Sconfessata la parentesi carbonara, e lontano dalle istanze repubblicane di Cattaneo e dalle tesi di Mazzini (definito «ipocrita birbante»),50 Berchet intravedeva la possibilità di costruire uno stato unitario nell’Italia settentrionale, guidato da Carlo Alberto. Agli occhi del patriota il cammino verso la piena indipendenza del paese andava percorso gradualmente, in direzione della monarchia costituzionale, perché «in politica come in natura nulla si fa di un tratto, d’un solo sbalzo».51 Il 28 febbraio 1846, commentando le disposizioni del governo inglese di Robert Peel in merito all’abolizione dei dazi sul grano, Berchet spiegava a Costanza che «le costituzioni quando intere, e interamente lasciate operare, […] non sono poi la pessima delle forme di governo»,52 mentre ad Antonio Panizzi, portavoce della causa italiana presso gli ambienti diplomatici londinesi, esponeva il progetto di stringere un’alleanza con l’Inghilterra, per arginare le forze repubblicane e frenare le ingerenze austriache e francesi, riservando in particolare al paese d’oltralpe l’accusa di perseguire «la politica vecchia colle vecchie arti».53 Eletto deputato al Parlamento Subalpino nell’autunno 1848, schieratosi fra i
47 Missive a Costanza, da Marsiglia, del 12-13-23 dicembre 1843, e da Nizza, del 9 marzo 1846, ivi, pp. 163, 192. 48 Ivi, p. 207. 49 Cfr. la lettera a Costanza, da Milano, del 3 aprile 1848, ivi, pp. 217-218. Il rientro nella città natale, insieme a Giuseppe Massari e a Vincenzo Salvagnoli, è annunciato ad Antonio Trotti Bentivoglio in una missiva, da Genova, del 31 marzo 1848, in Il Risorgimento italiano in un carteggio di patrioti lombardi… cit., pp. 258-259. Cfr. E. Li Gotti, G. Berchet. La letteratura e la politica… cit., pp. 463-494. 50 Lettere ad Antonio Panizzi di uomini illustri e di amici italiani (1823-1870), pubblicate da L. Fagan, Firenze, Barbèra 1880, pp. 166-168, a p. 168 (Milano, 28 giugno 1848). 51 A Panizzi, 26 aprile 1848 [?], ivi, pp. 154-156, a p. 155. Cfr. A. Tolio Campagnoli, Giovanni Berchet. Studio biografico con particolare riguardo agli anni dell’esilio, in «Il Risorgimento italiano», IV (1911), 6, pp. 811-850 (II parte), alle pp. 842-848. 52 Lettere… cit., vol. II, p. 191. 53 Lettere ad Antonio Panizzi… cit., p. 167 (Milano, 28 giugno 1848). Si vedano anche le missive del 26 aprile e dell’11 maggio 1848, ivi, pp. 156, 160.
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moderati ma animato da intenti scopertamente conservatori, Berchet sostenne il ruolo-guida del Piemonte nella causa unitaria, fra le preoccupazioni per il futuro della penisola e il ripiegamento progressivo negli affetti privati. Se nei primi tempi dell’esilio Berchet aveva potuto guardare alle azioni insurrezionali con fervida simpatia, al ritorno in patria quelle stesse agitazioni gli parevano dannose al bene dell’Italia, frutto delle velleitarie ambizioni di quelli che, al colmo della involuzione senile, erano ormai per lui soltanto dei «cervellini pazzi»;54 una involuzione comune a molti, allora, fino alle soglie dell’Unità, e destinata a pesare sulle scelte successive.
54 A Costanza, Firenze, 19 ottobre 1847, in Lettere… cit., vol. II, p. 216. Sull’attività parlamentare cfr. E. Li Gotti, G. Berchet. La letteratura e la politica… cit., pp. 495-538, ed E. Rota, Il pensiero politico di G. Berchet cit., pp. 58-73.
IX. Italiani della letteratura: Foscolo
ROSA NECCHI Patria e studi nelle lettere di Terenzio Mamiani
Nato a Pesaro nel 1799, formatosi alla scuola di Giulio Perticari e Francesco Cassi, ed entrato poi in relazione con il circolo del Vieusseux e dell’«Antologia», nel 1831 il conte Terenzio Mamiani Della Rovere prende attivamente parte ai moti dell’Italia centrale. Dopo l’arresto, la detenzione di tre mesi a Venezia e la condanna all’esilio perpetuo, nel settembre 1831 ripara a Parigi, dove si tratterrà fino al gennaio 1847. Fallito il tentativo di rimpatriare attraverso la via di Lucca, potrà tornare in Italia grazie all’interessamento di Carlo Alberto; sceglierà allora di stabilirsi a Genova, da dove, nell’agosto 1847, riuscirà a rientrare nello Stato pontificio con un permesso temporaneo.1 Nei sedici anni trascorsi nella capitale francese, Mamiani stringe amicizia con numerosi esuli lì convenuti dall’Italia e da ogni parte d’Europa; al periodo parigino risale molta della sua produzione filosofica e letteraria (Del rinnovamento della filosofia antica italiana e i Dialoghi di scienza prima, gli Inni sacri del 1832, le Poesie del 1843), a cui si accompagnano il ripensamento critico dell’azione politica che aveva condot-
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Cfr. A. Brancati in Dizionario biografico degli Italiani, vol. LXVIII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana 2007, pp. 388-396; e A. Brancati-G. Benelli, Divina Italia. Terenzio Mamiani Della Rovere cattolico liberale e il risorgimento federalista, Ancona, Il lavoro editoriale 2004 (sugli anni dell’esilio, pp. 122-190). Forniscono tuttora validi spunti di riflessione la monografia di D. Gaspari (Vita di Terenzio Mamiani Della Rovere, Ancona, Morelli 1888), e i saggi di T. Casini (La gioventù e l’esilio di Terenzio Mamiani, Firenze, Sansoni 1896) e G. Ruffini (Terenzio Mamiani sulla via dell’esilio, Modena, Società tipografica modenese 1937). Sul pensiero politico cfr. M. Pincherle, Moderatismo politico e riforma religiosa in Terenzio Mamiani, Milano, Giuffrè 1973; A. Brancati-G. Benelli, Signor Conte… Caro Mamiani: volle il mio buon genio che io sedessi a lato del conte di Cavour, Ancona, Il lavoro editoriale 2006; Iid., Laicità, massoneria e senso religioso nell’ultimo Mamiani (1861-1885): un cattolico liberale nell’epoca degli intransigentismi postunitari, Ancona, Il lavoro editoriale 2010. Foscolo e gli altri esuli
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to ai moti del Trentuno e la formalizzazione di un programma d’azione moderato per l’avvenire.2 Oltre che alle opere a stampa, Mamiani affida alla prosa epistolare (sempre sorvegliata e impreziosita da sentenze bibliche e di autori della tradizione) proprie considerazioni sull’età contemporanea, fornendo ai corrispondenti circostanziati ragguagli sulle attività in corso e in progetto. Pur se incompleto, il corpus delle quasi quattrocento lettere dall’esilio, pubblicato in due volumi da Ettore Viterbo nel 1899, restituisce il profilo del letterato e del politico, insieme al quadro delle relazioni intrattenute a distanza.3 Oltre che rispondere a esigenze di immediata concretezza, lo scambio epistolare costituisce per Mamiani l’occasione per tracciare un provvisorio resoconto esistenziale, fatto di ristrettezze economiche, una condotta di vita ritirata e dedita agli impegni letterari, precarie condizioni di salute, rese più instabili dalle sfavorevoli condizioni climatiche. Se talora i motivi stessi del proprio operato sembrano venir posti in dubbio dal succedersi degli eventi politici, permane tuttavia la sicurezza di una mai tradita coerenza morale, mentre gli studi vengono presentati come unico rifugio e consolazione alle sofferenze patite, in attesa di un sempre desiderato ritorno. Mamiani non tarda ad apprezzare le numerose opportunità offerte dalla città ospitante, in cui frequenta il Quartiere latino, i circoli e i salotti degli esuli (quelli del generale Lafayette e della Belgiojoso, e quello borghese, più incline a tematiche sociali e pedagogiche, di Bianca Milesi) e l’élite letteraria, filosofica e politica (Victor Cousin, Auguste Barbier, a cui indirizzerà nel 1836 le pagine introduttive alle proprie Poesie, Destutt de Tracy, Jules Michelet, Victor Hugo, Lamennais).4 Sui positivi aggiornamenti relativi alla nuova vita d’oltralpe prevalgono comunque
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Ha approfondito alcuni aspetti della produzione letteraria del periodo francese Annalisa Nacinovich: Gli ‘Inni sacri’ di Terenzio Mamiani, in «Rivista di letteratura italiana», XIII (1995), 3, pp. 413-449; Cuoco e il “platonismo” italiano: il ‘Mario Pagano’ di Terenzio Mamiani, in Vincenzo Cuoco nella cultura di due secoli. Atti del Convegno internazionale (Campobasso 20-22 gennaio 2000), a cura di L. Biscardi e A. De Francesco, Roma-Bari, Laterza 2002, pp. 177-191 (sul dialogo si veda pure la Prefazione di G. Liberati all’ed. di Bari, Palomar 2002, pp. 7-44); Introduzione a T. Mamiani, Del regno di Satana, poema, a cura di A. Nacinovich, Pisa, Ets 2008, pp. 9-35. 3 Lettere dall’esilio, raccolte e ordinate da E. Viterbo, Roma, Società editrice Dante Alighieri 1899, 2 voll. La parte più notevole della corrispondenza e dei documenti è conservata presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro; ne offrono una descrizione G. Vanzolini, Le carte di Terenzio Mamiani nell’Oliveriana di Pesaro, Pesaro, Stabilimento Tipo-litografico Federici 1896; I. Zicàri, Catalogo del Fondo Comunale Mamiani della Biblioteca Oliveriana. (Lettere ricevute da Terenzio Mamiani dal 1832 al 1885), in «Studia Oliveriana», VIII-IX (1960-61), pp. 1-171. Presso la biblioteca pesarese è altresì consultabile il dattiloscritto Archivio di Casa Mamiani Della Rovere. Catalogo anni 1584-1909, a cura di R. Casabianca e G. Benelli, Pesaro, Biblioteca Oliveriana 2003. Altre missive si trovano nella Biblioteca Nazionale di Firenze (nei Carteggi Vieusseux e Tommaseo), nella Biblioteca Universitaria (ms. 922.113) e nell’Archivio di Stato di Pisa. 4 Cfr. T. Mamiani, Parigi or fa cinquant’anni, in «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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considerazioni per lo più di segno negativo, a cominciare da quella inserita nella lunga lettera autobiografica del 1839, a Giuseppe Zirardini, in cui vengono rievocati i primi tempi della residenza a Parigi, trascorsi in «continui ondeggiamenti politici».5 La metropoli francese si pone come osservatorio d’elezione da cui volgere lo sguardo verso l’Italia, anche se il rimpianto per la patria riduce sensibilmente la possibilità di una valutazione imparziale del temporaneo luogo di soggiorno. Le descrizioni della città (definita, ancora nel 1844, «un indovinello in qualunque cosa»)6 non vengono mai sole, ma suggeriscono raffronti con il Paese d’origine;7 la «boria» e la «grandezza prosperosa e non ben meritata» degli abitanti d’oltralpe sono ripetutamente contrapposte alla miseria e all’umiliazione italiane.8 Alle «angustie provinciali», all’incapacità di superare una dimensione municipalistica degli studi e di coordinare gli sforzi dei singoli è fra l’altro da imputare, sostiene Mamiani, che gli ingegni italiani non siano adeguatamente conosciuti e apprezzati in Francia; non si contano, nelle lettere, le accorate raccomandazioni a «dilatare e infittire le relazioni e il carteggio accademico, e il cambio dei libri, dei periodici, delle notizie», allo scopo di incrementare la circolazione delle novità editoriali e di favorire l’educazione morale e intellettuale del popolo, da sostenere anche con una
Arti», seconda s., XXIX (1881), 15 ottobre, pp. 581-609; XXX (1881), 15 dicembre, pp. 605627; XXXII (1882), 1° aprile, pp. 415-430. Per le relazioni internazionali da lui intrattenute: A. Nacinovich, I contributi di Mamiani all’«Europe littéraire», in Studi per Umberto Carpi. Un saluto da allievi e colleghi pisani, Pisa, Ets 2000, pp. 539-567; C. Zeppieri, Spiriti romantici e fraternità latina nella corrispondenza inedita di scrittori francesi con Terenzio Mamiani, in «Studia Oliveriana», n. s., IV (1984), pp. 109-153; G. Ciampi, Terenzio Mamiani ed i problemi internazionali nell’Europa del suo tempo, in «Studia Oliveriana», n. s., V (1985), pp. 97-136. 5 Lettere dall’esilio, vol. I (1831-1845) cit., p. 50 (n. 19). Cfr. M. Pincherle, Moderatismo politico… cit., p. 15; W. Spaggiari, «Quest’enorme Babilonia»: lettere dall’esilio [2002], in Id., 1782. Studi di italianistica, Reggio Emilia, Diabasis 2004, pp. 196-237, a p. 201. 6 Così si chiude la missiva alla contessa Ottavia Masino di Mombello del 30 agosto 1844 (Lettere dall’esilio cit., vol. I, p. 248, n. 121). Allo stesso anno risalgono considerazioni sulla più recente «declinazione della Francia» (al fratello Giuseppe il 13 giugno: vol. I, p. 231, n. 110). 7 Quando si tratterà di scegliere tra Parigi e Lucca, Mamiani non avrà dubbi: «Cambio Parigi con Lucca, cioè a dire una immensa città, anzi la Metropoli del mondo civile odierno, con una quasi bicocca. Ma quella bicocca è un cantoncino della mia patria: là i volti che vedrò non mi saranno forestieri e i suoni che intenderò saranno i suoni della mia lingua. […] il mio cuore sospira alla quiete, al silenzio, al ritiro e ad alcuna consolazione d’affetti amichevoli la quale spero di incontrare più facilmente in Italia che fuori» (a ignoto destinatario, nel 1843; in Lettere dall’esilio cit., vol. I, p. 144, n. 53). 8 Lettera al fratello Giuseppe del 17 novembre 1843; e cfr. quella a Carlo Pepoli, forse del 1843 (ivi, vol. I, p. 182, n. 77; e p. 192, n. 83). Scrivendo all’abate Lambruschini (3 gennaio 1843), Mamiani oppone «la Francia fortunata e gloriosa» alla «patria nostra infelice e umiliata» (vol. I, p. 124, n. 41). Foscolo e gli altri esuli
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rinnovata attenzione alle istituzioni scolastiche.9 In contatto con numerosi scienziati (per tutti, il fisico parmense Macedonio Melloni, individuato quale ideale successore di Spallanzani e Volta),10 Mamiani auspica per l’Italia una rinnovata visibilità europea, anche grazie ai progressi nelle discipline scientifiche, la cui pratica rimane, lamenta, disgiunta dagli studi letterari, ridotti per lo più a semplici imitazioni, erudizione e questioni di lingua. Quanto alle lettere patrie, l’invito è a liberarsi dai condizionamenti delle «scuole straniere»; solo dopo essersi nutriti del «puro latte italiano» i giovani potranno «gustare straniere vivande», contribuendo a rinnovare i fasti della nostra letteratura, decaduti dal diciassettesimo secolo in poi.11 Il
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Al fratello Giuseppe, il 4 maggio 1841 (Lettere dall’esilio cit., vol. I, p. 79, n. 26); cfr. anche le missive allo stesso destinatario del 26 luglio 1843 (n. [65]) e del 13 giugno 1844 (n. 110). Ritornano, nell’epistolario, concetti già espressi nel saggio Dell’avvenire dell’Italia (1838), ora consultabile in M. Pincherle, Moderatismo politico… cit., pp. 87-95 (e si vedano pp. 20-24). Sul pensiero pedagogico di Mamiani cfr. A. Carrannante, Terenzio Mamiani nella storia della scuola italiana, in «Cultura e Scuola», XXXI (1992), 122, pp. 199-210. 10 Si rinvia a una missiva databile al 1844, al Melloni (Lettere dall’esilio cit., vol. I, p. 256, n. 127); offre ragguagli sul duraturo favore riscosso da Volta W. Spaggiari, La «vulcania metallica colonna». Appunti sul mito di Alessandro Volta, in Studi dedicati a Gennaro Barbarisi, a cura di C. Berra e M. Mari, Milano, Cuem 2007, pp. 543-563. Caldi elogi vengono riservati al chimico bolognese Faustino Malaguti, anche lui emigrato in Francia dopo i moti del 1831 (cfr. la lettera allo stesso Malaguti del 21 luglio 1838: vol. I, p. 16, n. 9). L’insufficiente sostegno riservato alle scienze negli Stati italiani è, per Mamiani, motivo di biasimo; scrivendo a Sansone D’Ancona il 28 febbraio 1843, segnala il caso del matematico romano Barnaba Tortolini, costretto a operare in un ambiente ostile agli studi (cfr. vol. I, p. 133, n. 46). Mamiani appoggia con calore gli interessi geologici del fratello Giuseppe, volgarizzatore del manuale di fisica di Charles-François Bailly, oltre che autore, nel 1845, di un volume di Elogi e biografie d’illustri italiani e di una raccolta di propri Opuscoli scientifici (pubblicati entrambi a Firenze, presso la Società tipografica), a cui Terenzio accetta di premettere alcune pagine indirizzate all’«illustre italiano» Guglielmo Libri. Al fratello consiglia la lettura di alcune recenti pubblicazioni (sui quattro volumi della Fisica de’ corpi ponderabili… di Avogadro, Torino, Stamperia Reale 183741, cfr. la missiva del 28 ottobre 1839, nelle Lettere dall’esilio cit., vol. I, pp. 36-37, n. 16), esortandolo a perseguire un’adeguata proprietà di linguaggio, ed elogiando lo stile del profilo biografico del pesarese Serafino Merloni («ecco come bisogna scrivere; né timidi amici del vero né temerari e imprudenti!»: vol. I, p. 19, n. 10). 11 Così nella lunga missiva del novembre 1842 all’avvocato Brignone di Torino (ivi, vol. I, pp. 106-119, n. 39, a pp. 106-107), occasionata dalla lettura del programma del periodico «Il liceo: giornale di scienze e di letteratura, d’arti, di teatri e di mode» (1843-44), e pubblicata, con lievi modifiche e il titolo Della italianità e dell’eleganza, tra le Prose letterarie, Firenze, Barbèra 1867, pp. 233-260. Scriveva al fratello Giuseppe, il 25 aprile 1847: «Le lettere sono vane certo anch’esse la più gran parte e il pregio e il frutto loro discorrono come acqua. Ma non è vana la maggior perfezione che ne ritrae l’animo nostro e il desiderio di giovare alla gloria d’Italia», Lettere dall’esilio, vol. II [1846-1849], p. 166, n. 295. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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pesarese rinfaccia agli amici rimasti in patria l’infatuazione per la «bugiarda calamita dei popoli chiamata la Francia», causa del mancato tempestivo apprezzamento di quella «teorica della religione civile» e della rigenerazione «indigena e non forestiera» dell’Italia, da lui enunciata ben prima che divenisse pensiero diffuso in Europa, e per la quale rivendica la primogenitura.12 Come accade a numerosi altri connazionali espatriati, il risoluto rifiuto della nuova lingua e una non celata disistima per la realtà oltramontana si mantengono costanti negli anni dell’esilio, e si convertono talvolta in condotte all’insegna della preclusione. All’iniziale preoccupazione per l’incapacità di scrivere in buon francese, dichiarata al fratello durante il viaggio verso la terra d’esilio,13 Mamiani sostituisce una crescente insofferenza nei confronti di «questo maledetto francese che m’entra per tutti i pori e s’infiltra per ogni meato»; solo lo «star sempre o con le orecchie turate, o con un testo di lingua in mano» potrebbe collaborare a contrastare il predominio linguistico francese, con il rischio tuttavia di parlare e scrivere «con le parole dei morti».14 Sulla scorta degli insegnamenti del Perticari, nelle lettere e negli scritti saggistici la questione linguistica acquista un ampio rilievo; poiché patria e lingua sono indissolubilmente congiunte, è necessario sottrarre l’italiano (parlato e scritto) all’influsso straniero, imprimendovi un «carattere nazionale» che possa essere trasmesso ai ceti sociali più umili. Sarà compito dei letterati attingere la lingua alla viva «fonte del popolo», a cui poi la restituiranno con il fine precipuo di ingentilirne «i pensieri e gli affetti», «aggiuntevi le finezze dell’arte» e facendo
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Ancora al fratello Giuseppe il 4 maggio 1841 (ivi, vol. I, p. 79, n. 26). Il rinvio implicito è ai propri saggi Dell’avvenire dell’Italia, Nostro parere intorno alle cose italiane e Documenti pratici intorno a la rigenerazione morale e intellettuale degli italiani (Parigi, Lacombe 1839), ora in M. Pincherle, Moderatismo politico… cit., pp. 87-128. Sulla «religione civile» di Mamiani hanno scritto la stessa Pincherle (pp. 18-32) e A. Nacinovich, Gli ‘Inni sacri’ di Terenzio Mamiani cit. 13 È la missiva inaugurale dell’epistolario (Lettere dall’esilio cit., vol. I, p. 4), del 13 agosto 1831; rettificano la data proposta da Viterbo (3 agosto) A. Brancati-G. Benelli, Divina Italia… cit., p. 117. 14 A Prospero Viani l’8 novembre 1842, in Lettere dall’esilio cit., vol. I, p. 102 (n. 36); e si veda la lettera al fratello Giuseppe del 17 novembre 1843 (pp. 182-183, n. 77). Tra il serio e il faceto è la minaccia del 24 giugno 1844: «vi giuro che innanzi di adoperare la lorda, vile e infrancesata lingua corrente, smetto di scrivere e vo in qualche orto a coltivare i cavoli e le lattughe» (a Viani; ivi, vol. I, p. 236, n. 113). Solo nel caso di una permanenza stabile a Parigi, comunica al Vieusseux, «dirò un doloroso addio alle lettere italiane e guadagnerò la vita scrivendo francese» (31 agosto 1846: vol. II, p. 39, n. 210). Il 28 ottobre 1839 Mamiani esprime al fratello la propria preoccupazione per la degenerazione della lingua italiana contemporanea, «divenuta un tristo francese con desinenze italiane. Pro pudor!!» (vol. I, p. 37, n. 16). Cfr. N. Bellucci, Il salotto parigino di Cristina Belgiojoso, «princesse révolutionnaire», in Italia e Italie. Immagini tra Rivoluzione e Restaurazione. Atti del Convegno di Studi, Roma, 7-9 novembre 1996, a cura di M. Tatti, Roma, Bulzoni 1999, pp. 117-137, a p. 126. Foscolo e gli altri esuli
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«procedere di pari passo le parole e le cose, la riforma dello stile e la rinnovazione delle idee»; si sono mossi in tale direzione, nota Mamiani redigendo un catalogo esemplare degli autori atti a «ristorare la nostra lingua, ritirandola ai suoi principii e alla castità e splendore delle antiche scritture», in primis la Società dei classici di Milano, l’esule Carlo Botta, l’abate Cesari e Pietro Giordani.15 Il tema verrà anche ripreso in versi. Tra le Composizioni aggiunte all’edizione fiorentina delle Poesie (1857), gli sciolti La lingua italiana, del 1845, ripropongono il biasimo per una loquela «serva […] e vilipesa» (sebbene «ultima, eletta / Reliquia» della gloria italiana), assediata da «barbare pronunzie» e «Murmuri e strida che la musa abborre»; al poeta-esule, ideale depositario di una grandezza ormai perduta, è affidato il compito di comporre «nel paterno eloquio», seppur (foscolianamente) «fra stranie genti» e «in stranio suolo».16 A soffrire lo strapotere francese sono anche i linguaggi specialistici. Da qualche mese residente a Genova, nell’estate del 1847 Mamiani sollecita la collaborazione di Giulio Rezasco all’allestimento di un Dizionario delle discipline amministrative, per porre un argine alla piena dei francesismi.17 Elaborate fra molte difficoltà alcune ‘voci’, sempre più coinvolto nelle attività politiche e di governo, Mamiani preferirà infine ritirarsi dall’impresa che, mutata sensibilmente nelle sue finalità generali, verrà portata a compimento oltre trent’anni dopo dal solo Rezasco; pubblicato presso Le Monnier nel 1881, il Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo si fregerà di una dedica al suo primo ideatore, ormai senatore del Regno.18 Ciò
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Mamiani espone le proprie idee linguistiche nella recensione al Gran Dizionario italianofrancese e francese-italiano di Giuseppe Filippo Barberi, in «Rivista europea. Nuova serie del Ricoglitore italiano e straniero», anno II, parte III (30 agosto 1839), pp. 356-364 (si cita da pp. 356-357). Approfondimenti in M. Pincherle, Moderatismo politico… cit., pp. 39-42; R. Braccesi, Terenzio Mamiani sulla questione della lingua, in «Studia Oliveriana», XI (1963), pp. 91-97. 16 Poesie di Terenzio Mamiani. Nuova edizione con ammende dell’autore e aggiunta di parecchie composizioni, Firenze, Le Monnier 1857, pp. 358-361 (si citano i vv. 57, 33-34, 59, 60, 77, 79). Sulla produzione poetica di Mamiani: R. Tissoni, Mamiani e Carducci, in Scuola classica romagnola. Atti del Convegno di studi, Faenza 30 novembre, 1-2 dicembre 1984, Modena, Mucchi 1988, pp. 227-278; A. Nacinovich, Gli ‘Inni sacri’ di Terenzio Mamiani cit.; S. Martini, Il patriottismo nell’opera lirica di Terenzio Mamiani, in L’identità nazionale nella cultura letteraria italiana. Atti del 3° congresso nazionale dell’Adi, Associazione degli Italianisti Italiani (Lecce-Otranto, 20-22 settembre 1999), a cura di G. Rizzo, Galatina, Congedo 2001, 2 voll., nel vol. I, pp. 411-440. E si veda A. Della Pergola, Terenzio Mamiani e le sue poesie, Ancona, Morelli 1899. 17 Cfr. la lettera del 13 agosto; e quella, allo stesso destinatario, del 18 dicembre 1847, in Lettere dall’esilio cit., vol. II, pp. 212-213 (n. 328) e 267-268 (n. 366). 18 Il Dizionario è consultabile nella rist. anast. di Sala Bolognese, Forni 1982 (1a ed. 1966); cfr. ora M.V. Dell’Anna e F. Nepori, Il «Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo» di Giulio Rezasco, in «Nuova informazione bibliografica», VIII (2011), 4, pp. 855-860 (ulteriori indicazioni bibliografiche a p. 858). Al reggiano Viani, fra l’altro autore del Dizionario di pretesi IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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detto, non meraviglia apprendere che, sfumata la possibilità di rientrare in Italia attraverso la Toscana, Mamiani si rammarichi (temendo di suscitare l’ironia dell’interlocutore, il clinico Maurizio Bufalini) della mancata opportunità di tergere, manzonianamente, nelle acque dell’Arno «quella nera e densa fuligine» in cui pare essere avvolta la sua scrittura per la lunga permanenza sulle rive della Senna.19 Parrà invece singolare che, nel 1842, lodando l’Essai sur la formation du dogme catholique di Cristina di Belgiojoso, Mamiani giustifichi in tal caso l’uso del francese (in quanto lingua più nota e diffusa), adducendo a giustificazione il superiore intento di ricondurre il maggior numero possibile di studiosi ai complessi temi considerati dalla “princesse révolutionnaire”.20 Si trattava, evidentemente, anche di un atto di cortesia. Le franche relazioni mantenute con la Belgiojoso consentono a Mamiani di esprimersi sinceramente su altre questioni. Nel settembre 1845, chiamato dalla principessa a far parte del comitato di redazione della «Gazzetta italiana», trisettimanale pubblicato a Parigi tra il maggio e il dicembre di quello stesso anno, egli adduce generiche scuse per declinare l’invito: problemi di salute, anzitutto, e l’impegnativa stesura dei Dialoghi di scienza prima, pubblicati l’anno successivo. A distanza di sei giorni, impartisce consigli sulla conduzione del giornale e chiarisce la propria posizione; oltre a non aver ottenuto l’appoggio di personalità di spicco, ed essersi dotato di organi direttivi poco propensi all’impegno concreto, il periodico ospita «troppo misere scritture», e ha «poca connessione e uniformità di condotta e di massime».21 Come si apprende dalle lettere al Vieusseux e al milanese Gottardo Calvi (dal 1843 direttore della «Rivista europea»), a non convincere Mamiani è l’incertezza della linea politica del giornale, partito da princìpi moderati in occasione dei moti romagnoli e poi orientatosi su posizioni più radicali; la «Gazzetta» aveva finito così per dispiacere ai giovani, senza accontentare il vecchio ceto liberale. Le indecisioni del giornale, concludeva riservatamente Mamiani, potevano del resto spiegarsi pensando a chi aveva preso da ultimo a dirigerlo e ad animarlo, la stessa Belgiojoso, «un ingegno cioè che à le doti e più molto i difetti del sesso gentile e il quale per eccesso di vanità à voluto essere primo e assoluto manipolatore di quella pasta e che gli altri fossero unicamente il suo braccio anzi l’unghia del suo dito».22 Sorte non migliore toccherà all’«Au-
francesismi e di pretese voci e forme erronee della lingua italiana… (Firenze, Le Monnier 1858-60, 2 voll.), il 24 giugno 1844 Mamiani confida: «se v’à modo di riparare allo scadimento e allo imbastardire continuo della favella è appunto quello in cui siete entrato voi, scrivendo vocabolarj di cose manuali e domestiche», Lettere dall’esilio cit., vol. I, p. 236, n. 113. 19 Lettera del 16 gennaio 1847 (ivi, vol. II, p. 106, n. 256). 20 Cfr. ivi, vol. I, pp. 91-93, n. 32 (con la dettagliata analisi delle qualità del volume). 21 Si vedano le missive alla Belgiojoso del 14 e del 20 settembre 1845 (Lettere dall’esilio cit., vol. I, pp. 308-312, nn. 170 e 172; si cita da p. 312). 22 Cfr. la lettera al Calvi, presumibilmente assegnabile al 1845, e quella al Vieusseux dell’11 Foscolo e gli altri esuli
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sonio», anch’esso promosso dai patrioti che si riunivano intorno alla Belgiojoso, e inadeguato, a detta di Mamiani, all’aspettativa nutrita al momento della sua fondazione, nel 1846.23 Nei mesi precedenti l’annus mirabilis 1848, Mamiani invita i giornali alla moderazione, tanto nelle questioni politiche che in quelle sociali; solo avendo presente la situazione concreta dell’Italia, raccomanda al bolognese Marco Minghetti nella primavera del 1847 (a proposito del periodico «Il Felsineo»), si eviterà di proporre «paradossi e […] utopie» più adatte a nazioni dotate di «ogni forma di libertà e ogni perfezione politica» che non all’Italia.24 Sebbene si rammarichi che le riviste italiane siano afflitte da chiusure municipalistiche e che la loro povertà possa dare «pascolo all’ignorante cicaleggio delli scioli [‘saccenti’]», in quanto esperto uomo politico Mamiani non può che apprezzare i vantaggi della pubblicistica utile all’educazione civile.25 Così, nei Documenti pratici intorno la rigenerazione morale e intellettuale degli italiani (1839) auspica che cresca il numero dei giornali popolari, e ne venga affidata la compilazione a «gente savia e dabbene», investita della missione di diffondere ideali di indipendenza e di unità.26 E nel 1848, quando da Genova Francesco Maria Sauli e Raffaello Lambruschini lo invitano a partecipare a un giornale di tendenze liberali («La Lega italiana»), accetta di buon grado, stendendone il programma insieme a Domenico Buffa, e offrendo poi la propria collaborazione.27 Molto più tardi, nel saggio Parigi or fa cinquant’anni, pubblicato fra il 1881 e il 1882, Mamiani si pronuncerà meno severamente sulla Francia dei tempi dell’esilio. A Parigi si ritrovavano, negli anni Trenta e Quaranta, diverse generazioni di esuli,
novembre 1845 (ivi, vol. I, pp. 316-317 e 319-321, nn. 176 e 179); le citazioni da pp. 320-321. Si rinvia a P.L. Vercesi, La principessa di Belgiojoso giornalista, direttore ed editore di giornali, in «La prima donna d’Italia». Cristina Trivulzio di Belgiojoso tra politica e giornalismo, a cura di M. Fugazza e K. Rörig, Milano, Franco Angeli 2010, pp. 83-106; K. Rörig, «Cooperare al progresso de’ veri principii di libertà, di indipendenza e di nazionalità». Il giornalismo di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, in Cristina di Belgiojoso. Politica e cultura nell’Europa dell’Ottocento, a cura di G. Conti Odorisio, C. Giorcelli e G. Monsagrati, Napoli, Loffredo 2010, pp. 319-345. 23 Ne discorre la missiva al Pepoli del 17 gennaio 1847 (Lettere dall’esilio cit., vol. II, p. 108, n. 257). 24 Lettera del 6 aprile 1847 (ivi, vol. II, pp. 152-153). 25 Si vedano la lettera indirizzata presumibilmente a Pasquale Stanislao Mancini (del 1843) e quella al fratello Giuseppe del 12 agosto 1839, da cui si cita (ivi, vol. I, p. 140, n. 50; e p. 35, n. 15). 26 La citazione dai Documenti pratici, in M. Pincherle, Moderatismo politico… cit., p. 112 (si vedano anche pp. 46-49); cfr. A. Brancati-G. Benelli, Divina Italia… cit., pp. 193 e 231-232. 27 Programma del giornale «La Lega italiana» che pubblicavasi in Genova (1848), ora in M. Pincherle, Moderatismo politico… cit., pp. 153-161. Sull’attività giornalistica: A. Nacinovich, I contributi di Mamiani all’«Europe littéraire» cit. IX. Italiani della letteratura: Foscolo
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con le quali il conte aveva mantenuto rapporti di solidale collaborazione, e delle quali sottolinea in generale la dignità e la fermezza nella prova; tra i rifugiati italiani, osserva, «niuno piegò, niuno si arrese», divenendo così «oggetto continuo d’amore e di osservanza appresso gli stranieri»;28 una valutazione, com’è facile constatare, quantomeno ottimistica. Ai continui appelli all’amor di patria, al valore degli studi e degli affetti familiari le lettere accostano indiscrezioni sul litigioso universo del fuoriuscitismo politico, oltre che personali giudizi sui differenti modi di intendere l’esilio, dal rifiuto di ogni compromesso con le autorità incarnato da Felice Foresti («fra i pochi ai quali lo Spielberg non à consumata neppure un’oncia dell’antica energia») ad accomodamenti di vario tipo messi in atto da altri.29 Per parte sua, Mamiani è pronto a mettere in discussione anche aspetti caratterizzanti del proprio ‘credo’ civile e politico: alle gerarchie ecclesiastiche e al ruolo della religione nel nuovo Stato sono dedicate le missive a Gioberti (ripetutamente indicato come prototipo di patriota, colui che più ha giovato, con Alfieri, all’Italia);30 sulla più opportuna formazione dei religiosi si soffermano quelle al genovese Giuseppe Gando.31 Impegnato a favore di amici italiani residenti a Parigi (è il caso del generale Pepe, «vivente bandiera di libertà e d’indipendenza», che gli si rivolge nel 1847 perché interceda in suo favore presso le autorità sabaude),32 Mamiani coopera alla promozione della cultura dell’emigrazione, con edizioni di rilievo (le Memorie dello stesso Pepe, ad esempio, in favore delle quali viene richiesto l’intervento di Carlo Pepoli, per ottenere spazi nel panorama editoriale londinese).33
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Parigi or fa cinquant’anni cit., seconda s., XXIX (1881), p. 604. Lettera al Foresti dell’11 dicembre 1846 (Lettere dall’esilio cit., vol. II, p. 94, n. 248). Su un non meglio precisato Rossi che, «invecchiando impara a dimenticare affatto l’Italia e un poco anche la libertà», cfr. la missiva al Giordani, databile al 1843 (ivi, vol. I, p. 191, n. 82). 30 Cfr. M. Pincherle, Moderatismo politico… cit., pp. 32-39 e 49-52; sulle relazioni con alcuni esponenti del mondo politico contemporaneo, M. Pincherle, Mamiani e Mazzini, in «Il Veltro», XVII (1973), 4-6, pp. 629-637; R. Ugolini, Mamiani e Cavour nel decennio di preparazione, in «Studia Oliveriana», n. s., V (1985), pp. 55-95; A. Brancati-G. Benelli, Signor Conte… Caro Mamiani… cit. 31 Si vedano le lettere nn. 40, 61, 205. 32 Cfr. le missive nn. 277, 279, 297, 304 e 324; e un affettuoso biglietto di addio al generale (n. 264). Si cita dalle Parole dette inaugurandosi il monumento a Guglielmo Pepe in Torino, il dì 8 maggio 1858, nelle Prose letterarie cit., pp. 375-379, a p. 377. 33 Si rinvia alla lettera del 22 dicembre 1843 (Lettere dall’esilio cit., vol. I, pp. 326-327, n. 183). L’opera del generale Pepe venne infine pubblicata in tre lingue: a Londra (presso Bentley) uscì in inglese nel 1846; a Lugano (Tipografia della Svizzera italiana) e a Parigi (Baudry) fu edita in italiano nel 1847; nello stesso anno venne stampata in francese a Parigi (Libr. D’Amyot). 29
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Illustrano le fasi di uno stretto rapporto professionale (il commercio librario, lo studio) le relazioni con il libraio-editore parigino Louis-Claude Baudry, uno dei pochi che, insieme al Trouchy, accettasse di pubblicare volumi italiani.34 In un mercato editoriale difficile per gli stessi francesi,35 e addirittura ostile per gli italiani,36 Baudry e i suoi collaboratori (fra gli altri, Tommaseo, Antonio Buttura e Antonio Ronna) propongono coraggiosamente due collane di testi in lingua italiana, la «Collezione de’ migliori autori italiani antichi e moderni» e la «Biblioteca poetica italiana», che accolgono, accanto alla più celebrata produzione letteraria recente (dai Promessi Sposi a Le mie prigioni), un’ampia scelta di classici. Nel maggio 1843 Mamiani ottiene da Baudry la stampa di tutti i propri versi, «nati e cresciuti lungo i fiumi di Babilonia».37 Del resto, per l’editore e per il suo entourage Mamiani è tutt’altro che uno sconosciuto; nel 1838, Baudry aveva dato alle stampe le polemiche Sei lettere del Mamiani all’abate Rosmini intorno al libro intitolato il rinnovamento della filosofia in Italia e, tre anni dopo, con il fine dichiarato di voler proporre un canone della poesia moderna italiana, suoi versi erano stati inclusi nel volume collettaneo Canti di Giacomo Leopardi e poesie scelte di U. Foscolo, I. Pindemonte, C. Arici e T. Mamiani.38 Il pesarese doveva allora apparire «come un protagonista inaggirabile, l’espressione di un pensiero da ritenere ben rappresentativo nel quadro italiano ed europeo dei nuovi orientamenti culturali», espressione di una diffusa cultura moderata.39
34 Cfr. la lettera a Domenico Castorina del 10 giugno 1844 (Lettere dall’esilio cit., vol. I, p. 229, n. 109); ancora, quella a Macedonio Melloni, presumibilmente del 1843 (vol. I, pp. 195196, n. 85). Sul Baudry ha scritto M.I. Palazzolo, Un «ristampatore» a Parigi: Louis Claude Baudry (1826-1852) [1987], in Ead., I tre occhi dell’editore. Saggi di storia dell’editoria, Roma, Archivio Guido Izzi 1990, pp. 23-57. 35 Osserva Mamiani che, «salvo tre o quattro di somma celebrità, non trovano a chi vendere i loro versi, ed è gran ventura se possono farli stampare senza sborsar danaro. Il libraio che tre anni fa mandò fuori il lungo poema su “Napoleone” di Edward Quinet fece molto tristo negozio e tuttora se ne lamenta», Lettere dall’esilio cit., vol. I, p. 229, n. 109. 36 L’8 novembre 1842, il pesarese dissuade Viani dal proporre ai periodici francesi la stampa di un proprio componimento: «Voglio mi caschi il naso se vi avviene di rincontrare versi italiani di qualesia autore e tempo stampati nei foglietti dei giornali francesi» (ivi, vol. I, p. 102); e cfr. la missiva a Felice Bisazza, forse del 1844 (p. 258, n. 129). 37 Così nella lettera di dedica delle Poesie di Terenzio Mamiani. Per la prima volta unite e ordinate con aggiunta di molte inedite (Parigi, Baudry 1843), indirizzata alla contessa Masino di Mombello il 30 marzo 1840, Lettere dall’esilio cit., vol. I, p. 60, n. 21. 38 Canti di Giacomo Leopardi e poesie scelte di U. Foscolo, I. Pindemonte, C. Arici e T. Mamiani, Parigi, Baudry 1841; i componimenti di Mamiani sono a pp. 287-402. 39 A. Colombo, Da Milano all’Europa. Fortune transalpine dei ‘Sepolcri’ foscoliani [2006], in Id., «I lunghi affanni ed il perduto regno». Cultura letteraria, filologia e politica nella Milano della Restaurazione, Besançon, Presses Universitaires de Franche-Comté 2007, pp. 249-269, a p. 268 (e cfr. pp. 260269).
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Disposto a rinunziare al trasferimento a Lucca pur di seguire dappresso la stampa delle Poesie, Mamiani si dichiara soddisfatto del lavoro ultimato, e rinnova la collaborazione con l’editore francese. Così, dopo la stampa del volume inaugurale degli incompiuti Dialoghi di scienza prima (1846), si cimenta nell’allestimento di una antologia storica della poesia italiana, compresa nella sezione poetica (il Parnaso italiano) della «Biblioteca scelta degli scrittori classici italiani antichi e moderni», affiancatasi alle altre collezioni del Baudry con un piano editoriale che annoverava titoli di poesia, teatro e prosa; quello di Mamiani è l’ultimo dei tre volumi del Parnaso ad andare in stampa, dopo I quattro poeti italiani (Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso) e i Poeti italiani contemporanei maggiori e minori, curati rispettivamente da Buttura e Ronna. Per i contemporanei viene fra l’altro riproposta la già sperimentata sequenza Leopardi, Foscolo, Pindemonte, Arici e Mamiani; e, nella sezione delle Rime scelte di poetesse italiane, trovano posto due ottave All’illustre esule Terenzio Mamiani di Laura Beatrice Mancini Oliva, verseggiatrice napoletana che godeva allora di qualche notorietà.40 A ridosso della partenza per Genova viene avviato il progetto, completato quando già da un anno Mamiani sarà rientrato in patria; il Parnaso («una sorta di rilettura spiritualistica di gran parte dell’esperienza letteraria nazionale») accoglie le opere in verso dell’«età media», dal Medioevo alla fine del Settecento.41 Oltre che in sintonia con l’indirizzo filo-italiano allora prevalente presso Baudry, la collezione rispondeva ai propositi divulgativi e di promozione avanzati dagli esuli, impegnati a diffondere la conoscenza degli auctores della tradizione attraverso conferenze, studi critici, edizioni di testi. Nelle trenta pagine introduttive Mamiani professa la propria venerazione per Dante, primo poeta dell’esilio e autore costantemente studiato e propagandato dai patrioti; quella di Mamiani per il poeta-filosofo fiorentino era del resto una predilezione di vecchia data.42 Il volume obbedisce a una partizione per generi, subordinata all’ordinamento cronologico; gli oltre cento autori trascelti vogliono offrire un’idea della ricchezza della letteratura italiana, con una spiccata preferenza per «quelle rime che intendono alla educazione civile, e ne infiammano ad amare la patria e con egregie opere glorificarla»; il poeta è infatti, nelle enunciazioni di
40 A p. 1077; introduceva l’antologia un Discorso preliminare intorno a Giuseppe Parini e il suo secolo di Cesare Cantù, e la seguiva un Saggio di rime di poetesse italiane antiche e moderne scelte dal Ronna. 41 Parnaso italiano – Poeti italiani dell’età media ossia scelta e saggi di poesie dai tempi del Boccaccio al cadere del secolo XVIII, per cura di T. Mamiani, Parigi, Baudry 1848; la Prefazione a pp. I-XXX (poi, con alcune modifiche, nelle Prose letterarie cit., pp. 15-55); la citazione da A. Colombo, Da Milano all’Europa… cit., p. 263. 42 Per la valutazione di Dante cfr. A. Nacinovich, Introduzione cit., pp. 19-21; Ead., Gli ‘Inni sacri’ di Terenzio Mamiani cit., pp. 420-423.
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Mamiani, «un interprete e un banditore delle ispirazioni comuni, e sostiene officio simile a quel degli araldi che in nome e con le parole di tutti favellano».43 Presenti tutti i maggiori poeti della tradizione medievale e rinascimentale (considerevole lo spazio riservato agli autori di poemi, in primis Ariosto), il curatore dichiara le proprie scontate riserve per il Seicento; ma al Chiabrera è riconosciuto il merito di aver rinnovato la poesia civile. Subiscono gli strali di Mamiani i poeti d’Arcadia (vengono salvati solo Menzini e Zappi) e, in generale, il secolo XVIII, che applicò tardi alla poesia i vantaggi delle mutate condizioni politiche; solo Alfonso Varano seppe restituire, insieme a Gasparo Gozzi, i giusti onori a Dante, e impresse un nuovo corso alla poesia moderna. Parini, su cui si chiude la Prefazione, è invece autore che travalica i suoi tempi, per una integrità d’animo che non si piega al potere.44 Mamiani indica dunque quale fosse la via maggiormente praticabile in Francia: recuperare i poeti eccellenti e, preferibilmente, quelli per cui l’Italia, in particolare quella del Rinascimento, più era nota. A sua volta incluso, lo si è visto, nel numero degli autori contemporanei canonizzati, ormai rientrato dall’esilio (la Prefazione è datata 1848), anche Mamiani collaborava a definire, con un Parnaso certamente fra i più attrezzati fra i tanti che allora vedevano la luce all’estero, il canone letterario della nazione che si sarebbe costituita di lì a qualche decennio.
43
T. Mamiani, Prefazione, pp. V, XIII. L’epistolario (lettera a Enrico Martini del 14 gennaio 1847: vol. II, p. 101, n. 254) riferisce un lusinghiero giudizio sul Parini. Un ripensamento dell’ultima ora induce Mamiani a escludere i poeti all’improvviso (missiva allo Zirardini del 20 luglio 1847: pp. 200-201, n. 320); un parere interlocutorio sugli improvvisatori è in Parigi or fa cinquant’anni cit., seconda s., XXX (1881), p. 615. 44
IX. Italiani della letteratura: Foscolo
X. Italiani della letteratura: Leopardi
Leopardi e leopardiani all’Italia
LEOPARDI E LEOPARDIANI ALL’ITALIA
CHIARA FENOGLIO Gli Italiani: Leopardi e la scommessa di una nazione da fondare
È lecito legare il nome di Leopardi alle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’unificazione del nostro Paese? Proporre, in una ideale antologia, una lettura delle sue opere quali catalizzatori di un sentimento di fierezza nazionale, potrebbe suonare lievemente sorprendente, e tuttavia è pur vero che se il nostro Risorgimento ha preso avvio da una lunga catena di sconfitte, se cioè il nostro senso di appartenenza italiano deriva da un’offesa, dallo shock di un onore ferito, allora proprio Leopardi – forse – funziona non solo da catalizzatore ma da cartina di tornasole per una lettura non retorica e non scontata della nostra storia recente. Certamente il poeta recanatese è, tra i nostri autori ottocenteschi, il meno interessato a un discorso sul genio dei popoli, eppure anch’egli quando parla di patria deve necessariamente far riferimento alla dinamica, in quegli anni piuttosto in voga, della contrapposizione tra centro e periferia che caratterizza tutta la stagione risorgimentale. Così, in una lettera a Giordani dell’agosto 1823, la partenza da Roma è descritta come rientro nella propria «povera patria», come ritorno alla periferia e al sepolcro, e tuttavia un ritorno assai poco doloroso se anche nel centro romano egli dice di «non aver mai saputo vivere».1 Dopotutto per Leopardi, come molti anni dopo per Alberto Arbasino, l’Italia è Un paese senza, senza centro e senza costumi, privo di autentico senso di appartenenza, di «coscienza antropologica» e dunque anche di civiltà, perché tutto compreso nella contrapposizione di piccole patrie periferiche assimilabili a tanti sepol-
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Nella lettera a Pietro Giordani del 4 agosto 1823 Leopardi scrive: «partii da Roma 3 mesi addietro e me ne tornai nella mia povera patria […] e niente dolendomi di ritornare al sepolcro, perché non ho mai saputo vivere», G. Leopardi, Lettere, a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori 2006, p. 440. Leopardi e leopardiani all’Italia
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cri, repubblichette e città che, «formando tante nazioni […] nemiche scambievoli», fomentano fin dal medioevo «la piccolezza delle virtù patrie, e il poco splendore dello stesso eroismo».2 Per dirla ancora con Arbasino, è un’Italia che si rituffa di continuo nei medesimi Corsi e Ricorsi storici, vivendoli di volta in volta come farse o tragedie, ma senza mai riuscire a prendere coscienza del fatto che si tratta di vere costanti antropologiche e non di inopinati bubboni destinati, una volta guariti, a non presentarsi più.3 Tuttavia, rispetto alla letteratura risorgimentale più tipica, questa dinamica centro-periferia è declinata dal Leopardi in modo affatto diverso: se consideriamo per esempio quanto avviene nelle Confessioni di un italiano, troviamo un protagonista, Carlin, che muovendosi con forte tensione ideologica dalla natia periferia a un centro nazionale progettato e ambito, dichiara «Io nacqui veneziano […] e morrò per grazie di Dio italiano». In Leopardi in effetti manca completamente questo orizzonte di ricomposizione simbolica degli sparsi frammenti di una storia secolare, e quando egli parla della gens italica si pone più sul fronte della polemica moralistica che non su quello dell’azione risorgimentale. Inutile dunque invitare un volgo disperso a sollevare la testa, se è vero che non l’occupazione straniera del suolo italico, ma l’incivilimento ha provocato la scomparsa dell’amor patrio e la progressiva riduzione delle società fino al raggiungimento uno stato di solitudine primitiva: Considerate le antichissime società, e vedrete che amor di patria, ossia di essa società, si trovava in ciascun individuo […]. Venite giù di mano in mano, e troverete le società sempre più ristrette e legate in proporzione dell’incivilimento. Ma che? Osservate i nostri tempi. Non solo non c’è più amor patrio, ma neanche patria. Anzi neppur famiglia. L’uomo, in quanto allo scopo, è tornato alla solitudine primitiva. L’individuo solo, forma tutta la sua società.4
Il problema vero non è storico né politico, ma civile: Leopardi giudica ridicolo che «in un paese privo affatto di unità, e dove nessuna città […] sovrasta l’altra, si voglia introdurre [una] tirannia della lingua, la quale […] non può sussistere senza […] uniformità dei costumi […] e senza società».5 Se poi il centro di questo ipotetico progetto linguistico, culturale e politico dovesse identificarsi, come in effetti in
2 Id., Zibaldone, f. 1092 del 26 maggio 1821 (le citazioni si intendono tratte dall’edizione a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori 1998). 3 A. Arbasino, Un paese senza, Milano, Garzanti 1990. 4 G. Leopardi, Zibaldone, f. 876 del 30 marzo-4 aprile 1821. Andrà rilevato come la riflessione sia datata a un momento molto significativo del nostro Risorgimento. 5 Ivi, ff. 2064-2065 del 6 novembre 1821 e prosegue: «se v’è nazione in Europa colla cui costituzione politica e morale e sociale convenga meno una tal soggezione in fatto di lingua […] ell’è appunto l’Italia, che […] non è neppur una nazione, né una patria».
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parte avveniva in quegli anni, col nome di Niccolò Tommaseo, allora il giudizio leopardiano diverrebbe ancor più tranchant: nel 1836 in un breve testo dedicato proprio all’intellettuale veneto, Leopardi tratteggia un’Italia, «Suddita, serva, incatenata» fin dai tempi di Costantino, che vive «in odio universale e scorno» e che certamente non aumenterà il suo prestigio se sarà Tommaseo il testimone e la bandiera dell’italianità in Europa: Oh sfortunata sempre Italia, poi che Costantin lo scettro Tolse alla patria, ed alla Grecia diede! Suddita, serva, incatenata il piede Fosti d’allor. Mille ruine e scempi Soffristi. In odio universale e scorno Cresci di giorno in giorno; Tal che quasi è postposto L’italiano al Giudeo. Or con pallida guancia Stai la peste aspettando. Alfine è scelto A farti nota in Francia Niccolò Tommaseo.6
Dunque se è vero, come ha scritto Alberto Banti,7 che la scelta di campo dei giovani mazziniani avviene anche sotto una precisa insegna letteraria, e se è vero che oltre ai nomi di Mameli, Cuoco, Foscolo, Pellico, anche Leopardi fornisce alcuni testi canonici del Risorgimento, è altrettanto vero che nel nostro autore manca quasi completamente la dimensione progettuale dell’indagine storica e politica, tipica per esempio del già citato Nievo: alla consapevolezza di un progetto, Leopardi sostituisce una più semplice concezione della storia come memoria. All’immagine del sacrificio, centrale nella simbologia religiosa risorgimentale, egli preferisce l’immagine del dramma, del crollo, della ruina. Il pensiero della patria in Leopardi non solo non contiene nessuna declinazione provvidenziale, ma neanche nessuna tensione civilmente escatologica: se per Petrarca la patria era «latin sangue gentile» che grazie alla memoria delle radici permetteva un progetto di costruzione di sé rivolto alla posterità, per Leopardi viene ad essere una cosa sola con gli avi, coi defunti padri: volgiti indietro, e guarda, o patria mia, quella schiera infinita d’immortali e piangi e di te stessa ti disdegna
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G. Leopardi, Epigramma, in Poesie e prose, a cura di R. Damiani e M. A. Rigoni, Milano, Mondadori 1987, vol. I, p. 401. 7 A. Banti, Il Risorgimento italiano, Roma-Bari, Laterza 2004, p. 54. Leopardi e leopardiani all’Italia
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leggiamo nella canzone Sopra il monumento di Dante.8 Lo sguardo sull’Italia è essenzialmente sguardo ritorto, che si volge indietro. L’Italia, nazione in fieri oltre che territorio in fieri, è emblema – nel suo non esserci ancora – del suo non esser più: itale ruine, appunto, figli sonnacchiosi che non sembrano all’altezza degli avi e che se hanno combattuto con eroismo, non si sono accordi di aver agito al servizio del tiranno di turno più che della loro patria. Per questo costoro non devono essere spronati, ma semmai consolati: Datevi pace; e questo vi conforti Che corforto nessuno Avrete in questa o nell’età futura.9
Certamente non mancano le retoriche invocazioni a sorgere, levarsi, prendere in mano il proprio destino, a «ritrarre il collo dal giogo antico» (come leggiamo nel testo preparatorio Dell’educare la gioventù italiana),10 e tuttavia neanche il Leopardi più entusiasta crede in un progetto di rinascita politica, e non solo perché il Risorgimento italiano entra nella sua fase attiva a partire dalla fine degli anni ’40 (e quindi con quasi 10 anni di scarto rispetto alla morte del recanatese). Per Leopardi il risorgimento è una storia tutta interiore, un impulso dell’animo, un ardore del cuore che si apre alla relazione con l’altro, poiché come può esservi costruzione sociale, patria appunto, senza apertura? Senza civiltà della conversazione? La parola in effetti, per Leopardi come per M.me de Staël, non è solo un mezzo per comunicare idee, sentimenti, affari, ma è uno strumento musicale «che rianima gli spiriti».11 Proprio l’absent Leopardi, l’eremita degli Appennini, è a ben vedere l’ultimo figlio della settecentesca civiltà della conversazione,12 cui viene affidato un altissimo valore morale e civile. Cosa significa dunque essere italiano, per Leopardi? Poiché è chiaro che Leopardi non esita mai a definirsi italiano, a riconoscersi in una patria insieme ideale eppur ben presente: «mia patria è l’Italia per la quale ardo d’amore, – scrive in una Lettera a Giordani, 21 marzo 1817 – ringraziando il cielo d’avermi fatto italiano, perché alla fine la nostra letteratura, sia pur poco coltivata, è la sola figlia legittima delle due sole vere tra le antiche».13 Si tratta di un Leopardi giovanissimo, che espone in modo già compiuto un ambizioso progetto non individuale, ma decisa-
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G. Leopardi, Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, in Poesie e prose cit., vv. 11-13, p. 10. 9 Ivi, vv. 164-166. 10 Ora in G. Leopardi, Poesie e prose cit., vol. I, p. 623. 11 M.me de Staël, De l’Allemagne, Paris, Garnier-Flammarion 1967, p. 101. 12 B. Craveri, La civiltà della conversazione, Milano, Adelphi 2001, p. 462. 13 G. Leopardi, Lettere cit., p. 50. X. Italiani della letteratura: Leopardi
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mente nazionale. Rifacendosi al centro culturale di una patria comune, contrapposto alla periferia della vilissima zolla recanatese in cui è nato,14 Leopardi pensa a un risorgimento che prenda impulso da «quei rarissimi ingegni che sostenendo in questa misera età l’ultimo avanzo della gloria italiana, danno speranza di vederla forse anche per loro aiuto riaversi e tornare in fiore».15 Italianità dunque rima con ingegno, e soprattutto con magnanimità: riflettere su un progetto di fondazione nazionale significa riflettere su una tradizione che ci sta alle spalle e ci sovrasta, trovare il modo di riconnettere questa tradizione con la nostra storia poetica, renderla fertile rispetto all’abiezione di un presente incapace di esercitare i sensi e l’immaginazione perché più morto degli stessi morti. Questo progetto, compiutamente espresso nella Canzone ad Angelo Mai, è teorizzato con notevole lucidità già in una lettera a Giuseppe Montani, datata 12 maggio 1819 (dunque due mesi prima del fallito tentativo di fuga da Recanati): Quando bene io fossi stato di ghiaccio verso la patria, le parole di V.S. m’avrebbero infiammato: né certamente io presumo di potere altro che pochissimo […]. Secondo me non è cosa che l’Italia possa sperare finattanto ch’ella non abbia libri adattati al tempo, letti ed intesi dal comune de’ lettori, e che corrano dall’un capo all’altro di lei; cosa tanto frequente tra gli stranieri quanto inaudita in Italia.16
Progettare una nazione non si può se non si hanno a disposizione i mezzi appropriati, e poiché l’amore patrio è irrecuperabile, «l’amore è sparito affatto, sparita la fede, la giustizia, l’amicizia, l’eroismo»,17 allora si dovrà far ricorso a quei «libri veramente nazionali [atti] a destare gli spiriti addormentati di un popolo e produrre grandi avvenimenti».18 La storia dunque deve correre su binari linguistici e culturali, ma soprattutto la storia su quei binari dovrebbe procedere con lo sguardo rivolto indietro (come sarà nel XX secolo l’angelo raffigurato da Walter Benjamin), tenendo ben fisso e presente l’esempio dei padri che custodiscono nel loro silenzio una speranza per il futuro, a fronte della rovina e della corruzione che insidiano la modernità. Ancora a Giordani, il 20 marzo 1820, discutendo di quanto occorra fare per la patria, e di quanto ancora manchi, Leopardi dichiara il suo progetto: non solo creare la lirica, rifondare la filosofia, la satira e l’eloquenza, ma soprattutto dar forma a «una lingua e uno stile ch’essendo classico e antico, paia moderno e sia facile a intendere e dilettevole così al volgo come ai letterati»:19
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Si veda in merito la lettera a Perticari del 12 marzo 1819, ivi, p. 181. Lettera a Borghesi del 16 febbraio 1819, ivi, pp. 170-171. 16 Ivi, p. 200. 17 G. Leopardi, Zibaldone, f. 890 del 30 marzo 1821. 18 Lettera a Montani, del 21 maggio 1819, in G. Leopardi, Lettere cit., p. 200. 19 Ivi, p. 249. 15
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come preciserà in seguito nello Zibaldone «Noi abbiamo una lingua […] ricchissima, vastissima, bellissima, potentissima […]. Ma ella è antica […] ed essendo antica non basta né si adatta tal quale ella è, a chi vuole scriver cose moderne in maniera moderna».20 Desta interesse che questo progetto, chiaramente culturale e a-politico, ma non meno engagé, debba avere nelle intenzioni dello stesso estensore una precisa ricaduta sociale: si tratta cioè di un progetto morale, del progetto morale di chi – nello stesso 1820 – a un altro interlocutore, il Brighenti, dichiara la sua totale sfiducia nei confronti della società, autentico corpo morto le cui classi sociali «sono appestate dall’egoismo distruttore di tutto il bello e di tutto il grande» poiché «il mondo senza entusiasmo, senza magnanimità di pensieri, senza nobiltà di azioni, è cosa piuttosto morta che viva».21 Se tutto ciò è vero allora è proprio la via della magnanimità (cioè della morale, della filosofia e della letteratura) che bisogna percorrere per dar forma e senso a un progetto che possa ambire a respiro nazionale. L’intellettuale ha un mandato, che non è necessariamente quello di salire sulle barricate: alla filosofia, lo studio cioè meno praticato in Italia, e alla creazione di una letteratura propriamente moderna, Leopardi affida ogni speranza di autentico, intrinseco risorgimento nazionale, poiché solo la filosofia (e nella fattispecie la filosofia morale) può forse sanare «l’infelice stato della morale pubblica ai nostri tempi, e quella totale rovina e dissoluzione dalla quale è minacciata al presente la società, per la diffusione di principii incompatibili colla vita sociale degli uomini».22 L’indagine di Leopardi è al solito lucidissima, la crisi della letteratura italiana è da imputare a precise ragioni: «Tra le cagioni del mancar noi […] di lingua e letteratura moderna propria, si dee porre, e per prima di tutte, la nullità politica e militare in cui è caduta l’Italia […] dal ’600 in poi»,23 pertanto se si vuole ricostruire la grandezza italiana è necessario procedere come à rebours, partendo non dal piano politico-militare, ma in primo luogo da quello culturale che è stato l’ultimo a corrompersi. Sono, queste ultime, riflessioni che risalgono al biennio 1823-1825, cioè al momento di incubazione e prima realizzazione delle Operette morali – autentico libro per il XX secolo – in cui Leopardi costruisce un manifesto molto più che puramente satirico: si tratta in qualche modo del suo personalissimo contributo alla costruzione di una nazione, di un progetto etico e letterario che per molti versi ancora attende piena attuazione.
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G. Leopardi, Zibaldone, ff. 3324-3325 dell’1-2 settembre 1823. Lettera a Brighenti, del 28 agosto 1820, in G. Leopardi, Lettere cit., p. 277. 22 Lettera a Karl Bunsen, del 3 agosto 1825, ivi, p. 539. 23 G. Leopardi, Zibaldone, f. 3855 del 10-11 novembre 1823. 21
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ROSA GIULIO La borghesia italiana al cospetto dell’Europa: i caratteri nazionali e il Leopardi “civile”
Alla domanda cruciale di come si possa rimediare alla «dissoluzione» degli antichi valori civili e alla pericolosa «incertezza» del tempo presente, il XIX secolo, per salvaguardare il «futuro destino» dei popoli, Leopardi, con un illuminante «colpo d’occhio» sul contesto geopolitico europeo, risponde che le nazioni più avanzate (Inghilterra, Francia, Germania) hanno già trovato gli ideali sostitutivi «in un principio conservatore della morale»: la «società stretta», regolata da un’evoluta vita di relazione, da un insieme di forme culturali e associazioni organizzate, di consuetudini e convincimenti, da una borghesia intellettuale, rappresentativa del livello medio-alto all’interno della società in generale. Pur producendo un «grandissimo effetto», il «principio conservatore» (la «società stretta») gli appare tuttavia «minimo, e quasi vile rispetto ai grandi principii morali e d’illusione che si sono perduti»: nel momento stesso in cui sottolinea il principio fondante la coesione sociale nelle nazioni civili del suo tempo, ne ribalta immediatamente il valore assoluto, ne riduce, anzi, ne immiserisce («quasi vile») la portata innovativa a paragone con i modelli irraggiungibili delle antiche civiltà. Insomma, quando sembra spezzare una lancia in favore del Moderno, nella sostanza, come lontanissima e tuttavia incessantemente vagheggiata stella polare, riesce a far brillare l’archetipo civile dell’Antico.1
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Cfr. G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, ediz. diretta e introdotta da M. A. Rigoni, testo critico di M. Dondero, commento di R. Melchiori, Milano, Rizzoli 1998 e 2006, pp. 45-47: in seguito, semplicemente Discorso. Vd. anche G. Leopardi, Discours sur l’état présent des moeurs en Italie, éd. critique et notes de M. Dondero, trad. de Y. Hersant, Paris, Les Belles Lettres 2003 (Introduzione al testo di N. Bellucci, Italiens et européens dans le ‘Discours’ de Giacomo Leopardi, pp. XII-XV); M. Dondero, Leopardi e gli Italiani. Ricerche sul ‘Discorso sopra lo stato presente del costume degl’Italiani’, Napoli, Liguori 2000 (in partic. pp. 51-67 sulle «circostanze della composizione»). Sono state consultate anche le edizioni del Discorso curate da R. Damiani (in G. Leopardi, Poesie e Prose. II. Prose, Milano, Mondadori 1988, pp. 443-480) e da A. Placanica (Venezia, Marsilio 1989). Leopardi e leopardiani all’Italia
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Dell’altro e propedeutico quesito di come sia stato possibile – «in questo caos che veramente spaventa il cuor di un filosofo», effetto inevitabile della «strage delle illusioni» – conservare una qualsiasi, anche se labile, forma di società, la soluzione avanzata da Leopardi è in chiave “contingentistica”: «la conservazione della società sembra opera piuttosto del caso che d’altra cagione, e riesce veramente maraviglioso che ella possa aver luogo tra individui che continuamente si odiano s’insidiano e cercano in tutti i modi di nuocersi gli uni agli altri». Non solo nel Discorso, ma anche nello Zibaldone, il suo giudizio non è, infatti, positivo sull’uomo, che «non può essere virtuoso per natura» e inoltre «non si può muovere neanche alla virtù, se non per solo e puro amor proprio, modificato in diverse guise». Questa posizione, così duramente negativa, è aggravata ancora dal fatto che un eventuale perfezionamento dell’essere umano non può essere realizzato neppure dalle buone leggi.2 Alla prima e immediata spiegazione di ciò che si deve intendere per «società stretta» («un commercio più intimo degli individui fra loro») Leopardi aggiunge un ulteriore chiarimento: gli «individui», da cui è composta, sono soprattutto quelli che, «forniti del necessario alla vita col mezzo delle fatiche altrui, mancando de’ bisogni primi, vengono naturalmente nel secondo bisogno, cioè di trovare qualche altra occupazione che riempia la loro vita, e alleggerisca loro il peso dell’esistenza, sempre grave e intollerabile quando è disoccupata». Tutto qui: come evidenzia il corsivo, la «società stretta» è un espediente dei tempi moderni, un semplice rimedio al vuoto di grandi illusioni, un vitale antidoto alla mortifera noia, sempre incombente su chi non deve procacciarsi i «bisogni primi», perché parte di un’élite sociale; è, quindi, un’indispensabile riparazione, un risarcimento dei danni prodotti dalla stessa civiltà («la civiltà ripara oggi quanto ai costumi i suoi propri danni»).3 Anche in una pagina dello Zibaldone (4075) del 20 aprile 1824 (lo stesso anno in cui lavorava al Discorso), Leopardi approfondisce questo concetto, collocandolo in una dimensione più generale;4 lo sviluppa anche in una delle Operette morali, sempre del 1824 (29 ago-
2 Pur tenendo presente lo Zibaldone di pensieri, a cura di G. Pacella (Milano, Garzanti 1991), si cita da G. Leopardi, Zibaldone, edizione commentata e revisione del testo critico, a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori 1997; in seguito, Zib. e numero di pagina dell’autografo leopardiano: cfr. Zib. 1100, 28 maggio 1821; per la cit. precedente: Discorso, p. 50. 3 La «società stretta» non si forma all’interno di una sola nazione civile, ma si costituisce nelle varie realtà statali europee moderne; anzi, «per mezzo di quella società più stretta, le città e le nazioni intiere, e in questi ultimi tempi massimamente, l’aggregato eziandio di più nazioni civili, divengono quasi una famiglia, riunita insieme per trovare nelle relazioni più strette e più frequenti, che nascono da tale quasi domestica unione, una occupazione», Discorso, p. 51. 4 La sua riflessione, che il più importante tra i bisogni dell’uomo è «quello di occupare la vita», trova un’antecedente analogia in un “pensiero” di Pascal, per il quale, se gli uomini rimanessero inattivi, «ils se verraient, ils penseraient à ce qu’ils sont, d’où ils viennent, où ils vont. Et ainsi ou ne peut trop les occuper et les détourner, et c’est pourquoi, après leur avoir
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sto-26 settembre), Detti memorabili di Filippo Ottonieri – a proposito delle «moderne nazioni civili» costituite da «tre generi di persone» – e lo riprende nei versi 44-53 dell’epistola Al conte Carlo Pepoli, composta nel 1826.5 Una «società stretta» non è necessariamente «a grandissima parte (e la maggiore, perchè i più deboli sono sempre i più) de’ suoi individui: dunque il suo effetto è il contrario del fin proprio ed essenziale della società, ch’è il bene comune de’ suoi individui, o almeno dei più»; essendo il contrario di una società, «ripugna per essenza non pure alla natura in genere, ma alla natura e alla nozione stessa della società». Non vi è, quindi, da meravigliarsi «se mai non si è trovata nè mai si troverà, fra le infinite eseguite, immaginate, eseguibili e immaginabili, forma alcuna di società perfetta, da quella primitiva e naturale in fuori» (Zib., 3786; 3788). La società originaria, «primitiva e naturale», caratterizzata dalla “larghezza” – perché poco numerosa e con scarse relazioni tra i suoi componenti –, potrebbe risalire a Rousseau, in quanto Leopardi possedeva una traduzione italiana di Niccolò Rota, pubblicata a Venezia nel 1797, del Discorso sopra le origini e i fondamenti della ineguaglianza fra gli uomini.6 E, tuttavia, nel XIX secolo, solo quel tipo di società è ormai indispensabile, perché si è esteso in maniera conforme nelle città e nelle nazioni civili, trovando nelle più frequenti e strette relazioni un’«occupazione», intrattenendo la vita della sua classe dirigente: l’élite medio-alto borghese, che altrimenti sarebbe costretta a trascorrere il proprio tempo esistenziale «affatto vuoto». Questo spiega perché proprio all’interno della «società stretta», necessaria e moderna, «quasi vile» però rispetto alla società naturale e originaria («larga»), nasce «non già buona opinione», ma una sua depotenziata e immiserita consuetudine, che è la «stima», la cui «sede», come si chiarisce nello Zibaldone (3599-3600), non è «nel cuore, e non tocca in alcun modo al cuore».7
tant préparé d’affaires, s’ils ont quelque temps de relâche on leur conseille de l’employer à se divertir et jouer et s’occuper toujours tous entiers», B. Pascal, Pensées [1669], ediz. a cura di L. Brunschvicg, Paris, Hachette 1897, 1904, 1925 e Flammarion 1976: pensiero n° 143. Presenti nella Biblioteca Leopardi, oltre alle Pensées, in originale e in trad. italiana, anche Les Provinciales. 5 Cfr. G. Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri, in Id., Operette morali, edizione critica a cura di O. Besomi, Milano, Fondazione Arnaldo e Alberto Mondadori 1979, pp. 255-294: a p. 285; in un altro dei suoi «ragionamenti notabili», l’Ottonieri «distingueva nelle moderne nazioni civili tre generi di persone» (p. 275): la stessa «triplice distinzione», già proposta da Leopardi nello Zibaldone (3183-91, 18 agosto 1823). Per l’epistola in versi, Al conte Carlo Pepoli, vd. l’ediz. critica diretta da F. Gavazzeni: G. Leopardi, Canti e poesie disperse, nuova ediz., Firenze, presso l’Accademia della Crusca 2009, I. Canti, pp. 347-367. 6 Cfr. J.-J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, in Id., Oeuvres complètes. III. Du Contrat social, Écrits politiques, édition plubliée sous la direction de B. Gagnebin et M. Raymond, Paris, Gallimard 1964, pp. 109-237: a pp. 134-137). 7 La «società stretta» induce inevitabilmente ogni individuo a tener conto degli altri e a Leopardi e leopardiani all’Italia
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Insieme con la stima, anche l’opinione pubblica ha indubbiamente sostituito gli antichi principi morali nelle moderne nazioni, ma nella sua essenza rimane una «piccolissima e freddissima cosa», tanto più che gli «uomini politi di quelle nazioni» occupano il loro tempo a seguire «le mode, a cercar di brillare cogli abbigliamenti, cogli equipaggi, coi mobili, cogli apparati: il lusso e la virtù o la giustizia han tra loro lo stesso principio». A completare il quadro del modo di vivere nelle società evolute, Leopardi richiama un altro fattore decisivo, sicuramente tra i meno peggiori antidoti prodotti dalla moderna civiltà per compensare i suoi danni, ma comunque degradato rispetto ai valori del mondo antico fondati su magnanime illusioni: questo nuovo comportamento sociale è il bon ton («il buon tuono»), definito «non solo il più forte, ma l’unico fondamento che resti a’ buoni costumi», tanto indispensabile che, «dove il buon tuono della società non v’è o non si cura, quivi la morale manca d’ogni fondamento e la società d’ogni vincolo»; tuttavia, non può fare a meno di «confessare» che proprio a «questa precisa miseria», vale a dire al bon ton, si è «ridotto» lo «stato delle opinioni e delle nazioni quanto alla morale».8 Le società moderne devono, dunque, adottare il bon ton, le bienséances, le buone maniere, per potersi reggere; si sono “ridotte” a questa «miseria», a un insieme di convenzioni e di convenienze con i loro riti e le loro finzioni, adulterando l’etica in etichetta, tant’è vero – puntualizza Leopardi nella settima nota al Discorso – che gli «uomini politi» di queste società evitano il male e fanno il bene non per dovere, ma per educazione, per «onore», non per mettere in pratica un imperativo categorico o religioso, dettato dalla propria coscienza, ma solo per formalismo, ligio alle regole esteriori del bon ton.9 Di qui nasce anche la «perpetua e piena dissimulazione», che «tutti fanno verso ciascuno nelle parole e nei fatti in una società stretta», stabilendo una rete di relazioni fondate negativamente sul reciproco inganno, con l’effetto paradossale di ribaltare la tradizionale antitesi, apparenza vs sostanza, facendo della
desiderare di farsi stimare, considerandoli necessari «alla propria felicità, sì quanto ad altri rispetti, sì quanto a questa soddisfazione del suo amor proprio che ciascuno in particolare attende desidera e cerca da essi, da’ quali dipende, e non si può ricever d’altronde», Discorso, pp. 51-52. 8 Ivi, p. 54. Il bon ton è comunque un «fondamento» insostituibile, un «vincolo» necessario nelle società civili; pertanto, ne va deplorata la mancanza, che agevolmente si osserva lì dove lo stato di socializzazione e di civilizzazione è molto basso per «poca conversazione», come in Italia (cfr. Zib. 3546-47, 28 settembre 1823). Sull’importante funzione della «conversazione» nelle società europee, vd. M. Fumaroli, La conversation, in Trois institutions littéraires, Paris, Gallimard 1994, pp. 111-210. 9 Proprio con questo comportamento esteriore e formalistico, adottato dalle nazioni civili moderne, «la società stessa producendo il buon tuono produce la maggiore anzi unica garanzia de’ costumi sì pubblici che privati, che si possa ora avere, e quindi è causa immediata della conservazione di se medesima», Discorso, p. 55. X. Italiani della letteratura: Leopardi
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forma apparente (del bon ton e della bienséance) il fondamento sostanziale delle evolute società moderne.10 Se, infatti, Leopardi, in una pagina (665) dello Zibaldone (febbraio 1821), aveva sottolineato l’inganno e l’inutilità delle apparenze, giudicando favorevolmente la necessità di lasciare «intatta» la sostanza e di cambiare solo l’apparenza, e in uno dei Pensieri (XXIII) aveva auspicato come impresa «degna» quella «di rendere la vita finalmente un’azione non simulata ma vera», all’altezza del Discorso – 1824, un anno di critica riformulazione della sua teoria delle illusioni sotto il profilo gnoseologico ed etico –, con lucido e stringente realismo e con altrettanto desolato disincanto, in un’altra pagina dello Zibaldone, amaramente osserva: Ora l’apparenza non solo basta, ma è la sola cosa che basti, ed è necessaria e la sola necessaria. Perocchè la sostanza senza l’apparenza non fa effetto alcuno e nulla ottiene, e l’apparenza colla sostanza non fa nè ottiene niente di più che senza essa: onde si vede la sostanza essere inutile e il tutto stare nella sola apparenza.11
L’aspetto più stupefacente del paradosso consiste nel fatto che, in questo processo riduttivo dall’antico al moderno, la società e in particolare la «società stretta» vengono tenute in vita non da sostanziali norme etiche, ma da apparenti convenienze formali: in Italia, invece, come argomenta Leopardi, gradualmente passando dal quadro europeo alla situazione nazionale, priva di una «società stretta», di un centro politico, e dunque di un’opinione pubblica e di un determinato bon ton (tanto che ogni italiano, non avendo «gran cura del proprio onore», «fa tuono e maniera da sé»), non solo mancano «sostanza e verità alcuna», inesistenti perfino in altre nazioni, ma non si trova neanche l’«apparenza, per cui ella può essere considerata come importante». Questo accade perché l’Italia si è attestata in un punto fermo del processo storico, in quanto non possiede più quelle grandi e naturali illusioni del mondo antico, che «il progresso della civiltà dei lumi» ha distrutto, e non ha ancora sviluppato quei simulacri di illusioni delle moderne nazioni europee, che costituiscono tuttavia, «in ordine alla morale», gli unici «fondamenti», «fatti nascere, ed ora conferma ogni dì più co’ suoi progressi, dalla civiltà medesima».12 In passato, la condizione dell’Italia era però completamente diversa, quando ebbe una civiltà di grandezza incomparabile che, per ben «due volte», «superò di gran lunga tutte le nazioni che ora ci superano»; nel tempo presente non ha il
10
Cfr. ivi, pp. 60-61. Zib. 4096, 1 giugno 1824. Analogamente, in un altro dei suoi Pensieri (LV): «È assioma trito, ma non perfetto, che il mondo si contenta dell’apparenza. Aggiungasi per farlo compiuto, che il mondo non si contenta mai, e spesso non si cura, e spesso è intollerantissimo della sostanza». 12 Discorso, p. 71. Per le cit. precedenti, cfr. pp. 56-59 (passim). 11
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carattere di «nazione», ma se lo recuperasse, sicuramente trionferebbe, come sembra convinto Leopardi in una pagina (1026) dello Zibaldone (10 maggio 1821): «Le nazioni meridionali massimamente, e fra queste singolarmente l’Italia e la Grecia (purché tornassero ad essere nazioni) diverrebbero un’altra volta invincibili». Si riverberano queste speranze in due versi dei Paralipomeni della Batracomiomachia – Se fosse Italia ancor per poco sciolta, / regina torneria la terza volta –, perché si fondano sul ricordo dell’antica superiorità artistica e culturale: e la stampa d’Italia, invan superba / con noi l’Europa, in ogni parte serba.13 Completamente mutata in peggio è l’Italia dell’età moderna: la sua situazione statica dipende dall’essere «inferiore alle nazioni più colte o certo più istruite, più sociali, più attive e più vive di lei», e dal trovarsi in difficoltà nei confronti delle nazioni «meno colte e istruite e men sociali di lei», perché queste almeno si fondano sull’ignoranza, i pregiudizi e la superstizione dei «tempi bassi», caratterizzati dalla «barbarie» medievale. Indubbiamente influenzato dalla storiografia illuministica, Leopardi esprime un giudizio ingiustamente negativo sul Medioevo, distinguendolo con rigido puntiglio dal mondo antico, proiettato sempre in un’irraggiungibile dimensione di grandezza: Ora i costumi, le opinioni e lo stato propriamente antico favorivano, conducevano, e generavano il grande, ma quelli del tempo basso in generale considerandoli, non hanno mai né favorito né prodotto niente di grande, né sono di natura da poterne produrre o da esser compatibili colla vera grandezza né dell’individuo né molto meno delle nazioni.14
Alla svalutazione dell’età medievale rispetto al mondo antico segue un’altra precisazione: la civiltà moderna ha liberato, soprattutto attraverso la settecentesca cultura dei «lumi», l’Europa dalla «barbarie» e dalla corruzione dei «tempi bassi», ma non già dallo «stato antico», secondo un «falsissimo modo di vedere». Se, dunque, «risorgimento» (così Leopardi chiama il Rinascimento) vi è stato, la risurrezione è propriamente una rinascita «dalla barbarie de’ tempi bassi», non dal mondo antico; «la civiltà, le scienze, le arti, i lumi, rinascendo, avanzando e propagandosi, non ci hanno liberato dall’antico, ma anzi dalla totale e orribile corruzione dell’antico. In somma la civiltà non nacque nel quattrocento in Europa, ma rinacque».15
13 I versi dei Paralipomeni (poemetto iniziato forse a Firenze nel 1831 e proseguito a varie riprese in Napoli, fino a pochi giorni prima della morte del poeta, pubblicato poi a cura di Ranieri per la prima volta a Parigi nel 1842, presso la libreria Baudry) si riferiscono, nell’ordine di citaz., a I 29, 7-8; I 27, 7-8. 14 Discorso, pp. 72, e 71 per le cit. precedenti. 15 Ivi, p. 73. «Questo falso concetto» (di considerare «la civiltà moderna come liberatrice dell’Europa dallo stato antico») «guasta generalissimamente il giudizio e il vero modo di pensare sulla storia e le vicende del genere umano e delle nazioni, ed è un errore o una svista
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Certo, la risorta civiltà, durante il Rinascimento, prima italiano e poi europeo, non fu «totalmente conforme» alla civiltà antica, beaucoup s’en faut, molto ce ne corre, ma sia la cultura rinascimentale sia anche quella illuministica hanno comunque il grande merito di «averci liberato da quello stato egualmente lontano dalla coltura e dalla natura propria de’ tempi bassi, cioè di tempi corrottissimi; da quello stato che non era nè civile nè naturale, cioè propriamente e semplicemente barbaro, da quella ignoranza peggiore e più dannosa di quella de’ fanciulli e degli uomini primitivi»: da qui parte una delle più dure requisitorie contro il Medio Evo, visto come dominio di superstizioni e di intrighi, di tirannidi sanguinarie, di baroni e vassalli, di lotte faziose tra famiglie, partiti e città, di feroci cavalieri e di leggi sottomesse alla forza, di passioni ambiziose e di costumi infami.16 Il «risorgimento» dalla barbarie è avvenuto “solo in parte”, puntualizza Leopardi, coerentemente a quanto afferma nello Zibaldone: «Ci resta ancora molto a ricuperare della civiltà antica, dico di quella de’ greci e de’ romani», pur riconoscendo che le recenti tendenze mirano al «miglioramento sociale» e al «rinnovamento di moltissime cose antiche».17 Si dovrà, quindi, mettere in atto un lodevole processo di emulazione dell’archetipo stesso di civiltà, che è perfettamente rappresentato dal mondo antico, in cui la completa armonia tra natura e ragione era riuscita a costruire un’ideale «civiltà media», un eccellente punto di equilibrio tra un naturale stato primitivo e selvaggio, da una parte, e uno stato barbaro e corrotto, come quello dei «tempi bassi» medievali, dall’altra.18 Pur essendo la svalutazione del moderno una linea costante del pensiero leopardiano (e questo potrebbe spiegare il riferimento alle pagine zibaldoniane scritte quattro anni prima), l’occasione compositiva del Discorso e il suo contesto richiedevano un atteggiamento prudentemente moderato nel giudizio da esprimere sulle civiltà evolute: la destinazione dell’opera, infatti, era originariamente la pubblicazione nell’«Antologia» del Vieusseux, rivista attiva e impegnata nella trasformazione in senso liberale della cultura italiana.19 L’estensione della parte migliore della
sostanzialissima che turba e falsifica tutta l’idea che un filosofo può concepire in grande sulla detta storia e sui progressi o andamenti dello spirito umano», ivi, pp. 72-73. 16 Ivi, pp. 73-74. 17 Zib. 4289, 18 settembre 1827 (di conseguenza, «il presente progresso della civiltà è ancora un risorgimento; consiste ancora, in gran parte, in recuperare il perduto»). 18 «La civiltà delle nazioni consiste in un temperamento della natura colla ragione, dove quella cioè la natura abbia la maggior parte. […] La barbarie non consiste principalmente nel difetto della ragione ma della natura», Zib. 114-115, 7 giugno 1820. 19 All’«Antologia» di Gian Pietro Vieusseux, impegnata – com’è dichiarato nella Lettera proemiale della rivista – a «promuovere principalmente il progresso e la propagazione delle scienze morali», Leopardi offrì la propria collaborazione con lettera del 2 febbraio 1824 (cfr. G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri 1998, I, pp. 784-787: a p. 787, n° 612; Id., Lettere, a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori 2006, pp. Leopardi e leopardiani all’Italia
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Modernità, pertanto, si ritiene nel Discorso indilazionabile, soprattutto riguardo all’Italia, molto arretrata rispetto alle altre più avanzate nazioni europee; vi è, infatti, ribadito che «gl’italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi»:20 «poche usanze e abitudini hanno che si possano dir nazionali», in quanto «lo spirito pubblico in Italia è tale, che, salvo il prescritto delle leggi e ordinanze de’ principi, lascia a ciascuno quasi intera libertà di condursi in tutto il resto come gli aggrada, senza che il pubblico se ne impacci»; pertanto, se è vero che «la civiltà ripara oggi quanto ai costumi in qualche modo i suoi propri danni», è altrettanto vero che, nel tempo presente, «non può farsi cosa più utile ai costumi oramai che il promuoverla e diffonderla più che si possa» e, se «la morale propriamente è distrutta», «i costumi possono in qualche guisa mantenersi, e sola la civiltà può farlo ed essere instrumento a questo effetto, quando ella sia in alto grado».21 L’Italia, in passato nazione «sensibile e calda per natura», con l’avvento della Modernità ha una popolazione e soprattutto una classe dirigente fredda, indifferente, priva di immaginazione, sostanzialmente scettica e cinica: «le classi non bisognose», che trascorrono il loro tempo passeggiando, frequentando spettacoli, divertimenti e fastose cerimonie religiose – non esistendo in Italia un «centro», un pubblico, un teatro, una letteratura nazionale moderna, mancandovi quindi un società e una comune «maniera» –, non curano né onore né pubblica opinione: da questa “disposizione” nasce «la indifferenza profonda, radicata ed efficacissima verso se stessi e verso gli altri, che è la maggior peste de’ costumi, de’ caratteri, e della morale».22 Prendendo realisticamente atto della necessità di una «società», sia pure «stretta», in una nazione europea moderna, Leopardi giudica le «classi superiori d’Italia», che «ridono della vita», «le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni» e lo stesso «popolaccio italiano» il «più cinico de’ popolacci»; questo «abito di cinismo», nocivo ai costumi degli Italiani, è invece «più conveniente a uno
464-467, n° 305, Commento, pp. 1308-1309). Vieusseux, nella risposta del 4 marzo, accettò la proposta (vd. Epistolario, pp. 789-791, a p. 791, n° 616). Il Discorso, incompleto e inedito, fu pubblicato per la prima volta nel 1906, all’interno del vol., G. Leopardi, Scritti vari inediti dalla carte napoletane (Firenze, Successori Le Monnier, pp. 332-376): la data della composizione, marzo 1824, è suffragata anche da adeguate indagini filologiche (cfr. G. Scarpa, Notizie bibliografiche, in G. Leopardi, Opere. Saggi giovanili ed altri scritti non compresi nelle opere. Carte napoletane con giunte inedite o poco note, a cura di R. Bacchelli e G. Scarpa, Milano Officina Tipografica Gregoriana 1935, pp. 1294-1296). 20 Discorso, p. 75. 21 Ivi, pp. 75-76, 78-79, passim. Cfr. anche Zib. 2923 («Gl’Italiani non hanno costumi: essi hanno delle usanze. Così tutti i popoli civili che non sono nazioni») e la lettera di Giacomo a Carlo Leopardi del 18 gennaio 1823 (Epistolario cit., pp. 629-630: a p. 630, n° 501; Lettere cit., pp. 371-372, n° 248, Commento, p. 1276). 22 Ivi, pp. 64-65. X. Italiani della letteratura: Leopardi
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spirito al tutto disingannato e intimamente e praticamente filosofo».23 Duplice, dunque, il ragionamento, che in ultima analisi deriva dalla critica leopardiana all’«incivilimento»: da una parte, il «filosofo», cinicamente «disingannato» e intimamente persuaso della vanità di tutte le cose, in quanto consapevole che, non esistendo più le magnanime illusioni del mondo antico, l’onore, la stima, la cura della pubblica opinione sono dei miseri antidoti, dei vili espedienti, praticati dalle «società strette», del «tempo presente»; dall’altra, le popolazioni e le loro classi dirigenti che nel mondo moderno non possono non avere dei «costumi», una civile «conversazione» e non dare il proprio contributo, attivamente partecipandovi, alla vita della comunità nazionale. Si spiega in tal modo anche la risposta a Vieusseux, circa un anno dopo, in una lettera da Bologna del 4 marzo 1826. Al direttore dell’«Antologia», che gli aveva proposto (da Firenze, 1° marzo) di criticare nel suo periodico, in veste di un hermite des apennins in dialogo con un «romito dell’Arno», i metodi moderni di «educazione e di pubblica istruzione» e in generale tutto ciò che si può «flagellare quando si scrive sotto il peso di una doppia censura civile e ecclesiastica»,24 Leopardi, dopo aver osservato che le “flagellazioni” del Romito risulterebbero efficaci se avesse trascorso una precedente vita «nel mondo» prendendo parte attiva e importante «nelle cose della società», deciso a rifiutare l’offerta perché improponibile nel suo caso, risponde, precisandone le ragioni: «La mia vita, prima per necessità di circostanze e contro mia voglia, poi per inclinazione nata dall’abito convertito in natura e divenuto indelebile, è stata sempre, ed è, e sarà perpetuamente solitaria, anche in mezzo alla conversazione, nella quale, per dirlo all’inglese, io sono il più absent di quel che sarebbe un cieco e sordo. Questo vizio dell’absence è in me incorreggibile e disperato».25 L’«abito della solitudine», indispensabile al filosofo «metafisico», era anzitutto in Leopardi un dato ontologico, un ineliminabile fattore esistenziale; ma l’avere riconosciuto che, per discutere gli aspetti della vita associata è necessario conoscerla e parteciparvi, chiarisce anche l’ambivalenza e le oscillazioni del suo pensiero intorno all’idea di solitudine. Ferma restando la visione riduttiva delle società “strette”, realizzate dalle più evolute nazioni nell’Europa moderna – che possono tuttavia migliorare solo intro-
23
Ivi, pp. 65-67 (passim). G. Leopardi, Epistolario cit., I, pp. 1093-1094: a p. 1094, n° 853. 25 Ivi, pp. 1095-1097: a pp. 1096-1097, n° 855. Cfr. la stessa lettera a Gian Pietro Vieusseux, Bologna, 4 marzo 1826, in G. Leopardi, Lettere cit., pp. 630-633, n° 425 e il relativo Commento, pp. 1382-1383. Sul tema dell’absence («Le ragioni dell’absence»), cfr. A. C. Bova, Al di qua dell’infinito. La «teoria dell’uomo» di Giacomo Leopardi, Roma, Carocci 2009, pp. 87-100; sul rapporto con Vieusseux, vd. Leopardi nel carteggio Vieusseux. Opinioni e giudizi dei contemporanei 1823-1837, a cura di E. Benucci, L. Melosi e D. Pucci, Firenze, Olschki 2001, in particolare il contributo di E. Ghidetti, Leopardi e Vieusseux, I, pp. XIII-XXV. 24
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ducendo nei loro sistemi di vita elementi del mondo antico –, il cinismo e la solitudine, «abiti» convenienti al filosofo «disingannato» e al pensatore «metafisico», sono, dunque, nel «tempo presente», nocivi, in quanto cause di «danni incalcolabili» ai costumi, ai caratteri, alla morale, al «bene operare» di un popolo. In Italia, in particolare, ostacolano la nascita di una comunità civile moderna, di una coesa società «stretta», comunque preferibile a una divisa società «scarsa», anzi a una sua sostanziale mancanza, perché sfociano in comportamenti egoistici e immorali, fonti di una «continua guerra senza tregua», di «odio e disunione», da cui si «accresce, esercita e infiamma l’avversione».26 Gli Italiani, praticamente «cinici», anche se, paradossalmente, «filosofi», come le loro classi «superiori» e «non bisognose» dedite al passeggio e al divertimento, privi di «costumi» e di civile «conversazione», si trovano, ancora nel XIX secolo – per carattere identitario e/o per momento storico – senza un «centro» politico e, pertanto, non costituiscono una nazione. Dismettendo dannose «usanze», superando pessime «abitudini» e accesi contrasti – questo l’implicito auspicio di Leopardi –, potranno partecipare con pari dignità al consesso dei popoli socialmente evoluti dell’Europa moderna.
26
Discorso, p. 69. X. Italiani della letteratura: Leopardi
FLORIANA DI RUZZA Tra città antiche e rovine moderne: la rappresentazione degli Italiani nei ‘Paralipomeni della Batracomiomachia’
Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani e con esso molti passi dello Zibaldone mettono in luce, attraverso un’analisi serrata che si va via via approfondendo e determinando, l’assenza di società in Italia. A partire dalla riflessione socio-antropologica leopardiana, intendo qui mettere a fuoco alcuni lemmi appartenenti a una sorta di glossario concettuale di base, e rintracciare la loro declinazione in quella che può essere considerata l’ultima opera di Leopardi, i Paralipomeni della Batracomiomachia. I lemmi scelti (in particolare: autorità, viltà, onore, virtù, città) sono strettamente interconnessi l’uno all’altro; mostrare il loro utilizzo nei Paralipomeni della Batracomiomachia rivela che uno stesso concetto è spesso declinato da Leopardi in due direzioni diverse, in modo più esplicito attraverso la parodia, in modo più sottile attraverso un’ambiguità di significato. 1) Autorità Il concetto di autorità è per Leopardi un concetto bifronte, che nel poemetto si esplica attraverso il diverso punto di vista assunto dal narratore nel trattare i topi e i granchi. Per quanto concerne i granchi, il punto di vista leopardiano appare piuttosto evidente: i granchi (rappresentazione parodica degli austriaci) esercitano l’autorità sui topi (che a grandi linee rappresentano i liberali italiani degli anni ’20 e ’30) con prepotenza, ignoranza, stupidità e presunzione, arrogandosi il diritto di comandare proprio per le loro caratteristiche di durezza e mancanza di intelligenza. Siamo nel secondo canto: il conte topo Leccafondi, in qualità di ambasciatore, si trova nell’accampamento dei granchi e si rivolge al generale Brancaforte, che è un granchio «scortese a un tempo e di servile aspetto» (II, 21, v. 2):1 1 G. Leopardi, Paralipomeni della Batracomiomachia, a cura di M. A. Bazzocchi e R. Bonavita, Milano, Carocci 2002, p. 76.
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Chi tal carco vi diè? richiese il conte: La crosta, disse, di che siam vestiti, e l’esser senza né cervel né fronte, sicuri, invariabili, impietriti quanto il corallo ed il cristal di monte per durezza famosi in tutti i liti: questo ci fa colonne e fondamenti della stabilità dell’altre genti.2 (II, 39)
I granchi incarnano e professano i principi di legittimità e di equilibrio stabiliti dal Congresso di Vienna; e Leopardi nei Paralipomeni ne mette in scena una satira feroce. L’autorità è vista in questo caso come cieco sopruso, autoritarismo. La metafora della crosta, che enfatizza la caratteristica della durezza, salva per contrasto la qualità dell’elasticità, dell’adattabilità, della capacità di cambiamento che appartiene agli esseri più intelligenti e fisicamente meno forti, creando uno sfondo su cui l’incoerenza dei topi non apparirà come una qualità del tutto negativa. Mentre i granchi esercitano il proprio dominio in modo ottuso, con prepotenza e arroganza, i topi cercano infatti di perseguire gli ideali liberali e «costituzionali». E cercheranno di difendere la propria libertà, anche se poi nel momento di combattere se la daranno a gambe levate. I topi sono esseri da un lato più deboli, ma dall’altro più aperti ai cambiamenti e ai miglioramenti. Tuttavia, rispetto al concetto di autorità, per quel che concerne i topi, la questione è trattata in modo ancora più sagace e lungimirante nel momento in cui essi si ritrovano senza un re. I topi si erano dati uno statuto costituzionale, potevano scegliere liberamente ed eleggere il proprio re; eppure finiscono per eleggere il genero del re precedente, mettendo così in scena un vero e proprio paradosso della libertà. Il principio di legittimità, contestato a parole, è alla fine scelto nei fatti per vigliaccheria, o per abitudine. Deputato a regnar fu Rodipane, genero al morto re Mangiaprosciutti. Così quando Priàmo alle troiane genti e di sua radice i tanti frutti mancàr, fuggendo a regioni estrane sotto il genero Enea convenner tutti: perché di regno alfin sola ci piace la famiglia real creder capace.3 (III, 40)
2 3
Ivi, p. 87. Ivi, p. 111 (corsivi miei). X. Italiani della letteratura: Leopardi
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Leopardi in quest’ottava ironizza giocando sulla figura etimologica «regno»/ «real»; i topi hanno bisogno di rifugiarsi sotto l’ala protettiva dell’autorità per paura, per viltà. Poco oltre troviamo una serie di similitudini che contribuiscono a ridicolizzare l’evento, enfatizzando il tratto di debolezza dei topi. E quando per qualunque altra occorrenza mutando stato il pristino disgombra, di qualche pianta di real semenza sempre s’accoglie desioso all’ombra. Qual pargoletto che rimasto senza la gonna che il sostiene e che l’adombra, dopo breve ondeggiar tosto col piede, gridando, e con la man sopra vi riede. O come ardita e fervida cavalla che di mano al cocchier per gioco uscita a gran salti ritorna alla sua stalla, dove sferza, e baston forse, l’invita; O come augello il vol subito avvalla dalle altezze negate alla sua vita, ed alla fida gabbia ove soggiorna dagli anni acerbi, volontario torna.4 (III, 42-43)
Vorrei brevemente soffermarmi sulla seconda similitudine: essa riprende la metafora equestre del VI canto del Purgatorio richiamando l’immagine dantesca dell’Italia fiera «indomita e selvaggia» (e la metafora in Dante si sviluppa attraverso una semantica disseminata: il freno, la sella, li sproni, li arcioni, ecc.). Leopardi però ribalta completamente il punto di vista poiché qui la cavalla sceglie volontariamente di essere dominata nel momento in cui potrebbe essere libera. Sul bisogno di autorità come forma di riposo, Leopardi aveva ragionato in un lungo passo dello Zibaldone della fine del ’26, di cui mi limito a citare la prima parte: È naturale all’uomo, debole, misero, sottoposto a tanti pericoli, infortunii e timori, il supporre, il figurarsi, il fingere anco gratuitamente un senno, una sagacità e prudenza, un intendimento e discernimento, una perspicacia, una esperienza superiore alla propria, in qualche persona, alla quale poi mirando in ogni suo duro partito, si riconforta o si spaventa secondo che vede quella o lieta o trista, o sgomentata o coraggiosa, e sulla sua autorità si riposa senz’altra ragione; spessissimo eziandio, ne’ più gravi pericoli e ne’ più miseri casi, si consola e fa cuore, solo per la buona speranza e opinione, ancorchè manifestamente falsa o senza niuna apparente ragione, che egli vede o s’immagina essere in quella tal persona; o solo anco per una ciera lieta o ferma che egli
4
Ivi, p. 112.
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vede in quella. Tali sono assai sovente i figliuoli, massime nella età tenera, verso i genitori. Tale sono stato io, anche in età ferma e matura, verso mio padre;5
L’autorità è dunque sopruso se vista dalla parte di chi esercita il potere, ma bisogno di riposo se vista dalla parte di chi la subisce, e la sceglie nonostante le idee libertarie. Proprio perché il bisogno di autorità è visto come una forma di debolezza dell’animo, tale concetto si lega strettamente a quello della viltà. 2) Viltà La caratteristica discriminante che sembra accomunare tutti i topi del poemetto è la paura. I topi fuggono continuamente: il poemetto si apre con una grande fuga, collegandosi alla chiusura della pseudo-omerica Guerra de’ topi e delle rane (poemetto alessandrino che Leopardi traduce ben tre volte, dal ’15 al ’26); inoltre, nel momento cruciale dell’epos guerresco (alla fine del canto V), è rappresentata una fuga dei topi iperbolica, che ha luogo prima ancora che abbia inizio la battaglia. La viltà dei topi, la loro mancanza di eroismo, però, è una sorta di contestualizzazione del poemetto nella modernità: il sentimento della paura provato dai topi è rappresentato infatti come un sentimento del tutto moderno, legato alla debolezza fisica dei moderni rispetto agli antichi. Sul rapporto tra debolezza fisica e modernità, Leopardi ragiona in molti passi dello Zibaldone disseminando riflessioni sin dagli esordi. In particolare, attribuisce alla debolezza fisica la mancanza di coraggio e la corruzione dei costumi che caratterizzano la modernità; viceversa, al vigore del corpo il coraggio e l’eroismo dell’antichità. Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del corpo non erano solamente utili alla guerra, o ad eccitare l’amor della gloria ec. ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un corpo debole (vedete gli altri miei pensieri) in somma quelle cose che cagionano la grandezza e l’eroismo delle nazioni.6 Io riguardo l’indebolimento corporale delle generazioni umane, come l’una delle principali cause del gran cangiamento del mondo e dell’animo e cuore umano dall’antico al moderno.7 Il costume e la massima di macerare la carne, e indebolire il corpo per ridurlo, come dice S. Paolo, in servitù, dovea necessariamente illanguidire le passioni e l’entusiasmo,
5
G. Leopardi, Zibaldone dei pensieri, a cura di G. Pacella, Milano, Garzanti 1991, p. 4229 (del ms.). 6 Ivi, p. 115 (del ms.). 7 Ivi, p. 163 (del ms.). X. Italiani della letteratura: Leopardi
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e render soggetti anche gli animi di chi cercava di soggiogare il corpo, e così per una parte contribuire infinitamente a spegner la vita del mondo, per l’altra ad appianar la strada al dispotismo, perché non ci son forse uomini così atti ad essere tiranneggiati come i deboli di corpo, […] Nel corpo debole non alberga coraggio, non fervore, non altezza di sentimenti, non forza d’illusioni ec.8
Si tenga presente però che i granchi, che si approfittano della debolezza dei topi, anche se non provano il sentimento della paura, non sono tuttavia caratterizzati da alcun tratto di eroismo: la loro mancanza di paura è solo una conseguenza della loro ottusità; è come una caratteristica fisica, ma di durezza e non di vigore, non a caso metaforizzata dalla crosta. 3) Onore La paura dei topi è un sentimento moderno perché non può essere superata tramite l’eroismo antico; può essere superata, però, attraverso l’unica illusione che ancora ha una sua valenza nella modernità: il sentimento dell’onore. Nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (scritto nel 1824) Leopardi aveva definito l’onore come un «sentimento tutto moderno, e di natura sua, siccome di fatto e di nascita, posteriore alle grandi illusioni dell’antichità».9 E così continua nel Discorso: Questo sentimento è quello che si chiama onore. È un’illusione esso stesso, perché consiste nella stima che gl’individui fanno della opinione altrui verso loro, opinione che rigorosamente parlando, è cosa di niun conto; ma egli è un’illusione tanto poco alta e viva e luminosa che facilmente nasconde anche agli occhi esercitati dalla cognizione del vero, la sua vanità, e può compatire collo stato presente e colla distruzione di quasi tutte l’altre illusioni, alla quale ella non ripugna se non mediocremente, atteso la sua natura, per così dire, fredda e rimessa.10
Nel momento in cui i valori su cui si fondano le civiltà antiche si rivelano illusioni, l’unico sentimento che possa contrastare la viltà è l’onore. La mancanza del sentimento dell’onore per Leopardi è la ragione per cui gli Italiani non hanno sostituito a un sistema etico antico una società in cui vengano rispettate delle regole e si impongano dei costumi civili, così come avviene in quei paesi in cui Leopardi rintraccia la società moderna, Francia Germania e Inghilterra. Nei Paralipomeni il sentimento dell’onore si manifesta pienamente attraverso il
8
Ivi, pp. 254-255 (del ms.). G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, a cura di M. Moncagatta, Milano, Feltrinelli 2008, p. 46. 10 Ibidem. 9
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protagonista del poemetto, il topo conte Leccafondi. Sebbene Leccafondi ci venga presentato come l’incarnazione satirica dell’intellettuale liberale, monarchico-costituzionale, idealista e moderato, resta tuttavia l’unico personaggio trattato con una certa benevolenza; Leopardi ne fa emergere dei tratti positivi, tratti che mancano al popolo italiano preso nel suo insieme. Leccafondi, nonostante venga ritratto ironicamente come filosofo morale e «filotopo», è d’altra parte anche un «buon topo», «poco d’oro, e d’onor molto curante, / e generoso, e della patria amante» (I, 43).11 E in effetti, anche se pauroso come tutti gli altri topi, Leccafondi è l’unico personaggio del poemetto che riesce a superare la paura, a imparare dalle esperienze (compie un vero e proprio viaggio di formazione); e può superare la sua congenita paura solo attraverso il sentimento dell’onore: non riuscirebbe, infatti, a sostenere la vergogna davanti agli altri. quando da un poggio il topo rimirando Non molto avanti in giù nella pianura, Vide quel che sebbene iva cercando, Voluto avria che fosse ancor futura La vista sua, ch’or tutto l’altro in bando Parve porre dal cor che la paura, Non sol per se, ma parte e maggiormente Perché pria del creduto era presente. […] Tremava il conte, e già voltato il dosso Aveano i servi alla terribil vista, E muro non avria, non vallo o fosso Tenuto quella gente ignava e trista; Ma il conte sempre all’onor proprio mosso, Come fortezza per pudor s’acquista, Fatto core egli pria, sopra si spinse Gridando ai servi, ed a tornar gli strinse.12 (II, 12-14)
Nel momento in cui Leccafondi raggiunge l’accampamento nemico in qualità di ambasciatore, la paura si manifesta con tutti i suoi sintomi; il conte topo però la supera attraverso il sentimento dell’onore, a sua volta suscitato dalla vergogna. Onde il temer la vergogna, ch’è male, per così dire, interno e dell’animo, giacché nulla nuoce al corpo né alle cose esteriori, ed opera sul pensiero solo, ed ai sensi non dà
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Id., Paralipomeni della Batracomiomachia cit., p. 60 (corsivo mio). Ivi, pp. 71-72 (corsivi miei). X. Italiani della letteratura: Leopardi
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noia; fa che l’uomo non tema i danni esteriori, e non fugga e, bisognando, affronti il pericolo ed eziandio la certezza di soffrirli, preponendo i mali o i pericoli esterni e materiali agl’interni e spirituali, e l’anima, p. così dire, al corpo; e volendo innanzi soffrire ne’ sensi, nella roba ec. che nello spirito, e morire piuttosto che patir la pena della vergogna. Ché in questo e non altro consiste quel coraggio che viene da sentimento di onore, e gli effetti del medesimo.13
Il sentimento dell’onore è dunque l’unico che possa sostituire la virtù antica nella società moderna: solo attraverso tale sentimento è possibile superare viltà e paura. 4) Virtù Alla luce di queste considerazioni, la virtù appare come un concetto desueto: essa non può più esistere nella modernità, perché appartiene solo all’eroe antico. Nel poemetto dei Paralipomeni la virtù antica è incarnata da Rubatocchi, personaggio che si rivela decontestualizzato nel suo eroismo; se i personaggi dei Paralipomeni incarnano dei tipi moderni funzionali allo svolgimento di un’azione che è la non-azione della modernità, Rubatocchi appare come un personaggio fuori contesto: con il coraggio degli eroi antichi combatte e muore da solo, impotente nella sua impresa, in mezzo alla fuga di tutti gli altri topi.14 E, cosa ancora più significativa, non c’è un solo sguardo rivolto alle sue gesta eroiche: fuggiti tutti gli altri topi, Rubatocchi muore di notte, nell’oscurità, e il testo sottolinea come la sua morte non sia vista neanche dal cielo. Il distico leopardiano che chiude la scena riprende un distico dell’ultimo canto della Gerusalemme liberata:
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Id., Zibaldone dei pensieri cit., pp. 3489-3490 (del ms.). Scrive Liana Cellerino riguardo al personaggio di Rubatocchi: «In questa dinamica il topo Rubatocchi, pur sottoposto all’andamento complessivo della sequenza rovesciata, frustrata e incompiuta dell’epopea dei topi, non ha un ruolo rilevante; è piuttosto l’agente di un’azione impossibile, non attuata, di un’alternativa (politica ed etica) lasciata cadere dai protagonisti. È una somma di azioni esemplari, un tipo etico (virtù repubblicana, incorruttibilità, modestia «cittadina» e antieroica); né interviene come agente se non per compiere il proprio modello. E tuttavia è l’elemento nel quale le attese di esiti eroicomici suscitate da indizi (narrativi e metanarrativi) disseminati lungo tutto il poemetto hanno piena soddisfazione e compimento. Il vero se non l’unico episodio eroicomico è appunto la sua zuffa morgantesca da paladino, la sua morte tessuta come parodia di parodie di schemi epici, nella quale l’attrito tra tono iperbolico e abbassamento zooepico tocca il punto più alto delle sue potenzialità significative e allusive», L. Cellerino, Tecniche e etica del paradosso, Studio sui Paralipomeni di Leopardi, Cosenza, Lerici 1980, p. 140. 14
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Finché densato della notte il velo, Cadde, ma il suo cader non vide il cielo.15 (Paralip., V, 46, vv.7-8) l’alba lieta rideva, e parea ch’ella tutti i raggi del sole avesse intorno; e ’l lume usato accrebbe, e senza velo volse mirar l’opere grandi il cielo.16 (G.L., XX, 5, vv.5-8)
Il contrasto con la Gerusalemme liberata, in cui lo sguardo divino è uno sguardo dall’alto, una luce sulle gesta eroiche, è nettissimo. L’atto di eroismo di Rubatocchi si configura perciò come un atto inutile, fine a se stesso. D’altro canto, già in uno dei primi passi dello Zibaldone, dopo la lunga polemica con il Di Breme, Leopardi scriveva: Non è favoloso ma ragionevole e vero il porre i tempi Eroici tra gli antichissimi. L’eroismo e il sagrifizio di se stesso e la gloriosa morte ec. di cui parla il Breme, Spettatore, p. 47, finiscono colle illusioni, e non è un minchione che le voglia in se in tempi di ragione e di filosofia, come sono questi, ch’essendo tali, sono anche quello ch’io dico cioè privi affatto di eroismo, ec.17
E ancora: Oggi non può scegliere il cammino della virtù se non il pazzo, o il timido e vile, o il debole e misero.18
A seguire, nei Paralipomeni, inizia l’apostrofe alla bella virtù, sognata o immaginata, bene irreale, fantasma. Bella virtù, qualor di te s’avvede, Come per lieto avvenimento esulta Lo spirto mio: né da sprezzar ti crede Se in topi anche sii tu nutrita e culta. Alla bellezza tua ch’ogni altra eccede, O nota e chiara o ti ritrovi occulta, Sempre si prostra: e non pur vera e salda, Ma imaginata ancor, di te si scalda.
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G. Leopardi, Paralipomeni della Batracomiomachia cit., p. 160 (corsivi miei). T. Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di L. Caretti, Torino, Einaudi 1993, pp. 617-618 (corsivi miei). 17 G. Leopardi, Zibaldone dei pensieri cit., p. 23 (del ms.). 18 Ivi, p. 978 (del ms.). 16
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Ahi ma dove sei tu? sognata o finta Sempre? vera nessun giammai ti vide? O fosti già coi topi a un tempo estinta, Né più fra noi la tua beltà sorride? Ahi se d’allor non fosti invan dipinta, Né con Teseo peristi o con Alcide, Certo d’allora in qua fu ciascun giorno Più raro il tuo sorriso e meno adorno.19
Il V canto del poemetto si chiude con due ottave rivolte alla «Bella virtù»; attraverso l’apostrofe e le domande si mette però in dubbio non solo la sua esistenza nel presente, ma anche nel passato: la virtù appare come una rappresentazione mitica, immaginata sulla base di favole antiche («sognata o finta / Sempre»). Immagine dunque dell’eroismo antico, rappresentata però con lo sguardo della modernità, a ricordare – esattamente come una rovina della grandezza passata – la pochezza del presente, ma anche a costruire il ricordo stesso, e l’assenza. Che la virtù sia trattata alla stregua di una rovina del passato è rivelato in modo abbastanza evidente dall’uso del topos dell’ubi sunt: la domanda stabilisce un parallelismo tra il concetto di virtù e il tema delle città antiche, le civiltà e gli imperi scomparsi.20 Inoltre, l’immagine della virtù, intesa come rovina, era già presente nella Canzone Bruto minore, e proprio nell’incipit: Poi che divelta, nella tracia polve, Giacque ruina immensa L’italica virtute, […] 21 (vv.1-3)
Rubatocchi sembra, in effetti, la versione eroicomica di Bruto. 5) Città Non apparirà più come un caso, a questo punto del discorso, che i personaggi del poemetto si muovano in un’ambientazione di rovine.
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Id., Paralipomeni della Batracomiomachia cit., pp. 166-167. Si pensi all’uso che Leopardi compie del topos dell’ubi sunt: nella Sera del dì di festa: «Or dov’è il suono / Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido / De’ nostri avi famosi, e il grande impero / Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio / Che n’andò per la terra e l’oceano?», G. Leopardi, Poesie e prose, a cura di R. Damiani e M. A. Rigoni, Milano, Arnoldo Mondadori 1987, p. 51, vv. 33-37). 21 Ivi, p. 29. 20
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La città dei topi, Topaia, parodia di una città italiana moderna (molti commentatori vi rintracciano Napoli in particolare), è rappresentata come un’immensa rovina sotterranea. Quasi una vuota carcassa, uno scheletro, con molti richiami intertestuali alla rappresentazione di Pompei nella Ginestra. Era Topaia, acciò che la figura e il sito della terra io vi descriva, tutta con ammirabile struttura murata dentro d’una roccia viva, la qual era per arte o per natura cavata sì che una capace riva al Sol per sempre ed alle stelle ascosta nell’utero tenea come riposta.22 (III,2) Dentro palagi e fabbriche reali sorgean di molto buona architettura, collegi senza fine ed ospedali vòti sempre, ma grandi oltremisura, statue, colonne ed archi trionfali, e monumenti alfin d’ogni natura. Sopra un masso ritondo era il castello forte di sito a maraviglia e bello.23 (III,6)
L’ambientazione spettrale, i palazzi, gli edifici immensi e vuoti, pieni di statue, colonne e archi, rimandano all’immensa rovina di Pompei nella Ginestra; e il richiamo intertestuale, attraverso la ripresa dei «voti palagi», amplia e articola la metafora dello scheletro: Torna al celeste raggio Dopo l’antica obblivion l’estinta Pompei, come sepolto Scheletro, cui di terra Avarizia o pietà rende all’aperto; E dal deserto foro Diritto infra le file Dei mozzi colonnati il peregrino Lunge contempla il bipartito giogo E la cresta fumante, Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
22
G. Leopardi, Paralipomeni della Batracomiomachia cit., p. 92. Ivi, p. 94 (corsivi miei).
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E nell’orror della secreta notte Per li vacui teatri, Per li templi deformi e per le rotte Case, ove i parti il pipistrello asconde, Come sinistra face Che per voti palagi atra s’aggiri, Corre il baglior della funerea lava, Che di lontan per l’ombre Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.24 (vv. 269-288)
Inoltre, nella seconda parte del poemetto, quando Leccafondi compie il suo volo verso l’inferno degli animali, accompagnato da Dedalo, i due vedono un’Italia antichissima, cosparsa di eruzioni vulcaniche, e una natura devastante; e vedono paludi su cui sorgeranno città di cui oggi non si ricorda nemmeno il nome. Vider città di cui non pur l’aspetto, ma la memoria ancor copron le zolle, e vider campo o fitta selva o letto d’acque palustri limaccioso e molle ove ad altre città fu luogo eletto di poi, ch’anco fioriro, anco atterrolle il tempo, ed or del loro stato avanza peritura del par la rinomanza.25 (VII, 25)
Come ha evidenziato Gennaro Savarese, «la visione della terra preistorica ha come necessario corrispettivo la contemplazione dell’eterno ciclo distruttivo della natura»26 e, aggiungerei, la contemplazione delle rovine che il ciclo distruttivo della natura lascia al suo passaggio.
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Id., Poesie e prose cit., pp. 131-132 (corsivi miei). Id., Paralipomeni della Batracomiomachia cit., p. 207. 26 G. Savarese, L’eremita osservatore. Saggio sui ‘Paralipomeni’ e altri studi su Leopardi, Roma, Bulzoni 1995, p. 87. 25
Leopardi e leopardiani all’Italia
MANUELA MARTELLINI I traditi Lari, ovvero Leopardi e il sogno della Patria
I primi quindici anni dell’Ottocento vedono svolgersi in Italia una moltitudine di eventi, che rappresentano le tappe fondamentali della parabola di sviluppo e di conclusione del regno napoleonico. Dopo la trasformazione della Repubblica italiana in Regno italico nel 1805 si radicò anche nella nostra penisola quel federalismo governativo e amministrativo centralizzato che Napoleone aveva stabilito in tutto il suo Impero e con il quale pose a capo dei vari territori italiani i suoi più stretti parenti, cosicché tutti si ritrovarono ad affrontare ben presto le difficoltà derivanti dall’impossibilità di conciliare pienamente il dispotismo centrale di Napoleone e le tradizioni sociali e legislative delle regioni periferiche, dando adito alle prime spinte centrifughe che avrebbero contribuito alla progressiva disgregazione del regno napoleonico. I sentimenti patriottici, aspiranti alla libertà e all’indipendenza, circolanti in Italia, furono di varia natura, considerando sia la coesistenza di orientamenti antifrancesi radicali e moderati e di una schiera di volta-faccia che da ex-giacobini si convertirono immediatamente a imperialisti anti-rivoluzionari, sia il fatto che i francesi non erano l’unica presenza straniera sul nostro territorio. Si possono, ad esempio, ricordare i tentativi di diffondere un desiderio nazionalistico italiano da parte di Francesco Melzi, per una maggiore circolazione di valori come il patriottismo, l’amore per la bandiera italiana, il superamento del particolarismo municipale in favore di una visione collettiva. Nonostante, però, l’esistenza di questo tipo di attivismo, l’idea di una concreta indipendenza non riuscì a manifestarsi prima dei colpi mortali che l’Impero napoleonico cominciò a ricevere su più fronti, e anche in tal caso la speranza della libertà si affidava alla salvezza data dallo straniero, che fosse l’Inghilterra o lo zar di Russia Alessandro I. Tra aspirazioni unitarie e federaliste, analoghe proposte d’indipendenza italiana venivano anche dai napoleonici che avevano abbandonato il loro Imperatore, come nel caso di Gioacchino Murat, il cui atteggiamento di fedeltà a Napoleone, in qualità di governatore del regno di Napoli, fu sempre ambiguo. È noto che, abban-
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donato definitivamente l’esercito napoleonico con le sconfitte in Russia nel 1812, Murat, per cercare di salvare il proprio regno, si alleò nel 1813 con gli austriaci e gli inglesi contro il figliastro di Napoleone, Eugenio Beauharnais, ormai in ritirata. Diffidente anche nei confronti degli alleati, Murat si ritrovò a guidare l’unico esercito residuo dell’Impero napoleonico ancora attivo in Italia: egli marciò attraverso l’Italia centrale, si stanziò nelle Marche (dagli austriaci, infatti, aveva ricevuto una parte dell’ex Stato pontificio), comunicando al generale Michele Carascosa,1 che si trovava ad Ancona, la ferma volontà di voler occupare il Piceno e, quando Napoleone fuggì dall’isola d’Elba nel 1815, ruppe i rapporti con l’Austria, cercò l’alleanza dei bonapartisti e dei liberali italiani, invase lo Stato pontificio e si giocò l’ultima carta proclamando da Rimini l’intenzione di guidare l’indipendenza e l’unità d’Italia. Non godendo ormai della fiducia di nessuno e non potendo raccogliere in così poco tempo il consenso patriottico italiano, le aspirazioni di Murat fallirono presto, subendo il 2 maggio 1815 la sconfitta a Tolentino da parte dell’esercito austriaco e lasciando, con la morte, l’ambigua fama del napoleonico divenuto alla fine patriota italiano e aspirante re d’Italia.2 In questo contesto Leopardi scrive nel 1815 Agl’italiani. Orazione in occasione della liberazione del Piceno,3 con la quale rievoca e discute lo scenario storico delineato. Le ragioni della composizione e la sua struttura formale si inseriscono all’interno del classicismo leopardiano. Come si legge nell’iniziale appello Al lettore, Leopardi parte dai due elementi dell’imitazione e dell’immaginazione. Il primo consiste nel prendere a modello gli antichi e il loro costume di pronunciare orazioni in pubbli-
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Michele Carascosa (1774-1853) era stato un capitano dell’esercito borbonico, combatté contro i francesi, aderì, poi, alla Repubblica napoleonica (1799) e per questo fu esiliato. Nel 1806 ritornò a Napoli al seguito di Giuseppe Bonaparte. Sotto Murat fu generale e governatore militare di Napoli, partecipò alla guerra austro-napoletana nel 1815, riportando (il 3 aprile) la vittoria nella battaglia del Panaro e occupando Modena, Reggio Emilia e Carpi, e sottoscrisse (il 20 maggio) la convenzione di Casalanza che pose fine al dominio napoleonico del regno di Napoli. Fu confermato nel suo grado anche dopo la restaurazione borbonica. Dopo il fallimento dell’incarico ricevuto di far fronte agli austriaci, intervenuti contro il regno di Napoli dopo i moti del 1820, si ritirò a Barcellona e, quindi, in Inghilterra, dove scrisse le Mémoires historiques, politiques et militaires sur la révolution du royaume de Naples en 1820 et 1821, pubblicate nel 1823. 2 Per il contesto storico cfr. Storia d’Italia Einaudi, vol. III, Dal primo Settecento all’Unità, Torino, Einaudi 1973, pp. 192-285 e Storia del Mondo Moderno, vol. IX, Le guerre napoleoniche e la restaurazione (1793-1830), a cura di C. W. Crawley, Cambridge University Press 1965 (Milano, Garzanti 1969), passim. 3 Per il testo e le successive citazioni si fa riferimento alle seguenti edizioni: Tutte le opere di Giacomo Leopardi, a cura di F. Flora, vol. II, Milano, Arnoldo Mondadori 1940, pp. 1070-1081 e G. Leopardi, Poesie e prose, vol. II, Prose, a cura di R. Damiani, Milano, Arnoldo Mondadori 1988, pp. 890-904. X. Italiani della letteratura: Leopardi
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co per offrire consigli alla patria, mentre con il secondo il poeta intende riprodurre le modalità del genere oratorio: come le orazioni antiche sono state declamate e poi tramandate dagli storici (Tucidide, Tacito), così anche Leopardi vuole comporre un’orazione dove alla comunicazione scritta si unisca l’artificio dell’oralità, per il quale lo soccorrerà immaginare di parlare effettivamente ai suoi «compatriotti». Ma Leopardi non si dichiara interessato alla possibilità di conseguire fama in veste di oratore, non crede che gli italiani trovino in lui un nuovo Demostene o un Cicerone, piuttosto, invece, mostra un’aspirazione più alta e impegnativa: spera, cioè, che siano gli italiani a mostrarsi degni eredi degli ateniesi e dei romani. La bravura dell’oratore e il tono dell’orazione, quindi, necessitano della grandezza del popolo da cui oratori e orazioni nascono e a cui essi stessi poi si rivolgono, e il classicismo si mescola, così, alla modernità dell’argomentazione.4 Fin dall’inizio Leopardi identifica Bonaparte con l’«oppressore», rappresentante della «tirannia»,5 alla cui caduta, però, si affaccia un nuovo pericolo, un altro «usurpatore», che avrebbe messo in atto una sorta di solito copione, tipico da tiranno, ovvero da «barbaro carnefice, che intitolavasi nostro re», avrebbe violato i trattati e imposto l’oppressione del giogo. L’Italia, quindi, con la progressiva invasione di Murat, che avanzava «con una banda di sanniti dal mezzogiorno», assisteva all’impossibilità di godere, come il resto d’Europa, della felicità per la fine del regno napoleonico: di fronte alla vanificazione degli ideali di speranza e del ruolo che i saggi si illudevano di tornare a esercitare, risvegliati dal torpore della «passata schiavitù», l’Italia si trovava a subire passivamente un passaggio di catene, un «cangiar di tiranno», che comportò un radicale peggioramento delle condizioni dei bisognosi, dalla capacità di sussistenza alla mendicanza. Se con Napoleone l’Italia aveva dovuto sottomettersi al peso, obiettivamente enorme, della Francia, l’obbedienza data al nuovo tiranno non è motivata per Leopardi dalla grandezza dell’oppressore, il quale appare superiore solo per la meschinità delle sue azioni e per la debolezza degli schiavizzati. Se con Murat si realizza il sovvertimento dei sentimenti naturali e ciò che comunemente rientra nella giustizia si definisce ingiustizia,
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Tutte le risorse affettive, intellettuali e retoriche che Leopardi si propone di utilizzare nella lirica, nelle prose letterarie, nei trattati filosofici e nelle future Operette morali, per «scuotere» la sua «povera patria, e secolo» sono ricordate in Zibaldone 1394 (27 luglio 1821), dove cita anche un passo del II libro dell’Eneide (da lui, inoltre, tradotto già nel 1816), in cui Enea dichiara di non essersi risparmiato alcun pericolo per tentare la difesa di Troia: quella stessa strenua difesa che Leopardi dice di voler condurre con la sua scrittura a favore dell’Italia (G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, ed. critica e annotata a cura di G. Pacella, 3 voll., Milano, Garzanti 1991). 5 A questo disprezzo dichiarato per la tirannia napoleonica, seguiranno giudizi di altro tenore su Napoleone e sui suoi metodi di governo. Vd. Zibaldone 229 (31 agosto 1820), 251252 (28 settembre 1820), 905-906 (30 marzo-4 aprile 1821). Leopardi e leopardiani all’Italia
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è un’altra la grandezza da far rinascere, quella degli italiani, ai quali Leopardi si appella con alta enfasi retorica, perché in essi sta l’identificazione del popolo, della nazione, dell’amor patrio, concetti che in questa orazione mostrano di equivalersi. Ma la rinascita del popolo italiano per la liberazione dal dispotismo tirannico non coincide necessariamente per Leopardi con l’ottenimento dell’indipendenza. Quelle che propone il poeta sono una lucida e razionale analisi dell’effettiva realtà degli avvenimenti storici e un’attenta riflessione sul piano dell’opportunità politica: pensieri, questi, che, seppur sentiti particolarmente per la sorte avuta dal Piceno nelle ultime convulse azioni di Murat, si applicano, però, all’Italia tutta, sottintendendo come la disunione territoriale delle provincie italiane non comprometta l’unione dello spirito e delle anime del popolo-nazione. Afferma, quindi, Leopardi: gli italiani non sono stati capaci di liberarsi da soli, se non dal grande, nemmeno dal piccolo oppressore francese e, «se falangi straniere non venivano in nostro soccorso», saremmo arrivati a smentire per la prima volta addirittura il primo dei sette sapienti dell’antica Grecia, Talete, il quale sentenziò che «la cosa più rara è un tiranno che giunga alla decrepitezza». Solo l’intervento degli stranieri-liberatori contro lo straniero-oppressore, e tutti coloro che lo appoggiarono, offrì la chiave di volta del precipitare della situazione e portò a quel paradossale voltafaccia che per Leopardi è il più significativo per comprendere la condizione degli italiani: gli oppressori stranieri, incalzati dai liberatori stranieri, si appellarono proprio al popolo che avevano schiavizzato, cercarono «un asilo vicino ai lari che aveano traditi», chiesero il soccorso degli italiani per opporre all’assalto degli altri stranieri il loro legittimo ruolo di proclamatori dell’indipendenza dell’Italia. Il ragionamento leopardiano appare contrario a ciò che avvenne poi storicamente: gli italiani non erano ancora pronti per l’indipendenza e per essi era più opportuno appoggiarsi a quelli che il poeta chiama «legittimi e pacifici sovrani», il cui potere non è tirannico, nell’attesa di ricostruire e di rigenerare l’entusiasmo di un popolo unito negli ideali, nell’amor patrio, nella saggezza, nell’antico e sacro fuoco dei propri Lari. Che indipendenza era quella cercata e combattuta al seguito di uno straniero, quella che non era motivata da sentimenti e aspirazioni personali, quella che avrebbe richiesto il sacrificio e la morte per imposizione altrui e non per abnegazione volontaria? Leopardi insiste particolarmente sul contrasto tra saggezza e insania. L’appello all’indipendenza italiana lanciato dall’ultimo tiranno Murat e l’incitamento alla rivoluzione, che dovrebbe farla conseguire, sono solo illusioni e il poeta le definisce con i termini di «fanatismo» e «follia», che non permettono di distinguere il vero dall’apparenza e sono dovuti a «crudeltà» e «audacia» sconsiderate: ciò di cui gli italiani hanno bisogno è la pace, soprattutto dopo che il popolo francese, già prima di Murat, ha mostrato i «funesti effetti» della sua rivoluzione e i «danni orribili», le «stragi» e il «sangue» sparsi poi in tutta Europa. Verità e illusione, realtà e sogno sono, quindi, le categorie usate da Leopardi anche nel giudizio politico, soprattutto perché occorre discernere tra la condizione dell’uomo singolo e quella del popolo-nazione: se l’uomo può seguire la voce del suo «cuor generoso» e scegliere di sopportare, come «un nulla», «grandi travagli» X. Italiani della letteratura: Leopardi
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per un «grande scopo», non altrettanto si può fare quando c’è di mezzo «una intera nazione», poiché non la si può «soggettare» e mettere in pericolo «colla speranza di un bene immaginario» e «in vista di un sognato vantaggio», in nome, insomma, delle illusioni. La realtà dei fatti prevale, quindi, sulle possibili aspirazioni del pensiero, dell’anima, del cuore: gli italiani non potevano combattere per l’indipendenza al seguito di un usurpatore straniero che non sarebbe stato capace, inoltre, di difenderla dall’assalto contrastante delle altre nazioni, più forti della nostra, pronte a intervenire per impedire una tale presa di potere. Oltre agli ostacoli frapposti dagli altri stati europei, la strada per l’indipendenza sarebbe stata lunga e difficile da percorrere anche per gli italiani, poiché avrebbero dovuto risolvere una serie infinita di problematiche: il poeta ritiene che le famiglie reali d’Italia non si sarebbero private facilmente dei loro «antichi diritti», che gli italiani si sarebbero dimostrati, per la maggior parte, inattivi come al solito, che non sarebbe risultata credibile la capacità dell’armata italiana di portare avanti una rivoluzione, che sarebbe stato arduo riuscire a superare il particolarismo geo-politico italiano, far prevalere l’interesse comune su quello personale, unire gli italiani in un solo spirito, in una sola bandiera, in un solo esercito. E se anche si fosse riusciti in tutto questo, l’indipendenza non si sarebbe comunque mai realizzata se alla fine ci si fosse trovati con uno straniero per liberatore. A questo punto la visione politica leopardiana fa un ulteriore passo in avanti, andando ad analizzare se sia effettivamente attraverso l’indipendenza che l’Italia potrà realizzare la sua felicità, quell’ideale che, come sempre, il poeta propone come l’aspirazione suprema tanto dell’uomo quanto di un popolo. Se l’indipendenza, argomenta Leopardi, facesse la felicità degli italiani, si dovrebbe credere che la felicità consista nella forza, nelle armi, nell’inimicizia verso gli stranieri, nella guerra, nell’esercito. Di contro a questo il poeta identifica la felicità del popolo con la pace e la pace con la buona sorte di cui l’Italia in particolare ha goduto, diversamente da altre nazioni, una sorta di età dell’oro, dove ogni bene è posseduto per beneficio naturale: la pace è necessaria per coltivare le «arti utili», le «lettere», le «scienze», la «prosperità del commercio e dell’agricoltura», «l’amministrazione paterna di Sovrani amati e legittimi», ma di tutto ciò l’Italia è stata già provvista «con liberalità dalla natura», la quale le ha donato la specificità della sua conformazione territoriale, dei suoi campi, di ingegni e spiriti grandi in ogni settore, della sua civilizzazione. E se si fa la guerra per ottenere la pace, ma l’Italia è tornata a detenere, dopo l’ultima dominazione francese, le condizioni naturali per la pace ideale, è illogico affrontare una nuova guerra per qualcosa che abbiamo già. Questa lucida analisi dello stato presente dell’Italia ci porta a due riflessioni, che riguardano un interessante confronto tra classicismo e modernità. Per prima cosa, la questione delle naturali condizioni di pace e, quindi, di felicità, di cui la nostra nazione è dotata, ci permette di leggere nell’orazione la rappresentazione di un binomio che caratterizza la filosofia politica leopardiana, quello che teorizza la “nazione secondo natura” in opposizione alla “nazione secondo ragione”. L’Italia può essere una nazione fondata sulla natura, in quanto naturalmente dotata delle Leopardi e leopardiani all’Italia
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premesse che stanno alla base della pace e della felicità: posizione d’impronta classicistica, nella misura in cui erano gli antichi a godere del rapporto più diretto con lo stato di natura, laddove le società moderne sono maggiormente guidate dalla ragione, allontanandosi, così, dal linguaggio della natura. In secondo luogo, la dialettica classico-moderno prosegue nelle considerazioni leopardiane secondo modalità, che forse, in questo contesto politico, non possiamo sintetizzare nella semplice e frequente formula dell’Italia come erede dell’antichità greco-latina. Se pure il legame con gli antichi è sempre vivo in Leopardi, se pure il contesto stesso dell’orazione è di stampo classicistico nello stile, nella costruzione retorica, nelle fonti rinvenibili nel testo, nonché nelle esplicite citazioni di Tacito e Giovenale a conclusione dell’iniziale appello Al lettore, Leopardi dichiara che l’Italia deve distaccarsi dall’esempio dei nostri avi antichi. Proprio in virtù del principio della pace e della felicità naturali, per ristabilire le quali gli italiani dovrebbero aborrire altre guerre e mantenere la frammentazione territoriale e politica che da sempre la caratterizza, governata in equilibrio dai numerosi piccoli sovrani («affettuosi ed amabili», «famiglie sacre») che hanno a cuore il bene dei loro popoli più della propria ambizione, in virtù di tutto ciò, afferma Leopardi, l’Italia dovrebbe gioire di questa nuova grandezza, in quanto completamente diversa dalla sua grandezza passata, ovvero quella dei progenitori romani. Il poeta riconosce che gli italiani una volta furono grandi, ma in cosa è consistita la loro grandezza e a quale prezzo è stata ottenuta? Niente a che fare con l’Italia di oggi («divisa in piccoli regni, l’Italia offre lo spettacolo vario e lusinghiero di numerose capitali animate da corti floride e brillanti, che rendono il nostro suolo sì bello agli occhi dello straniero»), gli antichi italiani fondarono la loro gloria sull’imperialismo romano, costruirono un impero «dalle colonne di Ercole sino al Caucaso» col terrore delle armi, tennero il tempio di Giano sempre aperto, lottarono contro i Galli stessi (gli antichi francesi), mostrandosi ad essi superiori, ma non conobbero mai la pace («padroni dell’universo, noi non lo eravamo di noi stessi») e, quel che è peggio, furono quello che sono stati tra Sette e Ottocento i francesi, ovvero «l’oggetto della esecrazione di tutti i popoli»: violammo l’innocenza di innumerevoli popoli, saccheggiammo i loro campi, rapimmo i loro beni e la loro felicità, distruggemmo le loro città, profanammo i loro templi, incatenammo e trucidammo, come se fossimo barbari, infiniti figli di madri inconsolabili. Si comprendono meglio allora le suddette citazioni latine poste al termine dell’appello Al lettore, due tratte dal II capitolo (indicato come III da Leopardi) della Vita di Agricola di Tacito e una dalla III Satira di Giovenale.6 Tacito e Giovenale,
6 Cfr. Tacito, La vita di Agricola. La Germania, introduzione e commento di L. Lenaz, traduzione di B. Ceva, Milano, Rizzoli 2010 e Satire di Aulo Persio Flacco e Decimo Giunio Giovenale, a cura di P. Frassinetti e L. Di Salvo, Torino, Utet 1979.
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rispettivamente storico e poeta satirico vissuti tra il I e il II sec. d. C., narrarono e criticarono aspramente i mali dell’impero delle dinastie Giulio-Claudia e Flavia, ritenendo, invece, i successivi imperatori Nerva e Traiano gli ideali conciliatori del principato con la libertà. I passi tacitiani fanno riferimento proprio alla soppressione di ogni libertà civile e umana, manifestata attraverso l’ordine di bruciare ogni biografia di uomo illustre e valoroso, vittima del potere imperiale, e condotta, quindi, mediante l’accanimento nei confronti degli scrittori che si facevano testimoni delle antiche virtù ormai scomparse: gli imperatori e i loro triumviri, scrive Tacito, pensavano così di cancellare la «voce del popolo romano, la libertà del senato e la coscienza del genere umano», mentre i romani hanno dato prova di grande sopportazione, conoscendo fino in fondo la condizione di una vita in schiavitù (quella priva del libero scambio di parola e di pensiero), così come gli antichi avevano conosciuto la vita da uomini liberi. A tale messaggio ideologico, contenuto nelle citazioni, possiamo aggiungere un’ulteriore considerazione, ovvero il fatto che la Vita di Agricola è opera significativa anche perché, raccontando la campagna di Domiziano in Britannia, si riporta non solo il punto di vista dei Romani conquistatori, ma pure quello dei conquistati, attraverso i discorsi contrapposti di Agricola e di Calgaco, uno dei capi britanni. Il punto di vista dei vinti riportato nell’orazione di Tacito è analogo a quello che Leopardi usa nell’orazione a proposito della falsa grandezza dei progenitori antichi dell’Italia: l’imperialismo romano è sterminatore e i Romani, dove fanno deserto, lo chiamano pace. Questo rapporto Italia-Britannia viene espresso nuovamente da Giovenale in una prospettiva minore, nelle relazioni tra Roma e le provincie italiche. La citazione «la nazione stessa è commediante» è tratta da una satira in cui il poeta parla del suo amico Umbricio: costui vuole lasciare Roma e andare a vivere a Cuma, poiché la capitale è ormai corrotta, dissoluta, disonesta, pericolosa, piena di vizi e, rispetto ad essa, la vita di provincia promette pace, incolumità e dignità morale. Per Leopardi l’Italia, ora, ha l’occasione di essere diversa, di rispettare la natura e di essere pacifica e felice, senza replicare gli errori del passato: Ci basti. Ebbimo ancor noi il nome di tiranni, fummo ancor noi tinti di sangue. La nostra grandezza, la nostra felicità deve dunque consistere in fare degli infelici? Italiani! rinunziamo al brillante ed appigliamoci al solido. Quando ci si propone un potere pernicioso o una pace di cui tutto ci garantisce la durata, rigettiamo l’uno ed eleggiamo l’altra: quello ci darebbe dei nomi e questa ci dà delle cose; quello una gloria fantastica e questa dei reali vantaggi. Una nazione non deve esitare nella scelta della sua vera felicità.
Il popolo italiano potrà, quindi, contribuire alla pace e alla felicità naturali ricostituendo il suo entusiasmo, il suo amor proprio, la sua grandezza d’animo, fondamenti della virtù e dell’utilità pubbliche. L’ultima parte dell’orazione esprime pienamente e puntualmente, assecondando senza pause la tensione retorica, il sentimento anti-francese che alimenta la prospettiva anti-tirannica leopardiana, invocando la riscossa e la vendetta italiane e Leopardi e leopardiani all’Italia
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giungendo ad elaborare così una prospettiva anti-tirannica di respiro europeo.7 Da un lato, infatti, l’Italia deve reagire ai soprusi subiti finora dalle nefaste conseguenze della rivoluzione francese, dalla tirannia napoleonica e da quella rinnovata dell’altro francese Murat: in particolare, l’Italia è stata colpita nella sua grandezza culturale e artistica, per la quale poteva dirsi superiore a tutte le nazioni europee, si è vista privare dei suoi «preziosi monumenti», portati via da palazzi e templi ad opera dei francesi. Questi ultimi hanno violato la naturale ricchezza dell’Italia, rendendo vana la nascita di tante menti e artefici straordinari, e ora gli italiani hanno il dovere di pretendere indietro e di andare a riprendersi i «rapiti tesori». L’odio verso i francesi è profondamente sentito in questo finale altamente patriottico, perché, a differenza degli italiani, che ammettono, come ha fatto lo stesso Leopardi, di essere stati in passato dei tiranni, i francesi non confessano i loro torti, sono sleali, orgogliosi e fanatici, non rinunciano al desiderio di comandare sugli altri, ritengono che la loro Parigi sia la novella Atene, ma non certo quella democratica di Pericle, secondo Leopardi, quanto quella tirannica dei Pisistratidi. Dall’altro lato, oltre a regolare i suoi personali rapporti con la Francia, l’Italia liberata potrà finalmente unirsi alle altre potenze europee per vigilare contro ulteriori tentativi d’imposizione della tirannia francese. Alla libertà dalla tirannia Leopardi, come abbiamo visto, dà più importanza che all’indipendenza, distinzione mantenuta anche nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza del 1819, dove allude all’«Orazione contro Gioacchino sull’affare della libertà e indipendenza italiana» e dove appunta un’apostrofe a Murat, dichiarandosi disposto a scannare con le proprie mani quello «scelleratissimo» e giurando di non voler più tiranni nella sua provincia.8 La libertà in senso anti-tirannico è un nodo centrale nella definizione della patria, tant’è che anche in seguito nello Zibaldone il poeta
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Su come la posizione anti-francese si leghi all’idea dell’amore per la patria, è interessante leggere le pagine 67-68 (databili tra il 1819 e il 1820) dello Zibaldone (ed. cit.), dove Leopardi fa riferimento all’equivoco, facile a determinarsi, tra amor di gloria e amor di patria: quelli che nella storia sono generalmente valutati come sacrifici disinteressati compiuti per il bene collettivo (ad esempio le imprese delle Termopili e di Attilio Regolo) sono, in realtà, dettati da un «amor proprio immediato ed evidente», poiché i popoli antichi si sacrificavano per la patria per assicurarsi la gloria personale ed evitare la vergogna che sarebbe derivata dal rifiuto di quel sacrificio, analogamente a quanto fanno i maomettani, i quali addirittura cercano la morte per la speranza del paradiso. Da ciò Leopardi conclude che l’amore per la patria in sé e per sé è un atteggiamento molto raro, esso, nel profondo, si giustifica con altre motivazioni, come l’amore per la libertà, l’odio per le nazioni nemiche e altri sentimenti di questo tipo, «affetti che poi si comprendono generalmente sotto il nome di amor di patria, nome che bisogna ben intendere, perchè il sacrifizio precisamente per altrui non è possibile all’uomo». 8 G. Leopardi, Ricordi d’infanzia e di adolescenza, in Poesie e prose, vol. II, Prose cit., pp. 1193 e 1195. X. Italiani della letteratura: Leopardi
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teorizzerà come l’«amor vero di patria» si trovi solo nelle nazioni libere e sia determinato dall’«odio dello straniero» (880, 30 marzo-4 aprile 1821), cosicché le nazioni scompaiono nel momento in cui viene meno l’odio nazionale per lo straniero, sostituito dall’odio interno per i concittadini e dalla guerra civile (890-892, dello stesso anno del precedente): elementi, questi, posti come differenze tra le nazioni antiche e le nazioni moderne.9 Possiamo, dunque, riepilogare i fili conduttori di questa orazione composta nella prima fase di sviluppo del pensiero filosofico e politico leopardiano, ravvisabile nella rappresentazione di un’Italia salvaguardata dalla natura e nella definizione della patria in senso anti-straniero (di cui si farà espressione anche la canzone All’Italia). Nella prosa ricorrono motivi che hanno senz’altro punti di contatto con l’educazione cattolica e conservatrice ricevuta in ambito familiare, come l’alleanza degli stati europei contro il dominio napoleonico, la restaurazione dei principi legittimi sul suolo italiano, l’idea di una guerra sacra mossa da tutta la cristianità contro l’idra della tirannide francese.10 Ma, nonostante ciò, Leopardi non si dimo-
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G. Leopardi, Zibaldone di pensieri cit. Su questo tipo di posizioni politiche e sulla presenza dei francesi nelle Marche, si può leggere quanto scrive Monaldo Leopardi nell’Autobiografia (Milano, Longanesi 1971), in particolare nei capp. XXXIV-XXXVIII, dove si raccontano gli avvenimenti e gli allarmi conseguenti al passaggio dei francesi e di Napoleone tra Ancona, Loreto, Recanati e Tolentino nel 1797. Ricordiamo che il 1797-1798 è il biennio in cui viene collocata l’Insorgenza dell’Italia centrale, anche se Monaldo mostra di non essere tanto mosso da atteggiamenti di rivolta, quanto dalla preoccupazione di uscire incolume, lui e i recanatesi, dal passaggio francese: quale membro del Consiglio del Comune, al quale, inoltre, gli altri consiglieri lasciarono la totale gestione della difficoltosa accoglienza delle truppe francesi a Recanati, preferì non aderire ad alcuna fuga né ad alcun sacrificio estremo di ribellione. La protesta di Monaldo si realizza, invece, nel rifiuto di affacciarsi a vedere Napoleone che attraversa le vie di Recanati, distinguendosi, in questo modo, dal resto della cittadinanza accorsa per il grande generale, e nella scarsa memoria temporale dell’evento («Alli tredici o quattordici o quindici del mese [febbraio], non ricordo il giorno preciso, passò Napoleone Buonaparte, allora generale in capo dell’esercito francese in Italia. Passò velocemente a cavallo, circondato da guardie le quali tenevano i fucili in mano col cane alzato. Tutto il mondo corse a vederlo. Io non lo vidi, perché quantunque stessi sul suo passaggio nel palazzo comunale, non volli affacciarmi alla finestra, giudicando non doversi a quel tristo l’onore che un galantuomo si alzasse per vederlo. Non so se feci bene, ma mi pare che questo tratto in un giovane di vent’anni possa servire a indicare il carattere»). Sul fenomeno dell’Insorgenza (controverso e poco noto movimento che si sviluppò tra il 1796 e il 1814), cfr. S. Petrucci, L’Insorgenza marchigiana del 1799: sviluppi e caratteri, in 1799: l’Insorgenza antifrancese e il sacco di Macerata, Atti del Convegno di Studi, Aula Magna dell’Università degli Studi di Macerata 20 maggio 1999, Comune di Macerata 2001, pp. 97-279, dove si illustrano, sulla base delle fonti documentarie, le dinamiche delle rivolte marchigiane nelle loro tre componenti di resistenza passiva, sollevazioni ed 10
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stra chiuso e retrivo – di lì a poco contesterà la Restaurazione reazionaria, prenderà parte da intellettuale, dentro e fuori Recanati, alle problematiche della borghesia moderata e si scontrerà con essa, fino a negare ogni fiducia nei liberali cattolici, nell’idea della perfettibilità umana e sociale e nella politica in generale, poiché tutto, anche la natura insieme alla società, sarà teorizzato come male –, egli affida, per ora, all’afflato retorico e argomentativo del genere oratorio le prime elaborazioni di una visione storico-politica calibrata sui fatti concreti, pronta a confrontarsi con il mondo intellettuale esterno alla famiglia e che offre già un assaggio della grande antinomia tra natura e ragione quale motore delle sue riflessioni sulle trasformazioni sociali in atto. Donde l’apertura e l’anelito delle sue prospettive, grazie ai quali la dimensione locale del Piceno diventa il punto di osservazione delle più ampie relazioni europee, come se non ci fosse differenza tra la dimensione provinciale e quella continentale, nonostante il poeta non avesse ancora esperienza dei luoghi fuori dal borgo recanatese. A ciò si aggiunge una profonda attenzione agli uomini e alla loro socialità, laddove sostiene l’unità di spirito e di amor patrio più atta a ricercarsi data la difficoltà di realizzare l’unità territoriale, perché su quella si costruisce il popolo-nazione italiano, alla pari con le altre nazioni europee. Importante, infine, da parte di Leopardi, la misurata riflessione dell’opportunità politica come criterio di giudizio, da cui deriva la distinzione tra libertà e indipendenza, una valutazione realistica dei rapporti tra gli uomini e gli eventi storici, sulla quale mostra di commisurare la potenziale fattibilità e realizzazione degli ideali: una modalità, questa, di pensiero che il poeta proseguirà e approfondirà anche successivamente, quando vivrà direttamente la crisi della cultura e degli intellettuali nei suoi rapporti con la politica.11
insorgenza, e dove si ricorda anche la posizione di Monaldo Leopardi in proposito, quale testimone di queste vicende non solo attraverso l’Autobiografia, ma anche negli Annali di Recanati, Loreto e Portorecanati: «Il conte recanatese, assai diffidente nei confronti dei gruppi insorgenti, in una delle acute pagine dedicate agli anni repubblicani, distingueva tra il fenomeno dell’insorgenza, che si presentava spesso frantumato in molti episodi locali e piuttosto scollegato, e lo spirito unitario e profondo che muoveva la popolazione, riconducibile alla sua religiosità». 11 Cfr. C. Luporini, Leopardi progressivo, Roma, Editori Riuniti 1980 (19471); S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi 1969; W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni 1982 (19731); B. Biral, La posizione storica di Giacomo Leopardi, Torino, Einaudi 1974; U. Carpi, Il poeta e la politica. Leopardi, Belli, Montale, Napoli, Liguori 1978, pp. 214-268; N. Feo, L’Italia di Leopardi fra antropologia e storia (1818-1824), in «Italianistica», 2009, 1, pp. 33-60. X. Italiani della letteratura: Leopardi
COSTANZA GEDDES DA FILICAIA L’Italia e gli Italiani nelle riflessioni linguistiche di Leopardi
È nostra convinzione che le riflessioni sulle lingue e i linguaggi costituiscano, nel sistema speculativo leopardiano, un argomento niente affatto secondario ed anzi essenziale per la comprensione di molte sue istanze filosofiche e letterarie. Se a tale questione abbiamo dedicato uno studio monografico di recente pubblicazione,1 ora intendiamo affrontare un ulteriore aspetto della problematica, quello concernente le osservazioni espresse dal poeta sul rapporto tra le caratteristiche della nazione italiana e dei suoi abitanti da un lato e le forme della lingua dall’altro. Converrà, in questo senso, ricordare che il pensiero linguistico leopardiano si esprime innanzitutto nello Zibaldone2 in quanto una notevole percentuale delle 4526 carte che lo compongono affronta, direttamente o tangenzialmente, il tema linguistico; peraltro, le ultime cinquecento carte zibaldoniche sono dedicate quasi esclusivamente a questioni etimologiche. Non vanno tuttavia trascurati gli accenni alla problematica espressi sia in sede epistolare che nelle Operette morali3 e in particolare ne Il Parini. Ovvero della gloria. Per quanto riguarda poi, più specificamente, il tema del rapporto tra lingua e società, è proprio in sede zibaldonica che il poeta affronta la tematica in maniera analitica, dedicando ad essa un compatto blocco di carte, dalla 932 alla 940, entro le quali egli svolge una serie di riflessioni atte a stabilire uno stretto rapporto tra lo sviluppo della lingua da un lato e la formazione di strutture sociali dall’altro.
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C. Geddes da Filicaia, Con atti e con parole. Saggi sul pensiero linguistico di Leopardi, Soveria Mannelli, Rubbettino 2011. 2 Le citazioni zibaldoniche sono tratte da G. Leopardi, Zibaldone di Pensieri, a cura di G. Pacella, Milano, Garzanti 1991, 2 voll. 3 Per le Operette morali abbiamo fatto riferimento all’edizione curata da Laura Melosi ed edita dalla BUR nel 2008 (G. Leopardi, Operette morali, a cura di L. Melosi, Milano, BUR 2008). Leopardi e leopardiani all’Italia
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Tutto ciò premesso, è noto che il fondamentale trattato di filosofia politica e di indagine sociale elaborato da Leopardi è il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani,4 opera alla cui relativa brevità in termini di estensione fa da contraltare una straordinaria densità di osservazioni e considerazioni di eccezionale profondità speculativa, che fu verosimilmente portato a termine tra il 1824 e il 1826, cioè contemporaneamente alle Operette morali. Le osservazioni del Discorso ruotano innanzitutto intorno al ruolo della così detta «società stretta» nella formazione dei costumi: in Italia, secondo Leopardi, mancherebbe tale tipologia di società e, più in generale, risulterebbe carente una qualsiasi forma di coesione attraverso la quale si possano sviluppare i costumi. Gli unici elementi «sociali» sarebbero rappresentati infatti, nella realtà italiana, dall’abitudine diffusa tra la popolazione di passeggiare nelle principali strade dei centri urbani, di assistere agli spettacoli teatrali e di partecipare alle cerimonie religiose, consuetudini che egli considera troppo labili per poter contribuire al formarsi di veri e propri costumi; da qui l’osservazione che gli italiani non avrebbero appunto costumi bensì solamente usanze. Ciò detto, va osservato che tra le articolate argomentazioni condotte nel Discorso non emergono però particolari riflessioni circa il rapporto tra lo sviluppo e la formazione della lingua in Italia da un lato e la sua struttura sociale dall’altro. All’elemento linguistico, in realtà, il poeta accenna nell’incipit dell’opera allorquando afferma che una corretta conoscenza di una nazione passa anche dalla conoscenza della sua lingua e che dunque grande importanza ha lo studio delle così dette «lingue colte» tra cui Leopardi include le lingue antiche nonché il francese, l’inglese, il tedesco, l’italiano e, pur con qualche riserva, il portoghese e lo spagnolo. E pur tuttavia, fatta eccezione per questa osservazione, invero condivisibile e significativa, il discorso si muove su binari diversi da quelli propriamente linguistici che risultano dunque, come già accennato, fondamentalmente demandati alle pagine dello Zibaldone; avremo tuttavia modo di notare, nel prosieguo di questo studio, come alcune riflessioni del Discorso ricorrano anche nello Zibaldone, ammantandosi però in quella sede di una valenza linguistica. In questo senso, è fondamentale tenere presente che, nonostante il periodo più accreditato di stesura del Discorso, cioè il 1824-1826, sia contemporaneo a quello di molti passi zibaldonici che trattano di argomenti simili, di fatto queste due sedi di espressione del pensiero leopardiano sono essenzialmente e profondamente diverse tanto che, come ha giustamente notato Nicola Feo,5 il concetto di «società stret-
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G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, a cura di A. Placanica, Venezia, Marsilio 1992. 5 N. Feo, La società stretta. Antropologia e politica in Leopardi, in La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi, Atti del XII Convegno Internazionale di Studi leopardiani (Recanati, 23-26 settembre 2008), a cura di C. Gaiardoni, prefazione di F. Corvatta, Firenze, Olschki 2010, pp. 297-311. X. Italiani della letteratura: Leopardi
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ta» espresso nel Discorso, globalmente positivo, è ben diverso rispetto a quella società stretta di cui contemporaneamente Leopardi parla, nello Zibaldone, in termini negativi in quanto atta a soffocare ogni spazio di libertà per l’uomo. Ma concentrandosi ora sui molteplici passi zibaldonici in cui Leopardi si occupa dell’Italia, bisogna innanzitutto evidenziare che una buona percentuale di essi è dedicata proprio a riflessioni sulla lingua italiana, alcune di ordine generale, altre invece di tipo specifico, riguardanti i singoli lemmi, le differenze di pronuncia, i suoni, le etimologie delle parole. Egli giunge anche, tra l’altro a un’altezza cronologica molto precoce, il marzo del 1821 (cc. 771-773), a tracciare un articolato e complessivo bilancio delle evoluzioni, e per certi versi anche di quelle che Giacomo considera involuzioni, della lingua italiana, dando prova di possedere, pur nella opinabilità di alcune considerazioni, una visione complessiva e diacronica della formazione dell’italiano, e sostenendo più volte l’affermazione che il Cinquecento debba essere considerato il «secolo d’oro» di tale lingua, in quanto ha coniugato in sé alte espressioni letterarie con un’approfondita riflessione sulla questione linguistica. Tra l’altro, tramite queste analisi, a volte minuziose, a volte di ordine generale, Leopardi approda ad esempio alla conclusione che l’italiano deriva dal latino parlato piuttosto che dal latino classico, nozione ormai acquisita al giorno d’oggi, ma che non lo era ancora a quell’epoca, considerando tra l’altro che il testo fondamentale in quell’ambito, la Grammatik der romanischen Sprachen di Friedrich Diez, sarebbe stata pubblicata solo nel 1836. Altro interessante argomento di riflessione è costituito dai paragoni tra l’italiano e le altre lingue romanze, in particolare lo spagnolo e il francese,6 nonché dall’analisi delle influenze del greco sull’italiano. Ma accanto a queste riflessioni eminentemente linguistiche, lo Zibaldone ospita anche delle considerazioni socio-linguistiche: esse costituiscono, come già si accennava, una sorta di sviluppo delle osservazioni svolte anche nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, le quali si arricchiscono, appunto in sede zibaldonica, di una valenza linguistica. Una prima acquisizione in questo ambito, derivante dall’insistito confronto tra italiano e francese ed esplicitata nella c. 964, risalente all’aprile del 1821, consiste nel fatto di classificare il francese come lingua unica e invece l’italiano come un «aggregato di lingue»: tale concetto non è d’altra parte toutcourt negativo soprattutto nel momento in cui, in varie occasioni e ad esempio nelle cc. 1248 (30 giugno 1821), 1292 e 1293 (8 luglio 1821), il poeta esalta la ricchezza dell’italiano, contraltare dell’aridità del francese, che sarebbe derivata, secondo lui, proprio dalla sua natura composita e dal suo perdurante legame con il linguaggio
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Si ricorderà d’altra parte che Leopardi aveva programmato la stesura di un Parallelo delle cinque lingue in cui avrebbe dovuto condurre un serrato paragone tra le caratteristiche delle cinque principali lingue romanze: francese, italiano, portoghese, romeno e spagnolo. Il progetto non fu tuttavia mai realizzato. Leopardi e leopardiani all’Italia
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così detto «popolare», intendendo con questa espressione i registri espressivi colloquiali e familiari usati nella quotidianità; tale ricchezza risulta a suo giudizio particolarmente preziosa in ambito letterario in generale e poetico in particolare. E pur tuttavia, affrontando la questione in un’ottica più propriamente socio-linguistica, la valutazione appare mutare e la mancanza di uniformità linguistica perde la valenza positiva di cui si è appena detto, diventando invece emblema della disunione socio-politica dell’Italia. In particolare, il poeta osserva che una nazione è tanto più coesa, sul piano socio-politico, quanto più i dialetti e i vernacoli sono in numero ridotto (c. 1629, 4 settembre 1821). L’Italia si trova, ovviamente, all’estremo opposto di questa condizione sociolinguisticamente ideale, essendo caratterizzata da una molteplicità di dialetti, la cui esistenza Leopardi attribuisce alla presenza di popoli linguisticamente diversi tra loro che, in tempi remoti, si stabilirono nella penisola (c. 2649, 3 dicembre 1822). Altra questione nodale di ordine socio-linguistico riguarda la contraddizione derivante dal fatto che Firenze, centro della lingua italiana, non è però centro politico della nazione la quale d’altra parte, a quell’epoca, è ben lontana dall’aver raggiunto l’unità. Questa condizione dell’Italia che non è «né nazione né patria» (c. 2065, 7 novembre 1821), appare d’altra parte più volte centrale nella speculazione del poeta il quale la riafferma infatti in varie occasioni e in passi zibaldonici cronologicamente distanti tra loro, a dimostrazione di un perdurante convincimento in questo senso.7 Tra l’altro, alla c. 3546, risalente al 28 settembre 1823, e dunque di poco anteriore all’inizio della stesura del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, il poeta osserva come, essendovi in Italia pochissima società, non esista nemmeno un «tuono» della nazione: due concetti, quello della pochissima società e della mancanza di «tuono», che appunto nel Discorso saranno assolutamente nodali. Ugualmente, alla c. 3749 (21 ottobre 1823) egli classifica l’italiano come una lingua poco dominata dall’uso vista la scarsità di strutture sociali che caratterizzerebbe il Paese. Circa invece la questione, centrale nel Discorso, della mancanza, in Italia, di veri e propri costumi rispetto ai quali le così dette «usanze» non sarebbero altro che un surrogato, essa è riproposta nella c. 2923 dello Zibaldone (luglio 1823). In ogni caso, è più volte sottolineato dal poeta (ricordo ad esempio la c. 1514, 18 agosto 1821) il fatto che, di fronte a un cambiamento socio-politico dei costumi (ovvero di quegli usi che caratterizzano l’Italia), ogni lingua si trovi a subire delle mutazioni per le quali Leopardi parla, alquanto incisivamente, di mutamenti di indole. Tale fenomeno riguarda sia il piano stilistico che quello del patrimonio les-
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Cito a titolo esemplificativo le cc. 843, 2129, 3546 nelle quali si sostiene che le caratteristiche di una lingua dipendano interamente dalle condizioni sociali della nazione in cui detta lingua è parlata e che pertanto vi sia uno strettissimo rapporto di causa-effetto tra quelli che Giacomo definisce «stato della nazione» e «stato della lingua». X. Italiani della letteratura: Leopardi
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sicale: si veda infatti come, alla c. 3858 (10-11 novembre 1823), Giacomo affermi che dal Seicento in poi l’Italia non ha più una lingua della politica e degli affari militari poiché non ebbe voce in capitolo in quell’ambito. Inoltre, quella che in questa carta il poeta classifica come «mancanza di vita, sia nazionale che privata», starebbe conducendo l’italiano – e con lei lo spagnolo,8 lingua della nazione per così dire «sorella» – a quella che egli chiama una sorta di morte. Insomma, secondo Leopardi se una nazione perde vitalità, di pari passo la perde anche la sua lingua: una nazione è dunque tanto più vitale quanto più ha una società vivace e articolata. Il rapporto lingua, nazione e società è dunque per lui strettissimo e in buona sostanza ineludibile. Per quanto riguarda invece le questioni di politica linguistica, con particolare riferimento al rapporto tra lingua unitaria e identità nazionale, pare utile ripercorrere alcuni passi zibaldonici in cui la problematica è affrontata dal poeta in maniera competente e analitica: ciò a parziale smentita della convinzione in base alla quale Leopardi non si sarebbe mai interrogato sugli aspetti «politici» dell’uso dell’italiano e, parallelamente, sulla necessità, per la costruzione di un’identità italiana, dell’individuazione di una lingua unitaria da utilizzare e nella quale riconoscersi. Resta naturalmente il fatto che a tale problematica il poeta fa riferimento solo in pochi, limitati casi, trascurandola peraltro in toto nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani. E se l’esistenza di Leopardi è stata così breve da non avergli consentito di vivere il periodo immediatamente pre-unitario e post-unitario, precludendogli così la possibilità, anche meramente teorica, di essere coinvolto in quel dibattito politico-linguistico così intensamente vissuto e partecipato da alcuni intellettuali a lui contemporanei, tra cui in primis Alessandro Manzoni, va tuttavia osservato che, nei rari casi in cui il poeta si addentra in riflessioni su tale tematica, egli lo fa con la consueta, straordinaria lucidità propria del suo pensiero linguistico in generale e della speculazione su lingua e società in particolare. Segue infatti, a partire dalla c. 3332 dello Zibaldone, risalente al settembre 1823, una serie di passi nei quali egli afferma con forza la necessità di dare all’Italia una lingua nazionale moderna, vale a dire uno strumento di comunicazione condiviso ed efficace, dotato di quei bagagli terminologico-lessicali che permettano di esprimersi in italiano nelle più varie discipline senza dover ricorrere a forestierismi ovvero direttamente all’uso di un’al-
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Si vedano, in questo senso, i seguenti saggi apparsi in Rapporti culturali fra Italia e Spagna, Atti del Convegno, VII Incontro (Macerata, 16-17 novembre 2000), a cura di G. Mastrangelo Latini («Quaderni di filologia e lingue romanze», supplemento al n. 15, 2000): C. Ferranti, Lo spagnolo nelle riflessioni linguistiche dello ‘Zibaldone’, pp. 41-57, D. Poli, Lo spagnuolo, il «parallelo» e la lingua di Leopardi, pp. 37-40. Sia inoltre concesso il rinvio a C. Geddes da Filicaia, La Spagna nello ‘Zibaldone’, in «Quaderns d’Italià», 12, 2007, pp. 105-113, poi riproposto in Id., Con atti e con parole. Saggi sul pensiero linguistico di Leopardi cit., pp. 77-85. Leopardi e leopardiani all’Italia
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Costanza Geddes da Filicaia
tra lingua. Certamente, Leopardi non fornisce ulteriori delucidazioni su come individuare, o eventualmente creare un siffatto strumento e pertanto non si addentra, in senso stretto, in una «questione della lingua», pur accennando più volte alla centralità linguistica di Firenze e del fiorentino e pur essendo certa la sua consapevolezza dell’esistenza e dell’importanza di tale problematica. In questo senso, va anche ricordata, in conclusione, la c. 1515 dello Zibaldone, risalente all’agosto del 1821, in cui, nell’affermare la necessità di valorizzare la lingua italiana, il poeta formula una equazione tra il parlare l’italiano e il sentirsi italiani: «Coloro che ci gridano, parlate italiano, ci gridano insomma siate italiani, che se tali non saremo, parleremo sempre forestiero e barbaro». Pertanto, secondo Leopardi una nazione può dirsi veramente unita solo quando i suoi cittadini condividono una lingua comune: un principio, quello di collegare il sentimento di identità nazionale con l’unità linguistica, tanto condivisibile quanto ancor oggi cogentemente attuale.
X. Italiani della letteratura: Leopardi
SILVIA RICCA Leopardi: un punto di vista “in negativo” sull’Italia e sugli Italiani
Il 16 marzo 2010 sul quotidiano «La Repubblica» è stato pubblicato un estratto dell’articolo di Giulio Ferroni dal titolo Dante, Leopardi, Saviano ecco gli “anti-italiani”. Scrivere del cuore marcio dell’Italia fa parte della tradizione letteraria nazionale.1 Inevitabilmente ci si sofferma su quell’aggettivo, «anti-italiani», che pare quasi un segno di provocazione in vista dell’anno celebrativo del centocinquantesimo anniversario dell’Unità nazionale. Scorrendo le prime righe dell’articolo, ci si accorge però che la provocazione è solo apparente: dietro questa «tensione critica» propria di molti scrittori e «rivolta a denunciare con rabbia i mali del paese», si cela in verità un grande amor patrio. La grande arte italiana – spiega Ferroni – proprio per amore del paese, è stata molto spesso anche anti-italiana. In più di una circostanza è stato necessario mettere il dito nelle piaghe e riflettere sulle vicende tremende che inducevano e inducono a pensare che l’Italia potrebbe essere un paese molto più bello e vivibile se solo si liberasse da certi mali radicati in profondità.2
Questa anti-italianità sembrerebbe, dunque, un carattere intrinseco della nostra cultura, l’elemento dialettico necessario al nostro amor patrio per affermarsi. Pensando poi all’inizio della «tradizione letteraria anti-italiana», Ferroni non può non citare Dante, «non solo perché si tratta di un eccezionale modello letterario, nel più grande poema della modernità occidentale, ma anche perché Dante rappresenta un modello di disposizione critica che dà avvio a una tradizione di letteratura
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«La Repubblica», 16 marzo 2010. L’articolo è poi apparso sulla rivista «Reset» nel numero di marzo-aprile 2010. 2 Ibidem. Leopardi e leopardiani all’Italia
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civile «in negativo». Una tradizione che, passando da Leopardi, giunge fino a Roberto Saviano. Saviano attraversa criticamente lo spazio criminale, con una forma ibrida tra saggio e romanzo la cui forza e originalità è data dalla prospettiva di chi ha riscontrato il degradarsi dei territori dall’interno […]. Ma Saviano è anti-italiano? Possiamo dire in effetti che è un autore più italiano di tanti altri, perché entra nel cuore marcio del paese, opponendosi all’insulsa propaganda che crede di esibirne i lustrini, la sua bellezza da consumare, offrendola in modo ammiccante al turismo internazionale.3
In un certo senso, questo fu anche l’atteggiamento di Leopardi, vale a dire il criticare, l’analizzare, il proprio paese dall’interno. Non si tratta certo di denunciare il crimine come nel caso di Saviano, ma si tratta di osservare i costumi, la società, la vita e la mentalità italiana di inizio Ottocento con cognizione di causa. Col Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, Leopardi entra così nel vivo di una querelle sui mores degli italiani iniziata da una serie di scrittori stranieri che hanno celebrato con troppa enfasi l’Italia in quei romanzi che assumono i contorni dei récits de voyage e che raccontano la situazione del paese da un punto di vista, in fin dei conti, esterno: Certo è nondimeno che in questi ultimi anni si sono divulgate in Europa dalla Corinna in poi più opere favorevoli all’Italia, che non sono tutte insieme quelle pubblicate negli altri tempi, e nelle quali si dice di noi più bene che mai non fu detto appena da noi medesimi. Alcune sono veri elogi nostri, scritti i più con entusiasmo di affezione e, in parte, di ammirazione verso le cose nostre. E generalmente parlando si vede nel mondo civile una inclinazione verso noi maggiore assai che fosse in altro tempo e che sia verso alcun altro paese, ed una opinione vantaggiosa di noi, la quale ardisco dire che supera di non poco il nostro merito, ed è in molte cose contraria alla verità. E ben si può dire che oggi, al contrario che pel passato, gli stranieri quando s’ingannano sul nostro conto, più tosto s’ingannano in favor nostro che in disfavore.4
L’accusa di Leopardi mossa a questi intellettuali curiosi dell’Italia, a questi viag-
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Ibidem. Cfr. G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, in Id., Poesie e Prose, a cura di R. Damiani e M. A. Rigoni, Milano, Mondadori 1988, vol. II, pp. 445-446. Nel primo Ottocento, numerosi erano gli intellettuali stranieri che offrirono spunti critici agli autori italiani. Nel caso di Leopardi, grande fu l’influenza delle riflessioni di Madame de Staël e della sua Corinne ou l’Italie. Per esempio la tesi fondamentale esposta nel Discorso, cioè che l’Italia è un paese privo di società, è affermata a piene lettere già dalla scrittrice francese nel Livre VI della Corinne, Les moeurs et le caractère des Italiens («il n’y a point de société, point de salon, point de mode»). 4
X. Italiani della letteratura: Leopardi
Leopardi: un punto di vista “in negativo” sull’Italia e sugli Italiani
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giatori e osservatori interessati ai costumi delle altre nazioni e che spendono la vita in cerca di distrazioni (errando per mari e poggi per fuggir la noia, come scriverà nel Pepoli),5 è quella della difficoltà di scrivere di un paese di cui hanno una visione, oltreché esterna, anche parziale. La realtà descritta da questi viaggiatori, non solo è filtrata dall’aspettativa, ma anche inquinata dalle letture dei vari récits sull’Italia. Dunque Leopardi, in quanto italiano e col suo punto di vista interno, si sente legittimato più degli altri a parlare dei propri connazionali «colla sincerità e libertà con cui ne potrebbe scrivere uno straniero», senza però incorrere nel rischio di «essere ripreso» dagli stessi italiani «perché non lo potranno imputare a odio o emulazione nazionale». Questo per il semplice fatto che «le cose nostre – afferma Leopardi – sono più note a un italiano» che non a uno straniero.6 Leopardi, in qualche modo, si sente in diritto di dire come stanno le cose, di dire la verità – agli stranieri e soprattutto agli italiani – sull’Italia e sugli italiani, una verità che sarà in un certo senso più vera proprio perché scritta dall’interno, da qualcuno che fa parte di quella realtà. Nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, che la maggior parte dei critici vuole scritto nel ’24, quindi, l’argomento non è più l’Italia, quel corpo femminile ferito, incatenato, privato dell’amor-patrio che sembra, ciononostante, chiedere soccorso ai suoi figli.7 Pochissimi anni separano il Leopardi del Discorso dallo slancio civile e patriottico delle canzoni del ’18 (All’Italia e Sopra il monumento di Dante) e dall’appassionata peroratio del Discorso di un italiano sulla poesia romantica dove addirittura esortava i giovani a onorare la patria nella sua poesia e nelle sue belle arti. A quel desiderio di attiva partecipazione alla responsabilità pubblica e civile, che resterà soltanto espresso attraverso le lettere, le parole, i versi, e che non si realizzerà mai in azioni eroiche, si sostituisce nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani il senso della realtà. Una realtà che Leopardi tocca finalmente con mano nel ’23 durante il suo soggiorno a Roma. La realtà o, desanctissianamente parlando l’«arido vero», di una Roma vista come un «letamaio di letteratura di opi-
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G. Leopardi, Al Conte Carlo Pepoli (vv. 78-84), in Id., Poesie e Prose cit., vol. I, p. 69 («Altri, quasi a fuggir volto la trista / Umana sorte, in cangiar terre e climi / L’età spendendo, e mari e poggi errando, / Tutto l’orbe trascorre, ogni confine / Degli spazi che all’uom negl’infiniti / Campi del tutto la natura aperse, / Peregrinando aggiunge»). 6 Id., Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani cit., p. 447. 7 Id., All’Italia (vv. 6-20), in Id., Poesie e Prose cit., vol. I, p. 5 («Or fatta inerme, / Nuda la fronte e nudo il petto mostri. / Oimè quante ferite, / Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio, / Formosissima donna! Io chiedo al cielo / E al mondo: dite dite; / Chi la ridusse a tale? E questo è peggio, / Che di catene ha carche ambe le braccia; / Sì che sparte le chiome e senza velo / Siede in terra negletta e sconsolata, / Nascondendo la faccia /Tra le ginocchia, e piange. / Piangi, che ben hai donde, Italia mia, /Le genti a vincer nata / E nella fausta sorte e nella ria»). Leopardi e leopardiani all’Italia
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nioni e di costumi»,8 basta per annientare tutte le illusioni del giovane Leopardi, compresa quell’idea della patria costruita sul «riverbero di una memoria letteraria, che muove da Virgilio verso Petrarca e prosegue fino a Monti e a Foscolo».9 La «strage delle illusioni» trasforma così l’allegoria di un’Italia donna-ancella10 in un concreto spazio geografico abitato da un popolo in cerca di una concreta identità nazionale, e spinge lo sguardo «civile» di Leopardi all’analisi della fitta «trama di una società già tutta moderna, consegnata al dominio dell’apparire, al sottile gioco di relazioni di potere, al prevalere di un’assuefazione nei confronti di modelli e comportamenti che soffocano l’interiorità del singolo».11 Senza dilungarsi eccessivamente, si possono accennare alcuni dei caratteri degli italiani descritti da Leopardi per spiegare quello sguardo «in negativo» che contraddistingue l’analisi sociale leopardiana di cui si parlava all’inizio. Intanto, come si sa, Leopardi descrive un quadro europeo di generale decadenza in cui la situazione dell’Italia si rivela ancor più incrinata. Lo stesso confronto con le nazioni civilizzate (Francia, Germania, Inghilterra) è un confronto «in negativo», volto cioè a mettere in evidenza le mancanze e le lacune dell’Italia e degli italiani. Così l’italiano si distingue dal francese, dall’inglese, dal tedesco perché è privo di un bon ton comune, del sentimento dell’onore, forse a causa del clima favorevole che lo invita a star spesso all’aria aperta e quindi a coltivare poco la conversazione all’interno di circoli e di salotti. Mancandovi il bon ton, mancano le bienséances e le convenienze sociali poiché è il senso dell’onore, catalizzatore delle spinte egoistiche individuali nelle società moderne, che secondo Leopardi produce quelle opinioni che fondano i costumi propri di una società moderna. Di conseguenza, «dell’opinione pubblica gl’italiani […] non ne fanno alcun conto»: essi «hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi», cioè praticano le consuetudini legate alla sopravvivenza e ai culti, ma si sottraggono alle vere norme sociali.12 Per questo l’Italia è priva di società e gli italiani non hanno una mentalità sociale: ciascun italiano infatti si comporta egoi-
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Cfr. la lettera al fratello Carlo del 18 gennaio 1823 «Roma questo letamaio di letteratura di opinioni e di costumi (o piuttosto d’usanze, perché i Romani, e forse nè anche gl’Italiani, non hanno costumi)», in G. Leopardi, Lettere, a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori 2006, p. 371. 9 A. Prete, Leopardi e l’Italia (Recanati 17 marzo 2011), p. 3. Il testo dell’intervento tenuto a Recanati da Antonio Prete in occasione delle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia è pubblicato in linea sul sito http://circe.univ-paris3.fr/publications. html. 10 G. Leopardi, All’Italia (vv. 21-24) cit., p. 5 («Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive, / Mai non potrebbe il pianto / Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno; / Che fosti donna, or sei povera ancella»). 11 Cfr. A. Prete, Leopardi e l’Italia (Recanati 17 marzo 2011) cit., p. 6. 12 Cfr. G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani cit., pp. 455 e 472. «Insomma niuna cosa, ancorché menomissima, è disposto un italiano di mondo a sacrificare X. Italiani della letteratura: Leopardi
Leopardi: un punto di vista “in negativo” sull’Italia e sugli Italiani
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sticamente, tdà poco valore all’altro e l’onorabilità sociale e, pertanto, non si rassegnerebbe mai a sacrificare il suo utile personale in favore dell’opinione pubblica – atteggiamento ancora attuale. Una moderna società si basa invece sul riconoscimento di valori comuni, come accade nelle moderne società europee. Paragonato ancora una volta alle altre nazioni, il popolo italiano è dunque caratterizzato da un’arretratezza sociale a cui fa da contraltare il possesso della verità: non avendo una «prospettiva d’un futuro migliore», gli italiani sono infatti privi d’immaginazione e, per tale motivo, vivono radicati nel presente, consapevoli della vanità del tutto.13 La situazione dell’Italia e degli italiani che ci consegna Leopardi negli anni ’20 dell’Ottocento si potrebbe così definire contraddittoria; una condizione che, in definitiva, non può che rivelarsi un ostacolo nella costruzione di una moderna identità nazionale. Riprendendo le parole di Ferroni con cui abbiamo iniziato questo intervento, in un certo senso si potrebbe dire che anche Leopardi, come Saviano, entra nel «cuore marcio» dell’Italia. Proponendo un quadro sociale realistico e così acuto nelle sue analisi condotte con uno sguardo niente affatto benevolo, si oppone anch’egli alla finta propaganda che consacrava l’Italia come meta ambita del gran turismo internazionale dell’epoca. Proprio grazie alla sua anti-italianità, che lo induce a denunciare i difetti degli italiani, Leopardi afferma con forza la sua italianità desiderando che la denuncia del «negativo» lasci trasparire il «positivo» di quegli esempi e di quei modelli che gli italiani dovrebbero seguire per diventare un popolo e una nazione.
all’opinion pubblica, e questi italiani di mondo che così pensano ed operano, sono la più gran parte, anzi tutti quelli che partecipano di quella poca vita che in Italia si trova. […] Gl’italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi. Poche usanze e abitudini hanno che si possano dir nazionali, ma queste poche, e l’altre assai più numerose che si possono e debbono dir provinciali e municipali, sono seguite piuttosto per sola assuefazione che per ispirito alcuno o nazionale o provinciale […]. Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia. E gli usi e costumi generali e pubblici, non sono, come ho detto, se non abitudini, e non sono seguiti che per liberissima volontà, determinata quasi unicamente dalla materiale assuefazione». 13 Cfr. ivi, pp. 455 e 456. «Or la vita degl’italiani è appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente. […] Gl’italiani di mondo, privi come sono di società, sentono più o meno ciascuno, ma tutti generalmente parlando, più degli stranieri, la vanità reale delle cose umane e della vita. […] Ed ecco che gl’italiani sono dunque nella pratica, e in parte eziandio nell’intelletto, molto più filosofi di qualunque filosofo straniero». Leopardi e leopardiani all’Italia
NOVELLA PRIMO Su Leopardi, l’Italia e alcune traduzioni poetiche francesi: uno sguardo d’oltralpe
J’ai en esprit une phrase de Plotin […], mais je ne sais plus où ni si je cite correctement: «Personne n’y marcherait comme sur terre étrangère» (Yves Bonnefoy, L’arrière pays)
1. Premessa Nel tratteggiare i caratteri della società e della cultura italiana del suo tempo, Giacomo Leopardi ricorre sovente, nella sua produzione, al confronto con altri paesi europei e segnatamente con la Francia. Basterebbe pensare che il poeta di Recanati entra manifestamente nell’agone dei letterati proprio con le note lettere di risposta a Madame de Staël che aveva suggerito agli italiani di aprirsi alle letterature straniere, tralasciando le traduzioni dei classici greco-latini. In un certo senso l’identità letteraria (strettamente intrecciata con quella nazionale) di Leopardi si delinea e matura anche grazie al diretto confronto-scontro che gli viene dai francesi, dalla «illustre Dama»1 per quanto riguarda alcune scelte di poetica e da Napoleone per l’ambito politico condividendo con Foscolo, interlocutore occulto e sottaciuto di tanta produzione leopardiana, la generazionale delusione storica seguita al trattato di Campoformio (1797), come appare chiaramente nel discorso Agl’Italiani. Orazione in occasione della liberazione del Piceno (1815), in cui le posizioni misogalliche sono inequivocabili. La polemica anti-tirannica nei confron-
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Epiteto più volte usato da Leopardi in riferimento a Madame de Staël nella Lettera ai sigg. compilatori della Biblioteca italiana in risposta a quella di Mad. La Baronessa di Staël ai medesimi (1816). Sugli influssi staëliani in Leopardi cfr. R. Damiani, All’ombra di Madame de Staël, in Id., L’impero della ragione. Studi Leopardiani, Renna, Longo 1994, pp. 149-171. Leopardi e leopardiani all’Italia
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Novella Primo
ti dei francesi tende soprattutto, in questa fase del pensiero leopardiano, a fissare il «discrimine tra una civiltà dell’usurpazione e delle novità, proveniente dalla Francia, e una stabilita sul retaggio delle proprie tradizioni, come è quella italiana».2 Parimenti la prospettiva adottata dai biografi e traduttori francesi nell’accostarsi a Leopardi mette spesso in rilievo, soprattutto negli studi ottocenteschi, il particolare «sentimento della patria» leopardiano, riservando al poeta di Recanati un posto privilegiato come poeta patriottico, illustre rappresentante della letteratura e della nazione italiana, comparabile a tanti grandi letterati europei, forse – nonostante le molteplici contraddizioni – l’unico vero romantico italiano, come sottolinea Perle Abbrugiati, nella sua recente biografia leopardiana («Leopardi est le plus grand poète romantique italien. Leopardi est le seul poète romantique italien»).3 Leopardi ricorda inoltre, nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani, come la descrizione dei nostri caratteri nazionali fosse stata prevalentemente compiuta da intellettuali stranieri in quanto nessuno, «eccetto forse il solo Baretti»,4 aveva sino ad allora affrontato sistematicamente l’argomento, già invece ampiamente scandagliato al di fuori dell’Italia stessa. Leopardi si sofferma, in particolare, sul romanzo di Madame de Staël Corinne ou l’Italie (1807), ma tiene presente sicuramente altre opere (ad esempio il Journal de voyage en Italie di Montaigne, 1774) quando pensa agli «infiniti» volumi «pubblicati dagli stranieri e che si pubblicano tutto
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R. Damiani, Commento e note a G. Leopardi, Poesie e prose, «I Meridiani», Milano, Mondadori 1988, vol. 2, p. 1434. Le citazioni da Leopardi saranno tratte da questa edizione. 3 P. Abbrugiati, Giacomo Leopardi. Du néant plein l’infini. Biographie, Aden, Lonrai 2010, p. 21. Così sottolinea la studiosa: «L’Italie, pays de référence pour les Romantiques européens, pays romantique même dans l’inconscient collectif au sens le plus courant du terme, n’est pas un pays Romantique au sens littéraire que nous donnons au mot. Bien sûr, dans les histoires de la littérature, on parlera d’un Romantisme italien. Dans cette page même, on disait plus haut que Giacomo n’était pas tendre envers les Romantiques de son pays. […] Les Romantiques italiens, esprits positifs,sont plus soucieux du sort collectif, que ce soit sur le plan social ou sur le plan religieux, que du message universalisant d’un homme seul face au monde. […] Où est, en Italie, le sens de l’absolu, de l’immense? Où est la magie de l’indéfini? Où est le sentiment profond de l’énigme et l’émotion devant la nature? Où est ce que partout sauf en Italie on appelle Romantisme? En Leopardi», ivi, pp. 21-22. 4 L’opera a cui fa riferimento Leopardi nel Discorso (G. Leopardi, Poesie e prose, a cura di R. Damiani, vol. 2, «I Meridiani», Mondadori, Milano 1988, p. 446, si cita da quest’edizione) è G. Baretti, An account of the manners and customs of Italy (1768) presente in traduzione italiana nel Catalogo della Biblioteca di Casa Leopardi col titolo Gl’Italiani, o sia Relazione degli usi e costumi d’Italia, Pirotta, Milano 1818. Per la visione della nazione italiana all’estero cfr. F. Venturi, L’Italia fuori d’Italia in Storia d’Italia, III. Dal primo Settecento all’Unità, Einaudi, Torino 1973, pp. 987-1481; per uno studio sul Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani tra filologia e critica cfr. M. Dondero, Leopardi e gli italiani. Ricerche sul ‘Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani’, Napoli, Liguori 2000. X. Italiani della letteratura: Leopardi
Su Leopardi, l’Italia e alcune traduzioni poetiche francesi
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giorno sopra le cose d’Italia, fatta oggetto di curiosità universale e di viaggi».5 Non sfugge a Leopardi che la perdita di centralità della Francia all’interno del contesto europeo ha portato a una maggiore attenzione di quella nazione verso la conoscenza della produzione letteraria straniera.6 Il tema d’obbligo degli scritti d’oltralpe sull’Italia, quasi tutti riconducibili alla letteratura odeporica, è il contrasto e il fitto intreccio nella nostra penisola tra l’antico e il moderno che determina una visione prevalentemente artistica dell’Italia cui fa da pendant la «pauvre Italie» del presente. Nella Corinne della Staël, ad esempio, la nazione italiana vive nel ricordo di ciò che è stata, recando in sé una promessa di continuità e di ripresa del «couleur nationale», da riconquistare ritornando se stessa.7 Frequenti sono quindi gli appelli degli intellettuali francesi a una rinnovata volontà dell’Italia a far rivivere gli antichi splendori, esortazioni queste pronunciate dai francesi in età romantica senza la partecipazione di uno Shelley o di un Byron, celebri esempi dell’italomania inglese ottocentesca, ma con maggiore distacco e nonchalance. Queste idee sull’Italia provenienti dall’estero verranno inverate da molti scrittori nella figura di Giacomo Leopardi. 2. L’Italia leopardiana secondo Sainte-Beuve Sino almeno alla prima metà del diciannovesimo secolo gli studi e le traduzioni sulle opere di letteratura italiana erano alquanto rari in Francia e avevano riscosso solo effimeri successi, come nel caso de I promessi sposi manzoniani e de Le mie prigioni di Silvio Pellico. Secondo Serban,8 uno dei primi studiosi della ricezione di Leopardi in Francia, solo le opere leopardiane portarono alla creazione di un movimento più duraturo e a un numero di traduzioni maggiore che per altri letterati italiani («Enfin, l’on peut dire que, seul d’entre les écrivains italiens du XIXe siècle, il a exercé une influence réelle sur la pensée française»),9 trovando però pochi imitatori.10
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G. Leopardi, Poesie e prose cit., p. 444. «Si traducono, si compendiano, si divulgano opere straniere antiche e moderne, non mai finora conosciute in quella tal nazione, e che mai non lo sarebbero state in altre circostanze […] e la esattezza, estensione e minutezza loro in far questo», Id., Poesie e prose cit., p. 444, nota 2. 7 M. de Staël, Corinne, Paris, Nicolle 1807, vol. I, p. 326. 8 N. Serban, Leopardi et la France cit., in particolare cfr. il capitolo V intitolato Essai sur l’influence de Leopardi en France, pp. 393-434. 9 Ivi, p. 394. 10 A giudizio di Serban, infatti, «Le Français n’a jamais aimé l’esprit de négation. Il reste 6
Leopardi e leopardiani all’Italia
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Novella Primo
L’ingresso della scrittura leopardiana in Francia, mediato anche dalle iniziative promosse nell’ambito di alcuni salotti letterari come quello di Cristina Belgiojoso,11 viene fatto risalire allo svizzero Louis de Sinner, divulgatore di Leopardi anche in Germania,12 e convinto promotore della diffusione della sua opera. Egli fu il principale mediatore dell’interesse di un autore, Sainte-Beuve, il cui Portrait sur Leopardi rappresenta, tra pregi e difetti, un essenziale punto di riferimento della critica leopardiana francese (ed europea).13 Nel suo studio, Sainte-Beuve, oltre a tracciare un convincente e appassionato profilo biografico dell’autore italiano, si cimenta in prima persona con traduzioni dai componimenti del poeta di Recanati, seguendo, nel tradurre, due trafile distinte ovvero trasponendo in prosa alcuni testi citati solo parzialmente (come All’Italia, Ad Angelo Mai, Alla primavera) e traducendo in versi altre poesie riportate per intero: L’infinito, Alla luna, La sera del dì di festa, Il passero solitario e Amore e Morte. La prima versione in prosa tratta dai Canti a essere inserita nel Portrait riguarda proprio la canzone All’Italia, di cui Sainte-Beuve traspone i primi sessantasette versi. Sia pur sotto un lieve stucco manieristico, il biografo francese rimane assolutamente fedele all’originale, concedendosi ben poche variazioni rispetto al testo di partenza che investono soprattutto l’aspetto sintattico. Proposizioni diverse sono a volte unificate, come nel celebre passo «L’armi, qua l’armi: io solo / combatterò, procomberò sol io./ Dammi, o ciel, che sia foco / agl’italici petti il sangue mio» (vv. 37-40) che nella traduzione è reso in modo da sottolineare l’ardore e l’eroismo della lotta da ingaggiare: «Des armes ici, des armes! Moi seul je combattrai, je tomberai seul; et fasse le Ciel que pour les cœurs italiens mon sang devienne flamme!» (p. 31).14 Tra le variazioni si segnala anche la scelta di proporre differenti traducenti per esprimere lo stesso vocabolo, sopprimendo così l’effetto di ripetizione presente
trop amoureux de la vie pour se complaire dans la contemplation du néant ou la volupté de la mort. Signe de légèreté, diront ses ennemis; marque de bon sens, peut-on répondre. Quoi qu’il en soit, on ne peut, au demeurant, nier que les doctrines pessimistes, en vogue durant les premiers temps du Romantisme, qui virent les Obermann et les Adolphe, ne parvinrent cependant jamais à pousser de fortes racines dans le sol de France», Ibidem. 11 Su quest’aspetto cfr. Novella Bellucci, Giacomo Leopardi e i contemporanei. Testimonianze dall’Italia e dall’Europa in vita e in morte del poeta, Firenze, Ponte alle Grazie 1996. 12 Sulla diffusione degli studi leopardiani presso i filologi tedeschi cfr. S. Timpanaro, La filologia di Leopardi, Bari, Laterza 1977, p. 245 e segg. 13 Per ricostruire questa fase della fortuna critica leopardiana in Francia, oltre al già citato Serban, cfr. in riferimento alle Operette morali: L. Flabbi, «Paradoxes Philosophiques». Le Operette nell’Ottocento francese, le Operette di Challemel-Lacour, a cura di A. Prete, Sulle Operette morali. Sette studi, San Cesario di Lecce, Manni 2008, pp. 106-139. 14 Si cita, indicando il numero di pagine dopo la citazione, da Ch. A. Sainte-Beuve, Portrait de Leopardi, précédé de Sainte-Beuve et Leopardi di M. A. Rigoni, Paris, Allia 1994. X. Italiani della letteratura: Leopardi
Su Leopardi, l’Italia e alcune traduzioni poetiche francesi
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nei versi. È quanto avviene per la traduzione del primo emistichio del verso 45 («Attendi, Italia, attendi») reso con «Attention, Italie! Prête l’oreille» che produce uno slittamento semantico dall’idea di attesa allo stato di allerta, alla necessità di un atteggiamento vigile e attento. Il biografo francese prosegue con l’inserzione della traduzione parafrasante dei versi 74-100 della canzone Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze. Rispetto al frammento tratto da All’Italia, si registra un più alto numero di variazioni, probabilmente dettate dalla necessità di rendere lineari quei passaggi che presentano un periodare sintatticamente arduo. Sicuramente la scelta dei versi da tradurre non è casuale, in quanto essi contengono dei precisi riferimenti in negativo alla Francia e quindi la traduzione diviene lo spunto per scandagliare, con rapide notazioni, le ragioni del misogallismo di questi versi leopardiani. Il passo in questione è espresso attraverso una significativa preterizione: Taccio gli altri nemici e l’altre doglie; ma non la più recente e la più fera [ma non la Francia scellerata e nera] Per cui presso alle soglie Vide la patria sua l’ultima sera. (vv. 99-102) Je veux taire les autres ennemis et les autres sujets de deuil, mais non la France scélérate et mauvaise (la Francia scelerata e nera), par qui ma patrie à l’extrémité a vu de près son dernier soir. (p. 33, corsivi nel testo)
L’autore traduce da una delle versioni precedenti dei Canti che contengono un riferimento esplicito alla nazione francese poi attenuato nelle edizioni successive. In questo caso la traduzione dei versi viene interrotta da una nota di commento dell’autore per poi riprendere dal verso 148 del componimento in cui vi è il riferimento alla campagna di Russia. Sainte-Beuve intravede, dietro la collera leopardiana contro la Francia, uno sdegno senz’altro preferibile all’indifferenza, ricordando come, tra le varie considerazioni negative, esistessero anche molte dichiarazioni leopardiane di segno opposto, soprattutto in riferimento al suo desiderio di stabilirsi a Parigi e alla sua ammirazione per la ricercatezza stilistica degli scrittori francesi, di contro alla trascuratezza e sciatteria degli scrittori italiani contemporanei. Tra le canzoni civili Sainte-Beuve traduce anche Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica, riportando esclusivamente i versi 66-108, ovvero quelli dedicati a Petrarca, Colombo e Ariosto. La citazione-traduzione del brano è preceduta da una breve introduzione che con toni molto enfatici, resi dal succedersi di proposizioni esclamative, svela ai lettori francesi l’importanza del ritrovamento da parte del gesuita Angelo Mai del codice vaticano contenente una parte del De repubblica di Cicerone, interpretandolo proprio come un segno della volontà di Leopardi di proporre una nuova renaissance italiana in grado di riportarla ai fasti della classicità: Leopardi e leopardiani all’Italia
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on se demandait où s’arrêteraient de telles découvertes. Quoi! Les antiques aïeux ressuscitaient de la tombe, et les vivants n’y répondaient pas! Oh! Du moins, lors de la grande renaissance des lettres, la ruine de l’Italie n’était pas consommée; l’étincelle du génie circulait dans l’air au moindre souffle.15
Attraverso Leopardi, dunque, la nazione italiana viene riletta mediante le coordinate interpretative consuete negli scrittori francesi; l’impegno civile delle prime canzoni del Recanatese è studiato, non tanto in riferimento al nostro Risorgimento storico, quanto invece ricondotto a un nuovo Rinascimento dell’Italia nelle Lettere e nelle Arti in genere. L’esercizio di traduzione porta il biografo ad ammettere i vantaggi dell’Italia rispetto ad altre nazioni per quanto riguarda la lingua poetica: Les Grecs avaient Homère à l’horizon, les Italiens ont Dante: voilà des marges immenses. Notre lointain horizon, à nous, ce n’est qu’une ligne assez plate. Nous ne remontons guère par la pratique au-delà de Rabelais ou de Ronsard, et encore que d’efforts et de faux pas pour y arriver!16
Sainte-Beuve riesce a cogliere il forte radicarsi delle canzoni civili nella classicità17 per cui il canto di Simonide presente nella canzone All’Italia, ispirato da excerpta di testi veramente esistiti (uno dei quali è tramandato da Diodoro Siculo),18 costituisce una vera e propria imitazione del poeta greco per sottolineare il valore delle magnanime illusioni degli antichi di contro all’infelicità e all’inettitudine dei moderni, per cui all’eroismo degli spartani caduti alle Termopili fa da contraltare il ricordo degli italiani che muoiono in «estranie contrade», combattendo non per se stessi, ma per le milizie di Napoleone. Sia il biografo che il biografato guardano al mondo antico con identica nostalgia e questo comune sentire permette a Sainte-Beuve di andare oltre lo studio dell’indubbia erudizione leopardiana che tanto aveva colpito i lettori tedeschi. Egli ha il merito di scorgere, tra i primi, dietro il notevole esercizio libresco, la figura esemplare del letterato italiano in grado di tenere compresenti nella sua produzione le istanze della classicità con quelle romantiche del suo tempo, facendosi degno rappresentante e testimone della sua nazione.19
15
Sainte-Beuve, Portrait de Leopardi cit., p. 35. Corsivi nostri. Ivi, p. 39. 17 Il legame tra Leopardi, l’Italia e l’antico è al centro del recente contributo di A. Prete, Leopardi e l’Italia, in «Critica letteraria» (giugno 2011) in http://www.unigalatina.it/index.php? option=com_content&view=article&id=478. 18 Diodoro Siculo, Biblioteca storica, XI, 11. Cfr. C. Genetelli, Agonismi leopardiani. Per una rinnovata esegesi di All’Italia, in «Studi e problemi di critica testuale», 2006, n. 72, p. 85. 19 A. Prete, Introduzione a C.A. Sainte-Beuve, Ritratto di Leopardi cit., pp. VII-VIII. 16
X. Italiani della letteratura: Leopardi
Su Leopardi, l’Italia e alcune traduzioni poetiche francesi
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L’autore del Portrait riesce ad andare quindi oltre, in quanto riconosce i «tratti dell’italianità» nella valenza e originalità dell’«ossimoro del pensiero»20 leopardiano, che consiste nel rimpiangere il forte sentire degli antichi, ma – al tempo stesso – nell’avvertire la vanità di questi sentimenti in una penisola dove il «sentimento della patria» è pressoché assente, in cui si avverte l’illusorietà del desiderio di un tempo che non potrà più tornare e l’inanità della lotta contro l’oblio che giunge inevitabile per uomini e cose. Sull’esempio sainte-beuviano tanti altri studiosi successivi si soffermano sul particolare patriottismo di Giacomo Leopardi, come Auguste Bouché-Leclercq che nella sua biografia (1874) del poeta italiano dedica un intero capitolo, il quarto, al tema della patria, individuando anch’egli le sue radici nella grecità. Se è vero che la letteratura italiana abbonda di canzoni patriottiche, nessuna, asserisce lo studioso, ha «la mâle energie et l’originalité puissante de Leopardi».21 Per meglio spiegare «les hardiesses et la concision de ce magnifique language», viene riportata una versione in prosa di All’Italia,22 subito ricollegata alla scuola alfierana e, soprattutto, al «nourisson des muses grecques». Il discorso critico mira cioè, anche in questo caso, a collegare lo slancio patriottico della canzone leopardiana, non solo agli esempi italiani di Petrarca e Foscolo, ma soprattutto alle fondamentali radici classiche della formazione leopardiana. In questo modo le competenze filologiche del poeta di Recanati si fondono mirabilmente col tema della patria («Leopardi a rajeuni ce thème avec sa science philologique»)23 e il patriottismo dell’apparentemente umbratile cantore di All’Italia, acquisisce maggiore rilievo proprio perché determinato dallo svolgersi di un processo identificativo con Pindaro e soprattutto Simonide che era un «patriote ardent, qui s’éleva un des premiers à l’idée de la solidarité entre tous les peuples helléniques».24 Bouché-Leclercq ritrova anche nelle altre canzoni civili, e in particolare nella canzone Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, lo stesso slancio patriottico, ma con un tono ancora più energico e aggressivo, soffermandosi, come già aveva fatto Sainte-Beuve sui versi, trasposti in prosa, in cui è individuabile l’altro tratto proprio dell’«italianità» di Leopardi secondo gli intellettuali francesi ovvero l’orgoglio patriottico contro «la noire et scélérate France, par qui ta patrie faillit voir son dernier jour».25
20
Ivi, p. VIII. A. Bouché-Leclercq, Giacomo Leopardi, sa vie et ses œuvres, Paris, Didier 1874, p. 36. 22 Di questa traduzione ricordiamo soltanto quella dei celebri versi 38-40 di All’Italia: «Je succomberai seul. Accorde-moi, ô ciel, que mon sang soit un feu pour les cœurs italiens». 23 Ivi, p. 41. 24 Ivi, pp. 41-42. 25 Ivi, p. 44. L’impegno del ventenne Giacomo a favore delle sorti della sua patria emerge, tra gli altri contributi ottocenteschi, in una pièce teatrale di Camille de Bainville, intitolata Le 21
Leopardi e leopardiani all’Italia
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3. L’Italia di Leopardi nelle traduzioni poetiche novecentesche L’eco del Portrait di Sainte-Beuve e del successivo dibattito critico intorno a Leopardi raggiunge il Novecento letterario francese. Diverse sono le forme espressive e i generi letterari prescelti per soffermarsi sull’infelice poeta di Recanati; diversi gli esiti e i livelli di approfondimento dell’autore italiano; diversi infine gli influssi esercitati su poeti e lettori successivi. Decisiva alla fortuna francese novecentesca di Leopardi è la mediazione di Giuseppe Ungaretti, un «italiano di Parigi», fautore di una riscoperta della tradizione italiana in Francia grazie a numerosissimi studi critici e scelte antologiche di testi da lui stesso tradotti. Proprio a partire dall’interessamento del poeta dell’Allegria, Philippe Jaccottet ha curato un’edizione francese dei Canti che per molto tempo, prima delle più recenti proposte editoriali a cura di Michel Orcel,26 è stata il principale punto di riferimento degli studi leopardiani francesi novecenteschi. Alcune delle poesie contenute nell’edizione jaccottetiana sono state in realtà rivedute da Jaccottet sulle traduzioni in prosa composte da Aulard, anch’egli studioso e traduttore di Leopardi. Ad esempio, in All’Italia, palese esempio di poesia patriottica su cui Aulard stesso nel suo saggio si sofferma, è evidente il lavoro compiuto dal poeta svizzero nella versione del testo leopardiano filtrato da una traduzione già esistente. Jaccottet interviene sia a livello morfosintattico che lessicale, generalmente per ripristinare il testo di partenza. Gli scarti jaccottetiani compiuti rispetto al testo di partenza tendono a sincronizzare al ventesimo secolo le poesie di un’epoca e di una provenienza differente, rimodulando di volta in volta a
dernier jour de Leopardi (Chaix, Paris 1894) che ha per protagonista proprio il Recanatese ed è pertanto indicativa dell’interesse d’oltralpe verso il letterato italiano anche nell’ambito di altri generi letterari. L’uso, consueto anche nelle biografie letterarie, di intercalare richiami biografici con citazioni testuali, si realizza, in questo dramma in un atto, nella recita dello stesso Leopardi della canzone All’Italia tradotta in versi francesi da Bainville, precisamente in quartine, in una sorta di performance dentro la performance. Il drammaturgo francese coglie il contraddittorio legame tra Leopardi e la sua città natale, considerando un esilio il periodo di allontanamento da essa che però gli consente di conquistare l’alloro poetico. Un ribaltamento della denominazione di Sainte-Beuve «dernier des Anciens» sembra intravedersi quando Bainville definisce invece Leopardi «le dernier des humains», ponendo quindi l’enfasi sulla sua condizione infelice e non sul suo legame con l’antico che il drammaturgo non considera in alcun modo nel corso del suo testo teatrale. Nel suo complesso l’opera non si contraddistingue per l’estremo valore letterario e procede rivestendo di toni galanti e patine leziose il dramma di una vita alla sua conclusione. 26 Sulle riflessioni del traduttore leopardiano contemporaneo Michel Orcel sul tema dell’«italianità» in letteratura, cfr. M. A. Rigoni, Michel Orcel e l’individualità italiana, in «Lettere italiane», 2001, n. 1, pp. 96-101. X. Italiani della letteratura: Leopardi
Su Leopardi, l’Italia e alcune traduzioni poetiche francesi
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questo fine l’organismo linguistico e stilistico dei testi. Di Leopardi, infatti, Jaccottet mette in rilievo proprio la difficoltà di traduzione individuando in questo aspetto una delle ragioni della sua ridotta diffusione all’estero.27 Le difficoltà maggiori emergono, ancora una volta, quando nella traduzione si rischia un impoverimento di tipo qualitativo,28 riferibile all’intertestualità sottesa al testo, più difficilmente comprensibile al lettore d’oltralpe. Ecco, ad esempio, messe a confronto le due traduzioni francesi in relazione alla celebre esortazione di All’Italia dei versi 37-40, a sua volta modellata sui versi virgiliani (Eneide, II, 668) tradotti da Leopardi «Arma, viri, ferte arma»: Des armes! Donnez-moi des armes! Je combattrai seul, je tomberai seul. Fais, ô Ciel, que mon sang soit du feu pour les poitrines italiennes. (Aulard) Des armes, allons! Des armes! Je combattrai donc seul, je succomberai seul. Veuille, ô Ciel, que mon peu de sang soit pour les cœurs italiens comme du feu. (Jaccottet)
Anche in questi versi sopra riportati molte sono le variazioni tra i due traduttori. L’esortazione iniziale è risolta in due modi differenti, pur mantenendo, in entrambi i casi, lo schema della duplice esclamazione. La resa del verbo “procombere”, di derivazione latina, usato da Virgilio nel suo II canto dell’Eneide (vv. 424426), dà spazio a delle soluzioni in cui comunque è depotenziata la carica semantica del verbo leopardiano, anche se è Jaccottet ad avvicinarsi maggiormente al verso dei Canti, con la traduzione «soccomberai». La versione in prosa rende piuttosto difficile mantenere le altre fratture del verso presenti nella canzone, inserite proprio per alterare la musicalità del canto, come avviene con le interiezioni che dividono il verso a metà, o ancora nella disposizione dei vari segni diacritici, come punti e due punti. E infatti il punto a metà del verso 45 («Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi») è riproposto con una variante lessicale dai traduttori: «Écoute, Italie, écoute» in Aulard e sempre con una differente disposizione delle parole e il punto esclamativo in Jaccottet: «Écoute, écoute, Italie!»
27
Così in un’intervista Jaccottet: «Quali sono i suoi riferimenti letterari? Troppi, se devo dirli tutti. […] nella poesia italiana Leopardi forse mi ha influenzato. Leopardi in Francia è praticamente sconosciuto, proprio a causa delle enormi difficoltà di traduzione», Ph. Jaccottet, Osservazioni di un poeta: ‘Pensieri sotto le nuvole’ in http://www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/ interviste/jaccottet.html, p. 2, 13 febbraio 1998. 28 Per A. Berman (La traduzione o la lettera o l’albergo nella lontananza, Quodlibet, Macerata 2003, p. 48) l’impoverimento qualitativo «rimanda alla sostituzione di termini, espressioni, costruzioni ecc. dell’originale con termini, espressioni, costruzioni che non possiedono né la stessa ricchezza sonora, né la stessa ricchezza significante o – meglio – iconica. È iconico il termine che, in rapporto al suo referente, «fa immagine», produce una coscienza di somiglianza». Leopardi e leopardiani all’Italia
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Nel far emergere la contrapposizione operante nella canzone tra il fervore patriottico del poeta e la viltà dei contemporanei, il «duo» Aulard-Jaccottet riesce comunque bene a esprimere le peculiarità della concezione eroica e individualistica propria di questa fase della poesia leopardiana caratterizzata da velleità eroiche congiunte a un vibrante esempio di impegno civile. Nelle prime strofe il lettore può dunque essere investito dal ritmo incalzante e concitato della canzone, suggerito dal patriottismo dimostrato da Leopardi, mentre, a partire dalla quarta strofe, il ritmo significativamente si distende e diventa più melodico, come rilevabile dal decrescere progressivo delle proposizioni interrogative ed esclamative. Dell’«italianità» leopardiana ha discusso anche uno dei più grandi poeti contemporanei viventi, Yves Bonnefoy che si è accostato all’ampia produzione leopardiana da traduttore, critico, poeta, oltre ad aver composto numerosi contributi sull’Italia letteraria e artistica, ad esempio nel celeberrimo L’arrière pays in cui ricorda come «fin dai primi giorni, alcuni sublimi versi di Dante – «ma come i gru van cantando lor lai…» – fino ad altri, più recentemente non meno sconvolgenti, di Leopardi, l’Italia è stata per me, nella vita vissuta o in quella immaginata, tutto un labirinto di insidie e insieme di lezioni di sapienza, tutta una rete di segni di una misteriosa promessa».29 Il poeta di Recanati è considerato in più luoghi un illustre rappresentante della nostra identità nazionale e rientra appieno tra gli artisti che in qualche modo mediano e filtrano la visione e fruizione del paesaggio italiano. Così, ad esempio, scrive l’autore francese nel suo Une terre pour les images, pubblicato e tradotto per i tipi Donzelli con il titolo La civiltà delle immagini in cui sono riuniti tanti altri scritti tra pittura (Piero della Francesca, Andrea Mantegna, Tiepolo, Veronese…) e letteratura (Ariosto, poeti dell’Arcadia, Leopardi) dedicati all’Italia: Esiste un’unità di questa, a dispetto di tutto ciò che separa o perfino contrappone, prendiamo questi nomi a caso, un Botticelli e un Magnasco, oppure Palladio e Bernini? E se ne esiste una, in cosa consiste questa unità, cosa la distingue da altre ricerche condotte in quegli stessi secoli in altre regioni d’Europa? È la questione che vorrei affrontare, dopo avere tentato di comprendere spiriti tanto differenti, per non dire antagonisti, quali Mantegna, Tiepolo, Ariosto, Leopardi. Una questione simile ha molto senso, ai miei occhi, e posso anche dire che l’ho sempre avuta in mente fin dai primi giorni del mio interesse per l’Italia: essa sarà stata in ogni momento il punto di fuga di ogni mia prospettiva, e la risposta che ho creduto di poterle dare è anch’essa, nella mia riflessione, piuttosto antica, benché mi sia occorso del tempo per capire in modo sufficientemente chiaro, e stavolta servendomi di qualche concetto, ciò che all’inizio presentivo solo intuitivamente.
29
Y. Bonnefoy, Avant propos 2004 a Id., L’entroterra, ed. italiana a cura di G. Caramore cit.,
p. 5. X. Italiani della letteratura: Leopardi
Su Leopardi, l’Italia e alcune traduzioni poetiche francesi
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Mi è occorso del tempo, in quanto questa mia idea non è così semplice. Essa crede di vedere, in effetti, una dualità al cuore stesso di un’unità: la «doppia postulazione».30
Bonnefoy distingue cioè, rifacendosi a Focillon, due «Italie», una monumentale e l’altra narrativa, dualità di superficie, specchio di una tensione più profonda che lega comunque i due termini della questione, riproponendo così un nuovo e diverso dualismo rispetto a quello tra antico/moderno formulato sin dal Settecento. Nel discorso pronunciato nel 2000 a Recanati dal titolo L’enseignement et l’exemple de Leopardi31 il suggestivo motivo della double postulation è ripreso anche in relazione alla dialettica paradossale che sorregge la poesia leopardiana, la doppia postulazione del nulla e dell’essere, riflesso poetico della dualità insita nell’Italia. 4. Note conclusive Attraverso Leopardi, insomma, gli intellettuali francesi hanno spesso provato a definire i tratti dell’«individualità italiana», intesa sovente come una sorta di categoria dello spirito, offrendo, al tempo stesso, un contributo di importanza non secondaria nell’ambito delle innumerevoli interpretazioni date intorno all’opera del poeta di Recanati secondo una prospettiva che varia tra Otto e Novecento, anche per il diverso distanziamento temporale esistente rispetto alle vicende legate al processo di unificazione nazionale in Italia. Provando a sintetizzare a grandi linee i risultati emersi dalla disamina delle posizioni assunte dai vari studiosi e traduttori leopardiani d’oltralpe possiamo notare, ad esempio, come nell’Ottocento sia molto forte l’aggancio con la tradizione classica, ovvero il patriottismo di Leopardi non sarebbe tanto originato da un sentire individuale, quanto invece suggerito e corroborato dallo slancio patriottico degli antichi, in particolare, nella canzone All’Italia, di Simonide. In altri termini il topico binomio Italia / classicità fortemente radicato nella prospettiva francese è chiaramente individuabile nella scrittura leopardiana. Il patriottismo in Leopardi trova poi un secondo elemento caratterizzante nel misogallismo, che porterebbe l’autore di contro a rivendicare con fierezza, rispetto all’alterigia dei francesi, la nobiltà della tradizione, della lingua, della cultura italiana. Nel Novecento, stemperate in parte le tensioni dei moti risorgimentali e delle controverse vicende storiche con la nazione francese, i letterati francesi si aprono anche ad altri aspetti. Il pellegrinaggio letterario verso Recanati diventa una tappa del Grand Tour e le descrizioni paesaggistiche leopardiane dell’Italia centrale sono specchio e riflesso di un «paese dell’anima», ricco di storia e arte qual è appunto
30 31
Y. Bonnefoy, La civiltà delle immagini. Pittori e poeti d’Italia, Roma, Donzelli 2005, p. 4. Id., L’enseignement et l’exemple de Leopardi, Périgueux, William Blake 2001.
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l’Italia (un «vrai lieu» ovvero un «vero luogo» secondo la terminologia prediletta da Bonnefoy). È quanto aveva proposto, ad esempio, in precedenza Valery Larbaud nella sua Lettre d’Italie (1927), poi riedita in Jaune bleu blanc, in riferimento al suo viaggio a Recanati che segue la visita alla vicina Loreto. Secondo una procedura consueta nella letteratura odeporica, Larbaud ammicca ai suoi lettori accostando i luoghi leopardiani ad altre città francesi come Riom e Clermont-Ferrand, indicando come sue “preconoscenze” un libro di Giuseppe Chiarini e soprattutto la lettura degli stessi Canti: «Alors, les deux Recanati, la française et l’italienne, ne formaient qu’une seule ville, que je voyais assez bien pour m’expliquer l’effrayante et mesquine tragédie de Giacomo Leopardi».32 Dagli esterni Larbaud passa alla descrizione di Palazzo Leopardi, mettendone in rilievo la grandiosità, sia pur all’interno di una piccola città di provincia, e si sofferma su una pittura murale che rappresenta un portico greco-romano che «fait penser à une antiquité idéale, aux grands temples de la Grèce, et le contraste avec la piazzetta et l’église est aussi très frappant».33 In qualche modo Recanati, nel suo essere rappresentabile attraverso riferimenti icografici e nel recare in sé la dualità tra passato e presente, diventa anch’essa una sintesi dei caratteri dell’Italia stessa nella prospettiva estera. Infine, altri poeti-traduttori, che naturalmente ricoprono un ruolo fondamentale nella ricezione di Leopardi in Francia e quindi nella diffusione e circolazione della sua o pera, si sono soffermati su alcune caratteristiche specifiche del poetare leopardiano, ponendo l’accento sulla musicalità del verso, come ha fatto Yves Bonnefoy parlando a proposito dei Canti di poèmes musicaux e soprattutto Michel Orcel il quale ritiene che il titolo Canti sia rivelatore della frequentazione, da parte di Leopardi, del melodramma. Ne è un esempio la poesia Il Risorgimento (1828), di toni metastasiani e quindi modulata sul linguaggio e il tono della librettistica d’opera, caratterizzante un altro importante aspetto del patrimonio italiano ottocentesco.34 Leopardi viene inoltre, come di consueto nella ricezione dei letterati francesi, costantemente accostato a tanti altri grandi esponenti della letteratura europea come Keats, Wordsworth, Mallarmé, e insieme ricondotto, attraverso la sua straordinaria ed esemplare esperienza interiore e letteraria, alla realtà tipica dell’Italia, ai significanti – anche topografici e quindi identitari – (la siepe, il vento, il mare, i monti), caratterizzanti la nostra nazione.
32
V. Larbaud, Jaune bleu blanc, Paris, Gallimard 1991, p. 67. Ivi, p. 71. 34 Cfr. M. A. Rigoni, Michel Orcel e l’individualità italiana cit. 33
X. Italiani della letteratura: Leopardi
MANUEL PACE Giordani e la ricezione delle canzoni di Leopardi nel 1819
Con queste canzoni, dice l’avviso che vi è premesso, l’autore s’adopera dal canto suo di ravvivare negli italiani quel tale amore verso la patria, dal quale hanno principio, non la disubbidienza, ma la probità e nobiltà così de’ pensieri come delle opere.1
Con queste parole si apre l’articolo che Giuseppe Montani dedica alle canzoni di Giacomo Leopardi e che Giovan Pietro Vieusseux pubblica nel tomo sedicesimo dell’Antologia Vieusseux, nel fascicolo del dicembre 1824. In attesa delle parole dell’amico e nuovo collaboratore del giornale, Pietro Giordani, di cui Montani annuncia un prossimo intervento sullo stesso argomento, l’autore si sofferma ad analizzare l’intento leopardiano di ravvivare negli italiani l’amore verso la patria e la difficoltà di questi ultimi a comprenderne l’importanza, frenati da un incomprensibile stupore. Montani denuncia le difficoltà della sua epoca ad aprirsi a così alti pensieri e l’incapacità degli italiani di essere commossi dai sentimenti che animano le canzoni leopardiane le cui radici storiche e culturali devono essere individuate all’interno di quella tradizione letteraria che rimanda direttamente a Dante e Petrarca.2 Vieusseux chiederà con insistenza l’articolo giordaniano, e più volte, tra il settembre e l’ottobre del 1824, rassicurerà Brighenti in tal senso, consapevole
1 G. Montani, Canzoni del conte Giacomo Leopardi, in «Antologia Vieusseux», 16, dicembre 1824, pp. 76-77. 2 A conclusione del suo articolo Montani tenta di rispondere alla domanda su quale possa essere stato il maestro che ha ispirato i versi leopardiani. «Poiché, mentre si direbbe quegli che cantò Italia mia benché ’l parlar sia indarno; il pensiero corre all’altro, che gridava: Ahi serva Italia di dolore ostello in que’ versi del sesto del Purgatorio, che non si possono ripetere senza pianto. E anch’egli il nostro giovane poeta si cinge spesso di certa nebbia come il sacro Alighieri; il che non osiamo asserire se per prudente elezione e per naturale inclinazione dell’ingegno».
Leopardi e leopardiani all’Italia
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Manuel Pace
che «bisogna aspettare, perché questo è il suo sistema, e che a pressarlo non si otterrebbe gran cosa».3 In realtà Giordani aveva già avuto modo di esprimersi sulle canzoni leopardiane e il suo epistolario è attraversato dal costante tentativo di promuovere il lavoro del poeta recanatese.4 D’altro canto è lo stesso Leopardi a chiedere un giudizio all’amico protettore e il 9 ottobre 1818 invia un «libricciuolo manoscritto»5 di cui occorre curare la stampa. In realtà lettera e manoscritto andranno perduti e il recanatese sarà costretto ad avviare i suoi contatti a Roma.6 Le questioni da affrontare sono molteplici e Leopardi è perfettamente cosciente della necessità di appoggiarsi al piacentino per superare le difficoltà dovute alla sua inesperienza, ma la perdita del manoscritto inviato a Piacenza lo costringerà ad affidarsi a Francesco Cancellieri. Con questa sarà un mio piccolo manoscritto, il quale desiderando che si stampi costì, ricorro alla usata benignità di lei perché si voglia compiacere di darlo ad imprimere a mie spese. La carta vorrei che fosse mezzana, eccetto due o tre copie che bramerei stampate in carta velina o di simile qualità. Il sesto per risparmio di spesa vorrebb’essere di 16 o altro tale, di maniera che la stampa non passasse o passasse di poco un foglio, giacché com’Ella vedrà, il numero delle pagine non può essere maggiore né minore di quello ch’è nel Ms.to, onde qualunque ampiezza di sesto accrescerebbe la spesa. E quanto ai caratteri, s’ella non giudica altrimenti, desidererei che fossero del De Romanis. Ma in modo particolarissimo ardisco pregarla che voglia commettere la correzione della stampa a persona diligente e che non trascuri né anche la punteggiatura del Ms.to, poich’Ella conosce ottimamente che in un libricciuolo così breve, anche i piccoli sbagli sarebbero vergognosi, e ridonderebbero in poco onor all’autore.7
Stampa e diffusione delle due canzoni non sono un affare di facile soluzione
3
Copialettere Vieusseux. Nella lettera del 9 novembre 1824 Vieusseux comunica a Brighenti che Giordani ha promesso un articolo sulle canzoni di Leopardi, mentre nella successiva lettera allo stesso del 9 novembre 1824, accetta i tempi e le lungaggini dell’autore piacentino. 4 Leopardi nel carteggio Vieusseux. Opinioni e giudizi dei contemporanei, 1823-1827, a cura di Elisabetta Benucci, Laura Melosi, Daniela Pulci, Firenze, L. S. Olschki 2001. Contiene 21 delle 138 lettere del carteggio Giordani-Vieusseux. 5 Contiene le due canzoni: All’Italia e Sopra il monumento di Dante che si prepara in Firenze. Le due canzoni usciranno poi a Roma (Canzoni di Giacomo Leopardi. Sull’Italia, Sul monumento di Dante che si prepara in Firenze, presso Bourliè in data 1818, in realtà ai primi del 1819). Giacomo Leopardi, Epistolario, a cura di Franco Brioschi e Patrizia Landi, Torino, Bollati Boringhieri 1998. Lettera a Pietro Girodani del 19 ottobre 1818, vol. I, pp. 212-213. 6 Ivi, pp. 214-216. Leopardi, non trovando riferimenti al manoscritto nella lettera che Giordani gli scrive il 28 ottobre, intuisce che le due canzoni e la lettera sono andate perdute e ne scrive il 9 novembre all’amico piacentino. Quest’ultimo conferma lo smarrimento nella successiva lettera del 19 novembre. 7 Ivi, pp. 219-220. Lettera a Francesco Cancellieri del 30 novembre 1818. X. Italiani della letteratura: Leopardi
Giordani e la ricezione delle canzoni di Leopardi nel 1819
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anche perché le odi appaiono, sin dalla prima lettura del Cancellieri, materia scabrosa e facilmente intrappolabile nelle maglie della censura, soprattutto per «quello che dice contro la Francia, ed a favore della libertà italiana». La stampa viene terminata e Leopardi, dopo aver lasciato poche copie a Roma a disposizione del Cancellieri,8 può disporre di 312 copie da distribuire in Lombardia.9 L’edizione non incontra il gradimento dell’autore, tanto è vero che nella lettera a Pietro Giordani del 18 gennaio Leopardi parla di «obbrobio di stampa, nella quale io medesimo leggendo i miei poveri versi, me ne vergogno, che mi paiono, così vestiti di stracci».10 Cancellieri invece, nell’inviare all’autore i primi due volumetti stampati, nel metterlo al corrente dell’effettuata consegna delle rimanenti copie al direttore del collegio Capranica, Fucili, non manca di dimostrare tutto il suo affetto e la sua ammirazione: Io sarò sempre uno de’ suoi più appassionati ammiratori, e panegiristi, e mi augurerò sempre nuove occasioni di convincerla dell’altissima stima, pieno di cui, ringraziandola senza fine della dozzina di copie delle sue Odi, che mi permette di ritenermi, mi pregio di professarmi.11
E ancora Io torno a rallegrarmi con lei delle sue ammirabili canzoni. Se fossi capace di fare una sola canzone simile ad una delle sue, vi cambierei tutta la ferragine delle mie ridicole, e miserabili produzioni, di cui ho tutto il motivo di arrossire.12
Se il problema della stampa è stato risolto anche senza l’aiuto di Giordani, sono altre le questioni che necessitano dell’azione del piacentino. Occorre ottenere la benedizione del Monti, al quale sono dedicate le canzoni e Giordani, convinto di «disporre di lui senza alcun limite»,13 si incarica del problema scrivendo al Monti e tranquillizzando l’amico recanatese. Finalmente il 3 febbraio 1819 i tanto sospirati versi arrivano a Piacenza e la reazione immediata è di grande entusiasmo:
8
Ivi, pp. 221-225. Lettera di Cancellieri del 9 dicembre 1818, e a Cancellieri del 14 dicembre 1818. 9 «Ora avendolo mandato a Roma a stampare a mie proprie spese, e però dovendone essere tutte le copie in potere mio né volendone fare distribuire a Roma altro che pochissime avrei caro di sapere da voi come possiamo mettere in giro, principalmente in Lombardia nelle mani de’ librai e cose tali, non già per rifarmi della spesa, ma per ottenere il fine della stampa, cioè farle andare per manus hominum». Ivi, p. 225. Lettera a Pietro Giordani del 14 dicembre 1818. 10 Ivi, pp. 240-243. Lettera a Pietro Giordani del 18 gennaio 1819. 11 Ivi, p. 235. Lettera di Francesco Cancellieri del 6 gennaio 1819. 12 Ivi, pp. 238-239. Lettera dello stesso del 13 gennaio 1819. 13 Ivi, pp. 231-234. Lettera di Pietro Giordani del 5 gennaio 1819. Leopardi e leopardiani all’Italia
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siate ringraziato del grandissimo piacere che ho provato leggendo. Oh nobilissima e altissima e fortissima anima! Così, e non altrimenti vorrei la lirica. Macte animo, mio carissimo Giacomino. Non dubitate: con tale ingegno non potrete rimanere oscuro, né sempre sfortunato.14
un giudizio positivo che si protrarrà negli anni e che il piacentino confermerà anche nelle lettere successive: oggi voglio partecipare con voi una consolazione che ho sentita grandissima: perché avendo mostrata quella poesia a diversi, ed intelligenti, e non facili a lodare, ella è stata esaltata con tante e tante lodi, e voi ammirato con tanta venerazione, che a Dante non si potrebbe di più. Pareano veramente fuor di se stessi; e infiammati dentro da qual fuoco potentissimo che vi fece abile a scriverle. Però io vorrei pregarvi che non gittaste le stampe; ma aveste pazienza di correggerle attentamente a mano; e le mandaste attorno, e specialmente a quelle persone che in altra mia v’indicai: perché né voi dovete rimanere così mezzo sconosciuto.15
Nelle lettere inviate a Leopardi anche Pietro Brighenti definisce le canzoni «applauditissime», «veramente bellissime», «sublimi», «molto ammirate dagl’intelligenti».16 Ma i giudizi di Giordani e Brighenti corrispondono alla realtà? L’accoglienza delle canzoni leopardiane è veramente così entusiastica? Chi sono gli intelligenti a cui si fa riferimento? È certo che, con l’aiuto di Giordani e Brighenti, le canzoni hanno una rapida diffusione. Nella lettera del 7 marzo Giordani comunica una lista di venticinque nomi ai quali devono essere inviate. Nell’elenco si va dal conte Alessandro Calciati di Piacenza al napoletano Marchese di Montrone, senza dimenticare personalità e intellettuali sparsi in tutte le principali città italiane.17 Il 19 marzo Leopardi lamenta
14
Ivi, p. 245. Lettera dello stesso del 3 febbraio 1819. I versi sono sospirati anche perché, nonostante le numerose sollecitazioni del Giordani, dopo lo smarrimento del manoscritto dell’ottobre del 1818, Leopardi eviterà di spiegare dettagliatamente il contenuto del volumetto che più volte viene annunciato sulla via per Piacenza, ma che tarderà non poco ad arrivare a destinazione. 15 Ivi, pp. 245-247. Lettera di Pietro Giordani del 5 febbraio. 16 Ivi, pp. 283-284. Lettera a Brighenti del 26 marzo. 17 Ivi, pp. 267-270. Lettera di Pietro Giordani del 7 marzo. Nell’elenco fornito da Giordani sono compresi a Piacenza, il conte Alessandro Calciati e il conte Ettore Pallastrelli; a Parma il conte Giacomo Sanvitali e il professore Angelo Pezzana; a Bologna, Giovanni Marchetti e Dionigi Strocchi; a Imola, Giovanni Codronchi; a Faenza, il conte Giovanni Gucci; a Forlì, Luigi Baldini, a Cesena Giovanni Roverella; a Ravenna l’abate Farini; ad Ancona, Andrea Malacari; a Firenze, Michele Leoni; Venezia, Giuseppe Rangoni; a Vicenza, Leonardo Trissimo; a Milano, Carlo Rosmini e Francesco Reina; a Como, Niccolò PasquaX. Italiani della letteratura: Leopardi
Giordani e la ricezione delle canzoni di Leopardi nel 1819
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di non aver avuto risposte da parte dei bolognesi Strocchi e Chiassi, del lodigiano Montani, dei milanesi Rosmini e Reina, del bresciano Arici, ma nel breve lasso temporale che va tra febbraio e aprile, il poeta recanatese ha modo di ricevere le tanto desiderate risposte. Grassi scrive: i pochi amici ai quali ho fatto leggere le sue odi s’accordano nel dire che esse sono calde d’amor patrio, ardite ne’ voli e nelle immagini, maestevolmente verseggiate, d’una semplicità tutta greca nell’andamento. Io poi nel riconoscere cogli altri tutti questi pregi amo e principalmente nella prima, quel santo fuoco col quale vengono a manifestarsi i sentimenti purissimi d’un vero italiano.18
Positivi saranno anche i giudizi di Giulio Perticari: «Mi piacciono assai i vostri versi all’Italia e ne lodo i concetti, lo stile, l’ordine e tutto, ma sopra tutto quel gentilissimo amore»;19 di Giovan Battista Niccolini: «le dico dunque che ho letto e con sommo piacere le sue Canzoni e particolarmente nella prima di esse, il Canto di Simonide: parmi che la bellezza dello stile s’accoppi mirabilmente nei suoi versi alla dignità dei sentimenti»;20 di Massimiliano Angelelli: «questi versi deggiono essere belli perché così li hanno giudicati»;21 di Filippo Schiassi: «altezza di pensieri, grandezza e vivacità d’immagini, stile poetico, felicità di condotta a mio giudizio vi campeggiano a meraviglia»;22 di Francesco Cassi: «ho letto con vero piacere le due belle vostre canzoni».23 Giordani informa l’amico sui giudizi positivi di Alessandro Calciati,24 Ettore
ligo; a Brescia, Giuseppe Taverna; a Genova, Giambattista De Cutis; a Lodi, Giuseppe Montani; a Cremona, Carlo Tedaldi Fores e Bartolommeo Vidoni, a Pesaro Antaldo Antaldi; a Torino, Giuseppe Grassi. 18 Ivi, p. 262. Lettera di Giuseppe Grassi del 20 febbraio 1819. Il volumetto viene inviato a Grassi l’8 febbraio. 19 Ivi, p. 265-266. Lettera di Giulio Perticari del 1 marzo 1819. Leopardi aveva saputo dell’apprezzamento del Perticari alcuni giorni prima, grazie alla corrispondenza con Giordani. Nella lettera del 1 marzo Perticari annuncia anche il suo desiderio di recensire le Canzoni sul «Giornale Arcadico»: «e ve ne voglio tanto bene che le parole non bastano, alcune però ne diremo nel Giornale Arcadico: le quali non potranno già essere secondo il merito vostro e l’alto concetto mio, perché bisognerà che le sieno secondo la rigida e paurosa censura della nostra corte. Ma io ne scriverò quel che più potrassi: e voi farete ragione che il rimanente, comecché sarà cancellato dalla pubbliche carte, non di meno rimarrà impresso nell’animo mio, e in quello di tutti i buoni». 20 Ivi, p. 264. Lettera di Giovan Battista Niccolini del 22 febbraio 1819. 21 Ivi, p. 267. Lettera di Massimiliano Angelelli del 6 marzo 1819. 22 Ivi, p. 275. Lettera di Filippo Schiassi del 12 marzo 1819. 23 Ivi, p. 282. Lettera di Francesco Cassi del 25 marzo 1819. 24 «Ora però la di lei benignità verso di me m’è stata cagione ch’io in lei conosca un nuovo merito, quello cioè di un alto valor poetico come me n’hanno data certa prova le bellissime di lei canzoni». Ivi, pp. 291-292. Lettera di Alessandro Calciati del 1 aprile 1819. Leopardi e leopardiani all’Italia
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Pallastrelli,25 Leonardo Trissimo, Angelo Mai, Giuseppe Montani e dello stesso Monti che scriverà direttamente a Leopardi dicendo: io le ho lette e rilette con piacere incredibile; e non so vedervi altro difetto che l’averle voi intitolate a chi meno lo meritava.26
L’epistolario leopardiano per i mesi di marzo e aprile tributa un plauso unanime alle due canzoni e in modo particolare al suo autore, eppure proprio il parallelo carteggio Brighenti-Giordani sembra complicare il panorama. Il 24 marzo Giordani scrive a Brighenti: ditemi chiaro come siano piaciute costì le Canzoni di Leopardi. In questo mio paese che pur è scuro, hanno veramente sbalordito ognuno. Che diranno cotesti letterati? Crediate a me quel che vi dico (e del mio parere sono già molti di buona fede) questo ragazzo non ha bisogno d’altro che di campare: se campa, crediatemi che ci manda in fumo tutti; compreso Monti e Perticari e Giordani, e se ci fosse che valesse anche più di noi.27
Pur non conoscendo la risposta di Brighenti, dalla successiva lettera del Giordani, capiamo che il bolognese ha riportato giudizi negativi. Tanto è vero che il piacentino afferma: Mi fa meraviglia che non piacciano le Canzoni di Leopardi, le quali ho veduto piacer tanto dappertutto.28
Di fronte all’insistenza giordaniana, Brighenti decide di inviare un esemplare dell’edizione romana di All’Italia e Sopra il monumento di Dante che si prepara in Firenze, con note manoscritte nelle quali raccoglie e documenta le osservazioni fatte dagli intellettuali bolognesi sulle canzoni leopardiane.29
25
«Mi è stata graditissima la copia delle di lei canzoni, ed il gentile foglio che le accompagnava: aggradisca ella egualmente la mia parte d’ammirazione per sì meravigliosi versi, veramente tutti spiranti apollineo fuoco, e patrio amore, onde rallegrarmi seco lei nella certezza che la squallida Italia trarrà qualche conforto dal sublime pianto di sì amoroso figlio nelle sventure sue». Ivi, p. 292. Lettera di Ettore Pallastrelli del 1 aprile 1819. 26 Ivi, p. 263. Lettera di Vincenzo Monti del 20 febbraio 1819. 27 Epistolario di Pietro Giordani edito per Antonio Gussalli compilatore della vita che lo precede, Milano, Borroni e Scotti 1854-1855, vol. V, p. 16. Lettera di Pietro Giordani a Pietro Brighenti del 24 marzo 1819. 28 Ivi, p. 20. Lettera dello stesso a Pietro Brighenti del 25 giugno 1819. 29 Della questione si è occupato per primo Carlo Lozzi che ha pubblicato le sue conclusioni in un articolo de «Il bibliofilo», anno III, n. 7, 1882, pp. 97-100. Si deve a questo studio la scoperta dell’esemplare dell’edizione principe con le osservazioni che sono poi state attriX. Italiani della letteratura: Leopardi
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Carlo Lozzi, nel suo intervento pubblicato nel 1882 su «Il Bibliofilo», trascrive tutte le osservazioni. La prima riguarda la dedicatoria al Monti che viene definita: fuori di luogo, e indegna del dedicante, perché nel suo modo di pensare deve disprezzare il Monti, e perché questo poeta ha fanaticamente lodato quelle cose, contro cui il Leopardi si mostra arrabbiato. Si dice che conoscendo il Monti ha voluto farsene un panegirista, giacché Monti loda chi gli va dinanzi col turibolo, come dice un moderno nell’«Articolo letterario», che parla tanto di Giordani e si esprime, che è il solo che ha saputo parlare a Monti senza incenso. […] tutto è in esse declamazione esagerata e pensieri comuni, senza alcuna bellezza di poesia e di lingua.
Ci sono poi critiche sull’intero impianto delle odi e per quanto riguarda la prima canzone, All’Italia, sui riferimenti all’opera dell’autore greco Simonide. Si dice che, ci sono ora in Italia altre canzoni, che non fanno tanto fracasso e vagliono molto di più.
E lo Strocchi afferma: Bisogna considerare che l’autore è di Recanati, e a Recanati non si può saper tutto, non si può veder tutto.
Le postille dimostrano una difficoltà di penetrazione delle canzoni leopardiane nell’ambiente del classicismo bolognese. Le critiche registrate dal Brighenti fanno emergere l’impossibilità ad accettare espressioni troppo moderne, capaci di uscir fuori dai canoni tradizionali. Agli occhi degli ambienti più convenzionali risulta impossibile un verso come «siede in terra negletta e sconsolata» dal momento che «non si sa intendere in quale terra sieda la Italia, giacché la Italia fatta donna perde la sua terra, ma terra e donna non può stare»; o l’immagine del paese che nasconde la faccia tra le ginocchia e piange.30 Nel verso «Cari, la vostra fama appo le genti» viene criticato l’uso del termine «cari», parola che viene definita «bassa e insignificante». Stessa sorte riguarda il ridenti di «onde ridenti correste al fato lacrimoso e duro?». Brighenti registra la seguente postilla:
buite da Carlo Lozzi e dal Dott. Succi allo stesso Brighenti. Della questione si sono occupati anche Moroncini in una nota alla sua edizione dell’epistolario leopardiano, pp. 275-277 e Novella Bellucci, nel suo Leopardi e i contemporanei. Testimonianze dall’Italia e dall’Europa in vita e in morte del poeta, Firenze, Ponte delle Grazie 1996, pp. 36-37. 30 I versi: «Nascondendo la faccia \ tra le ginocchia e piange» vengono criticati perché ci si domanda: «come si fa a mettere la testa fra le ginoccchia?»; «E nella fausta sorte e nella ria» non viene accettato perché: «quest’ultimo verso contradice la più sopra dipinta situazione: chi è in catene non viene nella sorte ria»; in «Perché, perché? Dov’è la forza antica?» si contesta la ripetizione del «perché». Leopardi e leopardiani all’Italia
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Ridenti: il vero valore non spinge ridenti le genti a morte, ma con cognizione di causa, peggio poi la similitudine della danza e del convito. Tutto ciò sa di inconsiderato e di ubbriachezza. Gli spartani andarono certo con serietà e con dolore, ma vinti dalla necessità della gloria e della patria, in che sta veramente il vero valore e il vero eroismo. È vero che Monti chiama la guerra la danza degli eroi, ma questa immagine è stolta e falsa e inadeguata.
Per un motivo simile vengono definiti «cosa pazza» i due «evviva» del verso 118, corretti da Leopardi nell’edizione napoletana in «oh viva».31 Viene rimproverato a Leopardi di aver dato una rappresentazione poco realistica della guerra, sono inaccettabili espressioni come: «Oh venturose e care e benedette \ le antiche età che a morte \ per la patria correan le genti a squadre»; «Nessuno pugna per te? Non ti difende \ nessun dei tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo»; «dove sono i tuoi figli? Odo suon d’armi».32 In essi emerge un’idea «donchisciottesca» della battaglia, in cui l’eroismo e il patriottismo romantico sembrano prevalere sulla tragicità classica. Uno dei versi maggiormente criticato è «Prima divelte, in mar precipitando, \ spente nell’imo strideran le stelle». Già si sa che una stella non può cadere nel mare, perché il mare non potrebbe contenerla. Cattiva si rileva la parola divelta, perché non si concepisce come si possa divellere una stella. Il figurare qui una stella simile ad un carbone, e il dire che frigge nell’acqua, come appunto un carbone tuffato nell’imo, è idea del tutto seicentesca.
Alcune di queste osservazioni troveranno poi un riscontro anche nelle fasi correttorie successive tanto è vero che il verso contenente il «cari» verrà modificato in: «nell’armi e ne’ perigli \ qual tanto amor le giovanette menti, \ qual nell’acerbo fato amor vi trasse?» e «onde ridenti correste al fato lacrimoso e duro?» viene modificato in «Onde ridenti correste al passo lacrimoso e duro». Il muro che cala tra l’autore recanatese e gli ambienti bolognesi si spiega nel momento in cui si torna alla dedicatoria al Monti. Leopardi richiama direttamente la classicità e l’opera del poeta Simonide. Egli afferma: basterà che intorno al canto di Simonide che sta nella prima canzone io significhi non
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La postilla riferita a questo verso afferma: «Questo evviva evviva, è cosa pazza a fronte del tartaro e dell’onda morta, che sono idee gravissime e savie». 32 In riferimenti ai versi presi in considerazione le postille recano scritto: «Questa cosa è accaduta anche a quelli che pugnavano per Bonaparte, onde non basta; e la felicità non si sta dove le genti muoiono a squadre»; «Descrive che non sa dove siano i nemici né quali, e non vedendoli, e non sapendoli, chiede l’armi per pugnar solo. È la pugna di D. Chisciotte col mulino a vento»; «Non ricordo alcuna osservazione, benché ne siano state fatte». X. Italiani della letteratura: Leopardi
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per voi, ma per li più de’ lettori, e domandandovi perdono di questo, ch’io mi fo coraggio e non mi vergogno di scriverlo a voi che questo gran fatto delle Termopili fu celebrato realmente da un poeta greco di molta fama, e cioè Simonide, […]. imperocché quello che raccontato o letto dopo ventitre secoli, tuttavia spreme da occhi stranieri le lagrime a viva forza, pare che quasi veduto, e certamente udito a magnificare da chicchessia nello stesso fervore della Grecia vincitrice di un’armata quale non si vide in Europa se non allora, tra le meraviglie, i tripudi, gli applausi, le lagrime di tutta una eccellentissima nazione sublimata oltre a quanto si può dire o pensare dalla coscienza della gloria acquistata e da quell’amore incredibile della patria ch’è passato in compagnia de’ secoli antichi, dovesse ispirare in qualsivoglia greco, massimamente poeta, affetto e furore onninamente indicibile e sovrumano. Per la qual cosa dolendomi assai che il sovraddetto componimento fosse perduto alla fine presi cuore di mettermi, come si dice, nei panni di Simonide.
Sulla questione si misura la distanza maggiore tra il poeta recanatese e gli ambienti del classicismo bolognese tanto è vero che una postilla riportata da Brighenti reca scritto «è menzogna che abbia usato il canto di Simonide. Egli anzi mostra di non averlo punto curato». Giordani continua ad essere una voce fuori campo e nella sua replica conferma la sua ammirazione, difende le scelte del recanatese proprio attorno alla questione di Simonide e promette di spiegare puntualmente i passi contestati ribadendo la grandezza di Leopardi. Nella lettera del 6 luglio 1819 afferma: quell’infelice creperà. Ma se per disgrazia non muore, ricordatevi quel che vi dico io, che non si parlerà più di nessun ingegno vivente in Italia: egli è d’una grandezza smisurata, spaventevole. Non vi potete imaginare quanto egli sia grande, e quanto sa a quest’ora: chi dice che a Recanati non si può saper tutto, scusatemi, non sa quel che si dica. Imaginatevi che Monti e Mai uniti insieme, siano un dito del piede di quel colosso: ed ora non ha 21 anni!33
Da dove deriva questa vicinanza, questa lungimiranza del Giordani che a dispetto del coro delle voci critiche continua a sostenere il lavoro del giovane poeta recanatese? Non si tratta soltanto di amicizia, o di comunanza di ideali, ma Giordani vede in Leopardi la realizzazione vivente di un programma culturale, di una medesima visione della classicità e della letteratura, di una precisa idea di intellettuale. Ciò si evidenzia ripercorrendo alcune delle scelte operate da Giordani in quegli stessi anni, a partire dalla discussione attorno ad un luogo del carme LXVI di Catullo. La polemica aveva avuto il suo apice con la pubblicazione del commento di Ugo
33 Epistolario di Pietro Giordani edito per Antonio Gussalli compilatore della vita che lo precede cit., pp. 24-27. Lettera a Brighenti del 6 luglio 1819.
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Foscolo alla Chioma di Berenice34 e le Lettere filologiche sul cavallo alato di Arsinoe del Monti.35 Giordani, da Bologna, si inserisce nel pieno della polemica pubblicando, nel 1806, L’Arpia messaggera. Egli sostiene che il cavallo alato di Arsinoe non è uno struzzo come afferma il Monti, ma un’arpia. È evidente come la materia trattata sia un pretesto per parlar d’altro, dato che, con l’intento di difendere la propria opinione, Giordani afferma che il mondo, pur essendo pieno di arpie, non riesce a vederle perché esse nascondono le ali sotto i «panni», le unghie sotto «bei guanti» e mascherano il fetore con il profumo. Lo scritto sembrerebbe attaccare il Monti, ma in realtà Giordani se la prende un po’ con tutti coloro che a suo dire sono «dimestiche, lusinghiere, assidue, confidenti» frequentatrici delle corti dei principi, delle mense e dei gabinetti dei potenti. Lo scritto giovanile in realtà diventa una parodia delle dispute filologiche, di coloro che vengono accusati di «filoleria», studiosi delle «inezie» più che della «parola». Ad essi viene imputato di far mostra di vacua erudizione, di una cultura per certi aspetti superficiale. La serie di pratiche filologiche del Giordani inizia proprio da questo momento. È il caso delle riflessioni sulla lingua del De Architectura di Vitruvio e dello scritto Sopra un luogo di Arnobio. Troviamo in questo abbozzo l’embrione del purismo giordaniano, «patriottico»36 secondo la definizione di Timpanaro, opportunità di rafforzare l’indipendenza di un paese. Occorre mantenere alto l’onore degli studi per ritrovare il valore della nazione. Giordani desidera creare una «storia dello spirito pubblico italiano» a partire dalla lingua e per questo attribuisce alla filologia il compito di restituire affidabilità ai testi, curando edizioni corrette e filologicamente attendibili e permettendo così di ritrovare gli autori della tradizione letteraria nella loro veridicità. La seconda tappa del percorso giordaniano si svolge a Milano dove Giordani vive proprio negli anni di diffusione delle canzoni leopardiane. Gli scritti polemici e ironici bolognesi sono ormai alle spalle e dalla ricostruzione degli anni milanesi emerge il profilo di un intellettuale che, abbandonando le sembianze dell’erudito di stampo settecentesco, propone una nuova figura di letterato. È il momento della polemica tra classicisti e romantici e si deve riconoscere al purista Giordani di aver tradotto l’intervento della De Staël e avere in questo modo avviato il dibattito sul romanticismo. Il piacentino individua sin da subito come la portata dell’articolo sia molto più ampia e allarghi il proprio raggio d’azione al di là dell’importanza delle traduzioni e individui i punti di forza e di debolezza della nostra tradizione lettera-
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La chioma di Berenice. Poema di Callimaco tradotto da Valerio Catullo, volgarizzato ed illustrato da Ugo Foscolo, Milano, dal Genio Tipografico 1803. 35 Del cavallo alato di Arsinoe, Lettere filologiche di V. Monti al cittadino G. Paradisi, consultore di stato, Milano, 1804. 36 S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi 1973, pp. 65-67. X. Italiani della letteratura: Leopardi
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ria. Ancora una volta l’intervento è occasione per parlare d’altro, per spingere a quel rinnovamento della cultura italiana che possa produrre un avanzamento dello spirito pubblico. Egli fa sua la stroncatura della poesia d’occasione, di quel «mezzo milione» di improvvisati poeti che pretendono di fare versi, ma che in realtà non fanno altro che produrre vacua erudizione. Giordani è attento a proporre la sua alternativa: il rinnovamento della tradizione letteraria italiana va perseguito guardando al passato, rivolgendo l’attenzione a quelle letture, a quegli autori fondamentali per la formazione degli intellettuali e dell’intera nazione. I giovani «studino e imparino ciò che a loro e alla patria giovi sapersi», è questa l’esortazione che sta alla base del programma culturale per l’Italia. Gli italiani, divisi e sottoposti alle dominazioni straniere, devono recuperare il «comune vincolo» della lingua che deve risorgere grazie all’azione dei filologi e all’opera di educazione della popolazione. Le traduzioni sono una via privilegiata di confronto tra antichi e moderni e l’analisi filologica di questi testi impone metodologicamente anche la riflessione sul contesto storico in cui le opere sono nate e sono state pubblicate. Il metodo giordaniano implica così, in modo automatico, un’azione di ricostruzione storica e culturale. Nel Leopardi che sceglie di mettersi nei panni di Simonide e di entrare nel cuore di quel passato per renderlo presente, che non trova la comprensione dei contemporanei proprio per la sua capacità di compiere salti in avanti, Giordani individua quella figura di intellettuale che cerca e teorizza nei suoi scritti: grande e stupendo uomo siete voi già? Quale onore e forse ancora quanto bene siete destinato a fare alla nostra povera Madre Italia! Coraggio. Coraggio. Le vostre canzoni girano per questa città come fuoco elettrico tutti le vogliono, tutti ne sono invasi. Non ho mai (mai mai) veduto né poesia né prosa, né cosa alcuna d’ingegno tanto ammirata ed esaltata. Si esclama di voi, come di un miracolo. Capisco che questo mio povero paese non è l’ultimo del mondo, poiché pur conosce il bello e raro. Oh fui pure sciocco io quando (conoscendovi anche poco) vi consigliavo ad esercitarvi prima nella prosa che nei versi; ve ne ricordate? Oh fate quel che volete: ogni bella e grande cosa è per voi: voi siete uguale a qualunque altissima impresa. Oh quanto onore avrà da voi la povera Italia e forse ancora quanto bene.37
37 G. Leopardi, Epistolario cit., vol. I, pp. 245-247. Lettera di Pietro Giordani del 5 febbraio 1819.
Leopardi e leopardiani all’Italia
CHIARA PIETRUCCI Leopardismi patriottici nella poesia di Caterina Franceschi Ferrucci
Per quanto riguarda lo scenario letterario italiano, il leopardismo di prima battuta, appena successivo alla morte del poeta, si strutturò principalmente in due correnti, quella patriottica e quella lirico-elegiaca. La ricezione femminile si concentrò generalmente su quest’ultima: lettrici e poetesse si appassionarono alla vicenda leopardiana, enfatizzandone l’aspetto di amante non ricambiato ed infelice, emblema della condizione di subalternità della donna, e più in generale di ogni animo eletto, incompreso ed escluso.1 In questo scenario fa eccezione Caterina Franceschi Ferrucci, poetessa e scrittrice umbra formatasi in territorio marchigiano, tra Osimo e Macerata. La prima attestazione della lettura delle Canzoni da parte della giovane letterata è contenuta nella lettera che Francesco Puccinotti, comune amico, inviò a Leopardi, a Bologna, il 2 aprile 1826. Il medico, da Macerata, scrive: Noi leggiamo spesso insieme le tue Canzoni ed ella ci si imparadisa.2
L’apprezzamento di Puccinotti e soprattutto l’imparadisarsi della giovane Caterina è davvero insolito se confrontato con il panorama della ricezione di questo libro, che ci è noto tramite interventi coevi, pubblici come articoli su rivista, o privati, tratti dalla corrispondenza dei letterati del tempo. La reazione dell’intellighenzia alle Canzoni fu tiepida, quando non offensiva, parziale e censoria. Ecco cosa scrivevano a Pietro Brighenti Dionigi Strocchi e Giovanni Roverella, letterati bolognesi, a proposito di All’Italia:
1
Cfr. i capp. 3-4 di N. Bellucci, Giacomo Leopardi e i contemporanei, Firenze, Ponte alle Grazie 1998, pp. 225-264. 2 G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati-Boringhieri 1998, vol. II, p. 1135. Leopardi e leopardiani all’Italia
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Chiara Pietrucci
Di fronte al verso «siede in terra negletta e sconsolata», Brutta e bassa pittura. Non si sa intendere in quale terra sieda la Italia giacché la Italia fatta donna perde la sua terra, ma terra e donna non può stare.
E a proposito di «nascondendo la faccia / tra le ginocchia e piange», Come si fa a mettere la testa fra le ginocchia?3
Del «Procomberò sol io», che avrebbe scatenato anche la malignità di Tommaseo, commentarono che era vago e confuso e paragonabile alla guerra di Don Chisciotte contro i mulini a vento. Le critiche più moderate, di natura linguistica, e le cautissime aperture, ad esempio di Giulio Perticari, spinsero Leopardi ad intervenire sul Ricoglitore del settembre 1825 con le ironiche Annotazioni, in cui giustificava le proprie scelte lessicali, dimostrando di aver attinto ai classici della tradizione. Immutato il clima negli anni a venire con la pubblicazione in volume delle dieci Canzoni. Pietro Brighenti lo sottolinea nel famoso giudizio del novembre 1824: Ad usare il linguaggio dell’amicizia […] qui da noi [a Bologna] alcuni hanno voluto eccepirle come talvolta oscure, e tal’altra ritornanti agli stessi pensieri.
Saranno i giovani, le nuove generazioni, non solo del ventesimo secolo, come aveva tristemente intuito il poeta, ma ancor prima del diciannovesimo, quei volontari corsi a squadre in Lombardia a combattere l’invasore, ad apprezzare e a trasfigurare con la voce dell’ideale quei testi che le «vecchie» generazioni avevano accolto con sufficienza. Forse Caterina aveva letto All’Italia e Sopra il monumento di Dante già nell’edizione del 1818, poiché agli inizi del ’24 scriveva una terzarima di argomento velatamente patriottico intitolata All’Italia, che ha ancora poco in comune con gli ardori degli anni Quaranta, ma fu in ogni caso pubblicata nella primavera del 1824 sul «Giornale Arcadico». Le fonti lessicali in cui ci imbattiamo immediatamente sono la Commedia e le Rime dantesche, insieme alla canzone Italia mia di Petrarca, ma in essa si intravede già qualche richiamo leopardiano: O Italia, o dolce suolo, a me diletto sì caramente tu pietà m’ispiri
3 Per approfondimenti sulla ricezione di Leopardi, si veda il volume di N. Bellucci, Giacomo Leopardi e i contemporanei cit.
X. Italiani della letteratura: Leopardi
Leopardismi patriottici nella poesia di Caterina Franceschi Ferrucci
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e d’immenso dolor m’aggravi il petto: perché mesta ti veggio, e ne’ sospiri l’ore traendo d’allegrezza prive in fra tombe e ruine il passo aggiri.4
La personificazione dell’Italia è un elemento già della tradizione trecentesca, ma le è estraneo il camminare pensoso «in fra tombe e ruine», che ricorda invece i versi d’apertura della leopardiana All’Italia, quelle «mura», «le colonne e i simulacri e l’erme / torri degli avi nostri», privi della gloria degli antichi. Di un’immagine simile la Franceschi Ferrucci si servirà anche nella poesia Alla gioventù italiana. Per comprendere lo scopo e l’esito, la forza politica e la pertinenza delle sue canzoni patriottiche, è opportuno integrarle con la lettura dei suoi numerosi articoli su rivista coevi. Ne riportiamo i titoli: Osservazioni e giudizi sugli avvenimenti politici toscani del 1847; Osservazioni e giudizi su gli avvenimenti politici di Livorno, Alcune parole in difesa del battaglione universitario toscano, il pamphlet Della repubblica in Italia considerazioni, Il battaglione universitario toscano, Risposta delle donne pisane alle donne lombarde e Indirizzo delle donne fiorentine per l’albo in onore di Vincenzo Gioberti, tutti datati 1848. Caterina intendeva infatti lo scrivere, un formare (o scuotere, in molti casi) le coscienze, niente meno di un combattere senz’armi. Come si evince dai titoli appena ricordati, negli anni ’47-’48 Caterina è ormai una protagonista affermata della cultura toscana. Ma ben prima di allora, la partecipazione ideale ai moti del Trenta-Trentuno dei coniugi Ferrucci e in particolare una canzone di lei, I polacchi in Siberia, costarono loro l’esilio dallo stato pontificio e li costrinsero a riparare a Ginevra. Rientrati in Italia nel 1844, si erano stabiliti a Pisa, rifugio per molti intellettuali in fuga, tra cui gli amici Francesco Puccinotti e Leopoldo Pilla. Da questa città ella vedrà partire volontari, il 22 marzo del 1848, suo marito e suo figlio, arruolati tra le fila del Battaglione universitario toscano.5 A Pisa ella scrisse le Osservazioni e giudizj sugli avvenimenti politici toscani, lettera aperta al letterato forlivese e amico Antonio Montanari, datata 5 ottobre 1847. Dal mese di agosto infatti, si erano susseguiti tumulti ed agitazioni popolari di stampo democratico, in particolar modo a Livorno, guidati da Guerrazzi. In questo testo Caterina ribadisce la fedeltà dei «buoni», ossia dell’establishment
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C. Franceschi Ferrucci, All’Italia; in morte del cavalier Giuseppe Tambroni in «Giornale Arcadico», XXII (1824), 2, pp. 96-100. 5 «Qui i volontari corrono in folla; mio marito e mio figlio sono partiti col Battaglione degli studenti sin dal 22. Immagini con qual cuore io sia qui rimasta» (lettera di Caterina Franceschi Ferrucci a Vincenzo Gioberti del 27 marzo 1848 conservata nella Biblioteca Civica di Torino cit., in G. Chiari Allegretti, L’educazione nazionale nella vita e negli scritti di Caterina Franceschi Ferrucci, Firenze, Le Monnier 1932, pp. 166 e ss.). Leopardi e leopardiani all’Italia
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colto dei professionisti e dell’università, al granduca Leopoldo II, con un rimando concettuale alla canzone Alla gioventù italiana che l’autrice stava elaborando in quel periodo: «Da lungo tempo lo straniero di noi si ride, chiamandoci inetti alla gravità degli uffici civili per quello imperio, che spesso su noi tiene la fantasia».6 Nelle poesie della Franceschi non vince la contemplazione di un passato glorioso, che sia dei Greci alle Termopili, dei fasti romani, o della vivace vita comunale italiana: lo sguardo è puntato soprattutto sul presente, e su un futuro di rinnovamento visto come prossimo; la convinzione di poter fare l’Italia, di poterla realmente liberare dall’oppressore. L’accostarsi ai testi leopardiani viene caricato di un patriottismo estraneo non soltanto al poeta recanatese, ma soprattutto al periodo nel quale furono prodotte e pubblicate le sue rime di più dichiarato intento civile. Al contrario, la fiducia della Franceschi è inoppugnabile, perché si è sostenuti da sovrani illuminati, e da un Papa liberale, come l’elezione al soglio pontificio di Giovanni Maria Mastai Ferretti e le riforme del biennio ’46-’47 lasciavano supporre. Il foglio di guardia della canzone Alla gioventù italiana reca una dedica significativa: Il profitto di quest’edizione [6 crazie] è offerto dall’Autrice alla GUARDIA CIVICA di Pisa per il suo armamento.
All’istituzione della guardia civica Caterina dedicò addirittura un componimento, L’unione dei popoli italiani. Il 5 settembre 1847, simbolica data posta in calce alla canzone, fu giorno di festa a Pisa e in molte altre città italiane, in onore delle «cittadine spade» foriere di «nova letizia». In questa canzone l’Italia è una donna piangente, come quella leopardiana, ma non inconsolabile: può anzi riscuotersi perché sostenuta da un pontefice illuminato, Pio IX, cui spettano grandi imprese e per aver assistito all’unione dei cittadini in un nuovo corpo di milizia. Il fronte da combattere è sempre duplice: da una parte la minaccia esterna, lo straniero, che «tra noi superbo vincitor s’assise, / e al furor nostro rallegrossi e rise»; dall’altra nemici invisibili che gettarono l’Italia in guerre fratricide, ossia l’«ira» e la «discordia»: ed è questo un tema peculiare della riflessione della Franceschi Ferrucci. Si tratta con tutta probabilità di un’allusione ai tumulti popolari toscani, in particolare livornesi, che rischiavano di vanificare gli sforzi dei moderati verso le riforme e l’indipendenza, che Caterina stigmatizza nei suoi interventi su rivista, definendosi sostenitrice ed amica della libertà ma nemica della licenza. Alla gioventù italiana, pubblicata nel novembre del 1847, è probabilmente la can-
6 C. Franceschi Ferrucci, Degli avvenimenti politici di Toscana in Id., Scritti letterari, educativi e patriottici a cura di G. Guidetti, Reggio Emilia, Tipografia Guidetti 1932, p. 78.
X. Italiani della letteratura: Leopardi
Leopardismi patriottici nella poesia di Caterina Franceschi Ferrucci
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zone più esibitamente leopardiana, ricca di stilemi ed espressioni desunte dalle canzoni del poeta di Recanati, in particolare dalle prime cinque, le più celebri. In questo testo poetico infatti troviamo 10 occorrenze desunte da All’Italia; da Ad Angelo Mai 6; 5 da Nelle nozze della sorella Paolina; 2 da Sopra il monumento di Dante; 1 da A un vincitore nel pallone. Chiaramente non può mancare un riferimento al fortunato chiasmo dell’incipit di All’Italia («O patria mia, vedo le mura e gli archi / e le colonne e i simulacri e l’erme / torri degli avi nostri, / ma la gloria non vedo»), disarticolato in una struttura più complessa e meno incisiva che unisce, dopo una lunga digressione, il primo verso, «Veggo i templi vetusti e veggo i marmi» ai versi 8-9: «Ma ov’è il forte volere? Ove son l’armi, / e di lode e d’onor l’alto desio?», peraltro debitori delle interrogazioni leopardiane «Dov’è la forza antica, / dove l’armi e il valore e la costanza? / chi ti discinse il brando? / chi ti tradì?». La «mente ardita» del verso 10 ricorda l’«italo ardito», la «ligure ardita prole», utilizzati dal Leopardi per descrivere non soltanto il cardinale Angelo Mai, «scopritor famoso» del palinsesto del De re publica di Cicerone, ma anche i nostri illustri antenati, in particolare Cristoforo Colombo. Caterina utilizza una risorsa retorica cara al gusto romantico: fa intervenire in prima persona uno straniero «sdegnoso», che si fa beffe degli italiani passeggiando ed ammirando le loro rovine gloriose. Egli pensa «con riso amaro e con pietà crudele» al popolo che potrebbe godere e possedere tutto questo e invece si lascia dominare da altre potenze. La risposta è affidata a quelle stesse rovine che, avendo ascoltato le meditazioni dello straniero rispondono, eloquenti pur nel loro silenzio: Dorme Italia nel fango, in van s’affida destar la luce degli andati tempi, Misera! Piange invano L’alte gesta degli avi, e i chiari esempi, se qual chi soffre o stassi, in molli piume libertade aspetta, e non ha sdegno e mano delle barbare offese a far vendetta.
«Langue in ozio codardo, in rea paura / l’uomo avvilito» scrive la Franceschi Ferrucci. E l’ozio, come rifiuto della virtus guerresca e di gesta eroiche, è certamente tema leopardiano, nei cui componimenti ricorre spesso questo vocabolo: «ozio circonda / i monumenti vostri», «ozio turpe» (da Ad Angelo Mai), «così l’eterna Roma / in duri ozi sepolta» (Nelle nozze della sorella Paolina). Un’altra figura comune ai due poeti è l’Italia come donna piangente, allegoria della lirica civile, dal Petrarca al Filicaia, dal Monti a Leopardi. Non mancano leopardismi che vanno ad assumere connotazioni di significato completamente opposto, soprattutto nella seconda metà della canzone Alla gioventù italiana. La «prole», nuova generazione in odore di codardia congenita nel riferimento che la riguarda in Nelle nozze della sorella Paolina, per la Franceschi diventa Leopardi e leopardiani all’Italia
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«nata a invitti destini Itala prole, / a te fortuna amica / la via dischiude di virtù, d’onore». Ad aumentare il discrimen di significato, basti ricordare che nella stessa canzone alla sorella, Giacomo scriveva lapidario: «che di fortuna amici / non crescano i tuoi figli». L’Italia si è rinnovata. Grazie a questa nuova generazione la patria si salverà, risorgerà dalle ceneri il «tricolor vessillo», tornerà florida la bellezza per lungo tempo appannata di «queste alme contrade», con un’espressione di nuovo cara a Leopardi, nelle cui canzoni spesso ricorre l’aggettivo «alma» in riferimento alla patria: «alma terra natia», «alma terra», «quest’alma terra». La Franceschi, qui educatrice prima ancora che poetessa, esorta i giovani agli atti di nobile virtù militare indispensabili a porre fine all’odiosa sudditanza. Ma in primo luogo essi devono far proprio l’inestimabile tesoro della cultura, come i loro omologhi greci che a Maratona sconfissero lo sterminato esercito persiano portando con sé le cetre, oltre che le spade. Il rinnovamento italiano, in prima istanza, è voluto da Dio. Dio è «luce e amore» e sostiene chi dedica la propria esistenza alla giustizia ed alla carità. Questi i temi conclusivi di Alla gioventù italiana. Facilmente si comprende che, pur essendo ancora presenti punti di contatto tra alcune parti delle ultime strofe e i versi di Leopardi (anche se in maniera minore rispetto alle strofe iniziali), ogni rimando che non sia puramente stilistico appare inutile e quasi fuorviante. Le premesse concettuali dei due poeti sono molto simili: entrambi intendono denunciare l’appannamento degli ingegni, il sonno delle coscienze di fronte all’ingiusta oppressione del tiranno. Ma le differenze si acuiscono nettamente al momento di tirare le fila del discorso. Leopardi, per usare un’espressione pirandelliana, «non conclude», in quanto la canzone All’Italia si chiude con un debito ma sterile omaggio al coraggio e all’amor di patria dei Greci; nei versi finali di Ad Angelo Mai il poeta mantiene il suo ferreo disprezzo per i contemporanei definendo la sua epoca «secol di fango», in cui i morti sono morti e i vivi addormentati e pare nutrire scarse speranze di possibili smentite; la chiusa della canzone Nelle nozze della sorella Paolina è un ricordo nostalgico dell’antica Roma. Con simili premesse è ovvio che Caterina non possa attingere dalle canzoni di Leopardi per esprimere la sua profonda fiducia nelle nuove generazioni e la sua speranza in un futuro di libertà per l’Italia. Termini appartenenti al lessico leopardiano, dunque, furono svuotati dell’accezione originaria e riadattati ad esprimere una visione «provvidenziale» della storia che poco o nulla ha in comune con quella del poeta recanatese. Certamente Caterina non era sostenuta da un’utopistica fiducia nell’avvenire. Non era caduta, come tanti intellettuali stigmatizzati da Leopardi, nella trappola delle «magnifiche sorti e progressive». Ma era certa di star contribuendo ella stessa, e con fatica, al rinnovamento della nazione avvicinando le donne e i giovani all’amor di patria e al valore, nonché al cattolicesimo. I primi risultati li aveva osservati X. Italiani della letteratura: Leopardi
Leopardismi patriottici nella poesia di Caterina Franceschi Ferrucci
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nel suo «laboratorio» privilegiato, la famiglia, attraverso il suo «esperimento» più riuscito, l’educazione dei figli. Neanche un anno dopo, le sue speranze troveranno infatti riscontro, non soltanto negli atti eroici del figlio Antonio, valoroso combattente al fianco del padre Michele ed alle centinaia di giovani che partirono dalle loro città lasciando studi e professioni per combattere gli austriaci a Curtatone e Montanara, ma anche nelle piccole pazzie della figlia tredicenne, Rosa, accampata in giardino in attesa di notizie di vittoria. In alcune celebri lettere indirizzate a Gioberti, Caterina scrive infatti con preoccupazione mista ad orgoglio: «Rosa mi chiese in grazia di farla dormire per una notte in giardino, onde avvezzarsi alla vita militare […]. Se questa figliuola non si calma non so come fare».7 Concludo facendo presente che queste canzoni furono accolte con favore dai contemporanei. Sul «Giornale Arcadico» di cui Caterina era corrispondente da Pisa, nel 1848 viene recensita Le donne italiane agli italiani redenti. La canzone della Franceschi era uscita in quei mesi in un volumetto di poche pagine. Il compilatore anonimo dell’«Arcadico» la fa precedere da questa nota: Noi non sappiamo se l’italiana poesia abbia dato mai cosa più sublime di questo canto. L’altissima donna ha cercato certo nel suo gran cuore ciò che aveavi di più generoso, di forte, d’italiano, per tutto versarlo in questa incomparabile poesia.8
Un’attestazione di stima che, se in qualche misura prescinde dalla reale consistenza del valore poetico in campo, certo rende giusto merito a questa straordinaria figura di donna del nostro Risorgimento.
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Stralci di lettere pubblicate in: C. Franceschi Ferrucci, Una donna italiana nel 1848: lettere inedite, a cura di I. Ciancarelli, Rieti, Tipografia Trinchi 1907, pp. 31 e ss. 8 «Giornale Arcadico di scienze, lettere e arti», CCCILII (1848), 113, pp. 112-114. Leopardi e leopardiani all’Italia
IRENE BACCARINI Echi leopardiani in Federico De Roberto
L’interesse di Federico De Roberto per Giacomo Leopardi non è certo un argomento nuovo nella critica letteraria, anche perché testimoniato esplicitamente dal saggio biografico intitolato appunto Leopardi, che lo scrittore catanese pubblicò nel 1898. Tuttavia, per numerosi motivi appare interessante approfondire l’argomento: il poeta di Recanati, infatti, rientra anche in altri modi, più nascosti ma forse più significativi, nell’opera di De Roberto. Sarà allora utile soffermarsi sulle ragioni di questo dialogo a distanza, per vedere cosa lo scrittore siciliano trovi in Leopardi. Più che come modello o come punto di riferimento stabile, l’autore dei Canti si presenta come un interlocutore problematico ma necessario per un relativista come De Roberto. Così, nonostante li separi un secolo, i due autori si trovano uniti da una uguale e diversa coscienza della crisi.1 I. L’analisi del saggio Leopardi sembra un punto di partenza quasi obbligato, non solo perché, come si diceva, testimonia esplicitamente l’interesse di De Roberto per Giacomo Leopardi, ma anche perché si situa in un momento particolare della storia della critica leopardiana. Il saggio esce infatti nel 1898, in occasione del centenario della nascita del poeta, anno in cui il dibattito critico appare ugualmente minacciato tanto dalle indagini di stampo positivista quanto da quelle esaltazioni retoriche, volte soltanto a oscurare i contenuti più destabilizzanti dell’opera leopar-
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Proprio a partire da questo punto ha sviluppato la sua indagine Marziano Guglielminetti, il quale ha osservato come De Roberto abbia letto Leopardi «riferendosi alla sua generazione “malata”, che sta già abbandonando il socialismo e guarda al patriottismo come a cosa lontana»: cfr. il capitolo Il male di fine secolo e i suoi maestri, in Gertrude, Tristano e altri malnati. Studi sulla letteratura romantica, Roma, Bonacci 1988, pp. 185-196. Leopardi e leopardiani all’Italia
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diana. Da una parte e dall’altra, insomma, non emergono contributi interessanti che possano portare ad una autentica comprensione del complesso messaggio di Leopardi. Antonio Di Grado ha osservato attentamente il momento positivista della critica leopardiana di fine Ottocento, analizzando anche il legame tra la monografia derobertiana e la cosiddetta “scuola antropologica”.2 Nonostante questi legami, come afferma anche Nino Borsellino, «la monografia di De Roberto […] non è un lavoro di circostanza. Riflette una pratica di lettura e l’assimilazione di un’esperienza poetica e filosofica con cui da tempo certamente lo scrittore aveva familiarizzato».3 È proprio su questa “familiarizzazione” che conviene soffermarsi, per capire le ragioni di questo dialogo spirituale. Dopo aver letto il saggio di De Roberto, infatti, ci si chiede quanto di sé l’autore abbia trasposto nella figura di Leopardi, operando quasi una sovrapposizione di immagini. La monografia si presenta articolata in due parti: nella prima De Roberto si concentra su L’uomo, analizzandone L’indole, L’educazione, e L’esperienza; nella seconda parte, invece, vengono messe in luce le componenti del Pensiero, Il pessimismo e L’ironia. I primi due capitoli della prima parte vogliono sottolineare entrambi le componenti antitetiche della personalità leopardiana; alla base dell’indole del poeta, infatti, De Roberto scorge quel dissidio tra sentimento e speculazione filosofica che sarà per lui fonte di sofferenza: Il Leopardi è un poeta sensibilissimo, ma c’è anche in lui un freddo speculatore; e appunto per questa complessità della sua mente egli è molto più infelice che non sarebbe se fosse soltanto poeta troppo vibrante. […] dentro di lui si urtano e lottano due anime diverse di tempra, ma egualmente gagliarde. […] E tutta la storia della sua vita morale è piena dei dolori prodotti dal dissidio tra il sentimento e lo spirito, tra la fantasia e la ragione.4
Il contrasto insito nello spirito leopardiano viene in qualche modo alimentato dalla sua educazione: classicismo e romanticismo, sono, secondo De Roberto, «non soltanto due scuole letterarie, ma due stati della coscienza e quasi due diverse
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A. Di Grado, Federico De Roberto e la «scuola antropologica». Positivismo, leopardismo, verismo, Bologna, Patron 1982. De Roberto, nonostante la presenza nel suo saggio di alcuni legami con l’ambiente, prese apertamente le distanze da un certo tipo di studi. Lo scrittore fu tuttavia accusato di plagio dallo studioso Mariano Luigi Patrizi, il quale nel 1896 aveva pubblicato un Saggio psico-antropologico su Giacomo Leopardi e la sua famiglia. Sull’argomento cfr. P. Meli, Una polemica di fine Ottocento: accusa di plagio per il ‘Leopardi’ di Federico De Roberto (con due lettere inedite di De Roberto a Carducci), in «Otto/Novecento», 3 2005, pp. 93-100. 3 Cfr. la prefazione di Nino Borsellino a F. De Roberto, Leopardi, Roma, Lucarini 1897, pp. 1-10: 6. 4 Ivi, p. 24. X. Italiani della letteratura: Leopardi
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qualità d’anime».5 Una diversa educazione intellettuale avrebbe potuto placare il dissidio interiore del poeta, ma «l’avvelenamento romantico»6 non fa che esasperare ulteriormente la sua facoltà immaginativa, che gli rende odiosa la realtà. E così, «egli lotta con se stesso: è classico e romantico a un tempo, è attratto dall’una all’opposta parte».7 Questa situazione “avversativa”, come la potremmo definire, per la quale il poeta è sempre in contrasto con se stesso, costretto quasi a smentire le verità a cui arriva, viene ribadita più volte nel corso della biografia e viene presentata quasi come chiave di lettura della personalità di Leopardi. L’infelicità di quest’anima, già predisposta alla sofferenza, viene determinata dall’esperienza: questo capitolo è centrale nel saggio e si presenta proprio come anello di congiungimento tra la prima parte e la seconda. Questo è anche il capitolo che forse più risente di un’indagine di tipo positivista, perché è qui che si analizzano le vicende biografiche del poeta, l’ambiente familiare, la salute debole, le delusioni amorose:8 a partire da tutte queste esperienze deludenti, matura, secondo De Roberto, il pessimismo leopardiano, che lo scrittore siciliano fa ruotare attorno al concetto di illusione. «L’immaginazione lo ha troppo illuso» e, d’altra parte, «l’esperienza lo ha troppo deluso»:9 proprio sul binomio esperienza-illusione si innesta la riflessione dello stesso De Roberto, che verrà incarnata dai suoi personaggi più riusciti. In questo modo, dunque, lo studio su Leopardi rappresenta un momento per riflettere sul suo stesso percorso gnoseologico: forse inconsapevolmente o forse invece
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Ivi, p. 29. Questa considerazione, che appare assai moderna, si ritrova anche nel saggio Leopardi e Flaubert, apparso sul «Fanfulla della domenica» il 22 agosto 1886. I due autori vengono appunto accomunati da questa indole romantica: «Sia qualsivoglia il significato della parola romanticismo applicata a designare una scuola letteraria, essa indica anche una situazione psicologica, non certo unicamente manifestatasi fra le generazioni che si sono successe nella prima metà del nostro secolo. […] Una specie d’ipertrofia dell’immaginazione che si compiace nel creare miraggi magnifici ed inafferrabili, che è sempre in attesa di avvenimenti straordinari e di sentimenti sovrumani, al confronto dei quali ogni realtà diventa sciatta e meschina: tale è il predominante carattere di questa condizione di spirito, causa di disinganni continui e di uno scontento irrimediabile. Leopardi e Flaubert sono entrambi romantici, nel senso psicologico della parola», F. De Roberto, Romanzi novelle e saggi, a cura di C.A. Madrignani, Milano, Mondadori 2004, pp. 1589-1590. 6 F. De Roberto, Leopardi cit., p. 43. 7 Ivi, p. 41. 8 L’amore è uno dei temi centrali nella riflessione critica di De Roberto, come dimostra anche il saggio L’Amore. Fisiologia. Psicologia. Morale, Milano, Galli-Chiesa-Omodei-Zorini-Guindani 1895. Già dal titolo si comprende quanto il trattato sia legato alla cultura e all’ambiente positivista: arrivando addirittura ad una formula dell’amore, lo scrittore cerca di dimostrare l’impossibilità della relazione amorosa tra uomo e donna per una incompatibilità sessuale di fondo, dovuta soprattutto alla superiorità biologica del maschio e alla freddezza della femmina. 9 F. De Roberto, Leopardi cit., p. 65. Leopardi e leopardiani all’Italia
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volontariamente, nella sua interpretazione di Leopardi De Roberto ci fornisce la chiave di lettura della sua stessa opera. Dopo aver esaminato i caratteri del pessimismo leopardiano, la misantropia, lo scetticismo, lo scrittore si sofferma sull’ironia come risposta a questo pessimismo: «il riso del Leopardi è più disperato della sua stessa disperazione»10 e, attraverso il riso, il poeta può arrivare ad essere indifferente alla morte. In questo riconoscimento dell’ironia come manifestazione ultima del pessimismo leopardiano sembrerebbe che De Roberto possa concludere il suo ritratto biografico. Tout se tient potrebbe dire il lettore convinto dal percorso logico dello studioso: una filosofia pessimistica maturata dall’assommarsi di vicende dolorose, vissute da un’indole già di per sé contrastata. Eppure De Roberto nell’epilogo sembra voler andare oltre il legame che egli stesso ha dimostrato tra filosofia pessimistica ed esperienza personale: lo scrittore cerca di ribadire il valore universale del pensiero leopardiano e, in parte, esce allo scoperto, come un pittore che cercasse di vedere se stesso nel ritratto che ha appena eseguito. De Roberto, infatti, afferma che non è solo l’uomo Leopardi che, a partire dalla sua sofferenza, afferma la vanità della vita, l’universalità del dolore; l’estrema conclusione del pessimismo leopardiano è tratta non dall’uomo ma dal filosofo che vede l’uomo soffrire. Ancora una volta, è proprio la dualità di sentimento e ragione che conferisce valore al messaggio leopardiano e che lo libera dal vincolo deterministico e determinante dell’esperienza: Il filosofo, vedendo l’uomo penare, doveva guardarsi attorno per considerare se queste pene fossero realmente singolari, se agli altri uomini fossero proprio sconosciute; e osservando la vita e leggendo le storie doveva scoprire che, esacerbato in lui, il dolore è retaggio di ogni uomo. […] Il Leopardi passa dalla considerazione del proprio dolore a quella degli altri uomini, dei vivi e dei morti; logicamente collega tutti i fatti che lo dimostrano; […] la sua filosofia, se è derivata dall’esperienza, è anche scaturita dalla ragione.11
Ecco quindi che l’esperienza è legittimata dalla ragione e la ragione è supportata dall’esperienza: il pensiero dimostra la sua autenticità nella sintesi poetica a cui Leopardi giunge: un pessimismo soltanto filosofico e speculativo, interesserebbe i pensatori, lasciando freddi tutti gli altri. Il pessimismo del Leopardi non è freddo, perché il filosofo è accompagnato in lui dal poeta; e non è falso, perché la speculazione è accompagnata dall’esperienza. Il filosofo che nega è anche un uomo che soffre. Perciò egli fu, è, e sarà sempre creduto.12
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Ivi, p. 175. Ivi, pp. 187-191. 12 Ivi, p. 191. 11
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De Roberto si trova qui a sostenere la verità universale del messaggio leopardiano, una universalità a cui invece il suo relativismo non gli consente di arrivare: «tutti i nostri giudizi», afferma infatti lo scrittore facendo una considerazione che riguarda se stesso più che Leopardi, «sono parziali, partigiani, appassionati, monchi; ma chi si spaventasse di questa necessità dovrebbe continuamente tacere».13 In questa affermazione non si comprende se De Roberto cerchi una legittimazione alla «fede negativa» di Leopardi o alla sua assenza di fedi. La risposta si può forse trovare qualche riga più avanti, dove lo scrittore catanese sembra trovare la soluzione tanto al pessimismo leopardiano, quanto al suo relativismo: Questo pessimismo suo, per quanto sembri totale e insanabile, ammette un temperamento ed offre un conforto. […] la consolazione è nell’Arte. […] Amore e gioventù vivono di amene illusioni, che la vita purtroppo distrugge: l’Arte crea tutto un mondo ideale contro il quale la realtà non può nulla, e in mezzo alle peggiori disgrazie, tra i disinganni più atroci, l’artista può rifugiarvisi.14
L’Arte, quindi, non è solo una risposta al male, al dolore, ma si presenta come l’unica alternativa alla realtà, una volta che tutte le illusioni sono state distrutte. Leopardi sembra suggerire a De Roberto la strada, ma in questa salvezza in extremis lo scrittore catanese vuole salvare se stesso più che il poeta. Non si può non rimanere perplessi di fronte a tale affermazione: i più scettici possono interpretarla come una conclusione retorica e un po’ sbrigativa; i più “poetici” possono prenderla per vera e credere che veramente in tutta la sua fede negativa Leopardi abbia fornito a De Roberto uno stimolo per continuare il «mestiere di scrittore». Certamente, per comprendere a fondo il senso di questa affermazione, il senso della presenza di Leopardi nell’opera di De Roberto e, infine, il senso stesso della sua arte, non si può che ricercare altri luoghi in cui compaiano ombre leopardiane, che sono forse i punti in cui l’Arte crea quel mondo ideale «contro il quale la realtà non può nulla».15 II. I romanzi in cui maggiormente si possono scorgere gli effetti della riflessione su Leopardi condotta da De Roberto sono L’illusione, del 1891, e L’imperio, pubblicato postumo nel 1929, che insieme a I Viceré compongono la cosiddetta trilogia degli Uzeda. Se il grande capolavoro segue le vicende dell’intera famiglia, il primo e il terzo romanzo si concentrano sulle vicende di due soli personaggi.
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Ivi, p. 189. Ivi, p. 191. 15 Sull’importanza della figura di Leopardi all’interno della riflessione estetica di De Roberto cfr. B. Stasi, Apologie della letteratura. Leopardi tra De Roberto e Pirandello, Bologna, Società editrice il Mulino 1995. 14
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Sulla presenza del messaggio leopardiano nel romanzo L’Illusione si è soffermata Margherita Ganeri, mostrando come proprio l’esperienza conduca Teresa Uzeda, la protagonista, alla scoperta dell’inesistenza della felicità e allo smascheramento dell’illusione amorosa. 16 Con un’altra illusione combatte il protagonista de L’Imperio, Federico Ranaldi: la fede in una «missione sociale».17 In effetti, l’amore e il tema storico-politico sono due motivi centrali nell’intera opera di De Roberto. Il terzo romanzo della trilogia degli Uzeda segue la carriera politica di Consalvo Uzeda, che, diventato deputato, si trasferisce a Roma. All’arrivismo di questo personaggio, che già era emerso ne I Viceré, De Roberto contrappone la figura di Federico Ranaldi, che invece viene ferito profondamente dalla corruzione della politica romana. Se ci fermassimo a queste considerazioni, non potremmo comprendere l’importanza del modo in cui il messaggio leopardiano viene tradotto nelle pagine di questo romanzo. Nell’ultimo capitolo il lettore si confronta con le disarmanti e terribili considerazioni di Federico Ranaldi. Dopo aver lasciato Roma ed essersi ritirato nel suo paese natale, Federico riflette sulla passione politica giovanile tradita, sui suoi sentimenti patriottici uccisi per sempre dalla frequentazione del parlamento. Egli arriva alla conclusione che «nessuno poteva nulla salvare» e che «l’Italia, e come ogni altro paese del mondo, e il mondo intero, erano stati salvati e perduti, e risalvati e riperduti, per fatalità inevitabili, secondo leggi ignote».18 Già a questo punto si vede come il pessimismo storico-politico, conseguente al fallimento degli ideali risorgimentali, si estenda ad una situazione più generale. In poche pagine Federico arriva a comprendere l’assoluta vanità di ogni azione: attraverso gli occhi del suo personaggio l’autore contempla il destino di morte a cui sono indirizzate tutte le cose. Le parole umane se ne andavano col vento, gli stessi scritti si cancellavano e si disperdevano; quelli che parevano immortali duravano un poco di più; ma l’oblio li aspettava del pari, dopo secoli invece che anni; ma anni e secoli e millenni non erano altro che momenti nell’eternità. Un giorno, per una via di campagna, egli vide una lumaca avanzare lentamente, rigando di bava il cammino. […] Se la lumaca avesse avuto coscienza, avrebbe presunto di letificare e beneficare il mondo con la qualità della sua bava; l’esperienza, reciprocamente, insegnava all’uomo che tutta la sua attività era altrettanto fruttuosa quanto quella dell’animale. Vide anche le formiche e le api intente ad un’opera più intelligente, ma vana del pari. In preda alle passioni della vita, gli uomini non potevano giudicare la inutilità dei loro atti; ma chi, come lui, era uscito fuori alla riva del pelago […] riconosceva nel consorzio umano un formicaio più gran-
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M. Ganeri, L’Europa in Sicilia. Saggi su Federico De Roberto, Firenze, Le Monnier Università 2005, pp. 7-38. 17 F. De Roberto, L’Imperio, in Romanzi, novelle e saggi cit., pp. 1105-1388: 1347. 18 Ivi, p. 1346. X. Italiani della letteratura: Leopardi
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de, un alveare più complicato, dove tutto si riduceva, come nei piccoli e semplici, a nascere, a crescere, a procreare ed a morire. Questa capacità di arrivare a comprendere la propria vanezza era l’unico privilegio dell’uomo sui bruti. Lustro ed inganno tutto il resto; le trovate dell’ingegno, le indagini del pensiero, le affermazioni della fede.19
A questo punto la riflessione del protagonista si sofferma sulla vanità del progresso, che è solo «apparenza, illusione e presunzione».20 Queste parole testimoniano la crisi del Positivismo, la perdita di fede nella scienza che non potrà mai dare risposte certe sull’origine e sulla fine del mondo. Siamo veramente sull’orlo dell’abisso che si apre agli occhi degli scrittori novecenteschi e scoprire nelle parole appena citate l’eco del messaggio leopardiano non fa che confermarne l’attualità e il valore profetico. Il passo de L’Imperio, infatti, mostra stretti legami con il finale del Cantico del gallo silvestre, in cui si profetizza appunto questo procedere del tutto verso la morte: In qualunque genere di creature mortali, la massima parte del vivere è un appassire. Tanto in ogni opera sua la natura è intenta e indirizzata alla morte […]. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro meravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.21
La presunzione che Federico Ranaldi-De Roberto rimprovera al genere umano, la vanità del progresso trovano poi il proprio precedente sicuramente ne La ginestra, il canto che, secondo le parole di Achille Tartaro, appare come un «documento del transeunte e dell’effimero, a fronte dello stupido “vanto” dell’uomo di arrogarsi la prerogativa dell’eternità».22 Da notare è anche il riferimento nel passo di
19
Ivi, pp. 1347-1348. Ivi, p. 1349. 21 G. Leopardi, Operette morali, a cura di Laura Melosi, Milano, BUR 2008, pp. 470-472. 22 Sono parole di Achille Tartaro, nella sua Lectura del famoso canto leopardiano, in Lectura leopardiana. I quarantuno ‘Canti’ e ‘I nuovi credenti’, a cura di A. Maglione, Venezia, Marsilio 2003, p. 645. Madrignani ha letto nel pensiero di Federico Ranaldi un’Antiginestra, cfr. C. A. Madrignani, Illusione e realtà nell’opera di Federico De Roberto, Bari, De Donato 1972, p. 161. Credo che la prospettiva “solidale” della «social catena» non possa essere assunta come unica chiave di lettura del canto e, in questo senso, condivido maggiormente il giudizio di Tartaro. Credo che, De Roberto, rifiutando la prospettiva “sociale”, erediti in parte il messaggio di fondo del canto, quello dell’«annichilare in tutto». Come si vedrà più avanti, l’apertura che lo scrittore siciliano si concede è diversa, ma è nei differenti varchi che gli scrittori offrono ai lettori che si determina la loro originalità. 20
Leopardi e leopardiani all’Italia
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De Roberto all’attività delle formiche: l’immagine, forse volontariamente, forse no, riprende quella descritta ne La ginestra, in cui «un picciol pomo» cadendo dall’albero, «atterra / d’un popol di formiche i dolci alberghi» (vv. 202-205), per cui il poeta può concludere: «Non ha natura al seme / dell’uom più stima o cura che alla formica» (vv. 231-233). «Nulla, nulla, nulla», afferma più volte Federico Ranaldi: qui la lezione di Leopardi è ripresa molto più drammaticamente e viene rielaborata da De Roberto anticipando le prospettive destabilizzanti del nuovo secolo. Possiamo vedere infatti a quali conclusioni giunga Federico contemplando la vanità del tutto e il procedere di ogni cosa verso il nulla: Dall’alto, nel silenzio profondo, il mondo gli pareva un semplice aspetto, una scena dietro alla quale non c’era nulla. […] ma quando egli credeva di vedere il vuoto ed il nulla restava la sua veggente coscienza. Non si poteva affermare veramente il nulla se non quando anche la coscienza spariva; ma, sparita la coscienza, chi o che cosa poteva pronunziare l’affermazione? La coscienza umana esisteva, era sempre presente ed attiva; e nella coscienza dell’uomo non si rispecchiava già il nulla, ma il tutto: le forme e le essenze, le cose e le idee, i sentimenti ed i fatti, l’universo materiale e morale, il mondo fisico e il metafisico! Allora, che cos’era tutto questo mondo, tutto questo tutto, che pareva un inganno, ma che stava e durava, e premeva ed opprimeva, inesorabilmente? Era il Male. Tutte le forme dell’esistenza, dalle più semplici alle più complicate, erano forme maligne. Ogni atomo dell’inerte materia era il prodotto d’una irritazione, d’una infezione, d’un processo morboso. […] Nel cervello, nell’anima umana si assommava tutto il male dell’universo, e diveniva cosciente.23
Il male è concreto, temibile diremmo, perché cosciente, cioè esiste in quanto concepito dalla mente. Se tutto è male, se l’esistenza è un progressivo incancrenirsi, se la vita non è che un procedere verso la morte, il suicidio può apparire come l’unica risposta, la più lucida e saggia: questa è la conclusione a cui giunge Federico. Eppure, nonostante egli arrivi a comprendere la necessità del suicidio, l’istinto vitale ancora lo trattiene dal compiere il gesto. E questo istinto vitale, questo amor proprio – termine usato da De Roberto, centrale anche in Leopardi – che lo trattiene dal compiere il gesto estremo, viene ridestato dalla conoscenza di una fanciulla molto più giovane di lui, Anna. In tutta la parte che segue la scoperta del nulla, Federico lotta contro i sentimenti che questa ragazza suscita in lui, fino al finale, giudicato da molti critici irrisolto, in cui egli deciderà di sposarla. Prima di vedere se questo finale sia veramente irrisolto, è necessario ripercorrere i tormenti della coscienza di Federico, perché anche qui si può scorgere la presenza di Leopardi. Perché Federico è colpito da Anna? La fanciulla non è «bella, nello stretto
23
F. De Roberto, L’imperio cit., pp. 1350-1351. X. Italiani della letteratura: Leopardi
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senso della parola, no; ma vaga»:24 sappiamo quanto questo aggettivo sia centrale in Leopardi. Anche in un altro caso De Roberto sottolinea la vaghezza della ragazza come la caratteristica che la rende desiderabile agli occhi di Federico.25 Amore e Morte attraggono ugualmente il personaggio derobertiano: egli vorrebbe resistere alla «perfidia dell’eterna illusione»26 che la vita gli mette davanti agli occhi in nome della assoluta indifferenza che la scoperta del Male gli ha iniettato nell’animo. Ma la stessa Anna permette a Federico di chiarire a se stesso le ragioni del suo scetticismo, del dramma interiore che gli impedisce allo stesso modo di abbandonare la vita e di abbandonarsi ad essa. «Che vi hanno fatto, perché diciate così?»,27 chiede la fanciulla ed egli può allora aprire il suo cuore. Anche qui De Roberto sottolinea il valore dell’esperienza nel determinare il disincanto nei confronti della vita: Tutti i suoi torbidi pensieri, tutta la sua nera disperazione, tutto l’odio suo mortale derivavano dall’esperienza dolorosa, dal veleno distillato in vent’anni di pandemonio politico, di galera giornalistica, di amori malsani. Se egli avesse vissuto in un altro mondo, o in un altro modo, in quel mondo, non sarebbe venuto a quelle conclusioni spaventose. Aveva visto lo spettacolo del male, la petulanza della menzogna, la tortuosità dell’ipocrisia, […] ma non si era soffermato dinanzi al bene, non ne aveva cercate e raccolte le prove. […] di nessuno aveva cercato l’amore. E d’amore e di bene egli non era, no, incapace; ne aveva avuto sempre bisogno, il suo odio era una forma d’amore insoddisfatto.28
È sul valore di questa «esperienza dolorosa» che conviene soffermarsi, perché qui vediamo che Federico sottolinea il valore particolare, non assoluto, universale, del suo dolore e del conseguente disincanto. Se egli avesse vissuto in modo diverso, non sarebbe giunto alle stesse conclusioni; a proposito di Leopardi, invece, De Roberto aveva sottolineato l’universalità del dolore e del pessimismo.29 Per il protagonista de L’Imperio è molto più difficile accettare la lezione dell’esperienza. Per molti aspetti nel personaggio si riproduce la stessa situazione dialettica presentata nel Dialogo di Plotino e Porfirio: razionalmente, la scoperta del male, dell’illusione della felicità inseguita in tanti fantasmi, l’esperienza del dolore, giustificherebbero il suicidio, la negazione della vita, eppure si continua a sbagliare, a cadere nell’illusione, a commettere l’«errore». Questa parola è centrale per comprendere il finale de L’Imperio. Di «error di computo» si parla proprio alla fine dell’operetta leopardiana:
24
Ivi, p. 1359. Ivi, p. 1363. 26 Ivi, p. 1368. 27 Ivi, p. 1376. 28 Ivi, pp. 1376-1377. 29 Anche la Teresa de L’illusione arriva ad una conclusione più universale, osservando che «la sua storia era la storia di tutti». 25
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per Porfirio, infatti, ciò che fa sì che gli uomini non abbandonino la vita è «un manifestassimo errore, per dir così, di computo e di misura: cioè un errore che si fa nel computare, nel misurare, e nel paragonare tra loro gli utili e i danni».30 Un errore che si commette ogni volta che si torna ad abbracciare la vita. La risposta di Plotino, che conclude il dialogo, è forse uno dei passi più belli di tutte le Operette, in cui la condizione “avversativa” di Leopardi, come l’abbiamo definita, emerge più che altrove. «Ecco, questo che nomini error di computo; veramente errore, e non meno grande che palpabile; pur si commette di continuo; e non dagli stupidi solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti, dai saggi; e si commetterà in eterno», perché, continua Plotino, nonostante «il fastidio della vita», il senso della nullità delle cose», «l’odio del mondo e di se medesimo», ecco che a poco a poco; e spesse volte in un subito, per cagioni menomissime e appena possibili a notare; rifassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente all’intelletto; ma sì, per modo di dire, al senso dell’animo. E ciò basta all’effetto di fare che la persona, quantunque ben conoscente e persuasa della verità, nondimeno a mal grado della ragione, e perseveri nella vita, e proceda in essa come fanno gli altri: perché quel tal senso (si può dire), e non l’intelletto è quello che ci governa.31
Forse è proprio questo senso dell’animo, che non va confuso con il sentimento, che spinge a mettere da parte i freddi insegnamenti dell’esperienza. Vale la pena allora fare il confronto con un passo de L’Imperio, che non ha la stessa altezza e la stessa poeticità, che non parla al cuore come quello di Leopardi, ma che mostra come Leopardi abbia parlato al cuore di De Roberto. Federico deve ammettere alla fine che Anna ha riacceso la sua passione, «contro la quale si credeva agguerrito e non era. Contro nessuna passione era agguerrito: l’esperienza tornava vana. L’esistenza ancora forte e tenace reclamava tutti i suoi diritti, egli poteva troncarla d’un colpo, ma non comprimerne le energie, non mortificarne gl’istinti, non evitarne gli errori».32 Anche qui, il sì che si decide di dire alla vita, sembra essere pronunciato per errore, ed è un sì che in ogni momento rende «vana» l’esperienza e riaccende «una speranza nuova». Federico decide quindi di sposare Anna. Il matrimonio finale di Federico è stato letto come un modo veloce di ripristinare l’ordine, forse per l’incapacità dell’autore di seguire fino in fondo le conseguenze del messaggio nichilistico affermato poche pagine prima. Eppure, se si
30
G. Leopardi, Operette morali cit., p. 565. Ivi, pp. 566-567. 32 F. De Roberto, L’Imperio cit., p. 1387. 31
X. Italiani della letteratura: Leopardi
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legge attentamente l’ultima pagina, si comprende che il conflitto non è del tutto risolto. Appena prima di comunicare alla madre la decisione di sposare Anna, Federico riflette tra sé: ne è consapevole, sposarsi, fare figli, significa «contribuire alla perpetuazione del male»,33 eppure… eppure vanifica l’esperienza, commette l’errore. Se ci fermassimo ad un’analisi narratologica, potremmo parlare veramente di un finale “sbagliato”, anche se la lucida consapevolezza di Federico dell’errore che decide di compiere non ha un tono del tutto consolatorio. Forse potremmo interpretare questo finale come un «error di computo», un varco che, per sbaglio, lo scrittore lascia aperto… Il lettore resta sulla soglia a guardare il mondo ideale creato dallo scrittore, l’opera artistica, che nel momento stesso in cui afferma il nulla, lo distrugge. È proprio quello che De Roberto aveva voluto leggere in Leopardi.
33
Ivi, p. 1388.
Leopardi e leopardiani all’Italia
FRANCESCO CAPALDO Lingua, letteratura e nazione italiana in Giacomo Leopardi
Giacomo Leopardi fin dagli anni 1820-1821 indaga sulle cause della decadenza dell’Italia come nazione e in maniera forse ingenua e quasi “istintiva” ne coglie le ragioni secondo le coordinate generali del suo sistema ed inserisce la questione nella dialettica natura-ragione. Egli sostiene che la civiltà si è spostata dai popoli del sud a quelli del nord, e l’Italia come tutte le nazioni del Mezzogiorno attraversa una crisi che investe i costumi, le istituzioni civili e la letteratura. L’Italia ha infatti perso la facoltà immaginativa e vive una stagione di profonda crisi; la Francia invece, che a differenza dell’Italia è nazione, ha saputo imporre agli altri popoli la propria dignità morale: La lingua francese si mantiene e si manterrà lungo tempo universale, a cagione della sua struttura ed indole. È certo però che l’introduzione di questa lingua nell’uso comune, e il principio materiale della sua universalità, si deve ripetere e dalla somma influenza politica della Francia nel tempo passato; e dalla sua influenza morale come la più civilizzata nazione del mondo, e p. conseg. dalle sue mode, ecc. o vogliamo dire dalla moda di essere francese, dal regno e dittatura della moda, che la Francia ha tenuto e tiene ec.; e principalissimamente anche dalla sua letteratura, dalla estensione di lei, e dalla superiorità ed influenza che ella ha acquistata sopra le altre letterature, non per altro, se [non] per essere esclusivamente e propriamente moderna, e perché la letteratura precisamente moderna è nata (a causa delle circostanze politiche, morali, civili, ec) prima che in qualunque altra nazione, in Francia, e quivi è stata coltivata più che in qualunque altro luogo, e più modernamente o alla moderna che in qualunque altro paese.1
1
G. Leopardi, Zibaldone, a cura di R. Damiani, Milano, Arnoldo Mondadori Editore 1997, p. 1029. Segnaliamo qui di seguito le edizioni delle opere leopardiane che abbiamo consultato oltre a quella di Damiani: G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di G. Pacella, Milano, Garzanti 1991; G. Leopardi, Opere, a cura di W. Binni e di E. Ghidetti, Firenze, Sansoni 1969; Leopardi e leopardiani all’Italia
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Secondo il recanatese la lingua italiana, pur derivando dal latino volgare, dopo la stagione del Trecento e del Cinquecento non è riuscita a liberare, ricorrendo alla facoltà immaginativa2 che le è propria per natura, energie nuove e a imporre all’Europa una propria letteratura e poesia. Del ritardo italiano si sono avvantaggiati gli altri stati europei che hanno fatto grandi progressi nel campo delle scienze e della letteratura e hanno inaugurato una nuova età: quella del vero e della poesia sentimentale. Dopo Dante, Petrarca e Tasso, che hanno dato un eccellente esempio di questo nuovo modello di letteratura,3 gli italiani si sono limitati all’imitazione della poesia immaginativa degli antichi.4 Gli italiani insomma quando si sono cimentati nel genere della letteratura sentimentale lo hanno fatto secondo le regole dell’imitazione e senza ottenere risultati rilevanti. La poesia sentimentale infatti richiede un’adesione sia alla natura che al vero,5 e un cambiamento di sensibilità, di costumi, una conversione alla filosofia e non si adatta alla sensibilità italiana che sente di più quella immaginativa. Leopardi, quindi, deduce che l’Italia moderna non ha letteratura: E così tutti i sensati italiani e forestieri, si accordano in dire che l’Italia manca del genere sentimentale. Ma non osservano che con ciò vengono a dire e confessare che l’odierna Italia manca di letteratura, certo di poesia.6
L’Italia è quindi in uno stato di arretratezza non solo per la sua lingua e per la sua letteratura, ma come nazione, in quanto negli ultimi secoli non ha contribuito in maniera determinante al progresso civile dell’Europa. La lingua e la letteratura moderna italiana, che dovrebbero essere il cemento ideologico e culturale della
G. Leopardi, Opere, a cura di G. Getto con commento di E. Sanguineti, Milano, Mursia 1969. Per lo Zibaldone si tengano presenti anche le seguenti edizioni: G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, edizione fotografica dell’autografo con gli indici e lo schedario, a cura di E. Peruzzi, Vol. X, Scuola normale Superiore di Pisa 1989-1994. G. Leopardi, Trattato delle passioni, Edizione tematica dello Zibaldone di pensieri stabilita sugli indici leopardiani a cura di F. Cacciapuoti, Roma, Donzelli editore 1997. Per gli studi sulla lingua di Leopardi rimandiamo a M. Vitale, La lingua della prosa di G. Leopardi: ‘Le Operette Morali’, Firenze, La Nuova Italia Editrice 1922 e S. Gensini, Linguistica leopardiana, Bologna, il Mulino 1984. 2 Per l’elaborazione del concetto di immaginazione in Leopardi si tenga conto dei rapporti con Vico e si consideri il seguente articolo di V. Placella, Leopardi e Vico in AA. VV., Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, Firenze, Olschki 1978. 3 G. Leopardi, Zibaldone cit., pp. 727-733. 4 Si vedano ad esempio le osservazioni sulla la poesia del Monti in Zibaldone cit., pp. 729734, che secondo il recanatese prende espressioni e locuzioni dai classici latini e greci e da Dante. 5 G. Leopardi, Zibaldone cit., pp. 732-734. 6 Ivi, pp. 733-734. X. Italiani della letteratura: Leopardi
Lingua, letteratura e nazione italiana in Giacomo Leopardi
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nazione, in realtà scontano un profondo ritardo culturale, che impedisce agli scrittori di poter competere con quelli delle altre nazioni. Pertanto Leopardi, in densissime pagine dello Zibaldone (pp. 838-844) traccia un quadro dei rapporti tra lingua e letteratura e società italiana. Le sue osservazioni partono dalla discussione di un principio generale, ovvero quello dell’universalità delle lingue. Una lingua infatti è universale quando è semplice e conforme alle regole naturali. La lingua francese quindi per Leopardi è universale, perché c’è identità tra lingua parlata e scritta. Da qui deriva che sia i «parlatori» che gli scrittori propaghino «tutti unitamente una sola e stessa lingua ovvero linguaggio». Il fatto che una lingua sia usata dagli scrittori può contribuire a propagarla, ma non può mai diventare universale se non è parlata. Ed allo stesso tempo se una lingua è parlata, ma non è scritta, cioè non è letteratura, esercita un’influenza limitata su una nazione. Leopardi tra il sistema della lingua parlata e quella scritta, come nel caso del francese, ipotizza uno scambio osmotico.7 La lingua parlata diviene letteratura e questa a sua volta è motore di propagazione della lingua stessa e del sapere ed è compresa da tutti i cittadini della nazione: […] Lo straniero di qualunque condizione, per qualunque circostanza, per qualunque inclinazione, per qualunque professione, per qualunque mezzo, per qualunque fine, abbia dovuto, abbia voluto, si sia abbattuto ad apprendere quella lingua, è padrona di tutta quanta ella è, di parlar e intender chi la parla, di leggerla, di scriverla, di usarla comunque le aggrada, nella conversazione, nel commercio, e al tavolino; di mettersi in communicazione con tutta quella nazione che la parla o scrive, e con tutti quegli stranieri che l’adoprano in qualunq. modo e per qualunq. motivo. Il letterato che l’ha appresa per istruirsi, e per conoscere quella letteratura; il negoziante che l’ha appresa per usi di mercatura; quegli che l’ha appresa senza studio, e per sola pratica o de’nazionali, o de’ forestieri ec. ec. tutti sono appresso a poco nello stesso grado, ed hanno gli stessi vantaggi.8
In Italia invece la lingua scritta, ad eccezione che nel Trecento, è diversa da quella parlata. E ciò fa sì che la letteratura sia privilegio di pochi e che i buoni libri siano letti da una sola classe sociale. Tutte le altre non hanno alcuna cultura. C’è insomma uno iato profondo tra le varie classi sociali, ed il fatto che la letteratura, cioè i buoni libri, non possano essere propagati fa sì che le idee non possano circolare negli strati anche più umili della popolazione e che in Italia non ci sia nazione e manchi qualunque slancio vitale, ogni forma di libertà e che gli scrittori non siano originali:
7 M. Dardano, Le concezioni linguistiche del Leopardi, in AA. VV., Lingua e stile di G. Leopardi, Firenze, Olschki 1994. 8 G. Leopardi, Zibaldone cit., pp. 840-841.
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In Italia oggidì (che nel trecento era tutto l’opposto) la lingua scritta degli scrittori, sebbene differisca dalla parlata molto meno che fra’ latini, tuttavia differisce, credo, più che in qualunque altro paese culto, certamente Europeo. E questo forse in parte cagiona la nessuna popolarità della nostra letteratura, e l’essere gli ottimi libri nelle mani di una sola classe, e destinati a lei sola, ancorché pel soggetto non abbiano a far niente con lei. Il che però deriva ancora dalla nessuna coltura, e letteratura, e dalla intera noncuranza degli studi anche piacevoli, che regna nelle altre classi d’Italia; noncuranza che deriva finalmente dal mancare in Italia ogni vita, ogni spirito di nazione, ogni attività, ed anche dalla nessuna libertà, e quindi nessuna originalità degli scrittori ec.9
La lingua dovrebbe essere il cemento che dovrebbe tenere insieme la nazione e dovrebbe concorrere a crearla; in Italia c’è invece una divisione marcata tra la classe dei letterati e il volgo: Queste cagioni influiscono parimente l’una sull’altra, e nominatamente sulla disparità della lingua scritta e parlata, e tutte con scambievoli effetti contribuiscono sì a tener lontano dall’Italia ogni spirito di patria, ogni vita, ogni azione; sì ad impedire ogni originalità degli scrittori; sì finalmente a mantenere la intera divisione che sussiste fra la classe letterata e le altre, fra la letteratura e la nazione italiana.
La crisi della nazione e della lingua e della letteratura sono intrecciate; sono un tutt’uno che ne ha determinato la decadenza. Leopardi, tuttavia, sostiene che non è stato sempre così. Il divario tra la classe letterata e il popolo si è venuto a creare in età moderna; nel Cinquecento e nel Seicento c’era una relazione stretta tra la lingua e le classi sociali italiane10, che leggevano e studiavano le opere dei letterati contribuendo così a diffonderne le idee. La letteratura italiana era quindi fruita sia dagli italiani che dagli stranieri: Nel cinquecento, e anche durante il seicento, sebbene la lingua scritta italiana, si fosse allontanata dalla parlata, molto più che nel trecento (non però quanto oggidì), tuttavia la letteratura continuava ancora in grandissima relazione colle classi, se non volgari, certo di professione non letterata, e quindi anche passava agli stranieri.11
E tale relazione comunicativa tra le classi sociali era possibile perché nel Cinquecento e nel Seicento la nazione non era ancora del tutto morta. C’era ancora, a giudizio del recanatese, un sostrato ideologico e culturale che consentiva una relazione tra la lingua scritta e quella parlata, ed una certa libertà per gli scrittori che si manifestava in un comune spirito e sentimento patrio:
9
Ivi, pp. 841-842. F. Bruni, L’Italiano. Elementi di storia della lingua e della cultura, U.T.E.T., Torino 1985. 11 G. Leopardi, Zibaldone cit., p. 843. 10
X. Italiani della letteratura: Leopardi
Lingua, letteratura e nazione italiana in Giacomo Leopardi
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E ciò, parte perché la nazione conservava ancora un sentimento, uno spirito patrio, un’azione, una vita, e gli scrittori bastante libertà ed originalità;12
Leopardi crede che il purismo linguistico abbia favorito lo iato tra lingua parlata e letteratura e il ritardo civile e culturale italiano Osservate p. e. le parole genio, sentimentale, dispotismo, analisi, analizzare, demagogo, fanatismo, originalità ec. e tante simili che tutto il mondo intende, tutto il mondo adopera in una stessa e precisa significazione, e il solo italiano non può adoperare (o non può in quel significato), perché? perché i puristi le scartano, e perché i nostri antichi, non potendo avere quelle idee, non poterono pronunziare né scrivere quelle parole in quei sensi. Ma così accade in ordine alle stesse parole, a tutte le lingue del mondo che pur non hanno scrupolo di adoperarle. Piuttosto avrebbero scrupolo e vergogna di non saper esprimere un’idea chiara per loro, e chiara per tutto il mondo civile, mentre per la espressione delle idee chiare son fatte e inventate e perfezionate le lingue. Come infatti noi, non volendo usar queste parole, non possiamo esprimere delle idee chiare e precise (e ciò nella stessa mente nostra), confusam. e indeterminatamente: e poi diciamo che l’italiano è copiosissimo, e basta a tutto, ed avanza. Sicché bisogna tacere, o scriver cose da bisavoli, e poi lagnarsi che l’italiana letteratura e filosof. resta un secolo e mezzo addietro a tutte le altre. E come no, senza la lingua?13
Egli elabora, e qui è la cifra del suo impegno civile e morale,14 un programma di rinnovamento della cultura italiana che presuppone in primis una stretta identità tra lingua parlata e letteratura e l’apertura qualora mancassero dei termini per esprimere le verità scientifiche e filosofiche anche ad elementi stranieri. Ma per fare questo egli pensa che vada ridestato lo spirito nazionale.15 Gli italiani non si devono compiacere delle glorie passate, ma devono prendere consapevolezza del ritardo accumulato rispetto alle altre nazioni europee; va quindi creata una nuova lingua e una nuova la letteratura che attinga voci ed espressioni non solo dal volgare toscano ma anche da altri volgari italiani: Del resto, ben fecero gli scrittori italiani attingendo al volgare toscano più che agli altri volgari d’Italia, e ciò per le ragioni che tutti sanno, e che abbiam detto p. 1246. fine-47 principio. Ma sciocca, assurda, pedantesca, ridicola è la conseguenza che dunque non si possa attingere se non da quel volgare; che gli scrittori non possano scrivere se non come e quanto dice e parla quel popolo; che la lingua e letteratura italiana dipenda in tutto e per tutto dal volgo toscano (quando non dipende neppure in nessun modo dal volgo, ma solamente se ne serve se le pare); che in Toscana e fuori, lo scrittore italia-
12
Ibidem. Ivi, pp. 1216-1217. 14 C. Luporini, Leopardi progressivo, Editori Riuniti, Firenze 1980. 15 G. Leopardi, Zibaldone cit., p. 866. 13
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no non possa formar voce nè frase, che il volgo toscano non usi; che in somma quello che non è toscano, anzi fiorentino, anzi pure di Mercato vecchio, non sia italiano. Quando, come abbiamo veduto, non la letteratura al volgo, ma il volgo è totalmente subordinato alla letteratura, e quello è ai servizi, e giova ai comodi di questa, e non già questa di quello. E la letteratura forma e dispone della favella che prende dal volgo, e non viceversa. E le aggiunge quel che le piace, e se ne serve, sin dove può, e dove la favella del volgo non le può servire, l’abbandona, o in parte o in tutto. In somma abbiamo lodato la lingua italiana scritta perché ha saputo giovarsi del linguaggio popolare, più e meglio forse di qualunque altra lingua moderna, e perché non l’ha mai licenziato da’ suoi servigi, come hanno fatto si può dir tutte le altre (anche la greca dopo un certo tempo, e lo farebbe anche l’italiana, se non la richiamassimo, anzi lo andrebbe già facendo); non già perch’ella si sia sottomessa alla favella del volgo, molto meno del volgo di una sola provincia o città, che né essa l’ha fatto o potuto fare, né facendolo sarebbe stata superiore, ma inferiore a tutte le altre, né noi l’avremmo lodata ma sommamente biasimata. Da tutto ciò segue ancora che la lingua italiana scritta, può servirsi di qualunque altro volgare.16
La consapevolezza maturata da Leopardi del ritardo della lingua italiana rispetto a quelle europee lo porta nel 1821 a operare una scissione profonda tra filosofia in quanto scienza e letteratura e a delineare due percorsi dello spirito umano, ovvero uno di progresso ed uno di regresso che sono possibili attraverso le lingue.17 Le lingue sotto l’impulso della ragione progrediscono in precisione e si allontanano dallo stato primitivo. A questo stato in progress si contrappone un movimento opposto di regressione. Il progresso della ragione rappresenta la perdita della loro natura originaria e quindi di corruzione. Perdono quindi in varietà, efficacia, bellezza. Mentre il primo stadio corrisponde ad un progresso della filosofia, il secondo invece comporta un regresso della letteratura e della poesia. Nel delineare questo quadro tuttavia Leopardi ipotizza uno stato di “perfezione relativa”, che si ha attraverso una combinazione della ragione con la natura quando sono applicate alla letteratura. Solo in quel caso l’arte corregge la rozzezza della natura, e la natura la secchezza dell’arte: La cosa è difficile, ma non impossibile. Una lingua, massima come la nostra (non con la francese) può conservare o ripigliare la antiche qualità, ed assumere le moderne. Se gli scrittori saranno savi, ed avranno vero giudizio, il mezzo di concordia è questo.18
L’Italia per risorgere deve aprirsi alla lingua del vero secondo lo spirito del suo secolo, ma senza rinunciare al bello e al grande, ovvero alla letteratura e alla poesia.
16
Ivi, p. 1250 e ss. Ivi, pp. 1356-1361. 18 Ivi, p. 1359. 17
X. Italiani della letteratura: Leopardi
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Nel 1821 la distinzione tra filosofia e letteratura lo spinge a progettare una serie di scritti per il risveglio della patria: Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi dell’affetto, e dell’entusiasmo e dell’eloquenza e dell’immaginazione nella lirica, e in quelle prose letterarie ch’io potrò scrivere; le armi della ragione, della logica, della filosofia ne’ Trattati filosofici ch’io dispongo; e le armi del ridicolo ne’ dialoghi e novelle Lucianee ch’io vo preparando.19
La consapevolezza che all’Italia manca il linguaggio filosofico e scientifico e la distinzione tra filosofia e letteratura viene elaborata nel 1821 parallelamente con un’altra concezione che prevede invece una stretta identità tra letteratura e filosofia. A p. 1383 dello Zibaldone egli scrive: Malgrado quanto ho detto dell’insociabilità dell’odierna filosofia colla poesia, gli spiriti veramente straordinari e sommi, i quali si ridono dei precetti, e delle osservazioni, e quasi dell’impossibile, e non consultano che loro stessi, potranno vincere qualunque ostacolo, ed essere sommi filosofi moderni poetando perfettamente. Ma questa cosa, come vicina all’impossibile, non sarà che rarissima e singolare.
La persistenza di questa doppia idea maturata da Leopardi ci fa comprendere che egli vive con straordinaria lucidità le contraddizioni del suo tempo. Si sente filosofo e poeta e cerca una sintesi tra queste due opposte tensioni, che egli percepisce insite nella stessa cultura moderna. Il riscatto civile e nazionale è raggiungibile attraverso la fusione di idee e nuclei concettuali diversi da quelli della tradizione culturale italiana. La lingua e la letteratura italiana si devono aprire alla filosofia e al linguaggio della scienza, non per cancellare la tradizione linguistica e retorica del passato, ma per creare una nuova cultura che consenta ancora una volta all’Italia di essere nazione. Il recanatese in una lettera al Giordani (n. 409) scrive: Tornando al proposito, è vano l’edificare se non cominciamo dalle fondamenta. Chiunque vorrà far bene all’Italia, prima di tutto dovrà mostrarle una lingua filosofica, senza la quale io credo ch’ella non avrà mai letteratura moderna sua propria, e non avendo letteratura moderna propria, non sarà mai più nazione. Dunque l’effetto ch’io vorrei principalmente conseguire, si è che gli scrittori italiani possano essere filosofi, inventivi e accomodati al tempo, che in somma è quanto dire scrittori e non copisti, nè perciò debbano quanto alla lingua esser barbari ma italiani. Il qual effetto molti se lo sono proposto, nessuno l’ha conseguito, e nessuno, a parer mio, l’ha sufficientemente proccurato. Certo è che non lo potrà mai conseguire quel libro che oltre all’esortare, non darà notabile esempio, non solamente di buona lingua, ma di sottile e riposta filosofia; né solamente di filosofia, ma di buona lingua: che l’effetto ricerca
19
Ivi, p. 1394.
Leopardi e leopardiani all’Italia
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Francesco Capaldo
ambedue questi mezzi. Anche proccurerò con questa scrittura di spianarmi la strada a poter poi trattare le materie filosofiche in questa lingua che non le ha mai trattate; dico le materie filosofiche quali sono oggidì, non quali erano al tempo delle idee innate.20
Leopardi affida dunque alla letteratura, non come retorica o mero esercizio puristico, ma come universo simbolico, che deve contribuire al progresso culturale dei popoli, e che si arricchisce anche attraverso la speculazione scientifica e filosofica, il ruolo di contribuire al risveglio della patria. Alla letteratura, come comprenderà il recanatese tra il 1821 e il 1824 aprendosi attraverso la frequentazione di filosofi e moralisti del 1500 ad una visione della realtà più complessa e profonda, spetta il compito di fondare una nuova morale, umana e laica e di rifondare la nazione italiana.
20
G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri
1998. X. Italiani della letteratura: Leopardi
VINCENZO DENTE Da «Hermite des Appenins» che dialoga con un «romito dell’Arno»: Giacomo Leopardi, ‘Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani’
Tra il 1824 e il 1826 Giacomo Leopardi scrive il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, un saggio che, rispetto alla produzione “maggiore” è stato considerato poco dalla critica, come si può evincere dalla limitata bibliografia in merito. La data di composizione del Discorso, alquanto discussa, rimanda ai rapporti di Leopardi con Vieusseux. Le ipotesi ravvisabili, riguardo alla sua datazione sono tre: una prima, postulata da Gino Scarpa,1 il quale sostiene che il saggio, sia stato scritto nei giorni che vanno dal 6 marzo al 1 aprile 1824;2 una seconda, di Gennaro Savarese3 che, pur riconoscendo una prima stesura dell’opera databile al 1824, afferma che essa sia stata terminata negli anni 1826-27, proprio in risposta alle sollecitazioni di Vieusseux contenute nella lettera del 1 marzo 1826. A queste due si affianca una terza ipotesi, di Marco Dondero,4 secondo la quale il Discorso è stato scritto tra la primavera e l’estate del 1824; a suffragio della sua ipotesi, Dondero pone i richiami continui allo Zibaldone, contenuti nel saggio in questione e, soprattutto, «uno studio diacronico della grafia leopardiana»5 accanto al quale dispone
1
Il preciso riferimento cronologico dello Scarpa è dovuto al fatto che questo sia stato un periodo di intervallo nella composizione delle Operette morali, cfr. Notizie bibliografiche, in G. Leopardi, Opere, pref. di R. Bacchelli e G. Scarpa, Milano, Officina Tipografica Gregoriana 1935, pp. 1294 e sgg. 2 G. Leopardi, Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle Carte napoletane, Firenze, Le Monnier 1906. 3 Cfr. G. Savarese, L’eremita osservatore. Saggi sui ‘Paralipomeni’ e altri studi su Leopardi, Roma, Bulzoni 1995. 4 Cfr. M. Dondero, Leopardi e gli italiani. Ricerche sul ‘Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani’, Napoli, Liguori 2000. 5 Ivi, p. 57. Leopardi e leopardiani all’Italia
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Vincenzo Dente
una serie di dati che dimostrano che il manoscritto è stato redatto, anche se non in maniera continuativa, in un periodo di tempo piuttosto breve e circoscritto. Al di là delle interessanti e complesse questioni filologiche il dato di fondo che emerge dalle tre ipotesi è che il Discorso sia certamente nato in seno al rapporto epistolare tra Leopardi e Vieusseux, in particolare nelle comunicazioni intercorse tra i due nell’anno in cui il poeta andava componendo le Operette morali. Proprio due lettere del 1826, secondo Dondero, porterebbero ad escludere la possibilità di datazione del saggio sui costumi degli italiani in quell’anno, si tratta della lettera del 1 marzo, inviata da Vieusseux a Leopardi, che così recita: Più volte ho pensato ad avere per corrispondente un hermite des apennins, che dal fondo del suo romitorio criticherebbe la stessa Antologia, flagellerebbe i nostri pessimi costumi, i nostri metodi di educazione e di pubblica istruzione, tutto ciò infine che si può flagellare quando si scrive sotto il peso di una doppia censura civile e ecclesiastica. Un altro romito dell’Arno potrebbe rispondergli. Voi sareste il Romito degli Appennini. Questa forma assai piccante ammetterebbe molta libertà, e desterebbe un interesse universale.6
Ai reiterati inviti di Vieusseux, Leopardi risponde, con una missiva datata 4 marzo 1826: Vengo al cortese invito di scrivere per cotesto Giornale, che io predico sempre, non solo come l’unico giornale italiano, ma come tale che in molte sue parti ha l’onore di non parer fattura italiana. Credetemi che quel poco (veramente poco) che io posso, lo spenderei volentieri tutto in servizio dell’Italia e vostro, aiutandovi in cotesta impresa secondo le mie forze, e che conosco ed apprezzo l’onore che voi mi fate giudicandomi capace di esservi utile. […] La vostra idea dell’Hermite des Apennins7, è opportunissima in sé. Ma perché questo buon Romito potesse flagellare i nostri costumi e le nostre istituzioni, converebbe che prima di ritirarsi nel suo romitorio, fosse vissuto nel mondo, e avesse avuto parte non piccola e non accidentale nelle cose della società.8
Leopardi, dunque, si sottrae cortesemente ma decisamente all’invito del Vieusseux a divenire un «romito flagellatore dei costumi», e questo suo rifiuto, legato essenzialmente alle proprie condizioni di salute e alla sua indole solitaria, lascia chiaramente intendere che egli, nel 1826, non avesse alcuna intenzione di inviare
6
Leopardi nel carteggio Vieusseux. Opinioni e giudizi dei contemporanei 1823-1837, a cura di E. Benucci, L. Melosi e D. Pulci, Firenze, Olschki 2001, tomo II, p. 508. 7 Riguardo al progetto del romito si rivela molto interessanti la lettera inviata da Giovan Pietro Vieusseux a Pietro Brighenti il 15 aprile 1826, cfr. Leopardi nel carteggio Vieusseux cit., tomo I, pp. 35-36. 8 Ivi, tomo II, p. 510-511. X. Italiani della letteratura: Leopardi
Da «Hermite des Appenins» che dialoga con un «romito dell’Arno»
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suoi scritti all’«Antologia». Per queste ragioni, accettando che il Discorso possa essere stato concepito per essere pubblicato sull’«Antologia», ipotesi condivisa da studiosi e critici, il momento migliore per farlo era il 1824 quando, dietro invito del Giordani, che lo aveva spinto a contattare Vieusseux, Leopardi era ben disposto a collaborare con la rivista, come risulta evidente da una sua lettera di risposta, datata 2 febbraio 1824, ai primi inviti del ginevrino: Al gentile invito ch’ella mi fa, ringraziandola della buona opinione che ha delle mie piccole forze, rispondo che quanto mi concederà il mio potere, sono disposto per amor suo e dell’Italia ad impiegarmi in servizio del suo Giornale. Ma con mio dispiacere mi trovo affatto inabile a farlo nel modo9 ch’Ella mi propone.10
Il rifiuto a pubblicare un testo come il Discorso, nel 1826 è dettato da un aspetto intellettuale che va considerato alla luce del percorso del pensiero leopardiano: il testo, a due anni dalla sua composizione, non rispettava più pienamente le convinzioni del poeta sulla società e, soprattutto, non soddisfaceva l’autore per via della sua forma e dell’impianto argomentativo generale. Ciò è testimoniato dal fatto che la prima stesura del manoscritto non sia stata rimaneggiata dall’autore stesso. Nel 1824, invece, Leopardi volle dare di sé, attraverso l’edizione bolognese delle Canzoni, l’immagine «di poeta civile, impegnato in un rapporto di solidarietà con il suo uditorio sul sostegno di una comune aspirazione al rinnovamento nazionale».11 In quello stesso anno vedevano la luce le Operette morali che presentano una maggiore complessità strutturale e ideologica nel pensiero di Leopardi, coerentemente con le riflessioni sviluppate in alcuni passi dello Zibaldone nel 1823. Sempre nello Zibaldone, a pagina 2618, in calce ad un appunto sulla filosofia tedesca, con data 30 agosto 1822, c’è un chiaro riferimento al Discorso: «Vedi l’abbozzo del mio discorso sopra i costumi presenti degl’italiani»,12 riferimento che lascia intendere che il saggio sia stato abbozzato in un particolare momento del percorso intellettuale del poeta, per essere poi ripreso successivamente fino a raggiungere la forma che attualmente presenta. Insomma, il Discorso è chiaramente riferibile ad una fase del pensiero di Leopardi che si conclude proprio nell’anno in cui il poeta intraprende il rapporto epistolare con Vieusseux e si rivela disponibile a pubblicare un suo saggio sull’«Antologia», tale saggio altro non può essere che il Discorso stesso, ricco com’è di
9
Nella lettera precedente (15 gennaio 1824) Vieusseux aveva proposto a Leopardi di diventare una sorta di corrispondente dallo Stato Pontificio, cfr. ivi, p. 500. 10 Ivi, p. 504. 11 F. Brioschi, La poesia senza nome. Saggio su Leopardi, Milano, Il Saggiatore 1980, p. 40. 12 Zib. 2618, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, edizione critica e annotata a cura di G. Pacella, Milano, Garzanti 1991, 3 voll., vol. II, p. 1400. Leopardi e leopardiani all’Italia
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volontà d’intervento sulla concreta realtà sociale italiana e di riferimenti direttamente ed esplicitamente civili, in una dimensione apertamente pedagogica. Queste volontà sono esibite in maniera evidente a partire dall’italianità sottolineata dal titolo dell’opera, quella stessa italianità che viene più volte evocata, con afflato partecipativo, nelle missive indirizzate al Vieusseux. L’«Eremita degli Appennini», dunque, è un intellettuale che si sente profondamente italiano, malgrado non esista ancora una nazione degna di tale nome, e questo suo essere e sentirsi italiano è un respiro emanato in ogni singola pagina del suo Discorso, fin dalle prime programmatiche righe dove, in una situazione felice per i popoli europei, che gli eventi contingenti spingono a conoscersi, l’Italia si trova in una posizione lusinghiera.13 Quel che interessa al Leopardi è, “giovare”14 al popolo italiano che non riconosce né parla dei propri costumi, si tratta di un’urgenza che egli avverte e alla quale risponde cercando di fornire uno strumento conoscitivo commisurato alle esigenze della società contemporanea evidenziata nel titolo della sua opera con il riferimento allo stato presente dell’Italia. Il Discorso diventa, così, uno strumento predisposto da uno dei migliori intellettuali del tempo che si identifica pienamente con i suoi connazionali: Se io dirò alcune cose circa questi presenti costumi (tenendomi al generale) colla sincerità e libertà con cui ne potrebbe scrivere uno straniero, non dovrò essere ripreso dagli italiani, perché non lo potranno imputare a odio o emulazione nazionale, e forse si stimerà che le cose nostre sieno più note a un italiano che non sono e non sarebbero a uno straniero, e finalmente se questi non dee risparmiare il nostro amor proprio con danno della verità, perché dovrò io parlare in cerimonia alla mia propria nazione, cioè quasi alla mia famiglia e a’ miei fratelli?15
La «mia famiglia» e i «miei fratelli», ecco cosa rappresentano quegli italiani dei quali, secondo il Vieusseux, l’Hermite avrebbe dovuto «flagellare» i costumi, sulle pagine dell’«Antologia». Flagellazione che, in fin dei conti Leopardi realizza, nel Discorso, subito dopo la parte programmatica iniziale, imperniata su una positività di fondo con la quale «si impegna, in apparente contraddizione con se stesso, in un vero esercizio di politica delle riforme, perorando la causa di una società colta e civile come nucleo propulsivo di un reale progresso nazionale» mostrando, «un atteggiamento pragmatico e positivo che non sembra avere riscontri nell’entusiasta
13
Leopardi, parlando dell’inclinazione favorevole verso l’Italia fa riferimento, nel testo, al romanzo Corinne ou l’Italie di Madame de Staël che ebbe un ruolo importante nella scoperta che l’Europa romantica andava compiendo proprio nei confronti del nostro Paese. 14 G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, intr. e cura di A. Placanica, Venezia, Marsilio 1989, p. 123. 15 Ivi, p. 124. X. Italiani della letteratura: Leopardi
Da «Hermite des Appenins» che dialoga con un «romito dell’Arno»
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patriota degli anni recanatesi».16 È un Leopardi, quello della parte introduttiva del Discorso, che incontra e indica la via della modernità al popolo italiano, modernità che gli italiani avvertono, pur essendo ancora rinchiusi in sospetti e pregiudizi antichi e pur essendo piuttosto freddi in amor patrio. Ecco, allora, che per un italiano è doveroso parlare di quei costumi che altre nazioni europee hanno mutato dopo la Rivoluzione, e che in Italia rimangono ancorati a forme stantìe di individualismo e localismo. E l’italiano che parli di questi costumi deve farlo con franchezza e con un grado di conoscenza che uno straniero non può esibire, poiché dall’analisi dei propri costumi nasce quella via alla modernità verso la quale i popoli europei si sono già avviati, in un’età nella quale le pratiche più diffuse sono quelle legate al tornaconto e al vizio, e l’esercizio della virtù appare inutile e noioso a causa dello spegnimento degli ideali sulla quale si fonda la morale. La società umana tutta, afferma Leopardi, dovrebbe reggersi su costituzioni politiche che, in quanto tali, possono solo attuare inefficaci azioni formali e coercitive per cui «la conservazione della società sembra opera piuttosto del caso che d’altra cagione, e riesce veramente meraviglioso che ella possa aver luogo tra individui che continuamente si odiano s’insidiano e cercano in tutti i modi di nuocersi gli uni agli altri».17 Le società veramente civili, e principalmente quelle di Francia, Inghilterra e Germania, che riescono a conservare una pubblica morale e, di conseguenza, la stessa società, lo fanno grazie al formarsi e al costituirsi di una «società stretta» che altri non è che la discendente classe borghese e intellettuale che concretizza e diffonde i suoi valori spirituali e morali, nonché i suoi costumi. Ciò avviene fondamentalmente perché questa classe, in quanto classe agiata, è sollevata dai problemi connessi ai bisogni primari dell’uomo e i suoi componenti vivono nella necessità di «trovare qualche altra occupazione che riempia la loro vita, e alleggerisca loro il peso dell’esistenza, sempre grave e intollerabile quando è disoccupata».18 Questa società stretta si comporta come una sorta di famiglia che condivide ideali e valori con altre famiglie in situazioni simili e diffonde questi valori nella società complessa. Una delle caratteristiche centrali della società stretta è il suo spingere i propri membri in direzione di un’ambizione sana, dominata dal senso dell’onore che si realizza in uno scambio reciproco di stima, ossia nello stimare gli altri al fine, e con il desiderio, di esserne stimati. Da questa esigenza di stima viene fuori il bisogno di comportarsi e agire per il bene comune, nasce, cioè, il rispetto per il pensiero altrui e per la pubblica opinione: apprezzare per essere apprezzati nelle proprie azioni e nei propri costumi. Questo desiderio, legato all’amor proprio, si traduce in quell’ambizione che un tempo era desiderio di gloria e passione comune; nei tempi
16
B. Biral, La posizione storica di Giacomo Leopardi, Torino, Einaudi 19925, p. 127. G. Leopardi, Discorso… cit., pp. 124-125. 18 Ivi, p. 125. 17
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presenti la gloria soggiace alle passioni moderne che sono piccole e ristrette, governate dalle esigenze politiche ed economiche della nuova società.19 La gloria, sostiene Leopardi, è un inganno dei sensi troppo alto e troppo splendido per poter sopravvivere nelle società moderne, nelle quali si è attuata una vera e propria «strage delle illusioni» perpetrata dalla «filosofica ragione», allora a questa illusione si è sostituito quel senso dell’onore che, seppur poca cosa rispetto alla gloria, costituisce il vincolo primo e l’unico fondamento morale messo in moto dalla società. Ora, gli italiani non avendo più illusioni e, dunque, ideali ad esse riferibili, come le altre nazioni europee, e avendo compreso fino in fondo la cruda e deludente realtà, con l’ausilio della razionalità, sono privi di quei fondamenti morali che sostenevano le società di un tempo. A differenza degli altri popoli europei, però, gli italiani sono diventati più filosofi e razionali dal punto di vista pratico, al contrario delle altre nazioni che «son più filosofe degl’italiani nell’intelletto»,20 e tra essi la strage delle illusioni è stata più forte che altrove. In Italia, inoltre, manca quella società stretta che esiste in Francia, in Inghilterra e in Germania, ciò a causa di caratteristiche del territorio italiano, come il bel clima, e dell’indole dei suoi abitanti, come la vivacità, la prontezza degli ingegni e l’amore per i divertimenti. Ne consegue che la vita sociale italiana si consuma tra passeggiate, cerimonie religiose e spettacoli vari a scapito della vita domestica e della conversazione sociale, elementi importanti per il costituirsi delle società moderne. Questo avviene «perché non v’ha onore dove non v’ha società stretta, essendo esso totalmente una idea prodotta da questa, e che in questa e per questa sola può sussistere ed essere determinata».21 Le persone appartenenti alla società stretta di altre nazioni si vergognano di fare del male, allo stesso modo in cui si vergognano se hanno una macchia sul vestito, perché hanno a cuore la pubblica opinione, da essi stessi creata, per cui si adoperano nel fare del bene come nel seguire le mode del vestire e dell’arredare le proprie case. Essi seguono, cioè delle buone maniere, ma in Italia, a causa dell’assenza della società stretta non esiste «buon tuono», ossia le buone maniere non sono definite, in quanto ognuno fa regola e «maniera» a sé, una forma individualistica incoraggiata dalla conoscenza della vanità filosofica dei principi morali, anche se gli italiani rimangono inferiori agli altri popoli europei in quanto a cultura scientifica e filosofica. Allora i membri della borghesia italiana non curano, anzi disprezzano e deridono l’opinione pubblica, intesa come stima degli altri e amor proprio, cosa che, in estrema ratio e vista con occhio egoistico legato ad un pratico tornaconto, non è del tutto sbagliata: mancando una società stretta con le proprie norme di comportamento e con i propri costumi, fare del bene o fare del male ha
19
Ivi, p. 127. Ivi, p. 133. 21 Ibidem. 20
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lo stesso valore, cioè non serve a nulla avere buona fama, così come la cattiva fama non toglie nulla e ogni azione, buona o cattiva che sia, piomba nell’indifferenza e, soprattutto nel primo caso, in un popolo votato al riso e allo scherno reciproci, può essere oggetto di derisione. Se la strage delle illusioni ha negato alla vita, universalmente intesa, un senso e un valore sostanziali generando un vuoto che altrove è stato colmato con l’onore, in Italia ciò non è avvenuto perché in essa la vita non ha neanche un valore apparente, legato alla pubblica opinione. Di conseguenza la prospettiva italiana è tutta incentrata sul presente e non si rivolge al futuro, che si intravvede ancora più povero dal punto di vista economico e sociale. In Europa è la società, generalmente intesa, a porre rimedio alla vanità della vita e, dunque, all’utilità delle azioni e, in particolare, delle buone azioni. Tale rimedio si fonda sul principio di imitazione che coinvolge in un processo a catena tutte le classi sociali, partendo dalla classe preminente, ossia dalla società stretta nella quale si può riconoscere la classe borghese ottocentesca. Questo principio imitativo è basato sul convincimento che se altre persone conducono una vita attiva verso la quale porre attenzioni e cura, allora anche la propria vita può viaggiare su quei binari, da qui nasce una diffusa fiducia nei significati e nei valori dell’esistenza, una fiducia che finisce per travolgere anche le persone più disincantate e disilluse che si impegneranno, così, nel condurre una vita attiva e sempre più piena di valori da diffondere a propria volta. La fiducia nelle cose della vita può nascere solo in una società in cui siano forti i principi morali, anche illusori; persino la solitudine può fornire alimento, o aiutare la crescita di questi principi perché, generando nell’uomo la mancanza dei rapporti sociali e, dunque, un rimpianto della vita in comunità, fornisce un significato anche alle cose più piccole della vita stessa, suscitando quei valori che conducono alla vita associata sottoposta alla pubblica opinione. La solitudine22 infatti, dà stimolo all’immaginazione suscitatrice di ideali che, però, non trovano rispondenza in una vita sociale dissipata, come quella delle classi medio-alte italiane, tutta concentrata sul tornaconto e sul divertimento, fonti di una triste realtà quotidiana, priva di ideali, rivelatrice della vanità di tutte le cose; questa vita dissipata tutta italiana è la peggior nemica della vera società, ossia di quella società fondata sull’imitazione delle buone maniere derivanti dall’onore – sostituto della gloria antica – e centrata sulla stima reciproca. Ecco perché gli italiani colti sono consapevoli della vanità dell’esistenza e dell’inutilità di applicarsi ad una vita sociale attiva. Ne discende che la vita di questa mancata società stretta italiana si conduce nella noia più totale e nella più dannosa convinzione pratica, con la quale questa classe convive, che consiste nella conclamata vanità del tutto. Una disillusione assoluta, dunque, determinante conseguenze terribili come il cinismo, l’indifferenza, lo scherno e il disprez-
22
Ivi, pp. 137-139.
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zo di tutto e tutti; è conseguenza diretta per chi, scoperta l’ultima vanità, vive una vita isolata o quantomeno sconnessa in termini sociali. Motteggio e denigrazione costistuiscono, così, il triste primato degli italiani dal momento che non avvertono né il vincolo sociale, né il bisogno della stima altrui che si esprime proprio attraverso la società; la falsa vita sociale, insomma, è una sorta di continuata guerra di tutti contro tutti. Perdendo la stima di sé e degli altri, annegando l’amor proprio in una pratica e dissipata quotidianità, le classi benestanti e intellettuali italiane distruggono quel poco di società che sussiste nel loro Paese e che diventa la prima nemica della totalità sociale. Nelle altre nazioni le società presentano anch’esse dei tratti negativi ma questi difetti sono comuni a tutte le società umane, sarebbe ingenuo e fuorviante credere il contrario. L’egoismo,23 ad esempio, esiste dappertutto ed è caratteristica senz’altro negativa ma tutta umana che porta l’essere ad emergere, a sopraffare i suoi simili, tanto più nel nuovo quadro sociale ed economico delineato dalle società più moderne e, in ultima analisi, proprio nei popoli più civili. In Italia, però, sia l’egoismo che gli altri difetti sono molto più diffusi, molto più gravi e molto più frequenti, perché l’Italia non possiede quegli anticorpi a tali difetti che posseggono, invece, le società civili, non ha, cioè, i nuovi fondamenti morali conquistati dalla civiltà moderna e, come se non bastasse, ha definitivamente perduto le virtù antiche,24 distrutte dal nuovo corso sociale. Da questo quadro l’Italia risulta inferiore sia rispetto alle nazioni più incolte di lei, sia alle nazione più colte, precisamente per queste ragioni: mentre le prime traggono dal loro essere primitive qualche forma di garanzia per una vita associata condotta seguendo antichi principi e antichi valori, le seconde muovono verso una modernità civile che si va sempre più perfezionando, scoprendo e integrando nuovi valori sulla base dei vecchi. Questo perfezionamento si va attuando, partendo dal Rinascimento, mediante il progressivo abbandono delle basse e violente oscurità medievali,25 non attraverso il rifiuto della virtuosa civiltà antica. L’Italia anche in questo è manchevole: pur avendo rifiutato le rozzezze e le bassezze medievali, non è ancora riuscita a concepire un vivere civile e culturale in chiave moderna, e questo fatto la rende priva di qualunque fondamento morale. Insomma gli italiani non hanno fondamenti morali perché, fondamentalmente, non hanno costumi: Gl’italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi. Poche usanze e abitudini hanno che si possano dir nazionali, ma queste poche, e l’altre assai più numerose che
23
Cfr. Zib. 669-673, in Id., Zibaldone di pensieri cit., I, pp. 438-439. Cfr. la lettera di Leopardi a Vieusseux del 5 gennaio 1824 contenuta in Leopardi nel carteggio Vieusseux. cit., tomo II, pp. 497-498. 25 Id., Discorso… cit., p. 153. 24
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Da «Hermite des Appenins» che dialoga con un «romito dell’Arno»
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si possono e debbono dir provinciali e municipali, sono seguite piuttosto per sola assuefazione che per ispirito alcuno o nazionale o provinciale, per forza di natura, perché il contraffar loro o l’ometterle sia molto pericoloso dal lato dell’opinione pubblica, come è nelle altre nazioni, e perché quando pur lo fosse, questo pericolo sia molto temuto. Ma questo pericolo realmente non v’è, perché lo spirito pubblico in Italia è tale, che, salvo il prescritto dalle leggi e ordinanze de’ principi, lascia a ciascuno quasi intera libertà di condursi in tutto il resto come gli aggrada, senza che il pubblico se ne impacci, o impacciandosene sia molto atteso, né se n’impacci mai in modo da dar molta briga e da far molto considerare il suo piacere o dispiacere, approvazione o disapprovazione. Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia.26
Da questa flagellante analisi dell’italiano27 Leopardi risulta che il livello morale è basso laddove è assente o limitata la circolazione della cultura e della civiltà moderna, per cui dopo la strage delle illusioni e il trionfo della ragione, la morale è tanto più alta quanto più è presente la civiltà costruita sulla ragione, ossia nelle grandi città e in quei ceti elevati che costituiscono la società stretta, mentre è più bassa laddove la sconfitta e la distruzione degli antichi principi morali, fondati su passione e illusioni, non sono state compensate dalle nuove conquiste culturali legate alla ragione e, dunque, la bassezza morale è maggiormente rilevabile nei paesi di provincia28 e nelle classi sociali più basse ove sono più frequenti degli atteggiamenti incivili. Allora, se il tempo presente è il tempo della ragione e della sua civiltà, e se l’antica morale è stata distrutta, occorre – e qui è racchiusa tutta la modernità del pensiero leopardiano – promuovere e diffondere con grande impegno la cultura moderna, perché una società migliore la si può costruire solo attraverso una identificazione di essa con la cultura e la civiltà moderne. Tale società viene individuata dal Leopardi nei popoli settentrionali (Francia, Germania, Inghilterra), diversi per indole e per le particolari condizioni climatiche in cui vivono. Gli italiani, infatti, sono caldi ed esuberanti di natura e il clima temperato del loro territorio incrementa questa calda esuberanza che, però, paradossalmente si è trasformata in gelo e intorpidimento nel momento in cui essi hanno sperimentato il disinganno generato dal progresso della ragione. Diversamente da loro, i popoli settentrionali, proprio perché più freddi, per natura e clima, sono riusciti a resistere alla caduta dei vecchi valori. La scarsità di calore, interno ed esterno, di questi popoli ha fatto sì che essi non cedessero all’entusiasmo dei sentimenti e delle passioni perché il calore di queste illusioni ha bisogno di continuo alimento, e se questo viene a mancare l’esuberanza e l’entusiasmo lentamente si spengono.
26
Ivi, pp. 124-125. Cfr. la lettera di Leopardi a Vieusseux del 5 gennaio 1824 contenuta in Leopardi nel carteggio Vieusseux. cit., tomo II, pp. 497-498. 28 Zib. 3546-3547, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri cit., vol. II. p. 1852-1853. 27
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L’Italia, da sempre apprezzata per la sua immaginazione e per il suo fervore nelle espressioni umane, oggi è quasi del tutto priva di una letteratura e di una filosofia proprie e da queste mancanze nasce la superiorità dei popoli del Nord diventati, nel frattempo, più sentimentali, più caldi, finanche più coinvolti in correnti spirituali e religiose, mentre gli italiani vivono la religione al pari di come vivono la legge, ossia attraverso una semplice adesione formale. Nei popoli settentrionali, in ultima analisi, le passioni e l’immaginazione29 dell’età antica si sono incontrate con i progressi della ragione della società moderna,30 e questo incontro ha decretato la fine delle civiltà meridionali tanto fiorenti in passato: Il Discorso si conclude, dunque, in un’aura di modernità, profetizzando un «tempo del settentrione» a scapito della civiltà meridionale che tanto ha dato all’umanità in un passato ormai lontano, e si chiude proponendo un’etica delle illusioni che costituisce un elemento essenziale del sistema filosofico leopardiano nel quale le illusioni non sono «mere vanità» ma presentano un carattere sostanziale, innato e naturale, come il poeta ebbe a dire in una lettera a Pietro Giordani il 30 giugno 1820: Io credo che nessun uomo al mondo in nessuna congiuntura debba mai disperare il ritorno delle illusioni, perché queste non sono opera dell’arte o della ragione, ma della natura, […] Io non tengo le illusioni per mere vanità, ma per cose in certo modo sostanziali, giacché non sono capricci particolari di questo o di quello, ma naturali e ingenite essenzialmente in ciascheduno; e compongono tutta la nostra vita.31
Questa convinzione, evidente nel Discorso, rimane radicata nel pensiero di Leopardi e si affianca al suo intatto materialismo, di chiara ascendenza francese e settecentesca, contaminandolo e innalzandolo di una tensione ideale che conduce l’uomo a dare «un significato al mondo grazie al suo a priori, che è un a priori di stretta natura valutativa, e quindi estetico […] e soprattutto etico».32 Un discorso etico, quello del Leopardi che, nel testo in esame, attraversando vari punti di vista e varie tematiche, nella sua impostazione, conduce in sottofondo un’analisi realistica dei comportamenti di massa e, in definitiva, del cuore umano. E se, attraversando le passioni e le illusioni del cuore umano, Leopardi può amare il suo popolo, egli non ha alcuna fiducia nella massa, risultato autentico, ma barbaro, dei tempi attuali, come dimostra la mancanza di amore per la libertà e la mancata adesione alle autentiche passioni civili delle masse indistinte italiane. Allora una vera società, stretta in una vera fratellanza, fondata su altri principi e scopi, può sorgere, sta sor-
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G. Leopardi, Discorso… cit., pp. 161-162. Ivi, p. 163, nota t. 31 Id., Epistolario cit., 1998, 2 voll., vol. I, p. 414. 32 Id., Discorso… cit., p. 104. 30
X. Italiani della letteratura: Leopardi
Da «Hermite des Appenins» che dialoga con un «romito dell’Arno»
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gendo o è già sorta nelle terre del Nord Europa, una società che solo nella civiltà del «conversar cittadino» può stringere ancora gli uomini in una «social catena» contro le forze avverse di colei che «madre è di parto e di voler matrigna», senza aspettarsi nulla da niente e da nessuno, come sa fare la lenta Ginestra33 nella sua infinita saggezza.
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Tra le altre opere di Leopardi in qualche modo legate al Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani vanno sicuramente ricordate La Palinodia al marchese Gino Capponi e i Paralipomeni della Batracomiomachia, ma l’opera che sicuramente raccoglie, in una dimensione di universalità, il messaggio leopardiano contenuto in questo saggio sui costumi del suo popolo è senz’altro La ginestra o il fiore del deserto. Leopardi e leopardiani all’Italia
XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario La rappresentazione del Risorgimento in quattro testi del secondo Novecento Da «Italia mia, benché ’l parlar sia indarno» a «O patria mia, vedo le mura e gli archi»: petrarchismo politico e tradizione lirica La rivendicazione dell’identità nazionale: biografie e panegirici fra Sette e Ottocento L’elaborazione del processo unitario: Sette e Ottocento Dal futuro senza Italia all’Italia senza futuro
L’ELABORAZIONE E LA RIFLESSIONE SUL PROCESSO UNITARIO
GISELLA PADOVANI I romanzi di Cletto Arrighi tra speranze risorgimentali e delusioni post-unitarie
In un articolo apparso nel 1890 sulla strenna ambrosiana «Milano nuova» Cletto Arrighi evocò lo slancio militante della propria giovinezza, spesa tra una battagliera attività patriottica e un sempre più consistente impegno letterario: A diciott’anni – era il ’48 – fui nominato dal Governo provvisorio sottotenente nel reggimento Dragoni Lombardi. Se avessi continuato nella carriera delle armi, a quest’ora, lo giuro, sarei per lo meno capitano in aspettativa e pensionato. Fui preso dalla nostalgia e dopo la battaglia di Novara diedi le dimissioni, mentre il mio colonnello Porqueddu già mi presentava la promozione a luogotenente, e mi pregava di restare con lui. A Milano, avrei dovuto passar ingegnere. Mio padre aveva uno studio, che gli rendeva una ventina di mille lire annue […]. Non ci pensai. La matematica mi faceva orrore. […] Dunque, dato un calcio alla professione d’ingegnere, studiai legge e mi posi a scrivere dei romanzi. Gli ultimi coriandoli, poi la Scapigliatura, le Memorie di un ex-repubblicano, quelle di un Soldato lombardo, la Giornata di Tagliacozzo, la Contessa della Guastalla e via dicendo.1
Carlo Righetti, più noto sotto lo pseudonimo di Cletto Arrighi, non ancora ventenne partecipa alle cinque giornate di Milano e alla prima guerra di indipendenza. Prenderà parte come volontario anche alla seconda e affronterà gli austriaci nella battaglia di Tronzano. Testimone diretto di eventi politico-militari che rivisiterà spesso sul crinale letterario, tra il ’56 e il ’57 egli produce i suoi primi testi narrativi e si affaccia alla ribalta del giornalismo operando nelle redazioni di fogli
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C. Arrighi, Storia del Teatro Milanese (auto-pseudo-apologia), in «Milano nuova. Strenna del Pio Istituto dei rachitici», a cura di P. A. Curti, Milano, Tipografia Bernardoni di C. Rebeschini & C., X (1890), p. 40. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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orientati in direzione antiaustriaca. Dopo aver collaborato a «Quel che si vede e quel che non si vede», testata satirica veneziana fondata da Leone Fortis il 2 novembre 1856 e soppressa dalle autorità governative il 9 gennaio dell’anno successivo,2 lo scrittore esordiente continua ad agire al fianco del giornalista triestino quando il periodico riprende le pubblicazioni, a Milano, con un nuovo titolo. Si tratta del «Pungolo», varato il 7 marzo 1857. Frattanto, il 15 novembre del ’56, Arrighi ha dato vita nel capoluogo lombardo a un proprio giornale in cui ancora una volta lo svago parodico si nutre di irrinunciabili allusioni politiche. È «L’Uomo di Pietra», foglio, come precisa il sottotitolo, «letterario, umoristico-critico, con caricature». Tra i collaboratori spicca il venticinquenne Ippolito Nievo, della cui firma si fregia anche il «Pungolo». Proprio sul giornale di Fortis il 3 gennaio 1858 lo scrittore padovano, già impegnato nella stesura delle Confessioni, in un articolo intitolato Ciance letterarie. Romanzi e drammi difende energicamente il genere letterario con cui anch’egli si sta cimentando e definisce «appassionato» il romanzo Gli ultimi coriandoli, alludendo probabilmente alla rovente emotività, alle generose intemperanze dei personaggi creati dal suo sodale milanese. In questo milieu intellettuale comincia a prender corpo la «nozione di Scapigliatura politica» che Arrighi elabora sin dal 1857 correlandola al «mondo dei patrioti e delle cospirazioni risorgimentali nel quale egli stesso opera»3 e ispirandosi a un modello di riferimento a lui ben noto: il team di artisti, pubblicisti, scrittori attratti nell’orbita della stampa letterario-satirica, d’opinione, di informazione culturale, di propaganda ideologica in anni immediatamente precedenti la seconda guerra d’indipendenza. Come negli Ultimi coriandoli, che nel ’57 rievocano la frenetica attività cospirativa svolta alla vigilia delle Cinque Giornate da quelle società segrete con cui Arrighi in passato era personalmente entrato in contatto, così anche nei due Frammenti di una progettata Scapigliatura milanese apparsi, sempre nel 1857, sull’«Almanacco del Pungolo»,4 l’autore elegge il Risorgimento non ancora concluso a quadro storico nel quale incastonare situazioni, fatti e personaggi rappresentati in sede narrativa. L’appello alla mobilitazione antiaustriaca imprime un’intonazione patriottica sia al romanzo d’esordio sia ai due brevi scritti ad esso cronologicamente prossimi, Presentazione e Uno scapigliato, ospitati nel periodico vallardiano che Fortis ha trasportato da Venezia a Milano tra intimidazioni, sequestri, diffide, ammonizioni della polizia austro-ungarica. Tanto nel romanzo, in particolare nel sesto capitolo (dove il carbonaro Niso
2
Cfr. riguardo a questa vicenda A. I. Villa, «La Scapigliatura milanese. Frammenti» (1857) di Cletto Arrighi, manifesto della Scapigliatura pre-unitaria, in «Otto/Novecento», XVII (1993), 5. 3 Ivi, p. 37. 4 Presentazione (p. 59 e ss.) e Uno scapigliato (p. 65 e ss.) in «Almanacco del Pungolo», Milano, Vallardi, I (1857). XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
I romanzi di Cletto Arrighi
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Piertini è definito «il re della scapigliatura artistica di Milano»,5 e, con un sintagma di matrice balzachiana, «Le prince de la Bohème»)6 quanto nei due Frammenti già menzionati, la descrizione di una condizione artistica di stampo murgeriano, investita di valenze politiche, prelude all’elaborazione della Scapigliatura e il 6 febbraio. È significativo a tal riguardo che negli Ultimi coriandoli. Romanzo contemporaneo, la cui trama include una corposa componente autobiografica, Costanzo Castelsanto, l’eroe positivo deputato a trainare l’azione narrativa, venga qualificato nel ventunesimo capitolo come «capo scarico»7 e, in un luogo precedente, «scapato».8 Quest’ultimo termine costituirà una variante di «scapigliato», sarà un’etichetta (insieme con altre sigle definitorie di notevole densità semantica, quali «spostato», «scapestrato», «rompicollo», «perduto», «refrattario») sotto cui negli anni Sessanta e Settanta si raccoglieranno poetiche iconoclastiche, proclami di originalità e novità («l’arte dell’avvenire» vagheggiata da Arrigo Boito), velleità di sovversione antiborghese, ideali politici democratici. È agevolmente rilevabile inoltre come il complesso delle connotazioni psicologiche e comportamentali dalle quali è caratterizzato il personaggio assiale, Costanzo, anticipi i tratti salienti della fisionomia umana di Emilio Digliani, protagonista della Scapigliatura e il 6 febbraio, dove il tema dell’impegno patriottico si inquadrerà però in un contesto storico mutato. Il romanzo del 1857 è ancora direttamente rapportabile a un paradigma di valori e sentimenti alti, di aspirazioni eroiche e nobili idealità risorgimentali. Assume uno speciale rilievo in questa prospettiva la scena che nel ventiduesimo capitolo presenta Castelsanto e gli altri cospiratori suoi sodali riuniti in segreto, nella contrada Fiori Oscuri, all’interno di una stanza rischiarata da un’antica lucerna di bronzo a tre lucignoli, nel cui mezzo c’era una tavola, intorno a cui stavano seduti nove giovani tutti al di qua dei trent’anni. […] Erano calmi e severi. Soltanto che un occhio sperimentato avrebbe forse scoperto nei loro occhi, l’ombrosa preoccupazione di gente che sa di commettere un’azione ben più pericolosa e proibita che non sia un gioco d’azzardo. […] Niso, nel silenzio che la sua apparizione aveva prodotto, disse, con maggiore gravità di quello che la giovine compagnia parea richiedesse: – Eccovi, amici, chi vi avevo promesso jeri al Caffè del Cappello… il signor Costanzo Castelsanto. […] Allora Paolo Gualtieri gli mosse incontro, gli porse la mano, e gli diede una di quelle strette che anima d’uomo non dimentica più per volgere di anni; […] e quello, diciamolo pure, fu il momento più solenne di sua vita. Da quel punto egli si rendeva complice […] di quel delitto, che tutti i codici del mondo puniscono con la morte.9
5
C. Arrighi, Gli ultimi coriandoli. Romanzo contemporaneo, Milano, presso l’Ufficio del Giornale L’Uomo di Pietra 1857, p. 113. 6 Ibidem. 7 Ivi, p. 273. 8 Ivi, p. 202. 9 Ivi, p. 278. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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Da un differente sostrato ideologico germina La Scapigliatura e il 6 febbraio. Sebbene sia stato pubblicato solo a qualche anno di distanza dall’apparizione degli Ultimi coriandoli, a regno d’Italia appena costituito, il romanzo si proietta su uno scenario di aspettative deluse e di speranze tradite. Documenta emblematicamente un malessere generazionale imputabile alla mortificazione degli ideali risorgimentali, archiviati dalla Realpolitik del giovane Stato unitario. È ormai un ricordo lontano il magma convulso dei trasalimenti emotivi, delle istanze, delle trepidanti attese da cui avevano tratto linfa vitale Gli ultimi coriandoli. E la sensazione di felicità «indescrivibile» che tra il febbraio e il marzo del 1848 «inondava» il cospiratore Costanzo Castelsanto, gravato di una «terribile e nuova responsabilità»,10 si ascrive alla categoria delle esperienze irripetibili. L’impeto di un tempo si è affievolito nella stanchezza del disinganno, come lo stesso Arrighi ammetterà in un luogo del racconto-inchiesta Un suicidio misterioso, del 1883 (Milano, Guigoni): «Certo che gli avvenimenti dell’epopea nazionale avevano temprati gli animi di molti giovani di quel tempo a forti imprese e a generosi propositi. Certo che la smania di scuotere la dominazione straniera e l’esempio degli adulti avevano destato nella gioventù d’allora un complesso di sentimenti nobilissimi e fieri, che oggidì non hanno più né riscontro né ragione di essere».11 Qualche anno dopo, attingendo al serbatoio dei ricordi personali, egli confesserà con amarezza: «Rimembrando oggi quel periodo della mia vita, pur così pieno di speranze, di illusioni e di amore dell’arte, provo, non dirò uno strazio orrendo – per non abusare d’una frase troppo romantica – ma un dispiacere intenso. Che io abbia avuto delle idee troppo in grande, […] ciò è fuor di dubbio!»12 L’impatto con il nuovo assetto che la società italiana va assumendo dopo la proclamazione dell’Unità e con le ragioni dominanti del capitalismo nascente, sollecita il richiamo in chiave polemica o nostalgica agli ideali eroici della stagione passata e nello stesso tempo induce a operare bilanci con distacco emotivo, a rivedere giudizi, a ripercorrere con una disposizione severamente critica e autocritica fasi decisive della vicenda risorgimentale. La diade antinomica illusione / disinganno domina la tastiera tematica di una cospicua serie di testi letterari prodotti dall’inquieta avanguardia bohémienne e incentrati su momenti cruciali della recente storia patria. Basti ricordare per il loro valore esemplare, oltre alle opere di Arrighi qui prese in considerazione, i romanzi Una nobile follia di Igino Ugo Tarchetti (pubblicato all’indomani delle sconfitte di Lissa e Custoza) ed Entusiasmi di Roberto Sacchetti (apparso postumo in volume nel 1881), e la novella Senso di Camillo Boito (edita nel 1883, a ridosso cioè della Triplice Alleanza e degli accordi stipulati dall’Italia con i nemici di un tempo).
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Ivi, p. 279. C. Arrighi, Un suicidio misterioso, Milano, Guigoni 1883, p. 15. 12 Id., Storia del Teatro Milanese (auto-pseudo.apologia) cit., p. 39. 11
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In Emilio Digliani, portavoce delle opinioni di Cletto Arrighi, si è spenta del tutto la «feconda follia»13 sperimentata intensamente al tempo della milizia nel battaglione Manara e di «quel magnifico ribollimento di teste e di cuori che con una parola sola fu chiamato il quarantotto».14 Nell’imminenza dell’insurrezione milanese del 6 febbraio 1853, che fa da sfondo alla vicenda, il protagonista del romanzo rivela un atteggiamento di sfiducia, di sconforto acre. Insofferente ormai dei «terribili lacci politici della cospirazione»,15 egli manifesta all’amico Lisandro la propria diffidenza verso i metodi operativi adottati da Mazzini: – Ho voluto dire che per domani sera è fissato il colpo, e che gli altri hanno già ricevuto il denaro e gli stili. – Come sai tu questo? – sclamò Emilio prendendogli il braccio. – Me lo ha detto il Paolino. – Dunque volete proprio farvi impiccare? – Eh impiccare! Ci dobbiamo essere anche noi! Vedremo se saranno loro che metteranno noi in alto, o noi che metteremo loro in basso. – Ma, o disgraziati, non capite che è impossibile? – lo interruppe Emilio; e si arrestò.– Basta! Quello che ti posso dire si è che io di stili non ne voglio sapere…sarà un pregiudizio, ma è così […]. Morire a me non m’importa nulla, ma quando ci sia probabilità di riuscita… Via, credilo a me; vi farete impiccar tutti…e sarete chiamati assassini…16
La prima parte dell’opera, occupata dal racconto del travagliato rapporto sentimentale tra Enrico e Noemi, si sviluppa su un registro convenzionalmente pateti-
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Id., La Scapigliatura. Romanzo sociale contemporaneo, a cura di G. Farinelli, Milano, Istituto Propaganda Libraria 1978, p. 223. 14 Ivi, p. 147. 15 Ivi, p. 302. La coscienza dell’inutilità del proprio impegno devasterà di lì a qualche anno anche il tarchettiano Vincenzo D., la cui alienazione mentale sarà innescata proprio dall’acquisizione di tale consapevolezza. L’antieroico protagonista di Una nobile follia, infatti, prende atto di quanto penosamente infruttuosa sia la sua contestazione che, cominciata sul piano speculativo (l’antimilitarismo), finisce per investire l’intero sistema civile nella sua organizzazione sociale: «Io mi vedeva collocato nella società, tra questi esseri che anelano a tutto distruggere, come un complice mostruoso dei loro delitti […]. Fu allora che mi ritrassi nella solitudine: pensai di sciogliere in questo modo i legami che mi univano agli altri uomini, di sottrarmi in questa guisa alla tirannia crudele delle loro abitudini; ma io non aveva preveduto che mi sottoponeva a un tempo alla più tormentosa delle schiavitù; alla schiavitù e al martirio della meditazione. Credete, la società ha almeno ciò di utile nell’orrenda trasformazione ch’ella fa subire al carattere umano, che impedisce agli uomini di riflettere, e spesso ancora di pensare», I. U. Tarchetti, Una nobile follia. Drammi della vita militare, in Id., Tutte le opere, a cura di E. Ghidetti, Bologna, Cappelli 1967, vol. I, p. 416. 16 Ivi, p. 275. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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co. Nella seconda sezione è introdotto lo spazio storico, ma in funzione accessoria rispetto all’asse diegetico fondamentale, rappresentato da una melodrammatica vicenda d’amore. Solo tre capitoli, l’undicesimo, il dodicesimo e l’ultimo, il diciassettesimo, puntano sulla rievocazione dell’episodio risorgimentale al quale il titolo rinvia esplicitamente, lo sfortunato moto operaio d’ispirazione mazziniana divampato a Milano il 6 febbraio 1853 sotto la guida del patriota umbro Eugenio Brizi. Su proposta di Luigi Pianciani, Mazzini affidò a Brizi – che nel ’48 si era segnalato nella difesa di Venezia e durante la Repubblica romana era stato comandante di piazza a Terni – l’organizzazione militare della rivolta milanese, fallita (secondo l’interpretazione che lo stesso promotore ne avrebbe data nelle Note autobiografiche premesse all’edizione Daelli dei suoi Scritti editi e inediti) per il mancato concorso dei ceti colti, delle «marsine» come Emilio Visconti Venosta, futuro ministro degli Esteri del Regno d’Italia. Per garantire l’attendibilità del suo racconto, che in verità pullula di inesattezze, nel corso di uno dei numerosi inserti metanarrativi che lo punteggiano Arrighi cita l’autorevole fonte utilizzata: Queste nozioni storico-politiche, ch’io trassi dal bel libro di Guttièrez intitolato: Il Capitano Decristoforis, erano assolutamente necessarie a spiegare la condotta di Emilio […]. A chi poi mi rimproverasse di aver voluto far entrar la politica, dove si avrebbe potuto far senza, sono lieto di rispondere essere questa ormai divenuta,secondo me, un elemento così inevitabile di qualunque romanzo contemporaneo, che il passarvi sopra, sarebbe come se, in un paesaggio, un pittore dimenticasse il cielo, o in un ritratto lo sfondo.17
Trasfigurando in chiave romanzesca la ricostruzione operata da Gaetano Guttièrez nel Capitano Decristoforis (Milano, Boniardi-Pogliani, 1860), opera più volte menzionata all’interno del romanzo, Arrighi convoglia al crocevia di veridicità e immaginazione le informazioni concernenti i sette scapigliati-cospiratori destinati ad assurgere a statura eroica e presentati nel capitolo dodicesimo come liberali che tuttavia in vista dell’insurrezione del ’53 assecondano i piani di Mazzini. L’esigenza, diffusa tra gli scapigliati, di attualizzare i tragitti dell’invenzione letteraria rapportandoli strettamente alle coordinate del presente o di un periodo da poco trascorso, si esprime in questo caso attraverso la contiguità del tempo della storia, il 1853, al tempo della scrittura, l’alba degli anni Sessanta. Ma le articolazioni dell’intreccio, ruotante attorno alla narrazione di uno sfortunato amore adulterino, sminuiscono il ruolo funzionale assegnato alla militanza patriottica di Emilio Digliani, carismatico «giovane di cuore» che ha combattuto al seguito di Luciano Manara nel ’48 e che come gli altri componenti della «compagnia brusca» di cui è
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C. Arrighi, La Scapigliatura. Romanzo sociale contemporaneo cit., p. 291. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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capo non esiterebbe a rischiare la vita in qualsiasi momento «per correre alla chiamata di Garibaldi, o di chiunque altri promettesse di mandar via questa canaglia di Tedeschi».18 È la ragione per la quale egli, se pure con poca convinzione, si lascia coinvolgere nella rivolta del 6 febbraio in cui troverà la morte con sei dei suoi sodali: In tal modo quelli stessi che prima del pericolo avevano avversato a tutto potere l’insano progetto, quelli stessi che a mente fredda avevano rigettato energicamente ogni complicità in una rivolta a pugnali, senza probabilità di riuscita… al primo grido di libertà, al primo squillo d’allarme, erano discesi nella strada, e s’erano gettati nella mischia, colla disperazione del suicida. Diverse cause avevano prodotto in ciascuno di quei quattro sventurati lo stesso effetto. Insofferenza del giogo – smania di lotta e di sangue austriaco – miseria – speranze perdute – disperazione della vita. Nel momento supremo, ciascuno, credendo forse di esser solo, s’era determinato a far ciò da cui poco prima aveva cercato di dissuadere gli altri […]. Erano vissuti da scapigliati; erano morti da eroi.19
Nella realtà storica il moto venne effettivamente represso già sul nascere e il governo austriaco decretò nel giro di due mesi sedici condanne a morte. L’esito disastroso della sommossa, come si sa, incise negativamente sulla popolarità di Mazzini, bersagliato da recriminazioni e accuse di varia provenienza e abbandonato per divergenza di vedute da molti dei suoi compagni di fede politica. L’ex repubblicano Carlo Righetti, un tempo ardente di eroici furori democratici (lo testimoniano le sue Memorie pubblicate a Milano nel 1864 presso l’Ufficio della «Cronaca grigia»), all’indomani dell’Unità non nasconde le proprie riserve sulla validità della strategia operativa messa a punto dal rivoluzionario genovese. È illuminante a tal proposito la sequenza che chiude il dodicesimo capitolo. Qui Emilio, dialogando con il popolano Paolino la sera del cinque febbraio, gli confessa di essersi impegnato a capeggiare un’iniziativa certamente destinata all’insuccesso: – Perché è una pazzia; perché non potremmo che farci impiccar tutti senza ottenere un filo; perché il Paese non ne sa nulla, e non è ancora preparato abbastanza, e ci lascerà scannare come tanti agnelli… Capisci il perché? – La vuol dire? Com’è dunque che fu combinata la cosa? – La cosa fu combinata da chi non sa nulla di nulla, e crede di veder domani insorgere tutta la Lombardia, come un barile di polvere in cui cada una scintilla. Ma invece la scintilla questa volta sarà spenta prima di giungere neppure al coperchio.20
18
Ivi, p. 307. Ivi, p. 371. 20 Ivi, p. 297. 19
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Il programma di creare un’opera letteraria in cui il contenuto di pensiero sia determinante, di dar vita a un romanzo «moderno» in quanto sostanziato di interessi e temi politici di forte spessore, non viene realizzato nella Scapigliatura e il 6 febbraio. Circa un ventennio più tardi, il progetto, caro agli scapigliati, di inscrivere le costruzioni romanzesche in «un sistema spazio-temporale che, nell’ancoraggio alla contemporaneità o al recente passato» consenta alla narrazione di coordinare «lo svolgimento dei fatti pubblici con le esperienze private dei protagonisti»,21 prenderà corpo in un’opera del piemontese Roberto Sacchetti, Entusiasmi (Milano, Treves, 1881). Un libro – noterà Benedetto Croce – in cui «l’anima» della «rivoluzione milanese delle Cinque giornate», che il giovane autore «ritrovava in sé», è espressa con assoluta «verità».22 Formatosi «negli ultimi anni del Risorgimento nazionale e nei primi della conseguita unità»,23 Sacchetti muore trentaquattrenne nel 1881, quando ha appena concluso la stesura del romanzo poi stampato per iniziativa dei suoi amici. Entusiasmi restituisce fedelmente «le speranze, i sogni, gli ideali, gl’impeti generosi onde l’Italia fu piena all’avvento di Pio IX; le attese e le tacite intese, e i sospiri e i conforti e i reciproci incitamenti» e «l’attuarsi di una sollevazione popolare per una forza di unanimità che trascende i concetti e le volontà dei singoli».24 Cardine della materia narrativa è, anche in questo caso, il contrasto fra le aspirazioni rivoluzionarie ancora fortissime sino al 1848 e il sentimento di delusione suscitato dal loro tracollo. Sacchetti risale con determinazione progettuale alla matrice storica degli «entusiasmi» eponimi del romanzo e anacronistici nel momento in cui egli lo scrive. Coerentemente con questo disegno, nell’autore di Entusiasmi l’interesse per la dinamica degli eventi pubblici, militari e politici prevale sull’attenzione all’ambito, molto circoscritto, in cui si collocano le storie private dei singoli personaggi. Ne derivano un’organicità tematica e una compattezza strutturale del tutto mancanti, invece, nella Scapigliatura e il 6 febbraio. Il più evidente difetto del secondo romanzo a sfondo storico-risorgimentale di Cletto Arrighi consiste infatti, come ha scritto Folco Portinari, in «una sostanziale assenza di idee chiare […]. Non a caso i membri della Compagnia brusca sono politicamente moderati o centristi, non vorrebbero la rivolta e ci si trovano coinvolti per motivi extrapolitici».25 Le pagine migliori del libro di Arrighi sono quelle introduttive, occupate anche
21
G. Rosa, La narrativa degli Scapigliati, Roma-Bari, Laterza 1997, p. 67. B. Croce, Per una ristampa. Il romanzo ‘Entusiasmi’ di Roberto Sacchetti, in «La Critica. Rivista di letteratura, storia e filosofia», (XLI) 1943, p. 340. 23 Ibidem. 24 Ivi, p. 341. 25 F. Portinari, Le parabole del reale. Romanzi italiani dell’Ottocento, Torino, Einaudi 1976, p. 98. 22
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dall’accenno a un progetto di lavoro (lo studio delle articolazioni interne della «casta» scapigliata e dei suoi conflittuali rapporti con la società borghese) che però verrà solo in parte attuato dall’autore, incapace di operare, sulla scia dell’esempio fornito dal «pontefice»26 della Bohème milanese Giuseppe Rovani, una convincente calibratura dei fenomeni collettivi con le vicende individuali dei personaggi che con essi si misurano. Lo scarto tra le intenzioni e gli esiti rende disorganico l’impianto della Scapigliatura e il 6 febbraio. Tuttavia, va riconosciuto al narratore lombardo il merito di aver descritto per la prima volta, e con mirabile efficacia, i tratti peculiari (identità generazionale, sbrigliato estro creativo, ripudio del sistema di organizzazione sociale borghese) da cui erano accomunati i membri della pattuglia scapigliata in via di formazione: Erano sette – numero mistico, numero cabalistico – erano sette; ma ad un’occasione potevano passar benissimo per ventiquattro: seduti a cena, per esempio, o in un coro, o in una rissa… La loro sede ufficiale e pubblica era dal tabaccaio sull’angolo d’una contrada centrale […].Questa piccola società non aveva uno scopo apparente, fuor quello di riunirsi a fumare ed a ciarlare. L’amicizia e una certa conformità di carattere, di posizione e di gusti pareva legasse fra loro i sette membri di questa misteriosa compagnia. Ma il tabaccaio, in un angolo della cui bottega essi erano venuti ad installarsi, la pensava altrimenti; e […] aveva dovuto persuadersi a lungo andare che una ragione più seria e più segreta legava tra loro que’ suoi sette avventori. La polizia, che in quei tempi stava più che mai all’erta, ne aveva avuto anch’essa un sentore ed aveva interrogato l’onesto tabaccaio sulle abitudini, sui discorsi tenuti da quelle sue pratiche, non che su ciò ch’ei ne pensasse in cuor suo.27
Nella giovanile coincidenza di ambizioni artistiche e tensioni eversive che affratellava i componenti della «compagnia brusca» va colto pertanto il nucleo genetico profondo del romanzo che, nonostante la sua fragilità strutturale, conserva ancora il fascino del modello prototipico.
26
G. Finzi, Lezioni di storia della letteratura italiana, vol. IV, parte II, Torino-Roma, Loescher 1895, p. 392. 27 Ivi, p. 134. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
ANDREA MANGANARO I lazzari, Pulcinella e il «carattere del popolo meridionale», tra vecchia e nuova Italia
«Il teatro di Pulcinella ha, del resto, tale fama, che nessuno, in una buona società, direbbe d’esserci stato. Le donne poi non ci vanno mai». Attingendo ai ricordi del Viaggio in Italia, così scriveva Goethe a Eckermann.1 E certamente Pulcinella è a lungo rimasto «ai margini della cultura accademica e scientifica per timore che la sua “volgarità” e irrilevanza si riverberassero su chi avesse voluto» trattarlo.2 Potrebbe ancora apparire stravagante l’argomento annunciato dal titolo della comunicazione in un convegno accademico sui 150 anni dell’Unità. A legittimare il tema e la pertinenza è però un’autorevole conversazione letteraria che si distende dalla fine del Settecento e si addensa sullo scorcio dell’Ottocento, nel passaggio dalla vecchia alla nuova Italia. E che ha come protagonisti tre grandi intellettuali europei: Goethe, appunto, De Sanctis e Croce. Una conversazione a distanza, non sincronica, ma con una fitta trama intertestuale di citazioni, riprese, riusi, attivata dall’ultimo dei tre, un ancor giovane Croce, il figlio migliore dell’erudita Società Storica Napoletana, e già intento però alle Tesi fondamentali della sua Estetica, che avrebbe visto la luce alle soglie del nuovo secolo. Il saggio di Croce su Pulcinella e il personaggio del napoletano, del 1898,3 fu in parte
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Citato da B. Croce, I teatri di Napoli. Secoli XV-XVIII, Napoli, Pierro 1891 (nella ristampa realizzata a Napoli, per i tipi di Arturo Berisio editore, nel 1968), p. 536. 2 D. Scafoglio, L. Lombardi Satriani, Pulcinella. Il mito e la storia, Milano, Leonardo 1992, pp. 53-54. 3 B. Croce, Pulcinella e il personaggio del napoletano in commedia. Ricerche ed osservazioni, in «Archivio storico per le provincie napoletane», XXIII (1898), pp. 605-668, 702-742. Tale studio venne pubblicato anche in volume, con lo stesso titolo e con dedica a Michele Scherillo, datata «Napoli, agosto 1898», a Roma, presso Loescher, nel 1899. Fu poi ripubblicato, con non poche varianti in Id., Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza 1911. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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sollecitato da un’occasione contingente, lo studio del tedesco Albrecht Dieterich su Pulcinella e le pitture pompeiane, con la tesi della derivazione della maschera napoletana dalla commedia atellana. A motivarlo più profondamente era però l’edizione degli scritti di De Sanctis cui Croce attendeva e che proprio in quegli anni approdava alla pubblicazione de La letteratura italiana nel secolo XIX e degli Scritti varii.4 In uno di quegli scritti, De Sanctis, esponendo i lavori presentati sul tema «Pulcinella» dagli allievi della sua «scuola», e in primo luogo da Giorgio Arcoleo, aveva notato in essi la mancanza della «nota fondamentale, che dà un carattere a quella maschera». «Nota» che egli aveva invece tentato di individuare, con una sua definizione («Pulcinella rappresenta il popolano sciocco ed ozioso») pronunciata nel corso di una lezione (riferita dal Torraca)5 di quella sua seconda scuola.6 Ed è proprio contro questa definizione del proclamato maestro ideale che Croce sviluppa la sua argomentazione, negando a Pulcinella la rappresentatività del popolo napoletano: «Pulcinella è il popolo napoletano? E i napoletani sono il popolo di Pulcinella». Ecco una definizione che ha fatto fortuna, nel nostro secolo, e specie per opera degli scrittori francesi, i quali, come diceva Mad. de Staël, son sempre contenti quando riescono a trovare una frase che li dispensi per un bel pezzo dall’osservare e dal pensare.7
Per Croce, al contrario, «Pulcinella non designa un determinato personaggio artistico, ma una collezione di personaggi». È l’impossibilità di caratterizzare tali «collezioni» accomunate solo da «un nome, e forse un vestito» a rendere «fallaci tutte le definizioni di Pulcinella». E «dove si è provato e non è riuscito il De Sanctis, è difficile che altri riesca».8
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F. De Sanctis, Letteratura italiana nel secolo XIX. Scuola liberale. Scuola democratica. Lezioni raccolte da Francesco Torraca e pubblicate con prefazione e note da B. Croce, Napoli, Morano 1897; Id., Scritti varii inediti o rari, a cura di B. Croce, Napoli, Morano 1898. 5 Cfr. F. Torraca, Dal «Libro della Scuola» di Francesco de Sanctis, 1872, Tip. Metastasio, Roma 1885 (poi in Id., Per Francesco De Sanctis, Perrella, Napoli 1910, pp. 119-142, in particolare pp. 139-143): «Pulcinella nella nota fondamentale rappresenta il popolano sciocco ed ozioso. Nelle altre maschere queste qualità ci sono, ma rimangono accessorie. Pulcinella fa ridere a spese sue, le altre maschere a spese degli altri. Goethe ha colto questa nota, e il prof. legge una scena della seconda parte del Faust, da lui tradotta, in cui Pulcinella apparisce appunto sotto questo aspetto». 6 F. De Sanctis, Scritti varii inediti o rari cit., II, pp. 196-197. Cfr. pure Id., La scuola [1872], in Id., L’arte, la scienza e la vita, a cura di M. T. Lanza, Torino, Einaudi 1972 (Opere di F. De Sanctis a cura di C. Muscetta, XIV), pp. 305-315, in part. pp. 313-315; e cfr. ivi, in appendice (pp. 499-508) G. Arcoleo, Pulcinella dentro e fuori di teatro. 7 Cfr. B. Croce, Il tipo del napoletano nell’antica commedia italiana, in «Corriere di Napoli», XXII (1893), n. 245, 4-5 settembre 1893, e n. 247 del 6-7 settembre. 8 Id., Pulcinella e il personaggio del napoletano… cit., p. 606. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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Nello stesso anno in cui, con la riedizione delle opere, si presentava come erede dell’indirizzo desanctisiano, Croce caratterizzava i termini del suo rapporto con il grande critico: non ossequiosa apologetica, ma sviluppo, interpretazione; in sostanza funzionalizzazione dell’opera di De Sanctis a quella che sarebbe presto divenuta la battaglia neoidealista per l’egemonia nella cultura italiana. «Pulcinella» era uno dei problemi posti da De Sanctis, che Croce riprendeva proprio dal punto in cui era stato lasciato dal suo «predecessore». Attuava così nei confronti di De Sanctis non la critica delle «cornacchie» (gli eruditi intenti a trovare mende nei suoi testi),9 ma la correzione (e quindi la riformulazione) delle sue concezioni teoriche, sollevandosi allo stesso ordine di problemi («al piano superiore») dell’insigne «criticato».10 Nel confutare la definizione desanctisiana su Pulcinella simbolo del popolo napoletano, Croce manifestava in sostanza già un netto rifiuto della tipizzazione sociologica. Iniziava così a estromettere dalla valutazione estetica, come avrebbe presto fatto nei saggi sulla letteratura della nuova Italia (su Verga, Di Giacomo, D’Annunzio), il rapporto col referente storico e sociale, elemento caratterizzante invece la prospettiva storicizzante desanctisiana. Croce addebitava l’origine dell’accostamento tra Pulcinella e il «carattere del popolo napoletano» ai viaggiatori stranieri del Settecento. La presenza di Pulcinella «dappertutto», a Napoli, condizionò gli osservatori, e poiché erano pur presenti «alcuni contatti tra il Pulcinella della commedia e il popolano della vita, si finì col far del primo non sapremmo bene se il ritratto, o la caricatura, o l’ideale del secondo». I collegamenti individuati, basati sulla «medesimezza di lingua e di costumi», erano però per Croce solo estrinseci. Pulcinella rappresentava infatti non il napoletano, ma «caratteri universalmente umani», che solo accidentalmente possono «designare approssimativamente il tipo umano che s’incontra frequente in una data classe, in un dato popolo». Il che non significa, però (avverte Croce, confutando proprio De Sanctis) che tali caratteri abbiano «nella nota fondamentale niente che debba dirsi proprio di determinate classi sociali o di determinati popoli».11 Ciò che Croce vuole marcare nettamente, mediante Pulcinella, è il confine tra valutazioni extraestetiche e giudizi estetici, già in linea pertanto con quanto attuerà prima nelle Tesi fondamentali di un’Estetica e poi nell’Estetica. È solo in «una considerazione extraartistica» che Pulcinella può essere assunto come «tipo del proletario, o meglio, di quella particolare classe del proletariato, che si chiama proletariato cencioso (Lumpenproletariat)» (Croce usava consapevolmente il termine marxiano), e specificamente «di quello particolare dei paesi in cui il popolo ha ingegno svegliato, gaia
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Cfr. B. Croce, Francesco De Sanctis e i suoi critici recenti, Memoria letta nella tornata del 3 aprile 1898, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», XXVIII (1898), Memoria n. 7, p. 8. 10 Così Croce precisava in una nota aggiunta alla memoria pontaniana ristampata, in quello stesso 1898, in appendice a F. De Sanctis, Scritti varii inediti o rari cit., pp. 351-352. 11 B. Croce, Pulcinella e il personaggio del napoletano… cit., p. 660. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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natura, piccoli bisogni facilmente contentabili». La rappresentatività sociologica di Pulcinella sarebbe cioè accettabile, secondo Croce, solo «per noi», ma non è immanente alla creazione estetica, che egli già sbilancia in direzione del polo della soggettività poetica. Per marcare l’opposizione tra «considerazione extraestetica» di Pulcinella e quella estetica, che prescinde, per Croce, ma non per De Sanctis, da ogni determinazione storico-sociale, nella conversazione a distanza viene introdotta una terza voce, quella del più autorevole dei visitatori stranieri di Napoli, Goethe. Ancora una volta la parola di Goethe viene citata e funzionalizzata da Croce al proprio discorso, come già prima aveva fatto su un argomento strettamente connesso: quello dei lazzari e del carattere del popolo napoletano, affrontato in un saggio del 1895, pubblicato sull’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» del Pitré.12 Non era solo un erudito studio di tradizioni popolari, però, quello dove Croce istituiva una perentoria equivalenza tra lazzari napoletani e proletariato. Il termine lazzaro aveva infatti causato tra Sette e Ottocento «le maggiori invenzioni ed esagerazioni» e aveva consentito all’immaginazione dei letterati di spiccare il volo costruendo una sorta di «personaggio fantastico» sui poveri cenci dei plebei napoletani. «Fantasticherie» letterarie che Croce priva di fondamento con una definizione economico-sociale dei «lazzari»:13 Col nome di lazzari si vuole designare la classe infima della plebe napoletana. I lazzari sono i proletarii di Napoli. Naturalmente, questi proletarii napoletani, oltre i caratteri comuni dei proletarii in generale, e in ispecie di quelli delle grandi città, hanno alcuni caratteri speciali, determinati dalle condizioni speciali del nostro paese. Qui il clima è mite, la vita più facile, il povero può dormire all’aria aperta e nutrirsi di poco, può esser sobrio, e per conseguenza più facilmente lieto e spensierato; i suoi bisogni morali e intellettuali non sono troppo grandi, non lo rendono feroce, non lo spingono alla ribellione.14
Ai lamenti dei letterati che non ritrovavano più il fantastico lazzaro, Croce rispondeva con un forte richiamo alla realtà, invitando a riconoscerlo in una sua recente, drammatica epifania, tutt’altro che letteraria, e, semmai, indicativa di «certi
12 Cfr. B. Croce, I lazzari, in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», XIV (1895), pp. 187-201. Ma sull’argomento mi sia consentito rinviare a A. Manganaro, Scritture e riscritture nel primo Croce: «I lazzari», ovvero le «fantasticherie» dei letterati e la realtà del popolo napoletano, in «Siculorum Gymnasium», n. s. XLVIII (1995) (Studi in ricordo di Rosario Contarino), pp. 205227. 13 Cfr. F. Chabod, Croce storico, in Id., Lezioni di metodo storico, a cura di L. Firpo, Bari, Laterza 19733, pp. 179-253, alle pp. 215-216. 14 B. Croce, I lazzari cit., p. 187.
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mutamenti» intervenuti: «Ma il lazzaro, ossia il proletario napoletano vivit, immo in senatum venit, e si è visto nei tumulti dell’agosto 1893. E chi voglia osservarlo nella realtà deve anzitutto liberar la mente dalle fantasticherie che la parola lazzaro ha 15 fin qui suggerito». La citazione della Catilinaria (vivit, immo in senatum venit) rinviava al riuso fattone da De Sanctis a proposito de «l’uomo del Guicciardini»: come l’eterno moderato nella sua essenza è ben presente nella realtà italiana («lo incontri ad ogni passo»), così il lazzaro è riscontrabile nella realtà di Napoli; solo che, smessa la natura non «incline alla ribellione», nella sua sostanza di proletario si è fatto riconoscere come pericoloso per il potere («in senatum venit») in quello scoppio di «anarchia spontanea» a cui fu dato il via dall’eccidio di Aigues-Mortes, seguito dai Fasci siciliani e dai tentativi di insurrezione della Lunigiana.16 Episodi che esercitarono una forte suggestione anche sul giovane Croce, il quale nel 1894 riteneva di trovarsi di fronte a un generale movimento rivoluzionario, se in una memoria accademica giungeva ad annotare: «è inesatto che la storia sia del tutto imprevedibile. È almeno tanto prevedibile quanto un’eruzione del Vesuvio: e qualche volta anche quanto il passaggio di una cometa. Noi prevediamo ora una trasformazione sociale e ça ira».17 Il suo interesse per i lazzari trovava infatti la propria ragion d’essere nella conoscenza, proprio in quegli anni, tramite Labriola, della concezione materialistica della storia, con la sua ricerca del «primo movente delle formazioni sociali».18 Se il termine lazzaro aveva sviato a lungo gli scrittori, determinando una distorsione ottica che induceva a vedere un essere inesistente e a non osservare il proletario napoletano nella sua realtà, per scorgere dietro il significante la nuda verità Croce invece riconduceva la parola alla sua origine di termine designante lebbrosi e povera gente, utilizzato come ingiuria infamante da boriosi signori spagnoli nei confronti dei plebei napoletani di Masaniello. E per confutare la «leggenda» addensatasi intorno alla parola, ad opera dei viaggiatori stranieri del XVIII secolo che
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Ivi, p. 198. La definizione di «anarchia spontanea» fu data ai moti proletari del 1893 da A. Labriola in una lettera ad Engels del 27 agosto 1893 (cfr. Marx e Engels, Corrispondenza con italiani. 1848-1895, a cura di G. Del Bo, Milano, Feltrinelli 1964, n. 405, p. 500). Cfr. N. Lo Presti, I fatti di Aigues-Mortes e le loro ripercussioni in Italia, in «Rassegna storica del Risorgimento», LXI (1974), 1, pp. 282-300; D. Novelli, Aigues-Mortes. La Villa Literno di un secolo fa, in «L’Unità», 19 ottobre 1994, p. 14. 17 B. Croce, Di alcune obiezioni mosse a una mia memoria sul concetto della storia, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», XXIV (1894) (Memoria n. 7), p. 14, nota 1. 18 Id., Memorie della mia vita (edizione dell’Istituto italiano per gli studi storici, Napoli 1992 – ristampa dell’ediz. 1966 –, con il sottotitolo di «Appunti che sono stati adoprati e sostituiti dal Contributo alla critica di me stesso»), pp. 20-21; Id., Contributo alla critica di me stesso, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi 1989, pp. 33-35. 16
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raffiguravano i lazzari come «selvaggi smarriti in una città europea», Croce utilizzava la testimonianza del più illustre dei visitatori di Napoli, Goethe, appunto. A riesumare la testimonianza goethiana come antidoto agli stereotipi sulla naturale oziosità del popolo napoletano era stato il meridionalista Giustino Fortunato, che traducendo le «lettere da Napoli» di Goethe, aveva notato come il poeta difendesse «il popolo dall’accusa di poltroneria» e lo credesse «anzi, tra i più sobrî ed operosi».19 Il riuso di Goethe non solo serve a Croce per smentire le fantasticherie sui lazzari, ma lo conduce a spostare l’attenzione su un tema in genere eluso dalla rappresentazione dei nostri letterati, quello del lavoro. Assunto nella pagina di Croce, il brano del Viaggio in Italia diviene il racconto della progressiva scoperta goethiana del lavoro del popolo napoletano. Senza mai scadere in populistiche romanticherie o in demagogiche perorazioni (ma non indifferente, come poi sarebbe stato, ai «famelici» e agli «oppressi»),20 Croce oggettiva la citazione del testo goethiano nella narrazione dello svelarsi della realtà dinanzi agli occhi di uno dei massimi intellettuali europei: del suo riconoscimento della peculiarità del lavoro del popolo napoletano, fatto di ingegnose attività, di minute occupazioni, di fatica non penosa, e non certo di quell’ozio caro all’immaginazione dei «settentrionali, che scambiano per ozioso chiunque non s’affatica penosamente tutto il giorno»: Il Goethe andò osservando i facchini che avevano i loro posti privilegiati sulle piazze ed aspettavano che qualcuno li chiamasse, i calessieri […] a disposizione di chiunque avesse bisogno dei loro servigi; […] Non vide altri mendicanti che tendessero la mano al passeggiero se non vecchi o storpi e malati. Gli stessi fanciulli gli parvero tutti affaccendati in qualche piccolo mestiere. […] E quanti poi, fanciulli e adulti, erano occupati nel raccogliere il letame, e la spazzatura, caricarne gli asini, e portarli fuori le città, per ingrassarne gli orti delle vicinanze! E, seguitando ad osservare, vide sempre più restringersi il numero dei pretesi oziosi. […]. Insomma, egli concludeva, i lazzaroni lavorano come chiunque altro, ma lavorano a loro modo.21
La parola di Goethe nel 1898 viene nuovamente citata, a proposito di Pulcinella, per avvalorare le concezioni estetiche che Croce va formulando. Il grande
19 Cfr. G. Fortunato, Un po’ di preambolo del traduttore a Le lettere da Napoli di Volfango Goethe, nell’«Unità nazionale», nn. dal 118 al 146, dal 30 aprile al 26 maggio 1874, ristampa a cura di S. Fornaro, Venosa, Edizioni Osanna Venosa 1993, p. 32. 20 Cfr. E. Montale, A un grande filosofo, in Id., Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984, p. 490. 21 B. Croce, I lazzari cit., pp. 195-196. Cfr. G. Fortunato, Le lettere da Napoli di Volfango Goethe cit., pp. 89-95, lettera del 28 maggio [1787]; J. W. Goethe, Viaggio in Italia, trad. di E. Castellani, Milano, Mondadori 1983, pp. 368-376.
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tedesco aveva sì notato le somiglianze che Pulcinella «presentava con l’immagine ch’egli s’era fatto della plebe napoletana». Ma quelle osservazioni «sul proletariato meridionale e sul Pulcinella» del Viaggio in Italia (osserva Croce) divennero però altro nel momento in cui egli passò alla creazione poetica, nella seconda parte del Faust. Lì diede vita ai Pulcinelli che «si avanzano tra il goffo e il matto» nella festa in maschera nel palazzo dell’imperatore e recitano beffardamente il loro credo ai taglialegna, rappresentanti «del lavoro utile e faticoso». Nella «poesia» del Faust, osserva Croce, il grande poeta tedesco depurò le proprie osservazioni di ogni particolare sociale, nazionale o storico e Pulcinella, pertanto, «si risolse di nuovo, nella sua fantasia, in un personaggio puramente umano, in cui le determinazioni storiche son cosa secondaria». Goethe si servì insomma del nome di Pulcinella «per fare il ritratto» non di un tipo sociale o nazionale, ma «di quelle categorie di uomini, che passano sulle difficoltà della vita come scivolando, non pigliando niente sul serio, divertendosi di tutto».22 Per Croce il Pulcinella di Goethe è una creazione estetica, non rappresentativa di una condizione sociale, come in parte aveva ritenuto De Sanctis (che pure aveva criticato gli eccessi in tal senso del saggio di Arcoleo).23 I Pulcinella ricreati da Goethe diventano per Croce exemplum di come la poesia raffiguri una condizione genericamente umana, non propria di una classe e di un tempo storico. Il saggio del tedesco Dieterich sulla derivazione di Pulcinella dalla atellana offrì a Croce anche l’occasione per confutare la teoria dell’«elemento etnico», secondo cui «Napoli è il terreno proprio del Pulcinella e di altri personaggi analoghi ad esso». Concezione che Croce stronca per la sua astrattezza e il suo carattere metastorico, poiché «pur non potendosi negare la persistenza più o meno lunga di alcune qualità di temperamento, naturali o acquisite (ma sempre superabili e contingenti, non necessarie o fatali!)», esse sono da considerare solo «come una forza tra
22 B. Croce, Pulcinella e il personaggio del napoletano… cit., p. 663. Cfr. J. W. Goethe, Faust, trad. ital. di F. Fortini, Milano, Mondadori 1990 (I ed. 1970), vol. II, pp. 474-475. Croce fece curare la «traduzione metrica» dei versi di Goethe dall’amico prof. Francesco Cimmino. Vale certamente la pena di citarla: «Voi siete i matti,/ Voi, curvi fatti / Sin da la culla; / Ma noi che nulla / Portiam, noialtri / Siamo gli scaltri! / Perché i berretti / Nostri, i giubbetti, / I nostri arnesi/ Son lievi pesi; / Comodamente, / Senza far niente, / Le piante snelle / Sempre in pianelle,/ Corriamo a schiere / Mercati e fiere; / L’un l’altro guata / Con spalancata / Bocca, e diam fuori / Strilli sonori; / E così, sparsi/ Tra l’accalcarsi/ Di genti a mille, / Al par d’anguille / Insiem guizziamo, / Saltiam, scrosciamo. / Se lode poi / Ci vien da voi, / O biasmo alcuno, / È a noi tutt’uno». De Sanctis aveva letto nella sua «scuola» la propria versione della scena dei Pulcinelli: cfr. Il ‘Faust’ di Goethe, in Id., La crisi del romanticismo. Scritti del carcere e primi saggi critici, intr. di G. Nicastro e note di M. T. Lanza, (Opere a cura di C. Muscetta, IV), Torino, Einaudi 1972, pp. 60-106, alle pp. 88-89. 23 F. De Sanctis, La scuola cit., pp. 313-314.
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le forze».24 È un giudizio, questo, che precorre la categorica affermazione di Teoria e storia della storiografia («Qual è il carattere di un popolo? La sua storia: tutta la sua storia e nient’altro che la sua storia»).25 Pulcinella è una manifestazione moderna, non derivante dall’antichità classica. Ma della maschera, sullo scorcio dell’Ottocento, nel passaggio tra vecchia e nuova Italia, De Sanctis prima e Croce dopo registravano ormai la decadenza. Attribuendola a diverse ragioni, però. Croce aveva presente il dibattito della seconda scuola di De Sanctis a proposito della «trasformazione futura di Pulcinella», così come risultava dal resoconto del Torraca. Nel lavoro di Giorgio Arcoleo De Sanctis aveva apprezzato le sue osservazioni sui mutamenti del comico nell’età moderna: «Il dire che il tipo comico dell’avvenire sarà Triboulet, significa che la commedia finisce e il dramma comincia».26 Arcoleo aveva ritenuto la maschera partenopea «idolo della plebe che vi si riconosce» e ne aveva auspicato la morte «fuori di teatro», ossia il risorgere a nuova vita morale della infima plebe napoletana, che in Pulcinella si riconosceva: «E Pulcinella cadrà, che l’alfabeto lo uccide; e man mano che il vulgo si sente popolo, egli scende e scava sempre più fondo i suoi teatri».27 In questo auspicio di morte per Pulcinella, Arcoleo, come anche il giovane Torraca, riflettevano le aspirazioni dei giovani intellettuali meridionali, allievi della «scuola» letteraria e civile del De Sanctis, ad una evoluzione morale e sociale del popolo napoletano nella nuova prospettiva dell’Italia unita.28 Per Croce, adesso, sul finire del secolo, a decretare la morte di Pulcinella, non è stato il cambiamento delle condizioni morali del popolo, ma il mutato atteggiamento degli spiriti colti nei confronti del riso, nella nuova condizione determinatasi con l’Italia unita. Sebbene Pulcinella fosse infatti una maschera popolana, erano però state le classi colte che l’avevano «accolto, festeggiato e carezzato a lungo». La «guerra» a quella «maschera», non «più necessaria ed opportuna», per Croce traeva origine dal mutato rapporto tra le classi colte e il popolo, non più ritenuto oggetto di riso nell’età contemporanea. La morte di Pulcinella coincide in sostanza con l’inevitabile fine, nell’età moderna, del riso dei colti avente come vittime «poveri, ignoranti, corrotti», sostituito da «un sentimento misto di pudore, di rimorso, e un
24 25
B. Croce, Pulcinella e il personaggio del napoletano… cit., p. 629. Id., Teoria e storia della storiografia, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi 1989, pp. 378-
380. 26
Cfr. F. Torraca, Per Francesco De Sanctis cit., pp. 142-143. Cfr. G. Arcoleo, Pulcinella dentro e fuori di teatro cit., pp. 503 e 507-508. 28 F. Torraca, La plebe napoletana e Pulcinella (1872) in E. Guerriero, Storia e testo di un saggio giovanile di F. Torraca sul Pulcinella, in «Esperienze letterarie», III (1978), 4, pp. 85-91. Ma, sul «valore etico e nazionale» dell’insegnamento del De Sanctis attuato nella sua «scuola-seminario» cfr. L. Russo, Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, con introduzione di U. Carpi, Roma, Editori Riuniti 1983, pp. 150-158. 27
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po’ d’ipocrisia. Ridere, dimenticando che oggetto del riso sono degli esseri umani, – poveri, ignoranti, corrotti, ma esseri umani – sembra cosa poco degna della civiltà moderna, bassa voglia». A Pulcinella e alla comicità avente per oggetto il popolo si sostituiva pertanto nella nuova Italia una letteratura che trattava «la vita della plebe» non comicamente, ma in modo serio («con sentimento largamente umano, appena celato dalla voluta freddezza realistica dell’osservatore obiettivo»).29 Definendo il comico secondo le teorie classiche («È noto che il comico consiste nella percezione di una stortura che ci desta il lieto sentimento della nostra superiorità: donde il riso»)30, Croce ne metteva in relazione il declino nell’età presente con il mutato «interesse» delle classi colte verso il «proletariato»: un interesse che egli vede adesso contraddistinto dal «timore» o dalla «compassione», ossia da quei sentimenti che sin da Aristotele contraddistinguono non il comico, ma il tragico.31 Pulcinella, per quanto «brutto», non destava sofferenza nell’osservatore colto ed era perciò fonte di riso. Il proletariato moderno, suscitando invece nelle classi colte «timore» o «compassione», non può essere oggetto di riso, ma solo di rappresentazione seria. Considerazioni, queste, espresse da Croce nel 1898, l’anno della grande «paura del socialismo e della rivoluzione»,32 e non più apparse nelle successive riscritture.33 La morte di Pulcinella è del resto analoga a quella del tipo comico del «napoletano». La causa, per Croce, è la stessa, ed è positiva: è il «movimento unitario italiano». Non che «il carattere del popolo meridionale» non continui ad occupare «le
29
B. Croce, Pulcinella e il personaggio del napoletano… cit., pp. 665-666. Cfr. Aristotele, Dell’arte poetica, a cura di C. Gallavotti, Milano, Mondadori 1978, 5,1 (p. 17): la commedia «è imitazione di soggetti vili, ma non sul piano di una totale malvagità, sibbene del brutto; e suo elemento è il ridicolo. Ora il ridicolo è una deficienza ed è un difetto, ma non doloroso né esiziale, come per l’appunto la maschera buffa è qualche cosa di brutto e sgraziato che non desta sofferenza». E a proposito del «comico» come «percezione di bruttezza», ma «senza dolore», e del «piacere» correlato alla «superiorità nostra individuale» di fronte allo «spettacolo del comico» cfr. B. Croce, Tesi fondamentali di un’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», XXX (1900), memoria n. 3, ristampata a cura di A. Attisani in La prima forma della «Estetica» e della «Logica», MessinaRoma, Principato s. a. [ma 1924], pp. 67-68. 31 B. Croce, Pulcinella e il personaggio del napoletano… cit., p 666. Cfr. Aristotele, Dell’arte poetica cit., 6,2 (p. 19): per Aristotele «timore» e «compassione» sono i sentimenti propri della tragedia, cioè della rappresentazione di un’azione seria. 32 Cfr. G. Candeloro, Storia dell’’Italia moderna, vol. VII. La crisi di fine secolo e l’età giolittiana, Feltrinelli, Milano 1991 (1974 1a ed.), p. 56. Il 10 aprile del 1902 nelle Memorie della mia vita cit., pp. 22-23, Croce avrebbe dichiarato di essere stato «alquanto isolato», tra l’altro, per la sua «adesione al movimento liberale e radicale» e le sue «simpatie pel socialismo». 33 B. Croce, Pulcinella e il personaggio del napoletano… cit., pp. 666-667. 30
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fantasie degli altri Italiani». Ma sono ormai le classi colte ad assumere una responsabile funzione inibitoria, ad evitare che quell’interesse prenda il tono del ridicolo e che trovi espressione in letteratura come tale. Ad avvalorare tale tesi è per Croce l’exemplum, contrastivo, dello straniero Zola, che, alieno dal «forte e delicato sentimento unitario delle classi colte» italiane, che rifuggiva dal «toccare alcuni tasti», aveva «potuto fare quello che non hanno osato gli scrittori italiani», rappresentando nel suo romanzo Rome «il tipo meridionale», non più «tolto dalle classi aristocratiche, che son sparite, sibbene dalla borghesia, politicante ed affaristica». È pertanto lo spirito responsabile e unitario delle classi colte, per Croce, ad avere rimosso la satira dei vari tipi regionali fissati sulle scene della vecchia Italia, confinata ormai solo «nel folklore», non nella letteratura della nuova Italia.34 Nel 1911, nella riedizione dello scritto su Pulcinella tra i Saggi sul Seicento, Croce, per suggellare la sua tesi sulla fine della satira del meridionale, aggiungerà un aneddoto, appreso da Ferdinando Martini: nel 1867, a Firenze, in occasione della rappresentazione della commedia I rettili di Fabio Uccelli, avente tra gli altri personaggi «un tal Marco Bruto Fontanella, napoletano e deputato», il pubblico, proprio per la presenza di quel «tipo» negativo meridionale, per quanto l’opera non fosse cattiva («né il tipo mal disegnato»), indignato «non volle saper d’altro e fece calare il sipario a metà della recita».35 Uno spirito delle classi colte, quello qui emerso, che certamente rimuoveva le reali contraddizioni della nuova Italia. E che però ci consente anche di misurare il diverso ruolo e le diverse tensioni del «ceto dei colti», tra la nuova Italia di De Sanctis e Croce e quella del nostro presente.
34
Ivi, pp. 734-735, nota 2. Id., Saggi sulla letteratura italiana del Seicento cit., p. 307, nota n. 2.
35.
XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
SIMONE TONIN Identità dallo spazio narrato. Contributi da un’Italia unita
L’occasione offre una opportunità per riflettere, pur senza aspirare all’eusastività, sull’importanza di un aspetto tra quelli che conferiscono continuità alla letteratura italiana pre- e post-unitaria: il tema spaziale. In via preliminare si osserverà la duplice azione che lo spazio svolge nel fenomeno letterario, con un movimento che procede dall’esperienza quotidiana dello scrittore, quindi cala nel piano letterario e, infine, risale da questo alla vita del lettore. Tra le funzioni che lo spazio assume, osserviamo in una prima direzione («dallo scrittore alla scrittura») il suo “contenere” l’azione del racconto – o più in generale, dell’espressione – anche crescendo in autonomia fino a giungere a svilupparla e portarla avanti; nella direzione opposta invece («dalla scrittura al lettore»), esso infonde consapevolezza e fa emergere la presenza di tale aspetto nella vita. Riflessione che chiama in causa, in fondo, la relazione dell’individuo con l’ambiente che fruisce, relazione intima e personale a cui la sensibilità di un’artista e gli strumenti della poesia prestano parole dal respiro universale. Il tema spaziale tuttavia assume un’estrema variabilità di funzioni diverse nei secoli secondo le personali poetiche e gli ambiti culturali in cui agisce, ma giusto grazie a ciò tale variabile mette in evidenza la costante correlata: quella di una sua persistente presenza in tutto l’arco diacronico della letteratura nazionale; tale fenomeno è da attribuire sicuramente da un lato alla peculiare elasticità dello spazio, in grado di sostenere valori e significati di volta in volta quanto più diversi, dall’altro all’attrazione che subiscono molti nostri autori per tale aspetto della vita e perciò ne fanno strumento privilegiato, veicolo cui affidare i significati della propria opera. La proposta di un percorso di letture basato sulla continuità anziché sulle singolarità, investe la questione unitaria lateralmente, lasciando in disparte la componente ideologica, ma ha il pregio di avvicinare una qualità tra le più evanescenti: propone l’ipotesi che, all’identità del Paese, contribuisca una allenata sensibilità nei connazionali, per la comprensione della realtà in termini spaziali, riverberando tale azione dalla tradizione sui lettori del presente. Questa prospettiva evidenzia quel L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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testo letterario che sa fornire a ciascuno – pur umile destinatario – uno strumento di lettura del proprio Paese attraverso una categoria interpretativa che egli si trova a condividere con il lontano nel tempo e eccezionale emittente del messaggio. Come annuncia il titolo, dopo che brevemente si sarà messo allo scoperto il filo di continuità del tema nella storia letteraria nazionale, ci soffermeremo su alcuni contributi che in questa direzione hanno saputo dare gli scrittori italiani del Novecento. Una pagina, la conclusiva, di un romanzo di Calvino, ci può introdurre nella dinamica oggetto della nostra attenzione: Ombrosa non c’è più. Guardando il cielo sgombro, mi domando se davvero è esistita. Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito.1
Si tratta, molti l’avranno riconosciuto, dell’explicit del Barone rampante (romanzo del 1957), pagina in cui l’autore conduce il lettore in una graduale uscita dal mondo della rappresentazione verso il «qui ed ora» della realtà, accompagnandolo attraverso la mediazione della pagina scritta (“manoscritta” in questo caso). Lo scrittore per tale fine produce l’effetto – per utilizzare la metafora fotografica – di uno spostamento di fuoco da un campo di fondo, a fuoco infinito, al primo piano, fuoco ravvicinato a tal punto da far rientrare in sé il lettore e disporlo a riflettere sul processo della scrittura quale rappresentazione verbale della realtà. Interessa qui notare come questo passaggio avvenga – dovendo traghettare l’immedesimato lettore dal mondo d’Ombrosa al mondo reale – attraverso una tecnica visiva, che fa perno su due supporti spaziali, dal «frattale» del fogliame delle chiome ritagliato sul cielo, al percorso arricciato dell’inchiostro tracciato sulla pagina. Nemmeno è secondario rilevare con quale effetto Calvino ottenga questo trasferimento dell’ignaro lettore, letteralmente capovolto dal punto di vista: la visione cambia improvvisamente, parte dal «basso verso l’alto» con le fronde proiettate contro il cielo, e assesta finalmente lo sguardo dall’«alto verso il basso» proponendo sotto gli occhi dello scrittore-lettore la pagina appena vergata. Vale a dire: il let-
1 I. Calvino, Il barone rampante, in Id., Romanzi e racconti, I, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori 1991 pp. 776-777.
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tore che per centinaia di pagine ha osservato dal basso l’intera vita del barone sospesa tra i rami, il lettore fino ad ora rimasto in terra a fianco del primo narratore, ora viene catapultato in alto, a osservare la vita che scorre tra le parole di una pagina, «lettore rampante» ora lui sopra una pagina che è finita e oltre al cui margine ritrova il brulicare della realtà, dove è invitato a dar conto della propria personale e unicissima quotidiana esistenza. Ciò che è rimasto fisso in questo capovolgimento è lo spazio come piano su cui posa lo sguardo, foglia-foglio, quello spazio senza il quale il barone non può tracciare la sua esistenza nel mondo letterario, lo scrittore non può segnare la sua storia sul foglio materiale, il lettore non può uscire e entrare nei due mondi. Se nel tema spaziale l’ambientazione è un fattore canonico, indispensabile e comune a ciascuna opera letteraria, pochi sono quegli autori che impegnano come Calvino un uso tanto raffinato, una accentuata attenzione per le prerogative di questa componente fondamentale dell’espressione. Tra questi, ai vertici troviamo senza dubbio il padre della nostra letteratura: la pregnanza spaziale della Commedia è indubbia, Dante non deve solo indicare il percorso di un viaggio, né descrivere l’oltremondo visitato, egli si propone di “disegnare” con gli strumenti della lingua lo spazio attraversato, tanto da rendere l’equazione cantica = mondo (sia Inferno, Purgatorio o Paradiso) non solo nominale, ma per molti versi “corrispondente”. Una tale attenzione data allo spazio non è caso isolato nella nostra letteratura: il realismo di Boccaccio, che si serve dello spazio per costruire gli accadimenti, il fantastico di Ariosto, che conduce il lettore in continui spostamenti d’azione, l’intimità lirica degli spazi leopardiani, non sono che alcuni esempi della diffusione e della plasticità della tematica spaziale nel suo rivestire un ruolo di snodo fondamentale per diverse poetiche. Tale tendenza si accentua nel Novecento, secolo nel quale da più parti si può riconoscere che l’arte si fa sempre più spazializzata: l’uomo contemporaneo avverte il tempo come uno stato angoscioso e cerca rassicurazione nell’apparente solidità dello spazio. In realtà, sottolinea Genette,2 l’ospitalità di questo «spazio-rifugio» non può che essere relativa, dal momento che la scienza non fa che minare lo spazio euclideo immettendovi la curvatura spaziale o lo spazio-tempo, ovvero annunciando uno spazio ormai irrapresentabile dalle categorie di pensiero tradizionali. Eppure l’uomo, lo scrittore, il poeta, non possono che continuare ad utilizzare nei termini abituali questa categoria di comprensione del reale proprio per l’efficace orientamento per quanto fragile e spesso effimero che consente per la ricerca di senso esistenziale. E così molte sono nel XX secolo le opere che utilizzano lo spazio come elemento di indagine nella questione dell’identità, erigendo alla fine il lascito, compo-
2 G. Genette, Spazio e linguaggio, in Id., Figure. Retorica e strutturalismo, Torino, Einaudi 1969, pp. 92-93.
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sizione su composizione, di un sistematico approccio spaziale alla riflessione sulla vita. Osserviamo le Myricae pascoliane: un tessuto di frammenti con una continua tensione al romanzo,3 dove la partitura sonora fa da padrona con la sua straordinaria precisione e la netta individuazione che sa operare il poeta. Eppure questa moltitudine sonora è lungi dal rubare campo allo spazio, semmai lo produce, se ne nutre fino a costituire una coppia inscindibile. È difficile inciampare su una strofa che sia esente da questa dinamica; ecco dunque in una delle primissime poesie la quartina finale di Scalpitio: Si sente un galoppo lontano più forte che viene, che corre nel piano: la Morte! la Morte! la Morte!
Basta la semplice lettura a dar conto della strepitosa espansione spaziale che producono i versi, con la capacità di tradurre – caratteristica di tutta la raccolta – anche esseri inanimati personificazioni e oggetti, in suoni, e dilatare così, con il progredire delle onde sonore, il sostrato spaziale che esse presuppongono. In altre parole esiste una reciprocità diretta tra il “volume” in termini di densità sonora e il “volume” in termini di contenuti spaziali. Quando non avviene, invece, che lo spazio diventi il tema stesso dell’opera, come accade nelle due raccolte fondamentali dell’inizio del XX secolo, Alcyone e Ossi di seppia. In entrambi i casi l’espressione poetica scaturisce da una tensione tra l’io lirico e il paesaggio in cui esso s’avventura; ciascun poeta, nonostante si proponga e raggiunga finalità e esiti personalissimi, distilla il discorso lirico nell’alambicco di uno spazio morfologicamente connotato. La generazione di Montale non riuscirà già più, ormai, a compiere l’identificazione simbolistica e la piena fusione con il proprio paesaggio, eppure è dal dissidio con esso – pensiamo al poemetto Mediterraneo – che egli trae la propria identità. Il processo era ancora possibile per un D’Annunzio invece, che nelle estati a cavallo del 1900 si «appropria» della Versilia in cui soggiorna, e il panismo che caratterizza la raccolta giunge in Meriggio a uno stadio tale della metamorfosi che è lo spazio circostante, con un capovolgimento, ad appropriarsi del poeta stesso: E io sono nel fiore della stiancia, nella scaglia della pina, nella bocca del ginepro: io son nel fuco, nella paglia marina,
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Cfr. P.V. Mengaldo, Introduzione a G. Pascoli, Myricae, Milano, Rizzoli 1995, p. 65. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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in ogni cosa esigua, in ogni cosa immane, nella sabbia contigua, nelle vette lontane. Ardo, riluco. E non ho più nome.4
L’identificazione paesistica, in D’Annunzio volontariamente ricercata, si fa invece obbligata per Ungaretti soldato nel Carso, necessaria alla sopravvivenza, come esprimono cristallinamente le liriche del Porto Sepolto. Naturalmente non per tutti i soldati l’impatto traumatico spinge la scrittura nella direzione di uno spazio – quasi esito estremo di scarnificazione – che assuma entro sé il significato della propria esistenza devastata. Ma dando uno sguardo alla narrativa troviamo che anche qui, tra gli esiti di più sicuro valore, la mediazione spaziale è indispensabile. E se nella poesia, il colloquio di Ungaretti col paesaggio scaturisce a livello sensoriale («mi sono radicato / nella terra marcita», «mi fisso / nella cenere del greto / scoperto dal sole / e mi transmuto / in un volo di nubi»: Annientamento) e emotivo («Come questa pietra / del San Michele»: Sono una creatura),5 nel romanzo di Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano, esso diventa un fatto razionale: lo spazio partecipa a una denuncia di insensatezza, è ancora quindi rivolto a una ricerca di senso, quello di una tragedia collettiva orchestrata dall’uomo in termini, appunto, di “posizione”. Così l’Altopiano dev’essere “rilevato” dalla scrittura perché l’opera di «verità» possa manifestarsi nella rappresentazione mentale del lettore. La vita militare, per quanto allontanata da Buzzati in una temporalità indeterminata e immaginata, a metafora delle vita in una redazione di un grande giornale, assurge presto a emblema universale quando si pone la questione laica del senso della vita in relazione con la distanza dalla morte. Il grande romanzo italiano del “tempo”, Il deserto dei Tartari, utilizza il tema spaziale per dar corpo e rendere visibile quella componente dell’esistenza di ciascuno, irriducibile e al contempo estremamente soggettiva e immateriale, quale è la temporalità. Eppure questo suo essere utilizzato a metafora di metafora non diminuisce il valore al tema spaziale, semmai lo rende emblematico, lo porta fuori dalla visione personale dell’autore per rendersi intuitivo al lettore e configurare un nodo di senso. E l’esperimento di realismo fantastico dello scrittore bellunese dimostra come questi autori nazionali che attraversano il tema spaziale portano il loro contributo identitario – per quanto pur indeterminato e indiretto – senza percorrere necessariamente luoghi reali del territorio nazionale, ma inerpicandosi anzi su spazi immaginari o conservare connotati
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G. D’Annunzio, Alcione, Torino, Einaudi 2010, vv. 89-99. G. Ungaretti, Il Porto Sepolto, a cura di C. Ossola, Venezia, Marsilio 1990.
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extra-nazionali (come nel caso del “deserto”): questo tipo di espressione agisce nello scendere al livello mentale del lettore, che così avverte entro di sé, essere, la qualità spaziale, la base di ricostruzione della propria identità. Calvino in uno scritto autobiografico, dove nell’opacità del mondo la risorsa spaziale sembra fornire l’opportunità di fare luce, arriva a concludere: e così anche adesso se mi chiedono che forma ha il mondo, se chiedono al me stesso che abita all’interno di me e conserva la prima impronta delle cose, devo rispondere che il mondo è disposto su tanti balconi che irregolarmente s’affacciano su un unico grande balcone che s’apre sul vuoto dell’aria, sul davanzale che è la breve striscia del mare contro il grandissimo cielo, e a quel parapetto ancora s’affaccia il vero me stesso all’interno di me, all’interno del presunto abitante di forme del mondo più complesse o più semplici ma tutte derivate da questa, molto più complesse e nello stesso tempo molto più semplici in quanto tutte contenute o deducibili da quei primi strapiombi e declivi, da quel mondo di linee spezzate ed oblique tra cui l’orizzonte è l’unica retta continua.6
6
I. Calvino, Dall’opaco, in Id., Romanzi e racconti, III, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori 1994, p. 89. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
LA RAPPRESENTAZIONE DEL RISORGIMENTO IN QUATTRO TESTI DEL SECONDO
NOVECENTO
FEDERICA ADRIANO ‘Troppo umana speranza’ di Alessandro Mari: un’opera prima sull’alba della Nazione
Ambientata in età prerisorgimentale, quest’opera narrativa si snoda attraverso i primi anni di giovinezza dell’Italia, quelli compresi tra il 1839 ed il 1848, quando la Penisola non era ancora Nazione ma un territorio sottoposto a governanti stranieri, frammentato in regni, ducati e granducati, ed occupato, al centro, dallo Stato della Chiesa e dal suo tentacolare potere temporale: vi regnava l’analfabetismo e i rei venivano condannati all’esilio, alla tortura, alla pena di morte. Funge da modello il fenomeno narrativo del nuovo romanzo storico, un genere del quale si esibiscono alcuni fondamentali requisiti: la voce narrante onnisciente in terza persona, l’amalgama tra verità storica ed invenzione (con la relativa coesistenza di personaggi realmente esistiti e fittizi), il respiro grandioso dell’epopea; frequenti, ma ben armonizzati, gli spazi riservati alla prospettiva sovraorbitante dell’autore: brani di commento, digressioni filosofeggianti, brevi poesie – non sempre riuscite – nello stile dei cantastorie. Il risultato è originale da parecchi punti di vista: innanzitutto per la scelta della tematica risorgimentale, che suona sorprendente e per nulla scontata in un artista molto giovane; poi per l’imponenza narrativa delle sue 750 pagine, tanto che alcuni critici – da Mario Baudino su La Stampa a Sergio Pent su Tuttolibri – non hanno esitato a definire il libro un piccolo capolavoro della letteratura italiana e l’autore, per il suo coraggio e la sua forza affabulatoria, uno degli scrittori più interessanti del momento. Romanzo d’esordio del trentunenne Alessandro Mari, Troppo umana speranza viene pubblicato da Feltrinelli nel gennaio 2011, rivelandosi un’operazione di chiara onestà intellettuale e maturità artistica, perché rifiuta le impostazioni ideologiche della dissacrazione iconoclasta come quelle dell’agiografia; crea uno stile personalissimo, impermeabile al minimalismo diffuso tra gli scrittori contemporanei; sa mescolare efficacemente l’invenzione fantastica alla documentazione più vasta e rigorosa, che comprende i materiali d’archivio, la storiografia sul Risorgimento, le Memorie di Garibaldi, gli scritti di Mazzini, le lettere dei fratelli Bandiera, le cronache sulle Cinque Giornate di Milano: «Sono passato attraverso ogni tipo di fonte. La rappresentazione del Risorgimento in quattro testi del secondo Novecento
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Ho proceduto per accumulo e fascinazione. Ho ricalcato e inventato. Ho voluto la pertinenza ma ho percepito un piacere più forte quando, dentro la verosimiglianza, ho sentito aprirsi la strada dell’immaginazione», scrive l’autore nella Nota finale. È lo stesso Mari – in una videointervista del 18 gennaio 2011, curata dalla casa editrice milanese – ad illuminarci sul “cominciamento” della propria creatura, avvenuto con l’ideazione del personaggio di Colombino: una lunga gestazione che affonda le radici addirittura nella sua infanzia e nel patrimonio di narrazioni orali della sua famiglia, essendo cresciuto tra Busto Arsizio e Sacconago sotto l’influenza della ‘mitica’ figura di un nonno-aedo, che lo portava in giro con sé per la campagna lombarda e gli raccontava le vicende della passata storia locale. La prima concezione del romanzo risale agli anni universitari – conclusi con una tesi di laurea su Thomas Pynchon e seguiti dal lavoro di traduttore e ghostwriter per l’editoria –, mentre la creazione vera e propria prende corpo intorno al 2005, continuando, tra vicende alterne passate per l’esperienza della Scuola Holden di Torino, per un intero lustro. Ed è proprio dall’autobiografico paese di Sacconago, nella brughiera milanese, che proviene il primo dei quattro protagonisti, il giovane contadinello Colombino, un povero figlio di nessuno che un curato ha allevato amorevolmente ed educato sui testi sacri. La maggior parte dei suoi compaesani lo considera uno scemo, lo maltratta e lo chiama per disprezzo “ul menamerda”, per via del suo mestiere, consistente nel trasporto e nella vendita del letame benedetto per la concimazione dei campi, che viene descritto con ‘sublime’ assertività in un incipit intriso di sapienza rurale: Menar merda non è poi una mala occu pazione; pec cato, certo, non si fa. […] S’apprenderà dove coglierne di fresca senza rimediare bastonate, la maniera di rimestarla e miscelarla, diluirla e custodirla fino alla benedizione e poi menarla per il borgo in ogni sua periferia, là dove la terra ingolla ogni pioggia senza lasciarne alle colture, cedendo alla propria anima di brughiera (p. 13).
D’intenso sapore agreste ma sentenzioso come una formula rituale, il periodo iniziale ricompare nell’apertura del quinto capitolo, che sottolinea l’energia fecondante e rigeneratrice, quasi taumaturgica, dispensata dal compito di Colombino. Lo sterco, infatti, è come un medicamento che cura le ferite della terra, facendola fruttificare: Menar merda non è poi una mala occupazione; peccato certo non si fa, e di lavoro se ne ha ogni mese, ché la terra vuol calore, acqua e nutrimento in cambio della vita data a ogni seme, e niente c’è di meglio che colaticcio impastato ad altre più corpose deiezioni, il tutto alacremente benedetto. […] La terra tutto accetta, paziente, e ad alimentarla il necessario e col giusto irrigamento ogni ferita saprà rimarginarsi, e farà dono dei suoi frutti (p. 73).
Un brano di corposa forza espressiva, che richiama alla mente l’ultima strofa, la XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
‘Troppo umana speranza’ di Alessandro Mari
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più famosa, di Via del Campo di Fabrizio De André («Ama e ridi se amor risponde, / piangi forte se non ti sente. / Dai diamanti non nasce niente, / dal letame nascono i fior»). Personaggio costruito su svariate suggestioni che vanno dalla commedia dell’arte (fin nel nome) al romanzo cavalleresco e a quello picaresco, Colombino è un povero di spirito, il classico idiota della Letteratura. Follemente innamorato della bella Vittorina dai mansueti occhi bovini, che lo ricambia, ma respinto in malo modo dalla famiglia di lei a causa della sua miseria e degli oscuri natali, egli persisterà con ostinazione fino al coronamento del suo sogno di sposare la ragazza: una tenacia che gli viene dal duro lavoro della terra e dal “buonsenso della carne”. Candido, umile, ricco di calda umanità, Colombino va avanti con fiducia per la sua strada, intraprendendo una quête che lo trasforma in un personaggio della letteratura romantica: un pellegrino errante, una figura al contempo comica, ascetica ed eroica, pronta ad affrontare qualsiasi ostacolo pur di arrivare dal Papa, a Roma, novella Terra Santa. Se il paladino Orlando si avvaleva del destriero Brigliadoro e l’hidalgo don Chisciotte del vecchio Ronzinante, il contadinello deve accontentarsi della fedele compagnia di un mulo imbolsito, dal nome suggestivamente illustre, Astolfo: un bizzarro animale dall’indole antropomorfa, talvolta più assennato del suo stesso padroncino. Astolfo annuì con forza. Colombino si guardò i piedi, infilati nei calzettoni di lana e negli zoccoli. Tre passi, e tutto sarebbe cominciato. Tre passi soltanto. Perché al primo si è solo partiti, al secondo si può ancora rinunciare, mentre al terzo è tardi, resta solo il tempo di guardarsi indietro (p. 180).
Inizialmente a sé stanti e tra loro giustapposte, le vicende degli altri personaggi si intrecceranno lungo il progredire del cammino. Il trentenne pittore bohémien Lisander, secondo protagonista della storia, vive a Milano: sedicente «Filosofo del corpo. Seguace di certi ragionatori, i Romantici Di Sbieco» (p. 90), è infatuato della neonata dagherrotipia ed aspirante callotipista, un mestiere per cui dovrà necessariamente dotarsi di una costosa camera ottica. Ha una storia d’amore con la giovane prostituta Chiarella, con cui sogna l’agiatezza di una vita borghese, e che più tardi diventerà sua moglie; nel frattempo sbarca il lunario sfruttando il proprio ruolo di ritrattista-amante d’una signora ricca ed insoddisfatta, donna Teresa. Inseritosi in un fruttuoso commercio con lo spaccio clandestino delle prime fotografie pornografiche, le “callopornie” (ritratti erotici di meretrici e povere dementi), durante le Cinque Giornate di Milano Lisander saprà riscattarsi, mostrandosi pronto ad imprimere le lastre con le immagini irripetibili della Storia. Percorrendo un itinerario inverso rispetto a quello di Colombino, dal Sud al Nord dello Stivale, Leda – una bella diciannovenne irpina, segnata da un doloroso passato di lutti e abusi familiari – riesce a fuggire da un convento della Roma pontificia per poi venir accolta nella villa di un gentleman dei servizi segreti britannici, il quale, colpito dalla sua intelligenza, la inizia alla professione di spia: dovrà sorvegliare le mosse del cospiratore Giuseppe Mazzini, infiltrarsi tra i suoi adepti e rifeLa rappresentazione del Risorgimento in quattro testi del secondo Novecento
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rire i loro progetti insurrezionali. Una languida città di Genova fa da scenario all’incontro di Colombino e Leda, che si trova qui sotto falso nome. Trasferitasi a Londra, plumbea metropoli brulicante di reietti, Leda-Lorenza entra in contatto con la comunità italiana dei patrioti esuli e col carismatico fondatore della Giovine Italia, che nella capitale britannica ha stabilito il suo quartier generale e fondato la Scuola di Hatton Garden per istruire gli emigrati analfabeti. E la giovane si lascerà pian piano conquistare dalla dottrina del venerabile Maestro, finendo per mostrarsi molto più indipendente, sensibile e generosa di quanto non avesse potuto immaginare il cinico sir che la aveva addestrata. Alle vicende dei personaggi di fantasia – per lo più gente comune e di bassa estrazione sociale, come Colombino, Lisander e Leda – s’intrecciano quelle delle due più eminenti figure del Risorgimento: il generale Garibaldi ed il pensatore Mazzini. Per il primo, non ancora Eroe dei due Mondi, sono gli anni dell’esilio sudamericano: siamo in Brasile, nel 1839, ai tempi del primo incontro con Aninha de Jesus Ribeiro, conosciuta nella magica città di Laguna, quando il giovane marinaio nizzardo è il campione della rivoluzione dei Farrapos del Rio Grande do Sul, ribellatisi contro gli Imperiali di Sua Maestà Pedro II; lei è una creola diciottenne, straordinariamente bella e procace, che sceglie di abbandonare tutto ed affrontare disagi e pericoli estremi pur di condividere il destino del suo capitão dom José; e, talvolta, Garibaldi e le vicende belliche trascorrono nello sguardo innamorato e trepidante di Anita, per il quale José ha gli occhi color del miele. I moti dei quattro protagonisti sono destinati a convergere agli ordini di una sapiente macchina narrativa, che predispone il tutto depositando nel testo sporadiche tracce allusive alle loro reciproche interazioni, essendo ciascuno deputato ad offrire, consapevolmente o meno, il proprio contributo ad un disegno superiore che in qualche modo lo trascende. Non è semplice dipanare i fili della trama di un romanzo che procede per accumulo, lentamente, come un lungo fiume che si arricchisce di molti affluenti, nei suoi intrecci, negli incontri apparentemente casuali. I mostri sacri della grande Storia, i Padri della Patria, si muovono in una luce autentica, al di fuori della ridondante retorica risorgimentale; ci appaiono come persone ‘normali’, in tutto e per tutto umane, nei loro grandi ideali come nelle abitudini quotidiane o nei difetti. Pippo Mazzini, «l’illustre esule di nero vestito», dall’eleganza austera e trasandata, è un intellettuale ascetico e nervoso che studia Foscolo e Manzoni; mangia pochissimo, odora di fumo e caffè, trascura la propria salute e talvolta l’igiene personale; ed è un uomo solitario, consumato da una tempra morale e da un ardore pedagogico che irretiscono chi gli sta vicino. Lupo di mare, guerrigliero, rivoluzionario, mangiapreti; e poi compagno fedele, amante tenero e passionale, talentuoso cantante: Garibaldi è tutto questo ed altro ancora, ovvero un uomo sanguigno, burbero e generoso, tormentato da una febbrile tensione ideale e da un’energia incontenibile. Una folla di personaggi, tra storici e inventati, si aggira intorno ai protagonisti: il maestro Giuseppe Verdi, già osannato, ai tempi del Nabucodonosor, i compagni di Garibaldi; e poi Ciceruacchio ed un Pio IX di caricaturale paternalismo. Assistiamo alle barricate delle Cinque XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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Giornate milanesi dalla parte di chi le ignorava, ma alla fine si fa contagiare dall’entusiasmo: ecco Lisander, che riprende col suo nuovissimo macchinario i tumulti, i morti, i feriti, immortalando la grande Storia nei suoi dagherrotipi sfocati; e Leda, tenacemente fedele al proposito di vendicare il suo Michele, che seguirà Mazzini e la causa italiana, sfidando il carcere, la tortura e la morte. Conclusa l’avventura brasiliana, Dom José, la focosa Anita (lui la chiamava così, alla spagnola) ed il primogenito Domìo Menotti si trasferiscono in Uruguay, a Montevideo, dove i due si uniscono in matrimonio nella chiesa di San Francisco: è il limpido mattino del 26 marzo 1842. Ma José non può sopportare a lungo la tranquillità noiosa di una vita borghese, tanto che ben presto partirà da colonnello per andare a combattere in difesa dell’insidiata Repubblica Orientale d’Uruguay, abbandonando la famiglia per parecchi mesi. Nel 1848, seguito dal cane zoppo Guerello e dalla pittoresca truppa di Legionari Italiani, Garibaldi torna finalmente in patria, per combattere. Anita è sempre al suo fianco, ma morirà, incinta del quinto figlio, dopo la caduta della Repubblica Romana. Sostenuto da una pazienza e da una mansuetudine evangeliche – che insieme agli stenti, alla sporcizia ed al barbone “alla nazarena” gli varranno la fama di santo guaritore –, Colombino supererà durissime peripezie, tra cui spiccano quelle davvero impagabili in cui lo vediamo costretto dall’inedia a divorarsi, una per una, le pagine della Bibbia, non prima però di averne riletto per l’ultima volta il sacro contenuto; verrà pure segregato nelle prigioni genovesi come presunto carbonaro, fino a quando riuscirà finalmente ad avere un colloquio con Pio IX. Durante il suo cammino di ritorno verso Nord, s’imbatte in un certo Giuseppe Garibaldi, reduce a sua volta dal Sud America con Anita ed i volontari della Legione, e finirà col diventare l’attendente del Generale. Al termine di una vicenda che lo ha coinvolto negli eventi della Storia, il pio Colombino comprende che la felicità sarà alla sua portata solo se saprà assumersi le proprie responsabilità con un gesto autonomo ed anticonformistico; decide così di trascurare i moniti del Papa per assecondare l’inedito suggerimento dell’Eroe di rapire la sua amata. La nostra storia resta un preludio al Risorgimento vero e proprio e termina nel 1849 con la caduta della Repubblica Romana, lasciando del tutto aperti i quattro vettori narrativi: soltanto il trionfo privato di Colombino e Vittorina riesce in qualche modo a compensare la tragica sconfitta degli ideali civili, gettando un bagliore di speranza su un futuro politico che è ancora tutto da costruire. Il linguaggio che Mari ha dovuto elaborare per rendere verosimile il racconto è frutto di un notevole impegno stilistico: ha realizzato una lingua dalla patina arcaica, riproducendo la prosodia ottocentesca e riferendo le scelte di vocabolario e sintassi alla tradizione degli scrittori lombardi, in particolare ad Ippolito Nievo ed alle sue Confessioni di un italiano, che vengono citate in termini espliciti, per esempio nella descrizione di una cucina con i paioli («occhi di rame») appesi al muro; ha imparato ad esprimersi con il dialetto meneghino, con il Portoghese del Sud America e con l’Inglese degli italiani esuli a Londra. La costruzione del periodo si articola in sequenze complesse reggendosi di frequente sull’ipotassi, mentre le parti La rappresentazione del Risorgimento in quattro testi del secondo Novecento
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Federica Adriano
dialogiche impiegano di solito il discorso diretto, più di rado l’indiretto libero; sovente auliche, le forme del lessico e dello stile virano talvolta verso la modernità più colloquiale. Un piacere supremo di narrare: è questa la sensazione che emana dal libro di Alessandro Mari, la sua cifra essenziale. È un alone che scivola generoso sulle digressioni talora troppo lunghe, sui mirabolanti colpi di scena (come l’improvvisa e non azzeccatissima materializzazione della sorella folle di Lisander) – per i quali si è giustamente parlato di concessioni al feuilleton – sulle minuziose descrizioni di paesaggi e panorami, protagonisti e comparse, fino all’esposizione di succulente ricette culinarie. Come hanno sottolineato in tanti, non manca di risuonare l’eco del modello di «messer Manzoni», citato espressamente per tre volte all’inizio e a metà del romanzo, e la seconda a proposito dell’uscita imminente di «una nuova, ennesima edizione degli Sposi promessi» (p. 98): mi riferisco, in particolare, al matrimonio contrastato tra Colombino e Vittorina, due umili contadini lombardi che paiono discendere da Renzo e Lucia, ai quali li accomunano anche i motivi della fede religiosa e della speranza; di contro, non appare funzionale il tema della Provvidenza divina, centrale nel cattolico Manzoni ed evocato da qualche critico anche a proposito di questo romanzo, nel quale è piuttosto la speranza – perfino ‘troppo umana’, dei giovani protagonisti, di realizzare i propri sogni – ad incarnare una sorta di potere demiurgico. Ciò premesso, mi pare opportuno ricordare che Mari – sollecitato in maniera esplicita (pure in merito alla scelta del nome Lisander) da Baudino – ha affermato di non essersi mai proposto, quantomeno consapevolmente, di misurarsi con I Promessi Sposi, per poi concludere riconoscendo che «i lombardi del resto li ho dentro, come lettore. I miei riferimenti principali sono semmai stranieri». Intervistato da Andrea Petrelli a San Benedetto del Tronto durante la presentazione del romanzo, egli ha dichiarato di aver potuto ispirarsi ad una molteplicità di fonti narrative grazie alla propria predilezione per la letteratura ottocentesca, mitteleuropea e per quella del Novecento americano, dalla quale emergono due scrittori postmoderni: l’italoamericano Don DeLillo – autore, tra l’altro, di un aforisma citato all’inizio del libro, e del romanzo storico Libra (1988) – e soprattutto il Thomas Pynchon autore dei geniali romanzi storici Gravity’s Rainbow (L’arcobaleno della gravità, 1973) e Mason & Dixon (1997), che Mari identifica come il proprio maestro.1 Ma si può pensare anche a Cent’anni di solitudine di Màrquez: Lisander alle prese con i prodigi della dagherrotipia fa subito ricordare le
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Vasto romanzo ambientato alla fine della Seconda Guerra Mondiale, incentrato sui temi del Nazismo e della Guerra Fredda, il primo narra una serie di storie che s’intersecano, mescolando continuamente l’invenzione e la realtà, anche autobiografica. Ma è il secondo romanzo quello che mostra più numerose e significative analogie col nostro, sia per la forma stilistica che per i contenuti ed i personaggi (per esempio, il cane parlante sembra l’antenato XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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esperienze analoghe di José Arcadio Buendìa, mentre la passione amorosa di Colombino per Vittorina fa rammentare l’ossessione di Aureliano José per Amaranta, così tenace da suggerirgli addirittura di andare a Roma per inginocchiarsi al cospetto del Papa, pur di avere una dispensa per sposarla. Quanto al titolo, Troppo umana speranza – che colpisce immediatamente per la struttura desueta e l’ambiguità del significato, dovuti soprattutto all’avverbio ed alla sua posizione – lasciamo l’ultima parola all’autore: «“Troppo” è un avverbio che rende benissimo i due significati di “umana speranza”: da un lato una speranza terrena che trasforma la carica giovanile e consente di far esplodere un sogno e di viverlo; dall’altro lato una speranza eccessiva, distante, che può svanire e svanisce».2
del mulo pensante). La sua vicenda – che ha come protagonisti due scienziati inglesi realmente esistiti, il malinconico Charles Mason e l’esuberante Jeremiah Dixon, passati alla storia per aver tracciato la linea di confine tra la colonia della Pennsylvania e quella del Maryland – si colloca negli anni ’60 del sec. XVIII in un’America illuministica precedente alla Rivoluzione, dove sussisteva ancora una precaria convivenza tra bianchi ed indiani e si faceva rovente la questione della schiavitù. Scritta in una lingua complessa e ricercata, che richiama l’Inglese settecentesco sia nell’ortografia che nello stile, l’opera riporta il resoconto degli affascinanti viaggi dei due amici, indaga i processi che portarono alla genesi degli Stati Uniti e riflette sul problema del colonialismo, presentando in maniera surreale ed irriverente figure storiche come George Washington e Benjamin Franklin. 2 Intervista rilasciata il 3 aprile 2011 ad Andrea Petrelli per ilQuotidiano.it di Ascoli Piceno. La rappresentazione del Risorgimento in quattro testi del secondo Novecento
CINZIA EMMI Il linguaggio della politica ne ‘Il sorriso dell’ignoto marinaio’
Tutto il mondo dei poveri si assomiglia, sia esso di terra o di metallo. V. Guerrazzi, Nord e Sud uniti nella lotta
Nella nota alla stampa del 1997 de Il sorriso dell’ignoto marinaio,1 lo stesso Consolo commenta a posteriori, a scanso di confusioni ideologiche e critiche sorte successivamente alla prima uscita dell’opera,2 la struttura del proprio romanzo, «la cui organicità è spezzata, intervallata da inserti documentari o da allusive, ironiche citazioni»,3 una struttura che «lo connotava come metaromanzo o antiromanzo storico».4 L’autore/narratore semi-onnisciente è passato attraverso la Storia della
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V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Introduzione di C. Segre, Milano, Mondadori 1987, da cui si cita indicando solo i riferimenti. Si ricorda che l’opera era apparsa nel 1976 per i tipi di Einaudi (Torino). Sulla datazione della composizione e sulla genesi testuale cfr. N. Messina, Per un’edizione critico-genetica dell’opera narrativa di Vincenzo Consolo ‘Il sorriso dell’ignoto marinaio’, Tesi di dottorato, Madrid, Universidad Complutense de Madrid 2006 (d’ora in poi, Messina), già anticipata in parte in Per una storia di ‘Il sorriso dell’ignoto marinaio’ di Vincenzo Consolo (in «Quaderns d’Italià», X (2005), 10, pp. 113-126) e in Nello “scriptorium” di Vincenzo Consolo. Il caso di ‘Morti sacrata’ (in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di G. Adamo, San Cesario di Lecce, Manni 2006, pp. 121-160). 2 Sulla questione dell’antigattopardismo suscitata da diverse recensioni, vd. N. Zago, C’era una volta la Sicilia. Su ‘Retablo’ e altre cose di Consolo, in Id., L’ombra del moderno. Da Leopardi a Sciascia, Caltanissetta-Roma, Sciascia 1992, pp. 165-172, a p. 166; e B. Mirisola, Ragione e identità nel ‘Sorriso dell’ignoto marinaio’ di Vincenzo Consolo, in Moderno e modernità: la letteratura italiana – ADI – Atti del XII Congresso 2008, a cura di C. Gurreri-A.M. Jacopino-A. Quondam, Roma, Dipartimento di Italianistica e Spettacolo 2009, pp. 1-12, part. p. 3. 3 V. Consolo, ‘Il sorriso’, vent’anni dopo, Milano, Mondadori 1997, pp. 173-183; ora in Id., Di qua dal faro, ivi, 1999, pp. 276-282, a pp. 281-282. 4 Ibidem. La rappresentazione del Risorgimento in quattro testi del secondo Novecento
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colonna infame di Manzoni (piuttosto che attraverso I promessi sposi, come si è più volte sostenuto),5 attraverso la revisione del modello risorgimentale scritta proprio in quegli anni, attraverso l’esperienza contemporanea del romanzo documento/romanzo d’inchiesta d’impronta sciasciana ed offre un’opera che è letteratura della letteratura, ovvero composta da lacerti di letteratura in proprio – vita immaginata, vita negata dalla Storia – e da stralci di letteratura d’altri – letteratura esistente –: una serie di intertestualità (di cui alcune sono svelate direttamente, altre incastonate) che costruiscono una nuova prospettiva nella ricerca spasmodica della verità – forse mai trovata o soltanto immaginata, come emerge dall’iconografia dello studio del barone Mandralisca (pp. 33-34).6 La linea letteraria percorsa dall’autore è quella che va da Verga a Sciascia, attraverso De Roberto e Lampedusa, con i dovuti aggiustamenti culturali e politici; eppure non si tratta di una mera discendenza quanto di un superamento: quella di Consolo nel Sorriso è una nuova forma di romanzo storico dalla costruzione frammentaria e vorticosa di tipo sterniano, protesa al coinvolgimento del lettore (esplicitamente pp. 14, 15, 29, 34, 84, 90) per spingerlo a tirare le somme scritte negli spazi bianchi dello scarto tra narrazione e citazione, tra diegesi e documento: una costruzione che prosegue all’infinito convogliata dalle icone geometriche del triangolo allargato nella tridimensionalità del cono con vertice rovesciato della prigione, nella struttura elicoidale della stessa e nello schema cartesiano della disposizione delle scritte. Notevole è la spiegazione dell’arte dello scrivere cui attende il barone: nel silenzio e nella tranquillità dello studio, circondato da un universo di carte e libri, il barone scrive la propria opera di malacologia considerata inutile da molti – come Interdonato (pp. 34-35) –, ma utilissima da se stesso per completare il mosaico arabo che si trova nel duomo/studio, luogo sacro del pensiero consacrato alla Verità. Se un Dio ascolta, magari in absentia e non in corpore, sappia che qualcuno dei suoi figli può ricercare e trovare una tessera piccola, menoma, ma vera e utilissima per comprendere la Storia. Se dopo più di un secolo quello stesso figlio può fornire un contributo alla scoperta della verità, questo ha un valore relativo ed essenziale ad un tempo. Se la Storia è fatta di segreti e di linguaggi misteriosi, decriptarne un momento ha un valore in sé; infine, se si è consapevoli che tutto è
5 Cfr. G. Adamo, Sull’inizio del ‘Sorriso dell’ignoto marinaio’, in La parola scritta e pronunciata… cit., pp. 71-120, a p. 76 (d’ora in poi, Adamo); e l’utile monografia con intervista di G. Traina, Vincenzo Consolo, Fiesole, Cadmo 2001, pp. 23 e 127 (d’ora in poi, Traina). 6 Lo studio del barone somiglia a «quello d’un Sant’Agostino o san Girolamo» (p. 33), con evidente richiamo ai notissimi quadri di Raffaello e Caravaggio, e ad una breve descrizione dello studio stesso dell’A. nel racconto Un giorno come gli altri (in Racconti italiani del Novecento, a cura di E. Siciliano, Milano, Mondadori 1983, pp. 1430-1442, a p. 1439). Cfr. S.S. Nigro, Il testimone delle orecchie, in Da malebolge alla Senna. Studi letterari in onore di Giorgio Santangelo, Palermo, Palumbo 1993, pp. 423-440, a p. 425.
XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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vanitas vanitatum, ogni momento di vita è un memento mori: svelare quel piccolo tassello di verità è un atto dovuto all’umanità. Eppure altrove trapela, soprattutto dopo l’esperienza di incontro/scontro con la realtà atroce della povertà e della violenza, della coercizione e del pericolo di morte incombente, un senso di inutilità della ricerca e dello scrivere: la ricerca scientifica e la forza della parola sono offuscate dalla realtà cruda del male e del sopruso. La composizione lessematica del titolo rimanda, com’è noto, al quadro di Antonello da Messina intitolato Ritratto d’ignoto o d’uomo di Cefalù del 1470 che si può ammirare nel Museo Mandralisca di Cefalù, museo visitato dall’autore da giovane con vera e propria epifania, che costituisce uno dei vertici topografici del triangolo equilatero inserito nel triangolo rovesciato dell’isola teatro degli eventi (Messina-Lipari-Cefalù versus Sicilia), come l’azione per sedare i rivoltosi si inscrive in absentia nel triangolo scaleno Marsala (lo sbarco garibaldino con la chiamata alle armi connotato positivamente in direzione della giustizia e dell’equità sociale)Palermo (sede del potere da rovesciare)-Alcàra Li Fusi (luogo della vendetta contadina e della repressione connotata linguisticamente nel sanfratellano, enclave galloromanza del siciliano),7 nel velato triangolo scaleno dell’esilio di Interdonato (Lipari-Parigi-Cefalù). In parallelo si stende il passaggio dalla provincia meno evoluta (ossia Messina, di decaduta tradizione culturale e civile) al mare e alla pericolosità dell’isola (piccola o grande), alla cultura ed alla terra ferma, alla discesa nei meandri delle malebolge e alla salita verso la verità e la «libirtaa» (p. 125).8 Il tempo narrativo ambientato negli anni che porteranno all’Unità (1852-1860) è storico, come la presenza di due protagonisti realmente esistiti (il barone Enrico Pirajno di Mandralisca e l’avvocato Giovanni Interdonato), come quella di citazioni di documenti e fonti storiche, artistiche e letterarie volontariamente relegate nelle varie appendici o innestate nella scrittura in proprio9 con numerose mises en abîme. Diversamente accade per le incisioni dei carcerati – quelle scritte a carbone sulle mura del castello-prigione valorizzate nel nono capitolo (l’ultimo);10 né storica
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Cfr. i saggi scritti sin dal 1987 da Salvatore Trovato e raccolti in S.C. Trovato, Italiano regionale, letteratura, traduzione. Pirandello, D’Arrigo, Consolo, Occhiato, Leonforte, Euno 2011 (part. pp. 11-27, 89-122, 301-337). 8 Il lessema siciliano «libirtà» ricorre anche nella stanza cantata da Santo Misterio prima dei fatti sanguinosi (pp. 83-84) e nella scritta X (p. 122). 9 Si pensi solo alle epigrafi, ai testi di Mandralisca, di Guardione, di Abba, di Scandurra, al certificato di morte di Papa, al proclama di Mordini, alle citazioni da Filippo Buonanni, al riferimento a Giulio Carapezza ed ai grandi romanzieri ottocenteschi (ad es. p. 97), al documento d’imbarco della merce (pp. 30-31), alle intertestualità con i poeti (part. Leopardi e Federico II) e con i pittori (part. Goya e Francesco Bevelacqua per la Veduta di Cefalù del Museo Mandralisca). 10 Consolo trae spunto dalle scritte incise dai prigionieri dell’Inquisizione nello Steri di La rappresentazione del Risorgimento in quattro testi del secondo Novecento
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è la ricostruzione – tutta immaginata dall’autore – degli eventi, né l’interpretazione che invece afferisce ad un intellettuale di orientamento marxista che cerca di darci un «fiore» della vita storica di uomini su cui nessuno ha scritto. L’ideologia veicolata dall’autore non è assolutamente pacificante, né nei graffiti dei prigionieri né nei discorsi e nei dialoghi degli intellettuali ritratti: su tutto regna l’ombra dell’ignoto futuro (l’Unità d’Italia ed il suo prezzo di vite umane), certamente a noi noto, sconosciuto ai protagonisti (anche a quelli fittizi), ma annunciato nelle morti dei rivoluzionari offerte all’ignota divinità protettrice della futura Italia. Il riparo alla storia delle popolazioni vissute nella metà del XIX secolo lo compie uno scrittore ideologicamente rivoluzionario com’è Vincenzo Consolo, di cui non si può dimenticare l’attenzione misurata alle manifestazioni rivoluzionarie e alle proteste femminili d’inizio XX secolo in Nottetempo, casa per casa11 o la tentata rivoluzione dell’antimafia palermitana (di funzionari dello Stato contro lo Stato e il parastato) ne Lo spasimo di Palermo12 – nei romanzi che compongono la trilogia storica dell’autore: Consolo ricostruisce la piccola storia e designa il ruolo dello scrittore contemporaneo, che affonda il coltello nelle piaghe della Storia e non tace, che stralcia il velo di omertà sulle ingiustizie e simbolicamente le rappresenta. Innovative e rivoluzionarie sono l’impostazione e la tecnica narrativa del romanzo: si parte da un elemento storico – la massoneria e le proteste contadine, i moti di Cefalù prima dell’Unità, la strage di Alcàra Li Fusi –, per dare vita ad una vicenda umana – quella del barone Pirajno, uno degli ex deputati del Parlamento dopo i moti del 1848, deluso da quell’esperienza, ironizzata nelle parole di un commissario borbonico napoletano (p. 70) –, la vicenda di un intellettuale che viene coinvolto nella protesta antiborbonica per un’idea di Italia unita proposta iconograficamente nel ricamo al centro della «piccola tovaglia di seta» (p. 41) di Catena Carnevale – un ricamo «strambo», apparentemente «cucit[o] a fantasia e senza disciplina» (p. 42),13 come “stramba” sembrava l’idea dell’Unità in quel preciso
Palermo notate da Sciascia, cfr. Traina, p. 67. Le scritte sui muri del Centro Autogestione Proletaria (CAP) occorrono anche nel racconto Un giorno come gli altri (cit., p. 1435). Si noti che solo due anni prima era apparso il romanzo resoconto di Vincenzo Guerrazzi intitolato Nord e Sud uniti nella lotta (Venezia, Marsilio 1974; Genova, Frilli 2003), in cui le scritte erano di tipo scatologico e politico: gli operai della fabbrica genovese Meccanica Varia incidevano nei bagni le loro esperienze in forma di protesta liberatoria e anticonformista (capp. IV-VII). 11 Cfr. V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Milano, Mondadori 1992, pp. 35-54 e 101-116. 12 Cfr. Id., Lo spasimo di Palermo, ivi 1998. Cfr. Intervista a Vincenzo Consolo, in D. Calcaterra, Vincenzo Consolo. Le parole, il tono, la cadenza, Catania, Prova d’Autore 2007, pp. 126-187, part. pp. 142-143. Ne L’olivo e l’olivastro (Milano, Mondadori 1994), invece, l’A. narra in maniera oggettiva il tema della fuga e l’influsso del consumismo. 13 L’altra immagine dell’Italia si individua nella Kore (pp. 41, 87, 93). L’aggettivo «strambo» viene attribuito anche alla parlata sanfratellana (pp. 74, 83) e al romito Nunzio (p. 61). XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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momento storico –, ironizzata pure nella rappresentazione dei documenti storici scritti dai borghesi contemporanei o successivi, immaginata nella descrizione della protesta contadina vera e propria schizzata sanguinariamente da un figlio della piccola borghesia e linguisticamente ispirata dalle didascalie di alcune incisioni (dai Desastres de la guerra e dai Caprichos) di Goya, già in epigrafe al capitolo III.14 L’immagine che si ricava dell’Italia unita è quella di una popolazione appartenente ad aree geografiche diverse che vive nella sperequazione, protesa verso un cambiamento fondato su proposte individuali o di classe che, per raggiungere l’obiettivo, hanno bisogno dell’approvazione e del sollevamento popolare, proposte che confluiscono nella necessità di abolire i privilegi di casta e di classe, quelli imposti per secoli dal clero (di cui si mette a nudo la bassezza civile e morale, come in Morti sacrata, pp. 53-61) e dalla nobiltà, dal governo borbonico e dai proprietari terrieri. Emblema ne è la leggenda del voto di re Ruggero che, per aver salva la vita, promette di erigere un tempio (il duomo di Cefalù) nel punto di approdo della propria nave sbattuta dalla tempesta, una leggenda cantata dal poeta zappatore Carmine Papa nella romanza in siciliano (pp. 13-14) – un canto falso, fomentato dal clero, che si oppone a quello vero dei carcerati, gente del popolo su cui bisognerebbe contare per realizzare l’Unità, la gente vera della Vicaria di Palermo di cui si narra l’integrità (p. 67): il canto osceno intonato dalla giovane pellegrina malata per la festa della Madonna di Tindari il 12 settembre 1852 (p. 10). Ciò che rende il popolo così crudele è la carenza della proprietà, quel mancato possesso della terra (pp. 89 e 91) che darebbe dignità all’annoso e faticoso lavoro; e nella propria memoria il barone evidenzia questa questione, lasciando da parte le promesse di equità e divisione delle terre volontariamente diffuse per far sollevare il popolo e per coinvolgere i contadini nella lotta garibaldina. Promesse disattese, negate e, per ordine superiore in seguito alle pressioni dei latifondisti e dello stesso nuovo governo unitario, spente nel sangue, nell’ingiustizia delle fucilazioni (in intertestualità polemica con la novella verghiana Libertà e in linea con la produzione filmica degli anni Settanta).15 Quando il capitolo V si apre sulla figura di Peppe Sirna che da tempo lavora la terra arida del barone Manca – futuro amico del barone Mandralisca con il quale ha intrattenuto una corrispondenza epistolare per favorire la ricerca malacologica in quell’area –, l’autore descrive l’arsura del terreno, il sole abbagliante e quest’uomo spezzato dalla fatica (p. 77): il moto suscitato con questa scena è quello della condivisione della ribellione che lo vedrà tra i protagonisti dei fatti alcaresi. Il ruolo di Mandralisca è quello di veicolare un insperato illuminismo culturale
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Per tutti i rimandi cfr. Messina, part. pp. 261-293 e 377-403. Cfr. Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno mai raccontato (di F. Vancini, 1972, cosceneggiatore L. Sciascia). 15
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della classe dominate, che – dopo la revisione del movimento garibaldino ad opera di studiosi degli anni Sessanta/Settanta del XX secolo – tenta di dare una visione risarcitoria degli atti di vandalismo e distruzione, degli assassini politici compiuti dai contadini e dai braccianti di Alcàra Li Fusi. Raccontare quelle vicende nelle quali il barone è coinvolto suo malgrado significa comprendere le cause che spingono all’assassinio politico in nome della giustizia, dar conto della verità – accettabile o meno che sia –, sperare nel rinnovamento. L’invito, quindi, al magistrato Interdonato è quello di non condannare, di non giustiziare, in nome di secoli di dolore, sofferenza, povertà,16 stenti, stupri, usurpazioni ed indifferenza. L’eccidio di Alcàra Li Fusi è nella controluce degli eventi contemporanei, nella morte e nell’assassinio politico perpetrati dalle frange di estrema sinistra. Il ricco – ieri, rappresentato dal clero (sia i vescovi, i preti, il folle eremita stupratore e assassino) e dai proprietari terrieri, dagli aristocratici e dai notai; oggi, dai “padroni” delle fabbriche e dai commissari, dall’alta borghesia –, il ricco continua ad usurpare i diritti ed a sfruttare il popolo, significato ieri nella figura degli scavatori e delle portatrici delle miniere di pomice e zolfo,17 nei braccianti agricoli, nei pescatori,18 oggi negli operai delle aree industriali, nei disoccupati del Meridione costretti ad emigrare e a diventare carne da macello a Marcinelle o automi nelle fabbriche. Romanzo, questo, della microstoria19 che scava dietro le quinte della Storia, la Storia ufficiale e notarile, quella registrata dai collaboratori del potere e non dagli stessi attori,20 come si augurerebbe il barone, il quale vaticina una diversa nominazione delle cose rispetto a quella della gente di potere e di cultura (p. 89). Il titolo del romanzo21 si compone del sostantivo «sorriso» (con il campo semantico annesso, incluse anche le forme verbali di «sorridere», «ridere», e gli alterati semantici «ghignare» e «sghignazzare») che fa affiorare l’ironia dell’autore e quella di alcuni personaggi – derisi o meno dalla sorte –, dell’aggettivo «ignoto» che riprende il filone segreto del linguaggio massonico,22 del sostantivo «marinaio» (con il campo semantico annesso) che richiama la scena iniziale del viaggio per mare – sia il viaggio per portare a casa un oggetto prezioso (il quadro di Anto-
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Si pensi all’apertura sulle gabelle e sui dazi che i cefaludesi pagavano alla chiesa (p. 14). Cfr. V. Consolo, Di qua dal faro cit., pp. 7-34. 18 Cfr. ivi, pp. 35-66. 19 Cfr. F. Di Ligami, Vincenzo Consolo, la figura e l’opera, Marina di Patti, Pungitopo 1990, pp. 10-11. 20 Cfr. le affermazioni a pp. 88 e 124 (vv. 5-6). 21 Del titolo hanno già parlato Adamo (cit.) e Nisticò (‘Cochlìs legere’. Letteratura e realtà nella narrativa di Vincenzo Consolo, in «Filologia antica e moderna», III (1993), 4, pp. 179-223, part. pp. 188-189): la prima, in rapporto al ruolo svolto nell’incipit; il secondo, a livello referenziale. 22 Un accenno ai livelli di significato nell’uso di quest’aggettivo si trova in Adamo (p. 79). 17
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nello), sia quello del marinaio travestito che assolve il proprio compito di massone (Interdonato) –: tutti termini che fungono da chiave di lettura del testo. In quelle occorrenze in cui compaiono questi lessemi si trovano i momenti che esplicitano l’ideologia politica ed il linguaggio politico-massonico dell’autore. Il ruolo del Ritratto d’uomo è quello di segnare l’ironia testuale,23 come pure quella dell’artista che, come l’uomo ritratto in posizione di tre quarti con posa tipicamente fiamminga in cui gli occhi guardano direttamente lo spettatore, si rivolge direttamente al proprio pubblico di lettori, demarca il campo della verità, offre in numero adeguato i tasselli per comporre il puzzle della verità, ma lascia al non detto lo spazio di integrazione e interpretazione che il lettore deve compiere. La funzione del ritratto è esplicitata dallo stesso barone, allorché comprende quanto lo studio di un essere umano possa emergere tramite l’arte – pittura o scrittura che sia.24 In più occasioni compare la figura del ritratto antonelliano (pp. 18-19, 33, 65, 91-92) e viene svelata la somiglianza con Interdonato, sia mentre i due interlocutori si trovano nello studio (p. 35) sia nella memoria (p. 92), come pure quella di altre presenze iconografiche (prima di tutto, quella del duomo, poi i richiami a Caravaggio, Raffaello e ad altri quadri di Antonello) a connotare un grado di plusvalenza compositiva che allude alla forza descrittiva dell’immagine. Per ragioni di spazio legate a questa comunicazione, prenderò in esame soltanto due casi: quello in cui Peppe Sirna si unisce agli amici e ascolta il discorso di don Ignazio (capitolo V, pp. 79-83) e quello delle scritte dei carcerati rappresentate nell’immagine del capitolo VIII (p. 112). Nell’ora che precede l’attacco delle jacqueries, Peppe torna in paese e scorge gli amici in crocchio (ritratti attraverso una sequenza di enumerazioni25 che indicano un comportamento aspro ed osceno) che, con due apostrofi nominali, lo chiamano e mettono in luce il suo aspetto spettrale per premonitoriamente simboleggiare il patimento, la fatica e la futura morte: «E che è ’sto malo colore, ’sta faccia smorta, Peppe? […] Cacazzo, spavento, tremito di culo?» (p. 79). Il bracciante, che risponde solo con esclamazioni monosillabiche, viene coinvolto nella fine del «lastimare» (ibid.) e, con allusione all’ubriacatura, alla follia omicida e vendicativa, al sangue che scorrerà, nell’allegria e nell’esaltazione che anticipa la vendetta, come emerge nel campo lessicale di riso («scoppiarono in una gran risata», «altri risero», «ridendo», ibid.). Don Ignazio Cozzo – che lascia intravedere gli interessi della Chiesa (p. 82) e desidera che tutti giurino su san Nicola di fronte a padre Saccone della chiesa del Rosario (ibid.)26 – sostiene che «l’ora del riscatto è scoccata» (p. 80) e invita gli alca-
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Il ritratto, dopo la presentazione, viene spostato nello studio del barone (p. 33). Un richiamo a questo rapporto si legge in Adamo (p. 73). 25 Sul barocchismo linguistico del testo cfr. C. Segre, Introduzione cit., pp. V-XVIII, a p. XVI, e Calcaterra, Vincenzo Consolo… cit., pp. 20 e 45. 26 Si allude con diversi antonimi alla contrapposizione tra uomini di chiesa ricchi e poveri, 24
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resi a muoversi al grido di «Viva l’Italia!» (ibid.), mentre Turi Malandro propone quello di «Giustizia!» (p. 81). Evidentemente, nello sviluppo dell’alterco, don Ignazio sminuisce il significato della parola “giustizia”, e reclama perentoriamente un’uguaglianza improponibile: «Circa quella “Giustizia”, niente da contraddire. L’Italia o la giustizia sono la stessa cosa: parole. Valgono per quello che nascondono: il segnale. E allora giustizia resta convenuto» (ibid.). Il deittico premesso alla parola «giustizia» si riferisce spregiativamente al significato di cui invece si è caricata la jacquerie, mentre la nuova nazione insinua il concetto del nuovo governo, che presto si alleerà con i vecchi proprietari terrieri; la concessione finale è l’unico modo per ottenere l’aiuto popolare e raggiungere l’interesse degli ecclesiastici. La serietà e la gravità del momento27 vengono ironizzate nella risata plateale dell’assemblea (con ritorno sintagmatico parzialmente sinonimico, «l’assemblea diede una gran risata», ibid.), prima in silenzio, per il continuo annuire di don Nicolò Lanza rimbrottato aspramente da don Ignazio. Un’altra forma verbale di «ridere» in anadiplosi chiude la scena, allorché il gruppo con Peppe Sirna si muove dopo lo scioglimento dell’assemblea: «Quagliata […] rideva, ciondolando la testa, rideva sotto i baffi» (p. 83). I dettagli cruenti e spiacevoli delle devastazioni modulate nelle tre stazioni (con chiaro richiamo alla Passio, pp. 97-98), dei brani di arti putrefatti, del fetore diffuso (preannunciato nell’atto del maniscalco che «bruciava l’unghia d’un mulo e il puzzo di carogna appestava l’aria», p. 11), della discesa nella prigione a imbuto del castello Granza Maniforti, fanno da contraltare alla porta stretta del comportamento cristiano, alla giustizia da ricercare, alla lealtà ed alla libertà di azione. La linea della chiocciola28 è apparentemente circolare; se è vero che si tratta di una linea aperta all’infinito, essa è quindi una retta: la giustizia compie, o meglio dovrebbe compiere, un percorso semanticamente “retto”, ma esso è circolare nello scavo profondo per la ricerca della verità. Il barone, aristocratico illuminato che scende dal piedistallo della propria ricerca scientifica ed agisce, potrebbe fermarsi alla superficie, ammirare da lontano il castello kafkiano divenuto prigione, invece si avvia nei meandri e, novello Dante, attraversa la malabolgia, si fa scriba a lume di candela e comunica al mondo le frasi dei carcerati: emblemi queste della difficile ricerca del vero e della giustizia, della scrittura e della scienza pura, malacologica e non. Si spiega in tal modo l’evoluzione del protagonista e la comprensione di dover «abbandonare la dimensione metafisica a vantaggio della consapevolezza e
ingiusti e giusti, e alla necessità di avere l’approvazione delle donne ritenute superstiziose (pp. 82-83). In realtà, per la prima volta le donne – intellettuali, come Rosina Muzio Salvo, e popolane – avranno un ruolo importante durante le proteste: Catena Carnevale le rappresenta tutte. 27 Più avanti la domanda retorica «Scherziamo?» (p. 82) veicola la gravità del momento. 28 Individuata per primo da C. Segre, Introduzione cit. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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dell’impegno».29 Se la dedizione allo studio malacologico iniziato negli anni Quaranta – proprio quando riprendono i contatti con i massoni esiliati in preparazione delle vicende quarantottine – sembra esasperante e dovrebbe approdare all’ambizioso progetto di qualificare il barone come scienziato (p. 76; e, in chiave massonica, al raggiungimento dell’Unità), successivamente Mandralisca – deluso dalla Storia e dall’impotenza a cambiarla, quasi le proprie aspettative fossero sullo stesso binario di quelle dei rivoltosi – accetta di capitolare e, nell’atto di riporre il microscopio (contrapposto al cannocchiale presente nello studio, p. 33) e di lasciare le carte e i libri (fermando secoli di memoria e di storia sotto il peso della polvere, p. 91) per farne un museo e una fondazione, abbandona il proprio lavoro. Come ben sostiene Traina, questa sembra al protagonista «l’unica azione rivoluzionaria possibile […], perché nel futuro sia il popolo stesso a poter scrivere la sua storia».30 Tutto ciò a significare che un’azione non porta sempre le conseguenze attese, e talvolta gli illuminati si rendono conto di un’unica scelta possibile: il silenzio eloquente e l’afasia di fronte all’immutabilità sono una scelta individuale, inammissibile a livello sociale.31 Il lettore, pur tuttavia, è consapevole che questo gesto estremo è solo una mimesi del desiderio, perché Consolo – in un modo o nell’altro – ha continuato le proprie battaglie. Le dodici scritte del capitolo IX sono rappresentate nell’immagine della chiocciola, immagine inserita sull’angolo retto degli assi cartesiani (rette che procedono all’infinito) e disposte sulla spirale in diagonale in modo da associare nel primo quadrante i violenti consapevoli di esserlo e gli omicidi dei figli dei latifondisti e degli aristocratici (scritte I, V, IX), nei quadranti secondo e terzo i violenti e gli omicidi di aristocratici ingiustificati in sé ma giustificati dall’ingiustizia subìta (rispettivamente, scritte II, VI, X e III, VII, XI), nel quarto quadrante le vendette giustificate operate dai braccianti (scritte IV, VIII, XII). Sull’asse diagonale si contrappongono crimini giustificati a ingiustificati, violenze consapevoli a inconsapevoli, ma tutti questi crimini risultano non condannabili ai fini della giustizia umana, poiché si fondano su un principio di giustizia superiore. Ne consegue che in questo romanzo non si segue una linea retta della narrazione, ma una linea spezzata, fatta di segmenti e salti, che culmina nella speranza dell’impunità perorata nella memoria del barone: i crimini in questione sono giustificati in nome della giustizia somma, richiesta e scritta per mano di un figlio delle classi dominanti (incarnato dal barone a specchio dell’autore) che svolge un atto di catarsi sociale. Il testimone è passato ad un altro figlio della classe dominante, Giovanni Interdonato, per ani-
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G. Adamo, Sull’inizio del ‘Sorriso…’ cit., p. 81. G. Traina, Vincenzo Consolo cit., p. 61. 31 Cfr. la scelta di Empedocle in V. Consolo, Catarsi, in Trittico, a cura di A. Di Grado-G. Lazzaro Danzuso, Catania, Sanfilippo 1989, pp. 47-72. 30
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mare l’atto finale dell’impunità. L’ultimo atto del testo è l’invito al voto del proclama del prodittatore Antonio Mordini del 15 ottobre 1860, l’invito agli «Italiani della Sicilia» (p. 133) a non avere divisioni e partiti, ma un unico sentire, un unico pensiero, un unico credo di appartenenza all’Italia unita. Neanche le scritte sono esenti dall’ironia, in questo caso amara, come quando appare un figlio dei potenti che pensa di rabbonire il suo assassino con un sorriso: «mi capitò il giovinotto Lanza / sorridente / attassò senza lamento» (p. 119, vv. 8-10). Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio si scopre il tentativo di cambiare il corso della Storia, anche se attraverso la violenza, l’omicidio politico, la distruzione. L’evolversi dei fatti mostra la ciclicità e il ripetersi dell’ingiustizia: il tentativo di palingenesi, seppur fallimentare, suggerisce che la classe dirigente, la classe al potere, difficilmente accoglierà l’equità sociale e restituirà i privilegi con il loro livellamento. Diversamente, in Lunaria e in Retablo,32 l’autore si rassegna alla sconfitta del popolo e indirizza le conseguenze della lotta di classe verso il teatrum mundi – solo anticipato nel Sorriso –, verso la comprensione che tutta la vita, ovvero la Storia, è teatro, maschera, ripetizione della stessa commedia: «è finzione la vita, melanconico teatro, eterno mutamento»33 – esclama accorato il Viceré. La scena vitale e quella narrativa, nella continua frizione tra realizzazione progressiva e memoria, tra speranze future e atti disattesi, tra mutamento e impostura, tra cambiamento ed eterno ritorno, tra azione e stasi, tra caducità umana ed esistenza universale che travalica la vita umana, rendono appieno il senso della finzione artistica, la difficoltà insita nella missione dell’intellettuale, la vacuità del tutto in attesa che la cenere scenda.
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Cfr. V. Consolo, Lunaria, Torino, Einaudi 1985, poi Milano, Mondadori 1996; e Id., Retablo, Palermo, Sellerio 1987, poi Milano, Mondadori 1992. 33 Id., Lunaria cit., p. 89. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
GUIDO NICASTRO Gruppo di famiglia tra i Borbone e i Savoia: ‘Ferdinando’ di Annibale Ruccello
Nell’asfittico panorama del teatro italiano contemporaneo c’è un’opera che spicca per i suoi meriti scenici e letterari: si tratta della commedia Ferdinando di Annibale Ruccello, rappresentata per la prima volta il 28 febbraio del 1986 con la regia dello stesso autore che morirà qualche mese dopo, nel settembre dello stesso anno, per un tragico incidente automobilistico. In un momento in cui il testo letterario perde di importanza nei confronti degli altri linguaggi scenici, Ruccello restituisce ad esso dignità e valore, componendo un’opera da questo punto di vista tradizionale, con una trama sapientemente organizzata, con personaggi e un ambiente bene disegnati. L’azione si svolge in una vecchia villa, nella zona del Vesuvio, tra l’agosto e il dicembre del 1870. Siamo quindi a pochi anni dall’annessione del Regno delle due Sicilie al resto d’Italia, negli stessi giorni in cui anche Roma viene invasa dalle truppe del nuovo Regno. E l’opera si incentra sul dramma della vecchia aristocrazia borbonica, qui rappresentata da donna Clotilde Lucanigro e dalla povera cugina donna Gesualda, parente illegittima, a contatto con la nuova epoca. La scena si apre sulla camera da letto della villa, dove donna Clotilde se ne sta ammalata recitando il rosario e contrastando con donna Gesualda. Tutto il suo discorso è vòlto a lamentare la decadenza dei tempi come prova la vittoria dei Savoia e della lingua italiana sulla parlata napoletana: «Contemporaneamente all’ammainarsi della gloriosa bannera ’e re Bburbone s’ammainaie pure ll’italiano dint’ ’o core mio… Na lengua straniera!… Barbara!… E senza sapore, senza storia!… Na lengua ’e mmerda!… Na lengua senza Ddio!» La memoria va alla Baronessa Sommatino del Rosario di Federico De Roberto, donna autoritaria e oppressiva con le figlie, che mescola la recita delle formule liturgiche con considerazioni mondane; va alla prima scena del Gattopardo con i misteri dolorosi recitati dalla voce del Principe di Salina. Bastano questi riferimenti per dirci come la commedia di Ruccello si inserisca in un grande filone della letteratura italiana: quel filone che con Verga, De Roberto, Pirandello e Tomasi di Lampedusa ha messo sotLa rappresentazione del Risorgimento in quattro testi del secondo Novecento
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to la lente di ingrandimento della propria scrittura quel momento delicato che segna il passaggio dall’Italia prerisorgimentale all’Italia unitaria. I personaggi di Ferdinando, donna Clotilde, donna Gesualda e don Catellino, il confessore delle due donne, appartengono tutti al vecchio mondo aristocraticoclericale. Il nuovo è rappresentato dal giovane Ferdinando che irrompe nella villa spacciandosi per un nipote di donna Clotilde e seduce tutti, anche il prete omosessuale, con il proprio giovane corpo da cui si sprigiona un eros prepotente e incontrollabile. Alla fine dell’opera sapremo però che questo Ferdinando non è un nobile, ma un borghese figlio di un notaio, e che il suo vero nome è Filiberto, non il nome di un Borbone, bensì quello di un Savoia. Lui si è introdotto nella villa solo per rubare a Clotilde un tesoro a sua volta da lei rubato a un altro nobile. Un personaggio, dunque, cinico e amorale, esponente della nuova generazione. Ma cinici e amorali, a scanso di equivoci, sono anche gli altri personaggi, ultimi avanzi di un mondo in decomposizione. Di questo mondo donna Clotilde riassume i tratti più significativi: la sua apparente malattia, quel suo starsene sempre distesa nel letto senza contatti con l’esterno, sono il segno più eloquente dell’attaccamento a una civiltà in declino e del rifiuto di una realtà che non le appartiene. Lo stesso Ruccello cita tra i suoi maestri Thomas Mann, e certo, a proposito di malattia il pensiero corre alla Montagna incantata e a quel sanatorio in cui a ridosso della grande guerra si spengono le ultime illusioni della borghesia europea. Del passato che Clotilde si ostina con pervicacia a difendere, fanno parte la cultura e la lingua napoletane: non a caso nel corso dell’opera vengono da lei citati con ammirazione autori come Pompeo Sarnelli con la sua Posillecheata, mentre La cantata dei pastori, sacra rappresentazione di Andrea Perrucci, offre il testo di una recita in cui Ferdinando assumerà le vesti dell’arcangelo Gabriele; ma non manca neppure un’allusione a Pietro Trinchera, il cui nome è ripreso dal notaio che poi si rivelerà essere il padre di Ferdinando. Per dare vita scenica al suo assunto Ruccello si serve poi dei mezzi del teatro e del romanzo popolare ottocenteschi esibendoli con sospetta evidenza: il veleno con cui verrà ucciso don Catellino, la cassetta dei gioielli, il furto, l’eredità, quasi che l’autore si diverta a usare gli strumenti del vecchio teatro spargendo su di esso la propria straniante ironia e prendendo così le distanze dai suoi personaggi. Allo stesso tempo la commedia si configura come un epicedio, in cui evidenti sono i riferimenti all’attualità, sulla perdita d’identità di un popolo e di una cultura. Dice Clotilde a Ferdinando: «Tu appartiene a na brutta razza… A na brutta generazione… Na razza, na generazione, ca nun tene ricorde, ca è ’a peggia cosa ca po’ capità… Chi nun tene ricorde… Chi nun tene passate… Nun tene manco futuro…». La perdita di identità che Napoli ha subìta al momento dell’unificazione è simile a quella che l’omologazione di pasoliniana memoria ha provocata nella Napoli odierna che proprio nel 1980, quando iniza la carriera scenica di Ruccello, ha conosciuto il trauma del terremoto, un terremoto culturale e psicologico, oltre che XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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materiale, che ha procurato danni e devastazioni e interrotto il filo che legava il presente al passato. Di fronte a questa situazione sembra non esserci scampo e Ferdinando appare come un’opera disperata. Se i personaggi del vecchio mondo restano invischiati in sordide relazioni economiche e sessuali (donna Gesualda prima che con Ferdinando se la intende con don Catellino, che a sua volta intrattiene rapporti con giovani uomini, prima Amedeo, il suo sacrestano, poi Ferdinando) che sfoceranno financo nell’omicidio del prete, il nuovo che avanza, il protagonista, è sotto molti aspetti il peggiore di tutti: non è l’arcangelo Gabriele della sacra rappresentazione, è un angelo decaduto, un diavolo che ha la forza di sedurre tutti senza essere sedotto, che sa fingere la sua identità, che spinge gli altri al male e poi ne approfitta per impossarsi del frutto dei loro delitti. Certo, dalla sua ha la storia e la natura. Il futuro è dei borghesi come lui, cinici e arrivisti, e non dei nobili e dei preti. Oltre tutto lui è giovane: con la sua vitalità sessuale introduce una ventata di aria fresca in un ambiente chiuso e opprimente e per un breve tempo anche Clotilde e Gesualda riprendono a vivere. Il suo ingresso nella villa, come nel film Teorema di Pasolini che presenta una situazione analoga, ha lasciato il segno in tutti coloro in cui si è imbattuto, ma alla sua partenza tutto ritorna come prima e peggio di prima. Si delinea in tal modo il significato complessivo dell’opera. Ruccello, nonostante la sua nostalgia decadente per il passato e l’attaccamento nei confronti della cultura e della lingua napoletane, capisce, non diversamente da Tomasi di Lampedusa quando parla nel suo romanzo della corte di Ferdinando, che la monarchia dei Borbone ha la morte sul volto. C’è un segno acre, espressionisticamente deformato, nel modo in cui sono disegnate le figure di Clotilde, di Gesualda e di don Catellino. Le prime non arretrano di fronte a niente, neppure davanti all’omicidio, pur di soddisfare i loro istinti peggiori di gelosia e di ingordigia. Il prete per gli stessi motivi non esita con il suo eros blasfemo a profanare la veste talare. Ma l’alternativa a tante nefandezze non può essere costituita dal protagonista, un parvenu che non meno degli altri è capace di qualunque delitto. Questa nuova borghesia rampante che predilige i Savoia non è migliore della vecchia classe borbonica che se non altro sapeva mantenere il culto delle proprie memorie e della propria cultura. Sembra che Ruccello non veda vie di uscita ad una situazione che è di ieri come di oggi, della Napoli del 1870, come di quella odierna che ha visto la situazione deteriorarsi per il prevalere di un ceto politico e affaristico-mafioso che ha portato nella città tutti i guasti che conosciamo. Il suo è un sentimento disperato, più di quello che il suo maestro Roberto De Simone aveva mostrato nella Gatta Cenerentola, l’altro grande testo del teatro napoletano contemporaneo, dove almeno Cenerentola, che incarna tutte le donne del popolo napoletano angariato e oppresso, alla fine riesce a sposare il Principe. Qui non c’è miracolo e non c’è lieto fine e l’opera si chiude senza una catarsi che riscatti i personaggi dal loro passato o permetta loro di sperare in un futuro che valga la pena di essere vissuto. La rappresentazione del Risorgimento in quattro testi del secondo Novecento
MARIA PANETTA Il fondale del Risorgimento nelle ‘Menzogne della notte’
Edito nel 1988 da Bompiani e premio Strega nello stesso anno, Le menzogne della notte è notoriamente il terzo romanzo di Bufalino, dopo il notissimo Diceria dell’untore (1981) e Argo il cieco (1984). Nelle Notizie in merito che si leggono sulla sovraccoperta della prima edizione, l’autore ne definisce il genere come «A piacere: fantasia storica, giallo metafisico, moralità leggendaria» e precisa (alla voce Anacronismi, anatopismi): «qui date, luoghi e figure giocano sullo sfondo d’uno stravolto Risorgimento». Il romanzo è, infatti, ambientato in «un’isola penitenziaria, probabilmente mediterranea e borbonica» (cfr. Argomento delle Notizie in merito), la cui individuazione certa non sembra, all’inizio, possibile, sebbene alcuni riferimenti facciano pensare a Pantelleria: quello ai Borboni (appropriatisi dell’isola nel corso del Settecento e scacciati nel 1848 da una congiura organizzata dalla «mala pantesca»), l’accenno alla «fortezza»1 (forse il castello Barbacane, bastione di origine bizantina trasformato a metà Ottocento in carcere, il cui secondo piano era dedicato a una casa del Governatore); quello allo «scoglio di tufi»2 e ai «faraglioni»3 (ma il Tufo verde caratterizza sia Pantelleria sia Ischia, ad esempio, e i faraglioni si trovano pure a Capri); poi, la menzione del «cappero»,4 l’allusione alle «capre di poco latte»5
1 Cfr. pag. 7 dell’edizione Bompiani 1988, alla quale, per comodità, si farà sempre riferimento. Si tenga presente, però, che l’edizione più accuratamente annotata dell’opera è quella curata da Nunzio Zago (cfr. G. Bufalino, Le menzogne della notte, introduzione e note di N. Zago, Milano, Grandi Tascabili Bompiani 1995). 2 Ivi, p. 8. 3 Ibidem. 4 Ivi, p. 8. 5 Ibidem.
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Maria Panetta
e agli «asini senza padrone»6 (si ricordino, appunto, la capra pantesca e «u Sceccu pantiscu»), ma il successivo riferimento a «Capo nero»7 potrebbe far pensare persino alla riviera ligure di ponente. Però, la citazione del distico (Donec sancta Themis scelerum tot mostra catenis/ vincta tenet, stat res, stat tuta tibi domus)8 trascritto da Settembrini nelle sue Ricordanze della mia vita riconduce a Santo Stefano e all’arcipelago delle Ponziane, sede di un istituto di pena voluto da Ferdinando IV di Borbone e progettato da Francesco Carpi nel 1792-1793 secondo il modello panottico che si rifaceva proprio al tristemente noto trattato del Panopticon (1787) di Jeremy Bentham: Bufalino accenna, infatti, nella descrizione delle celle, a una «porta di quercia, bullonata di ferro e munita d’un occhio di bue, per spionaggio e contrappello perpetuo».9 In questo carcere vennero anche rinchiusi il brigante calabrese Giuseppe Musolino e quello lucano Carmine Crocco, le cui figure potrebbero aver ispirato quella del personaggio di frate Cirillo, oltre al Michele Pezza, detto Fra Diavolo, esplicitamente nominato da Bufalino (in particolare, il riferimento alle «gole di Lagopesole»10 conduce esattamente a Crocco, che nell’omonimo Castello della frazione di Avigliano, in provincia di Potenza, usava rifugiarsi); l’accenno alle torture cui i detenuti vengono sottoposti nel «camerino disciplinare»11 troverebbe, inoltre, riscontro in tutti i racconti (anche illustri, come quelli di Sandro Pertini) di ergastolani ivi uccisi a furia di bastonate, calci e pugni, col cosiddetto metodo di «Sant’Antonio». Il romanzo si apre all’insegna del cibo («Mangiarono pochissimo o niente. Le portate […] avevano un sapore nemico, né v’era boccone che in gola non diventasse una cenere»),12 metafora che ritorna spesso, nell’opera, specie associata all’idea della morte: «Scappino pure, se sono da tanto. Bocche in meno da sfamare per noi. Carne da spaccio per le orche del mare»,13 commenta, ad esempio, nelle prime pagine, l’ufficiale di sussistenza, riferendosi ai carcerati. E «Dio che male», pensa l’ipocondriaco Governatore, ammalato di tumore: «Ho un topo nel cacio dell’ossa… Non durerò».14 Si veda, inoltre, la descrizione che il soldato Agesilao fa del popolo, cui ripugnano parole come repubblica ed «equalità»:15 «Preferisce starsene
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Ibidem. Ivi, p. 8. 8 Ovvero: “Finché la santa Legge tiene tanti scellerati in catene, sta sicuro lo stato e sta sicura la proprietà”. 9 Ivi, p. 12. 10 Ivi, p. 34. 11 Ivi, p. 10. 12 Ivi, p. 7. 13 Ivi, p. 9. 14 Ivi, p. 20. 15 Ivi, p. 65. 7
XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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abbietto a raccogliere tarì nel fango, buttati da un balcone regale. Tuttavia, di questo nostro sovrano ch’è non solo crudele, ma avaro, si sente ormai stufo. Sazio di lui e famelico di pane… Da questi due eccessi nascerà il popolo nuovo».16 Al che il barone commenta: «Ogni insurrezione comincia da una sazietà e da una fame […] Meglio quando entrambe sono presenti».17 Nonostante la rilevanza della metafora del cibo e della fame, attinenti alla sfera del gusto, quello della vista sembra essere il senso prevalente; come nella migliore letteratura carceraria, anzi, è la visione negata a tornare, leit-motiv del romanzo: certi scorci ricordano pagine memorabili del buzzatiano Deserto dei Tartari, laddove le mura delle celle consentono di cogliere squarci di una realtà metafisica e irreale: «Le celle, diciamo un po’ delle celle. Oblunghe e cieche, con un unico orifizio lassù, dove si giunge facendosi staffa delle mani d’un altro e con magra visione dal basso, essendone gli strombi ad arte obliqui, sì da precluderla, quasi»;18 oppure: «Di qui, chi levi lo sguardo in direzione del maschio, appaiono le mura a picco, con cento feritoie di cento segrete, e cento facce di spettri all’affaccio, curiose del nuovo venuto»,19 passo in cui la fortezza assume quasi le sembianze del mostruoso gigante Argo, dai cento occhi. Nella descrizione dell’isola, nell’incipit, si misura la larghezza del canale che la separa dal continente facendo riferimento all’ottica dei prigionieri («di larghezza pari alla gittata di un occhio buono»)20 e sempre dal loro punto di vista si descrive l’approdo di ogni nuovo arrivato: «Salendo quindi per un avvolto sentiero, lo sguardo coglie da una parte lo sterminio del mare largo, un’innumerevole ondulazione di blu […]; dall’altra, di là del braccio d’acqua, la terraferma, su cui s’intravvede, disposto ad arco, un porto di case nane, deserto di persone e di moto».21 L’autore si identifica proprio con uno dei reclusi, descrivendo in termini allusivamente danteschi22 l’accesso, per la «bussola dell’ingresso»,23 alla fortezza, «un’inerzia di sodo granito»,24 e la lapide posta su un archivolto con la citazione latina prima evocata: «Ne andate rimuginando il senso, mentre scorrete il cortile»,25 immagi-
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Ibidem. Ivi, p. 66. 18 Ivi, p. 11. 19 Ivi, p. 9. 20 Ivi, p. 8. 21 Ibidem. 22 Qualche pagina dopo sarà più esplicito: «bastarono cinque minuti perché il prigioniero, assaggiando il vigore del sole sui tetti di piombo spioventi, s’accorgesse di trovarsi, bolgia più bolgia meno, all’inferno» (p. 10). 23 Ibidem. 24 Ibidem. 25 Ivi, p. 9. 17
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na (momento di massima identificazione del narratore con l’ottica del prigioniero). Tutto il romanzo è un continuo omaggio alla letteratura carceraria, specie risorgimentale (si pensi soprattutto a Pellico, Bini e Settembrini):26 tradizionali sono, infatti, il motivo dei passeri che pigolano contro le grate, alla ricerca del «gruzzolo di briciole, sparsovi dai coatti per scordarsi dell’esser soli»,27 pronti a tornare a «batter l’ali, loro che possono, fuori»;28 l’accenno ai «minuscoli ragni»;29 il riferimento al «tiepido non-tempo, in cui sinora smemoravano, quasi»,30 al particolare «tanfo»31 dei condannati a morte; la menzione di «Veniero Manin, un patrizio che languiva nei Piombi, reo confesso di presiedere una vendita carbonara»32 (e ovviamente qui l’illustre precedente è Casanova); la citazione esplicita del poema in versi di Byron dedicato al monaco prigioniero François Bonivard (Il prigioniero di Chillon, 1816)33 e del coro del Fidelio34 di Beethoven, i cui temi principali sono sempre la lotta contro la tirannia e l’affermazione della libertà e della giustizia. I prigionieri vivono isolati e sognano il Regno, del quale non hanno notizie se non «dai muri, come da tamburi lontani, che alla regina è nato un erede morto e che dunque, morisse il re…»:35 in realtà, i moti risorgimentali restano comunque sullo sfondo, in tutto il romanzo, nel quale domina un tempo sospeso, che allude all’interminabile attesa dell’ultima notte dei condannati a morte, ma che soprattutto è metafora della condizione umana di sospensione, dubbio e incertezza esistenziale. Ogni mattino, racconta l’autore, il primo riverbero d’umido sole li sorprende sempre così, con gli occhi al soffitto, metà imbrattati di sogni, metà di paura, intenti a tracciare fra le travi linee di forza e di fuga, un intreccio di svincoli, botole e crepe, alla fine dei quali li attenda una felice assenza di peso, un’aerea dissennatezza, un sentimento di volo che nel loro idioma mentale, non scritto né detto, corrisponde all’idea, così virginea e sorgiva, di libertà.36
La stessa struttura della parte centrale dell’opera richiama quella del Decamerone
26
Cfr. M. Panetta, Metafore e topoi della letteratura carceraria nella memorialistica di Pellico, Bini e Settembrini, in Voci da dentro, n. 21 di «Studi (e testi) italiani», a cura di C. Spila, 2008, pp. 203223. 27 Ivi, p. 11. 28 Ibidem. 29 Ibidem. 30 Ivi, p. 35. 31 Ivi, p. 37. 32 Ivi, p. 52. 33 Ivi, pp. 116, 132. 34 Ivi, p. 116. 35 Ivi, p. 12. 36 Ivi, p. 14. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
Il fondale del Risorgimento nelle ‘Menzogne della notte’
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o, ancora meglio, quella delle Mille e una notte: i quattro prigionieri, infatti, vengono rinchiusi tutti nella stessa cella a trascorrere l’ultima notte di vita prima dell’esecuzione per lesa maestà cui sono stati condannati perché componenti di una setta segreta capeggiata da un misterioso «Padreterno», del quale non sono disposti a rivelare l’identità nemmeno sotto tortura. Il governatore del carcere, Consalvo De Ritis, riesce, però, a far vacillare la loro incrollabile determinazione proponendo loro un patto: chiunque di essi rivelerà il nome del capo salverà, con il suo gesto, se stesso e tutti gli altri, senza che si venga a sapere chi è stato a tradire. Nella cella dell’ultima notte è stato rinchiuso anche un quinto condannato, il famigerato frate Cirillo, che, proprio richiamandosi al Decamerone,37 propone loro di trascorrere le ore di attesa prima dell’alba raccontando ognuno una storia legata a un momento felice della propria esistenza, confessandosi ognuno a se stesso per capire se quella morte da stoico possa rappresentare un epilogo degno della propria vita. Pertanto, tutto il cuore del romanzo è dedicato a quattro narrazioni (racconti o invenzioni, come precisa subito il barone)38 che si dipanano nella cornice dei moti insurrezionali risorgimentali, che appaiono, a un lettore poco accorto, mediante questo stratagemma letterario ancora più lontani e fuori fuoco. Il giovane Narciso Lucifera racconta del proprio amore per Eunice e della sua reclusione a Castel Sant’Angelo, accusato di essere un evaso dai Piombi; dopo un interludio di fulmini e tuoni in cui si accenna all’episodio storico (del 1815) della fuga, dal carcere della Conciergerie,39 del conte di Lavallette, direttore generale delle poste sotto il governo imperiale all’epoca di Luigi XVIII, travestito con gli abiti della moglie, Corrado Ingafù dei baroni di Letojanni, detto Didimo (il riferimento è, ovviamente, a Foscolo), narra la storia del proprio arruolamento al seguito del Padreterno dopo la morte in duello del fratello gemello Secondino, che lo ha conquistato alla causa della libertà a Parigi come «supplente del suo destino incompiuto»40 (anche in questo caso i riferimenti, seppur rapidissimi, a episodi storici realmente accaduti non mancano,41 ma tali episodi vengono ricordati soprattutto in quanto espedienti narrativi, al pari della fitta tramatura delle citazioni letterarie. Pertanto, la Storia diviene ancella della Finzione, che ad essa ciclicamente ritorna in quanto fondale della cornice). Il soldato Agesilao, poi, narra della propria nascita, dopo la violenza subita dalla madre, la gitana Ramira, da parte di un cavalleggero, e del parricidio da lui compiu-
37
Definito «un libro di lussurie, ma pauroso nel fondo», p. 39. Ivi, p. 40. 39 Ivi, p. 62. 40 Ivi, p. 84. 41 L’accenno all’attentato ordito da Giuseppe Fieschi ai danni di Luigi Filippo d’Orléans nel 1835 (p. 72), quello al caffè Le Procope di Parigi (p. 74) etc. 38
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Maria Panetta
to successivamente, dopo essersi arruolato proprio al seguito del colonnello suo padre, e dichiara di non aver ancora compreso se «camuffato da martire, non abita dentro di me un dissoluto e fanatico barbaro»;42 infine, il poeta Saglimbeni racconta, alternando finzione e verità, di aver provocato il suicidio di un giovinetto, Amabile, figlio di duca, che aveva per lui un’autentica adorazione, giacendo con la matrigna (la vedova del padre, Donna Matilde) sotto gli occhi allibiti del ragazzo. In realtà, cornice nella cornice, tutte le narrazioni sono legate fra loro dal filo rosso dell’iniziazione dei quattro, per strade e percorsi diversi, alla setta segreta il cui capo proteggono con il loro ostinato silenzio. Cirillo tenta in tutti i modi di provocare i compagni di cella e di farli recedere dai loro propositi di sacrificio estremo: alla fine si scoprirà che, sotto le sue vesti lacere e le sue bende insanguinate per la presunta recente tortura della corona di ferro, si nasconde proprio il Governatore, che, nel finale del capitolo XIII, crede di aver compreso, indirizzato dai riferimenti incrociati a episodi storici volutamente disseminati dai quattro nei loro racconti, chi si nasconda sotto il nome di «Padreterno», e rivela la propria identità e l’inganno tramite il quale pensa di aver estorto loro un’involontaria confessione, decidendo comunque di mandarli a morte. In realtà, il vero finale della storia è affidato alle carte riprodotte nel capitolo XIV, che riportano il Testamento vergato dal Governatore e la sua lettera al Re, nella quale vengono espressi i dubbi che lo hanno assalito tempo dopo, al pensiero che i quattro condannati si siano presi gioco di lui e lo abbiano volutamente indotto ad accusare della congiura da loro ordita persona molto vicina al sovrano, probabilmente innocente, proprio per indebolire il potere del Re e rafforzare la causa per la quale hanno sacrificato la propria vita. I temi «politici» che affiorano, sebbene quasi dissimulati e in sordina, dalla narrazione riguardano gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità, 43 derisi dal Governatore per ottenere la delazione dai condannati, da lui definiti, in quanto «popolo», «mille e mille commessi e pagliacci del diavolo»44 (egli allude al Padreterno, con gioco di parole, anche come a un «reale Anticristo»).45 I diritti dell’uomo sono da lui descritti come una «mina che in una sola esplosione atterrerà gli esempi del mondo antico, i precedenti dell’esperienza, le leggi e gli atti d’ogni consesso e senato»:46 questa visione apocalittica nell’ottica conservatrice si ripropone rovesciata, in positivo, nella descrizione di Parigi come «immagine d’una nuova creazione, estratta dall’anima dell’uomo e dalle viscere del creato; un teatro e una
42
Ivi, p. 107. Ivi, p. 30. 44 Ivi, p. 31 45 Ivi, p. 31. 46 Ivi, p. 31. 43
XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
Il fondale del Risorgimento nelle ‘Menzogne della notte’
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testimonianza della munificenza celeste. Da qui partirà una tale scintilla da incendiare tutta la terra»,47 nelle parole entusiastiche del gemello del barone, Secondino. Il barone ribadisce allo scettico frate la convinzione che «un pugno di uomini, purché sappiano morire in piedi, sono buoni a far insorgere tutti»48 e che «le persone restano fredde se non le scalda il sangue dei martiri»;49 l’allusione a Saint-Simon, Mazzini, Robespierre e Babeuf è esplicita, nel racconto del barone,50 ma frate Cirillo controbatte a queste argomentazioni, fino alla fine, che «a un antico schiavo la sorpresa della libertà può infliggere un capogiro press’a poco intollerabile»51 etc. Il numero esiguo dei personaggi del romanzo (quattro condannati, il Governatore e qualche «comparsa»), la sua unità di tempo (una sola notte) e quella di luogo (una cella) conferiscono all’opera un carattere teatrale che emerge anche da molti altri elementi, essendo la teatralità motivo ricorrente nelle Menzogne della notte e nell’intera produzione di Bufalino: il nomignolo di Sparafucile (che allude al sicario del Rigoletto) assegnato al Governatore; la trascrizione dell’inizio dell’aria di Donizetti tratta dal Terzo Atto del Marin Faliero («Il palco è a noi trionfo…»);52 il riferimento al Lorenzaccio (1834) di De Musset,53 che vede contrapposti un diciannovenne Lorenzo de’Medici, che aspira al ritorno a Firenze della Repubblica, e il suo lontano cugino Alessandro, il tiranno; quella all’opêra comique Fra Diavolo (1830)54 di Daniel Auber; quella dell’aria di Berenice tratta dall’opera lirica L’occasione fa il ladro (1812) di Rossini55 etc. La patina arcaizzante della lingua di Bufalino conferisce al romanzo un sapore ottocentesco anche nello stile e numerosi motivi che compaiono soprattutto nelle quattro narrazioni dei condannati sembrano prendersi gioco proprio della letteratura del secolo XIX, in un’alternanza ossessiva tra realtà e finzione, essere e apparire. Il sedicente «puparo», «diavolo custode» e «romanziere e spettatore di voi»56 viene alfine smentito, nella sua sicumera cinica e disillusa di corruttore e traviatore; il carnefice rassicurato, nella propria identità, dalla visione del dolore altrui durante le angherie commesse, con l’urlo di vittoria finale sancisce, invece, la propria scon-
47
Ivi, p. 76. Ivi, p. 63. 49 Ivi, p. 64. 50 Ivi, p. 74. 51 Ivi, p. 133. 52 Ivi, p. 64. 53 Ivi, p. 65. 54 Ivi, p. 127. 55 Ivi, p. 141. 56 Ivi, p. 138. 48
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fitta; nel conclusivo rogo dei libri di cervantesca memoria (elemento presente anche nella Diceria dell’untore),57 a bruciare sono principi e negromanti, Atlanti, Prosperi e Sigismondi: tutta la letteratura di finzione che, ormai, non lo scalda più, nel silenzio dell’universo che precede la sua morte. Il sacrificio dei martiri acquista, così, un senso alto e indiscutibile, e rappresenta un confortante segnale di speranza e un’indubitabile prova di fiducia di Bufalino nella generosa capacità di abnegazione del genere umano, e nell’incorruttibilità dei suoi più sublimi ideali.
57
Cfr. M. Panetta, ‘Diceria dell’untore’: omaggio alla tradizione delle letterature occidentali, in Le forme del romanzo italiano e le letterature occidentali dal Sette al Novecento, a cura di S. Costa e M. Venturini, tomo I, Pisa, Edizioni ETS 2010, pp. 777-786. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
DA «ITALIA MIA, BENCHÉ ’L PARLAR SIA INDARNO» A
«O PATRIA MIA, VEDO LE MURA E GLI ARCHI»:
PETRARCHISMO POLITICO E TRADIZIONE LIRICA
VALENTINA SALMASO «Con qual orror s’ascolta, / con qual orror si mira»: Ciro di Pers e il lamento patriottico nell’immaginario barocco
Fra i molti e autorevoli studi sul Seicento, a un grande classico come la Storia dell’età barocca in Italia di Croce non si può negare il merito di aver reso giustizia a un’epoca tradizionalmente bistrattata, e in anni recenti sul fronte storiografico Aurelio Musi1 ha richiamato alla memoria il contributo crociano come testimonianza del valore del senso critico e della pur viva coscienza storica del Seicento: Come la teoria della politica, così continuò, nel Seicento, a svolgersi la storiografia politica del Rinascimento, sotto l’assiduo stimolo di procurarsi chiara ed esatta notizia di quanto accadeva nel mondo, di quanto toccava in particolare le sorti del cattolicesimo e della chiesa, la potenza della monarchia spagnola e dell’Impero, la potenza avversaria francese, la minaccia ottomana e la stabilità dell’assetto italiano in relazione a queste varie potenze e alle loro lotte e vicende. E sebbene la maggior parte dell’Italia non conducesse allora politica propria, e gli stati italiani che ritenevano autonomia avessero quasi tutti piccolo peso nella politica europea, e il più ragguardevole, Venezia, scemasse sempre più di forze, non per questo l’Italia era diventata ancora, come poi divenne, «provinciale». […] L’Europa aveva bisogno di quegli uomini italiani che possedevano studi e conoscenze e versatilità, e sapevano vedere e intendere, e dire e scrivere quello che avevano visto e inteso. Moltissimi, e tra i più capaci, erano chiamati o andavano dappertutto, e la loro vita non si chiudeva nelle loro provincie e nei loro piccoli stati, e neppure tra i soli confini d’Italia, ma si svolgeva come vita europea. La storiografia angusta e provinciale e strettamente nazionale venne più tardi, cioè proprio quando (e il paradosso è solo apparente) l’Italia cominciò a risorgere.2
1
A. Musi, Forme della storiografia barocca, in I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del barocco, Atti del convegno di Lecce 23-26 ottobre 2000, Roma-Salerno 2002, pp. 457-477. 2 B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, Milano, Adelphi 1993, pp. 135-136. Da «Italia mia, benché ’l parlar sia indarno» a «O patria mia, vedo le mura e gli archi»
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In questo secolo infatti, si lavora per mettere a frutto l’eredità cinquecentesca, continuando l’impegno della storiografia e della trattatistica politica, ma anche dell’indagine scientifica e filosofica, mantenendo vigile la coscienza collettiva di fronte ai sanguinosi eventi bellici e ai rivolgimenti di potere che caratterizzano lo scenario storico, nell’ambizione di raggiungere una dimensione speculativa di respiro e portata sovranazionale. Se già Croce insisteva sul valore dello sforzo intellettuale di questo secolo, i cui aspetti di modernità hanno inciso profondamente sul pensiero moderno, efficace, puntuale e decisamente condivisibile è la sintesi che di tali posizioni e dei maggiori contributi critici sul Seicento italiano ha operato Simona Morando in occasione di un precedente congresso ADI, che ascriveva al binomio eloquente di «modernità» e «affetto» tale parabola artistica e letteraria. Se per modernità s’intende l’insieme delle acquisizioni della coscienza più ancora che della conoscenza, che sono frutto di una frattura, ma meglio – e più correttamente, per il nostro sistema assai conservativo – di una maturazione rispetto al passato e alla tradizione, e che porta elementi di novità per i tempi successivi, allora dobbiamo riconoscere che il Seicento pone al centro della sua estetica e della sua poetica temi che poi saranno fondamentali nel tempo moderno, inaugurandolo.3
Quest’intensa pratica di approfondimento critico, d’indagine delle dinamiche storiche e politiche dell’età contemporanea, trova poi un necessario contraltare nell’impegno civile della lirica barocca, oggetto di questo breve contributo che, in omaggio al tema del convegno, del barocco prende in considerazione il versante più dimesso e meno trionfalistico, quello classicista, o se si vuol dire «fruttuoso», più direttamente schierato per l’appunto in favore dell’impegno morale, politico e civile. La scelta di Ciro di Pers, inoltre, è rappresentativa della sua epoca storica e del côté letterario di cui si è cercato di dar ragione, di un intellettuale che supera la dimensione circoscritta e territoriale delle sue origini friulane in direzione di aperture «italiane» ed «europee»,4 con esiti tutt’altro che scontati e superficiali. Di tale temperie culturale l’opera del Pers è peraltro rappresentativa in termini e con modalità in qualche modo eccezionali, dato che è fra le poche a godere di una moderna edizione, quella curata da Michele Rak per Einaudi nel 1978.5 Della veste
3 S. Morando, Modernità e affetti nel Seicento letterario, in Moderno e modernità: la letteratura italiana, XII Congresso Nazionale dell’ADI, Roma 17-20 settembre 2008, Sapienza Università di Roma, Facoltà di Lettere e Filosofia | Facoltà di Scienze Umanistiche, a cura di C. Gurreri, A.M. Jacopino, A. Quondam, redazione elettronica di E. Bartoli, p. 1. A tale studio mi permetto di rinviare, per oggettivi limiti di spazio, anche per un’esaustiva panoramica dei maggiori contributi critici sul Seicento letterario. 4 Si vedano i contributi contenuti in Ciro di Pers, 1599-1999: atti del Convegno nazionale 4 secoli di Ciro di Pers 1999 Majano-San Daniele del Friuli, Sequals, Grafiche Tielle 2000. 5 C. di Pers, Poesie, a cura di M. Rak, Torino, Einaudi 1978.
XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
«Con qual orror s’ascolta, / con quale orror si mira»
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filologica di questa raccolta, ai fini di un aggiornamento dello stato dell’arte per una futura edizione critica, ha discusso un ventennio più tardi Lorenzo Carpané, che ha condotto un oneroso censimento dei testimoni manoscritti e a stampa delle liriche di Ciro.6 Se è condivisibile la scelta adottata da Rak di costituire il testo sulla base delle due principes, Firenze e Vicenza 1666 (Carpané le considera principes ex aequo per la difficoltà di stabilire la prima in ordine di tempo, ma soprattutto perché sono state costituite indipendentemente l’una dall’altra), nonché su Venezia 16897 (che con le prime due rappresenta l’origine delle vulgate seicentesche), precari, come vedremo, sono gli esiti testuali del lavoro di collazione. Per quanto riguarda la disposizione delle rime all’interno della raccolta, già Rak lamentava, data l’assenza di un corpus organico di componimenti, l’impossibilità di ricostruire la volontà del Pers, parco a pubblicare in vita, e ancor meno disposto a lasciare disposizioni testamentarie per una stampa post mortem. Per l’ordinamento quindi dei singoli componimenti Rak si è ispirato a un necessario metodo «empirico», che mescola criteri contenutistici con ragioni di ordine metrico e con l’individuazione di progressivi nuclei cronologici. Se non che, obiettava giustamente Carpané, nell’ottica secentesca l’aspetto dell’organizzazione e successione dei testi in individuate sezioni tematiche è forse più importante che quello della loro costituzione, e quindi gli esiti di tale ordinamento andrebbero parzialmente rivisti8. A proposito della sistemazione generale della raccolta, nell’impossibilità di procedere se non in termini empirici, lo stesso Carpané proponeva al futuro editore di scegliere la via dell’accomodamento alla consuetudine editoriale, e di allinearsi alla successione delle rime stabilita da Michele Rak, che andrebbe pertanto in buona sostanza accolta, salvo poi la necessità di apportare gli aggiustamenti del caso.9 Senza entrare in dettagli troppo puntuali sull’organizzazione della raccolta, più
6
L. Carpanè, La tradizione manoscritta e a stampa delle poesie di Ciro di Pers, Milano, Guerini studio 1997. 7 Cfr. rispettivamente: POESIE | DEL CAVALIER | FRA | CIRO DI PERS | AL SERENISS. | PRINCIPE LEOPOLO | DI TOSCANA. | [fregio] | IN FIRENZE| All’insegna della Stella. 1666.| Con licenza de’ Superiori; [doppia cornice] |POESIE| Del Cavalier Fra’|CIRO DI PERS| PUBLICATE | Al comando gloriosissimo| Dell’illustriss. & Eccellentiss. Sig.| GIACOMO VITTURI | Podestà di Vicenza […] | In Vicenza. 1666 | Appresso Giacomo Amadio | CON LICENZA E PRIVILEGIO; infine: POESIE | DEL CAVALIER | FRA’ CIRO DI PERS | DEDICATE ALLA | SACRA CESAREA MAESTÀ | DI LEOPOLDO |IMPERATORE| AUGUSTO PIO PANNONICO | [fregio] | IN VENEZIA, Per Andrea Poletti, all’insegna dell’Italia. | MDCLXXXIX |CON LICENZA DE’ SUPERIORI. 8 L. Carpanè, La tradizione manoscritta… cit., p. 189. 9 Nonostante gli evidenti limiti di tale operazione editoriale, attenendomi alle indicazioni metodologiche di Carpanè tutte le citazioni di Ciro di Pers che seguono sono tratte dall’ediz. Rak. Da «Italia mia, benché ’l parlar sia indarno» a «O patria mia, vedo le mura e gli archi»
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fertile di spunti mi sembra il discorso sulla costituzione del testo delle liriche di Pers qui prese in esame: in omaggio all’anniversario nazionale, il raggio d’interesse del presente intervento verte su due componimenti d’ispirazione dichiaratamente patriottica, l’Italia avvilita e Le calamità d’Italia (o Italia calamitosa); anche a costo di sacrificare la più celebre anima «marinista»10 del poeta friulano, che gli ha conquistato un posto d’onore, fra gli altri, nelle celebri antologie di Getto, Croce e Ferrero.11 Già segnalati da tempo in sede critica i limiti dell’edizione einaudiana, anche nel caso dei testi qui presi in esame va detto che un po’ scarno, e limitato per la verità a sommarie indicazioni, che non vanno molto al di là del nozionismo enciclopedico, si presenta purtroppo il commento, non privo del resto di fraintendimenti. È il caso ad esempio di una delle prime note all’Italia avvilita, che ai vv. 17 sgg. individua nei «due mal atti a sopportarsi pari / e men disposti a rimaner secondi» rispettivamente «Cesare Ottaviano e Marco Antonio vincitori di Bruto e Cassio nella battaglia di Filippi in Macedonia»,12 sulla base del fatto che gli «Emazi campi» del v. 22 indicherebbero la regione macedone dove fu combattuta la battaglia di Filippi del 42 d.C. Ma secondo tale lettura il riferimento a Catone, suicidatosi già nel 46, rappresenterebbe un evidente anacronismo, che si supera invece attraverso il recupero per questi versi del modello dell’incipit nonché di buona parte del I libro del Bellum civile di Lucano:13 L’Italia avvilita, vv. 1-28 O di possente impero inclita sede, Italia, un tempo e glorïosa e forte, qual con dure vicende abietta sorte servil catena or ti consente al piede? Per opra già del tuo valor guerriero cadde lacera al suol l’alta Cartago, e con l’arene tributarie il Tago
5
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Cfr. G. Baldassarri, «Acutezza» e «ingegno»: teoria e pratica del gusto barocco, in Storia della cultura veneta, 4/I, Vicenza, Neri Pozza 1983, pp. 223-247, e specie 238-244. 11 Cfr. rispettivamente Lirici marinisti, a cura di B. Croce, Bari, Laterza 1910 e 1968; G.B. Marino, Opere scelte di G.B. Marino e dei marinisti, a cura di G. Getto, Torino, Unione Tipografico-Editrice 1954; Marino e Marinisti, a cura di G.G. Ferrero, Milano-Napoli 1954. 12 Cfr. C. di Pers, Poesie cit., p. 432. 13 Per evidenti ragioni di economia ho riportato soltanto alcuni sintomatici passaggi dell’Italia avvilita, con accanto i passi di Lucano nell’ordine non progressivo con cui vengono riutilizzati da Ciro: mie ovviamente le sottolineature per evidenziare i punti di maggior vicinanza fra i due testi. Cfr. M.A. Lucano, Farsaglia o Guerra civile, introduzione e traduzione di L. Canali, premessa al testo e note di F. Brena, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli 1997. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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i margini indorò del Tebro altero. Portò l’Eufrate ad Anfitrite in seno di pianto prigionier torbide l’onde, e mormorò tra soggiogate sponde de’ latini trïonfi il vinto Reno. E s’abbattuto ogn’altro incontro ostile ai propri danni i tuoi furori armasti, fûro i tuoi vizi e generosi e vasti e la tua sceleraggine non vile. Ché duo mal atti a sopportarsi pari e men disposti a rimaner secondi, l’empia discordia de’ tartarei fondi trassero a funestar le terre e i mari. Fervidi fûr d’ambizïoso sdegno gli emazi campi, del cognato sangue rigârsi l’aste, e della patria esangue su le ruine fabbricossi il regno. Se ’l vinto o ’l vincitor con più ragione degli arnesi guerrier vestisse il pondo, fu tra doppia sentenza ambiguo il mondo, giudici quinci i dèi, quindi Catone.
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Phars. I, 125 sgg. Nec quemquam iam ferre potest Caesarve priorem Pompeiusve parem. Quis iustius induit arma ? scire nefas: magno se iudice quisque tuetur; victrix causa deis placuit, sed victa Catoni.
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Phars. I, 1 sgg. Bella per Emathios plus quam civilia campos, iusque datum sceleri canimus, populumque potentem in sua victrici conversum viscera dextra, cognatasque acies, et rupto foedere regni certatum totis concussi viribus orbis in commune nefas, infestisque obvia signis signa, pares aquilas et pila minantia pilis.
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Phars. I, 158 sgg. Hae ducibus causae; suberant sed publica belli semina, quae populos semper mersere potentes. Namque ut opes nimias mundo fortuna subacto intulit, et rebus mores cessere secundis praedaque et hostiles luxum suasere rapinae, non auro tectisve modus, mensasque priores
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aspernata fames; cultus gestare decoros vix nuribus rapuere mares; fecunda virorum paupertas fugitur, totoque accersitur orbe quo gens quaeque perit: tunc longos iungere fines agrorum, et quondam duro sulcata Camilli vomere et antiquos Curiorum passa ligones longa sub ignotis extendere rura colonis.
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La prima e più evidente conseguenza è che i due protagonisti non saranno Ottaviano e Antonio, bensì naturalmente Cesare e Pompeo, così da giustificare anche il richiamo all’Uticense come spettatore del conflitto civile. Ma al di là della correzione alla nota di Rak, per la nostra incursione nel panorama dei temi civili del classicismo barocco più fruttuoso mi sembra indagare i termini e le modalità del recupero da parte del Pers dell’auctoritas lucanea, la quale infatti agisce non solo in funzione di un riecheggiamento della protasi del poema, ma torna ai vv. 17-18 e 25-18 come riscrittura esplicita, e, non da ultimo, costituisce l’antefatto ideologico, se così si può dire, dell’argomentazione, nella topica polemica contro la corruzione dei costumi italiani che ha reso l’Italia «effeminata e molle». Lucano infatti, dopo aver presentato i due esponenti delle fazioni contendenti degli optimates e dei populares, ai vv. 158-159 introduce l’analisi del mutato contesto sociale, e individua nell’eccesso di ricchezza la causa del progressivo declino della società romana. Dopo le fortunate campagne militari, che portarono Roma a sottomettere il mondo, venne meno la «fecunda virorum paupertas» e furono introdotti nell’Urbe quei vizi che portarono alla corruzione del mos maiorum; da cui il richiamo nostalgico agli esempi illustri della famiglia dei Curii. A giudicare dalla direzione che prende il testo del Pers ai vv. 33 sgg., «Quindi fra gli ozi d’una ingrata pace / comprata a prezzo d’un umil servaggio, / obliato il valor, spento il coraggio», sembra che l’abbrivo possa essere stato influenzato proprio dal testo di Lucano: ma se nella società romana il vizio aveva condotto alla corruzione e alla guerra civile, in quella italiana del XVII secolo il lassismo dei costumi derivanti da una pace fittizia è stato all’origine di una degradante inerzia, per cui (vv. 32-33) «Gli olivi, ond’altri il crin cerchiar ti volle, / furon legami e ti parean ghirlande». Si susseguono nel Pers immagini di virtù antica accostate per contrasto al moderno scenario di degradazione, e torna fra gli altri al v. 65 l’esempio di Manio Curio Dentato («Di Curio e di Fabrizio oggi s’onora»), la cui illustre famiglia viene richiamata alla memoria anche da Lucano al v. 169. Continua poi il discorso di Ciro con la polemica consueta contro l’«umil servaggio» cui sono costretti, loro malgrado, i potentati della nostra penisola, e accesi sono i toni contro un’altra avvilente prassi tipicamente italiana, quella delle armi mercenarie. Si tratta di due temi topici della nostra letteratura civile e patriottica, ed evidenti sono in questo senso i riecheggiamenti di Dante e Petrarca, nonché della tradizione petrarchista di cui si nutre l’opera lirica di Ciro. A partire dagli antefatti
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evidenti, in primis la canzone Italia mia, di cui si riprende la topica ipotiposi iniziale, che richiama con le catene da cui è avvinta l’Italia le «piaghe mortali» del «bel corpo» petrarcheschi,14 più vicino è il parallelo che si può istituire coi coevi esponenti del classicismo barocco, da Fulvio Testi all’amico Carlo de’ Dottori, con i quali comune è non solo il tema della rivendicazione dell’aurea metriotes, ma anche il lamento per le sorti d’Italia, sempre descritta come avvilita e delusa, in un retroterra letterario e culturale che giunge sino alle canzoni civili leopardiane. Se per Testi si vedrà nel seguito un punto di contatto evidente con l’Italia calamitosa, per Dottori basti ricordare La cometa, dedicata all’amico «Signor Cavaliere Francesco Ciro di Pers», il quale non manca a sua volta di far seguire la sua Risposta alla canzone del signor Carlo de’ Dottori.15 Nell’ode del Dottori si ritrovano fra gli altri i canonici riferimenti petrarcheschi e tassiani (nel nome di quella langue di tipo discorsivo-recitativo che è matrice comune del linguaggio poetico secentesco), ma anche alla Farsaglia, di cui si rievoca l’incontro fra Cesare e Amiclate,16 nello spirito di comune deplorazione delle guerre civili e dell’invocazione di un’agognata pace. Per finire questa cursoria lettura dell’Italia avvilita, va notato che proprio la tessera «umil servaggio» del v. 34 innesca un’irresistibile suggestione in merito a una delle possibili, ma meno scoperte fonti d’ispirazione del poeta, un poemetto di grande fortuna in età cinquecentesca, molto apprezzato fra gli altri anche dal Tasso, ovvero La caccia di Erasmo di Valvasone. Se l’obbligato confronto col poeta sorrentino potrebbe aver rappresentato un ideale trait d’union col poemetto valvasoniano (ma il condizionale è d’obbligo), non è da escludere che la conoscenza di quest’opera possa essere stata condizionata in certa misura anche dal legame di parentela fra il Pers e il Valvasone per la linea materna dei Colloredo. Pur in assenza di spie testuali di evidente rilievo, sembra di poter riscontrare dei punti di contatto col IV canto del poema valvasoniano in rapporto al comune contesto di deplorazione delle tristi sorti italiane, nonché nei termini della polemica contro il lusso (condotti nell’ambito di quella che potremmo definire un’institutio venatoris in Valvasone) e contro le arti effimere, pittura e scultura, soggette all’erosione dei secoli, contro le quali si rivendica la sobria eternità della scrittura:
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Cfr. F. Petrarca, Canzoniere, ed. commentata a cura di M. Santagata; canz. n. 128, Italia mia, benché ’l parlar sia indarno, vv. 1-3. 15 Cfr. rispettivamente LE ODE | Del Signor | CO: CARLO| Di DOTTORI| In questa quarta impressione da lui | rivedute, scelte, accresciute, | e divise in | EROICHE | FVNEBRI | AMOROSE | MORALI, e | SACRE. | In Padova, per gli Eredi di Paolo Frambotto. | Con lic. de’ Sup. MDCLXIV.|, pp. 440-445, e C. di Pers, Poesie cit., n. 128. 16 Cfr. M.A. Lucano, Farsaglia cit., V 515 ss. Da «Italia mia, benché ’l parlar sia indarno» a «O patria mia, vedo le mura e gli archi»
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IV 19 Italia mia, ned in te molto raggio rimiro più del tuo valor primiero, volta a far a stranieri umil servaggio già nobil donna di cotanto impero: in tanto passa il tempo a nostro oltraggio, a nostro danno: oh s’un viril pensiero omai si desti in alcun petto regio, che degli avoli nostri invidii il pregio.17
Senza evidentemente dimenticare il fatto che la polemica contro il lusso, nel nome di una moralità e di un’etica della moderazione, del recupero del valore delle semplici occupazioni quotidiane, rappresenta un elemento topico del classicismo barocco, che transita con esiti parodici fino a Parini. Forte è la conclusione dell’Italia avvilita, con l’invito a scacciare il torpore che ha ottenebrato le menti, i cuori e le membra degli italiani, i quali dovrebbero imbracciare le armi per rendere nuovamente merito al valore italiano: «Tali sono, ed è vero, oggi quei сh’hanno /fra noi piú pregio, ond’a ragion mi sdegno. / Deh, turbi omai questo vil ozio indegno /straniero Marte, e sia beato il danno».18 L’Italia calamitosa (altrimenti intitolata Le calamità d’Italia nell’edizione crociana dei lirici barocchi),19 si apre su uno scenario apocalittico, con la descrizione enfatica dell’orrore della fame, della guerra e della peste, le tre rovine dell’Italia personificate dalle tre furie: Veggo da’ fonti uscite del torbido Acheronte errar crinite d’angui per l’italico ciel le Furie ultrici. L’una, pallida, asciutta, l’ossa a pena ricopre con pelle adusta, e le canine fauci con radici satolla, ed a se stessa i morsi non perdona, e falce orrida stringe con cui disperde l’immatura mèsse.
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Cfr. LA CACCIA | POEMA | DI | ERASMO DI VALVASONE.| MILANO | Dalla Società Tipografica de’ Classici Italiani | Contrada di Santa Margherita, N. 1118. | ANNO 1808.| 18 Cfr. C. di Pers, Poesie cit., n. 127, vv. 117-120. 19 Cfr. la n. 11. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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L’altra, tutta stillante di caldo sangue, il nudo ferro impugna, e lo sdegno ha negli occhi, gli oltraggi nella lingua, nella fronte il disprezzo, e in man la morte. La terza atro veneno vomita da la gola, ch’ovunque passa impallidisce il suolo e d’orrido squallor l’aere ingombra; e di vive ceraste scuote una sferza, ai cui tremendi fischi sbigottisce l’ardire, ed ella intanto con orribil trïonfo sui monti de’ cadaveri passeggia. Perché il timor de’ numi impari ogni mortale, questo drapel feroce quasi in un’ampia scena negl’italici campi fa di se stesso portentosa mostra.
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Questi celebri versi, che condensano nell’ultimo passaggio l’intento scenografico del quadro d’insieme e sono quanto mai rappresentativi di tanta retorica nazionale seicentesca, suggeriscono un confronto ravvicinato con le prime quartine dedicate da Fulvio Testi al cardinal Bichi Per la pace d’Italia, dov’erano altresì presenti il modulo ricorsivo delle interrogative retoriche di apertura20 e il richiamo alle furie devastatrici: E qual da l’infernal atre contrade rabbiosa erinni ad agitarvi è sorta, principi? e qual di cielo ira vi porta nel sen materno a insanguinar le spade? Non è questa l’Italia? E non son queste le sue da i vostri ferri aperte vene? Apprestate i coturni, ausonie scene, multiplicato ecco s’infuria Oreste. Ah, ch’il Tevere, il Po purtroppo orrendi portaro a l’Adria ed al Tirren tributi, e fur d’indegna fiamma arder veduti in non barbaro ciel barbari incendi.21
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20 Cfr. C. di Pers, Poesie cit., n. 196, vv. 1-3: «Chi mi toglie a me stesso? / qual novello furor m’agita il petto? / chi mi rapisce?». 21 DELLE POESIE | LIRICHE | DEL CO: D. FULVIO | TESTI, | Cavaliere
Da «Italia mia, benché ’l parlar sia indarno» a «O patria mia, vedo le mura e gli archi»
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La menzione invece, in questo senso già petrarchesca,22 di fiumi come spettatori di scenari di guerra, segue una modalità già vista nell’Italia avvilita.23 Conseguenza di questo drammatico quadro prospettato dal Pers l’amara considerazione dei versi «con qual orror s’ascolta / con qual orror si mira»:24 rappresentativi del linguaggio poetico di tipo discorsivo-recitativo secentesco, ma anche, purtroppo, degli oggettivi limiti anche filologici del testo approntato da Michele Rak, che legge «con qual onor s’ascolta», perpetuando probabilmente un errore piuttosto evidente delle stampe, che Croce viceversa aveva giustamente emendato25. È introdotto a questo punto del testo il tema delle guerre di religione, dramma già cinquecentesco e oggetto privilegiato d’indagine da parte della storiografia coeva: «da furor inuman barbara gente / spinta al sangue, a le prede, / mischiar stragi e ruine, / e per lievi cagioni / l’armi dovute a vendicar gli oltraggi / del fèro usurpator dell’Orïente / volger contro a se stessi / quei che del vero Dio vantan la legge!».26 Del fatto che la lirica ambisca a dialogare col versante della storiografia e della trattatistica politica è esempio estremamente eloquente il passaggio: «e quella poco giusta arte d’impero, / che voi chiamar solete / ragion di Stato e gelosia di regno, / sono, a chi il diritto mira, / in gran parte cagion di tanti mali»;27 laddove l’invocazione chiama in causa direttamente la responsabilità dei maggiori principi italiani ed europei, i «numi terreni, / […] voi che de l’Europa il fren reggete».28 Nell’ordine: Ferdinando II di Germania, Luigi XIII di Francia, Filippo IV di Spagna, il «veneto Leon», ovvero la repubblica della Serenissima, «il regnator dell’Alpi»29 duca di Savoia Carlo Emanuele I, e infine il papa Urbano VIII Barberini. Il riferimento politico puntuale30 è alla guerra per la successione al ducato di Mantova, che vedeva contrapposte la fazione filo-francese, per la quale Carlo di Nevers rivendicava i propri diritti ereditari, e quella filo-imperiale, che appoggiava
dell’Ordine di S. Iago, e | Commendatore dell’Inoiosa, | PARTE SECONDA.| Dedicata all’Altezza Srenissima | DEL SIG. DVCA DI MODANA.| IN MODANA, Per Giulian Cassiani. 1645 | Con Licenza de’ Superiori.| 22 Cfr. F. Petrarca, Canzoniere cit., canzone n. 128, vv. 5-6. 23 Cfr. l. c., vv. 7-8. 24 Cfr. C. di Pers, Poesie cit., n. 196, vv. 89-90. 25 Un caso similare ricorre ivi, v. 269: «altro non chiede? E se dimostra in questo / forse minor la riverenza in parte / che a te si deve, è tanta / però la colpa»: «e se», corretto in Croce, rimane «e si» nell’edizione einaudiana, con gli evidenti problemi che ne conseguono di tenuta sintattica del periodo. 26 Ivi, vv. 91 ss. 27 Ivi, 245-249. 28 Ivi, vv. 239 ss. 29 Ivi, rispettivamente ai v. 366 e 399. 30 Ivi, vv. 263 ss. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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viceversa le rivendicazioni del duca di Savoia. Ma nonostante la prospettiva «imperiale» del Pers, proprio l’imperatore non va esente dalla colpa di aver mandato «cento barbare squadre / nei campi ausoni a comperar la morte / a prezzo di ben mille / stragi, ruine, violenze, furti / rapine, incendi, sacrilegi e stupri»31. È l’episodio celebre che verrà poi narrato anche da Manzoni, e che vide fra il 1629-30 Mantova assediata e messa a ferro e fuoco dalle due fazioni contendenti, finché alla fine la città, preda della fame e della peste, cedette, e venne brutalmente saccheggiata dagli imperiali. Come di presentimento manzoniano è la lunga e giustamente celebre descrizione dell’azione devastante della peste,32 già di memoria boccacciana, per la quale molto indicate sembrano le pagine di Getto sul barocco letterario in Italia, che rientrano nell’orizzonte delineato dalla citata rilettura di Simona Morando: non si deve già pensare che questa poesia sia così spoglia di umani affetti, come si è per tanto tempo proclamato e creduto. Senza dubbio l’esperienza barocca si svolge prevalentemente al di fuori di un’esperienza di comuni affetti. In essa è fortissimo l’intervento intellettuale, l’azione degli schemi e dei modi di una determinata poetica: sicché si sarebbe tentati di definirla come poesia di poetica e di distinguerla dalla poesia di realtà patetica (ed è questa, in certo senso, un po’ la condizione di tutta la poesia precedente il periodo romantico, quando appunto sorgerà la poesia del sentimento). Ma questo non esclude naturalmente l’affiorare sempre possibile d’un affetto, e la presenza episodica di una cordiale umanità.33
Un’ultima osservazione relativa alla particolare metrica di questo testo: se più consono alle modalità del classicismo barocco è l’utilizzo della quartina dell’Italia avvilita, sui generis risulta invece la scelta del poeta espressa in limine nell’Italia calamitosa: «d’ogni legge sciolti / van con libero piede / a palesar d’un cor libero i sensi»,34 che sembra rimandare piuttosto a forme tipiche del teatro cinquecentesco, sulla via dello sperimentalismo metrico già segnata dal Chiabrera.35
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Ivi, vv. 272 ss. Ivi, vv. 156 ss. 33 G. Getto, Il barocco letterario in Italia, premessa di M. Guglielminetti, Milano, Mondadori 2000, p. 73; cfr. la n. 3. 34 Cfr. C. di Pers, Poesie cit., n. 196, vv. 13-16. 35 Cfr. la recente edizione G. Chiabrera, Opera lirica, a cura di A. Donnini, Genova, RES 2005. 32
Da «Italia mia, benché ’l parlar sia indarno» a «O patria mia, vedo le mura e gli archi»
LA RIVENDICAZIONE DELL’IDENTITÀ NAZIONALE: BIOGRAFIE E PANEGIRICI FRA SETTE E
OTTOCENTO
ANNA MARIA SALVADÈ Il Parnaso degli uomini illustri: gli ‘Elogj italiani’ di Andrea Rubbi
Più noto per la fortunata, imponente impresa editoriale del Parnaso italiano, la più ampia raccolta di testi poetici apparsa fino ad allora, pubblicata tra il 1784 e il 1791,1 il poligrafo veneziano Andrea Rubbi è altresì da ricordare come curatore della collezione degli Elogj italiani, per i torchi veneziani di Pietro Marcuzzi. I dodici volumi non recano il millesimo di stampa, ma l’approvazione dei Riformatori dello Studio di Padova è dell’agosto 1782; l’uscita degli ultimi va assegnata al 1783, come risulta da vari elementi (l’annuncio della morte di Agostino Paradisi estensore, nella collana, dell’elogio di Raimondo Montecuccoli, avvenuta nel febbraio di quell’anno; una lettera di Ippolito Pindemonte al Rubbi del 13 maggio 1783, nell’ottavo volume; una risposta del Rubbi allo Zatta, nel decimo, datata «Venezia 1 giugno 1783»).2 Nell’arco di un anno (dunque con l’uscita, in media, di un volume al mese) l’opera poté dirsi conclusa, nonostante l’ex gesuita non beneficiasse dell’appoggio di una solida struttura editoriale; fino a quel momento, l’unica iniziativa di rilievo dello «stampatore povero» Marcuzzi, che tra il 1789 e il 1792 collaborerà ancora col Rubbi per i quattro volumi di un Giornale con le «poesie inedite d’Italiani viventi», era stata la «Gazzetta Veneta» di Gasparo Gozzi, uscita bisettimanalmente dal febbraio 1760 alla fine di gennaio 1761.3 Nella prefazione al secondo
1 Parnaso italiano, ovvero Raccolta de’ Poeti classici italiani d’ogni genere d’ogni età d’ogni metro e del più scelto tra gli ottimi, diligentemente riveduti sugli originali più accreditati, e adornati di figure in rame, Venezia, Zatta 1784-1791, 56 voll. Cfr. W. Spaggiari, «Ebbi sempre nel cuore letizia e poesia»: Andrea Rubbi e il ‘Parnaso italiano’, in Dai ‘Classici Italiani’ agli ‘Scrittori d’Italia’, a cura di P. Bortesaghi e G. Frasso, con la collaborazione di S. Baragetti e V. Brigatti, Roma, Bulzoni 2012, pp. 27-43. 2 Elogj italiani, vol. V, p. 51; vol. VIII, pp. VII-VIII; vol. X, pp. III-X. 3 Pietro Marcuzzi faceva circolare i titoli del proprio catalogo su «miseri foglietti con un
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volume della raccolta il Rubbi dichiara infatti di aver coinvolto nell’impresa un pressoché ignoto editore, perché l’opera, anche in virtù di una veste editoriale dimessa, possa circolare «per le mani di molti ad utilità universale», convinto che le edizioni eleganti e costose non favoriscano né il pronto smercio dei libri, né vadano incontro al desiderio degli studiosi, «la maggior parte de’ quali non ha né feudi né signorie, e moltissimi né denari né campi».4 La presentazione di basso profilo offre il destro per una delle consuete tirate polemiche sulle mode francesi che erano andate monopolizzando il mercato librario anche in Italia: La mia raccolta in piccoli volumetti scema la fatica e la spesa, allontana gli animi dal temer fraudi librarie, o cabale tipografiche, crede più facilmente ch’io travagli per piacere che per guadagno. L’edizioni in quarto ed in folio sarebbono state pesanti a un’opera di virtuoso trattenimento. […] Le librerie non han che libri di Francia, e la più parte romanzieri, falsi politici, e pieni di materialismo e di irreligione. E voi forse, miei cari amici, conoscerete più d’uno, che pieno di furor gallico, non legge Metastasio se non in franzese. Misera Italia! L’impostura dell’edizioni, e la pompa delle legature ha in gran parte guasto il buon senso di molti italiani.5
La collezione raccolse oltre seicento sottoscrittori, secondo il Rubbi, che ne pubblica una prima lista alla fine dell’ottavo volume; qualche altro nome è registrato su foglietti allegati ai successivi. Più di un terzo sono gli associati di area veneta (quasi centocinquanta nella sola Venezia), mentre appena tre quelli di Milano (contro i ventuno di Mantova). Fra i nomi più noti, Melchiorre Cesarotti, Clemente Sibiliato, Ippolito Pindemonte, Appiano Buonafede, Alessandro Pepoli, Clementino Vannetti, Paolina Grismondi, Alessandro Verri con la marchesa Margherita Boccapaduli. A questi si aggiungono tre abbonati a Vienna e una dozzina a Costantinopoli, da Agostino Garzoni, «bailo per la Serenissima Repubblica di Venezia alla porta Ottomana», a Jacopo Bulgakov, «inviato straordinario» di Caterina II di Russia. I volumi si aprono con una lettera «A’ suoi amici», cui il Rubbi affida i propri giudizi letterari, spesso diretti contro il modello proposto dall’Essai sur les éloges (1772) di Antoine Thomas, che privilegiava lo stile oratorio del discorso accademico, sulla scorta di Plutarco, Tacito e Plinio il Giovane. Ogni elogio, che ha una numerazione autonoma delle pagine, è a sua volta introdotto da una dedica del Rubbi a una «colta» e «virtuosa» dama, e seguito dalle annotazioni del panegirista, spesso integrate da quelle del curatore; in appendice, un registro, suddiviso per
elenco di una quarantina di libri da risma, ovvero di quelle operette popolari abitualmente vendute a peso», M. Infelise, L’editoria veneziana nel ’700, Milano, Franco Angeli 1989, p. 240. 4 Elogj italiani, vol. II, pp. XI e XII. 5 Ivi, pp. XII-XIII. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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classi, della collezione di medaglie italiane del numismatico Angelo Bottari di Chioggia, essendo il Rubbi cultore di illustrazioni calcografiche celebrative (nel ’91 pubblicherà i ritratti di Italiani illustri incisi all’acquaforte da Giacomo Zatta).6 Nel palesare i propri intenti («Qual vantaggio ad un libro, se si presenti al pubblico sotto gli auspicj di persone amabili per natura, ma più amabili per coltura d’ingegno! Eccovi adunque nelle mie dediche una novità che piace e mi assolve»),7 il Rubbi istituisce, preparando il terreno a una raccolta di discorsi in lode di illustri italiane (poi non realizzata), un legame galante tra il personaggio lodato e la nobildonna (per effettivo «diritto di famiglia» o per sintonia di virtù), come bene risulta dalla dedica dell’elogio di Francesco Algarotti alla bassanese Laura Negri Miazzi Roberti: analoga proporzione […] in voi si scorge col genio dell’Algarotti. Il contegno vostro, o Signora, condito d’una piacevole venustà, la leggiadria del portamento non meno che dell’ingegno, la versatilità nell’idee diverse, ma sempre equabili e giuste, vi danno in certa guisa un diritto a legger la prima l’elogio suo. Tra i piaceri di lui io conto quello della musica. La dea dell’armonia gli fu più cara ancor delle muse; né mai l’abbandonò neppur ne gli estremi momenti. E questa, o Signora, pur forma le vostre prime delizie, e vi rende più amabile ai colti spiriti, che vi fanno corona in cotesta città, e in Padova di cui pur siete un ornamento.8
Come è noto, polemiche e dibattiti su forme e tipologie del discorso epidittico
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Cfr. A. Gorini, Angelo Bottari numismatico, in Stefano Andrea Renier naturalista e riformatore (Chioggia 1759-Padova 1830), a cura di C. Gibin e P. Tiozzo, Chioggia, Centro grafico editoriale 1981, pp. 129-134, e M. Doria, Il collezionismo a Chioggia nel Settecento: la figura di Angelo Bottari, in «Chioggia. Rivista di studi e ricerche», VII (1991), pp. 155-175. Il registro degli uomini illustri effigiati nelle medaglie «meriterebbe una bella edizione illustrata col titolo di Italia metallica», e potrebbe servire da «stimolo a chi avesse brama di scegliere tra tanti qualche soggetto d’elogio» (Elogj italiani, vol. I, p. XIII); nei progetti del Rubbi, costantemente intenzionato ad occupare spazi nel panorama editoriale con imprese ambiziose, l’opera esemplare cui fare riferimento sarà con ogni probabilità il Museum Mazzuchellianum, monumentale catalogo della raccolta numismatica del conte bresciano Giammaria Mazzuchelli, che aduna un repertorio iconografico di scienziati e letterati illustri di ogni tempo e provenienza (dai personaggi della Bibbia fino agli autori viventi come Voltaire), uscito in due volumi in folio tra il 1761 e il 1763 a Venezia presso lo Zatta. 7 Elogj italiani, vol. I, pp. XI-XII. 8 Ivi, vol. V, p. 4. Sulla progettata silloge di elogi femminili si vedano la prefazione all’ultimo tomo (p. III) e la dedicatoria alla contessa Leopoldina Starhemberg Ferri di Padova: «Il nome di alcune illustri donne italiane viventi onoreranno tutti gli elogj, ch’io preparo nella mia serie agl’illustri uomini italiani già trapassati. Questo può intanto supplire a quel desiderio, ch’io nutro di dar pure ad esse un luogo nella seconda parte di mia raccolta, dopo aver soddisfatto all’incarico addossatomi verso degli uomini», vol. I, p. 3. La rivendicazione dell’identità nazionale: biografie e panegirici fra Sette e Ottocento
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avevano attraversato la cultura italiana e d’oltralpe già dalla prima metà del secolo; nella tradizione degli elogi, utilizzati anche come strumento di lotta politica, si era distinta in particolar modo la Compagnia di Gesù.9 Ora, con il Rubbi, il progetto encomiastico si carica di nuovi significati, collocandosi nel segno di un patriottismo letterario italiano, nella strenua volontà di difesa della gloria nazionale dalla concorrenza straniera.10 I fondamenti del disegno vengono precisati nella prosa sentenziosa e insieme polemica della prefazione al volume inaugurale, dove sono riunite le istanze anti-francesi, sulle quali il Rubbi ritornerà alla fine del 1785, difendendo le ragioni della letteratura italiana nei Dialoghi con Stefano Arteaga, uno dei confratelli espulsi dalla Spagna:11 si tratta di «gareggiare» con gli elogi d’oltralpe, esempio di un’eloquenza «colta, ma non sincera», che «alletta, ma non persuade», che «sorprende, ma non commove». Con uno stile che vuole rispondere ai canoni di quello che il Rubbi chiama «buon gusto moderno», bisogna proporre elogi «ragionati», distanti tanto dal modello rigidamente cronologico delle Vite degli Arcadi del Crescimbeni e dalla dissertazione erudita che altri (Verri, Griselini, Galanti) andavano offrendo sull’esempio dell’elogio scientifico istituzionalizzato da d’Alembert nell’Encyclopédie, quanto dal tono ingegnoso del Thomas, intessuto di apostrofi, interrogazioni, prosopopee, ipotiposi. Ideale, invece, l’eloquenza «filosofica e morale» dell’elogio accademico, capace di penetrare «nello spirito e nelle azioni dell’uomo illustre».12 Andando oltre l’enunciazione di poetica, il Rubbi
9 Basti pensare alla disputa sul tema dell’elogio funebre che aveva visto la Compagnia di Gesù contrastare la difesa dell’assolutismo monarchico di Carlo Emanuele III da parte dei docenti dello Studio di Torino (cfr. A. Trampus, Tra ex gesuiti e cultura dei lumi: Vannetti, Andrea Rubbi e l’abate Roberti, «Atti dell’Accademia roveretana degli Agiati», ser. 7, vol. 8, 248 (1998), fasc. 1, pp. 248-267, a pp. 251-252). 10 Cfr. B. Capaci, Il giudice e l’oratore. Trasformazione e fortuna del genere epidittico nel Settecento, Bologna, il Mulino 2000, pp. 80-87; F. Arato, La storiografia letteraria nel Settecento italiano, Pisa, ETS 2002, pp. 252-254; F. Venturi, Patriottismo locale, veneziano, italiano: Andrea Rubbi, in Settecento riformatore. V. L’Italia dei lumi. Tomo secondo. La Repubblica di Venezia (1761-1797), Torino, Einaudi 1990, pp. 264-278. 11 Dialoghi tra il sig. Stefano Arteaga e Andrea Rubbi in difesa della letteratura italiana, Venezia, Zatta 1786. L’anno successivo, sempre presso lo Zatta (che con gli ex gesuiti aveva mantenuto un rapporto privilegiato, essendo stato attivo sostenitore dell’ordine negli anni Sessanta, con una fitta produzione antigiansenista), seguì un pamphlet in tutto analogo: Dialoghi tra il signor G. Andrés e A. Rubbi in difesa della letteratura italiana. Sui fuoriusciti spagnoli e sulle polemiche intorno al primato culturale, si veda N. Guasti, L’esilio italiano dei gesuiti spagnoli. Identità, controllo sociale e pratiche culturali (1767-1798), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2006, pp. 396-420. 12 Elogj italiani, vol. I, pp. IV-VIII; di fatto però il Rubbi riprende le tipologie individuate da d’Alembert, che distingueva tra «éloges historiques» e «éloges d’oratoires», questi ultimi da preferirsi in quanto permettono all’autore di elaborare «réflections philosophiques» e di cogliere così «les talens, l’esprit, […] les qualités du coeur» (cfr. la voce Éloge, in Encyclopédie,
XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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mostra di apprezzare la qualità di uno stile colto, ma incline alla digressione piacevole, in grado di intrattenere il lettore alla maniera del Fontenelle, fra la divulgazione pacata e l’apologia della cultura nazionale, fra ars retorica e scienza illuministica. Appoggiandosi al gusto comune e al consenso del pubblico, il curatore dichiara il proprio criterio di selezione: una volta esclusi i viventi, i soggetti degni di elogio saranno individuati tra coloro che godano di una «certa celebrità generale, che si stenda più oltre della lor patria o del lor territorio», e che abbiano pubblicato almeno un’opera con «approvazione comune de’ dotti d’Italia», nel tentativo di superare il limite municipale di certa tradizione encomiastica.13 Alle censure del metodo di Antoine Thomas si sommano quelle rivolte all’enciclopedista Alexandre Deleyre, uno dei tanti polemisti stranieri che, attivi allora in Italia, non perdevano occasione, al pari dei gesuiti fuoriusciti dalla Spagna, di sottolineare l’arretratezza culturale del paese che li ospitava. A costoro il Rubbi oppone un lungo elenco dei «principali letterati» italiani del secolo, ottanta defunti e quarantaquattro viventi.14 Ma è poi nei confronti della stessa Encyclopédie, «libro» senza dubbio «utilissimo», però non certo «bene eseguito» per la «mole informe e bizzarra» di notizie, che il Rubbi manifesta la propria gallofobia. Inaccettabili sono, a suo avviso, i capitoli di storia e geografia; inutili gli altri; addirittura «empj» e dannosi quelli di religione; unico settore attendibile, quello scientifico. Tutto il resto avrebbe dovuto essere diretto non da Diderot, ma dal teologo Nicolas-Sylvestre Bergier, nemico dichiarato di deisti e philosophes, in seguito curatore della sezione teologica dell’Encyclopédie méthodique (1788-1790, recata in italiano da Giovanni Desideri tra il 1794 e il 1803).15 Fra molti riferimenti ad altre iniziative (il Parnaso italiano, un «quaresimale ragionato» come modello per l’eloquenza sacra), il Rubbi traccia le linee di un’enciclopedia italiana, sulla base del progetto elaborato nel 1779 dall’abate veneziano Alessandro Zorzi: un direttore («dotto, attivo, amante di sua nazione»), una cinquantina di uomini colti, un potente mecenate, e un tipografo «esatto» come Giambattista Bodoni, che ha a sua disposizione «ogni mezzo per darvi una stampa da superare le oltramontane».16 Dopo una rassegna di limiti e difetti dei giornali
ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, par une société de gens de lettres, à Paris, chez Briasson-David-Le Breton-Durand, vol. V, 1755, pp. 527-528, a p. 527). 13 Su questo aspetto cfr. C. Dionisotti, Biografia e iconografia, in Storia d’Italia. Annali. IV. Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi 1981, pp. 415-426, a p. 421. 14 Elogj italiani, vol. III, p. III; vol. IV, pp. VI-VII e XII-XIII. 15 Ivi, vol. V, pp. IV-VIII. 16 Ivi, pp. VIII-XV. Cfr. S. Luzzatto, Enciclopedie tra i gesuiti: A. Zorzi, ovvero il «Diderò di Ferrara», in «Miscellanea di storia ligure», XV (1983), 2, pp. 341-367, e Id., La buona compagnia. Alessandro Zorzi e il progetto di una Nuova Enciclopedia Italiana, in «Studi Settecenteschi», XVI (1996, L’enciclopedismo in Italia nel XVIII secolo, numero monografico a cura di G. Abbattista), pp. 267-288. La rivendicazione dell’identità nazionale: biografie e panegirici fra Sette e Ottocento
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letterari (si salvano solo la «Gazzetta» nata a Cremona dalla collaborazione tra Isidoro Bianchi e l’editore Lorenzo Manini, il «Nuovo Giornale de’ Letterati d’Italia» del Tiraboschi, e, pur con riserva, il «Giornale enciclopedico» vicentino della Caminer Turra, nonché le «Memorie enciclopediche», che promettevano di divenire «giornale plausibile» sotto la guida di Giovanni Ristori, in seguito collaboratore dello stesso Rubbi, prima di incamminarsi risolutamente sulla strada del riformismo), viene esposto il nuovo «sistema» per un giornale italiano, opera collettiva (ma concepita necessariamente dalla mente di uno solo) che avrebbe dovuto sorgere in una capitale ed essere divisa in «classi», sulla base delle materie e delle scuole dominanti: a Napoli la giurisprudenza, a Bologna la medicina, a Venezia l’oratoria, a Parma la poesia, a Genova la politica e il commercio, a Torino la fisica.17 A metà di un’impresa animata da intenzioni dichiaratamente misogalliche (ma aperta da una citazione da Gresset, poeta del Lutrin vivant, unico autore di Francia «pieno di vera grazia e d’eleganza»),18 il curatore trae alcune conclusioni sui ritratti dei migliori «prototipi nelle scienze, nell’arti, nella politica, nella guerra». Fra i candidati degni di far parte della silloge, ma che di fatto ne rimarranno esclusi, si annoverano il principe Eugenio di Savoia per la categoria dei «guerrieri», Ariosto come «epico romanziere», Tasso come «epico storico», Filippo Morgagni per gli «anatomici», Raffaello e Tiziano per la pittura, Michelangelo rappresentante delle «tre arti unite», Muratori e l’archeologo Giovan Battista Passeri tra gli «uomini universali in ogni genere».19 I personaggi che, in luogo di questi, figureranno nella raccolta sono i cardinali Angelo Maria Querini e Pietro Sforza Pallavicino, Benedetto Giovio, Giovanni Botero, l’erudito veronese Domenico Vallarsi editore (tra il 1734 e il 1742, in collaborazione con Scipione Maffei) delle opere di San Gerolamo. Fra i poeti «drammatici e didascalici e lirici» viene poi dimenticato Carlo Innocenzo Frugoni, il cui panegirico, redatto dal parmense Antonio Cerati («uno de’ più eleganti elogisti italiani») per il terzo volume, è contrapposto dal Rubbi a quello recitato da Pellegrino Salandri all’Accademia di Mantova nel 1768, «ammasso confuso di frasi sconnesse».20 Agli uomini di scienza (Galileo, Celestino Galiani, Francesco Redi, il botanico
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Elogj italiani, vol. IX, pp. IX-XI. In calce al vol. XI, dopo l’ultimo elogio (di Palladio, ad opera di Giambattista Giovio), il Rubbi si scusa per aver dimenticato di citare il «Giornale dei letterati» di Pisa, fra tutti «il migliore» (p. 48). 18 «S’honorer des critiques, mépriser les satyres, profiter de ses fautes, et faire mieux» (dall’Avertissement alla tragedia di Gresset del 1740 Édouard III). Per alcuni sbrigativi pareri sui più celebri scrittori di Francia, da Corneille a Montesquieu, da Rousseau («uomo che scrive senza metodo») a Diderot e Voltaire (autore di «laidi ed irreligiosi romanzi»), cfr. Elogj italiani, vol. V, pp. VIII-XI. 19 Ivi, vol. VII, pp. III-IV. 20 Ivi, vol. III, pp. 4 e 56. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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Pietro Antonio Micheli, il naturalista ravennate Francesco Ginanni) si associano scrittori e poeti, da Dante e Petrarca a Giambattista Spolverini, Francesco Algarotti, Metastasio;21 mancano Ariosto e Tasso, forse per ragioni di spazio o per la difficoltà di disporre in tempi brevi di efficaci profili biografici.22 A Baldassarre Castiglione sono addirittura dedicati due medaglioni, a firma di Gianvincenzo Benini l’uno, e dello stesso Rubbi l’altro; entrambi presentati nel 1778 al concorso indetto dall’Accademia mantovana per il terzo centenario della nascita dell’autore del Cortegiano,23 ottennero, rispettivamente, il secondo e il terzo posto, dietro al profilo in lingua latina di Girolamo Ferri. Le ragioni della presenza di un doppio elogio andranno ricondotte alla necessità, cui il curatore non poteva sottrarsi, di non escludere colui che lo aveva preceduto nel giudizio degli accademici, senza per questo rinunciare a rivendicare la primogenitura del proprio lavoro.24 Gli elogi originali, composti per l’occasione, segnalati con enfasi (in corsivo) dal Rubbi nell’indice generale, rappresentano oltre la metà del totale (venti);25 i restanti sono per la maggior parte rielaborazioni e aggiornamenti di testi precedenti.
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Rare le incursioni in ambiti disciplinari diversi: un musicista (Giuseppe Tartini) e due soli artisti (Leonardo e Palladio). 22 Ai «due maggiori poeti Italiani» largo spazio sarà comunque riservato nel Parnaso italiano: due volumi per la Gerusalemme liberata, 1787; cinque per l’Orlando furioso, 1785 (la citazione è dal vol. V, p. [IV]). 23 L’elogio del Castiglione era stato proposto dal direttorio dell’Accademia come tema per la classe di belle lettere già nel novembre del 1775, ma il premio di cinquanta fiorini non era poi stato assegnato (Archivio dell’Accademia Nazionale Virgiliana di Mantova, Registro dei verbali, vol. I, a. 1768-1779, seduta del 15 novembre 1775); si veda il mio Imitar gli antichi. Appunti sul Castiglione, Milano, Unicopli 2006, pp. 87-91. 24 Queste le motivazioni addotte dal Rubbi nella dedica a Teresa Valenti Gonzaga Durazzo delle pagine del Benini: «Se mai alcuno temesse, che gli elogj del Castiglione, scritto uno dal sig. Benini, l’altro da me, fossero stati o siano rivali, li veda ora uniti per mezzo vostro, o signora, e rappattumati. Il sig. Benini lo scrisse dopo di me; ma non si adirò per veder nel mio un primogenito. Egli è amico di chi coltiva le scienze; egli mi citò allora senza conoscermi, ed io debbo ora essergli grato, col far vostro l’elogio suo insieme col mio. Il Castiglione sarà forse il solo in questa raccolta, che abbia doppio l’elogio. Ma si dee permettere al merito dell’uomo questa particolar distinzione; e si dee perdonare a me quest’impeto di gratitudine verso un cittadino di Mantova, ch’io posso chiamar la seconda mia patria» (vol. IV, pp. 3-4; vari scritti del Rubbi avevano avuto buona accoglienza a Mantova, come egli stesso rileva nel seguito della lettera; cfr. anche Filippo Scolari, Della vita e degli studj del p. Andrea Rubbi della Compagnia di Gesù. Memorie storiche, Venezia, Zerletti 1817, pp. 12 e 16, e il profilo redatto da Giuseppe Maria Bozoli per la Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo XVIII, e de’ contemporanei compilata da letterati italiani di ogni provincia e pubblicata per cura del professore Emilio De Tipaldo, Venezia, Alvisopoli, vol. VI, 1838, pp. 214-220, a pp. 215-216). 25 Elogj italiani, vol. XII, pp. V-XIV («Analisi dell’opera»). La rivendicazione dell’identità nazionale: biografie e panegirici fra Sette e Ottocento
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Secondo quella tendenza a privilegiare l’elogio dei moderni che, di lì a poco, si manifesterà compiutamente nelle scelte antologiche del Parnaso, molto sbilanciato sul versante settecentesco, circa un terzo dei personaggi sono scomparsi nell’ultimo trentennio, col caso-limite di Metastasio, celebrato dal Rubbi appena due mesi dopo la morte. Il coordinatore riserva a sé l’encomio di altri cinque personaggi (Castiglione, Galileo, Leonardo, Ginanni, Petrarca); tra i collaboratori, Giambattista Giovio (con quattro ritratti: Algarotti, Palladio, Paolo e Benedetto Giovio), Ippolito Pindemonte (Spolverini, Maffei, il tragediografo veronese Filippo Rosa Morando), Antonio Cerati (Frugoni, Gaspare Cerati, Pietro Sforza Pallavicino), Appiano Buonafede, estensore dell’elogio di Celestino Galiani, e a sua volta modello per il Rubbi, avendo pubblicato nel 1745 i Ritratti poetici storici e critici, galleria di «moderni uomini di lettere» che sarà ristampata più volte, fino all’edizione postuma del 1796, con largo incremento del numero degli elogiati. Due i profili a firma «N. N»: quello del «maestro delle sentenze» Pier Lombardo (ultimo del quarto volume) e quello di Redi (primo del settimo volume). Gli autori sono, rispettivamente, Benvenuto Robbio di San Raffaele, che già aveva fatto uscire quelle pagine nella serie dei Piemontesi illustri,26 e il milanese Giuseppe Gorani, unico, tra i panegiristi scelti dal Rubbi, a comporre una biografia erudita di scuola francese, definita pertanto dal curatore «letteraria eccezione», essendo un «bellissimo […] estratto della vera filosofica scienza medica, ed anatomica, e della natura, che possedeva Francesco Redi».27 I discorsi del Rubbi, scritti in una lingua «saltellante e singhiozzante»,28 si conformano di fatto ai canoni della retorica celebrativa secondo gli schemi magniloquenti dell’orazione accademica, ma si piegano spesso alla dimensione aneddotica. Di Metastasio, ad esempio, celebrato come «filosofo del cuore», si ricordano le occupazioni quotidiane, la paura della morte, la reticenza a rivelare l’età; materiali che, non solo in questo caso, verranno rimodulati negli apparati del Parnaso, dove appunto del poeta cesareo si rivelano dettagli finanche imbarazzanti.29 L’Elogio di
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Elogio di Pier Lombardo, in Piemontesi illustri, Torino, Briolo 1781-1787, 5 voll., vol. I, pp. 37-62. 27 Elogj italiani, vol. V, pp. XIV-XV. Pubblicata sempre in forma anonima una prima volta nel 1781 nella raccolta di opuscoli del «Nuovo Magazzino Toscano», vol. III (e, nello stesso anno, a Firenze presso la Società Stecchi e Del Vivo), l’operetta comparirà anche nel 1784 negli Elogj di due illustri scopritori italiani (Siena, Pazzini Carli), insieme al panegirico del senese Sallustio Antonio Bandini. Per l’identificazione dell’autore cfr. la «Continuazione del Nuovo Giornale de’ Letterati d’Italia», vol. XXX (1785), p. 299, e G. Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani, Milano, Pirola 1848-1859, 3 voll., vol. I, p. 349. 28 G. Natali, Il Settecento, Milano, Vallardi 19605 (I ed. 1929), 2 voll., vol. II, p. 1193. 29 Elogio di Pietro Metastasio, vol. I, pp. 86-95; Parnaso italiano, vol. XLVII (Drammi scelti dell’abbate Pietro Metastasio), Venezia, Zatta 1790, pp. 422-424. Il panegirico sarà ricordato da G. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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Francesco Petrarca, prestandosi ad una condanna senza appello del petrarchismo arcadico, è anche l’occasione per rendere omaggio ad Ariosto e Tasso, «genj grandi», i soli degni di «formare con lui un onorevole parallelo».30 Di Galileo, «attento indagatore e seguace della natura», è fornita un’immagine positiva, senza alcun tentativo di affrontare le implicazioni delle sue teorie; al punto che, avanzando una giustificazione piuttosto debole, il Rubbi propone il proprio elogio dello scienziato, in luogo di quello, di ben altro spessore, procurato nel 1775 da Paolo Frisi: Strano è, che in una raccolta d’elogj italiani io ometta quello del Galileo, scritto dal gran matematico signor abate Paolo Frisi, e ne sostituisca uno d’autore, che certo non fe’ mai professione di matematica. Ma la celebrità appunto del primo mi persuase di anteporre il secondo. Qual è uomo colto, che non abbia nel suo gabinetto quel scientifico elogio? Esso è notissimo a tutti i dotti […]. Io cerco la novità, perché novità vogliono i miei amici, cioè i miei associati.31
Fra i contributi più efficaci, le documentate pagine di Pindemonte su Giambattista Spolverini che aprono la raccolta, il profilo di Francesco Algarotti tracciato dal Giovio attraverso la sistematica analisi degli scritti compresi negli otto volumi delle Opere (Livorno, Coltellini 1764-1765), con la fortunata definizione dei Viaggi di Russia come testo degno di «occupare il tavolino d’un ministro»,32 e i ritratti di Cristoforo Colombo e di Andrea Doria, compilati dai genovesi Ippolito Durazzo e Grillo Cattaneo Leonardi.33 Il capitolo dedicato ad Antonio Favre, uno dei maggiori giuristi sabaudi tra Cinque e Seicento, è più di una volta citato dal Calcaterra come opera di grande interesse dell’«audacissimo» Jacopo Durandi, magistrato piemontese allora vicino a posizioni di riformismo illuminato (di lì a poco, fu il primo nel Regno di Sardegna ad abbandonare il latino nelle sentenze giuridiche); Dionisotti ne rileva, per contro, un limite stilistico-strutturale, ovvero la «frantumazione dei riferimenti, spesso anonimi nel testo e solo identificabili nelle note».34 Quanto alla necessità di far spazio a Dante, il Rubbi, che pure prediligeva Petrarca
Carducci, Saggio su Metastasio (1882), in Opere, Bologna, Zanichelli, vol. XIX, Melica e lirica del Settecento, con altri studi di varia letteratura, 1909, p. 91. 30 Elogio di Francesco Petrarca, vol. XI, p. 42. 31 Elogio di Galileo Galilei, vol. V, pp. 11-12, 26, 39, 42 e passim; a p. 45 l’excusatio del Rubbi. 32 Elogio del marchese Giambattista Spolverini, vol. I, 91 pp.; Elogio del conte Francesco Algarotti, vol. V, p. 25. 33 Elogio di Cristoforo Colombo, vol. II, 231 pp.; Elogio di Andrea D’Oria, vol. III, 130 pp. Entrambi erano apparsi insieme l’anno precedente (1781) a Parma presso Bodoni, con una premessa che insisteva sul valore di exempla di quei profili in direzione repubblicana, ovvero sulla loro funzione di stimolo a riscaldare «coll’emulazione i petti de’ […] cittadini», alimentandone lo «spirito di libertà», Elogj storici di Cristoforo Colombo e di Andrea D’Oria, prefazione, p. [4]. 34 Elogio del presidente Antonio Favre giureconsulto, vol. VI, 98 pp. (già nei Piemontesi illustri cit., La rivendicazione dell’identità nazionale: biografie e panegirici fra Sette e Ottocento
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(il Parnaso italiano si aprirà nel 1784 con due volumi dedicati al poeta di Arquà), ebbe tuttavia «buon naso»,35 affidando l’incarico ad un oscuro «G. F.», che altri non era che il ticinese Giuseppe Luigi Fossati, traduttore della Bibbia e delle poesie di Albrecht Von Haller.36 Il Fossati considera vichianamente Dante poeta del genio italico, anche se poi, ancora influenzato dal pregiudizio del buon gusto, si accosta a certe posizioni dell’amico Bettinelli, ben radicate nella tradizione gesuitica, giudicandolo «genio rozzo e ineguale, ma sorprendente, e sublime, e capace di produrre una rimarcabile rivoluzione in letteratura».37 In un apparato di note che, per ricchezza ed estensione, non ha eguali nella compagine degli Elogj, il Fossati propone anche un pertinente parallelo fra un passo del decimo canto dell’Inferno e uno del Macbeth, «saggio forse non abbastanza conosciuto dai più di un genio egualmente grande che irregolare, l’inglese Shakespeare»: il raffronto è fra l’episodio di Cavalcante de’ Cavalcanti, ignaro della sorte di Guido, e l’ultima scena del quarto atto, citata nell’originale inglese, quella in cui Macduff apprende che i suoi giovani figli sono stati trucidati dai sicari di Macbeth.38 Chiude la serie l’elogio di Scipione Maffei redatto dal Pindemonte; di gran lunga il più ampio e circostanziato, il panegirico offre una rassegna degli scritti, anche quelli in corso di stesura o semplicemente annunciati. Lo stesso discorso verrà ristampato nel 1790, nel volume inaugurale delle Opere del Maffei, tra i titoli più fortunati dell’effimera impresa tipografica approntata a Venezia da Alessandro Pepoli e da Antonio Fortunato Stella, con i quali il Rubbi collaborava come autore e curatore di testi;39 in seguito, figurerà al primo posto negli Elogi di letterati del Pindemonte, usciti in due tomi a Verona tra il 1825 e il 1826 per l’editore Libanti.40 Fra le ultime enciclopedie biografiche di ampio respiro del secolo XVIII, gli
vol. II, 1781, pp. 263-357); C. Calcaterra, Il nostro imminente Risorgimento. Gli studi e la letteratura in Piemonte nel periodo della Sampaolina e della Filopatria, Torino, SEI 1941 (I ed. 1925), pp. 250254; C. Dionisotti, Un sonetto di Jacopo Durandi, in Id., Ricordi della scuola italiana, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1998, pp. 81-103, a p. 95. 35 C. Dionisotti, Varia fortuna di Dante (1966), in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi 1967, pp. 255-303, a p. 260. 36 G. Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani cit., vol. I, p. 351. 37 Elogio di Dante Alighieri, vol. XI, p. 13. 38 Ivi, pp. 57-59. Cfr. Inferno, X, 67-68 («Come / dicesti? elli ebbe? non viv’elli ancora?»), e Macbeth, IV, 3, 216-217 («He has no children. All my pretty ones? / Did you say all? O hellkite! All?»). 39 Qualche anno più tardi Alessandro Pepoli avrebbe finanziato e stampato a Venezia il «Mercurio d’Italia storico politico letterario per l’anno 1796», ugualmente compilato dal Rubbi. 40 L’elogio, che occupa gran parte del primo tomo (pp. 1-262), è seguito da un’Appendice contenente una Difesa della Merope contro le osservazioni critiche di Voltaire (pp. 263-305). XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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Elogj si configurano dunque come prodromo di un trittico sull’eccellenza italica che di lì a poco comprenderà, come nucleo centrale, i cinquantasei volumi del Parnaso, e che si chiuderà con un capitolo iconografico, gli Italiani illustri, galleria di ventitré incisioni con essenziale corredo informativo pubblicata a Venezia nel 1791 insieme a Giacomo Zatta (figlio di Antonio);41 conclusione, forse in tono minore, di una decennale rivalsa patriottica contro la supremazia letteraria della Francia, condotta con «straordinaria alacrità e abilità».42
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Italiani illustri scritti da Andrea Rubbi ed incisi da Giacomo Zatta, Venezia, s.e., 1791. Undici i personaggi effigiati che già avevano trovato posto negli Elogj; vi si aggiungono, tra gli altri, Ariosto, Tasso, Machiavelli, Muratori, Sarpi e Segneri. 42 C. Dionisotti, Venezia e il noviziato di Foscolo (1966), in Id., Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni e altri, Bologna, il Mulino 1988, pp. 33-53, a p. 51. La rivendicazione dell’identità nazionale: biografie e panegirici fra Sette e Ottocento
CHIARA CEDRATI Alfieri e le virtù sconosciute
A partire dalla felice prosopopea che Foscolo gli dedicò nei Sepolcri, Vittorio Alfieri incarnò per l’Ottocento risorgimentale il ruolo di padre della patria e di profeta dell’unità nazionale: piuttosto che l’opera, venne entusiasticamente esaltata in funzione ideologica o politica la sua scultorea figura di poeta-vate «irato a’ patrii Numi» e di indomito fustigatore dei vizi e dei despoti. Come è noto, il mito di Alfieri in veste di pater patriae risulta fondato, al di là delle strumentalizzazioni successive, su un’effettiva, precoce coscienza del problema dell’identità nazionale indissolubilmente legata alla dolorosa consapevolezza della condizione di sottomissione della penisola alla tirannide nelle sue diverse manifestazioni. L’idea di nazione italiana, definita nella prosa prima del Misogallo come «una moltitudine di uomini, per ragione di clima, di luogo, di costumi, e di lingua fra loro diversi»1 racchiusa nei confini naturali della penisola, e la conseguente necessità di dare all’Italia un’identità politica unitaria accanto a all’indiscutibile unità geografica e linguistica legata alla conformazione del territorio,2 si fonderebbero secondo il tragedo su un comune retaggio storico, culturale e morale che trova nella Roma repubblicana il suo momento più esemplare. Il concetto di nazione viene tuttavia sviluppato anche e soprattutto in negativo, ovvero in chiave antistraniera e
1 Misogallo, nota 2 alla Prosa Prima, in V. Alfieri, Scritti politici e morali, vol. III, a cura di C. Mazzotta, Asti, Casa d’Alfieri 1984, p. 198. 2 «Quindi, finché o un terremoto, o un diluvio, od una qualche cozzante Cometa, non ti avranno trasmutata di forme; finché tu, stretto e montuoso continente, tra due racchiusi Mari penisoletta ti sporgerai, facendoti dell’Alpi corona; i tuoi confini dalla Natura son fissi, ed Una pur sempre, (per quanto in piccoli bocconcini divisa e suddivisa ti stii) Una sola pur sempre esser dei d’opinione, nell’odiare con implacabile abborrimento mortale quei Barbari d’Oltramonti», Prosa Prima del Misogallo, ivi, pp. 199-200.
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Chiara Cedrati
antitirannica, senza esitazioni nell’individuare di volta in volta tra gli altri, quali primi nemici dell’Italia libera e unita, «i rigenerati… schiavi Francesi»3 staffilati con violenza nel senile Misogallo, i «Goti» che dominavano il Granducato di Toscana,4 ma anche, come il poeta sintetizza lapidario in un epigramma divenuto proverbiale, il papato.5 Al centro della riflessione alfieriana sta la perfetta corrispondenza tra possibilità di sussistenza di una nazione e libertà: soltanto dopo il pieno trionfo delle leggi sul volere di uno solo e l’annientamento delle tirannidi – «Leggi, e non re», riassume l’epigramma a cui si faceva ora cenno6 – l’Italia potrà realmente esistere quale organismo politico. Alle spalle della meditazione alfieriana sull’identità nazionale si individua, più che il dibattito contemporaneo, la guida di letture capitali compiute a ridosso della conversione, tra cui spiccano in questo senso il Petrarca politico, Dante e Machiavelli. Se, ad esempio, l’Alighieri del De Vulgari Eloquentia (I, 8) informa chiaramente la concezione della nazione come entità linguisticamente unitaria che emerge in una definizione del Misogallo,7 le canzoni Spirto gentil, che quelle membra reggi (RVF LIII) e Italia mia, benché ’l parlar sia indarno (RVF CXXVIII) costituiscono la filigrana di sonetti come Quattrocent’anni, e più, rivolto ha il cielo oppure Italia, o tu, che nulla in te comprendi,8 nei quali il poeta lamenta petrarchescamente come l’Italia sia tuttora «morta… ad ogni alto lavoro».9 Sull’onda di quanto legge negli autori appe-
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Nota 9 al Sonetto VI del Misogallo, ivi, p. 243. Cfr. L’idioma gentil sonante e puro, in V. Alfieri, Rime, a cura di F. Maggini, Asti, Casa d’Alfieri 1954, p. 138. 5 «Sia pace ai frati, / Purché sfratati: / E pace ai preti, / Ma pochi e queti: / Cardinalume / Non tolga lume: / Il maggior prete / Torni alla rete: / Leggi, e non re: / L’Italia c’è», V. Alfieri, Rime, ivi, p. 178. Cfr. per l’epigramma e la sua diffusione tra gli anticlericali ottocenteschi, A. Fabrizi, Su un epigramma alfieriano, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXVIII (2001), vol. CLXXVIII, fasc. 581, pp. 114-116. 6 Per l’importanza delle leggi nella concezione politica alfieriana, cfr. G. Rando, Alfieri europeo: le «sacrosante» leggi. Scritti politici e morali-Tragedie-Commedie, Soveria Mannelli, Rubbettino 2007. 7 «Insisto su questa Unità dell’Italia, che la Natura ha sì ben comandata, dividendola con limiti pur tanto certi dal rimanente dell’Europa. Onde, per quanto si vadano aborrendo fra loro es. gr. i Genovesi, e i Piemontesi, il dire tutti due Sì, li manifesta entrambi per Italiani, e condanna il loro odio. Ed ancorché il Genovese, innestandovi il C, ne faccia il bastardume Scì, non s’interpreta contuttociò codesto Scì per francesismo, che troppo sconcia affirmativa sarebbe; e malgrado il C di troppo, i Genovesi per Italiani si ammettono. E nello stesso modo es. gr. i Savojardi e i Francesi, dicendo tutti due Oui, sono, e meritan di essere una stessa Nazione. E qui per occasione, noterò alla sfuggita che l’Oui ed il Sì non si sono mai maritati», Nota alla Prosa Prima del Misogallo cit., pp. 199-200. 8 Rime cit., pp. 101 e 69. 9 Quattrocent’anni, e più, rivolto ha il cielo, ivi, p. 101, v. 4. 4
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na ricordati, Alfieri radica la sua fiducia nella capacità degli abitanti della penisola di “farsi liberi” sulla convinzione che nell’animo degli italiani, «schiavi […] sì; ma schiavi almen frementi»,10 sopravviva l’antico valore degli eroi romani che avevano reso grande la repubblica e che un giorno non lontano esso si ridesterà conducendoli alla vittoria e alla libertà. Tuttavia, così come il ragionamento sui fondamenti teorici, geografici e storici che sottendono all’idea di nazione appare astratto e slegato da una concreta valutazione della situazione politica presente, anche il discorso sulla reale possibilità di costruire una nazione italiana risulta sostanzialmente velleitario. Alfieri non soltanto – come si evince dagli ultimi paragrafi del trattato Della Tirannide11 – scansa in nome dell’utopia sublime il ruolo di politico attivo e si esime, noncurante delle proposte dell’illuminismo riformatore, dal formulare una concreta alternativa politica al governo dispotico abbattuto dalla ribellione violenta della massa, ma rimanda nel tempo a un futuro che resta imprecisato il momento della presa di coscienza degli italiani e del conseguente rovesciamento della tirannide. La possibilità di agire in modo attivo è in definitiva garantita unicamente, come nelle tragedie, alla figura utopica e all’iniziativa eroica dell’uomo libero, che, in quel completamento e commento del primo trattato che è il Del Principe e delle Lettere, giunge a coincidere totalmente con il libero scrittore. Al poeta-patriota – e quindi, com’è ovvio, allo stesso Alfieri – è affidato il compito, secondo quanto esplicitato con i toni visionari della profezia nel misogallico Giorno verrà, tornerà il giorno,12 in Già il ferétro, e la Lapida, e la Vita13 o nella sottovalutata Teleutodia,14 di porsi alla guida del processo di autocoscienza e di risvegliare nei cuori italici l’antico valore.
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Giorno verrà, tornerà ’l giorno, in cui, sonetto Conclusione del Misogallo cit., p. 411. Cfr. in particolare il libro II, cap. 8 in V. Alfieri, Scritti politici e morali, vol. I, a cura di P. Cazzani, Asti, Casa d’Alfieri 1951, pp. 102 ss. 12 «Giorno verrà, tornerà ’l giorno, in cui / Redivivi omai gl’Itali, staranno / In campo audaci […] / Al forte fianco sproni ardenti dui, / Lor virtù prisca, ed i miei carmi, avranno […] // Gli odo già dirmi: O vate nostro, in pravi / secoli nato, eppure create hai queste / Sublimi età, che profetando andavi», sonetto Conclusione del Misogallo cit., p. 411, vv. 1-3, 5-6 e 12-14. 13 «Ma non inulta l’Ombra mia, né muta, / Starassi, no: fia dei Tiranni scempio / La sempre viva mia voce temuta / […] Me forse altrui di liber’uomo Esempio», Rime cit., p. 248, vv. 9-11 e 14. 14 «Carmi v’ha, che fien l’organo / Di pura e sacra Libertà; che impera, / Vili del par si scorgano / E gli Spartachi e i Cesari, perch’almi / Catoni un dì risorgano. / Rigenerar Roma seconda, e vera, / Se gl’infiammati salmi / Pria nol potran di un libero Tirtéo, / L’asta forse il potran di armati servi? / O il conciliabol reo / D’altri inetti più ancor schiavi protervi? – / Nascon dal forte i Forti. / Germe il Leon fu mai d’imbelli Cervi? / Molti Eroi, sì, da un Vate sol fian sorti», Rime cit., p. 276, vv. 107-120. 11
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In una coppia di sonetti (si tratta di Chi ’l crederia pur mai, che un uom non vile e Uom, cui nel petto irrestistibil ferve)15 composti tra il novembre 1787 e il maggio 1788, mesi trascorsi tra l’Alsazia e Parigi e quasi interamente dedicati alla revisione delle opere in vista di una pubblicazione sciolta dai vincoli della censura, la stessa scelta di abbandonare la penisola viene esplicitamente ricondotta a una spinta di amor di patria che tuttavia non può prescindere a priori dal rinnegamento dello stesso paese natale in quanto terra non libera.16 L’opzione risoluta per l’esilio, privata del coté sentimentale che dovette invece aver molta parte nella decisione alfieriana (il poeta desiderava infatti stare accanto alla Stolberg), viene spiegata in Chi ’l crederia pur mai, che un uom non vile come il prodotto del patriottismo dello scrittore libero, che, dovendo giustamente servire la propria nazione «benché patria non è là dove lui nacque», ha scelto di migrare in «stranio lido» per assicurarsi la possibilità di stampare e di scagliare i suoi strali di verità da lontano, giovando così agli altri malgrado se stesso.17 Ciò non toglie che nel successivo Uom, cui nel petto irresistibil ferve il poeta individui proprio nella scelta dell’esilio dalla patria schiava la possibilità di trovare l’eterna fama letteraria. In questo modo lo scrittore può aspirare a un doppio utile: una nuova consapevolezza per i propri connazionali e, al contempo, la gloria per sé attraverso «la penna», che, nel momento in cui «non gli è dato» di lottare per la libertà «col brando»,18 diventa il solo mezzo per perseguire il suo duplice scopo. Se
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Rime cit., pp. 153 e 156. Per il motivo della «natalizia abbominevol gabbia», ricorrente in tutto il canzoniere alfieriano, cfr. oltre a Chi ’l crederia pur mai, che un uom non vile, v. 10, citato a testo, i sonetti Uom, cui nel petto irresistibil ferve, in Rime cit., p. 156 («Ma poi convinto, che impossibil fora / Patria trovar per chi senz’essa è nato», vv. 9-10), Non t’è mai Patria, no, il tuo suol paterno, ivi, p. 249 («Non t’è mai Patria, no, il tuo suol paterno, / S’ivi aggiunta non bevi al latte primo / Libertà vera», vv. 1-3) Cfr. Virginia, atto III, scena II, vv. 81-82, in V. Alfieri, Tragedie, a cura di L. Toschi, introduzione di S. Romagnoli, Milano, Sansoni 1993, p. 349 («V’ha patria, dove / sol UNO vuole, e l’obbediscon tutti?»). 17 Cfr. anche lettera 188 al Bianchi, Parigi, 23 febbraio 1788, in V. Alfieri, Epistolario. Vol. I, a cura di L. Caretti, Asti, Casa d’Alfieri 1963 p. 394, coeva ai sonetti ricordati: «Con tutto ciò per ora niente si muterà nel nostro modo di vivere; e pur troppo temo che non potrò mai più stare lungamente a dimora in nessun luogo d’Italia. Me ne vo io stesso espellendo a poco a poco con lo stampare le mie diverse opere, che veramente non mi ci lascierebbero più vivere tranquillo. Pure è officio di uomo buono di giovare alla patria nel modo che può; e disgraziatamente io sto in tali circostanze, che non posso giovar all’Italia che standone lontano» (corsivi miei). 18 Per l’immagine della penna quale sostituto della spada si veda anche il sonetto Protesta dell’autore in chiusura al Della Tirannide cit., p. 109 («l’alto onor verace / Di far con penna ai falsi imperj offesa», vv. 7-8). Per il motivo, cfr. G. Santato, Lo stile e l’idea. Elaborazione dei trattati alfieriani, in Lo stile e l’idea, Milano, Franco Angeli 1994, pp. 88-106 e F. Spera, Le parabole della storia e le forme del sublime tra Alfieri e Leopardi, in La letteratura e la storia. Atti del IX Congresso nazionale dell’ADI (Bologna-Rimini, 21-24 settembre 2005), a cura di E. Menetti e C. Varotti, prefazione di G.M. Anselmi, Bologna, Gedit 2007, vol. I, pp. 225-249. 16
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infatti nel Della Tirannide l’azione è inequivocabilmente considerata superiore alla scrittura, che della prima rappresenterebbe un surrogato,19 a partire dal trattato Del Principe e delle Lettere le parti appaiono infatti significativamente rovesciate, con la decisa affermazione del primato della parola sul gesto eroico.20 Emblematico è in questo senso il caso di Omero, che, «in parità di circostanze», ovvero se fosse vissuto in un’epoca in cui l’azione magnanima era ancora possibile, sarebbe certo stato pari agli eroi da lui cantati; anche così, il poeta resta più grande dei suoi personaggi, unendo la possibilità di fare cose grandi a quella di inventarle e descriverle in modo sublime: Tanto può più, presso al comune degli uomini, il fare che il dire. Non pensano essi, che il dire altamente alte cose, è un farle in gran parte […]. Non si può fortemente ritrarre ciò che fortissimamente non si sente; ed ogni gran cosa nasce pur sempre dal forte sentire. Esemplifico, e domando; Omero in parità di circostanze non avrebbe egli potuto essere quello stesso Achille, o quell’Agamennone, o quel Priamo, che con tanta fantasia, con tanta dignità e verità egli immagina e ritrae? Ma Omero è maggiore assai di costoro nella più lontana memoria degli uomini, perché, oltre la possibilità che si vede in lui di far cose grandi in valore ed in senno, riunisce anco in se la divina arte di ben inventarle, e di ottimamente colorirle ed esprimerle. Io perciò credo, che lo scrittore grande sia maggiore d’ogni altro grand’uomo; perché oltre l’utile che egli arreca maggiore, come artefice di cosa che non ha fine, e che giova ai presenti ed ai lontani, si dee pur anche confessare che in lui ci è per lo più l’eroe di cui narra, e ci è di più il sublime narratore. Ed in fatti, gli eroi nati dopo quell’Achille (interamente forse fabbricato nella testa d’Omero) tutti vollero più o meno rassomigliarsi a lui. Ma, se un eccellente scrittore vuol dipingere un eroe, lo crea da se; dunque lo ritrova egli in se stesso. L’uomo in somma non può perfettamente inventare e ritrarre ciò che egli non potrebbe (avendone però i mezzi necessarj) eseguire: ma può bensì l’uomo eseguire ciò che ritrar non saprebbe. Onde io nell’esecutore di una impresa sublime ci vedo un grand’uomo; ma nel sublime inventore e descrittore di essa, a me pare di vedercene due.21
Come abbiamo suggerito per indizi nel nostro discorso, a far da fondamentale contesto al problematico dualismo tra parola e azione, come pure al motivo ad esso collegato della virtù sconosciuta che ora ci accingiamo a esaminare più da
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Cfr. ad es. la dedica Alla Libertà in Della Tirannide cit., pp. 7-8: «io, che per nessun’altra cagione scriveva, se non perché i tristi miei tempi mi vietavan di fare; io che ad ogni vera incalzante necessità, abbandonerei tuttavia la penna per impugnare sotto il tuo [della Libertà] nobile vessillo la spada». 20 «Vero è, che la penna in mano di un eccellente scrittore riesce per sé stessa un’arme assai più possente e terribile, e di assai più lungo effetto, che non lo possa mai essere nessuno scettro, né brando, nelle mani d’un principe». V. Alfieri, Del Principe e delle Lettere, in Scritti politici e morali cit., vol. I, libro II, cap. 13, pp. 157-158. 21 Ivi, libro II, cap. 5, pp. 157-158 (corsivi miei). Cfr. anche i versi della Teleutodia citati più sopra. La rivendicazione dell’identità nazionale: biografie e panegirici fra Sette e Ottocento
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vicino, è la consapevolezza ontologica della corruzione dei tempi, non più propizi al gesto sublime come al contrario lo erano stati per gli eroi di libertà greci e romani celebrati nelle tragedie. Seppure venga postulato, rimandandolo a un’epoca imprecisata, il ritorno di «più maschia etade»,22 il poeta e i suoi contemporanei si vedono irrimediabilmente costretti a vivere in un «empio, traditor, mendace / Mondo, che i vizj apertamente onora»23 e che impedisce o perlomeno ostacola grandemente un’azione – sempre e comunque individuale – che incida nella realtà per cancellare ciò che è alla base di questa stessa corruzione, la tirannide. Nonostante una stringente necessità implichi che l’uomo giusto e interiormente libero si adatti alle circostanze, la strada della virtù attiva perseguita in nome della patria non è per Alfieri del tutto preclusa e può prendere la forma sia della lotta diretta al dispotismo del principe, sia dell’espressione del proprio slancio libertario attraverso l’arte e la scrittura. Nella seconda categoria possiamo annoverare quale esempio, accanto naturalmente, come vedremo meglio più avanti, allo stesso Alfieri, il caso di Michelangelo. Sommo esempio di «letterato muto» nel Del Principe e delle Lettere,24 la figura del Buonarroti è accompagnata nell’opera alfieriana dalla triste consapevolezza che l’artista, degno per spirito di quel Mosè che ha scolpito,25 fu invece perlopiù costretto «perch’ebbe avversi i tempi a be’ desiri»26 a celebrare imprese decisamente meno onorevoli.27 Nell’epopea del raggiungimento dell’indipendenza da parte delle colonie che Alfieri traccia attraverso le odi dell’America libera, un posto di primo piano è garantito invece a un patriota premiato dal successo, a una virtù che non rimane celata e malgrado i tempi (o forse proprio grazie ad essi) rifulge in piena luce e trionfa in nome della sua nazione. Plasmato da Libertà stessa attingendo ai pregi di «Alme, già figlie di benigno fato»28 come Scipione l’Africano, Leonida, Temistocle, Mario
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Pareami, in sogno, al sacro monte in cima, sonetto Prefazione a Del Principe e delle Lettere cit., p. 115, v. 13. 23 Non giunto a mezzo di mia vita ancora, in Rime cit., p. 56, vv. 3-4. 24 Cfr. Del Principe e delle Lettere cit., libro II, cap. 5, pp. 154 ss. 25 Oh! chi se’ tu, che maestoso tanto, in Rime cit., p. 47. Per Mosè quale caposetta ed eroe di libertà, cfr. la descrizione, evidentemente debitrice di Machiavelli (Il Principe, cap. VI), in Del Principe e delle Lettere cit., libro III, cap. 5, p. 220. 26 È verso tratto dalla prima lezione delle terzine del sonetto appena citato che si legge nel ms. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana (d’ora in poi BML), Alfieri 13, c. 83r. 27 Cfr. Etruria vendicata, in V. Alfieri, Scritti politici e morali. Vol. II, a cura di P. Cazzani, Asti, Casa d’Alfieri 1966, canto I, vv. 425-432, p. 16: «Michelangiol, che pugne alte ritrarre / Non dovea che dei Numi in Flegra irati; / O di quei che a Termopile le sbarre / Chiusero all’oste coi corpi lor svenati; / O di quei che togliea Roma alle marre / Gran capitani a un tempo, e pro’ soldati: / Michelangiol, da’ rei tempi costretto, / Eroi ritrasse a cui fu campo il letto» (corsivi miei). 28 V. Alfieri, L’America libera, in Scritti politici e morali cit., vol. II, ode IV, v. 36, p. 92. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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e Catone l’Uticense, il perfetto capitano Washington è investito di un’aura sacrale che sfocia nell’agiografia. Descritto mentre indugia saggiamente per non sprecare le vite dei suoi,29 viene infine raffigurato nel mezzo del vittorioso assedio di Yorktown, impresa che gli garantirà certamente il premio dovuto alla sua virtù: una fama immortale.30 A Washington, ricordato anche nel Del Principe e delle Lettere a fianco di Giunio Bruto tra i grandi artefici di rivoluzioni avviate sull’onda di un entusiasmo naturale e non libresco,31 Alfieri sceglie di dedicare proprio il Bruto Primo, istituendo un esplicito parallelismo tra i due personaggi.32 Alla nobile coppia l’autore affianca se stesso: se ad accomunarlo al generale americano è senza dubbio l’«amor della gloria», quest’ultimo è chiamato felice per averla resa eterna dimostrando l’attaccamento alla sua nazione «coi fatti». A sua volta il poeta spera di aver dato prova, attraverso l’esilio intrapreso per «scrivere di libertà», di quell’amore per la propria patria che lo avrebbe acceso «se una verace gliene fosse in sorte toccata».33 Nell’edizione Didot delle Tragedie l’autore non manca tuttavia di riservare uno spazio, accanto al patriota trionfatore, al combattente il cui eroismo ha trovato un ostacolo insormontabile nelle circostanze esterne al suo agire: si tratta di Pasquale Paoli, destinatario del Timoleone quale «Propugnator magnanimo de’ Corsi».34 Attraverso la resistenza armata e la guerra per mare, nel 1768 il patriota aveva condotto Genova a cedere alla Francia i diritti sulla Corsica con il trattato di Versailles, per poi resistere vanamente ai nuovi dominatori nonostante fosse appoggiato dall’Inghilterra. Sconfitto a Borgo e a Pontenuovo (1768 e 1769), si era rifugiato a Londra, da dove sarebbe in seguito ritornato in patria dopo lo scoppio della Rivoluzione. Alfieri apre la dedica del Timoleone smentendo, alla luce della convinzione che ciò che è stato tornerà a ripetersi, l’inutilità di scrivere tragedie di libertà per un popolo non ancora libero. Alla «stoltezza» del volgo che guarda unicamente a «le presenti cose», l’autore contrappone il Paoli, che avendo idea ben diritta d’altri tempi, d’altri popoli, e d’altro pensare, sareste quin-
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Ivi, vv. 97-112. «Or sia che vuol (ma pace esser dovrebbe), / Mai non vedrai, gran duce, ultima sera», ivi, vv. 127-128. 31 Del Principe e delle Lettere cit., libro I, cap. 8, p. 127. 32 «Il Solo nome del liberator dell’America può stare in fronte della tragedia del liberatore di Roma». Tragedie cit., p. 1117. 33 «Felice voi, che alla tanta vostra [gloria] avete potuto dar base sublime ed eterna! L’amor della patria dimostrato coi fatti. Io, benché nato non libero, avendo pure abbandonato in tempo i miei Lari; e non per altra cagione, che per potere altamente scrivere di libertà; spero di avere almeno per tal via dimostrato quale avrebbe potuto essere il mio amor per la patria, se una verace me ne fosse in sorte toccata», Ibidem. 34 Ivi, p. 627. 30
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di stato degno di nascere ed operare in un secolo men molle alquanto del nostro. Ma siccome per voi non è certamente restato che la vostra patria non si ponesse in libertà, non giudicando io (come il volgo suol fare) gli uomini dalla fortuna, ma bensì dalle opere loro, vi reputo pienamente degno di udire i sensi di Timoleone.35
L’impossibilità di vedere la propria virtù vincere sulla realtà non deriva quindi da un difetto del soggetto, ma dalla viltà dell’epoca in cui il Paoli e il poeta si sono trovati a dover affermare quella stessa virtù. Si conferma anche qui l’equivalenza per dignità ed effetti della parola e dell’azione, secondo il dualismo ricorrente “penna-spada” che non a caso ritorna anche nella dedica personalizzata dell’edizione Didot che l’Astigiano avrebbe donato al patriota e che è conservata nel ms. laurenziano 13: «Tu invan col brando, ed io con penna invano / Paoli, destar la Italia vil tentammo: / Vedi or se accenna i sensi tuoi mia mano».36 Il medesimo concetto ricorre in un’altra dedica, questa volta decisamente più tarda, conservata autografa su una copia del Contravveleno poetico,37 la raccoltina anonima di testi di argomento misogallico preparata nel 1799 dallo stesso Alfieri quale antidoto alla dilagante «pestilenza» francese. La quartina – che anche un rarissimo esempio di versi successivi al 1799 e al giuramento di non poetare più – è dedicata a un ignoto Orlandini, come il Paoli presumibilmente uomo d’armi di tendenze antifrancesi: «Estirpatori di una vil genía / Ambo pugniam, forte Orlandini, a prova: / Potess’io, deh, come il bramarlo giova, / Al tuo brando agguagliar la penna mia».38 Se gli esempi sparsi nell’opera alfieriana che abbiamo ricordato sinora postulano la bontà della virtù operosa in nome della libertà quale che sia il suo campo di applicazione, un’alternativa equivalente e altrettanto dignitosa nel contesto di una tirannide viene individuata nella scelta di una virtù nascosta e inattiva. Presente in potenza e non in atto, essa è destinata a rimanere ignota, «sconosciuta», a meno che non intervenga uno scrittore a portarla alla luce e ad additarla quale esempio. Questa seconda via, solo apparentemente paradossale alla luce della poetica individualistica ed eroica che permea l’opera alfieriana, viene teorizzata esplicitamente
35
Ibidem. Ms. BML Alfieri 13, c. 41v; si legge anche in Rime cit., p. 299n. 37 BML Acquisti e Doni 835. 38 C. Mazzotta, Contravveleno poetico per la pestilenza corrente. Scheda 145 in Il Poeta e il Tempo. La Biblioteca Laurenziana per Vittorio Alfieri, catalogo della mostra (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 8 ottobre 2003-11 gennaio 2004), a cura di C. Domenici, P. Luciani e R. Turchi, Firenze, Società Editrice Fiorentina 2003, pp. 246-246 e Id., Contravveleno poetico per la pestilenza corrente. Scheda 12, in «Per far di bianca carta carta nera». Prime edizioni e cimeli alfieriani, catalogo della mostra (Torino, Biblioteca Reale, 29 novembbre-29 dicembre 2001), a cura di V. Colombo, G. Giacobello Bernard, C. Mazzotta e G. Santato, Torino, Editrice Artistica Piemontese 2001, pp. 91-92. 36
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già nel Della Tirannide, dove la condotta prudente di un animo forte e pronto a morire con coraggio nel caso in cui se ne presentassero le circostanze, è accostata a quella dei vari «Curzj», «Decj» e «Regoli»: «Parmi adunque, che nei nostri scellerati governi, i pochissimi uomini virtuosi e pensanti vi debbano vivere da prudenti, finché la prudenza non degenera in viltà; e morire da forti, ogniqualvolta la fortuna, o la ragione, a ciò li costringa».39 Si tratta quindi di una virtù tacitiana40 fondata sulla via di compromesso con i propri tempi, ed esemplare seppure in senso non plutarchiano: se la strada dell’eroismo sublime è infatti ormai pressoché impraticabile e spesso fallimentare (si pensi all’azione coraggiosa ma vana della «Bruta» Carlotta Corday ricordata nel Misogallo41), l’antieroismo di chi si astiene dall’azione pragmatica equivale in dignità alla virtù operosa. Il motivo della virtù sconosciuta – che è tema di ascendenza epicurea nella caratteristica accezione del precetto “vivi nascosto”42 – si trova già lumeggiato in Perché, crudel Fortuna, ognor nemica, un capitolo elegiaco giovanile (febbraio 1777) incentrato sulla lode dell’amico Arduino Tana caduto malamente da cavallo e della «Romana virtù» (pari non a caso a quella di Marco Bruto e dell’Uticense) da lui dimostrata nell’occasione.43 Com’è noto, il leitmotiv trova tuttavia la sua principale espressione nel dialogo omonimo, nel quale la celebrazione della stessa virtù e dell’amicizia si legano inscindibilmente. Quale prima chiave di lettura dell’opera nel senso che stiamo esplorando (e in un contesto che necessariamente non ci consente un’analisi approfondita), possiamo assumere la citazione oraziana con cui si apre il dialogo: «Paulum sepultae distat inertiae / Celata virtus» (“La virtù nascosta è poco lontana dall’inerzia oscura”; Carm. IV, 9, 29-30). Isolata dal suo contesto, la
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Della Tirannide cit., libro II, cap. 4, p. 92. «Questa gloria, quantunque ella paja inutile ad altrui, riesce nondimeno utilissima sempre, per mezzo del sublime esempio; e, come rarissima, Tacito, quell’alto conoscitore degli uomini, la giudica pure esser somma», ivi, p. 91. 41 È evidente, al di là dell’ironia che vena la voce di Robespierre, l’ammirazione alfieriana per il gesto della donna; la descrizione riecheggia il cap. 5 del libro II del Della Tirannide: «Una donzella forte, chiamata Carlotta Corday (che è stata il solo nostro Bruto) entrata nella ferma risoluzione di perder sé stessa per pure trucidar un tiranno, non si elesse perciò di trucidar me. Costei, più assai di coraggio che non di senno fornita, uccise nel bagno un vile fazioso, che per infermità già stava morendosi», Prosa Quinta del Misogallo cit., p. 354. 42 Per la diffusione del tema nella cultura classica, cfr. R. Degl’Innocenti Pierini, «Vivi nascosto». Riflessi di un tema epicureo in Orazio, Ovidio, Seneca, in «Prometheus», XVIII (1992), 2 (maggio-agosto), pp. 150-172. 43 «Qual non ti vidi del dolore a scorno / Tacito starti, immobil, forte, fiero / E di letizia quasi il volto adorno. // O se tristezza pur nel tuo pensiero / Cadde, ben so che allor solo t’increbbe / D’aver picciolo il campo, e ’l cuor sì altiero, // Ch’a mostrar sue virtù loco non ebbe», Rime cit., p. 409, vv. 34-40. 40
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massima oraziana assume una connotazione negativa originariamente del tutto assente: nei versi precedenti, lungi dallo svalutare la virtù dei privati, il poeta latino sostiene infatti che l’oblio li ha colpiti perché la loro grandezza non è stata eternata da un «vate sacro»,44 mentre il nome di Marco Lollio da lui cantato sarà perpetuato dal suo stesso carme. Il trattamento del medesimo tema nella Virtù sconosciuta presuppone da parte dell’Alfieri la conoscenza e anzi il riferimento esplicito al senso specifico dell’ode. Motore della stesura dell’opera è infatti il desiderio di rendere nota una vita altrimenti oscura perché sia d’esempio presso i posteri, malgrado l’apparente paradosso di celebrare un’esistenza che non si segnala sotto nessun aspetto. Come l’Astigiano afferma esplicitamente in una lettera inviata nel 1799 a Tommaso Valperga di Caluso accennando alla scomparsa della Principessa di Carignano avvenuta due anni prima, questo potere è prerogativa del poeta. All’abate, dubbioso di poter celebrare degnamente l’amica che, pur coltissima e intellettualmente vivace, non aveva compiuto o scritto nulla di rilevante, Alfieri risponde ricordando sulla scia di Pindaro (Istmiche IV, 40) il dono dell’autore di far nuovamente esistere nelle proprie opere, purché siano eccellenti, coloro che non possono più «viver da sé»: Del resto non vi voglio poi vedere così spaventato dell’impresa di lodar degnamente la Principessa. Ancorché essa non abbia fatto, ο scritto cosa che la possa far viver da sé, basta che le lodi, ο gli scritti parlanti di lei siano ottimi, ella vivrà in essi. Il Petrarca avrebbe eternato la sua gatta se ne avesse voluto scrivere, quanto la sua Laura. […] Non è mai dunque il soggetto che dee spaventar lo scrittore, padrone egli assoluto di innalzar gli umili, ed umiliare i superbi.45
Sin dal precedente sonetto Dunque fia ver, Tommaso mio, soggiacque, composto nell’aprile 1797 per la morte della principessa e indirizzato all’amico, il poeta aveva invitato il Caluso a eternare questa virtù altrimenti ignota ponendo rimedio al fatto che la donna, «il cui Genio alteramente nacque / Per scorrer l’etra co’ suoi proprii vanni», non avesse lasciato per modestia nulla ai posteri.46 Lo stesso si può dire per Francesco Gori Gandellini, interlocutore e protagonista assieme al poeta del dialogo composto nell’arco di una settimana nel gennaio 1786 e radicalmente rivisto per la stampa nel 1787. La calda amicizia che, a dispet-
44 «Vixere fortes ante Agamennona / multi, sed omnes illacrimabiles / urgentur ignotique longa / nocte, carent quia vate sacro», vv. 25-28. 45 Lettera 371 al Caluso, Firenze, 25 novembre 1799, in V. Alfieri, Epistolario, Vol. III, a cura di L. Caretti, Asti, Casa d’Alfieri 1989, pp. 41-42. 46 «Or, poiché all’empie Parche invide piacque / Negarle il tempo, almen per te s’inganni / E la modestia sua che di lei tacque, / E la possente tenebría degli anni. // Quando alle molte lagrime concesso / Avrai tu sfogo, i pregj allor di lei / Tutti cantando eterna in un te stesso», Rime cit., p. 243, vv. 5-11.
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to delle differenze, univa Alfieri al ricco mercante di stoffe senese era nata nel 1777 in occasione della prima lunga permanenza nella città toscana. Il legame tra i due si fondava in primo luogo sulla comune insofferenza nei confronti del dispotismo e, in seconda battuta, su un culto condiviso del mondo classico, venato di una coloritura repubblicana e di un orgoglioso patriottismo di stampo municipale che il poeta ritrovava anche negli altri membri del «crocchietto» uso a radunarsi nel salotto di Teresa Mocenni.47 Ispiratore della Congiura de’ Pazzi a lui poi dedicata e del trattato Della Tirannide, nonché curatore della stampa del primo volume delle Tragedie Pazzini, il Gori fu l’«amico del cuore»48 del poeta fino alla morte, intervenuta all’improvviso nel settembre 1784 mentre Alfieri si trovava in Alsazia in compagnia della Stolberg. L’idea di dare voce alla vita e alle qualità dell’amico attraverso un qualche scritto è presente nell’epistolario sin dalle lettere inviate a Mario Bianchi e Teresa Mocenni subito dopo la sua scomparsa (il 17 settembre il poeta afferma: «io certamente consacrerò gran parte del tempo che mi resta, e del poco ingegno che posso avere, a far conoscere le sue alte virtù, e in prosa, e in rima, e in ogni maniera ch’io saprò, e ad ogni occasione che mi si affaccerà»49). Il primo cenno esplicito al motivo centrale del dialogo è però in una missiva del 18 febbraio 1786, pochi giorni dopo il completamento della prima stesura: Inoltre ho scritto un’operetta per l’amico, la quale adesso lascio riposare un poco, e poi la farò copiare, e pulirolla, e lei l’avrà certamente nel corrente di quest’anno; e la leggerà poi ai pochi amici comuni; e mi saprà dire se è stata trovata vera, semplice e affettuosa: che sono le tre cose che vorrei che dominassero in essa. Non le dico cosa sia, per lasciarle il piacer della novità; ma mi è parso il miglior mezzo per lodare, e dipingere un uomo, di cui le fatali circostanze hanno impedito le virtù di manifestarsi. L’ho scritta col cuore, onde non so assolutamente cosa sarà quanto all’eleganza, ma ci penserò nel rivederla.50
47
Cfr. per i membri del gruppo e i loro scritti celebrativi delle memorie cittadine, R. Turchi, Dalla Pazzini Carli alla Didot, in Alfieri in Toscana. Atti del Convegno internazionale di Studi (Firenze, 19-20-21 ottobre 2000), a cura di G. Tellini e R. Turchi, Firenze, Olschki 2002, p. 60. 48 Così si apre la dedica della Congiura de’ Pazzi, in Tragedie cit., p. 821. 49 Lettera 91 a Mario Bianchi e Teresa Mocenni, Colmar, 17 settembre 1784, in Epistolario cit., vol. I, p. 190. Cfr. anche lettera 93 ai medesimi, Colmar, 10 ottobre 1784, ivi, p. 196 («Spero ch’io potrò parlar di lui in carta, almeno con sovrabondanza d’affetto e di vera stima per le sue alte virtù, se non con eleganza»); lettera 154 ai medesimi, Colmar, 20 ottobre 1785, ivi, p. 309 («certo nell’ozio dell’inverno non trascurerò di pensare a lui, e di far qualche piccola cosa che lo riguardi, e che non sia indegna di lui»); lettera 315 ai medesimi, Colmar, 29 novembre 1785, ivi, p. 315 («in questa mia solitudine certo verrà il giorno, che pensando dell’amico, potrò fare per lui qualche composizione, che non sia indegna né di lui, né di me»). 50 Lettera 158 a Mario Bianchi, Colmar, 18 febbraio 1786, ivi, p. 318 (corsivi miei). La rivendicazione dell’identità nazionale: biografie e panegirici fra Sette e Ottocento
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Il nucleo originario dell’opera non è però da individuare nella redazione del 1786, ma piuttosto nei sei sonetti composti a «sfogo» del dolore della perdita e ricordati anche nelle lettere agli amici senesi.51 Nei testi si individuano agevolmente tutti gli spunti tematici che costituiscono il palinsesto concettuale dell’opera, primo fra tutti il motivo della virtù nascosta a causa dei tempi. Se in Era l’amico, che il destin mi fura Gori è descritto mentre, con eco dantesca (Pg VI, 66), «Liberissimo spirto in prigion dura / Nato, ei vi stava qual leon che dorme»,52 in Oh più assai che Fenice amico raro il poeta così si esprime: Deh, sapess’io laudarti in stil sì chiaro, Che dal sepolcro il tuo nome traendo, Io nel mandassi riverito e caro All’altre età, cui di piacer più intendo! Ciò per te stesso far potuto avresti Meglio assai ch’io, se avversi i tempi e il loco Non t’eran, dove occulti dì vivesti.53
L’ultimo sonetto della serie (30 marzo 1785), Il giorno, l’ora, ed il fatal momento, confluì nelle Rime a marcare narrativamente la perdita dell’amico nell’ambito della cronologia ideale tracciata nel canzoniere, mentre gli altri cinque, databili tra il settembre e l’ottobre 1784, vennero destinati in prima battuta a comparire all’interno del dialogo con il corredo di alcune interessanti riflessioni di poetica. La radicale revisione dell’opera completata nel 1787 e il mutamento del suo tono complessivo – da enfaticamente declamatorio a piano e affettuoso – avrebbe spinto l’autore, secondo il giudizio di Vittore Branca,54 a estrapolare le liriche dal corpo del testo per collocarle invece in chiusura. Nel suo complesso il dialogo, forma scelta in via definitiva dopo aver quindi
51
Cfr. lettera 94 a Mario Bianchi, Colmar, 1 novembre 1784, ivi, p. 197 («mi si fa di giorno in giorno più caldo il dolore; lo vo sfogando con versi, ma nulla vale: è perdita irreparabile per me»); lettera 123 al medesimo, Pisa, I° aprile 1785, ivi, p. 255 («Ho fatto ieri un Sonetto ancora all’amico: ci penso sempre, e il venir costà m’è dolore quanto piacere almeno»). Per la genesi del dialogo, cfr. I. Becherucci, Dalle ‘Rime’ di Vittorio Alfieri alla ‘Virtù sconosciuta’, in «Seicento e settecento», 2 (2007), pp. 185-203. 52 V. Alfieri, La Virtù sconosciuta, in Scritti politici e morali cit., vol. I, p. 283. Per l’analisi del dialogo si è però fatto riferimento anche all’esemplare edizione curata da Arnaldo Di Benedetto (Torino, Fògola 1991). 53 Ivi, p. 282, vv. 5-11. 54 V. Branca, Esperienze nella prosa lirico-autobiografico-trattatistica (‘La virtù sconosciuta’), in Alfieri e la ricerca dello stile, con cinque nuovi studi, seconda edizione aggiornata, Bologna, Zanichelli 1981, pp. 109-129. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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accantonato la modalità dello sfogo lirico, risulta influenzato, come ha suggerito Angelo Fabrizi,55 dalla lettura appassionata e ripetuta dei Essais di Montaigne, che nel capitolo De la Glorie (II, 16) esalta la «celata virtus» come più illustre e gloriosa di quella protesa verso la fama. La stessa idealizzazione del Gori ricorda da vicino quella condotta da Montaigne nei confronti del carissimo Étienne de la Boétie, prima fra tutti l’idea che l’anima eccellente dell’amico avrebbe potuto lasciare una gloriosa traccia di sé se la fortuna non avesse voluto il contrario.56 A suggerire ad Alfieri l’accostamento della figura del Gori all’antico ideale della vita nascosta fu forse soprattutto l’indole stessa del personaggio, propenso tacitianamente a tenere un comportamento di pragmatica prudenza nel contesto di un regime dispotico. La sorte dell’amico di passare ignoto in questo mondo è riconosciuta dall’Alfieri come frutto di una scelta deliberata, motivata dallo «sdegno dei presenti tempi» e dalla vanità di aggiungere il proprio esempio ai tanti, testimoniati dai libri, in cui già si può imparare come vivere rettamente. Nell’ultimo colloquio oltratombale con il poeta, l’anima scongiura anzi quest’ultimo di non dare alle stampe i suoi lavori sui più importanti cicli pittorici senesi che Alfieri aveva effettivamente pensato in un primo tempo di pubblicare,57 e di lasciarlo sopravvivere unicamente nel suo cuore. Antitetica, seppure le figure e le voci di Vittorio e Francesco giungano spesso a sovrapporsi, è naturalmente l’opzione del poeta, che ha scelto la via della scrittura, ovvero di una virtù attiva pari per dignità a quella combattente, per guadagnarsi la gloria e garantire vita perpetua a chi, come Gori, non l’ha ottenuta in proprio. Vittorio […] Eppure degno non eri, né sei, di questa morte seconda; e se io lena e polso mi avessi, se dal pietoso alto e giusto desio d’onorare eternando il tuo nome, pari all’ardore le forze traessi; se in pochi, ma caldi periodi mi venisse pur fatto di esprimere la quintessenza, direi, della sublime tua anima; di quella fama che tu non curasti, verrei forse io in tal guisa ad acquistartene parte; non tutta, no, mai; che ciò solo alla tua luce creatrice aspettavasi, non alla mia per sé stessa sì poca, e che se nulla in tant’opra valesse, tutto terrebbe dalla sublime dignità del soggetto. Francesco La tua amicizia per me in ciò ti lusinga, non men che l’amor di te stesso. Fama non ottiene, e non merita, chi per acquistarla instancabilmente non spese il sudore, il sangue, e la vita. Tu da te stesso la speri, ben so, co’ tuoi scritti: a ciò t’inco-
55
A. Fabrizi, Montaigne, in Le scintille del vulcano. Ricerche sull’Alfieri, Modena, Mucchi 1993, pp. 163 ss. 56 «un’ame à la vieille marque: et qui eust produit de grands effects, si sa fortune l’eust voulou». Essais, II, 17. 57 Cfr. ad es. lettera 154 a Mario Bianchi, Colmar, 20 ottobre 1785, in Epistolario cit., vol. I, p. 309. La rivendicazione dell’identità nazionale: biografie e panegirici fra Sette e Ottocento
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raggiva pur io, credendoti, per tue circostanze ed età, più di me atto ad entrar nell’aringo […].58
I due personaggi in cui Alfieri atteggia sé e l’amico, sottoponendo entrambi a un’idealizzazione strumentale che parte in ogni caso dal dato biografico, incarnano insomma i due modi distinti ma paritetici per affrontare la stasi e la corruzione del mondo che abbiamo visto segnare tutta l’opera del poeta. Ciò non toglie che, nei fatti e al di là della scultorea effigie di sé tramandata ai posteri e dai posteri mitizzata, lo stesso Alfieri abbia negli anni praticato in prima persona l’arte della prudenza e della dissimulazione teorizzata nel Della Tirannide (si pensi ad esempio alle «pieghevolezze e astuziole cortigianesche» attuate secondo la Vita per restare vicino alla Stolberg). Con la pubblicazione del dialogo nell’ambito delle opere stampate a Kehl stiamo peraltro già entrando a grandi passi nel clima del “disinganno di gloria”59 che caratterizzerà l’ultimo decennio fiorentino. Il trauma provocato dalla Rivoluzione e dal crollo delle utopie politiche sviluppate in gioventù spingerà il poeta, secondo quanto emerge nel “diario” delle Rime,60 a rinnegare la bontà della scelta dell’esilio patriottico, bollandolo come il frutto dell’insofferenza giovanile e a preferire, «domo or da lunga esperïenza, e mite / Dai maestri anni, […] i guai delle contrade avite».61 La via del compromesso con i tempi, simboleggiata dalla scelta di tornare a vivere in una patria ancora schiava, al momento di fare davvero i conti con la realtà rimane con rammarico la sola strada realmente praticabile per l’uomo libero. Che farai tu, se armato eri e di mente Alta, e di fiera non flessibil ugna? – Dove men varie e men tacenti leggi Un qualche albergo passeggier si avranno, Passeggiera ivi pur tua stanza eleggi. Cotale usando a servitude inganno, Se fra discordi brame non ondeggi, Viver puoi forse col minor tuo danno.62
58
La Virtù sconosciuta cit., p. 262. Cfr. lettera 238 a Teresa Mocenni, Parigi, 4 gennaio 1792, in V. Alfieri, Epistolario. Vol. II, a cura di L. Caretti, Asti, Casa d’Alfieri 1981, p. 73: «Oh s’ella sapesse come mi son disingannato della gloria! appena aveva finito di stampare, che già m’entrava il disinganno a gran passi nel cuore; ed ora solo vi regna, e va cacciando ogni cosa». 60 Per l’idea del canzoniere come «diario» lirico a cui il poeta «affidava giorno per giorno i suoi sentimenti e i suoi pensieri», si veda M. Fubini, Petrarchismo alfieriano [1931], in Ritratto dell’Alfieri e altri studi alfieriani, seconda edizione accresciuta, Firenze, La Nuova Italia 1963, p. 67 e passim. 61 Per la decima volta or l’Alpi io varco, in Rime cit., pp. 216-217, vv. 9-11. 62 L’obbedir pesa, e il comandar ripugna, ivi, p. 232, vv. 7-14. 59
XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
LUCA GALLARINI Dai ‘Ritratti umani’ al mito: la ‘Rovaniana’ di Carlo Dossi
All’inizio del secolo scorso, quando rinnova l’antica promessa di dare alle stampe una biografia di Rovani, Carlo Dossi soffre da tempo di un precoce oblio. Mentre nel Màrgine alla Desinenza in A (1884) poteva chiedersi «¿Chi siete voi, mièi inèditi crìtici?»,1 a quest’altezza i lettori sono pochi sodali superstiti, e persino un critico non certo «inedito» come Benedetto Croce fatica a trovare, sul suo conto, informazioni aggiornate. Carlo Dossi, l’autore dei libri di cui mi domandate – gli risponde Francesco Novati, cofondatore del «Giornale storico della letteratura italiana» – non ha nulla a che vedere col Pisani Dossi che sta a Como e s’occupa di archeologia. Io non credo che l’autore di quegli scritti sia ancor tra i vivi; converrebbe chiederne a qualcheduno addentro nelle cose milanesi di 30 anni fa.2
Eppure Novati conosceva bene, se non Carlo, almeno l’archeologo e bibliofilo Alberto.3 Ciò suggerisce che al Dosso Pisani, tra i lari e i penati del «portico dell’amicizia», l’attività letteraria era ormai derubricata a esercizio privato o a segreto per
1
C. Dossi, Opere, a cura di D. Isella, Milano, Adelphi 1995, p. 666. B. Croce, F. Novati, Carteggio Croce-Novati, a cura di A. Brambilla, Bologna, il Mulino 1999, p. 109. Lettera del 4 settembre 1904. 3 I rapporti epistolari tra Carlo Dossi e il Presidente della Società Storica Lombarda sono stati ricostruiti, sulla base del Carteggio Novati depositato presso la Biblioteca Nazionale Braidense di Milano, da Alberto Brambilla nel saggio Carlo Dossi tra Croce e Novati, in «Annali dell’Istituto universitario orientale di Napoli», sezione romanza XXXVII, 1, 1995, pp. 111-20. Motivo del contatto fu l’edizione, a cura dello stesso Novati, del Flos duellatorum di Maestro Fiore (Istituto italiano d’Arti grafiche 1902). In veste di collezionista di libri antichi, Dossi vi contribuì mettendo a disposizione dello studioso il manoscritto dell’opera in suo possesso. 2
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i frequentatori più intimi. Rimettendo mano alla Rovaniana, interrotta molti anni prima, Dossi intendeva dunque rinnovare, oltre al ricordo del maestro «dileguato nell’oblio»,4 la propria immagine, da tempo offuscata, di intellettuale e scrittore. La riscoperta di Rovani permetteva di fissare genealogie ad usum delphini, rievocava per i nuovi lettori la Milano dei decenni a cavaliere dell’unità d’Italia e restituiva così ai «romanzi del bimbo e dell’adolescente»5 l’aura delle cose realmente successe «l’altrieri». In effetti la monografia lumeggia una linea lombarda trimembre (Manzoni – Rovani – Dossi) e, di concerto, apre un varco nostalgico su una «capitale morale» perduta. Un varco destinato però a richiudersi molto presto: la gestazione del libro si trascina, a fasi alterne, fino al 1909, quando Dossi getta la spugna e affida la conclusione del lavoro al fedele Gian Pietro Lucini, che già collaborava alla riedizione Treves dell’opera omnia dossiana.6 I dissidi subito sopraggiunti tra Lucini e la vedova Borsani, nonché la scomparsa dello stesso Lucini nel 1914, condannano la Rovaniana a rimanere incompiuta.7 Oggi possiamo dire che l’impresa aveva scarse possibilità di successo: le ragioni del fallimento sono da ricercare non tanto nella morte prematura del biografo, quanto piuttosto nella debolezza intrinseca al programma di rilancio personale e di recupero di una temperie culturale sepolta. A giudicare dall’indice e dai capitoli rimasti o solo in minima parte abbozzati,
4 F. Novati, recens. a C. Dossi, Fricassea critica di arte, storia e letteratura, in «Archivio storico lombardo», serie IV, VI, 1906, pp. 533-4. 5 C. Dossi, Autodiàgnosi quotidiana. Prefazione, a cura di L. Barile, Milano, Scheiwiller 1984, p. 9. 6 G. P. Lucini, Prose e canzoni amare, Firenze, Vallecchi 1971, p. 465: «Il Sesto [volume delle Opere] stamperà la Rovaniana. Ella sa che non è completa per quanto conti già di fatto dalla mano di Carlo Dossi quattordici capitoli. Altri rimangono a me personalmente affidati sino dal 1909 perché, dietro le sue indicazioni, tracciate capitolo per capitolo, li volessi condurre a termine. Non le nascondo il mio giusto orgoglio per essere stato prescelto da lui a suo continuatore, e farò di tutto per meritarmi la soddisfazione di averlo compreso e determinato come debbo» (lettera a Primo Levi del 16 gennaio 1911). 7 Il proposito di pubblicare un profilo storico-critico di Rovani comincia a prender corpo nella seconda metà degli anni Settanta; subisce poi una battuta d’arresto fino alla metà del decennio successivo, quando il Proemio e il primo capitolo (Il signor Gaetano Roano, orefice) vengono anticipati sulla «Riforma illustrata» (prima e terza dispensa, 1885-6). In occasione dell’anteprima su rivista, Dossi e Perelli promettono di pubblicare l’opera nel «biennio 1886-87», ma nel giro di poco tempo il progetto viene di nuovo sospeso, forse per via di impegni concomitanti (Amori) e per le difficoltà incontrate nella ricerca di informazioni e documenti. La stesura viene infine ripresa a distanza di molti anni, verosimilmente dopo il pensionamento forzato del 1901. Cfr. C. Dossi, Note azzurre, Milano, Adelphi 2010, nn. a. 3496, 3850, 5081, 5745; cfr. anche C. Dossi, G. P. Lucini, Carteggio inedito tra Carlo Dossi e Gian Pietro Lucini (1902-1907), «Il convegno», XIV, n. 1-2, 25 marzo 1933.
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Dossi ripercorre la vita del romanziere milanese privilegiando le chiavi di lettura, coerenti con l’immagine coltivata a lungo dallo stesso Rovani, dell’anticonformismo e di una sana goliardia, senza indulgere in una rigida scansione lineare degli eventi. Entro l’arcata cronologica che si avvia con la storia del padre, per concludersi con la morte dello scrittore, troviamo coppie oppositive e/o complementari, che testimoniano per confronto o contrasto la grandezza del biografato (Rovani e Manzoni, Rovani e Gorini, Rovani e i creditori, Rovani e la Morte, Rovani e la Gloria); a queste si aggiungono i capitoli dedicati ai luoghi in cui Rovani esercitava la sua scanzonata attività di critico, secondo la solita alternanza di ritrovo ufficiale e perorazione en plein air o davanti a un bicchiere di assenzio (Alla Scala/Brera e Lumetta, Una lezione all’aria aperta/Casa Confalonieri, Teatro Milanese/Sui gradini del Duomo). Non mancano infine alcuni approfondimenti sugli aspetti più controversi e, ovviamente, sulle due opere principali (Cento anni, La giovinezza di Giulio Cesare). Dossi riprende qui una riduzione prospettica, suggerita in gran parte dal diretto interessato, che ebbe poi larga risonanza in occasione di necrologi, ritratti e celebrazioni varie: cassati i primi romanzi storici (argomento, assieme ai lavori teatrali, del capitolo Prime armi), sminuite le appendici Eleonora da Toledo e La Libia d’oro, Rovani viene ricordato solamente come l’autore dei Cento anni e del tardo romanzo su Giulio Cesare. Per un verso, dunque, la Rovaniana riformula in senso umoristico la struttura canonica della biografia grazie alla tecnica della preterizione (che introduce aneddoti e digressioni),8 e al contempo modera la tendenza agiografica del genere delle vite illustri grazie a una stilizzazione a tratti persino sadica del personaggio Rovani, che oscilla pericolosamente tra l’artista bohemienne e il letterato da strapazzo; per l’altro si salda all’ultima produzione dossiana (Dal calamajo di un medico, Campionario), con la quale condivide la collaudata farcitura a bozzetti satirici, godibili ma lontani anni luce dalla brillante inventiva degli esordi. Ciò che tiene assieme l’opera è il comune denominatore ambrosiano, in stretta connessione e polemica con la compagine nazionale: Rovani è «onor di Milano e però dell’Italia».9 Recuperando il primo si recupera agli occhi dell’intero paese non solo un modello di letteratura, ma una forma di civiltà naufragata, a detta di un
8 Il seguente testo: C. Dossi, Rovaniana, a cura di G. Nicodemi, Libreria Vinciana 1946: «Non affrettatevi, lettore, a temere che vi si voglia far seguire il nostro eroe, per ora, in erba, di vagito in poppata, di fascia in pannolino, di carrello in cercine. […] Sol che, a proposito della balia…» (p. 35). «E neppure sarebbe il caso di tramandare ai posteri il bacio dato dal settenne Rovani ad una sua condiscepola…» (p. 37). Cfr. anche la chiusa del capitolo sull’esilio: «Ma noi in questo capitolo volevamo parlare principalmente di Rovani e invece ci siamo occupati quasi esclusivamente di Cattaneo» (p. 90). 9 Ivi, Rovaniana cit., p. 19.
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Dossi grevemente conservatore, in «una invasione di birra, di calembourg irritanti, di rabbiosa musica ed anche, dobbiamo pur dirlo, di veneti, di piemontesi, di napolitani, buoni fratelli finché si vuole, ma a casa loro».10 Non sorprende, di conseguenza, che il primo capitolo del libro sia riservato alla vita leggendaria del Signor Gaetano Rovano Orefice «in contrada di S. Protaso al Foro, di faccia al Zancarini vinajo».11 La storia del piccolo commerciante risponde in parte al vecchio adagio «tale padre, tale figlio», che prefigura e spiega con semplici paralleli il comportamento di Giuseppe, ma soprattutto consente di riesumare un microcosmo portiano a cui l’autore guarda con malcelata nostalgia. Rispetto al poeta, il nostro Carlo prosatore è refrattario a qualsiasi slancio di adesione romantica a una Milano autenticamente popolare: ad animarlo è piuttosto il disprezzo nei confronti della piccola borghesia cittadina, culla di una mentalità bottegaia che travalica i bastioni e assurge a ideologia nazionale. Ne deriva la spinta a vagheggiare, all’ombra del Duomo, un passato incontaminato, nel cui pacioso ma non sciocco buon senso Dossi rinviene, beninteso su scala (gerarchica) minore, un modo di vivere affine a quello dell’artista «dedito a un’attività eminentemente libera e disinteressata».12 Nasce così il personaggio di Gaetano Rovano, che sprizza spirito lombardo da tutti i pori, a partire proprio dalla desinenza in -o del cognome, segno di una genuinità non corrotta dal narcisismo pubblicistico del nom de plume.13 La raffigurazione del padre di Rovani rovescia lo stereotipo del negoziante tutto casa e bottega nella fisionomia, altrettanto unidimensionale ma di segno e valore opposto, del «bardo» (e ubriacone) da osteria. Pur essendo «peritissimo nell’arte sua»,14 Gaetano rinvia ogni mattina i clienti alle calende greche («può tornare l’anno che viene»):15 non trova spazio in lui il tarlo del lavurà e danè («gli mancavano sempre parecchie migliaia di lire per non avere nulla»),16 pur conservando il piglio «del milanese, tipo scettico fin nel midollo dell’animo, e che mette tutto in canzone, a cominciare da sé, ma tipo eroico se occorre».17 Più che teorie ammuffite sull’origine popolare dall’arte, preme a Dossi rievocare o inventare un mondo vieux Milan pacificamente omogeneo, in cui ognuno
10
Ivi, p. 27. Ivi, p. 25. 12 V. Spinazzola, Letteratura e popolo borghese, Milano, Unicopli 2000, p. 89. 13 Rovaniana cit., p. 32: «Ma chiamare Vittorio Roano, Giuseppe Rovani, sarebbe come chiamare Voltaire col suo originario cognome d’Arouet. Ed egli volle essere sempre chiamato esclusivamente Rovani, non mai Giuseppe, o Peppino, o Rovanella, se no, guai!, dava in escandescenze». 14 Ivi, p. 26. 15 Ivi, p. 25. 16 Ivi, p. 27. 17 Ibidem. 11
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sapeva stare con dignità al suo posto, senza scadere a «chair à canon, canaglia, e oggidì (giorni di lojolesca pietà), popolino»;18 un mondo nel quale tutti partecipavano, complice la comune «lingua ambrosiana», a riti collettivi e identitari come i discorsi e i racconti improvvisati all’osteria, senza per questo ignorare i moti che scoppiavano fuori e dentro le mura cittadine. Lo scambio di battute tra Gaetano e un soldato austriaco non lascia dubbi in proposito: «Wer da? (chi è là?) […] coppet (accoppati!)».19 Fatto salvo qualche modesto screzio generazionale («Hai troppo studiato. Non capisci più nulla»)20 e un diverso percorso lavorativo, Rovani segue idealmente le orme del padre, ereditandone i difetti a sfondo alcolico ma accogliendone il lascito antropologico, vale a dire lo «stampo antico» che scioglie in noncurante bonarietà le inquietudini di Carlo e compagni. Nel «microscopico Parigi della Lombardia» (Cletto Arrighi) le vie non sono certo larghe e trafficate come i grands boulevards di Haussmann, ma la perdita dell’aureola è anche qui uno spiacevole incidente che coinvolge letterati poeti romanzieri. «Nato con istinti di vestale, fui condannato al postribolo». Non sappiamo se con questa frase Rovani alludeva alla carriera giornalistica che gli toccò battere, ma occorre subito aggiungere che egli si comportò così nobilmente in essa – la quale a suoi tempi era ancora fra le carriere maledette – da lasciarla quasi purificata dalla sua presenza.21
Rovani è in buona sostanza un precursore di successo: è stato capace di sporcarsi le mani senza però prostituire il «cuor grande e fidente» e la «spensieratezza d’artista»;22 non si è lasciato corrompere dalla speculazione libraria che tanto alletta e tanto sgomenta, con risvolti nevrotici, la generazione che entra in scena negli anni Sessanta dell’Ottocento. Le tappe del cursus honorum le ha percorse tutte, inanellando risultati non sempre felici, ma con un candore che commuove oggi come un secolo fa, al tempo del Dossi biografo. Milanese fino al midollo, Rovani appartiene costitutivamente a una civiltà che ai titoli nobiliari antepone le qualità borghesi dell’ingegno e della creatività: l’impiego alla biblioteca di Brera è sì un «piccolo posto che gli permette di morire dignitosamente di fame»,23 ma Giuseppe ribalta in punto di forza l’oscuro surmenage del travet: [forse] sbagliamo, lamentandoci, per conto del nostro amico che l’impiego governativo non gli fosse largo se non di bolletta, mentre invece nessun maggior compenso
18
C. Dossi, Opere cit., p. 934. Rovaniana cit., p. 27. 20 Ivi, p. 38. 21 Ivi, p. 137. 22 Ivi, p. 140. 23 Ivi, p. 103. 19
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avrebbe potuto desiderare ed aspettare di quello che Brera gli dava o prometteva. E, difatti, l’assiduo contatto con tante anime insigni di trapassati gli mantenevano il sangue in feconda agitazione.24
Scrive inoltre su giornali e gazzette, si dà al pamphlet politico (Daniele Manin) e alla storiografia artistica (Storia delle Lettere e delle Arti in Italia), s’improvvisa storico di una «nazione sorella» (Storia della Grecia negli ultimi trent’anni. 1824-1854); redige infine, sotto pressione pecuniaria e governativa, un reportage della visita in Lombardia dell’imperatore austriaco («l’offerta era un invito, anzi un comando»).25 Persino quando, nel 1859, diventa comproprietario della Gazzetta di Milano, conserva l’operosa umiltà degli esordi: «doveva provvedere non solo alla parte di cui era già donno e signore ma anche in quella degli articoli, così detti di fondo».26 Vero è che la frenetica attività pubblicistica non sollecita in alcun modo la riflessione sulle dinamiche socio-produttive della modernità urbana: conosce piuttosto il contrappasso della fuga in un passato tanto lontano quanto rassicurante, con un movimento a gambero che dalla caduta di Venezia (1849) arriva giù fino alla Giovinezza di Giulio Cesare. A Dossi, che alla «carta sporca» preferiva filigrana giapponese (Amori) e raffinati fascicoli azzurri, ciò poco importa: l’autore dei Cento anni è pur sempre colui che ha saputo nobilitare la vituperata scrittura giornalistica, elevandola al rango di «filosofia» o «studio critico». In questo campo, tuttavia, non c’è alcuna eredità da raccogliere: il talentuoso Rovani, o per meglio dire il personaggio uscito dalla penna di Dossi, non indica soluzioni né si propone come modello da seguire, è solamente il canto del cigno di una cultura municipale oramai scomparsa, e all’orizzonte non si scorgono successori. Tanto vale allora, con discreto anticipo rispetto ad altri futuri gran lombardi (Bontempelli, Gadda, Arbasino), migrare verso nuovi lidi, o fare carriera, con un voltafaccia clamoroso, nella città che ha ridotto Milano a capitale «morale», per poi ritrarsi silenziosamente in un castello à la Ludwig, come «pio cultore»27 di reliquie affettive e ambrosiane. Nell’altro campo invece, quello più propriamente letterario, l’eredità c’è eccome, e va rivendicata con orgoglio. La ricerca di un legame con la tradizione autoctona («Manzoni nella nuova letteratura italiana rappresenta la primavera, e Rovani l’estate. Rappresenterà Dossi l’autunno?»)28 è perseguita per via genealogica, non
24
Ivi, p. 105. Ivi, p. 152. 26 Ivi, p. 141. 27 L’espressione è di Guido Lucchini. C. Dossi, La desinenza in A, Milano, Garzanti 1996, p. XV. Alla fine del 1871 Dossi si trasferisce a Roma per intraprendere la carriera diplomatica. 28 N. a. 1898. 25
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tipologica, vale a dire per filiazione diretta maestro-discepolo, non per effettiva consonanza con le scelte di scrittura: ecco perché l’accoppiamento con Rovani, epigono del romanzo storico ed esponente della letteratura romantico-risorgimentale, suona oggi ben poco giudizioso. L’aristocratico Dossi anticipa dunque un modus operandi che in futuro, in linea con la «funzione Gadda», sperimenteranno altri colleghi difficilmente classificabili (Arbasino, Pasolini, Testori): nella genealogia letteraria, come in quella gentilizia, a volte «i nipotini gènerano i nonni».29 È evidente il tentativo di trovare una collocazione «in coda» agli artisti che hanno reso grande Milano, rispetto alla quale il senso di appartenenza si fa tanto più vivo quanto maggiore è il fastidio per i «Carcanini»30 e il rimpianto per la stagione perduta. Anche la figura di Rovani viene messa a fuoco entro coordinate lombarde: si comincia nel segno di Manzoni; segue poi «l’assidua familiarità» con Cattaneo durante l’esilio a Capolago (1849); infine, a specchio di quanto già avveniva nello studiolo di Alberto Pisani, «Rovani, artista-scienziato, si appressa a Gorini, scienziato-artista».31 Come però suggerisce l’ardito apparentamento a chiasmo con il «Mago» lodigiano, non si tratta di legami diretti, bensì di agganci più o meno forti a una comune matrice culturale: la «mistica strettissima parentela» tra Rovani e Manzoni non differisce granché, quanto a vaghezza poetica e dispendio di metafore, dalla «stoffa preziosa» o «aurea pepita» di cui Rovani e Cattaneo sarebbero, stando all’autore, recto e verso. Se per Cattaneo è ancora possibile individuare, a corollario della trasferta ticinese, (poche) prove concrete che ne attestino il magistero,32 nel passaggio a Manzoni e Gorini la scrittura finisce per coagularsi attorno a grumi aneddotici, che preludono all’afasia critica e all’abbandono del progetto biografico. Dei tre punti cardinali, Manzoni è senza dubbio il più importante, tanto da segnare indelebilmente la vita del «Rovani fanciullo», a cui rivela nientemeno che una vocazione alle belle lettere: alla tenera età di nove anni – ci racconta Dossi – il piccolo Giuseppe andava a piedi fino a Brusuglio per vedere il maestro passeggiare
29
Cfr. il seguente passo dossiano: «In questo ripescato esemplare, né il frontespizio né i màrgini han mantenuto le vostre riveritìssime firme. Ogni suo ùltimo possessore – imitando quanto si tenta ora di fare nella genealogìa letteraria, a differenza della gentilizia in cui i nipotini gènerano i nonni – raschiò diligentemente il nome dell’antecessore». C. Dossi, Opere cit., p. 666. 30 Ivi, p. 125: «Per fare il Manzoni, èccoci Carcanini!». Il riferimento è ovviamente a Giulio Carcano. 31 Ivi, p. 86. 32 Rovaniana cit., p. 97: «Negli scritti di Rovani si trovano trasportati di pianta e fusi molti modi di dire di Cattaneo, per es. […] l’uso frequente dell’onde come nesso grammaticale così utile». Cfr. p. 400: «Nello scrivere abbondano gli onde (fin troppo)». La rivendicazione dell’identità nazionale: biografie e panegirici fra Sette e Ottocento
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nel giardino della sua villa. Stupisce però in Rovani l’assenza di una riflessione su quello che è forse il più significativo nodo concettuale manzoniano: il rapporto tra libertà individuale e responsabilità sociale, messo acutamente in risalto dall’intreccio, tipico del romanzo storico, di minuti fatti d’invenzione e avvenimenti epocali.33 Anche quando l’autore mette da parte i Manfredi e i Lamberti,34 i personaggi cosiddetti umili non sono mai veramente tali: scevri di natali blasonati, svettano in virtù di incredibili qualità artistiche, fisiche o intellettuali, che li introducono nel novero di coloro che nel bene o nel male fanno la storia. Non si tratta più, allora, di inscenare dubbi dissidi paure che riguardano ogni uomo, Tramaglini e Mondelle compresi, bensì di rappresentare individui eccezionali che muovono le fila dei destini altrui: su tutti campeggia Donna Paola Pietra, infallibile versione in chiaro di Suor Virginia monaca a Monza. Agli occhi di Rovani, Don Alessandro rimane tuttavia un nume saldamente al di qua dell’«agonia» diagnosticata da Emilio Praga: ciò forse a Dossi bastava, per rispolverare il retaggio ambrosiano di un paese divenuto svagato e immemore.35 La galleria di glorie regionali misconosciute prosegue con Cattaneo, «splendore di Lombardia e d’Italia, [che] venne bandito dall’Italia nuova, com’era stato bandito dalla vecchia».36 Per Rovani è un fratello maggiore: oltre all’esilio elvetico, li avvicinano la propensione al giudizio lapidario, sulla scorta di «antipatie invincibili» (a spese magari del «noto industriale di storia» Cesare Cantù); la familiarità con la «carta sporca» di riviste e gazzette e, soprattutto, un tenace affetto municipale, che nel primo si declina in campagne giornalistiche per la salvaguardia della vecchia Milano, e in Cattaneo nell’attenzione prestata al rispetto delle diversità culturali dell’Italia unita. Dall’orgoglio cittadino ferito hanno origine, rispettivamente, la deprecatio dell’oggi («R[ovani] desiderava che il Piemonte si assimilasse la Lombardia non che si sovrapponesse»),37 e il ripiegamento regressivo in provincia: «sti napoletani che quand scriven ben, scriven inscì mal. Ti consegni poeu quand scriven mal. Ah, mi torni a Castagnola».38 Lungi dal testimoniare un’ospitalità genuina, «fra quella brava gente così premurosa per gli stranieri che spendono e pagano»,39 il domicilio tici-
33
Cfr. V. Spinazzola, Il libro per tutti. Saggio su ‘I Promessi Sposi’, Roma, Editori Riuniti 1983. G. Rovani, Lamberto Malatesta, Milano, Ferrario 1843; e Manfredo Palavicino, Milano, Borroni e Scotti 1845-6. 35 Cfr. F. Vittori, Giuseppe Rovani tra Manzoni e gli Scapigliati, in AA. VV. Il «Vegliardo» e gli «Antecristi», Milano, Vita e pensiero 1978. 36 Rovaniana cit., p. 86. 37 Ivi, p. 143. 38 Ivi, p. 87. 39 Ivi, p. 79. 34
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nese riflette piuttosto l’irriconoscenza di una Milano che non riconosce più nemmeno se stessa. Catalogato tra i «maggiori», il Gorini imbalsamatore del corpo di Rovani entra nella Rovaniana con la promessa, non mantenuta, di una successiva biografia ad hoc (Goriniana). Gli esperimenti del «Mago» dovevano certo accrescere l’interesse per il macabro comune a molti Scapigliati, ma la sua figura sembra qui proporsi come ultimo, irripetibile trait d’union tra arte e scienza, in un momento storico in cui a rivendicare il primato, senza troppe cerimonie, è il sapere tecnico-scientifico. Nel confronto con Rovani, ricostruibile grazie al bozzetto Gorini a tavola raccolto nella Fricassea, emerge una concordia discors che non rinnega mai stima e rispetto reciproci. I due geni lombardi scontano la diffidenza dell’ufficialità accademica e condividono amici del calibro di Luigi Perelli e Carlo Dossi, mentre le rispettive e opposte predilezioni per «l’acqua rossa» (Rovani) e la «bieca acqua» (Gorini, notoriamente astemio) sono metafora di una distanza palese ma non ancora incolmabile. Se prendiamo infine in esame i capitoli dedicati alle fatiche letterarie di Rovani, vediamo subito che Prime armi stronca sonoramente i drammi Don Garzia Bianca Capello Simone Rigoni e il trittico romanzesco Malatesta – Candiano – Palavicino; Cento anni allude al romanzo omonimo per poi occuparsi d’altro; La giovinezza di Giulio Cesare è un misero scheletro di ragguagli bibliografici. Prive della licenza di coabitare con le opere maggiori, le sfortunate Libia d’oro ed Eleonora da Toledo («ritagli avanzati»)40 devono accontentarsi di una noticina a margine di Prime armi. Qualcosa, è evidente, non quadra; eppure si intuisce che le premesse non dovevano mancare di buon senso ermeneutico: il percorso artistico di Rovani disegna una classica parabola, dove agli strafalcioni della gioventù seguono «il meriggio del suo sole»41 e il crepuscolo, in attesa, beninteso, di un rilancio verso la gloria. Senonché Dossi rinuncia a una rilettura personale della vasta quanto discontinua produzione rovaniana: preferisce ritagliare, da alcuni vecchi numeri dell’Italia musicale (12 e 15 gennaio, 12 marzo 1853), un Profilo letterario-artistico redatto dallo stesso Rovani, il quale si lancia in un’allegra stroncatura dei propri libri.42 Ce n’è davvero per tutti i gusti: si va dai brucianti dinieghi («una tragedia e due drammi furono letti e meritatamente respinti da due Compagnie drammatiche») alle illusioni fomentate dalla miopia del recensore («l’autore imberbe e malpratico e tanto quanto sfaccia-
40
Rovaniana cit., p. 61. Ivi, p. 199. 42 La paternità rovaniana della stroncatura è stata segnalata da Monica Giachino e confermata da Valentino Scrima. Cfr. l’introduzione a Giuseppe Rovani, Valenzia Candiano, Milano, Istituto propaganda libraria 1993, e Valentino Scrima, Giuseppe Rovani critico d’arte, Milano, Led 2004, p. 13. 41
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tello si trovò che non era rimasto troppo al disotto nel terribile confronto col grande Alfieri»).43 Dossi, insomma, giudica gli esordi rovaniani attraverso il filtro di una palinodia-parodia ideata dallo scrittore come spregiudicata captatio benevolentiae, per accreditarsi nelle vesti di critico di fiducia presso gli abbonati dell’«Italia musicale»: «non faccio sconti a nessuno – ci suggerisce Rovani – nemmeno a me stesso». Al di fuori dal contesto d’origine, la ricusazione del passato perde vivacità e suona ancor più crudele e impietosa, in contrasto con la bonarietà un tempo auspicata in materia di «scrittori novellini». La vera impasse scocca tuttavia di fronte all’incapacità di render conto del primato accordato ai Cento anni: l’elogio dello «stile onnilatere e onnipotente, […] veramente italiano ed odierno, luminoso e pieghevole»,44 nel giro di poche righe trascolora nella tautologia («I Cento Anni sono i Cento anni»), a cui segue, mediante un guizzo stilistico che occulta l’assenza del nesso logico, la riproposizione di una parte del Preludio. In coda ecco ben due capitoli di estratti dalla «Gazzetta di Milano» (Preludio d’intermezzo, Due parole ai lettori), e un Attestato di perfetta costituzione fisica e morale: poi più nulla, se non abbozzi, note azzurre riciclate e aneddoti raggruppati sotto l’egida di titoletti intriganti. In definitiva, il passaggio dalle peripezie del Galantino e di un testamento trafugato nottetempo alle «interessantissime […] digressioni con i lettori, delle quali non poche meritano di essere conservate»45 si rivela un salto mortale per il progetto della Rovaniana. Nel momento in cui, però, l’ingombrante presenza dei romanzi viene magicamente abrasa, Dossi ritrova, per l’ultima volta, una consonanza profonda con il predecessore. L’«io ancor io»46 di Rovani rivive nel colloquio scamiciato con un pubblico al quale si rivolge «come il lettore non vuole»,47 precorrendo così il «Dossi [che] parla per suo conto»48 e l’angoscia scapigliata della pagina bianca: «l’affar più serio è incominciare. Sono venti giorni che andiamo in cerca della prima riga del nostro romanzo».49
43
Rovaniana cit., pp. 43-44. Ivi, pp. 199-200. 45 Ivi, p. 203. Fra i tardi progetti dossiani vi era anche la raccolta in volume degli Intermezzi. Cfr. la n.a. 5745 e Rovaniana, p. 139: «Degni di speciale attenzione e importantissimi per la cronaca dell’animo di Rovani, mentre scriveva quei due incliti libri [Cento anni e La giovinezza di Giulio Cesare] sono gli intermezzi, coi quali ne collegava le parti frammentarie sulla stessa Gazzetta, talvolta per scusare i ritardi della pubblicazione e per rispondere ad osservazioni dei lettori. Quegli intermezzi […] meriterebbero di essere raccolti in un volume a sé, e questo ci proponiamo di fare noi stessi». 46 N. a. 2271: «Il noi di Manzoni vale io e il lettore – il noi di Rovani vale io e ancor io – chè ei vale per due – l’io del Dossi vale io sol’io». 47 N. a. 2305. 48 Ibidem. 49 Rovaniana cit., pp. 204-6. 44
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Negli intermezzi concessi dalla pubblicazione a puntate, l’«individualismo invadente» 50 prorompe libero dai legacci dell’impianto narrativo, inverandosi in «disgressioncelle» di tormentosa urgenza,51 o dando vita a siparietti teatrali in cui l’autore semina sgherri per la città «onde esplorare l’opinione pubblica».52 – Il pubblico mormora, signore, e si stringe nelle spalle, e si fa anche lecito di ridere e dire che giacché ella s’è preso l’assunto di pigliarlo in canzone, in quanto a lui saprà ben vendicarsi e con molta semplicità. – Cioè? – Non leggendo più nulla del suo libro. – Ma sono tutti di questo parere? – […] Nelle donne ha ancora un certo partito. – Questo poi è inverosimile. Le donne sanno bene che noi non abbiam più né vent’anni, né venticinque, e nemmeno ventinove. – La si tranquillizzi che non è per Lei. [Ma] per la signora Ada. – Io non conosco questa signora. – Ma come? Non è forse la terza eroina del suo libro? – Ah… è vero – ma son passati tanti mesi che quasi me ne scordavo…
Curiosamente, un Libro delle prefazioni53 simile a quello confluito nella Rovaniana sarà realizzato quasi cent’anni dopo come «scherzo biobibliografico»: l’autore antologizzato sarà Dossi, non il Rovani ritagliato a immagine e somiglianza del suo estimatore.
50
P. Nardi, Scapigliatura. Da Giuseppe Rovani a Carlo Dossi, Milano, Mondadori 1968, p. 42. Rovaniana cit., p. 229: «Il lettore non può imaginarsi il tormento che noi proviamo a non potere, come di consueto, fare una disgressioncella prima di continuare il nostro racconto». 52 Ivi, pp. 251-2. 53 C. Dossi, Il libro delle prefazioni. Con uno scherzo biobibliografico di Dante Isella, Milano, Scheiwiller 1982. 51
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L’ELABORAZIONE DEL PROCESSO UNITARIO: SETTE E OTTOCENTO
LOREDANA CASTORI La repubblica dei letterati d’Italia: oltre il policentrismo culturale
Ludovico Antonio Muratori, in una lettera del 5 febbraio 1701 al Fontanini, a proposito del libro L’Aminta di Torquato Tasso, difeso, ammira la sua incredibile erudizione, il suo ingegno, dimostrato universale in tutta la «Repubblica poetica», e si rallegra tanto da auspicare tutta una storia letteraria poetica della lingua italiana, scritta proprio dalla «sua penna», ma specifica: ho ancora osservato molti punti, che io tanto in difendere dalla impertinenza francese i nostri, quanto in trattar della lingua italiana andava meditando. Ma essendo ciò avvenuto con vantaggio del pubblico, ringrazio ancora la sua squisita letteratura.1
La difesa dell’Aminta, fatta per ribattere anche le accuse dei francesi contro il Tasso epico, fu composta per rispondere al Discorso censorio contro la pastorale dal duca di Telese, Bartolommeo Ceva Grimaldi, recitato nel 1693 nell’Accademia degli Uniti di Napoli, sui fondamenti dell’arte poetica e sugli elementi della favola e l’ordinamento di essa. Le osservazioni di Muratori si riferiscono al capitolo undicesimo della Difesa e focalizzano l’attenzione su alcuni punti: Come sia nato e cresciuto l’italiano; gli Autori non toscani allegati nel Vocabolario della Crusca; Suono della pronunzia, e proprietà della lingua popolare quanto importino al letterato; la Lingua vulgare e plebea disadatta alle cose gravi; Letterati fiorentini lodati.2
1
L. A. Muratori, Lettere scritte a Roma al Signor Abate Giusto Fontanini, Venezia, 1762, pp. 216-217. 2 Cfr. Le citazioni sono state estrapolate dalla prima edizione L’Aminta di Torquato Tasso difeso, e illustrato da Giusto Fontanini, Roma, stamperia Zenobi e del Placho 1700, cap. XI, pp. 206-207. L’elaborazione del processo unitario: Sette e Ottocento
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Tuttavia l’acuta osservazione di Fontanini sull’idea dell’unione dei letterati oltre il policentrismo culturale – «I letterati non sono in numero così scarso che abbiano a restringersi nelle angustie di una sola città, e di una Provincia» – anticipa I primi Disegni della Repubblica letteraria d’Italia esposti al pubblico da Lamindo Pritanio, ossia Ludovico Antonio Muratori, del 1703.3 L’idea di unità dell’Italia diventa, quindi, fin dai primi del Settecento, sempre più presente tra gli uomini di lettere. Un’Italia intesa come comunità di letterati, tenuta insieme dalla fedeltà alla lingua, che rivendicherà il proprio primato in Europa. Con Fontanini e Muratori, ma anche Maffei, siamo al centro della vita culturale italiana e poi europea, con una rete di interessi che va ben oltre i confini nazionali. L’appello di Muratori di collegare insieme tutte le Accademie in una sola, «La Repubblica Letteraria», costituita per tutta l’Italia, e non in una determinata città, con il fine di «perfezionare […] arti, e Scienze, corregerne gli abusi», mira all’insegnamento «del vero», promuovendo l’uso della grammatica: Sotto il cui nome – sottolinea il modenese – noi abbracciamo l’uso delle lingue. […] siamo nati in Italia, e tuttodì parliamo la lingua italiana: adunque e la gratitudine e il bisogno richiede, che noi non solamente impariamo questa lingua, ma che le apportiamo con tutte le forze onore. […] Desidera e raccomanda la Repubblica ai nostri letterati, che adoperino piuttosto, e per quanto è possibile l’idioma nostro volgare. […] La sua bellezza, e la gran copia dei libri in esso composti lo rendono caro, e noto anche agli stranieri. […] Noi non possiamo servir meglio alla gloria dell’Italia; […] quanto col rendere sempre più gloriosa la nostra lingua, e dolcemente sforzando i letterati, e i popoli lontani ad impararla.4
L’italiano diventa lo strumento di unità degli intellettuali, da imporre come lingua letteraria. Inoltre l’esigenza di valorizzare la nostra lingua è strettamente connessa alla critica dell’accademismo e alla volontà di legare letteratura, filosofia e scienza: insomma, un intellettuale ad ampio raggio, sul modello francese delle Nouvelle de La Republique des Lettres di Pierre Bayle. Sette anni dopo I primi disegni, si pubblicherà il «Giornale de’ letterati d’Italia», a Venezia, presso Hertz, caratterizzato proprio da un indirizzo erudito e letterario da integrare nelle finalità dell’idea muratoriana a lungo discussa con il Maffei.5 Infatti, il modenese spiegava:
3
Ivi, p. 265. Cfr. anche la ristampa a cura di A. Gareffi, L’Aminta di Torquato Tasso, Manziana, Vecchiarelli 2000. 4 L.A. Muratori, Primi disegni della Repubblica letteraria d’Italia, in Opere del proposto Ludovico Antonio Muratori, t. VIII, Arezzo, Michele Bellotti 1768, p. 15. 5 Per il «Giornale dei letterati d’Italia» si veda l’Introduzione al «Giornale»: S. Maffei, Letterati d’Italia, a cura di F. Brunetti con un saggio di C. De Michelis, Venezia, Marsilio 2009, p. 67. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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Converrà pertanto destinar una o più persone di grande erudizione […] che abbiano la cura e la gloria di riferire di mese in mese, o d’anno in anno tutti i libri nuovi, sì nostri, come stranieri che veramente si conoscano degni della notizia comune.6
Archetipo della moderna informazione letteraria, il Giornale ha indubbiamente svolto la funzione anche di tramite «fra libro e lettore»; le sue novelle assolveranno il compito di appendice pubblicitaria del mercato librario, con concentrazioni tipografiche notevoli e tese a diffondere il proprio catalogo: una miriade di istituzioni letterarie sparse per tutto il territorio, che rappresentano un’importante testimonianza storica e il desiderio di dare notizie delle attività e ragguagli delle iniziative scientifiche.7 Già nel primo tomo del giornale di Zeno si inserisce l’estratto del Progetto della nuova repubblica letteraria d’Italia e scritture seguite a tale proposito, dove si giunge a un primo tentativo di stenderne un bilancio.8 L’estensore dell’articolo sottolinea che la pubblicazione dell’opera fu recepita in maniera diversa dai vari letterati: alcuni lodarono la promozione del buon gusto nelle scienze e nelle arti, altri accusarono Muratori di aver omesso molti nomi di intellettuali meritevoli dal catalogo degli Arconti e inseriti altri senza nessun merito. Le obiezioni portarono il Pritanio a rispondere, con una lettera «ai generosi e cortesi letterati d’Italia», dove tra le varie giustificazioni sui punti controversi inserisce il fine proposto alla sua repubblica, [che] non è il solo della Gloria […], ma il benefizio della cattolica religione, la gloria d’Italia, l’profitto pubblico e privato.9
All’articolo segue poi un ampio estratto delle Riflessioni sul Buon gusto intorno le scienze e le arti (Venezia, per Luigi Pavino 1708). Anche quest’opera assumerà il significato di un programma, in cui si svilupperanno le leggi principali della critica, postulando una maggiore apertura della lingua italiana verso la modernità: Egli è legge della stessa natura che chi scrive ad altri, scriva per farsi intendere, e debba ingegnarsi per farsi intendere quanto può.10
6
L.A. Muratori, Primi disegni… cit. Per il giornalismo del Settecento vd. V. Castronuovo-G. Ricuperati-C. Capra, La stampa italiana dal Cinquecento all’Ottocento, Roma-Bari, Laterza 1980; M. Berengo, Giornali veneziani del Settecento, Milano, Feltrinelli 1962. Cfr. anche C. De Michelis, Letterati e lettori nel Settecento veneziano, Firenze, Olschki 1979 e L. Castori, Le novelle letterarie nei giornali veneziani del Settecento in Autori, lettori e mercato nella modernità letteraria, Pisa, Ets, I 2011, pp. 65-76; Ead., Le novelle letterarie dei giornali del Settecento, in «Misure critiche», nuova serie IX 2010, pp. 64-85. 8 «Giornale de’ letterati d’Italia», t. I, p. 268. 9 La lettera fu trasmessa al Trevisan nel 1705. 10 L.A. Muratori, Riflessioni sul buon gusto, Venezia, Pezzana 1752, p. 200. 7
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Sicuramente l’apporto di Muratori alla questione della lingua è affidato principalmente al trattato della Perfetta poesia italiana del 1706: per quanto attiene alla sua origine, i primi a valersene furono i siciliani, che stimolarono i toscani a imitarli. Ad incarnare la vera e più alta espressione dei valori poetici è, per Muratori, non Omero, esaltato dal Boileau, né Ariosto, capace di un verisimile popolare, ma Tasso così criticato dai francesi. Con La Gerusalemme, incentrata sull’ispirazione religiosa, con il suo stile alto, il Tasso ha dato l’esempio di «moltissime meravigliose virtù poetiche», avendo fuso «con la sublimità del suo stile» la «fecondità di Omero» e «le grazie d’Ovidio».11 Non a caso tra i compiti della Repubblica letteraria, all’indomani della censura di Omero e della difesa del Tasso, rientrava proprio l’esprimere liberamente un parere sopra qualsiasi autore.12 L’intera comunità letteraria appena risorta doveva pragmaticamente concepire la poetica come «arte fabbricante» e creatrice del nuovo. Su assiomi di una poesia costruita sul vero, ma un «vero nuovo e meraviglioso», si situa la presentazione delle Canzoni degli occhi di Petrarca Leggesi posatamente […] le tre canzoni che sono chiamate sorelle dal poeta, agevolmente s’intenderà con quanta ragione si sieno accordati i miglior giudizi d’Italia, per chiamarle divine, e per dar loro il titolo di eccellenti sopra l’altre di questo famoso autore. Ora io anderò lievemente toccando alcuna delle parti più belle per giovamento de’ principianti. Né la riverenza che io porto al poeta, farà ch’io taccia alcune poche cose, le quali a me non finiscono assai di piacere. Imperciocchè né questa mia riverenza ha da essere idolatria; né il Petrarca fu impeccabile; né dee già stimarsi sacrilegio il non venerar tutto ciò che uscì dalla sua penna.13
Nel Giornale de’ letterati di Venezia, nel tomo III, si dà notizia dell’uscita a Lucca, per Frediani, del libro Difesa delle tre canzoni degli Occhi e se ne pubblica un
11
L.A. Muratori, Della Perfetta poesia italiana, vol. I, Cap. XI, Modena, Soliani 1706, pp. 488-
89. 12
Cfr. l’estratto del tomo I del «Giornale de’ letterati d’Italia», pp. 223-316:«ogni censore e critico alza un tribunale, ed ha l’obbligazione di farvi presiedere la giustizia, e l’Amore vero. […] la critica utile per separare il vero dal falso; la Retorica e l’eloquenza, in qualunque materia di cui si scriva sempre mai lodevole è da stimarsi; e finalmente la cognizione delle lingue spezialmente Latina, Greca ed ebraica, senza le quali nudamente può intendersi l’antichità, l’erudizione e la medesima teologia. […] [Muratori] non può qui contenersi di non riprendere la vanità di coloro che di frequente per entro le loro opere rapportano passi di autori greci, ebrei, arabi ed altri, senza degnarsi di aggiungervi la spiegazione latina o volgare; come pure quell’altro abuso di chi senza veruna necessità cita di quanto in quanto parole e frasi straniere, stampandole con quei caratteri all’occhio di chi non l’intende pur troppo strani. Costoro scrivono tutto in quei linguaggi in cui non vogliono essere intesi», pp. 297; 306-307 dell’articolo. 13 L.A. Muratori, Della Perfetta poesia italiana cit., II, p. 198. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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estratto. In questa difesa, portata avanti dai tre genovesi, Muratori appare «Oppositore» che dà credito alle opposizioni; in quanto «uomo […] di elevato ingegno».14 Per quanto attiene la difesa della Canzone 71, Perché la vita è breve,15 di fronte al giudizio di Muratori sul principio di essa non molto spedito, né ben connesso con il rimanente,16 Casaregi focalizza l’attenzione sul senso letterale della parafrasi, in cui la «doglia» del verso 6 si riferisce agli occhi di Laura.17 L’articolo del giornale si muove secondo due diverse posizioni: Il signor Casaregi asserendo […] di aver dato contra la piena de Commentatori un nuovo interpretamento al principio di questa canzone, segno è, che lo stesso principio poteva essere più spedito, mentre tanti grand’uomini, quali furono il Gesualdo, l’Erizzo, il Castelvetro ed altri l’hanno diversamente inteso e spiegato: spicca da questo e la forza dell’opposizione, e l’ingegno della difesa.18
Nel congedo della Canzone 72 Gentil mia donna, i’ veggio, per Casaregi, «il Petrarca […] rappresenta leggiadramente tre belle matrone, che una dopo l’altra escono con isfoggiato abbigliamento»; per il modenese, termina con «un addio da malato»: Canzon, l’un sorella è poco innanzi, e l’altra sento in quel medesmo albergo apparecchiarsi; ond’io più carta vergo. (vv. 76-78)
«e meglio era vergar la carta, senza avvisarne chi aveva da leggere».19 La difesa della canzone Poi che per mio destino (73), affidata al signor Canevari, è la più lunga e articolata del libro. Muratori ne ravvisava una minor pienezza.20 L’oppositore esamina per contro le varie «amplificazioni» presenti in tutto il componimento («seguendo i precetti del primo retore fra i latini […] Quintiliano»): «l’accrescimento, la comparazione, la deduzione e la congerie o adunamento».21
14
Difesa delle tre Canzoni degli occhi, e di alcuni sonetti, e vari passi delle rime di Francesco Petrarca; dalle opposizioni del Signor Ludovico Antonio Muratori, composta da Gio. Bartolomeo Casaregi, Gio. Tommaso Canevari, e Antonio Tommasi chierico regolare della Madre di Dio, Pastori Arcadi, in Lucca, per Pellegrino Frediani, 1709, p. 2. 15 La numerazione delle «canzoni degli occhi» è stata normalizzata all’edizione del Canzoniere curata da Marco Santagata, Milano, Mondadori 1996. 16 Cfr. L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, vol. II, p. 200. 17 Difesa delle tre Canzoni degli occhi… cit., p. 30. 18 «Giornale de’ letterati d’Italia», III, p. 385. 19 L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, II, p. 208. 20 Ivi, p. 209. 21 Difesa delle tre canzoni degli occhi… cit., p. 74. L’elaborazione del processo unitario: Sette e Ottocento
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L’«accrescimento» si scorge «vivamente espresso e chiaro» nella prima stanza (vv. 11-15),22 mentre la gradatio viene riscontrata nella V (vv. 70-75).23 La «comparazione», che è «il secondo modo d’amplificare», nei vv. 64-66: Tutti gli altri diletti di questa vita ho per minor assai, e tutt’altre bellezze indietro vanno.24
L’amplificazione per deduzione si può invece, notare in più luoghi, ma principalmente nella III stanza (vv. 44-45).25 Come pure è evidente, in tutta la terza, l’ultima specie d’amplificazione, che i toscani – spiega Canevari – chiamano «adunamento» e i latini congeries.26 Inoltre, perché all’Oppositore la canzone appare anche «men vigorosa» e «men pellegrina», il Difensore ne dimostra la ragione, riprendendo la dottrina di Ermogene, in quanto «la forma del vigoroso altro non è, che un mescolamento d’asprezza, veemenza e splendore».27 La somma e singolare dolcezza è, invece, il fulcro di questo componimento e anche dei due precedenti; per la formazione di questa Idea, secondo la dottrina di Ermogene, concorrono infatti sette requisiti: Primo le cose favolose e non più sentite; Secondo le cose simili alle favole; Terzo le cose che piacciono ad alcuno dei nostri sensi, come alla vista, al tatto, al gusto, e donde nascer suole qualche diletto; quarto quelle sentenze, che attribuiscono la volontà a quelle cose che ne sono prive; Quinto che attreibuiscono ragione ai bruti, alle piante e a cose simili; sesto la frequenza degli epiteti […]; settimo la frequenza delle frasi poetiche28
Per la quarta opposizione, nel verso Che ’l dir m’infiamma e pugne; «si trova alquanto di scosceso che diletta poco la vista»,29 osserva che nulla c’è di duro e di incolto; anzi, secondo la frase di Marziale, «molli limite currunt».30
22
Ivi, p. 75. Ibidem: «Qui cosa gran si dice, qualora affermasi, che lo sfogo delle parole non iscema il suo foco: Ma sopra il sommo si accresce col soggiugnere, che il poeta al suon delle parole istesse arriva infino a struggersi, come se ei fosse appunto un uom di ghiaccio». 24 Ivi, cfr. pp. 76-77. 25 Ivi, cfr. p. 77: «Da questi versi dobbiamo conchiudere, essere ben grande la virtù di quegli occhi, i quali, tanto sol che si veggano, ne trasfondono tanta in altrui». 26 Ivi, p. 78. 27 Ivi, pp. 79-80. 28 Ivi, p. 81. Cfr. pp. 82-87. 29 Della perfetta poesia italiana cit., p. 209. 30 Difesa… cit., p. 96. 23
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Per il verso considerato poco chiaro «benchè figura di stile magnifico» (È vivo del desir fuor di speranza) Muratori aggiunge che non bisogna credere che sia gran pregio il far versi tali, che senza i commentatori non si possono intendere dai mezzanamente dotti
con lo spunto precipuamente pedagogico di «raccomandare ai giovani la bella virtù della chiarezza».31 Il difensore sottolinea come spesso i poeti vengano tacciati di oscurità, per la critica contraria, esemplificando questo punto con molte osservazioni, ma soprattutto con la querelle su un’Egloga di Virgilio, che nacque «dal non ben sapersi la proprietà del romano linguaggio». Allo stesso modo Petrarca – spiega Canevari – fiorentino «di patria, e dotato di un sommo giudizio nella scelta delle voci e delle frasi, le più usitate […] che dal popolo stesso si parlano tuttavia», è poco compreso «a coloro che non sono nati nella toscana, e spezialmente in Firenze, patria felicissima, e unica maestra della più pura e più nobile» lingua italiana.32 Muratori pubblicherà, come una sorta di autodifesa, nel 1711, Le Rime di Francesco Petrarca, con sue osservazioni, dopo le considerazioni di Tassoni, dove subito premette la correzione del luogo di nascita nella Vita.33 Nel lungo estratto sulle Rime, del giornale di Zeno, si focalizza l’attenzione sulla critica di Muratori, in cui spesso non anticipa al lettore le ragioni della lode o del biasimo della poesia di Petrarca, perché ha già dato quei lumi bastevoli nella Perfetta Poesia, onde i giovani potessero ravvisare il più e il meno buono di tali componimenti.34
In realtà, nel passaggio dalla Perfetta poesia alle Osservazioni nel libro delle Rime si notano delle differenze rispetto alle precedenti posizioni critiche, frutto di una maggiore consapevolezza e di un migliore apprendistato poetico. Mentre per la canzone 71 Perché la vita è breve l’approdo valeva come dimostrazione esegetica nel commento alla terza stanza si notano delle varianti: la «bella correzione»nella Perfetta poesia35 diviene «gentile correzione» nelle Osservazioni, e l’ultimo periodo è
31
Della perfetta poesia italiana cit., II, pp. 212-213. Difesa…, p. 141. 33 Per il commento di Muratori si cita dall’edizione: Le Rime di Francesco Petrarca, riscontrate co i testi a penna della libreria estense e co i fragmenti dell’originale d’esso poeta, s’aggiungono Le considerazioni rivedute e ampliate d’Alessandro Tassoni, le Annotazioni di Girolamo Muzio e le Osservazioni di Ludovico Antonio Muratori, Venezia, presso Sebastiano Coleti 1727. Cfr. per le «Osservazioni»: Mario Fubini, Dal Muratori al Baretti, Bari, Laterza 1968, pp. 55-176. 34 «Giornale de’ letterati d’Italia», VIII, articolo VI, p. 177. 35 L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana cit., p. 201. 32
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accresciuto con l’equilibrata chiosa finale:«serve di bel passaggio a ripigliar il ragionamento con gli occhi».36 L’incipit dell’osservazione è del tutto nuova: Nei primi sei versi ripete il Petrarca con altre parole ciò, che aveva detto ne gli ultimi sei dell’antecedente stanza; né questo viene da carestia di sentenze, ma per esporre, ed imprimere più fortemente il suo concetto in chi legge, e per muovere maggior compassione: il che fa egli con leggiadra esposizione filosofica, e con bella varietà.37
Questo avviene perché il procedimento di Muratori è volto, da un lato, a riportare quanto già sostenuto; dall’altro, ad aumentare le annotazioni di partenza. Nella canzone 72 Gentil mia donna, i’ veggio, per la v stanza la riscrittura spezza il commento in due parti: Oltre a molti altri pregi ha la stanza presente una particolar melodia di numero Eroico, la quale accresce il vigore dei sensi. Con artifiziosa umiltà, e col toccare garbatamente i meriti propri, il buon Petrarca si va maggiormente insinuando. Ricorri al commento per quel verso, che non altronde e c. Leggiadrissimo è anche il fin della stanza: e io tengo per certo, che il P. abbia voluto esprimere ivi un desiderio onestissimo, senza mirare a un verso di Giovenale esprimente con simili parole il contrario.38
Il commento nella Perfetta poesia della canzone 73 Poi che per mio destino39 viene ampliato nelle Osservazioni, perché il modenese risponde alla Difesa, e pur ribadendo le principali posizioni critiche, rielabora la «quarta opposizione»: Servono i primi versi di proemio. In quei versi, che il dir m’infiamma e pugne, e ne’ seguenti si mira alquanto di scosceso. Vuol dire, che il parlare di quegli occhi in vece d’acquetare l’interna sua voglia di lodarli, maggiormente l’accende, e spinge a cantar di loro.40
36
Le Rime di Francesco Petrarca… cit., p. 139. Ibidem. 38 Ivi, p. 145. Cfr. Della perfetta poesia italiana cit., II, p. 208. 39 Cfr. ivi, II, pp. 213-214. Cfr. Le Rime di Francesco Petrarca… cit., p. 150. 40 Le Rime di Francesco Petrarca cit., p. 146. Si veda la Difesa… cit., per la II opposizione: «la terza canzone […] a me paia per lo contrario di gran lunga più vigorosa delle due che la precedono. Questa opinione mia vien favorita dal dottissimo Varchi colà ove dice: com’è l’ultima […] così a mio giudizio, è ancor più grave alquanto, più alta e più ornata, che non son l’altre due» p. 86. Cfr anche la difesa alla IV opposizione tenendo presenti i versi pubblicati da Muratori sia nella P.P. che nelle Rime infatti c’è la parentesi al verso 11 che scompare nell’edizione Santagata: «Ma forse che una simile censura […] prende direttamente di mira la […] Syntaxis; sicchè vorrà l’oppositore affermare, che quella interposizion della parentesi, (Ond ’i opavento e tremo v. 11) e della perambole Siccome talor suole, oltre ad essere cosa che ritarda l’intelletto, sicchè non possa correre speditamente all’intelligenza di tutto il senso: in quella guisa che un luogo scosceso ritarda il passo del viandante […]. Parrà ancor forse all’Op37
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Il commento alla stanza V è praticamente identico, mentre per la seguente è integrato da alcune valutazioni lessicali.41 Nelle Osservazioni è presente l’idea di difendere il primato contro il Bouhours secondo una tradizione interpretativa da riavviare, per servire più al pubblico che a Petrarca.42 In questo contesto si situa l’esegesi ex novo della canzone 128 Italia mia, benchè ’l parlar sia indarno, dove non sarà difficile scorgere alcune sottolineature funzionali al suo progetto, visto che la parola «Italia» nelle sue opere è sempre in primo piano. Soprattutto nell’appello al lettore compare l’idea di mettere i risultati sperimentali davanti all’interesse comune, secondo un procedimento altamente pedagogico ma anche introspettivo.43 L’artificio della prima stanza, che serve d’esordio alle altre, è, secondo Muratori, «ben tirato»; vi è connubio tra «attenzione e benevolenza». Evidenzia anche il forte «vigore»nelle invocazioni all’Italia e a Dio.44 Nella seconda l’esordio è segnato dal pronome «voi», che ricorda il sonetto proemiale del Canzoniere Nei primi sei versi sentirai – spiega il Muratori – una leggiadria maestosa. Nel rimanente si aprono le miniere della materia, cavandone il Petrarca belle verità, e mettendole ben in vista con figurati modi.45
Il commento di Muratori alla canzone Italia mia, sulla scorta delle osservazioni del Canevari, a proposito delle canzoni degli occhi, risponde anche all’analisi delle «amplificazioni»: climax I stanza (apostrofe all’Italia) III stanza (Petrarca accresce le «batterie» per convincere gli italiani che «tradiscono l’amore e la cura della natura»).46
positore, che in questo luogo il Petrarca erri nell’eccesso: mentre bastava interporre o la sola parentesi o la sola preambole: e perciò conchiuderà che l’unione di due figure di cotal fatta diletta poco gli occhi de’ letterati. Ma a questo io rispondo, che anzi gli deve assai dilettare; avvengachè qui in certa manier pare, che il poeta abbia voluto far vedere, come nella composizione di questa stanza bolliva l’entusiasmo la sua mente per sì fatto modo, ch’egli non potea rattenersi dall’inserirvi più, e più adornamenti, e figure, di cui essa era in quel tempo strabocchevolmente feconda», pp. 96-99. 41 Della perfetta poesia italiana, II, pp. 213-214. Le Rime di Francesco Petrarca… cit., par. I, p. 150. 42 Le Rime di Francesco Petrarca… cit., p. 85. 43 Ivi, p. 227. 44 Ivi, p. 227. 45 Ivi, p. 228. 46 Ivi, p. 229. L’elaborazione del processo unitario: Sette e Ottocento
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L’amplificazione degli ultimi due versi sembra forse – spiega il modenese – «non necessaria», ma i versi «pure servono a metterci sotto gli occhi la gran vittoria di quel capitano [Caio Mario]»:47 quando assetato e stanco non più bevve dal fiume acqua che sangue.48
Nella quarta Petrarca, con argomenti nuovi e con la forte figura dell’interrogazione va esagerando la follia e la crudele superbia de’’Principi italiani d’’allora, troppo disuniti e l’un dell’altro invidiosi.49
Nell’obiezione degli ultimi due versi Io parlo per ver dire Non per odio d’altrui, né per disprezzo50
il commentatore spiega che il Petrarca, dopo aver toccato con tanta animosità sì delicati tasti poteva far credere che fosse mosso da qualche imprudente passione,
dimostra invece di essere un «oratore poeta».51 Il petrarchismo di Muratori, tende a prevenire le opposizioni, conformarne le qualità, come nel commento alla V stanza di questa canzone.52 Inoltre, la difficoltà dell’interpretazione è accostata anche ad una «Sua» lettura profonda e meditata, di autodifesa dalle accuse precedenti, relative però ad altri componimenti del Petrarca. Infatti, sempre nella V, a proposito dei versi 65-67 – sebbene manchi nel testo proposto dall’edizione l’interrogativa –53 Muratori osserva: Non dirò che sia oscura quella forma «d’alzare il dito», benchè io non l’intenda, imperciocchè il non intenderla, credo che sia per difetto non del poeta, ma di me, che
47
Ibidem. Petrarca, Canzoniere cit., p. 617, vv. 47-48. 49 Le Rime di Francesco Petrarca cit., p. 230. 50 Petrarca, Canzoniere cit., p. 617, vv. 63-64. 51 Le Rime di Francesco Petrarca cit., p. 230. 52 Ivi, p. 232. 53 Cfr. Le rime di Francesco Petrarca cit., p. 230. 48
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non so trovare, a quale costume de gli antichi, o pure de’ suoi tempi, egli qui voglia alludere.54
Per la VI, in cui si succedono quelle forti interrogative retoriche, si sottolinea come la prima persona sia usata da Petrarca per indicare il sentimento di ogni italiano «figuratamente», e a spronare il coraggio altrui «nel rammentare, che l’antico valore italiano non è morto».55 La strofa successiva ha la forza e la bellezza delle precedenti, anche se gli ultimi otto versi focalizzano maggiormente l’argomento; sono «leggiadramente composti» in quanto, aggiungeremo, rientrano pienamente nel suo disegno pedagogico.56 Per il congedo – che ricorda alla canzone i pericoli che correrà dovendo passare tra «gente altera», ma troverà anche i magnanimi pochi a cui potrà manifestare il proprio anelito alla pace – il nostro punta la sua attenzione sull’ultimo verso, il «più bello e vivo di tutti»: I vo gridando pace, pace, pace.57 Nel 1720, come testimonia una novella di Chieti del «Giornale de’ letterati d’Italia», Federigo Valignani, fra gli Arcadi Nivalgo Aliarteo, pubblica un Dialogo sopra lo stile del Petrarca e del Marino, dei quali «questi nel secolo passato ebbe un ampissimo regno in tutta Italia» e Petrarca «lo ebbe da che principiò a scrivere fino a nostri tempi, e lo averà finchè per durare la nostra italiana favella, e il buon gusto di poetare».58 Delle rime di Petrarca con le annotazioni del Muratori vi saranno altre ristampe nel 1722 e nel 1727; quest’ultima a Venezia, presso Coleti.59 Il progetto di Muratori della «Repubblica delle lettere» si realizza soprattutto per diffusione libraria, con le varie polemiche insorte, con lo scambio di notizie giornalistiche ed epistolari, che testimoniano anche come la critica cominci ad avere una funzione preminente.60 La polemica Orsi-Bohours, che attraversa come un filo rosso le notizie nel «Giornale de’ letterati d’Italia» e rappresenta il punto focale su cui ruotano gli avvisi dei libri e le opere recensite, in rapporto alla storia culturale e civile della Nazione, servì a fornire una maggiore coscienza linguistica in rapporto alla cultura europea. Il giornale veneziano «Le novelle della Repubblica delle lettere» del 1736 reca l’avviso di Venezia, della Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, con Dedica, prefazio-
54
Ivi, p. 231. Ivi, p. 233. 56 Cfr. Petrarca, Canzoniere cit., pp. 616-630, cfr. vv. 105-112. 57 Le Rime di Francesco Petrarca cit., p. 234. 58 «Giornale de’ letterati d’Italia», t. 33, parte II, pp. 360-361. 59 Ivi, t. XXXVIII, Novelle di Venezia, p. 1. 60 Cfr. A. Quondam, L’Arcadia e la Repubblica delle lettere, in Immagini del Settecento in Italia, Roma-Bari, Laterza 1980, pp. 207-208. 55
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ne e vita del signor marchese Orsi. L’«elogio» del marchese, fatto da Muratori, diventa il «frutto della penna tanto felice e rinomata della nostra letterata Italia».61 Così nelle novelle di Modena dello stesso giornale si cita il libro diviso in due parti: la prima contiene le memorie intorno alla vita dell’Orsi; la seconda è dedicata alle rime del marchese, alcune delle quali «già inserite nella parte seconda della Perfetta poesia, e nella raccolta del Gobbi e del Crescimbeni».62 Il padre camaldolese, Angelo Calogerà, dedicando la sua raccolta di Opuscoli, relativa alla produzione di dotti italiani, a Bernardo Pez, benedettino, bibliotecario in Austria, quindi a un oltremontano, dimostra la forte coscienza italiana in rapporto alla cultura europea, cominciando il tomo proprio con l’elogio di Muratori all’Orsi, il marchese «che tanto [si era] impiegato per la difesa degli italiani».63
61
Novelle della Repubblica delle lettere, n° 11, 12 marzo 1735, p. 81. Ivi, n° 29, 16 luglio 1735. 63 Raccolta d’Opuscoli scientifici e filologici, tomo undecimo, Venezia, Zane 1735. Per la vita e gli interessi del Calogerà si confronti Cesare De Michelis, Letterati e lettori nel Settecento veneziano, Firenze, Olschki 1979, pp. 91-127. 62
XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
ANTONIA MARCHIANÒ Lomonaco: colpo d’occhio sull’Italia
Nella ricostruzione dei fatti storici della Repubblica Napoletana il Rapporto al cittadino Carnot di Francesco Lomonaco è sempre rimasto un po’ all’ombra del Saggio sulla rivoluzione di Napoli di Vincenzo Cuoco e spesso stampato come sua appendice; va riconosciuto, invece, al breve pamphlet dell’esule lucano una sua specificità e identità, che lo rendono autonomo dal più celebre Saggio.1 Pubblicato in princeps prima della battaglia di Marengo del 14 giugno 1800 e in seconda edizione subito dopo nella Milano napoleonica, capitale della ricostituita Repubblica Cisalpina, il Rapporto narra non solo il tumultuoso susseguirsi delle drammatiche vicende, ma soprattutto la «catastrofe» della Republica Napoletana del 1799, suscitando vivo interesse tra gli intellettuali animatori dell’ambiente culturale lombardo e divenuti amici dello stesso Lomonaco, sfuggito, insieme con Vincenzo Cuoco e Francesco Saverio Salfi alla sanguinosa repressione borbonica.2
1
Il titolo completo è Rapporto fatto da Francesco Lomonaco patriota napoletano al cittadino Carnot ministro della guerra sulle segrete cagioni e sui principali avvenimenti della catastrofe napoletana, sul carattere e sulla condotta del re, della regina di Sicilia e del famoso Acton. La prima edizione uscì nell’aprile 1800; la seconda è successiva alla battaglia di Marengo. Si farà riferimento a F. Lomonaco, Rapporto al cittadino Carnot. Dall’illusione alla denuncia: la rivoluzione napoletana del 1799, a cura di G. Libertazzi, Venosa, Osanna 1990; d’ora in poi citato con Rapporto e numero di pagina. 2 Cfr. Per Francesco Lomonaco, Napoli, Conte 1975; Francesco Lomonaco. Un giacobino del Sud, a cura di P. Borraro, Atti del II Convegno Nazionale di Storiografia lucana (Montalbano Jonico, Matera 10-14 settembre 1970), Galatina, Congedo 1976; N. Campagna, Un ideologo italiano: Francesco Lomonaco, Milano, Marzorati 1989; F[afrizio] Lomonaco, Lomonaco e la tradizione illuministica in Italia, Napoli, Bibliopolis 1989; T. Russo, L’utopia e la morte nel pensiero di Francesco Lomonaco, Matera, Basilicata Editrice 1993; Costruire la nazione. Francesco Lomonaco e il suo tempo, catalogo della mostra documentaria, a cura di A. De Francesco e Raffaele Pitella, Montalbano Jonico, Dofra 2000. L’elaborazione del processo unitario: Sette e Ottocento
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L’attenzione rivolta agli avvenimenti napoletani, in modo particolare da parte del giovane Manzoni e di Foscolo, era strettamente legata ai progetti politici di quegli anni, in quanto la Repubblica Napoletana, come la stessa Cisalpina, poteva rappresentare un esempio da estendere in tutta l’Italia. Manzoni, soprattutto nel terzo canto della sua opera giovanile, Del trionfo della libertà, trae ispirazione proprio dal Rapporto e dedica al suo autore il sonetto, Come al divo Alighier l’ingrata Flora, composto nel 1802, in occasione della pubblicazione della Vita di Dante, la prima delle Vite degli eccellenti italiani.3 Stretti furono i rapporti d’amicizia anche con Foscolo, tanto da ipotizzare che nel Sesto tomo dell’io avesse voluto adombrare nella figura di Diogene proprio l’esule meridionale: tesi, questa, sostenuta da Mario Fubuni e Gioacchino Paparelli, ma confutata da Vincenzo Di Benedetto, che nella sua edizione critica dell’incompiuta opera foscoliana con nuovi e rigorosi argomenti filologici vede alluso nel vecchio saggio il Parini.4 Gli eventi napoletani del 1799 impressionarono tanto il poeta ellenico-veneziano che, l’anno successivo, iniziò a scrivere i Commentarii della Storia di Napoli, di cui rimane solo il secondo libro.5 Già nella Prefazione al Rapporto vibra la commozione dell’esule nel rievocare quei momenti intensi e infelici: «[…] vengo alla narrazione degli orrori, de’ tratti di ferocia, e delle altre fatali vicende, le quali ancor desolano la regione più bella della terra […] Quante volta la penna mi è caduta dalle mani! Quante volte il pensiero è stato insanguinato dalle immagini tragiche e nere, che interrompono il sonno della mia ragione, hanno atterrita la fantasia!».6 Nel ricordare gli episodi tragici di quei pochi mesi vissuti dalla Repubblica Napoletana Lomonaco si lascia trasportare da una forte partecipazione emotiva, con accenti di vibrante denuncia: «L’ipocrita tirannia è riuscita a spargere il lievito della discordia e della guerra civile, e ad arma-
3 Cfr. A. Manzoni, Del trionfo della liberta, in Id., Tutte le poesie 1797-1872, a cura di G. Lonardi, Venezia, Marsilio 1992, pp. 69-99. Sui rapporti tra Lomonaco e Manzoni, vd. R. Sirri, Il seme degli esuli napoletani nelle opere giovanili del Manzoni, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1988. 4 U. Foscolo, Il sesto tomo dell’io, edizione critica e commento a cura di V. Di Benedetto, Torino, Einaudi 1991; per i rapporti tra i due intellettuali, vd. M. Fubini, Ortis e Didimo, Milano, Feltrinelli 1963, pp. 87-136; G. Paparelli, Francesco Lomonaco e i suoi rapporti con Ugo Foscolo, in Francesco Lomonaco. Un giacobino del Sud cit., pp. 23-77. Per quanto riguarda il confronto tra Lomonaco e il personaggio di Diogene, vd., oltre ai lavori di Fubini e Paparelli, le argomentazioni di segno opposto del Di Benedetto, che non intravede nel vecchio saggio l’esule meridionale, ma Parini (commento al Sesto tomo, pp. 96 sgg., 274-278); cfr. anche V. Di Benedetto, Lo scrittoio di Ugo Foscolo, Torino, Einaudi 1900, pp. 177-178. 5 U. Foscolo, Commentarii della Storia di Napoli, in Id., Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808, vol. VI dell’Edizione Nazionale delle Opere, a cura di G. Gambarin, Firenze, Le Monnier 1972, pp. 173-192. 6 Rapporto, p. 37.
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re i cittadini l’un contro l’altro. Ha procurato di ergere un muro di separazione tra gli esseri più cari, i quali univa l’amicizia e la parentela».7 Lo stesso ardore con cui condanna la guerra fratricida si riscontra anche nei paragoni dei protagonisti degli eventi storici napoletani con eroi del mondo antico, secondo il gusto neoclassico comune alla cultura italiana ed europea del primo Ottocento: i repubblicani sono definiti «gli Ercoli della Rivoluzione» o «i trecento Spartani», l’ammiraglio Caracciolo «il Duilio della Rivoluzione napoletana», Mario Pagano «tranquillo come Epitteto», Domenico Cirillo «un Catone […] in mezzo alla feccia di Romolo», Méjan il «piccolo Verre» o «infame Clodio», il cardinale Ruffo «il nuovo Pietro l’Eremita», Maria Carolina «la moderna Teodora», Acton il «vile Seiano»; infine, re Ferdinando IV: «Fondete la sensualità di Sardanapalo, la ferocia di Mesenzio, l’imbecillità di Claudio, la viltà di Vitellio, la perfidia di Ferdinando il Cattolico […] e voi vedrete Ferdinando Capeto».8 Le maggiori persecuzioni furono riservate ai repubblicani, i quali, una volta identificati, subivano prima atroci torture e poi venivano lasciati morire: «Ad un repubblicano conosciuto si strappava il cuore, le unghie, gli si cavavano gli occhi, gli si mutilavano le membra, e così a poco a poco gli si toglieva l’esistenza».9 Alcuni di essi, compagni dello stesso Lomonaco, sono evocati in una lunga nota del Rapporto, in cui l’autore li consegna al ricordo dei posteri per essersi distinti con il loro impegno civico, «nella storia della cultura letteraria italiana la componente di un nuovo uso della memoria, intesa per un verso come necessario strumento narrativo e per l’altro come atto di militanza politica, unito alla necessità di una testimonianza che non vanificasse il sacrificio di un’esperienza».10 Il Rapporto è, dunque, un «testo complesso e ricchissimo», come giustamente sostiene Anna Maria Rao nel suo ampio studio sugli Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia dal 1792 al 1802.11 Dal punto di vista politico, all’interno di questo quadro drammatico, emergono i personaggi storici su cui l’esule lucano esprime dei giudizi icastici e significativi: è evidente che la sua concezione ideologica è ispirata non solo all’ardore patriottico, ma anche a un forte senso etico. Di conseguenza, li distingue radicalmente in figure negative e positive, a seconda del loro rapporto con la rivoluzione e la repubblica giacobina realizzata a Napoli. Per quanto concerne tale aspetto – ed è questo il primo punto essenziale in cui si articola la nostra ipotesi di lavoro –, la precedente
7
Ivi, p. 66. Seguendo l’ordine di citazione dal Rapporto: ivi, pp. 49, 48, 93, 94, 95, 43, 87, 69, 67-68. 9 Ivi, p. 46. 10 Ivi, p. 21. 11 A. M. Rao, Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia (1792-1802), Napoli, Guida 1992, pp. 425-441: a p. 433. 8
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critica letteraria e storiografica sul Rapporto non sembra avere focalizzato la valutazione data da Lomonaco al comportamento degli Inglesi, dalla quale emerge una prima importante coordinata dell’eccezionale precisione e perspicuità dei suoi giudizi politici, che richiederebbero l’allestimento di un’edizione critica annotata con nuovi criteri filologici e storici. L’autore definisce gli Inglesi «vili isolani», perché avevano avallato la violazione più clamorosa del diritto delle genti; né viene risparmiato Horatio Nelson, chiamato «crudele pirata», il cui comportamento abominevole e infame rimarrà nella memoria dei posteri. Fondamentale l’accusa di aver violato il diritto delle genti per le implicazioni che avrà nei decenni successivi: infatti, sulla vile azione politica di Nelson ritornerà Foscolo, esule in Inghilterra, nell’Account of the Revolution of Naples del 1821, in cui, pur avendolo esaltato nei Sepolcri come il «prode» vincitore di Napoleone nelle grandi battaglie navali, stigmatizza il suo tradimento nei confronti dei patrioti napoletani come una «macchia» indelebile sull’onore dell’Inghilterra. Nell’Account Foscolo mette in evidenza che la sconfitta della Repubblica Napoletana era dovuta all’assoluta pretesa degli Stati più potenti di mutare gli assetti interni di quelli più deboli.12 Con questa politica furono consenzienti anche gli Inglesi, complici negli assetti europei del legittimismo reazionario, difeso dalle armi della Santa Alleanza e dalla diplomazia austriaca guidata dal Metternich. In particolare, la condotta di Nelson, fu dovuta non tanto a una sua arbitraria scelta, quanto invece ai rigidi condizionamenti della Ragion di Stato e del diritto di intervento delle nazioni più forti, anche perché la Real Politik del governo britannico in quel periodo poneva il Mediterraneo al centro dei suoi interessi marittimi e mercantili. Questa vicenda fu al centro di un vivace dibattito politico anche tra gli stessi Inglesi, tanto che uno degli ammiragli della flotta britannica, James Edward Foote, criticò aspramente il comportamento di Nelson nella sua Vindication, sostenuta sul piano storiografico da Robert Southey in The life of Oratio Nelson, pubblicata a Londra nel 1813, e data la sua importanza, ristampata all’inizio del secolo scorso.13 «La rivoluzione napoletana del 1799 si colloca, dunque, all’origine di un radicale mutamento del sistema delle relazioni internazionali, sul crinale decisivo del diritto dei popoli, laddove, cioè, prende le mosse un principio di intervento che si generalizza a Vienna con la nascita della Santa Alleanza», per cui Foscolo, sulle orme di Lomonaco – come
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U. Foscolo, An Account of the Revolution of Naples during the years 1798, 1799 (trad. it. La Rivoluzione di Napoli negli anni 1798, 99), in Prose politiche e apologetiche (1817-1827), a cura di G. Gambarin, vol. XIII dell’Edizione Nazionale delle Opere, parte II, Firenze, Le Monnier 1964, pp. 3-78. 13 In particolare su Nelson, oltre alla Vindication di Edward James Foote, cfr. R. Southey, The life of Oratio Nelson [1813], London 1906, pp. 134-151. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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sottolinea uno dei maggiori storici dell’età napoleonica, Luigi Mascilli Migliorini – evidenzia che proprio a Napoli si sperimentò per la prima volta «l’inedito diritto che alcuni Stati (i più potenti) si arrogano di mutare volontà e assetti di altri Stati (i più deboli)».14 Il momento più catastrofico fu il misconoscimento dei patti di capitolazione: il Rapporto ne riporta in maniera articolata i punti principali, tra cui quello che consentiva alle guarnigioni degli sconfitti di uscire dalle fortezze assediate con gli onori delle armi, mentre le loro persone e le rispettive proprietà sarebbero state rispettate e garantite, concedendo a chi lo desiderasse di prendere la via dell’esilio. Il fatto che il sovrano aveva rifiutato di negoziare con i patrioti napoletani, sprezzantemente considerati sudditi ribelli, rappresentava una chiara violazione del diritto delle genti, ritenuto fondamentale da Lomonaco, influenzato anche dalle idee di Rousseau: «Una nazione che o sola, o coll’aiuto di un’altra potenza si solleva contro il suo oppressore, contro colui che, lungi di essere il magistrato, n’è il despota, non è ribelle. Essa al contrario usa il principale de’ suoi diritti, ch’è quello di reagire contro la violenza. Tal è l’indole del contratto sociale».15 L’opera di Bonnot de Mably, Dei diritti e dei doveri del cittadino, in cui si illustra il pensiero di Rousseau, era uscita per ben tre volte in traduzione italiana, durante la Repubblica napoletana, a cura proprio di Lomonaco.16 Accanto ai personaggi negativi spiccano le nobili figure degli intellettuali, votati al martirio, allievi di Antonio Genovesi, ammiratori di Giambattista Vico, amici di Gaetano Filangieri, commemorato dai repubblicani come «genio tutelare» della rivoluzione napoletana, secondo la cronaca del tempo nel «Monitore napoletano» del 18 maggio e 1° giugno 1799. Lomonaco, concludendo le Vite degli eccellenti italiani, proprio con il profilo di Gaetano Filangieri, scrive che la morte prematura del grande giurista napoletano aveva fatto «un grande danno alla filosofia, poiché egli meditava un nuovo sistema di storia»; solo la figura morale e politica di Filangieri avrebbe potuto evitare «la catastrofe» del 1799, impedendo gli eccidi e la fuga dei suoi compatrioti con le conseguenti «amarezze dell’esilio».17 Queste Vite, che hanno esplicite finalità civili e patriottiche e iniziano con la biografia di Dante,
14 L. Mascilli Migliorini, Postfazione a Foscolo, Scritti sulla Repubblica napoletana, Napoli, La Città del Sole 1999, pp. 106-107. 15 Rapporto, p. 92. 16 G. Bonnot de Mably, Dei diritti e dei doveri del cittadino, in Scritti politici di Gabriel Bonnot de Mably, a cura di A. Maffei, Torino, Utet 1961, I. 17 «Se questo grand’uomo avesse continuato a vivere, quali servigi renduti avrebbe alla patria nella passata catastrofe? Forse le teste di tanti virtuosi non si sarebbero vedute penzolare da’ patiboli […] forse noi non assaporeremmo ora tutte le amarezze dell’esilio», F. Lomonaco, Vite degli eccellenti italiani, Lugano, Ruggia 1836, ristampa anastatica in Id., Opere, Matera, BMG 1974, VIII, p. 353.
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alquanto deformata in senso prerisorgimentale, sono dedicate all’Italia; tuttavia, è la Vita di Filangieri che in Lomonaco assume un valore significativo, proprio perché l’autore della Scienza della legislazione era riuscito a conciliare le istanze reali della società meridionale tutta – e non solo della Napoli capitale, ma anche dei territori provinciali, da cui si misura la «floridezza di un reame», come del resto sosteneva anche il Galanti – con le «esigenze riformistiche»: pertanto, secondo Lomonaco, Filangieri era il vero intellettuale «politico», non il letterato che appaga l’immaginazione, ma lo scrittore che ha lo scopo di «migliorare le umane sorti», senza cedimenti alla demagogia, teorizzante un’astratta libertà e irreali forme di governo destinate al fallimento. Emblematica, dunque, la Vita di Filangieri, perché, Lomonaco, insieme con Cuoco, Salfi e Galdi, secondo una consolidata storiografia da Croce a Rosario Romeo, esprime la funzione della terza generazione dell’Illuminismo meridionale, che – come ha scritto in maniera molto espressiva Sebastiano Martelli – ha raccolto «le ceneri di ciò che restava dopo la tragedia e, pagando di persona, ha indicato agli uomini del loro tempo una nuova strada».18 Il discorso su Filangieri è speculare al giudizio di Lomonaco su Mario Pagano: ed è questo il secondo punto del mio contributo che mi preme sottolineare. Su Mario Pagano, uno dei maggiori esperti di criminologia e soprattutto di diritto costituzionale, l’esule lucano esprime un giudizio che, anche nei confronti di Cuoco, mostra di avere con estrema lucidità esattamente compreso il suo reale valore, riconosciuto anche dai costituzionalisti moderni. La costituzione che Pagano ha dato alla Repubblica Napoletana è un autentico capolavoro, perché riesce a evitare i difetti delle altre costituzioni e ad armonizzarne tutti i vantaggi; infatti, secondo il perspicuo giudizio di Lomonaco, fu il vero «cervello motore» del nuovo Stato. Ispirandosi allo «spirito» delle leggi di Montesquieu, Pagano propone, tra il potere esecutivo e quello legislativo, per evitare soprusi e arbitri, un terzo potere, che dà equilibrio alla macchina politica e diventa la vera «sentinella» della Libertà. La costituzione di Pagano è degna di appartenere, sempre secondo il parere di Lomonaco, a tutte le Repubbliche moderne. Il Progetto di Costituzione della Repubblica Napolitana è anonimo, ma unanimemente attribuita a Pagano, che invece firma il Rapporto del Comitato di Legislazione del Governo provvisorio: sia nel Rapporto che nel Progetto (in particolare nel titolo X) Pagano dà grande rilievo all’educazione del cittadino, all’istruzione pubblica e all’istituzione dei teatri repubblicani. Uno dei più attenti studiosi di diritto costituzionale, Gioele Solari, chiarisce anche il pensiero di Pagano nei confronti degli altri membri del Comitato di legislazione e nei confronti dei «liberatori» francesi: il suo lavoro legislativo era «compenetrato con la vita e la cultura napoletana di quest’epoca: esso si radicava in una lunga tradizione di
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S. Martelli, Lomonaco e l’illuminismo meridionale, in Per Francesco Lomonaco cit., p. 83. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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studi e di riforme legislative»;19 quindi, non subì passivamente le influenze delle costituzioni repubblicane francesi del 1793 e del 1795, né si ispirò a un’astratta utopia. Su questo aspetto, per quanto riguarda un più utile confronto con la posizione di Cuoco, va presa in considerazione, invece che la seconda edizione del 1806 del suo Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, la prima del 1801, scritta subito dopo la tragedia del ’99, ora consultabile nell’edizione critica con il testo della prima redazione e l’apparato delle varianti della seconda, nel volume curato da Antonino De Francesco.20 Altro punto importante da considerare, perché rientrava nel progetto politico dei patrioti italiani fin dai primi anni dell’Ottocento, come di recente sottolineto da Christian Del Vento con i suoi riferimenti a Marc-Antoine Julien de Paris, è il ruolo del vero eroe della rivoluzione partenopea, il giovannissimo generale JeanÉtienne Championnet. Lomonaco ne esalta non solo la strategia militare, ma anche le capacità politiche, riportando per intero il testo del suo proclama al popolo napoletano. Da vero figlio della Rivoluzione francese, invita i cittadini partenopei a riprendersi i loro diritti da tempo usurpati, fondando sui principi dell’uguaglianza un governo libero e repubblicano; per la propria sicurezza devono organizzare milizie nazionali, non più servirsi di armi straniere; costruire municipalità e magistrature popolari. Championnet fu ingiustamente calunniato e morì ancora giovane, mentre stava progettando di conquistare anche la Sicilia. Lomonaco e tutti gli esuli meridionali a Milano sentirono il fascino di questo valoroso guerriero, e a lui Foscolo, autorevole portavoce di questi ideali, dedicherà Il discorso su la Italia, in cui con grande passione politica, nell’ottobre 1799, chiede al generale Championnet, reputato «gran Capitano e quindi più magnanimo nell’avversa che nella seconda fortuna», di dare, dopo Roma e Napoli, l’«indipendenza» all’Italia, facendo in modo che la libertà sia «incominciata dal popolo, protetta dalla forza nazionale» e convertendo «tutti i cittadini in soldati»: solo allora si sarebbe manifestato in tutta la sua forza il «grande carattere degli italiani».21 Punto di riferimento per Lomonaco, come per Foscolo, al di là del giovane generale, è tuttavia Napoleone Bonaparte; il Rapporto si conclude non solo con il ricordo dell’immatura morte di Championnet, ma anche con l’appello a Bonaparte, chiamato «nostro concittadino» per ricordarne il sangue italiano: solo con il suo genio militare sarebbe stata conquistata l’indipendenza nazionale.
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G. Solari, L’attività legislativa di Mario Pagano nel governo repubblicano del 1799 a Napoli, in Id., Studi su Francesco Lomonaco, Torino, Giappichelli 1963, p. 258. 20 V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, a cura di A. De Francesco, ManduriaBari-Roma, Lacaita 1998. 21 U. Foscolo, Discorso su la Italia, in Id., Scritti letterari e politici 1796-1808 cit., pp. 158-162. L’elaborazione del processo unitario: Sette e Ottocento
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Le pagine del Rapporto sono, quindi, un «colpo d’occhio» sull’Italia: secondo la concezione politica di Lomonaco, infatti, siccome il territorio napoletano per estensione e fertilità costituiva un importante punto strategico, dalla libertà di Napoli doveva iniziare la libertà d’Italia. La Repubblica Napoletana tragicamente caduta rimane per l’esule un laboratorio politico di primaria importanza; perciò si spiega l’appello al cittadino Carnot, ministro della guerra di Napoleone, a cui si propone, attraverso l’esperienza di Napoli, la possibilità di instaurare la libertà nelle regioni meridionali come punto di partenza per estenderla all’intera penisola. L’Italia, infatti, scrive Lomonaco, bagnata da tre mari, circondata da monti inaccessibili, è destinata dalla natura a formare una sola potenza: l’unità nazionale è indispensabile ai suoi abitanti, perché hanno la stessa lingua, le medesime passioni, gli stessi caratteri e opinioni religiose.22 Punto centrale, questo, comune a tutti i patrioti italiani, su cui ritornerà Foscolo nella lettera da Ventimiglia, 19 e 20 febbraio 1799, quando Jacopo Ortis, sullo sfondo di una natura «solitaria e minacciosa», lì dove «si vedono imposte su le cervici dell’Alpi altre Alpi di neve che si immergono nel Cielo», medita sull’ingiusta sorte toccata alla patria, a cui, proprio perché priva di interna unità («nulla ti manca se non la forza della concordia»),23 altri popoli hanno con la loro sete di sopraffazione tolto l’indipendenza: «i tuoi confini, o Italia, son questi: ma sono tuttodì sormontati d’ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni». Così pure, anni dopo, in Marzo 1821, Manzoni riprenderà lo stesso concetto unitario formulato da Lomonaco: Una d’arme, di lingua, d’altare, / Di memorie, di sangue e di cor.24 Nel Colpo d’occhio sull’Italia è anche un attacco durissimo al potere temporale dei pontefici di Roma, al loro dispotismo reazionario, che di fatti impediva, data la collocazione geografica dello Stato del Vaticano, l’unità della nazione. La formazione culturale di Lomonaco, di matrice illuministica con evidenti influssi massonici, è al fondo delle sue accuse alla Chiesa di fanatismo e di impostura, con una dura requisitoria, in cui sono ricordati i diritti dell’uomo, la libertà e le leggi di natura calpestati nei secoli attraverso il rogo di Giordano Bruno e la prigionia di Galilei.
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«L’Italia, non essendo divisa né per mezzo di grossi fiumi, né di gran montagne, godendo la stessa bellezza di cielo, pressa a poco la stessa fertilità di suolo, racchiudendo in sé tutte le umane risorse, bagnata dal Mediterraneo, dall’Ionio, dall’Adriatico, e separata dagli altri popoli da una catena di monti inaccessibili, sembra che dalla natura sia destinata a formare una sola potenza. I suoi abitanti, che parlano la stessa lingua, che hanno la medesima tinta di passioni e di carattere, che godono di un eguale germe di sviluppo morale e di fisica energia, che non sono separati né da interessi, né da opinioni religiose, sono fatti per essere i membri della stessa famiglia», Rapporto, p. 79. 23 U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Gambarin, Firenze, Le Monnier 1970, p. 434. 24 A. Manzoni, Marzo 1821, in Id., Tutte le poesie 1797-1872 cit., p. 198. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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Il rimedio al dispotismo del papa e del re, l’antidoto alle divisioni e alle lotte civili non poteva che essere una rivoluzione vera, che Lomonaco definisce «attiva»: ed è questo l’altro decisivo punto che va evidenziato soprattutto a quanti hanno tacciato i discepoli di Vico, Genovesi e Filangieri di astrattismo. Questa rivoluzione non era quindi «passiva», vale a dire importata dalla Francia in Italia e utopisticamente attuata in un contesto storico diverso, ma concreta fondatrice di uno spirito nazionale, attraverso l’educazione, l’amore della virtù e della patria e soprattutto attraverso un’eguaglianza che doveva consentire l’indipendenza dalla «protezione» degli stranieri e quindi anche dagli stessi «liberatori» francesi. Di conseguenza, Lomonaco si inserisce nel solco della concezione unitaria italiana, che annovera tra i suoi sostenitori un altro esule meridionale a Milano, Matteo Angelo Galdi, il quale con il suo scritto, Necessità di stabilire una repubblica in Italia, aveva, fin dal 1796, tracciato le basi del processo unitario come via all’indipendenza nazionale, pubblicandolo, poco tempo prima dell’uscita del bando di concorso sul tema: Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia.25 Secondo Carlo Zaghi, storico dell’Italia giacobina, Galdi fu «uno dei più convinti assertori dell’unità della penisola e con lui molti profughi meridionali che a Milano avevano trovato una seconda patria»,26 ed è anche importante per aver fondato il «Giornale de’ patrioti d’Italia», che va dal 20 gennaio al 27 novembre 1797 con ben 143 numeri.27 Indipendenza e unità erano possibili solamente in un quadro di equilibrio europeo: le conclusioni del Rapporto – in netto anticipo su una delle componenti risorgimentali che non ritenevano possibile modificare la situazione italiana senza un
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Con il saggio Necessità di stabilire una repubblica in Italia Galdi partecipò al concorso bandito dal decreto del 7 settembre 1796 dall’Amministrazione generale della Lombardia dal tema Quale dei governi liberi convenga alla felicità dell’Italia; il premio fu vinto da Melchiorre Gioja. Secondo Zaghi, «la voce più alta e squillante che esce dalle dissertazioni e, parallelamente, dalla stampa democratica del Triennio in generale, e che coinvolge nella polemica tanto i repubblicani moderati che i democratici, pur su posizioni diverse e lontane sul terreno politico, è quella degli unitari: una piccola agguerrita pattuglia, che ben presto finirà per imporsi con prepotenza altri e spingere l’idea federale ai margini della vita politica. Che il problema fosse sentito da tutto il paese lo dimostra il fatto che il libro in cui Galdi affermava la necessità di creare una grande repubblica in Italia (Necessità di stabilire una repubblica italiana, Milano, Veladini, Anno V), ebbe fatto insolito nella pubblicistica repubblicana, ben cinque edizioni, la prima esaurita con «rapidità incredibile», fu tradotto in francese da Villetard, segretario della legislazione francese a Genova, e fu confutato vigorosamente dal conte Gian Francesco Napione per incarico della corte di Torino, allarmato dell’idea d’una repubblica italiana a carattere unitario», C. Zaghi, L’Italia giacobina, Torino, Utet 1989, p. 148. 26 Ivi, p. 149. 27 Giornale de’ patrioti d’Italia, a cura di P. Zanoli, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea 1988. L’elaborazione del processo unitario: Sette e Ottocento
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contestuale cambiamento dello scacchiere geopolitico dell’Europa –, insistono su una confederazione di liberi stati europei, a cui dovrà dare anche il suo apporto quello che egli chiama «il popolo futuro d’Italia».28 Realizzandosi questa idea, gli Italiani potranno avere una nazione, e quindi acquistare uno spirito di nazionalità, potranno avere una patria, e quindi godere della libertà, potranno avere forza e orgoglio pubblico, e quindi liberarsi dal giogo degli stranieri. Indubbiamente legato a tutta l’area culturale prerisorgirmentale, il pensiero politico di Lomonaco ha una sua specifica identità, soprattutto per l’intuizione, ripresa da Foscolo subito dopo la dura repressione dei moti del 1820-21 – come emerge anche dal carteggio del poeta con il generale Guglielmo Pepe esule a Londra –, che la catastrofe napoletana del ’99 fu un vero e proprio laboratorio dove le potenze europee avevano sperimentato quel diritto di intervento per sopprimere lo ius gentium, divenuto poi pratica costante in gran parte delle vicende storiche di tutta la prima metà del secolo decimonono.
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Per Lomonaco, «perché termini il monopolio inglese, e i vili isolani cessino di arricchirsi su le rovine del continente; perché si oppongano argini all’ambizione dell’Australia, la Francia abbia una fedele alleata, la condotta della Prussia sia meno equivoca, il gran colosso dell’impero stia immobile ne’ghiacci del Nord, la Spagna divenga stabile amica della gran repubblica; perché, in una parola, vi sia in Europa bilancia politica e si dissechi la sorgente delle guerre, è d’uopo che l’Italia sia fusa in un solo governo, facendo un fascio di forze. Realizzandosi questa idea, gl’italiani, avendo nazione, acquisteranno spirito di nazionalità; avendo governo, diverranno politici e guerrieri; avendo patria, godranno della libertà e di tutt’i beni che ne derivano; formando una gran massa di popolazione,saranno penetrati da’ sentimenti della forza e dell’orgoglio pubblico, e stabiliranno una potenza che non sarà soggetta agli assalti dello straniero; giacché guai a quella nazione che per dirigere i suoi affari domestici ha bisogno del soccorso altrui!», Rapporto, pp. 83-85. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
DAL FUTURO SENZA ITALIA ALL’ITALIA SENZA FUTURO
CORRADO CONFALONIERI L’apertura di un a-venire tra Leopardi, Montale e Zanzotto
In memoria di Andrea Zanzotto
Il futuro non è; se è, infatti, non è futuro: il verbo imprigiona il nome al di qua di se stesso, costringendolo alla presenza.1 Che si può fare con il futuro? Cosa si può fare con qualcosa che non c’è? Niente, si direbbe. Anzi, se qualcosa (che sia cosa tempo evento o altro) non è o non è ancora, non resta che attendere: oltre l’attesa, niente. Eppure, se da qualche parte si trova, il futuro sembra stare al di là dell’attesa, in un oltre situato alla fine di essa. Uno strano gioco irretisce il discorso: oltre l’attesa niente, e il futuro oltre l’attesa. Alla fine dell’attesa, insomma, il futuro: quel futuro che, in un altro senso della parola fine, dell’attesa è il fine, (τέλος). Tra “fine dell’attesa” e “futuro” sussiste dunque un rapporto che non si lascia risolvere con facilità; di più: occorre operare una scomposizione in tre termini (“fine”, “attesa”, “futuro”) per aprire il prefigurarsi di un orizzonte mobile, semper cedens retro, in cui una qualche azione congiunta dei primi due condurrà, forse, al terzo. Perché se il fine dell’attesa è il futuro – cosa si può attendere, se non ciò che deve (ancora) venire? –, quest’ultimo non arriverà che alla fine di essa, quando essa sarà finita. 1 L’impostazione del presente lavoro, cui è sottesa una concezione del futuro che di quest’ultimo rispetti l’intrinseco carattere di “avvenire”, deve molto all’«interrogazione sull’eventualità dell’evento» (S. Petrosino, Jacques Derrida. Per un avvenire al di là del futuro, Roma, Edizioni Studium 2009, p. 11) condotta da Jacques Derrida: «Che cosa avviene? A questa domanda dell’avvenire – parola dalle potenti fluttuazioni – sarei tentato di rispondere, algebricamente, che niente può av-venire se non avvenendo alla domanda che cos’è? : se non accostandovisi, finalmente, per ancorarvisi, o, al contrario, se non per vibrarle un duro colpo. Nel primo caso, quando si può rispondere alla domanda che cos’è?, non succede niente, non avviene niente che non sia già stato anticipato nella sua forma più generale: l’essere. Nessuna vera sorpresa. Nel secondo caso, ciò che succede, l’evento, l’irruzione di ciò che avviene, non è nulla di cui si possa dire: questo è (dell’essente), questa è una quercia in cui riconosciamo (Hegel) lo sviluppo di una ghianda», J. Derrida, Posizioni. Scene, atti, figure della disseminazione, a cura di G. Sertoli, Verona, Ombre Corte 1999, pp. 124-125.
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1. L’attesa si fonda su posizioni: è una figura relazionale, solidale rispetto a un sistema binario di affermazioni e di negazioni. Omnis determinatio est negatio, si diceva: ecco che l’attesa, nella sua necessità di un hic et nunc da cui sporgersi oltre, non è pensabile senza un non-hic e un non-nunc verso cui sporgere, e il luogo da cui essa si protende fissa il non-luogo verso cui tendere. La posizione del qui-ora si rovescia nell’opposto non-qui/non-ora verso cui si guarda (e non è più decisivo che il non-ora coincida con un prima “passato” o con un poi “futuro”):2 affermati tempo e luogo, l’attesa prende corpo insieme con la possibilità di misurarla attraverso il riferimento alla posizione spazio-temporale determinata. Lo spazio-tempo dell’attesa si stende tra due punti articolati per posizione e opposizione: ne consegue che, qualora si tratti del rapporto tra presente e futuro, il futuro sarà pensato come nonpresente e dunque, sia pur in via negativa, determinato quanto il presente stesso. L’indeterminatezza, carattere costitutivo del futuro, scompare: il futuro determinato non è più futuro, addomesticato com’è in un presente differito. Quel che sarà coincide con quel che è già stato; passato e futuro, opposti al presente e da questo pensati, si ripetono l’uno nell’altro, simulacri di un tempo, questo, che, proteso prima e dopo se stesso e da se stesso sempre al di fuori, non lascia che alcun tempo all’infuori di sé possa conservarsi. Spezzato in parti tanto complementari quanto coincidenti, il presente si divide in presente-passato e in presente-futuro si proietta contemporaneamente avanti e indietro, cancellando l’altro tempo mentre, in apparenza, cancella sé verso l’altro tempo proteso. Dallo Zibaldone di Leopardi: Io provo presentemente un piacere, io vorrei che la condizione di tutta la mia vita, di tutta l’eternità, fosse uguale a quella in cui mi trovo in questo momento. Questo è ciò che nessun uomo dice mai né può dire in buona fede, neppur per un solo momento, neppure nell’atto del maggior piacere possibile. Ora se egli in quel momento provasse in verità un piacer presente e perfetto (e se non è perfetto, non è piacere), egli dovrebbe naturalmente desiderare di provarlo sempre, perché il fine dell’uomo è il piacere; e quindi desiderare che tutta la sua vita fosse tale qual è per lui quel momento, e di più desiderare di vivere sempre, per sempre godere. Ma egli è certissimo che nessun uomo ha concepito né formato mai questo desiderio nemmeno nel punto più felice della sua vita, e nemmeno durante quel solo punto: egli è certissimo che non ha concepito né mai concepirà questo desiderio per un solo istante neppur l’uomo, qualunque sia, che fra tutti gli uomini ha provato o è per provare il massimo possibile piacere. E ciò perché nemmeno in quel punto niuno mai si trovò pienamente soddisfatto, né lasciò né sospese punto il desiderio né anche la speranza di un maggiore ed assai
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Il privilegio del qui-ora sorge non appena ci si accosti al tempo entro una dimensione cronometrica tale da assegnare all’orologio, o ad altri dispositivi, il compito di “misurare” il tempo stesso: cfr. M. Heidegger, Il concetto di tempo, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi 1998, pp. 44-45. XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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maggior piacere. Con che egli non venne in quel punto a provare un vero e concreto piacere. Bensì dopo passato quel tal punto l’uomo spesse volte desidera che tutta la sua vita fosse conforme a quel punto, ed esprime questo desiderio con se stesso e cogli altri in buona fede. Ma egli ha torto, perché ottenendo il suo desiderio, lascerebbe di approvarlo ec.3
La topica impossibilità del piacere presente sbilancia sì lo sguardo verso un tempo che non è attuale, ma proprio per questo rivela quanto lo sguardo stesso sia fermo al qui-ora e misuri, da questo qui-ora, la distanza con un qui-ora proiettato in avanti (o ri-proiettato indietro). Lo Standpunkt, immobile nel presente di un piacere inattingibile, si consente, per la via doppia ma una della rimembranza e della speme, l’accesso a un piacere negato e possibile, in definitiva, soltanto attraverso la negazione del tempo da cui al piacere si rivolge: il presente diventa determinante di un tempo determinato come non-presente nel quale confluiscono, differenti fatti identici, passato e futuro. Il presente del piacere non c’è, non c’è mai stato né mai ci sarà per il motivo che non c’è, non c’è mai stato né mai ci sarà null’altro che il presente stesso, quello di un qui-ora (nelle varianti di adesso, prima e poi) in cui il piacere non si lascia afferrare. La scrittura scrive del futuro e del passato, del non-presente che entrambi sono, situandosi al qui-ora di quando quel non-presente che il passato è, e quel non-presente che il futuro è, non sono già più o non sono ancora: e così, scrivendo nel qui e al non-qui guardando da qui, del qui insiste a scrivere. Non sorprende, allora, che La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio,4 pur dedicati a tempi diversi, si costruiscano sopra una struttura omogenea, che ne articola una certa complementarità benché essi siano rivolti in direzioni contrarie. Figura della ripetizione, si dispone lungo i due assi testuali una serie di motivi ascrivibili all’idea di ritorno, che marca la dimensione temporale di un’idea di continuità: la linea che congiunge passato, presente e futuro, priva di fratture tra un tempo e l’altro, si volge in circolo, destinata a rinnovare fino al rito la dinamica aspettualmente comune dell’attesa e del ricordo. Proprio la ritualità, nel suo perpetuo ri-proporre, si profila come dell’impossibilità di lasciar-essere un futuro che, rispettoso dell’indeterminatezza, sia ancora un futuro. L’avvenire, nella ripetuta prefigurazione propria di speme e attesa, è sempre già venuto: in se stesso contraddittorio, insomma, l’avvenire non è più a-venire. E così, «la donzelletta» del Sabato s’incarna precocemente nella «vecchierella» intenta a filare che, attraverso il ricordo dei suoi «dì della festa», si re-incarna in lei, e l’una sarà l’altra perché l’una è già l’altra: il piacere della prima, consegnato alla frustrazione del «diman», è lo stesso piacere della seconda, ri-vissuto nella medesima frustrazione del «buon tempo» del non-ora pas-
3 G. Leopardi, Opere, a cura di S. Solmi e R. Solmi, Milano-Napoli, Riccardi 1956, II, pp. 516-517. 4 Ivi, I, pp. 109-111, 112-113.
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sato. Il qui-ora resta punto d’osservazione per quel non-qui/non-ora in cui s’incrociano il ricordo dell’anziana e l’attesa della giovane che, cronologicamente diversi, restano tuttavia coincidenti sul piano logico. La scrittura del Sabato, raccolta intorno all’isotopia della ripetizione, cancella il non-sapere, attraendo nella propria area di conoscenza il domani stesso: Questo di sette è il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia: Diman tristezza e noia Recheran l’ore, ed al travaglio usato Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Non occorre attendere, un domani indeterminato non c’è: il domani, invece, determinato dal qui-ora, è già conosciuto, preso nel concetto fagocitante di ritorno. Attesa, speranza, delusione e ricordo s’incollanano incessantemente senza vuoti; dato un punto del circolo, gli altri ne conseguono secondo necessità: l’a-venire, capovolto nel già-venuto fino a coincidervi, svanisce nella prefigurazione, contenuto in un Erwartungshorizont che, nell’aprirlo, lo chiude. Quando c’era, il passato era presente; quando sarà, il futuro sarà presente: è questo il motivo, doppio, per cui in il piacere non si dà. Il presente è, era, sarà: lo Standpunkt del qui-ora, non venendo mai messo in questione, (si) nega l’accesso al piacere. Ecco allora che, nel Sabato, il «suole» trova corrispondenza nel «solea», e ogni gesto, nel moto di ritorno, rimanda all’abitudine: Or la squilla dà segno Della festa che viene; Ed a quel suon diresti Che il cor si riconforta.
Il suono del qui-ora richiama tanto il non-qui/non-ora futuro (la «festa che viene») quanto il non-qui/non-ora passato («il cor si riconforta», ricordo della festa che venne), inglobando il non-presente nel presente del punto di osservazione: sempre identico a se stesso, il soggetto è il perno intorno al quale gira la ruota del tempo che col suo circolo chiuso e asfitticamente perfetto produce un cammino in eterno già-segnato. Il fare, condannato a ri-fare, è un fare-in-vista-di qualcosa che viene senza evento, un’attività con un(a) fine certo che funziona come attesa di un atteso già-scritto, secondo quanto decreta lo spegnersi del brulichio della seconda strofa nell’inazione della terza: le rime, associando «gioia» e «noia», «giorno» e «ritorno», portano nel sintagma una nervatura paradigmatica che presiede all’intera poesia e alla “teoria del piacere”, mentre lo stesso «travaglio usato» si allarga fino a ricomprendere il meccanismo complessivo del testo. Movimento totalizzante, questo, che l’ultima strofa, rifunzionalizzazione del congedo, estende allo parabola esistenziale, sovrapponendo la coppia «sabato»/«dì di festa» all’altra coppia «età fiorita»/«festa di [tua] vita»: a legare i termini in continuità tra il prima e il (suo) poi, la XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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figura del “precorrere” che contiene in sé, innestandola sul rapporto di precedenza, la grammatica dell’anticipazione. Il futuro, precorso, è precluso: guardato dal presente e da questo atteso, esso si dà nel paradossale anticiparsi che si genera nel differimento cui il presente, proiettando se stesso avanti a sé, si affida; il fiorire, primo momento dello sfiorire che ineluttabile gli succederà, è già preso nella propria cancellazione, e l’orizzonte d’attesa, misura di una certa delusione a-venire, viene deluso ma non eluso né ritracciato da ciò che viene: perché tutto è già al qui-ora, e la sua venuta è l’eterno ritorno di ciò che, presente in forma negata, (non-)è. 2. Gloria del disteso mezzogiorno5 rinnova, per le mani di Montale, la struttura cronotopica del Sabato, articolandosi in un sistema di opposizioni binarie su cui è fondato un andamento ciclico del tempo tale da appropriare il futuro al presente. In questa «reliquia di vita», la stasi denuncia l’illusorio tendere-verso dell’attesa che, mentre rompe il tempo in presente e futuro, ne ricompone presto la continuità. La «gioia», evocazione del Sabato, può compiersi nell’attesa perché essa, un po’ come nell’«attender l’attesa»6 di Rebora, si serra nell’accusativo dell’oggetto interno, impedendosi nella luce della previsione l’illuminazione della visione. Che l’attesa si esaurisca nell’eterna frustrazione dell’immanenza, Montale lo scrive in Satura con un gioco di ironia metalinguistica: Da millenni attendiamo che qualcuno ci saluti al proscenio con battimani o anche con qualche fischio, non importa, purché ci riconforti un nous sommes là. Purtroppo non pensiamo in francese e così restiamo sempre al qui e mai al là.7
Se “riconfortarsi” ammicca ancora al Sabato, il lavoro sui deittici mostra l’impossibile trascendere, ripetendo il costitutivo malfunzionamento di un attesa che, sebbene in apparenza orientata verso l’oltre-sé, rimane entro se stessa. Die Sprache spricht:8 l’uomo è parlato da una lingua che gli nega il «là», imbrigliandolo in un tempo in cui non si può dare evento. E così, nella luce falba di Gloria del disteso mez-
5 E. Montale, Gloria del disteso mezzogiorno…, in Id., L’opera in versi, edizione critica a cura di R. Bettarini e G. Contini, Torino, Einaudi 1980, p. 37; di qui in avanti, per i testi di Montale, il riferimento sarà l’edizione appena citata (sigla OV). 6 C. Rebora, Stralcio, in «La Brigata», n. 8, aprile 1917, edizione anastatica a cura di G. Tellini, Parma, Università di Parma – Regione Emilia-Romagna 1983, pp. 176-177. 7 OV, p. 349 (Qui e là). 8 Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Milano, Mursia 1973, in particolare pp. 27-44.
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zogiorno, l’unico movimento resta quello del «martin pescatore» che «volteggia», una sorta di rotazione che rimanda a uno sterile ingarbugliarsi in circolo di una traiettoria lineare negata: non c’è percorso che congiunga “qui” e “là” poiché il secondo è un “ non-qui”, proiezione rovesciata del primo e da questo pensato; il volo, impossibile, è svilito nella parodia del volteggio. L’indicativo presente del verbo essere, mentre stabilisce che «l’ora più bella è di là dal muretto», che «la buona pioggia è di là dallo squallore», rende futuro il presente e presente il futuro, determinandone e cancellandone l’indeterminatezza. La linea del «muretto», allora, opera una doppia chiusura, poiché essa è il limite entro il quale si muove il presente e il limite oltre il quale sorge il futuro; all’atto di chiuder-dentro e di chiuder-fuori, essa scrive tanto il presente del qui quanto il futuro del non-qui. Questo sistema di posizione e opposizione in cui è inscritto il rapporto tra presente e futuro è solidale con il circolo della previsione, mentre il futuro-futuro, tempo altro, resta a carico di eventuali figure di rottura della circolarità medesima, come in Casa sul mare:9 Il viaggio finisce qui: nelle cure meschine che dividono l’anima che non sa più dare un grido. Ora i minuti sono eguali e fissi come i giri di ruota della pompa. Un giro: un salir d’acqua che rimbomba. Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.
Questa lirica, che associa l’opposizione tra qui e non-qui a quella tra io e tu, articola il rapporto tra finito e infinito secondo un’estraneità reciproca: «Il cammino finisce a queste prode / che rode la marea col moto alterno. / Il tuo cuore vicino che non m’ode / salpa già forse per l’eterno». L’io «della razza di chi rimane a terra» vive nel tempo che si ripete, mentre la «possibilità dell’impossibile»,10 chance dello sfaldamento del circolo, si struttura intorno alla parola-tema «varco» che già a partire dal testo inaugurale degli Ossi, nella variante della «maglia rotta nella rete»,11 è pertinenza esclusiva del tu: forse solo chi vuole s’infinita, e questo tu potrai, chissà, non io. Penso che per i più non sia salvezza, ma taluno sovverta ogni disegno, passi il varco, qual volle si ritrovi.
9
OV, pp. 91-92. J. Derrida, La scommessa, una prefazione, forse una trappola, prefazione a S. Petrosino, Jacques Derrida e la legge del possibile. Un’introduzione, Milano, Jaca Book 19972, pp. 9-19: 12. 11 OV, p. 5 (Godi se il vento ch’entra nel pomario…). 10
XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
L’apertura di un a-venire tra Leopardi, Montale e Zanzotto
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Nel sovvertimento, il futuro si dà per scarto. Tuttavia, proprio quando la rottura pare perfezionarsi, la spinta eccentrica riattiva una forma di continuità ex post tra futuro, passato e presente: il ritrovarsi «qual si volle», rivelando la verificabilità hic et nunc di un programma elaborato illic et tunc, tradisce quanto il futuro fuori dal circolo, se non è più un in linea con alcun disegno, non è però altro che un disegno. L’attesa dell’atteso si converte in una «attesa dell’inatteso»12 in cui, negando il contenuto senza mutare la forma, il movimento di negazione produce soltanto una riaffermazione rovesciata dello stato iniziale. L’attesa, insomma, elimina in quanto forma l’alterità dell’avvenire, poiché inscrive in un orizzonte marcato dal “qui” ciò che dovrebbe essere pensato al di fuori di ogni pre-condizione: si comprende così come l’«avvento», di cui Montale in Gerarchie scrive che «è l’improbabile nell’avvenibile»,13 sia l’impossibile nell’avvenibile, perché quest’ultimo, orizzonte di attesa dell’avvento, ne de-limita l’avvenire stesso. La forma dell’attesa sembra produrre l’impossibilizzazione del proprio contenuto; in questo modo, lo studio del viaggio prima del viaggio nega la possibilità del viaggio medesimo: E ora che ne sarà del mio viaggio? Troppo accuratamente l’ho studiato senza saperne nulla. Un imprevisto è la sola speranza. Ma mi dicono ch’è una stoltezza dirselo.14
Il viaggio non può più essere il proprio viaggio, affossato dal troppo studio che, prima, gli si è dedicato: la «stoltezza» che l’impersonale dicono – verbo riconducibile al brulicante Gerede che larga parte ha in Satura15 – proietta sulla speranza dell’imprevisto, allora, è da riferire non tanto al contenuto quanto alla forma, poiché l’imprevisto stesso, opposto del posto, s’inscrive di nuovo all’interno del movimento concettuale della previsione. Struttura addomesticante, l’attesa riposa sulla continuità e sulla conservazione dello stesso punto di vista, su un qui-ora che, libero di inviarsi oltre sé, si mantiene identico a sé oltre l’invio: lo Standpunkt si garantisce una certa immortalità, si preserva vivo e a sé coincidente in tempi diversi che, pensati dal qui-ora, si fondono in un eternamente presente medesimo tempo («Gli uomini si sono organizzati / come fossero immortali; / senza di che sarebbe stolto credere / che nell’essente viva ciò che fu»).16 Senza colpi di scena17 rivela come anche
12
A. J. Greimas, Dell’imperfezione, Palermo, Sellerio 1988, p. 72. OV, p. 313. 14 Ivi, p. 380 (Prima del viaggio). 15 C. Ott., Montale e la parola riflessa. Dal disincanto linguistico degli ‘Ossi’ attraverso le incarnazioni della ‘Bufera’ alla lirica de costruttiva dei ‘Diari’, Milano, Franco Angeli 2006, p. 248 e p. 294. 16 OV, p. 488 (Gli uomini si sono organizzati…). 17 Ivi, p. 503. 13
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dopo l’arrivo di un futuro non decifrabile in anticipo «noi» saremo ancora «noi»: il «vedremo», Standpunkt figura di un “Io penso” cartesiano non attratto nel dubbio, sarà sempre da questa parte, dalla nostra («Non sapremo nemmeno / che sia sapere e non sapere, vivere / o quasi o nulla affatto. È presto detto, / il resto lo vedremo a cose fatte»). L’attesa dell’inatteso è ancora un’attesa, antitesi che, per struttura, trova la coincidenza battendo la strada della contrarietà: il paradosso si traduce nella coincidentia oppositorum, a meno che non si ceda la posizione attiva all’inatteso, assegnandogli il ruolo di (retro)agire sull’attendere. «Pensare l’impensabile» (ciò che Montale scrive essere «orrendo»)18 può dunque considerarsi la via per aprire il rischio di un bagliore a venire a patto però che l’impensabile, da oggetto facendosi soggetto, si ritorca come forma contro la forma del pensare. La scrittura del futuro, se si dà, diventa possibile rispettando il carattere di monstrum del futuro: scrittura/traccia di un tempo a venire che “mangia” il qui che lo scrive, di un tempo che, esplodendo all’uscire da sé (Elogio del nostro tempo19 richiama il momento in cui «potrebbe / non essere lontana / l’ora in cui troppo si sarà gonfiata / secondo un noto apologo la rana»), implode all’entrare dell’altro. Non è davvero un caso che nell’ultima stagione poetica di Montale emerga l’immagine di un futuro carnivoro, figura di un’alterità che incombe a presentare il suo conto, in forma di a(du)lterazione, al presente continuamente “mangiato” da cui lo si guarda: il futuro ha appetito non si contenta più di hors-d’œuvre e domanda schidionate di volatili frolli, nauseabonde delizie – il futuro è altresì disappetente può volere una crosta ma che crosta quale non fu mai vista nei menus – il futuro è anche onnivoro e non guarda per il sottile – Qui la casa dove visse più anni un pederasta illustre assassinato altrove – Il futuro è per lui – non è nulla di simile nella mia vita nulla che sazi le bramose fauci del futuro.20
4. Se il futuro è tempo che non si consegna in rapporto di continuità diretta col presente, ciò comporta un movimento di destabilizzazione cui il cogito non può sottrarsi: non può darsi, in altre parole, un’immediata esteriorità, poiché lo Standpunkt
18
Ivi, p. 498 (Due epigrammi). Ivi, p. 545. 20 Ivi, p. 548 (Soliloquio). 19
XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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non ha garantita la fissità extratemporale del proprio sguardo sul tempo. Il centro si decentra nel divenire di una precessione universale continua, e lo sguardo sul tempo, inseparabile da un tempo dello sguardo, vive nel tempo spostandosi da sé al variare di quest’ultimo. Resistente a lasciarsi prendere in un vedere “oggettivo”, il tempo-osservato agisce sull’osservante come contenuto che contiene il proprio contenente: nella “scrittura del futuro”, insomma, il genitivo soggettivo disfa il lavoro del genitivo oggettivo – “tela di Penelope” per cui la scrittura si rende impossibile scrivendosi. Tematizzando di frequente il problema del soggetto,21 la poesia di Zanzotto erode la centralità dell’“Io penso” e il suo privilegio di Standpunkt in un vortice metadiscorsivo in cui l’io, scrivente preso nella scena del testo, è scritto dalla scrittura («io, fatto di parole, dissolto in parole fuggitive (o abortive)»).22 Quasi per smarcamento, questo meccanismo consente l’aprirsi di uno sguardo in cui il nonqui non è più un mero non-qui pensato in opposto all’hic et nunc della res cogitans, ma trova, fuori dal movimento di tesi e antitesi, una sua irriducibile alterità. Il futuro come «trafittura»23 conduce a liquidare la figura dell’attesa: ne «il mio cuore trafitto dal futuro»,24 infatti, la dinamica del «trafiggere» rovescia il rapporto di attività e passività, e il soggetto, non più padrone, diventa di un’azione che subisce; mentre l’attesa conserva all’io l’attiva centralità dell’attendere, la trafittura del tempo a venire si ripiega sul soggetto spo(de)standolo dalla posizione di agente a quella passiva di agito. Un dispositivo, questo, che talvolta si rinnova fino a confiscare all’io, oltre all’«attendere», lo stesso «accogliere»: nessun tempo è mai passato ogni tempo – unicamente – verrà Nulla in più da attendere, da nessun clivo o frattura
21
S. Agosti, L’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto, in A. Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G. M. Villalta, Milano, Mondadori 1999, pp. IX-XLIX: XI (da questo volume, richiamato con la forma abbreviata Poesie, si citeranno anche i testi di Zanzotto, con l’ovvia eccezione dei componimenti inclusi nelle più recenti raccolte Sovrimpressioni e Conglomerati). Al momento della preparazione del contributo non era ancora disponibile, e non è stato dunque utilizzato, il volume comprendente l’intera produzione in versi di Zanzotto: Tutte le poesie, a cura di S. Dal Bianco, Milano, Mondadori 2011. 22 A. Zanzotto, Prato e fieno – prove di avvicinamento, in Id., Conglomerati, Milano, Mondadori 2009, p. 186. 23 G. Baratta, Il tempo, l’io e il linguaggio nella poesia di Andrea Zanzotto, in Id., Miraggi della Biblioteca, Brescia, Shakespeare & Company 1986, pp. 106-154: 109. 24 Poesie, p. 45 (Quanto a lungo). Dal futuro senza Italia all’Italia senza futuro
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da nessuna memoria né semenza Là sta idea, consistenza, renitenza Là fu, mai fu, là – unicamente – accogliere.25
Soggetto è il tempo, mentre l’io è decentrato fino a diventare un tu («– Io – in tremiti continui, – io – disperso / e presente: mai giunge / l’ora tua, / mai suona il cielo del tuo vero nascere»; e ancora: «Di te vivrò fin che distratto ecceda / il tuo nume sul mio / già estinto significato, / fin che in altri territori tu rigermini / in altre vanificazioni»26): da ciò deriva che il tempo-soggetto non si può attendere, poiché il qui-ora della presenza a sé di una coscienza non è più l’origine, ma è anzi già catturato in quel che cerca di catturare. La forma dell’inchiesta, ribaltandosi su se stessa, produce l’espulsione del cercante dalla propria posizione; il tempo a venire, autodeterminantesi, non può essere a priori determinato: Futura età, urto di pietra sulfureo sangue che escludi che inintelligibili fai questi fiori e gridi ed amori, non-uomo mi depongo ad attendermi senza nulla attendere, già domani con me nel mio fuisse, pieghe tra pieghe della terra cieca ad ogni tentazione d’alba.27
L’attività si dispone dal lato del tempo a venire, forza che incombe rapinosa sul presente del “questo”; se l’attesa rende impossibile il futuro, il futuro-urto si dà, al contrario, come impossibilità del tempo presente, come indeterminatezza del/nel determinato. Il sapere del qui-ora si perde sotto la spinta del futuro: a quest’ultimo, anzi, compete un certo – pur «ottuso» – sapere, poiché è esso stesso soggetto/agente. Dall’attesa si passa così alla liquidazione del soggetto medesimo in favore di un futuro-soggetto, facendo del tempo a venire il centro mobile da cui scaturisce la scrittura; il movimento dell’attesa dal presente al futuro si rovescia nell’opposto, e il testo, che nell’attendere germina dall’hic et nunc, sorge così nel cuore dell’indeterminato a-venire al di là di ogni qui/non-qui e di ogni ora/nonora, ponendosi per il presente come possibilità dell’impossibile: Come i cavi s’ingranano a crinali i crinali a tranelli a gru ad antenne
25
Ivi, p. 807 (Stanza immaginata o intravista). Ivi, pp. 162-163 (Prima persona). 27 Ivi, p. 187 (Fuisse). 26
XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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e ottuso mostro in un prima eterno capovolto il futuro diviene. Il suono il movimento l’amore s’ammollisce in bava in fisima, gettata torcia il sole mi sfugge. Io parlo in questa lingua che passerà.28
Vicino al Montale di Soliloquio e alla mostruosità che si ripropone in altre liriche dello stesso Zanzotto (da «il futuro disquama»29 di Un libro di Ecloghe al futuro «tutto camminamenti / di budella pancreas fegati ventri»30 di Questioni di etichetta o anche cavalleresche), il futuro avanza. L’arrivo è evento non inscrivibile in un orizzonte d’attesa preesistente: anzi, il “divenire” del futuro, ora soggetto, rompe la continuità temporale e capovolgendo lo status quo riscrive ex post il «prima»,31 fino a negare che questo fosse il “prima” di quello stesso “poi” («Grandi creatività / anomalizzano gli orizzonti»;32 si legge in Silicio, carbonio, castellieri; e più tardi, in Addio a Ligonàs: «Ligonàs, circondato / ormai da funebri viali di future “imprese” / da grulle gru, sfondamenti di orizzonti / che crollano in se stessi / intorno a te»33). L’«ottuso mostro»34 non è il futuro di questo presente: moto di un tempo-soggetto, il “farsi presente del futuro” è rovesciamento copernicano di quel “fare presente il
28
Ivi, p. 145 (Caso Vocativo). Ivi, p. 201. 30 Ivi, p. 615. 31 L’orizzonte, struttura di una pre-comprensione e dunque antecedente al venire di ciò che avviene, è in realtà da quest’ultimo ecceduto e ri-scritto; da anteriore all’evento, l’orizzonte diventa posteriore a se stesso, spostato e ritracciato dallo smarcarsi rispetto a esso di ciò che, avvenendo, «lo oltrepassa e vi sfugge», C. Di Martino, Figure dell’evento. A partire da Jacques Derrida, Milano, Guerini 2009, p. 24. 32 Poesie, p. 658 (Silicio, carbonio, castellieri) 33 A. Zanzotto, Conglomerati cit., p. 9. 34 Già nella prima fase della proprio lavoro, Derrida avvicinava l’avvenire alla categoria di mostruosità, sostenendo che «l’avvenire non può anticiparsi che nella forma dell’assoluto pericolo. Esso è ciò che rompe assolutamente con la normalità costituita e non può dunque annunciarsi, presentarsi, che sotto la specie della mostruosità», J. Derrida, Della grammatologia, a cura di G. Dalmasso, Milano, Jaca Book 1969, p. 22. In anni più recenti, il filosofo francese ha specificato ulteriormente quanto una mostruosità, per conservarsi tale, debba eccedere ogni possibilità di previsione, mantenendosi non catturabile entro una griglia di scrittura parola o pensiero che, dicendola, la anticipi e dunque la misconosca all’interno di un inevitabile processo di “normalizzazione”, J. Derrida, Come non essere postmoderni. “Post”, “neo” e altri ismi, a cura di G. Leghissa, Milano, Medusa 2002, pp. 39-40. 29
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futuro” che tra il Sabato leopardiano e alcuni testi di Montale comportava un “fare futuro il presente”. La “scrittura del futuro”, che si scrive dal lato del genitivo oggettivo e dalla parte del genitivo soggettivo si cancella, trova una forza profetica nel dar conto di una cancellazione all’interno della parola stessa: il tempo “scrive” la scrittura attraendola nella mostruosa spirale in cui coabitano vedere e non-vedere («Ogni passo sposta e attanaglia come un giro di vite / ogni voce si soffoca dolcissima inutile / ogni sguardo si disocchia»).35 Nel “farsi” del futuro ne va di questo presente, ed ecco perché la scrittura, per scrivere il futuro, deve contenere il proprio riscriversi, scissa dal lavoro di un “impossibile” – il tempo a venire – che preme sul possibile ridefinendolo ogni volta all’atto stesso di realizzarsi (solidarietà reciproca di’impossibile e reale che peraltro giunge fino a Meteo: «Le belle cadenze le rapidità / dei pappi librati verso aldilà / impossibili eppure immediati»36). Il lavoro del tempo, imprendibile alla nominazione, di essa viene a decretare l’istantaneo invecchiamento: Ora il tempo dovrebbe vergognarsi di far quello che facciamo di strampalarsi stralciarsi sfalciarsi sfidarci infilzarci ma vergognarsi di esser sempre già passato mentre lo nomino. Non c’è, sì c’è è questo qui di cui scrivere il continuo e losco cambio di marcia tre volte in tre opere ricordo – macché è già tutto tappeto marcio di futuro37
Questa disforica corsa del futuro contro il presente comporta la dissoluzione dello Standpunkt immobile (e l’Autore, in una recente intervista, aveva dichiarato che «a una certa età si è proprio come su un’altalena, non si ha un punto fisso da cui guardare le cose»).38 L’io – o ciò che resta di un io fatto minuscolo e addirittura in corpo testuale minore: «già si è perduto in pezzi schegge sfrigolio / quel che credevo fosse il minimo / palpitìo del mio io»39 – si mostra esposto al tempo, essere che si apre, «a sbaraglio»,40 al non essere. Si attivano allora lungo la poesia di
35
Poesie, p. 711 (Futuri semplici – o anteriori?). Poesie, p. 824 (Lanugini). 37 A. Zanzotto, Vergogna, in Id., Conglomerati cit., p. 73. 38 Id., Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura, a cura di L. Barile e G. Bompiani, Roma, Nottetempo 2007, p. 87. 39 Id., Sere del dì di festa (6), in Id., Sovrimpressioni, Milano, Mondadori 2001, p. 31. 40 Ivi, p. 22 (Sere del dì di festa (1)). 36
XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
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Sovrimpressioni e di Conglomerati i motivi dell’inciampare e dello scivolare: la causalità si volge in una casualità a essa paronomastica che, recuperando l’alea del futuro, liquida nell’immagine delle “biglie” qualunque teleologia («(ansimiamo […] / ad immettere / come in giri di vitree palline / i nostri cammini-destini)»41). Il terzo millennio s’incontra per inciampo («Inciampando nel 3° millennio e nell’equinozio di primavera / oltre ogni decibel kitsch estasi del kitsch»),42 e il passo è “scivolamento”, metafora che scioglie lo Standpunkt in Bewegung («Come si scivola bene su “duemila” è come camminare agilmente / su un tappeto di soffici palline, agili palline»;43 e ancora: «Sì, deambulare sulle tenere vocali del duemila / diventate un po’ ghiaccioline, vezzose astrazioni / che, pur è vero fanno da taboga»44). Il movimento circolare investe il significante fino a permearne la forma grafica («nel rotolio degli zeri del duemila»), segno dell’esser-gettata nel tempo della scrittura del tempo: Lievissime rotelle del 2000 come si pattina bene su di voi –
E pochi versi oltre: // 2-2-2000 che delizia che letizia di vedere e non vedere, di scender dentro mente e uscir di mente, il significante ha guidato l’utente l’ha pilotato in begli scioglilingua sciogli niente.45
Come accade in Per altri venti, fuori rosa,46 testo composto di tre stanze-domande, alla scrittura del futuro competono il domandare e la riflessività del domandare, poiché, con Heidegger, «nessuna questione metafisica può venire in discussione, se non in quanto il questionante – come tale – si trova coinvolto nella questione, ossia è posto in questione egli stesso»;47 dall’attesa, la cui configurazione formale implica un rispondere sul tempo a venire in luogo del suo proprio “rispondere”, si giunge
41
Ivi, p. 36 (Adempte mihi (2)). Id., (Borgo), in Id., Conglomerati cit., p. 21. 43 Ivi, p. 30 (Inizio 2000). 44 Ivi, p. 33 (Sì, deambulare). 45 Ivi, p. 37 (Lievissime rotelle del 2000). 46 Id., Per altri venti, fuori rosa, in Id., Sovrimpressioni, p. 73. 47 M. Heidegger, Che cos’è la metafisica?, a cura di A. Carlini, Scandicci, La Nuova Italia 1953, p. 4. 42
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a un’abolizione di essa che converte la risposta anticipata del qui-ora sull’avvenire in domanda, posta dall’avvenire stesso, sul qui-ora lavorato dalla propria possibilità dell’impossibilità: la scrittura del futuro consiste allora nell’inscrivere entro il presente il proprio non-più, l’afflato destabilizzante della domanda sopra ogni preesistente determinazione. Il sistema egocentrico dell’attesa, che svilisce l’imprevedibile nell’imprevisto concettualmente prevedibile, trapassa per rivoluzione in un sistema eccentrico, lacerato dal flusso dell’a-venire sempre a venire che il tempo stesso, «usuraio atroce», reca con sé; il centro si traccia decentrandosi, nell’anfibologico funzionamento di un “ingoiare che ingoia l’ingoiante” in cui trova sinistra compossibilità la formula apparentemente disgiuntiva che, con un richiamo al Montale de Il sogno del prigioniero («ancora ignoro se sarò al festino / farcitore o farcito»),48 Zanzotto invia in un epigramma in eredità al tempo che viene: «In questo progresso scorsoio / non so se vengo ingoiato / o se ingoio».49
48
OV, pp. 268-269. A. Zanzotto, Eterna riabilitazione… cit., p. 68; il primo verso dell’epigramma, quasi in funzione di formula, è divenuto poi titolo di un recente volume: cfr. A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio, conversazione con M. Breda, Milano, Garzanti 2009. 49
XI. L’elaborazione e la riflessione sul processo unitario
XII. La letteratura degli Italiani a scuola
Identità nazionale e letteratura italiana: un atlante e un canone possibile Identità nazionale ed educazione letteraria: gli Italiani nella scuola Identità nazionale e pluralismo culturale: letteratura per una scuola non di soli Italiani Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani: individuo, famiglia, collettività L’identità nazionale: continuità e discontinuità nel legame tra individuo e collettività
IDENTITÀ NAZIONALE E LETTERATURA ITALIANA: UN ATLANTE E UN CANONE POSSIBILE
ANNALISA NACINOVICH Identità nazionale e educazione letteraria
L’indagine che mi sono proposta di compiere prende le mosse dal dibattito risorgimentale e dalla peculiarità che assume in Italia la discussione sull’identità nazionale, che chiama in causa, fin dalle prime battute, nelle parole di uno dei suoi più insigni interpreti, la letteratura. Così, infatti Foscolo Ringraziate [scil. o Italiani] la fama de’ vostri padri, benemeriti della rinata letteratura, se ancor vi rimane una lingua, e per essa il titolo di nazione, ma nudo.
Siamo di fronte ad uno dei pregiudizi più duraturi nell’interpretazione della storia letteraria italiana, fondamento inossidabile dell’investitura di Dante quale padre della patria: con questo trucco, la sua fondazione letteraria appunto, la nostra identità nazionale diviene la più antica d’Europa e il principio unitario riceve quell’investitura che la politica e l’economia faticano a riconoscergli. È l’origine di uno dei più fortunati criteri di selezione delle successive storie della letteratura italiana, giacché sarebbe un errore trascurare la fondamentale discontinuità fra il concetto foscoliano e, per fare solo un esempio, la muratoriana repubblica delle lettere.1 Nelle parole di Foscolo la comune lingua letteraria non è tanto il segno del dialogo costante fra i dotti della penisola, quanto la testimonianza di una identità culturale che chiede di essere impiegata per scopi civili e politici, simbolo di una potenziale unità che i patrioti sono chiamati ad attuare storicamente: il valore della poesia si misura nel suo impatto sociale in anni in cui si fatica a
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Sulla connessione esplicita in Foscolo fra riflessione estetica e progetto politico nazionale e sulla riconversione in tal senso della formazione settecentesca dell’autore si veda il contributo di F. Fedi, Retaggio nazionale e nuova ritualità civile nel progetto lirico foscoliano, in Storia d’Italia, Annali 25, Esoterismo, a cura di G.M. Cazzaniga, Torino, Einaudi 2010. Identità nazionale e letteratura italiana: un atlante e un canone possibile
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discernere il letterato dal patriota; la tensione verso una «nuova letteratura» testimonia un approccio al testo che vi cerca esempi di virtù, educazione morale del lettore, consacrazione di valori condivisi.2 Il nesso fra letteratura e «educazione nazionale» è peculiare degli anni immediatamente successivi alla restaurazione e, almeno a una prima indagine e valutazione, sembrerebbe una delle cause dell’evoluzione delle antologie di testi in direzione delle storie letterarie.3 L’invito a una prassi letteraria engagé, intesa come esplicita militanza politica e concreto impegno a formare cittadini italiani, che costituisce la principale eredità dell’esperienza rivoluzionaria e napoleonica, si trasforma, cioè, nel corso della polemica classici-romantici e del dibattito sull’argomento ospitato sulle pagine dell’«Antologia» di Vieusseux, nell’interesse per una storia della letteratura nazionale. Gli articoli del giovane Mazzini sulla letteratura europea ospitati dalla rivista fiorentina inaugurano questa nuova fase della riflessione estetico-culturale sul futuro e il ruolo della letteratura, che trova nell’«Esule», rivista dei rifugiati italiani a Parigi negli anni 1832-34, un primo, importante momento di elaborazione. Nelle pagine di questo periodico bilingue è possibile rintracciare alcune acquisizioni che caratterizzeranno in maniera duratura il nostro rapporto con la letteratura nazionale e, cosa che qui maggiormente interessa, con l’insegnamento di essa. Questi, in estrema sintesi, i termini della questione: 1. stretto rapporto fra letteratura e società; sia in termini, per così dire, genetici: la letteratura come specchio della società che la produce; che nella forma del richiamo alla responsabilità: obbligo educativo-morale dell’opera letteraria. 2. nesso fondamentale fra letteratura e identità nazionale, con una precoce ricezione di uno dei termini chiave dell’idea ottocentesca di nazione, quello delle origini etniche del linguaggio. I compilatori dell’«Esule», come si legge nella prefazione, si propongono di mostrare agli ospiti francesi chi sono gli Italiani attraverso l’analisi storica della loro lingua e letteratura. 3. legame imprescindibile fra letteratura e storia: sia nel senso della scelta, riven-
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Per ragioni di sintesi non mi trattengo sulla significativa perplessità con cui i contemporanei accolsero i capolavori leopardiani e manzoniani a vantaggio di un autore per noi quasi sconosciuto come Giovan Battista Niccolini, considerato al contrario, all’epoca, la vera promessa della letteratura nazionale. Interessanti testimonianze di questo tipo di lettura del testo sono anche le critiche alle Mie prigioni di Pellico che apparvero sulla stampa degli esuli italiani, e certamente gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Attento a questi fenomenti della ricezione è stato, con il consueto acume e in pagine illuminanti, Carlo Dionisotti nei suoi Appunti sui Moderni. Foscolo, Manzoni, Leopardi, Bologna, Il Mulino 1988 a cui senz’altro rimando. 3 Sulla struttura e la fortuna dell’antologia scolastica si veda il saggio di D. Tongiorgi, «Solo scampo è nei classici». L’antologia di letteratura italiana nella scuola fra Antico Regime e unità nazionale, Modena, Mucchi 2009, utile anche per la bibliografia sull’argomento. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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dicata dalla rivista, di ripercorrere la storia della letteratura nazionale, percepita in esplicito contrasto e alternativa rispetto all’«elenco erudito delle vite degli uomini illustri del paese» di cui il secolo precedente era stato prodigo; sia con il proposito di offrire la vera storia del popolo italiano dal momento che, come si legge nella citata premessa al primo volume:4 la storia alcune volte è silenziosa per secoli, od incerta da non sapere a che veramente attenersi, e le scienze ponno essere spia dell’intelligenza di un popolo, e non del carattere. Ma l’arti belle sono misura del cuore e della mente ad un tempo: […] manifestano impetuosamente l’indole del popolo presso cui sono, e ti guidano con la scorta d’una critica giusta e severa a raddrizzare sovente gli errori in cui trascorre l’istoria, ed a riempirne il difetto.
Che tali ambiti di riflessione (e la loro crisi) abbiano influito sui termini della discussione culturale anche più recente è, credo, abbastanza chiaro e rende, spero, meno retorica l’occasione di questo nostro incontro, i 150 anni dall’Unità d’Italia. Ciò di cui vorrei discutere non è, però, l’incredibile modernità di alcune formule risorgimentali, né il corso e ricorso nella storia italiana di alcune grandi questioni, come, gramscianamente, quella della lingua, a scadenze fisse, nei momenti di crisi e di rinascita. Mi interessa piuttosto tentare una valutazione delle soluzioni che, nel corso del secolo appena concluso, sono state date alle tre fondamentali questioni, ai tre nodi concettuali nei quali ho ritenuto di riassumere la proposta risorgimentale di letteratura per la nazione. Mi è sembrato interessante provare a chiedermi quanto essi hanno pesato nella mente dei riformatori scolastici che con sempre maggior frequenza si sono alternati sul teatro della nostra storia politica nazionale, e in che misura, o se, tali questioni siano state superate, riformulate, sostituite con principi diversi/nuovi, attinti da altri ambiti. Letteratura e società La consapevolezza della stretta relazione fra letteratura e società, fra l’opera e il mondo in cui vede la luce, assunto complessivamente a pubblico, è la novità che propongono i redattori dell’«Esule»: lo scrittore degno di essere citato nelle pagine di una storia della letteratura nazionale sarà soltanto, per questi letterati ottocenteschi, quello che avrà saputo dar voce al suo tempo e al «genio della nazione», che avrà dimostrato, in altre parole, di saper risolvere positivamente la tensione fra lingua parlata e testo letterario; una dialettica che nella riflessione dei rifugiati italiani, reduci dal fallimento dei moti carbonari, rimandava alla questione, di grande attua-
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«L’Éxilé», t. I, n. 1, p. 8.
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lità, del rapporto fra intellettuali e popolo, fra la nazione e quanti intendevano proporsi come nuova classe dirigente. In questa inedita sensibilità sta lo scarto incolmabile creato dalla rivoluzione francese, l’ovvia distanza fra l’erudito e il patriota; l’approccio «sociale» alla letteratura è quello che più icasticamente descrive la nuova frontiera della cultura, le mutate condizioni in cui si esprime l’arte contemporanea. Sono gli stessi termini in cui lo si ritrova nel Calvino saggista di Una pietra sopra nelle cui pagine il rapporto fra lo scrittore e la società cui appartiene è argomento costante di riflessione e di polemica. Eppure, malgrado l’altissima ricorrenza del termine e la costante «preoccupazione» sociale del nostro autore più «ottimista» (come lui stesso amava definirsi), la questione del rapporto fra scrittore e società non è mai stata così problematica: lo spazio della letteratura è andato restringendosi a dispetto dell’ampliamento del canone di testi acquisibili come letterari; e le stesse virtù conoscitive del romanzo come «specchio della società» sono state messe in discussione dalla concorrenza di nuovi strumenti di indagine; per ironia della storia la poesia, campionessa nelle settecentesche «arti in gara», ha perso drasticamente terreno a favore delle nuove arti visive, cinema innanzi tutto; ed è in questo contesto, infine, che bisogna collocare la crisi della fortuna didattica della letteratura; una crisi che ha posto in evidenza i limiti delle riformulazioni novecentesche dell’assunto risorgimentale. La praticabilità di un’idea di letteratura in armonia, o almeno in dialogo con la società di cui è espressione presuppone, infatti, la possibilità di pensare la società come un unico organismo; non solo: la concezione risorgimentale di letteratura come voce del genio della nazione, testimonianza affidabile dei tempi implica il presupposto che essa rivesta, gerarchicamente, un ruolo di primo piano negli strumenti della conoscenza umana e per questo sia il fondamento di quella che noi oggi chiameremmo educazione alla cittadinanza. Insomma la crisi sociale nella quale viviamo, o quanto meno la forte percezione di essa, finisce per corrodere anche gli spazi letterari, restringendoli a momenti di testimonianza, di resistenza residuale, di alterità. Eppure, il nodo risorgimentale si presenta irrinunciabile per chi voglia, come dichiarava ancora Calvino nella Premessa del 1980 a Una pietra sopra, «postulare una cultura come contesto in cui situare le opere ancora da scrivere», per chi intenda costruire, con le parole di Auerbach, il pubblico letterario del futuro; per chi, dunque, non volendo rinunciare al dialogo con i suoi contemporanei, ritenga che la scuola occupi un posto centrale nella vita culturale di un paese. Il riferimento ad Auerbach riguarda, infatti, il celebre saggio sul passaggio dal latino ai volgari, di cui parafrasa il titolo5 e che ha il merito di mostrare con lucida
5 E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano, Feltrinelli 1983 [19581].
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evidenza le relazioni fra letteratura, scuola e pubblico. Nelle indimenticabili pagine in cui questo grandissimo studioso di letteratura europea descrive la morte del latino letterario si trova, a mio avviso, la più interessante analisi del ruolo della scuola nella vita culturale di una società avanzata: l’antica cultura veniva meno perché si era spezzato il suo ingranaggio principale, la scuola del tardo impero; anzi, fu una (cattiva) riforma scolastica, la riforma carolingia, a sancirne la fine definitiva e a ritardare di qualche secolo l’avvento della nuova «lingua di cultura». Rispetto alle pessimistiche immagini dello sfaldamento sociale care alla storiografia della decadenza, la ricostruzione di Auerbach ha l’indubitabile vantaggio di spostare il dibattito su termini concreti: lingua di cultura è, infatti, l’efficace definizione con cui egli si riferisce all’esistenza di un linguaggio comune, orale e scritto, in cui le classi colte possano esprimersi e condividere conoscenza, ma anche vita, gusti, piaceri; essa si contrappone alla «lingua speciale» in cui il latino fu trasformato dalla riforma carolingia, che lo rese incapace di mantenere quel «graduale legame col popolo» necessario alla sopravvivenza di una lingua letteraria; lingua colta, quindi, come lingua letteraria, unico strumento in grado di offrire ai «gruppi dirigenti della società […] una lingua nella quale po[ssa] esprimersi una cultura ad essi appropriata. C’era una lingua dotta, e c’erano lingue parlate che non potevano essere scritte; ma non c’era una lingua di cultura».6 La letteratura (e la sua lingua) è, dunque, nell’analisi che egli propone, l’unico strumento capace di garantire l’esistenza di una lingua colta, concetto nel quale rivive la risorgimentale dialettica fra classi dirigenti e popolo, di cui si accentua, però, l’aspetto del rapporto oralità-scrittura. Il sistema scolastico è lo strumento che può garantire l’esistenza di una lingua di cultura, oppure limitarsi a conservare una lingua dotta: la scelta, suggerisce Carlo Magno, è politica e tradisce l’idea di società che il riformatore ha in mente.
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Ivi, p. 232. Questo il passo completo: «Il pubblico letterario o colto era dunque scomparso, e la sua lingua era diventata una lingua speciale: lingua della liturgia, lingua scritta delle cancellerie e lingua tecnica di alcuni pochi dotti che la imparavano, certo fin da giovane età, come una lingua straniera. Il pubblico letterario era stato indubbiamente una minoranza anche nei tempi antichi, ma una minoranza così grande che si raccoglieva numerosa in luoghi diversi. Essa aveva anche un graduale legame col popolo, in quanto esso, o almeno parte di esso, partecipava a parecchie produzioni letterarie, le comprendeva e anche le influenzava con la sua lingua viva. Ora coloro che partecipano alla vita intellettuale sono così pochi che […] hanno fra loro soltanto relazioni irregolari; anche se più tardi diventano più numerosi, restano una società chiusa di maestri e scolari. Lo scopo della loro attività è molto più la conoscenza e la dottrina che il godimento; non c’è più un gruppo o un ceto di persone che possa sentire un colto soddisfacimento nella lettura. Arriviamo così al punto centrale delle nostre considerazioni: è cominciato un periodo nel quale i gruppi dirigenti della società non posseggono più cultura, e neppure libri, e neppure una lingua nella quale potesse esprimersi una cultura ad essi appropriata. C’era una lingua dotta, e c’erano lingue parlate che non potevano essere scritte; ma non c’era una lingua di cultura». Identità nazionale e letteratura italiana: un atlante e un canone possibile
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Letteratura e identità nazionale I restanti capitoli del credo patriottico-letterario si presentano, ad un primo sguardo, più datati e apparentemente meno utili per una riflessione sulle prospettive della letteratura nella scuola contemporanea: sia nazione che storia letteraria vivono, ormai da diversi anni, una stagione di declino. Le ragioni storiche del fastidio per il termine nazione affondano le loro radici nella tragedia della seconda guerra mondiale e il generoso anelito ad un superamento dei confini nazionali verso dimensioni più ampie di convivenza civile è all’origine del miglior europeismo; entrambi, però, anelito e fastidi, non hanno esaurito il dibattito sull’identità e, neppure, a ben vedere, sull’identità nazionale. Un’osservazione preliminare e un po’ scontata: la decisione del governo europeo di non scegliere una lingua comunitaria ufficiale acquisendo come specificità della nostra cultura il multilinguismo e promuovendo, almeno in teoria, politiche scolastiche tese a estendere l’apprendimento delle lingue comunitarie (tutte, non il solo inglese)7 implica una piena consapevolezza del permanere di specificità nazionali che il legislatore intende rispettare e riconoscere sul piano della cultura, di cui la lingua è espressione privilegiata. Insomma: rinunciamo volentieri all’Europa dei nazionalismi, ma non a quella delle nazioni nel significato etimologico di popoli. Soluzione apparentemente semplice di un problema in realtà più complesso. Sostituire identità nazionale con identità linguistica non è, fra l’altro, una grande novità, né, forse, una vera sostituzione, e accentua, invece di attenuare, l’esigenza di un principio identitario europeo in cui le diverse lingue/culture particolari si riconoscano. La proposta dei liberali ottocenteschi da cui ho voluto prendere le mosse fu, come è noto, quella di creare una «nuova letteratura», letteratura, appunto, per la nazione, percepita dai redattori dell’«Esule» come un vero e proprio «individuo» della «famiglia» europea. Caduto l’aspetto più esteriore della nazionalità risorgimentale, quella patina pedagogico-moralista che aleggia sulle gozzaniane «buone cose di pessimo gusto», rimangono alcuni elementi di fondo che è difficile non prendere in considerazione: innanzi tutto l’idea che l’identità di un popolo si impara dalla sua letteratura, poi la consapevolezza che alla pratica di un’arte nazionale, portatrice cioè di una precisa identità linguistica e culturale, è necessaria l’educazione.8 Rinunciare al termine nazione, eliminarlo o sostituirlo è senz’altro legittimo:
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Il riferimento è all’offerta formativa della scuola media che prevede lo studio di un’altra lingua comunitaria oltre l’inglese e quella di appartenenza. 8 L’articolo più interessante sull’argomento che comparve sull’«Esule» è quello di uno scrittore di grande acume, Pietro Maroncelli, intelligente commentatore delle Mie prigioni del Pellico e responsabile del contributo sul Teatro italiano («Esule», t. II, n. 4, pp. 162-178) cui faccio qui riferimento. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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meno opportuno, però, evitare il confronto con i temi dell’identità e dell’educazione a cui esso era strettamente legato. La fine (o la trasformazione) degli stati nazionali è stata all’origine di una delle semplificazioni a mio avviso più pericolose per la scuola e più difficili da combattere: la separazione fra educazione linguistica e educazione letteraria. Si è pensato che la letteratura oltre la nazione potesse essere, semplicemente, la lingua senza letteratura; e questo in deroga, paradossalmente, alle autentiche riflessioni della linguistica testuale. Una lettura attenta della giustamente citata Introduzione alla linguistica testuale di Dressler e Beaugrande,9 così come di un altro saggio, questa volta di ambito antropologico, ma degli stessi anni, il bellissimo Oralità e scrittura di Walter J. Ong10 non autorizza, infatti, l’estromissione della letteratura dall’educazione linguistica, tutt’altro. Dovremmo ammettere, se mai, che le scelte non sono semplici e che, rispetto all’incredibile fioritura degli studi di teoria della letteratura della seconda metà del Novecento, le proposte più interessanti nell’ambito dei criteri per selezionare i testi e gli approcci di riferimento non ci sono giunte, come spesso accade, dall’ambito da cui ce le saremmo aspettate. Avviene così che, mentre celeberrimi scrittori europei invitano a ricercare valori e identità nelle pagine dei nostri romanzi (da Calvino a Kundera)11 e benché il testo di riferimento dei novatori linguistici, il manuale del nuovo concetto di testualità (il citato saggio di DresslerBeaugrande), sia prodigo di esempi letterari, la scuola fatichi a trovare accessi efficaci alle letterature europee e, quindi, proposte soddisfacenti di educazione linguistica. L’impressione è che, per riprendere l’immagine con cui ho voluto chiudere le osservazioni su letteratura e società, si sia tentati da una nuova «riforma carolingia», che elegga la via facile della separazione fra «competenze orali» e «competenze scritte» con buona pace delle lingue di cultura e forse, anche, della civiltà della scrittura. Letteratura e storia E veniamo, infine, al concetto più usurato, quasi uno zombie della nostra tradizione didattico-culturale: evocatrice di basette desanctisiane, la storia della letteratura è stata sepolta più volte e con diversi riti nel corso del secolo appena concluso; condannata per essersi eccessivamente compromessa con le certezze del positivismo o perché lettrice troppo distratta, più interessata all’avvicendarsi delle teorie
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L’edizione originale è del 1981, la traduzione italiana è del 1984 (Bologna, Il Mulino). L’edizione originale è del 1982, la traduzione italiana è del 1986 (Bologna, Il Mulino). 11 Penso in particolare al Calvino delle Lezioni americane, Milano, Mondadori 1993, e al Discorso di Gerusalemme: il romanzo e l’Europa di Kundera, letto nel 1985 e edito in M. Kundera, L’arte del romanzo, Milano, Adelphi 1988. 10
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estetiche che alle loro singole e particolari espressioni, se ne è evidenziata la scarsa efficacia educativa, imputandole, e in molti casi a ragione, la principale responsabilità dell’allontanamento degli studenti dalla comprensione specifica e puntuale dei testi. Certo, nella formulazione risorgimentale che la citazione dell’«Esule» propone, cioè come fenomenologia dei progressi e dell’indole di un popolo, una storia letteraria sembra davvero impossibile in società che da tempo non ci immaginiamo più come composte da un unico, astratto popolo-nazione. Esiste, però, un senso più profondo del concetto ottocentesco, che i redattori della rivista da cui ho preso le mosse ci consegnano: nella loro premessa il termine storia si contrappone a elenco erudito in un’alterità da cui emerge l’istanza della scelta responsabile, dell’indagine capace di confessare onestamente i suoi obiettivi, le sue ipotesi e speranze. Probabilmente nel 1832 le speranze furono più generose di quanto sarebbe stato utile al rigore scientifico (alcuni giudizi su autori e testi lasciano sconcertato il lettore contemporaneo), ma l’invito a enunciare i criteri di scelta di una raccolta necessariamente parziale e antologica come non può che essere un manuale, a indagare il rapporto di un’opera con il suo tempo, per scoprire i modi in cui la lingua scritta degli autori e del pubblico colto si è di volta in volta confrontata con quella orale e contingente della vita, rimangono, mi sembra, preziosi. In questa chiave, lo studio storico della letteratura non ha mai perso la sua validità, proprio e soprattutto nella prospettiva testuale, cioè filologica; è nell’interpretazione dei testi, infatti, che esso offre un approccio imprescindibile per l’educazione linguistica, obiettivo principale dell’insegnamento scolastico dell’italiano. In altre parole: rispetto alla pur legittima e possibile riflessione sull’importanza di ripercorrere la storia dell’immaginario letterario della propria civiltà proprio nell’ottica identitaria di cui sempre più spesso si parla, vorrei concentrare l’attenzione su un aspetto, per così dire, più disciplinare dei vantaggi educativi dell’applicazione di un metodo storico-filologico alla lettura scolastica dei testi letterari. Guardare ad un testo da una prospettiva storica è importante, ritengo, innanzi tutto perché educa alla distanza, alla capacità complessa di leggere quel che c’è scritto e non quel che scriveremmo noi. Tirocinio duro, ma obbligato per imparare a scrivere, giacché, come efficacemente spiega il citato saggio di Ong dal significativo sottotitolo Le tecnologie della parola, la scrittura è una attività «schizofrenica», praticabile solo se si è capaci di sdoppiarci, di percepire la discontinuità spaziotemporale che questa particolare forma della comunicazione linguistica implica. Insomma, la collocazione storica non serve solo per imparare ad ascoltare ciò che è diverso e diventare cittadini più democratici (cosa di cui ci sarebbe peraltro grande bisogno), ma è necessaria soprattutto per dominare davvero la propria lingua scritta, per comprenderla e saperla usare anche fuori e contro i «moduli prestampati» che si pretende di far passare per esercizi di scrittura «situata». La letteratura, al contrario di questi ultimi, offre esempi di scrittura «agonistica», nella quale si scrive per esprimere se stessi e il proprio rapporto con il mondo, per dar voce all’incontro fra la realtà e il modo in cui la vediamo. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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Usare la letteratura come lente per guardare lontano, nel tempo oltre che nello spazio, per imparare modi antichi e diversi di entrare in relazione, sperimentare modelli di convivenza pacifica può essere una via efficace per ridare senso all’aforisma che priva di futuro chi è privo di passato; ma guardare il testo letterario nella sua lontananza serve, nella scuola, soprattutto a comprendere le regole della comunicazione scritta, a riconoscerne l’uso consapevole e, forse, a imparare ad usarle consapevolmente. Resta da stabilire se e quanto l’ordine cronologico rimanga utile e importante nell’insegnamento. Le obiezioni alla prospettiva positivistica della storia come linea retta, evolutiva, strada diritta verso un avvenire migliore di ciò che l’ha preceduto, sono, certo, convincenti, come, del resto, testimonia il trucco lessicale di sostituire a «storia» «ordine cronologico», cercando di separare la scansione temporale degli avvenimenti dalla prospettiva finalistica che il termine storia evoca; rimane, però, l’esigenza di un criterio di ordine e di scelta in base al quale organizzare i testi, il percorso che si intende proporre o costruire insieme agli alunni. Un’esigenza, che non è solo «manualistica», ma didattica in senso pieno, e rispetto alla quale mi pare vadano collocati i tentativi recenti di stabilire il «punto in cui siamo» che caratterizzano le contemporanee teorie del post-moderno. Definire l’attualità è, infatti, passaggio obbligato per stabilire il criterio ordinatore, la prospettiva da cui si guarda al passato ed è esattamente di prospettive che la scuola in questo momento avrebbe bisogno. Rispetto ad esse l’ordine cronologico è davvero una soluzione di minima, proposta discreta di non ordinare cercando, però e contemporaneamente, scampo al caos: ha il limite di essere minimalista, nel continuo rischio di precipitare nell’elenco, erudito o meno, e il vantaggio di assorbire più agevolmente le spinte centrifughe, di raccontare meglio i conflitti che la letteratura trasmette.12 Allora le sfide risorgimentali sono ancora tutte aperte? A rischio di apparire «moderna», ritengo che possano delineare urgenze ancora attuali della scuola europea, ma, soprattutto, aiutarci a guardare alla «scuola delle competenze» da un’altra prospettiva. Vorrei, infatti, chiudere questo mio contributo con una breve riflessione sul nodo dell’ultima riforma scolastica, il concetto di competenza linguistica e l’impatto che esso ha avuto sul ripensamento, sulle prospettive dell’insegnamento linguistico-letterario. Un’educazione linguistica che miri alla creazione-trasmissione di una lingua di cultura il più ampiamente accessibile e fruibile è conciliabile con l’idea di competenza come sapere pratico, immediatamente, modularmente impiegabile? L’idea di
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L’insegnamento letterario come educazione al confronto culturale, luogo di esercizio al conflitto è, del resto, una delle proposte più accattivanti del recente panorama teorico; ad esso può essere ricondotto l’invito rivolto da Luperini agli insegnanti a farsi rappresentanti di un «pensiero critico», R. Luperini, Il professore come intellettuale, Lecce, Manni 1998. Identità nazionale e letteratura italiana: un atlante e un canone possibile
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scrittura che affiora dal vecchio saggio di Auerbach, ma anche da quello più recente di Ong, è una delle competenze linguistiche che ci propongono di insegnare? A me pare di no. La scrittura di cui si tratta nella ricca analisi antropologica delle Tecnologie della parola è una realtà culturalmente complessa, come del resto tutte le tecnologie: esse, ci spiega Ong, sono potenziamenti di abilità umane e, come tali, hanno una ricaduta sull’abilità che accrescono trasformandola in uno strumento nuovo che gli uomini devono imparare a conoscere e valutare; il luogo in cui si esprime questa nuova tecnologia (la scrittura, appunto) è la letteratura, l’unica che si ponga come obiettivo lo scopo principale dello scrivere, parlare a chi è assente/irraggiungibile. Per questo il testo letterario è il più idoneo a imparare i segreti della difficile arte e a renderci padroni della «nuova» tecnologia che è, innanzi tutto, una possibilità espressivo-cognitiva. La scuola democratica, quella che si pone l’obiettivo di formare cittadini (magari europei invece che italiani), ha il compito di formare prima che informare, ha il dovere, cioè di offrire gli strumenti per la partecipazione attiva alla vita sociale e politica, per esprimere se stessi in dialogo con quanti ci circondano. Ha il compito, quindi, di insegnare a scrivere al maggior numero di persone possibile, anzi, a tutti; ma non deve insegnare a scrivere in una lingua «morta», «dotta» come il latino medievale, o falsamente parlata come quella che insegue senza troppo riflettere la moda del momento, evitando in nome dell’attualità il dialogo con la tradizione che è alla base della lingua scritta. La nostra idea di competenza ha bisogno di essere ripensata seriamente, e cioè nel suo rapporto con la didattica (e non solo con i criteri di valutazione), ma anche con concetti che ad essa sono naturalmente connessi come quello di lavoro: la scuola forma il cittadino-lavoratore del primo articolo della Costituzione; allora, di quale lavoro stiamo parlando? È ancora quello descritto da Chaplin in Tempi moderni o è un’attività più nobile, più umana? Se pensiamo che il lavoro sia un valore, un’occasione di dignità prima che una necessità disgaziata, allora bisogna costruire competenze all’altezza dell’obiettivo, che difendano la scuola dai rischi di una nuova riforma carolingia.
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LAURA GATTI Identità nazionale e parola poetica. Per un percorso didattico sul secondo Novecento
A partire dalla fine degli anni Cinquanta del Novecento si assiste ad un cambiamento radicale del rapporto tra parola poetica e identità nazionale. La prospettiva indicata da Francesco De Sanctis di costruire l’identità italiana partendo da una memoria comune depositata nella nostra tradizione letteraria viene svuotata sul piano tematico e sul piano epistemologico.1 Da un lato la parola poetica abdica alla funzione che aveva avuto fino a quel momento di ricercare dei temi dell’esistenza per la costruzione di un’identità condivisa; dall’altro vi è il rifiuto, da parte dei letterati stessi, della tradizione letteraria come memoria comune degli italiani. In modo schematico, ma funzionale rispetto alla ricostruzione di un quadro da proporre in classe, potremmo dire che nella poesia del secondo Novecento hanno prevalso tre tendenze: 1. la rievocazione di un passato glorioso perduto in contrapposizione ad un presente degradato 2. il rifiuto della retorica nazionalista della letteratura 3. la denuncia, e in taluni casi l’invettiva, contro l’Italia e l’identità italiana in una chiave che potremmo definire anti-identitaria. Per mostrare questi tre filoni ho scelto alcuni testi esemplificativi, il discorso potrà essere poi ampliato ed approfondito dall’insegnante.
1 Sul rapporto tra coscienza nazionale e tradizione letteraria nella Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis rimando agli studi di E. Raimondi, Letteratura e identità nazionale, Milano, Mondadori 1998 e S. Jossa, L’Italia letteraria, Bologna, Il Mulino 2006.
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Laura Gatti
1. Un testo particolarmente importante della prima tendenza è Alla mia nazione di Pier Paolo Pasolini, scritto nel 1958-1959; si tratta di uno dei sedici Nuovi epigrammi raccolti ne La religione del mio tempo. La descrizione dell’Italia è incentrata sulla contrapposizione tra l’identità in potenza – quello che l’Italia potrebbe essere – e l’identità reale: Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico, ma nazione vivente, nazione europea: e cosa sei? Terra d’infanti, affamati, corrotti, governanti impiegati di agrari, prefetti codini, avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi, funzionari liberali carogne come gli zii bigotti, una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino! Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti, tra case coloniali scrostate ormai come chiese. Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti, proprio perché fosti cosciente, sei incosciente. E solo perché sei cattolica, non puoi pensare che il tuo male è tutto il male: colpa di ogni male. Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.2
L’identità di «nazione vivente, nazione europea» non è solo ideale, ma si riallaccia ad un passato glorioso realmente esistito: l’identità presente si mostra così nel suo degrado in relazione a questa identità trascorsa «Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti, / proprio perché fosti cosciente, sei incosciente». Si notino il pathos sotteso alla forma dell’invettiva di stampo dantesco, con l’incipit per negazione, l’anafora di «popolo» cui si contrappone nel secondo verso, mediante il parallelismo introdotto dall’avversativa, la parola nazione; l’elenco delle figure di dannati «terra d’infanti, affamati, corrotti governanti impiegati d’agrari, prefetti codini»; e l’anatema finale «Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo» (come non ricordare il canto XXXIII dell’Inferno?), che ha la funzione di risvegliare le coscienze e di riscattare l’oppressione del popolo.3 Siamo tuttavia su un crinale: nella società degradata che affiora da questi versi si intravvede quella
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P.P. Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, Milano, Garzanti 1995, p. 555. 3 Alla mia nazione è solo una delle numerose composizioni in cui Pasolini affronta il tema dell’identità nazionale: Daniela Brogi nel saggio Un’estetica passione: la patria di Pasolini ha mostrato bene l’evoluzione del concetto di patria dalle Poesie a Casarsa (1942) fino a Trasumanar e organizzar (1971). Cfr. D. Brogi, Un’estetica passione: la patria di Pasolini, in Letteratura e identità nazionale, a cura di R. Luperini e D. Brogi, Lecce, Manni 2004, pp. 125-177. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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mutazione antropologica dei “ceti medi” che – come scriverà Pasolini nelle Lettere luterane – hanno sposato l’ideologia edonistica del consumo creando «un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili».4 La mutazione antropologica del popolo italiano ha delle ripercussioni sulla funzione sociale dell’intellettuale e sul rapporto tra il letterato e il pubblico: essa segna – come ha scritto Romano Luperini nel saggio Letteratura e identità nazionale: la parabola novecentesca – la fine della «tensione etico-civile» e del mandato politico dell’intellettuale, che non ha più un destinatario a cui rivolgersi.5 Alla mia nazione introduce dunque una rottura rispetto alla produzione precedente: siamo distanti dall’immagine poetica dell’Italia fondata sul nesso passato perduto/storia traditrice – un archetipo che va da Dante fino ancora al Pasolini delle Poesie a Casarsa – poiché incrinandosi la funzione sociale dell’intellettuale, viene meno la fiducia nella possibilità di costruire una memoria comune ed una comune identità. 2. In concomitanza con la trasformazione della società e con la crisi del mandato civile dell’intellettuale, la poesia annuncia il proprio divorzio dall’“Italia dei poeti”, ovvero dalla linea che tra fine Ottocento e inizio Novecento ha fatto della letteratura uno strumento di creazione d’identità nazionale: Carducci, Pascoli, Jahier, Ungaretti, Saba, Quasimodo fino appunto al Pasolini delle Poesie a Casarsa. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta Franco Fortini scrive Inno nazionale dove sbeffeggia la retorica nazionalista della letteratura: Fratelli d’Italia, tiriamo a campare! Governo ed altare si curan di te… Fratelli d’Italia, ciascuno per sé Perepepé!6
Fortini, facendosi provocatoriamente portavoce della filosofia del “tira a campare”, di chi delega la dimensione collettiva alle istituzioni preposte «Governo ed altare» e opta per la prospettiva individualista del «ciascuno per sé», prende le distanze dalla retorica nazionalista e introduce un nuovo codice per parlare dell’Italia e degli italiani incentrato sull’ironia e sullo sberleffo.
4
P.P. Pasolini, Lettere luterane, Milano, Garzanti 2009, p. 211. R. Luperini, Letteratura e identità nazionale: la parabola novecentesca, in Letteratura e identità nazionale nel Novecento cit., pp. 17-18. 6 F. Fortini-S. Liberovici, Inno nazionale, in Cantacronache. Un’avventura politico-musicale degli anni Cinquanta, a cura di E. Jona e M.L. Straniero, Torino, Paravia 1996, pp. 152-153. 5
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Anche Giorgio Caproni in Ahimè, prende le distanze dalla prospettiva di costruire l’Italia partendo dalla memoria comune depositata nella tradizione letteraria. Con un tono leggero e scanzonato dichiara che l’appartenenza alla tradizione letteraria fondativa dell’identità nazionale è una «disgrazia». Questa tradizione viene indicata con il nome del poeta per antonomasia, Dante, che rima provocatoriamente con «tante»: Fra le disgrazie tante che mi son capitate, ahi quella d’esser nato nella «terra di Dante».7
3. Nei testi del terzo filone campeggia la denuncia contro l’Italia e l’identità italiana. Nel saggio Da «donna di province» a «matria insana»: l’Italia dei poeti, Stefano Jossa individua alcune immagini ed archetipi dell’Italia nella poesia dell’Otto-Novecento, che hanno contribuito a creare un sistema di valori e un processo di identificazione collettiva. L’idea sottesa all’analisi di Jossa è che la poesia proprio in quanto creatrice di immagini e miti sia in grado di unire una nazione più di qualsiasi processo economico e politico.8 Nel secondo Novecento le immagini della nazione che prevalgono sono quelle – di matrice dantesca – della meretrice, della prostituta e della donna infeconda destinata a morire. Vittorio Sereni nel 1960 mette in bocca a Saba un’apostrofe feroce contro l’Italia: «“Porca – vociferando – porca”. / Lo guardava stupefatta la gente. / Lo diceva all’Italia. Di schianto, come una «donna / che ignara o no a morte ci ha ferito».9 Nelo Risi nel 1987 nella poesia Italia scrive: «Non è più nostra madre / avara di figli partorisce disastri; / malgrado il rombo ininterrotto / dei motori i colpi sono chiari, / le stanno approntando una lunga bara».10 E Paolo Volponi nel 1993, nel pieno della crisi di Tangentopoli rappresenta la parabola dell’Italia che da «povera puttana / chiusa nella sua sottana» è divenuta un «incanaglito / furente travestito / al margine, senza terra, sui raccordi, / che guata l’ombra infetta / dei nuovi quartieri».11
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G. Caproni, Ahimè, da Res amissa, in L’opera in versi, edizione critica a cura di L. Zuliani, Milano, Mondadori 1998, p. 792. 8 Cfr. S. Jossa, Da «donna di provincie» a «matria insana»: l’Italia dei poeti, in Il Canto dei Poeti. Versi celebri da Dante al Novecento nelle romanze e liriche dei compositori italiani, a cura di S. Frantellizzi, Milano-Lugano, Giampiero Casagrande editore 2011, pp. 233-252 9 V. Sereni, Saba, in Id., Poesie, a cura di D. Isella, Milano, Mondadori 1995, p.136. 10 N. Risi, Italia, da Le risonanze, in Poeti italiani del secondo Novecento 1945-1995, a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi, Milano, Mondadori 1996, pp. 204-205. 11 P. Volponi, O di gente italiana, in Id., Poesie 1946-1994, a cura di E. Zinato, Torino, Einaudi 2001, p. 418. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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Sempre nell’ottica della denuncia, ma con un registro meno simbolico, Giorgio Caproni nel 1983 scrive una poesia intitolata Show, dove sferra un attacco contro i politici italiani responsabili dello sconfinamento della democrazia nella partitocrazia, come egli stesso dichiara in un’intervista del 1988 «speravamo in una democrazia molto diversa dall’attuale, una democrazia che fosse veramente una democrazia, e non una partitocrazia».12 Per inquadrare il testo, è opportunono ricordare che il 1983 è l’anno del primo governo Craxi che vede la compresenza anomala di socialisti, liberali, democristiani e repubblicani. Guido Crainz in Autobiografia di una repubblica ha ben mostrato come in questi anni si gettino le fondamenta di una lunga stagione politica dove la conquista del consenso e l’occupazione dei gangli del potere vengono anteposti al bene pubblico, a principi e a regole e giustificano voto di scambio, corruzione politica, confusione tra pubblico e privato.13 Guardateli bene in faccia. Guardateli. Alla televisione, magari, in luogo di guardar la partita. Son loro, i «governanti». Le nostre «guide». I «tutori» – eletti – della nostra vita. Guardateli. Ripugnanti. Sordidi fautori dell’«ordine», il limo del loro animo tinge
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L’intervista a Caproni è stata pubblicata da Luca Zuliani nell’apparato critico del volume L’opera in versi da lui curato. Riporto il discorso completo di Caproni: «La peggiore delusione che ha provato un uomo della mia età…non ho il coraggio di dirlo, ma speravamo in una democrazia molto diversa dall’attuale, una democrazia che fosse veramente una democrazia, e non una partitocrazia come effettivamente è oggi. Questa speranza purtroppo non l’ho vista realizzata» in G. Caproni, L’opera in versi cit., p. 1712. 13 Cfr. G. Crainz, Autobiografia di una repubblica. Le radici dell’Italia attuale, Roma, Donzelli 2009. Si veda in particolare il capitolo I lunghi anni ottanta, pp. 127-182. Identità nazionale e letteratura italiana: un atlante e un canone possibile
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di pus la sicumera dei lineamenti. Sono (ben pasciuti) i nostri illibati Ministri. Sono i Senatori. I sinistri -i provvidi! – Sindacalisti. «Lottano» per il bene del Paese. […] Proteggono i Valori (in Borsa!) e le Istituzioni… Ma cosa si nasconde dietro le invereconde maschere? Il Male che dicono di combattere?… Toglieteceli davanti. Per sempre. Tutti quanti.14
I politici italiani, coloro che dovrebbero incarnare la legge e la giustizia vengono rappresentati come se fossero in uno show televisivo, intercambiabile con una partita di calcio «Guardateli / Alla televisione, / magari, in luogo / di guardar la partita» e offrono uno spettacolo sgradevole e ripugnante «il limo / del loro animo tinge / di pus la sicumera / dei lineamenti». Siamo negli anni in cui la politica comincia ad usare la televisione come nuovo canale di comunicazione ed il linguaggio dello spettacolo come strategia comunicativa: si pensi ai faraonici congressi del PSI preparati da architetti e scenografi (Panseca è il più noto) che – come ha scritto Guido Crainz – «rappresentano un’idea della società e del potere, e contribuiscono al trionfo della politica spettacolo e del carisma mediatico».15 In questo nuovo conte-
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G. Caproni, Show, da Res amissa, in Id., L’opera in versi cit., pp. 791-792. G. Crainz, Autobiografia di una repubblica cit., p. 165. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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sto in cui realtà e spettacolo si confondono, il poeta non è che uno spettatore impotente. Il monito che Caproni lancia in chiusura «toglieteceli davanti. / Per sempre. / Tutti quanti» sembra essere indirizzato a chi programma le scalette televisive. Caproni coglie alcuni aspetti che si sono amplificati nel corso dell’ultimo trentennio fino ad arrivare alle distorsioni e ai paradossi della società attuale, dove politica e spettacolo, pubblico e privato, realtà e percezione di essa si sovrappongono e spesso diventano intercambiabili. In un articolo del 1984 apparso su “Repubblica” egli ha scritto che «Lo sfacelo della storia che abbiamo vissuto non ammette riscatti di illusione, né la poesia è un rifugio o un’isola felice: anzi è lo strumento forse più acuminato per esprimere un vuoto».16 Show è questo, è la denuncia di un vuoto, che è anche un vuoto identitario. Tra i testi che ho velocemente passato in rassegna c’è un filo conduttore: essi restituiscono un’identità in negativo dell’Italia e degli italiani, un’anti-identità, un modello di nazione in cui è del tutto opportuno non riconoscersi. Non spetta a me valutare se l’idea di nazione trasmessa da questi poeti sia stata lungimirante e abbia colto in anticipo alcune distorsioni della cultura e della società attuali o se abbia contribuito a sminuire l’autostima collettiva e a fomentare l’atteggiamento tipico degli italiani nei confronti del proprio paese di «chiamarsene fuori e fare gli Antitaliani», come ha scritto Mario Isnenghi nel suo recente volume Storia d’Italia;17 questi due aspetti potrebbero infatti anche coesistere. Mi interessa invece spostare lo sguardo più verso di noi, ovvero sulla generazione che si affaccia alla poesia a partire dagli anni Ottanta, quando la confusione tra realtà e fiction, politica e spettacolo, laicismo ed edonismo, si afferma con prepotenza e mette del tutto fuori gioco un’idea di letteratura come portavoce di letture globali. Nello schema per gli studenti questo potrebbe costituire il quarto filone. Se i poeti nati nel primo quarto del secolo scorso reagiscono alla mancanza di grandi sistemi di riferimento e alla fine del mandato politico dell’intellettuale con un senso di impotenza e frustrazione che si traduce nella denuncia, nell’invettiva ed in visioni talvolta catastrofiche, la generazione di Gianni D’Elia, Valerio Magrelli o Fabio Pusterla ha un approccio diverso che, riprendendo un ossimoro utilizzato da Andrea Cortellessa, potremmo definire con l’espressione “impegno postmoderno”.18
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G. Caproni, Credo in un dio serpente, in «Repubblica», 5 gennaio 1984, p. 3. Il testo è stato citato da R. Scarpa nel suo saggio ‘Cronache letterarie’ di Giorgio Caproni, in Nell’opera di Giorgio Caproni, a cura di E. De Signoribus, in «Istmi», (1999), 5-6, p. 215. 17 M. Isnenghi, Storia d’Italia. I fatti e le percezioni dal Risorgimento alla società dello spettacolo, Roma, Laterza 2011, p. 9. 18 Cfr. A. Cortellessa, Intellettuali, Anni Zero, in G. Alfano, A. Cortellessa, D. Dalmas, M. di Identità nazionale e letteratura italiana: un atlante e un canone possibile
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Per la nuova generazione di poeti la constatazione dell’assenza di una progettualità totalizzante all’orizzonte è un dato di fatto: «Quella terra promessa / non c’era, ed era solo passione? Si, l’abbiamo imparato nella sera / che il mondo è così come…»;19 «e oggi nient’altro che il frammento / sembra ci sia dato per istanti»20 scrive Gianni d’Elia e Valerio Magrelli «Vivi pure la vita, / a patto di ricordare / che siamo al mondo per acquistare».21 È da questa condizione che potremmo chiamare “postuma” o “postmoderna” – nel senso indicato da David Harvey di «accettazione della caducità, della frammentazione, della discontinuità e del caos»22 – che questi poeti guardano l’Italia e gli Italiani: quelli che dai mattoni edificano le teste, e con le televisioni, palloni le idiotizzano in resse… O questa nuova gente in ascesa da oscuri poteri innominati, spuri dello spreco affluente…23
come ha scritto Gianni d’Elia (Per una ballata italiana). Tuttavia questi poeti reagiscono al quadro desolante della nostra nazione non con il grido indignato di
Gesù, S. Jossa, D. Scarpa, Dove siamo? Nuove posizioni della critica, Palermo, : duepunti edizioni 2011, pp. 26-29. Cortellessa ha ripreso questa definizione da un recente libro anglosassone Postmodern Impegno. Ethics and Committment in Contemporary Italian Culture, a cura di P. Antonello e F. Mussgnug, Peter Lang, Bern 2009. 19 G. D’Elia, Sulla riva dell’epoca, in Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, a cura di G. Alfano, A. Baldacci, C. Bello Minciacchi, A. Cortellessa, M. Manganelli, R. Scarpa. F. Zinelli, P. Zublena, Roma, Luca Sossella editore 2005, p. 268. 20 G. D’Elia, Altre istruzioni, da Congedo della vecchia Olivetti, ivi, p. 268. 21 V. Magrelli, Manchette pubblicitaria da Didascalie per la lettura di un giornale, ivi, p. 292. 22 David Harvey indica come fenomeno centrale del postmoderno «la sua totale accettazione della caducità, della frammentazione, della discontinuità e del caos che davano vita a una metà del concetto di modernità espresso da Baudelaire. Ma il postmodernismo risponde a questo fatto in modo molto particolare. Non cerca di superarlo, o contrastarlo, e neppure cerca di definire gli elementi “eterni e immutabili” che potrebbe contenere. Il postmodernismo galleggia, sguazza addirittura, nelle correnti frammentarie e caotiche del cambiamento come se oltre a questo non ci fosse null’altro». D. Harvey, La crisi della modernità, Milano, Il Saggiatore 1993, p. 63. 23 G. d’Elia, Per una ballata italiana, da Notte privata, in Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli cit., pp. 265-266. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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Caproni o con le invettive di Sereni e Volponi, ma con la scelta di tenere le distanze da quegli aspetti della realtà in cui non si riconoscono. Ad esempio rinunciando alle immagini, come propone Fabio Pusterla: Avendo da anni deciso felicemente di rinunciare alla televisione […] Non vedremo le facce gravi dei potenti le smorfie eroiche degli inviati speciali […] No, grazie, rinunceremo allo spettacolo. Alla festa. Davanti alla radio, in silenzio, potremo guardare nel vuoto, immaginare quel che si può immaginare, troppo poco. Senza immagini tutto sarà più chiaro, più tremendo.24
Non si tratta di relativismo morale o di disimpegno, poiché questa scelta comporta un senso del presente «più chiaro, più tremendo», c’è la consapevolezza del “troppo poco” che deriva da una condizione di limitatezza. Ma è proprio dalla consapevolezza di essere immersi in uno scenario frammentato e complesso di fronte al quale si è «disarmati», che – scrive Pusterla – «qualcosa si sveglia, / non una forza eppure già energia. Qualcosa / pulsa da un folto di radici. Inverno vieni, / noi siamo quasi pronti. Umili e pronti».25 Sempre Pusterla, si rivolge con queste parole A quelli che verranno: Ma eravamo qui, a custodire la voce. Non ogni giorno e non ogni ora del giorno; qualche volta, soltanto, quando sembrava possibile raccogliere un po’ di forza. Ci chiudevamo la porta dietro le spalle, abbandonando le nostre case sontuose e riprendevamo il cammino, senza meta.26
Nel suo recente saggio Intellettuali. Anni zero pubblicato nel volume miscellaneo Dove siamo? Nuove posizioni della critica Andrea Cortellessa ha scritto che «L’arte
24
F. Pusterla, Senza immagini, da Folla sommersa, ivi, pp. 499-500. Id., Sulla soglia dell’inverno, ivi, p. 501. 26 Id., A quelli che verranno, in Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, a cura di E. Testa, Torino, Einaudi 2005, pp. 398-399. 25
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“impegnata” nella postmodernità, ha caratteristiche frammentarie (di contro alla progettualità totalizzante del grande modernismo): lo scrittore può ancora credibilmente “dire la sua”, ma lo può fare in termini contingenti, congiunturali, “locali”; il che in certi casi può dare una concretezza, alle sue pagine, persino maggiore che in passato».27 È questa condizione che fa da spartiacque tra le ultime generazioni di poeti e la tradizione precedente: la poesia che chiude l’ultimo quarto del Novecento non può più contribuire alla costruzione di una coscienza nazionale partendo da una conoscenza universale, da un disegno prefissato, da una «progettualità totalizzante»; può tuttavia «custodire la voce», «quando sembra possibile / raccogliere un po’ di forza», può insomma incidere sulla formazione di una coscienza civile e nazionale in termini «contingenti, congiunturali e locali», prendendo dalla realtà complessa e sfuggente alcuni pezzi e dando loro un senso.
27
A. Cortellessa, Intellettuali, Anni Zero, in Dove siamo? cit., p. 28. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
CINZIA RUOZZI Dante e Levi: percorsi di letture parallele
Ho proposto questo tema con una certa titubanza. Le ragioni della mia esitazione sono principalmente due: prima di tutto si tratta di un argomento che non è certo nuovo nella didattica della disciplina, in secondo luogo temo il giudizio dei dantisti, di fronte a simili tentativi di attualizzazione dei classici e alle forzature inevitabili di tali confronti. Tuttavia ho deciso di presentare questo percorso, perché si tratta di un’esperienza sperimentata in classe, sulla quale ho riflettuto anche in seguito, e come insegnante credo che le cose che funzionano con i ragazzi siano piccole gemme preziose, “ l’anello che tiene” di montaliana memoria da opporre alla rete sfilacciata di un sapere che non sedimenta, che sembra scivolare via nell’indifferenza se non nel rifiuto. Nella mia esposizione cercherò di raccontare come si è svolto questo modulo tematico, (uso il termine “modulo” anche se preferisco definire con il termine “esperienza” quello che vivo a scuola), quali altri possibili percorsi si potrebbero attivare, pensando a una riproposizione del lavoro in altre classi, e anche a ipotizzare per quali misteriose ragioni queste letture abbiano funzionato. Siamo in una classe terza di un Istituto Tecnico per Geometri nel mese di novembre. I primi mesi di scuola sono stati dedicati alla propedeutica della letteratura e allo studio della Letteratura delle origini. Il problema del senso dello studio della letteratura si è posto fin dall’inizio, anche perché questo è il primo anno del triennio e in terza ci si gioca molto del futuro interesse per la disciplina e della metodologia di studio. Fin dall’estate ho pensato di proporre per ogni anno del triennio una lettura parallela di un autore classico e di un autore del Novecento: perciò ho scelto di accostare Dante-Levi (L’Inferno-Se questo è un uomo) in terza; AriostoFenoglio (Orlando Furioso-Una questione privata) in quarta; Pirandello-Kafka (Il fu Mattia Pascal-La Metamorfosi) in quinta. Nei miei studenti l’attesa di leggere Dante era forte e non per merito mio, ci sono state le letture di Benigni in televisione, c’è addirittura un video-gioco ispirato
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alla Commedia, c’è il fascino e la sfida di affrontare un “grande della letteratura” (su questo ultimo punto anche l’insegnante può contribuire a creare un orizzonte di attesa). Io cercavo uno sfondo integratore a cui ricondurre i diversi contenuti che avremmo affrontato. Lo sfondo sarà il concetto di inferno: inferno come regno dell’oltretomba in Dante, inferno come luogo dell’immaginario (per noi oggi), inferno come categoria della modernità, inferno in terra come luogo della storia (in Levi). Per quanto riguarda questo ultimo punto è necessario far riferimento anche ad altre recenti tragedie umanitarie. Personalmente mi sono servita di articoli di giornale e della lettura di alcuni capitoli del libro straordinario I racconti della Kolyma di Šalamov, scrittore reduce dei Gulag sovietici. Non so se qualcuno ha notato che nell’antologia delle letture personali di Primo Levi La ricerca delle radici, voluta da Giulio Bollati e pubblicata nel 1981, non figura Dante. Nella Prefazione Levi dichiara di essere rimasto egli stesso stupito, accingendosi a svolgere questo lavoro di ricerca dei libri significativi, le radici appunto, che fra gli autori preferiti «non ci siano donne, né scrittori appartenenti alle culture non-europee, che i magici abbiano prevalso sui moralisti, e i moralisti sui logici, che l’esperienza concentrazionaria abbia pesato così poco».1 Nell’antologia incontriamo Omero, Rabelais, Porta e Belli, Schalòm Alechém («la salvazione del riso» – dirà in un’intervista a «Paese Sera» del 1981), Parini, Swift, Melville, Conrad, Darwin, l’amico Rigoni Stern e tanti altri, ma non Dante. Nella Prefazione, tuttavia, Levi dichiara che nell’apprestarsi a scegliere gli autori si è sentito messo a nudo, «più esposto al pubblico che nello scrivere libri in proprio, quasi in possesso delle opposte impressioni dell’esibizionista che nudo ci sta bene, e del paziente sul lettino in attesa che il chirurgo gli apra la pancia; anzi in atto di aprirmela io stesso, – dice – come Maometto, nella nona bolgia e nell’illustrazione del Dorè in cui il compiacimento masochistico del dannato è vistoso».2 Levi non include Dante nella sua antologia, ma Dante è già presente nelle pieghe del testo, citato e alluso con familiarità. Questa assenza comunque ha colpito i critici, soprattutto pensando al posto che l’autore della Commedia occupa in Se questo è un uomo, perciò in diverse interviste è stato chiesto a Levi il motivo dell’omissione di Dante, e non solo, ma anche di altri classici della letteratura italiana: Ariosto, Manzoni, Foscolo, Leopardi. Le risposte di Levi sono molto interessanti: innanzitutto lo scrittore dichiara di essere stato un cattivo studente di letteratura: Preferivo la chimica. Mi annoiavano le lezioni di teoria poetica, la struttura del romanzo e roba del genere. Ma quando fu il momento e dovetti scrivere Se questo è un uomo, e allora avevo davvero un bisogno patologico di scriverlo, trovai dentro di me una sorta
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P. Levi, La ricerca delle radici, Torino, Einaudi 1981, p. IX. Ivi, p. IX. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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di “programma”. E si trattava di quella stessa letteratura che avevo studiato più o meno con riluttanza, di quel Dante che ero stato costretto a leggere alla scuola superiore, dei classici italiani e così via.3
È interessante dunque vedere come agisca in un uomo del nostro tempo, la ricezione, quasi sottocutanea, del «poema sacro» (Pd XXV), la memoria attuale della Commedia, in un fecondo intreccio tra passato e presente. In un’altra intervista, questa volta a Giovanni Tesio, Levi dichiara di aver deliberatamente escluso i classici della letteratura italiana, perché questi dovrebbero essere patrimonio di ogni lettore, «se li avessi messi – dice – sarebbe stato come se, in un documento d’identità, sul rigo “segni particolari, si scrivesse “due occhi”».4 Infine in un’intervista sul rapporto tra letteratura-scienza-tecnica, in riferimento alla sua doppia identità di chimico e scrittore, (ma anche italiano ed ebreo: vedi la celebre metafora del centauro in Storie naturali), Levi istituisce una linea di autori esemplari, che definisce “tubazione”, una condotta che parte da Dante, arriva a Galileo, Spallanzani, Magalotti: scrittori che non avevano una concezione separata della cultura: da un parte gli studi umanistici dall’altra quelli scientifici, ma una visione assolutamente unitaria e globale.5 Anche questa riflessione di Levi mi sembra una pista interessante da seguire a scuola, partendo da qualche pagina del celebre saggio di Charles Percy Snow, Two Culture (Le due culture, 1963), fino al saggio di Italo Calvino Una pietra sopra (1980), che individua una vocazione profonda della letteratura italiana, che passa appunto da Dante a Galileo, sullo scrivere come mappa dello scibile, come spinta alla conoscenza del mondo.6 Dopo questa premessa mi accingo ad affrontare il tema della mia relazione, cioè il rapporto intertestuale tra l’Inferno di Dante e Se questo è un uomo di Levi, anche se la questione del “dantismo” in Levi non si limita a questo confronto, ma richiederebbe di affrontare altre opere che mi limito a citare quali: La tregua, alcuni racconti come Nichel tratto da Il sistema periodico e Capaneo (If XIV) compreso nella raccolta Lilit e soprattutto I sommersi e i salvati, dove il titolo stesso è un prestito lessicale dalla Commedia («sommersi» If VI, 15; XX, 3; «salvati» If IV, 63). Ricordiamo, inoltre, che il titolo Se questo è un uomo fu una scelta editoriale, ma Levi avrebbe voluto intitolare il suo libro I sommersi e i salvati: un’evidente citazione dantesca.
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The Litterary Review, November 1985, in P. Levi, Conversazioni e interviste 1963-1987, a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi 1997, p. 66. 4 P. Levi, Nego di essere gran lettore di classici e di romanzi, in «Nuovasocietà», 11 luglio 1981, in Conversazioni e interviste cit., p. 154. 5 Id., Conversazioni e interviste cit., pp. 173-174. 6 I. Calvino, Una pietra sopra, Milano, Mondadori 1995, p. 227. Identità nazionale e letteratura italiana: un atlante e un canone possibile
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Il rapporto intertestuale tra l’Inferno e Se questo è un uomo si traduce metodologicamente in classe in una lettura parallela che avviene in momenti diversi. Il testo di partenza da cui scaturiscono i confronti è quello di Levi, perché la lettura di Dante prosegue secondo il programma. La redazione definitiva di Se questo è un uomo del 1958 si apre con una poesia senza titolo posta in epigrafe che ricalca alcuni versetti di Schemà (che in ebraico significa “Ascolta”), la preghiera fondamentale degli ebrei. Nel decimo verso compare la prima parola tratta dalla Commedia, si tratta del verbo “considerate”: «Considerate se questo è un uomo / che lavora nel fango […] considerate se questa è una donna /, senza capelli e senza nome», il riferimento è alla dignità calpestata degli esseri umani e la memoria corre subito all’invocazione di Ulisse ai suoi compagni nella bolgia dei consiglieri di frode, If XXVI, 118120: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti / ma per seguire virtute e canoscenza». La meditazione su ciò che distingue l’uomo dal bruto e sul compito morale della conoscenza accomuna già in apertura i due autori. La figura dell’eroe greco sarà poi al centro del capitolo Il canto di Ulisse, dove il Levi prigioniero prova a raccontare al giovane deportato Jean, che nel campo svolge la funzione di Pikolo (Piccolo), vale a dire fattorino-scritturale, addetto alla pulizia della baracca, qualcosa dell’Italia. È uno dei rari momenti di tregua nei quali la comunicazione umana è ancora possibile. Levi parla della Commedia, cerca di tradurre nel suo rozzo francese i versi del canto di Ulisse che a intermittenza gli tornano alla mente, dimentica per un momento dove si trova per tornare a essere intimamente se stesso, soffre per le rime che non riesce a ricordare e sente di comprendere fino in fondo e dolorosamente il significato di questo canto. Come scrive Giovanni Tesio nell’Introduzione a Se questo è un uomo,7 per Levi il vero incontro con Dante avviene nel lager, attraverso quella esperienza Dante diventa lo scrittore guida, e dopo il lager Dante sarà l’ispiratore del viaggio a ritroso per riportare alla luce, attraverso la scrittura, la memoria dell’inferno vissuto. La reminescenza dantesca del canto XXVI, quale emerge in modo così esplicito da questo episodio, richiama con forza il valore morale collettivo degli atti di memoria e al tempo stesso diviene il simbolo di una resistenza strenuamente umana. Quarant’anni dopo, in I sommersi e i salvati (1986), nel capitolo L’ intellettuale ad Auschwitz, titolo mutuato da Jean Améry, Levi definisce il suo uso personale della cultura in contrasto con il severo aforisma di Amèry per cui «nessun ponte conduceva dalla morte ad Auschwitz alla “Morte a Venezia”».8 Levi vi consente in
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G. Tesio, Introduzione a Se questo è un uomo, Torino, Einaudi 1992. P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi 1986, p.115 XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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parte, convenendo sul fatto che«la cultura non era utile ad orientarsi e a capire, al contrario gli incolti si adattavano prima a quel non cercare di capire»,9 tuttavia «la cultura – dice Levi – forse per vie sotterranee ed impreviste, mi ha servito e forse mi ha salvato».10 La memoria del canto di Ulisse: mi permetteva di ristabilire un legame con il passato, salvandolo dall’oblio e fortificando la mia identità, mi convinceva che la mia mente, benché stretta dalle necessità quotidiane, non aveva cessato di funzionare, mi promuoveva ai miei occhi e a quelli del mio interlocutore, mi concedeva una vacanza effimera, ma non ebete, anzi liberatoria e differenziale: un modo insomma di ritrovare me stesso.11
L’episodio sarà ricordato anche da Jean Samuel (Pikolo), uno dei pochi personaggi del libro a essere sopravvissuto, il quale confessò di non aver compreso appieno il senso delle parole di Levi, ma di essersi accorto che quella conversazione stava facendo del bene al suo compagno e di averlo invitato a continuare. Come l’Inferno di Dante, il libro di Levi contiene un Prologo, che si colloca fuori dall’Inferno (il primo capitolo intitolato Il viaggio). Qui si può notare l’andamento cronachistico della narrazione e l’utilizzo del tempo passato; da questo momento in poi l’autore utilizzerà soltanto il tempo presente, non un presente storico ma un presente assoluto, poiché l’idea del tempo dentro il lager non contempla più la nozione di futuro e rimuove l’esistenza del passato. La scelta del presente serve anche a ricordare che come l’inferno dantesco, anche Auschwitz è sempre presente, in quanto eterno pericolo che incombe sull’umanità. Nel viaggio possiamo seguire il passaggio dal mondo dell’umanità a quello della disumanità, un viaggio dentro un vagone merci, «verso il nulla, un viaggio all’ingiù, verso il fondo», 12 dove subito si presenta alla memoria l’imbuto dell’inferno dantesco. In Levi, come in Dante, scrive Cesare Segre «il modo per indicare il raggiungimento dell’umiliazione massima è topologicamente uno sprofondamento siamo arrivati al fondo, mentre la soglia del passaggio alla tragedia avviene attraverso l’irruzione del grottesco: l’apparizione degli strani individui che si muovono come pupazzi con in testa un buffo berrettino e una palandrana a righe e che marciano al ritmo della canzone Rosamunda».13 Forti sono le assonanze tra la condizione dei prigionieri e quella dei dannati: dai barbarici latrati dei tedeschi, al soldato, moderno Caronte, che anziché apostrofare i deportati gridando «guai a voi anime prave», come Levi si aspetta di sentire,
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Ivi, p. 115. Ivi, p. 112. 11 Ibidem. 12 P. Levi, Se questo è un uomo cit., p. 10. 13 C. Segre, Letteratura italiana. Il secondo Novecento,Torino, Einaudi 1996-2007, p. 144. 10
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memore di If III, domanda in lingua franca orologi e denaro. Infine la citazione dantesca si fa esplicita all’inizio del secondo capitolo intitolato Sul fondo, ma con una distinzione degradante. Se questo è l’inferno, dirà Levi, si tratta di un inferno moderno, dove non c’è posto per la sacralità e la solennità. Il Caronte-soldato tedesco è un personaggio squallido e mediocre che non ha nessuno dei tratti apocalittici dei personaggi luciferini danteschi. In questi soldati c’è solo la convinzione di dovere ubbidire a un ordine di servizio, è “la banalità del male” così come ce l’ha descritta nel suo saggio Hannah Arendt, cioè il male perpetrato con l’abito dimesso e quotidiano del conformismo. Il capitolo Sul fondo comincia con l’immagine di una scritta ARBEIT MACHT FREI (Il lavoro rende liberi): beffardo ammonimento che ricalca le parole scolpite sulla porta dell’Inferno dantesco, «il cui ricordo ancora mi percuote nei sogni» dice Levi;14 “percuote” è verbo caro a Dante («or son venuto / là dove molto pianto mi percuote», If V, 26-27; «tosto che nella vista mi percosse» Pg XXX, 40). Attraverso questa porta si entra nella città dolente, nell’eterno dolore, tra la perduta gente di Auschwitz-Birkenau. Ma nell’inferno moderno non esiste nessuna forma di contrappasso, come scrive Lorenzo Mondo «tutti sono ugualmente colpevoli e chiamati a percorrere, in tempi diversi, i diversi gradi dell’abiezione, fino all’annientamento».15 L’inferno moderno è insensato come le sue leggi: «Hier ist Kein Warum (Qui non c’è perché)» come dirà poco più avanti Levi, citando ancora Dante: «Qui non ha loco il Santo Volto / qui si nuota altrimenti che nel Serchio» (If XXI, 48-49; e Se questo è un uomo, p. 26) e con questo richiamo a Dante si conclude la prima «lunghissima giornata di antinferno».16 Il terzo capitolo di Se questo è un uomo si intitola Iniziazione, esso ha un valore particolare perché è stato aggiunto nella seconda edizione del 1958. Le riflessioni che possiamo fare sono sostanzialmente due e riguardano il tema della rappresentazione della Shoah e il mandato a scrivere che Levi riceve dal prigioniero Steinlauf. Se fino a questo momento Levi aveva trovato nelle situazioni e nei personaggi della Commedia “una forma ordinata” in cui inserire la realtà insensata e incomprensibile dell’esperienza del lager, ora si rende conto che la difficoltà non sta solamente nella rappresentazione della realtà (che per Dante è l’oltremondo«Ahi quanto a dire è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte», If I, 4-5) o nel doverla rivivere mentre la si descrive (Dante dice «che nel pensier rinnova la paura» If I, 6), ma nella ricerca delle parole. In altri termini: non ci sono le parole per descrivere l’e-
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P. Levi, Se questo è un uomo cit., p. 17. L. Mondo, Primo Levi e Dante, in Atti del Convegno internazionale di S. Salvatore Monferrato, 26-27 settembre 1991, p. 225. 16 P. Levi, Se questo è un uomo cit., p.26. Scegliendo il termine “antinferno”, Levi fa propria la definizione dei commentatori del terzo canto di Dante. 15
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sperienza infernale del lager, ciò determina una situazione di indicibilità linguistica. Dante lo aveva dichiarato «che non è impresa da pigliare a gabbo / discriver fondo a tutto l’universo / né da lingua che chiami mamma o babbo» (If XXXII, 7-9), cioè non è un impresa di poco conto, da prendere per scherzo (a gabbo) descrivere il fondo dell’universo (si riferisce al lago Cocito) da essere tentata da un fanciullo, oppure, secondo altri commentatori, da essere tentata nella lingua d’uso quotidiano e popolare, con parole umili come mamma e babbo. Allo stesso modo Levi scrive: Per la prima volta ci siamo resi conto che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo e se i lager fossero durati più a lungo un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato: e di questo si sente il bisogno per spiegare che cosa è faticare la intera giornata nel vento, sotto zero, con indosso camicia, mutande e brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che viene.17
Levi è lo scrittore che forse più di altri sopravvissuti alla Shoah ha posto il linguaggio al centro dei suoi resoconti del Lager, egli come Dante che riassume l’esperienza dell’ineffabilità nei celebri versi 70-71 di Pd I: «Trasumanar significar per verba / non si porìa» (l’innalzarsi verso i limiti dell’umano non è cosa che si possa esprimere con parole umane), coglie appieno i limiti e l’inadeguatezza del linguaggio, ma poiché, come per Dante, la sua missione morale è comunicare con il lettore, trova nel linguaggio stesso la soluzione possibile. Levi forza il linguaggio verso la chiarezza lapidaria, la precisione del semplice dettaglio, la concisione descrittiva, il ritorno alla lingua ordinaria; interroga la lingua e il lettore su una nuova riflessione, sul significato dei termini usuali di “bene” e “male”, “giusto” e “ingiusto”, “fame, paura, dolore”, ecc. Affermare che alcuni aspetti del lager sono inesprimibili e arrestarsi davanti all’indicibile, mantenendo il diritto etico all’esistenza di una soglia di riservatezza, diviene in Levi un topos retorico, una strategia della comunicazione che produce una reazione forte e raggiunge lo scopo di dire, pur negando di dire. Mai in Levi prevale la resa al silenzio, egli stesso ne I sommersi e i salvati distingue i sopravvissuti in due categorie: “quelli che raccontano” e “quelli che tacciono” e non v’è dubbio, come ha fatto notare Marco Belpoliti, curatore del volume Conversazioni e interviste che egli sia tra i primi, per il suo impegno come oratore pubblico e oggetto di interviste (terzo filone importante della sua personalità, insieme ai mestieri di chimico e di scrittore.) «Negare che comunicare si può è falso: si può sempre. Rifiutare di comunicare è colpa»,18 afferma Levi in I sommersi e i salvati in un capito-
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P. Levi, Se questo è un uomo cit., p. 131. Id., I sommersi e i salvati cit., p. 69.
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lo dedicato al tema della comunicazione. L’impegno etico non cancella però lo scarto segnalato da Jorge Semprùn, scrittore franco-spagnolo reduce da Buchenwald tra la vita e la scrittura. Non è che l’esperienza vissuta sia indicibile. È caso mai invivibile. È qualcosa che non riguarda la forma di un racconto possibile, ma la sua sostanza. Soltanto coloro che sapranno fare della loro testimonianza un oggetto artistico, uno spazio di creazione, o di ricreazione, riusciranno a raggiungere questa sostanza, questa densità trasparente.19
Nel lager domina una confusione di lingue, «una perpetua Babele in cui tutti urlano ordini e minacce in lingue mai udite e guai a chi non afferra al volo».20 La descrizione di questa folla sgomenta e disorientata fa correre il pensiero alle anime del canto III: «Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche, e suon di man con elle // facevano un tumulto, il qual s’aggira / sempre in quell’aura sanza tempo tinta, / come la rena quando turbo spira» (If III, 25-30). Levi non farà la scelta del plurilinguismo, dello sperimentalismo linguistico (questo esperimento di mimesi linguistica sarà tentato, invece, nella Chiave a stella dove i protagonisti sono operai piemontesi); ci restituisce alcune parole creolizzate e alcuni termini come pane-brot-broit-pain, nelle sette lingue del campo, ma la lingua resta precisa, esatta, «un italiano marmoreo», dirà Cesare Cases, nell’Introduzione al primo volume delle Opere, con il gusto della brevitas, dell’economia e dell’essenzialità espressiva. Al tempo stesso, però, la lingua sobria e classica di Se questo è un uomo accoglie, come scrive Lorenzo Mondo,«i frammenti, i lapilli di quella Babele: suoni cacofonici esasperati che nascono dalla sofferenza e dall’ira».21 Per capire meglio che cosa può essere un luogo dove più nessuna comunicazione è possibile, bisognerebbe ascoltare la prima riduzione radiofonica del romanzo del 1964 (un radiodramma) a cui ho avuto l’occasione di assistere al Festival della Letteratura di Mantova. Essa ricostruisce con realistica efficacia il contesto di bolgia dantesca attraverso le voci di interpreti di sette lingue, il frastuono di fondo del latrare delle SS, mescolato alle preghiere sommesse e al canto in linguaggi sconosciuti. Il mito biblico della torre di Babele ritorna spesso nelle pagine di Levi: è la torre del carburo costruita dai prigionieri in mezzo alla Buna (la fabbrica per la produzione della gomma sintetica) che ricorda la schiavitù in Egitto, è la barriera lingui-
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J. Semprùn, L’écriture ou la vie, Paris, Gallimard 1994, trad.it. La scrittura o la vita, Parma, Guanda 1996, p. 20. 20 P. Levi, Se questo è un uomo cit., p. 35. 21 L. Mondo, Primo Levi e Dante, in Atti cit., p. 226. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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stica delle molte lingue che determinano la condanna a morte e l’impossibilità di solidarizzare e anche di ribellarsi.22 L’incontro con il prigioniero Steinlauf è un momento cruciale, forse per la sopravvivenza di Levi, certamente per la genesi del libro. Steinlauf è un prigioniero cinquantenne, sergente austroungarico e croce di ferro della guerra 1914-18 che al lavatoio apostrofa Primo perché ha rinunciato a lavarsi. Steinlauf sostiene che l’ultima facoltà rimasta ai deportati è quella di negare il proprio consenso, quindi bisogna resistere, camminare diritti, continuare a lavarsi anche nell’acqua sporca e senza sapone, salvare la forma della civiltà per poter sopravvivere e sopravvivere per raccontare, per portare testimonianza. Come un moderno Farinata degli Uberti, anche se in accezione decisamente positiva, rispetto alla valutazione ambigua che Dante dà del capo ghibellino, Steinaluf ha conservato anche all’Inferno la fierezza del soldato, l’orgoglio e il senso della dignità. Non a caso Levi ce lo rappresenta mentre si staglia “a torso nudo” come Farinata che: «s’ergea col petto e con la fronte/ com’avesse l’inferno in gran dispitto» (If X, 35-36) quindi dalla cintola in su. Dall’altissima lezione di Steinlauf, Levi riceve il mandato a scrivere e dunque a vivere. Scrivere come liberazione interiore e forma di salvezza (dal trauma dell’esilio, come dalla morte), scrivere come espressione della consapevolezza di sé come intellettuale (per Dante l’esilio è il superamento degli orizzonti comunali, per Levi, Auschwitz è la causa deflagrante del suo essere scrittore), scrivere per molestare le coscienze (pensiamo al mandato di Cacciaguida in Pd XVII) e costringere a guardare dentro all’abisso profondo della nostra coscienza. Levi condivide con Dante l’idea che lo scrittore abbia una missione, un compito morale, non a caso nella sua antologia personale include Parini «era uno di quegli uomini che, attraverso i secoli, desidereresti conoscere di persona, frequentare: magari a tavola, di sera, in riva a un lago, bevendo vino vecchio con moderazione»23 e che proprio in luogo di questo compito debba scrivere in modo chiaro per farsi capire dal massimo numero di lettori, «da mente a mente, da luogo a luogo, da tempo a tempo, perché chi non viene capito da nessuno non trasmette nulla, grida nel deserto».24 Il fitto dialogo con Dante prosegue anche nel capitolo successivo intitolato KaBe, l’infermeria dove Levi si trova a seguito di una ferita a un piede, dove si fa «vita di Limbo»25 e nel capitolo in cui viene descritto l’esame di chimica.
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Il significato del mito della Torre di Babele è stato analizzato da Cesare Segre nel corso di un Convegno a Princeton, (30 aprile-2 maggio 1989); C. Segre, Primo Levi nella Torre di Babele, in Primo Levi as Witness, a cura di P. Frassica, Firenze, Casalini Libri 1990. 23 P. Levi, La ricerca delle radici cit., p. 43. 24 Id., Dello scrivere oscuro in L’altrui mestiere, Torino, Einaudi 1985, III, p. 635. 25 Id., Se questo è un uomo cit., p. 49. Identità nazionale e letteratura italiana: un atlante e un canone possibile
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Il dottor Pannwitz che interroga Levi è una figura spaventosa, un gigante che siede «formidabilmente» dietro la sua scrivania. L’utilizzo dell’avverbio «formidabilmente» è spiegato dallo stesso Levi in una lettera all’editore tedesco datata Torino 26 marzo 1960: «“siede formidabilmente” è fortemente pregnante (è una cripto-citazione di Dante, If V, 4 “Stavvi Minòs, orribilmente, e ringhia”). Vuole esprimere la natura straniera e terrificante di quel giudice infernale come Minosse, che si accinge ad ascoltarmi, ed esprimerà il suo giudizio in modo altrettanto incomprensibile».26 Lo stesso capitolo si chiude poi con l’arrivo del Kapò Alex, che indossa scarpe di cuoio, «perché non è ebreo ed è leggero sui piedi come i diavoli delle Malebolge».27 Altro prelievo dantesco è la figura di Fra Alberico, uno dei capi guelfi di Faenza, in If XXXIII, di cui Levi parla in un’intervista del 1987 per la rivista «Partisan Review», in riferimento a un episodio in cui lo stesso Dante infierisce su uno dei dannati che giace conficcato in una lastra di ghiaccio talmente spessa da impedirgli di piangere i propri peccati. L’anima dannata racconta la sua vicenda a patto che il poeta gli rimuova il ghiaccio dagli occhi, ma al termine della conversazione Dante si allontana senza mantenere la sua promessa. La crudeltà del poeta è un atto dovuto («E io non gliel’apersi; / e cortesia fu lui esser villano», 149-150) in considerazione del fatto che la sofferenza inflitta fosse giusta perché meritata. Nello stesso modo, dice Levi, dovevano pensare di noi molti tedeschi, come il Kapò Alex, che si compiacevano di fare del male gratuitamente. Il tema della presenza del male e dell’esistenza di una zona grigia di ambiguità è indagato per la prima volta nel capitolo I sommersi e i salvati, titolo che arriva direttamente dalla Commedia. È in questo capitolo che vengono definite le due categorie di uomini che popolano il lager, qui comincia lo studio antropologico dell’uomo e la messa a fuoco dell’infinita capacità di male che si può sprigionare dal sottosuolo della propria interiorità, qui emerge inesorabile il senso di colpa e la vergogna del sopravvissuto. Levi si allontana significativamente da Dante e ne rovescia i valori: nell’orizzonte del lager non esiste Dio, nessuna forma di trascendenza, di redenzione, di senso e di provvidenzialità sono possibili («Hier ist kein Warum» qui non c’è perché); al contrario «le vie della salvazione sono desolatamente quelle della colpa: dalla mancanza di solidarietà, agli atti di egoismo fino alla collaborazione nelle opere del male».28
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Ivi, p. 112. Ivi, p. 114. 28 L. Mondo cit., p. 228. 27
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Sul tema del sentimento della vergogna: vergogna di sé e vergogna del mondo, Levi cita alcuni episodi in Se questo è un uomo e ne La tregua, ma la riflessione avviene nell’ultimo saggio I sommersi e i salvati. Su questo aspetto centrale nella poetica di Levi, «la vergogna come inaudita e spaventosa prossimità dell’uomo con se stesso» sarebbe interessante fare un approfondimento tematico legato anche ai temi attuali della morale e dell’etica pubblica. Levi si interroga a lungo su questo sentimento per capire da cosa nasce e perché si protrae nel tempo “la vergogna del sopravvissuto”. A tal proposito sono molto utili il bel libro di Marco Belpoliti Senza vergogna che considera Levi e Kafka (Levi traduce Il Processo di F. Kafka, – perché? – Alla fine del romanzo Josef K. prova vergogna per l’esistenza stessa del tribunale, un tribunale fatto di uomini e non divino, prova vergogna di essere uomo) e il saggio di Gianrico Carofiglio La manomissione delle parole, esempio di scrittura saggistica che si può proporre a scuola, perché lavorare sulle parole come dice Dante nella Vita Nova, cap. XIII «significa capire l’essenza stessa delle cose che esse designano Nomina sunt consequentia rerum».29 La potenza del sentimento della vergogna è stata descritta da Dante quando, nella bolgia dei falsari, Virgilio lo rimprovera ed egli sente una «tal vergogna / ch’ancor per la memoria mi si gira» (If XXX 134-135), ma ci parlano della “vergogna da svelamento” anche le tavole dei dannati di Dorè che si coprono il ventre con le braccia o l’immagine di Adamo che nasconde il volto, mentre è scacciato dal Paradiso, dipinta da Masaccio nella Cappella Brancacci di Firenze. La vergogna di sé per lo sguardo degli altri (sentimento messo a fuoco anche da altri sopravvissuti come Boris Pahor, Necropoli), ma anche per lo sguardo interiore (la strategia dello sguardo diventa uno dei punti salienti della nullificazione del soggetto stesso, scrive Belpoliti),30 la vergogna del ricordo, la vergogna che il giusto prova davanti alla colpa commessa dagli altri, infine la vergogna stessa di essere sopravvissuti sono analizzate anche da altri reduci: Tzvetan Todorov in Di fronte all’estremo e Jean Amery, Un intellettuale ad Auschwitz che morirà suicida come Levi. Infine in Storia di dieci giorni, capitolo finale del libro, il ritorno alla vita è rappresentato dalla rottura della circolarità claustrofobica dello spazio concentrazionario, quale Levi ci aveva descritto all’inizio del libro. Si tratta dei due poli opposti dello stesso viaggio che inizia con la perdita di sé e si conclude con la riappropriazione di sé, secondo un movimento circolare. La riconquista della propria dignità avviene dopo la rottura del filo spinato, fuori dal reticolato, fuori dall’imbuto dell’inferno, quando ritornati uomini si può volgere di nuovo il viso verso l’alto e «riveder le stelle» (If XXXIV, 139).
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D. Alighieri, Vita Nova, a cura di Alfonso Berardinelli, Garzanti, Milano 1997, p. 2. M. Belpoliti, Senza vergogna, Parma, Guanda 2010, p. 84.
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Perché Dante-Levi si riescono a leggere Nella più ampia riflessione che come associazione stiamo cercano di fare sul canone, riflettere sulle ragioni per cui alcuni autori sono più interessanti e motivanti per i ragazzi, nonché maggiormente formativi secondo gli insegnanti, mi sembra un punto cruciale. Credo a questo proposito che Dante Alighieri e Primo Levi interessino prima di tutto come uomini, per la loro vicenda biografica, per la passione, il coraggio, la sofferenza, l’esemplarità delle loro vite. Risulta curiosa e interessante anche la natura centauresca del loro essere intellettuali: scrittore e uomo politico, narratore e scienziato, esule, ex deportato: una doppia natura li accomuna. Un altro aspetto che desta ammirazione è la ricerca di un sapere universale, esteso a molti campi e non confinato unicamente alla letteratura, infine li avvicina l’idea del compito morale che l’intellettuale sente come prioritario. Un’ultima e conclusiva osservazione, riguarda i temi e l’opera. In Dante c’è la grandiosità del disegno immaginifico che cattura e coinvolge già a una prima e superficiale lettura, basta lasciarsi prendere per mano e incominciare il viaggio avventuroso della Commedia; in Levi c’è la forza e la fascinazione del discorso epico. «La storia del romanzo occidentale, ha scritto Claudio Magris, è la storia di un’antiepica: da due secoli il romanzo racconta la mancanza di epicità, il desolato isolamento di destini singoli che non conoscono alcuna superiore totalità che li trascenda, la disgregazione di una vita in cui sembrano esistere soltanto frammenti dispersi e nessun senso che li componga in unità».31 La storia degli ebrei è stata grandiosamente epica in sé, e ancor di più negli anni del nazismo. I due libri Se questo è un uomo e La tregua rappresentano moderne opere epiche: sono la nostra Iliade e la nostra Odissea, la continua battaglia per la vita dell’eroe spossessato anche dell’onore della sconfitta, il viaggio avventuroso e picaresco del ritorno alla vita e del recupero dell’uomo.32 Altre esplorazioni C’è un tema che io non ho esplorato ma che sarebbe molto motivante per una classe ed è quello dell’amicizia. Partendo dalle dichiarazioni di Dante nelle Rime sul valore dell’amicizia: relazione con Cavalcanti e gli altri poeti stilnovisti «Guido i’ vorrei che tu e Lapo ed io» (Rime, IX), il suo rapporto con Virgilio, amico e guida, con Brunetto Latini (If XV); fino a Levi per il quale l’amicizia permea tutti gli aspetti della vita.
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C. Magris, Epica e romanzo in Primo Levi, in Primo Levi, a cura di M. Belpoliti, Milano, Marcos y Marcos 1997, p. 138. 32 A questo proposito vedi M. Rigoni Stern, Primo Levi, moderna Odissea e Bernard Delmay, Primo Levi, un’epica in contrappunto in M. Belpoliti, Senza vergogna cit. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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Levi ce ne dà una definizione in una poesia poco nota intitolata Agli amici del 1985, nella quale i momenti di amicizia diventano l’unità di misura della vita. La sua opera è costellata dal vocabolario e dalle immagini dell’amicizia: già nella preghiera Shemà che apre Se questo è un uomo, «il cibo caldo e visi amici» contribuiscono a definire il mondo comune che è l’antitesi del lager, poi c’è l’amicizia con l’inseparabile Alberto che scomparirà nella marcia di evacuazione del campo, l’amicizia fraterna con l’operaio Lorenzo che lo aiuta a sopravvivere, ma anche l’amicizia che sente nei confronti lettori (in Dello scrivere oscuro), per i libri e gli autori preferiti (in La ricerca delle radici) persino per i metalli (“metalli amici” e “metalli nemici” in Il Sistema periodico). «La rete di affinità che Levi tende a creare tra gli elementi, la sua ricerca di un senso di comunità sono elementi costitutivi della sua sensibilità etica e di un “pensare all’antica”, come scrive Robert Gordon, premoderno, o almeno premodernista».33
33
R. Gordon, Primo Levi: le virtù dell’uomo normale, Roma, Carocci 2003, p. 193.
Identità nazionale e letteratura italiana: un atlante e un canone possibile
IDENTITÀ NAZIONALE ED EDUCAZIONE LETTERARIA: GLI ITALIANI NELLA SCUOLA
FABIO DE PROPRIS Quarant’anni di italiano scritto tra i banchi di scuola. Da Don Milani ad oggi1
Requisito essenziale per giudicare non è né un’intelligenza altamente sviluppata, né una raffinata conoscenza di questioni morali, ma più semplicemente l’abitudine di vivere esplicitamente con se stessi: e cioè l’abitudine a condurre tra sé e sé quel dialogo silenzioso che dal tempo di Socrate e di Platone chiamiamo solitamente pensiero Hanna Arendt2
Oggetto di questa relazione è lo scrittore italiano che è anche insegnante e in uno o più dei suoi libri tratta del mondo della scuola. Il doppio statuto di scrittore e di insegnante crea una situazione limite, paragonabile a uno specchio che rifletta un altro specchio in una stanza dove non ci siano altro che questi due specchi posti l’uno di fronte all’altro. Partendo dall’assioma che qualunque testo letterario (dal saggio alla barzelletta più triviale) ha un fine parenetico, lo scrittore che parla della propria esperienza di insegnante da un lato compie un gesto ovvio, poiché la motivazione parenetica che lo ha spinto a insegnare è assai simile a quella che lo spinge a raccontare una storia, dall’altro si pone di fronte al proprio inguardabile se
1 Vedi L. Serianni, G. Benedetti, Scritti sui banchi. L’italiano a scuola tra alunni e insegnanti, Roma, Carocci 2009, pp. 212 (cito il saggio per avergli un po’ copiato il titolo e perché contiene una descrizione del lavoro dell’insegnante di italiano non romanzesca, ma professionale, e nel senso appassionato del termine). 2 La frase in esergo è ricopiata, con tutte le sue imprecisioni ortografiche (Hanna è in realtà Hannah, ad esempio), da un foglio che mi regalò un collega insieme alla riproduzione del manoscritto dell’Infinito di Leopardi. All’alto contenuto di quella frase, tratta da La banalità del male, e alla sua forma imperfetta è ispirata in parti uguali la mia relazione.
Identità nazionale ed educazione letteraria: gli Italiani nella scuola
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stesso, poiché ricavare la morale dal racconto del tentativo di trasmettere una morale è un’attività liminare che sconfina con l’irraccontabile. Perché dunque lo scrittore possa raccontare la sua esperienza di insegnante, deve necessariamente seguire alcune strutture dell’arte del racconto, quali ad esempio lo schema «dalle stalle alle stelle», o «la rinascita».3 Ciò gli permette sicuramente di tradurre la sua esperienza in racconto, spesso con venature saggistiche, ma al prezzo di trasformare la quotidiana esperienza scolastica, magari trentennale, in qualcosa di inattingibile, come il noumeno kantiano. Se i due schemi citati possono strutturare racconti a lieto fine, offrono anche la possibilità di un’interpretazione ironica e servire a raccontare una sconfitta. Nella letteratura italiana degli ultimi quarant’anni questa seconda modalità è prevalente. Possiamo incontrarla anche lungo tutto il Novecento e anche prima, a testimonianza del fatto che la scuola che precedette il ’68, nella traduzione narrativa dello scrittore-insegnante, non era così diversa nei risultati da quella che l’ha seguito. Che insegnare e fallire nell’insegnamento siano due aspetti di un unico fenomeno per gli scrittori-insegnanti delle ultime due generazioni è una conclusione largamente condivisa. Il racconto del fallimento della «rinascita» ha innanzitutto una motivazione tutta interna all’atto del raccontare: non si può dire l’indicibile e l’aver provato sfocia necessariamente in una sconfitta. Un secondo motivo è legato alla natura stessa dell’insegnare, che è un’attività lunga, i cui risultati possono vedersi a distanza di anni (e non è detto che li veda l’insegnante), o non vedersi se non l’ultimo giorno di vita dello studente, poiché apprendere è un’attività che si conclude solo con la morte. Tutto ciò si confonde con la condizione umana, la sua insufficienza ontologica, «il legno storto dell’umanità». Il lieto fine in questo campo è dunque fuori luogo per natura. Esistono poi motivazioni storiche e nazionali, legate alla nobile scommessa dei Costituenti della Repubblica italiana (1946-47) di una scuola «aperta a tutti», con «otto anni» di istruzione «obbligatoria e gratuita» (art. 34 Cost. it., con tagli), che negli anni Sessanta del Novecento ha portato alla scuola media «di massa». Le classi si riempirono, sembra, di alunni non «capaci e meritevoli». Il numero stesso degli insegnanti nell’Italia repubblicana aumentò e neanche loro furono tutti impeccabili. Se il discorso sulla scuola esce fuori dal dettato della
3 Mi riferisco qui a due delle sette storie fondamentali individuate da C. Booker nel suo libro The Seven Basic Plots: Why We Tell Stories (London, Continuum 2004, pp. 728). Le sette trame fondamentali di qualunque racconto per Booker sono, oltre a «dalle stalle alle stelle» (From Rags to Riches – la vicenda di persone normali che scoprono di essere migliori di quanto non pensassero, come in Cenerentola, David Copperfield o Jane Eyre) e «la rinascita» (Rebirth – in cui si parte da una morte, apparente o simbolica, per poi tornare a vivere, come nel caso di Biancaneve, Canto di Natale, Delitto e castigo), «la ricerca» (The Quest), «il viaggio e il ritorno» (Voyage and Return), «il mostro sconfitto» (Overcoming the Monster), «la commedia» (Comedy) e «la tragedia» (Tragedy).
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Costituzione, delle leggi, dei decreti o delle circolari ministeriali per strutturarsi come racconto dell’insegnante, si presenta spontaneo il desiderio di raccontare l’altra faccia della medaglia, la dura realtà di una pratica scolastica che fallisce il suo obiettivo per mancanza di un sostrato culturale familiare solido e di fondi ministeriali, per la distanza tra buoni propositi e forze effettive, per la rivalità tra scuola statale e scuola privata religiosa o laica e, più in generale, per lo scollamento tra come dovrebbe essere il mondo e come è. Lettera a una professoressa (1967), firmato dalla Scuola di Barbiana, diretta da don Lorenzo Milani,4 è invece un libro che sfugge a queste coordinate. Non meraviglia che sia diventato un caposaldo nella storia della scuola e, direi, anche della storia italiana in genere. Qui lo schema narrativo «dalle stalle alle stelle» è innervato dalla vicenda degli studenti respinti dalla scuola che, con la guida del Priore, si appropriano eroicamente di una cultura di cui stabiliscono autonomamente i contenuti partendo dai valori della civiltà contadina e operaia di cui fanno parte. La straordinaria storia dei ragazzi di Barbiana, tanto reale nei particolari, quanto epica nella struttura (fa sognare, induce l’identificazione con l’eroe, richiama grandiose speranze evangeliche di riscatto) non è però una vicenda che abbia al centro l’insegnante. La professoressa del titolo è un muto obiettivo polemico. Don Milani, il vero maestro, si nasconde dietro la voce dei suoi ragazzi figli di contadini, dà loro forza, si fonde insieme a loro in soggetto collettivo. Tuttavia, non è sua la storia che racconta. Il nostro eroe è «Gianni», il ragazzino povero, cui è contrapposto «Pierino del dottore», lo studente borghese favorito dalla società in tutti i modi, anche al di là dei suoi meriti e delle sue capacità, quasi una riedizione novecentesca del marchesino Eufemio immortalato da Giuseppe Gioacchino Belli in un suo sonetto italiano del 1843. Addirittura, si può trovare un ritratto di don Milani da bambino proprio nel disprezzabile Pierino (lo sostiene Sandra Gesualdi nella sua presentazione all’edizione 2007 del libro, a pag. XI). Forse è arrivata l’ora di considerare Lettera a una professoressa anche un caposaldo della Letteratura italiana. Un testo cioè che ha inciso nella storia del nostro Paese proprio in virtù delle capacità narrative di chi l’ha scritto. Se ha un senso parlare di «narrazione» della realtà nel senso dato alla parola dal pedagogista Jerome Bruner e poi ripreso in sede non solo filosofica, ma anche politica, allora è il caso di dire che la scuola di Barbiana ha cambiato la storia italiana perché ha saputo «narrare», raccontare una storia a un pubblico che poi – come ha voluto e potuto – vi ha trovato uno stimolo per il suo agire. Forse era un pubblico di Pierini che sognava di essere Gianni, ma questo fa capire la forza della narrazione (se è possibile un paragone, milioni di bambini
4 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa – Quarant’anni dopo, a cura della Fondazione Don Lorenzo Milani, presentazione di S. Gesualdi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina 2007, introduzione pp. CXII, p. 166.
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«babbani» hanno letto i romanzi di J. R. Rowling sognando di essere il mago Henry Potter). La magia della narrazione di Lettera un professoressa però non si è ripetuta. Ora siamo qui ad aspettare una risposta. Ci sarà bene in qualche istituto magistrale qualcuno che ci scriverà: «Cari ragazzi, non tutti i professori sono come quella signora. Non siate razzisti anche voi. Anche se non sono d’accordo su tutto quello che dite, so che la nostra scuola non va. Solo una scuola perfetta può permettersi di rifiutare la gente nuova e le culture diverse. E la scuola perfetta non esiste. Non lo è né la nostra né la vostra. Comunque quelli di voi che vogliono essere maestri venite a dar gli esami quaggiù. Ho un gruppo di colleghi pronti a chiudere due occhi per voi. A pedagogia vi chiederemo solo di Gianni. A italiano di raccontarci come avete fatto a scrivere questa bella lettera. A latino qualche parola antica che dice il vostro nonno. A storia i motivi per cui i montanari scendono al piano. A scienze ci parlerete dei sormenti e ci direte il nome dell’albero che fa le ciliegie». Aspettiamo questa lettera. Abbiamo fiducia che arriverà. Il nostro indirizzo è: Scuola di Barbiana Vicchio Mugello (Firenze). (Lettera a una professoressa, pp. 139-40)
Il tono fiducioso delle parole finali della Lettera (cui seguiva una Parte Terza di documentazione) non ha avuto eredi di rilievo. Dal 1967 a oggi ha prevalso nello scrittore-insegnante il tono pensoso dello sconfitto, talvolta autoironico, talvolta comico-amaro, come, ad esempio, nel recente romanzo autobiografico di Silvia Dai Pra’, Quelli che però è lo stesso, (Roma-Bari, Laterza 2011, pp. 160), storia di un’insegnante trentenne in precario servizio presso un istituto professionale di Ostia.5 La grandiosità del sogno si è scontrata con le piccinerie della realtà. Per ridurre la situazione a una sola frase, possiamo dire che il nuovo insegnante sognava di essere un Gianni passato dall’altra parte dell’aula a rinnovare l’umanità, ma si è ritrovato a essere la professoressa che bocciava Gianni. È una vicenda di «rinascita» finita male. Una storia triste, ma che deve pure essere raccontata.6
5 A relazione ormai esposta è uscito il notevole romanzo di Giusi Marchetta L’iguana non vuole, Milano, Rizzoli 2011, pp. 300, che merita un esame approfondito e che, con mio grande piacere, in parte smentisce il mio discorso («in parte» perché la protagonista che da Napoli si trasferisce a Torino per lavorare nella scuola è una laureata in lettere classiche animata da amore e rispetto per l’insegnamento, ma si cimenta con il sostegno a un bambino «difficile», metafora, più che del fallimento educativo del Socrate che in lei è vivissimo, di un intero Paese). 6 Si veda ad esempio F. Giusti, Lettera di una professoressa, Roma, Donzelli 1998, pp. 96 e l’intervento di M. Spicola Lettera di una professoressa a don Milani sul sito della rivista «Micro-
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L’Italia degli anni Settanta è ricca di insegnanti, che costituiscono l’intellettualemassa. Una persona che ha studiato spesso a livelli assai alti per poi ritrovarsi in realtà didattiche difficili, in cui lo studente proviene in larga parte da famiglie culturalmente deprivate in cui il fascismo aveva rinforzato l’atavico disprezzo per la cultura (il «culturame» di cui parlò Mario Scelba nel 1949) e il berlusconismo comincia a lavorare per rifinire l’opera (il «culturame» di cui ha parlato Renato Brunetta nel 2009). L’intellettuale-massa che proviene dalle classi più umili e che prima della Repubblica molto difficilmente avrebbe potuto studiare (se non in seminario), si trova ora a parlare da una cattedra per istruire studenti-massa. Che vi sia un abbassamento generale del livello di istruzione sembrerebbe, ed è sembrato, un’ovvietà. Ma la scuola ha sempre avuto, almeno nelle narrazioni, tratti assai simili. Certo, da don Milani in poi, le voci si fanno più numerose. Così ad esempio ricorda Domenico Starnone nel brano datato 6 ottobre 1985 scritto per il quotidiano «Il Manifesto» e poi raccolto nel fortunato libro Ex cattedra7 … nella scuola di San Chirico Raparo, molto al di là di Eboli […] C’ero arrivato in un mattino gelato del 1969, dicembre, dopo molte ore di treno nella notte e poi altre ore di viaggio all’alba, su una corriera sgangherata e gonfia di fiati caldi. Nel dormiveglia pensavo: e se faccio una cattiva impressione? e se mi impapero? e se dico: zitto tu? Avevo smesso da poco d’essere ragazzo e perciò sapevo come sono i ragazzi: malvagi. Ma avevo letto don Milani e progettavo di essere non come la professoressa della Lettera, bensì come lui: però prete no. Solo rivoluzionario ed esperto in nomi degli alberi (mai dire: sali su quell’albero: sempre determinare: sali su quel ciliegio), in modo da fare bella figura con i miei allievi di campagna. Quando sono entrato per la prima volta in classe, un’aula dell’Ottocento, stufa a legna, fumo perché il camino non tirava bene, caldo asfissiante in antitesi col vento gelido che mi investiva se in sudore correvo su per la gradinata all’aperto che portava in un’altra classe – quando sono entrato, ti dicevo – ho detto al nostro valoroso delegato Cgil a cui stavo raccontando la mia faticosa carriera, – un teppistello è uscito dal banco senza chiedermi il permesso. E io gli ho intimato: fermo là, come ti chiami. Lui s’è fermato e «Cataldi» ha detto indicando la legna in un angolo e poi: «il ciocco». Per farmi capire che il suo compito era alimentare la stufa. Allora io ho concesso: fa pure. E quindi «Che legna?» ho chiesto col tono di chi dice: vediamo se lo sai. Lui mi ha interrogato così: «?». Io in gran tensione ho precisato: di che albero. Il ragazzo mi ha risposto: che ne so. Allora l’ho fissato a lungo terrorizzandolo senza intenzione.
mega» datato 11 marzo 2010 http://temi.repubblica.it/micromega-online/lettera-di-una-professoressa-a-don-milani/ 7 D. Starnone, Ex cattedra, Milano, Feltrinelli 1989, p. 131 (raccoglie testi pubblicati nel corso dell’anno scolastico 1985-86 sul quotidiano «Il Manifesto» nella rubrica omonima). Ora in edizione ampliata Ex cattedra e altre storie di scuola (Milano, Feltrinelli 2008). Identità nazionale ed educazione letteraria: gli Italiani nella scuola
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Pensavo solo: se distolgo lo sguardo mi chiede: «Che albero è?» e nemmeno io lo so. Ma il ragazzo invece mi ha domandato: «Chi ha messo la bomba a Milano?». Io ci ho pensato e nemmeno quello sapevo. Ho risposto: «Vediamo l’importanza delle tombe per gli antichi egizi». «È stato lui» allora ha sussurrato Cataldi agli altri. Che non ero colpevole – ha rassicurato il nostro delegato – se ne accorsero qualche tempo dopo. E, a pensarci, è l’unica cosa che s’è saputa su quella strage. (D. Starnone, Ex cattedra, pp. 20-21)
Il tono autoironico e a tratti senz’altro comico del primo libro che Starnone dedica alla scuola, poi efficacemente travasato nel film La scuola dal regista Daniele Luchetti (1995), cede il passo in Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso8 a una narrazione più riflessiva, autobiografica e addolorata. Come è ovvio per la logica del racconto, le parti più affascinanti sono quelle in cui Starnone rievoca la sua infanzia e la sua adolescenza di studente: in cui cioè lo schema «dalle stalle alle stelle» funziona. E le «stelle» sono le ripetizioni private: Temevo che si risapesse. Pensavo ai miei insegnanti che avrebbero detto: «Lezioni private quello lì? Ma se le faccia dare, le lezioni private!». Temevo anche che i genitori dei miei alunni, convocati dagli insegnanti dei figli, si sentissero dire: «Chi è l’imbecille che dà ripetizioni a questo povero ragazzo?». Andavo a casa dei miei allievi sempre con un po’ di batticuore. (D. Starnone, Solo se interrogato, pp. 76-77)
Qui però interessa rilevare il senso generale del libro, che è poi quello tipico della narrazione dello scrittore-insegnante dell’ultima generazione: il racconto del passaggio dall’uguale all’uguale, «dalle stalle alle stalle». Starnone passa in rassegna testi proto-novecenteschi che sulla scuola non fanno che ripetere un giudizio severo, di sostanziale insufficienza: Ieri ho leggiucchiato vecchi testi. L’ho fatto pensando a mia nonna, che ci teneva molto alla mia buona riuscita scolastica […] Non so per quali canali, aveva acquisito una delle critiche ricorrenti rivolte alla scuola del Novecento. «Adesso», si diceva, «si impara di meno» […]. Un rimpianto immotivato, mi sono confermato rileggendo qualche pagina dal De Amicis di Il romanzo di un maestro (1890) […] Poi sono passato alle Memorie di un vecchio professore di Michele Lessona […] E anche lì il quadro, malgrado il garbo, non mi è parso bello: ingiustizie dovute a valutazioni umorali fondate sul pregiudizio; trucchetti per barare agli esami, raccomandazioni; ignoranza di esaminatori ed esaminati. […] (D. Starnone, Solo se interrogato, pp. 46-47)
8
Id., Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso (Milano, Feltrinelli 1995) Altri titoli dello stesso autore relativi all’argomento: Fuori registro, Milano, Feltrinelli 1991; Sottobanco, Roma, e/o 1992). XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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Starnone prosegue citando le novelle scolastiche Socrate moderno (1908) di Massimo Bontempelli, il pamphlet antiprogressista Chiudiamo le scuole (1914) di Giovanni Papini («le scuole servono solo a deprimere la creatività dei geni e a fabbricare “cretini di stato”», p. 48) e La cultura italiana di Giuseppe Prezzolini (1927), sostenuti nel loro pessimismo anche da due testi manualistici, Il manuale del perfetto professore di Dino Provenzal (1921) e Gli insegnanti bocciati di Evaristo Breccia (1957): tutti testi che retrodatano di molto le critiche che si rivolgono alla scuola italiana «dopo il ’68» da parte dei nostalgici del tempo che non fu mai. Cito a questo proposito altri due testi «pessimisti» che precedono il fatidico anno: Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi (Torino, Einaudi, 1962 – ma terminato già nel 1960 e trasposto al cinema da Elio Petri nel 1963, protagonista Alberto Sordi) e Le parrocchie di Regalpetra di Leonardo Sciascia (Bari, Laterza, 1956), maestro elementare nella natia Racalmuto dal 1949 al 1957. Viene da concludere che l’insegnante italiano, narrativamente parlando, è una figura che, prima o dopo il 1968, davanti a sé non ha spazio per svilupparsi, per rinascere o tornare a rivedere le stelle. Il suo modello è il Socrate amato da Hannah Arendt: sogna di dialogare con lo studente, aiutarlo a pensare e accompagnarlo in un processo di liberazione, di rinascita, strapparlo alla banalità del male.9 Ma non ogni dialogo dell’ennesimo piccolo Socrate con ciascuno dei suoi casuali discepoli raggiunge l’obiettivo. Inoltre il dialogo quasi mai è a due, perché l’interlocutore del nostro Socrate decaduto è una classe di studenti. La stessa altezza del suo modello sembra la causa dell’impossibilità di ripeterlo. L’insegnante finisce così per interpretare prima la maschera del filosofo cinico di strada che applica i metodi della diatriba davanti al pubblico distratto dei passanti, cioè gli studenti, e poi per vendicarsi amaramente raccontando sulla pagina i suoi fallimenti professionali, l’incompetenza dei superiori e dei colleghi più anziani, o l’ignoranza irredimibile dei discepoli ridotti a caricatura: lo studente-massa che non capisce le parole, non studia, ma scrive «io speriamo che me la cavo».10 Invece che Socrate, l’insegnante passa a incarnare il ragionier Ugo Fantozzi, il capro espiatorio che nasconde in sé un carnefice fallito, il sognatore che scopre di vivere in un abisso di ignoranza e, dapprima con orrore, poi con rassegnazione, finisce per starci quasi comodo. Ma l’insegnante-Fantozzi è soprattutto personaggio narrato da altri. Quando l’insegnante scrive di sé, prevale lo schema del Socrate decaduto.
9
H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, (1963, tit. orig.: Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil) Milano, Feltrinelli 1964. 10 M. D’Orta, Io speriamo che me la cavo. Sessanta temi di bambini napoletani, Milano, Mondadori 1990 (poi trasposto al cinema nel 1992 da L. Wertmüller, protagonista Paolo Villaggio). Da segnalare anche i ricordi di D’Orta scolaro, raccolti nel recente volume Aboliamo la scuola, Milano, Giunti 2010, e gli indignati articoli dell’autore (http://www.ilgiornale.it/autore/marcello_dorta/id=5042), ormai ex insegnante, sullo sfascio della scuola altrui. Identità nazionale ed educazione letteraria: gli Italiani nella scuola
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Un ottimo esempio è fornito dal recente pamphlet di Paola Mastrocola Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare (Parma, Guanda 2011, pp. 271), in cui, sulla scorta della Scuola di Francoforte e delle amare riflessioni di Lucio Russo (Segmenti e bastoncini, Milano, Feltrinelli 1998) l’autrice getta un grido d’allarme sul problema di una scuola che apparentemente si è democratizzata, avvicinandosi alle esigenze della cosiddetta utenza, ma in realtà segue il declino industriale e culturale del Paese e dell’intera Europa. La «libertà di non studiare» coincide con la libertà di consumare prodotti di cui non si ha conoscenza, perché non si sono né progettati, né costruiti, né si saprebbe come fare. Mi permetto di riportare uno stralcio della mia recensione al libro apparsa su Alias:11 […] L’efficacia del pamphlet sta, a mio avviso, nella sua anima romanzesca. L’autrice ha costruito un personaggio, la professoressa torinese di mezz’età, e l’ha lasciata parlare. Le ha donato pensieri, manie, idee e fantasie che sono di certo le sue, ma al tempo stesso costituiscono un profilo letterario che in un’ottica storico-geografica, potremmo definire novecentesco-piemontese. La voce del pamphlet è quella di una docente torinese nata alla metà del XX secolo desiderosa di trasmettere alle nuove generazioni una tradizione di studi solidi e giustamente noiosi che caratterizza il Piemonte (l’anglo-piemontese Carlo Dionisotti, il germanista Cesare Cases, il linguista Gianluigi Beccaria, la redazione dell’Einaudi, o della rivista «L’indice», con la sua operosità classificatoria degna di un erudito settecentesco), coniugata però con un esercizio altrettanto solido della fantasia (Italo Calvino soprattutto, alla ricerca dell’esattezza e della leggerezza, il professor Eco, ma anche Fenoglio e Pavese, con il loro affannarsi sull’inglese e la passione per la terra) e il rispetto per il lavoro manuale fatto come si deve (penso al Primo Levi della Chiave a stella e del Sistema periodico), se non, addirittura, l’amore per la libera impresa di Luigi Einaudi.
Il discorso di Paola Mastrocola è critico nei confronti di don Milani e di Gianni Rodari, anzi, più precisamente del «donmilanismo» (pp. 104-15), del «rodarismo» (pp. 116-23) e della «pedagogia democratica» (pp. 124-30), ma si inserisce in ogni caso nel filone parenetico della letteratura dello scrittore-insegnante, nella nobilissima fattispecie della vox clamantis in deserto. Lo scrittore-insegnante assai difficilmente esce fuori dal filone. E se pensiamo ai programmi scolastici di italiano – dalle invettive dantesche nella Commedia, alla canzone petrarchesca Italia mia, benché ’l parlar sia indarno (R. V. F. CXXVIII), alla lezione machiavelliana del Principe ripresa dal Foscolo dei Sepolcri, al magistero poli-
11 F. De Propris, Lo strazio politico della Mastrocola, recensione al pamphlet Togliamo il disturbo di Paola Mastrocola, «Alias», supplemento settimanale de «Il Manifesto», (12 marzo 2011), 10, p. 15.
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tico-religioso di Manzoni, alle lezioni laiche di Leopardi, di primo Levi, di Italo Calvino, fino agli istruttivi scandali di Pasolini – viene addirittura da concludere che la lezione della scuola si riflette su se stessa, come l’immagine dei due specchi che ho citato all’inizio. Se invece desse più spazio alla narratività, al semplice raccontare storie, insegnando allo studente come raccontarsi e come raccontare il mondo, forse l’insegnante diventerebbe davvero il Socrate che sogna di essere. Ma il compito è improbo. Spiccano nel campo che stiamo indagando le pagine di Sandro Onofri raccolte in Registro di classe (Torino, Einaudi 2000, pp. 100), un libro in cui l’autoironia e la teatralizzazione del sé cedono il posto alla registrazione accorta dello stato delle cose, dell’interiorità della voce narrante e delle ragioni degli altri. Il sogno di incarnare Socrate per Onofri si era fatto assai flebile, perché «la cultura del soldo è dominante» (p. 98) e nessuno sta ad ascoltare un professore che non è diventato ricco. Tuttavia l’autore aveva la sfacciataggine di esclamare, felice: «Esiste un mestiere più bello del mio?» (p. 32). La prospettiva autoriflessiva rende Registro di classe un libro narrativamente valido e la morte dell’autore a stesura appena conclusa gli dona un’aura di testamento che ne accresce il valore. Tuttavia il culmine è costituito da uno dei testi in appendice, Storia di un condannato, in cui Onofri racconta la vicenda di un ragazzo di Ladispoli (cinquanta chilometri da Roma, su uno dei mari più inquinati d’Italia), autore di un omicidio di un coetaneo argentino, un assassinio non premeditato, frutto di un’educazione assente, di una violenza come linguaggio quotidiano e di una sera «nata male». Il professor Onofri si limita a dare voce al condannato Massimiliano Malandrucco, che è andato a incontrare a casa. Emerge la difficoltà di parlare, di spiegarsi le cose: il fallimento di un progetto educativo anche minimo. Adesso lui lo sa che qualcosa ha sbagliato, che quella fortezza creatasi attorno, fatta da pochi amici fidati e spiccicati a lui, di poche e feroci regole di vita, e guai a chi sgarra, e una lealtà irriducibile e incarognita, quella fortezza doveva avere qualche falla. Lo sa che deve rivedere tutto di sé, adesso, ma è difficile cominciare. Gli manca la lucidità, e anche le parole. Quando prova a spiegare, c’è quel groviglio di idee e di rabbie che gli si blocca in qualche parte tra lo stomaco e la lingua, e finisce con un sospiro e una specie di risata. È da quel riso storto che si capisce l’angoscia. Anche se poi le parole, poche e tutte pesanti, stritolano i pensieri, escono a pezzetti. Sono nervoso, dice Massimiliano. Lo sono sempre stato. È il boato. Partito da chissà quale esplosione. (S. Onofri, Registro di classe, p. 96)
Si respira l’aria dei romanzi di Walter Siti (per esempio, Il contagio): lo stesso sottoproletariato di periferia romana, lo stesso sgomento del professore che non riesce a insegnare niente a nessuno, perché i suoi valori sono tutti fuori corso. Rispetto a Siti, pasolinianamente affascinato dai ragazzi di periferia, in Onofri c’è più sobrietà di mezzi espressivi, meno bravura letteraria e – oserei dire – maggior efficacia. Identità nazionale ed educazione letteraria: gli Italiani nella scuola
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La scuola allora sembra diventare raccontabile quando la scuola non c’è. Professori come Eraldo Affinati12 che hanno scelto di insegnare in situazioni difficili, nelle carceri, tra gli orfani della Città dei ragazzi, agli immigrati, possono raccontare la propria esperienza come una rinascita. Oppure (come in Campo del sangue) possono raccontare efficacemente esperienze extrascolastiche e dunque iperscolastiche, come la visita (previo viaggio a piedi) verso ciò che resta del campo di sterminio di Auschwitz, divenuta dopo il libro di Affinati un’attività didattica di molte scuole italiane. L’insegnante-Fantozzi, che in realtà è immortale come lo studente-marchesino Eufemio, sembrerebbe destinato a scomparire. Starnone ci avvertiva già nel 1995: L’altroieri ho chiesto al collega Mario Guccia, cinquantaquattro anni, se al liceo aveva già in mente quale lavoro avrebbe voluto fare da grande. È un uomo interessante, Guccia. Usa tutti i ritagli di tempo per studiare […]. M. G. […] Una volta che ho studiato il fordismo, mi è venuto in mente che la scolarizzazione di massa era stata favorita soprattutto dall’ingegner Ford. Scomponendo le mansioni, aveva annullato il bisogno di apprendere un mestiere e aveva reso superfluo, in prospettiva, il lavoro minorile. In compenso aveva ridotto a bestiole gli adulti. Non è stupefacente questo processo che libera i bambini delle classi subalterne a patto di rimbecillirne i genitori? D. S. Tu dici che è andata così? M. G. Mah, il problema è capire cosa prepara per la scolarizzazione la società che ha messo in soffitta Ford. Ho letto che il lavoro come l’abbiamo vissuto e immaginato sarà tutto fagocitato da nodi e snodi telematici. […] Vivremo nella virtualità. Esploreremo il cyberspazio correndo dietro al mouse. Topolino, topolino. D. S. Con quale effetto sull’istruzione di massa? M. G. I giovani studieranno restando a letto. Niente più “andare a scuola”. Avranno accesso a una quantità sterminata di informazioni. Interrogheranno e saranno interrogati dalle macchine. Altro che insegnanti, altro che i libri di testo. La scuola come la facciamo oggi sparirà. Secondo me, spariremo anche noi. D. S. Noi insegnanti? M. G. Sì. Finiremo nell’elenco dei mestieri in estinzione. Così come siamo, abbiamo il tempo contato. Meglio. (D. Starnone, Solo se interrogato, pp. 70-72)
Di qui a Il sopravvissuto di Antonio Scurati (Milano, Bompiani 2005, vincitore del premio Campiello 2005), che prende le mosse dalla strage di sette squallidi profes-
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E. Affinati, Campo del sangue, Milano, Mondadori 1997; La città dei ragazzi, Milano, Mondadori 2008; Id. (con A. L. Lenzi), Italiani anche noi. Corso di italiano per stranieri. Il libro della scuola Penny Wirton, Trento, Il Margine 2011; Id., L’11 settembre di Eddy il ribelle, Roma, Gallucci 2011. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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sori durante l’esame di Stato a opera dello studente Vitaliano Caccia, da cui si salva solo la voce narrante, il professor Marescalchi (suo sotterraneo ispiratore), il passo è breve. Ma non c’è un unico paradigma narrativo per lo scrittore-insegnante. Quello fin qui delineato è solo uno dei paradigmi possibili, formatosi – oltre che sui principi generali dell’arte del racconto – anche sulle vicende storiche italiane. Vorrei perciò concludere con alcuni cenni sulla cultura turca contemporanea per esaminare un paradigma narrativo diverso, prendendo spunto dal romanzo Un inverno ad Hakkâri pubblicato a Istanbul nel 1977 da Ferit Edgü.13 Come accade spesso nel contesto culturale turco, l’insegnante è una figura sostanzialmente eroica, poiché è il rappresentante dei valori laici, statalistici e al tempo stesso rivoluzionari di Mustafa Kemal Atatürk (1888-1938). Il suo ruolo è quello di diffondere questi valori non solo nella zona «europea» della Turchia, o in quella che si affaccia sul mare Egeo (l’antica Asia minore), ma anche e soprattutto nell’entroterra dell’Anatolia, nel sud-est del Paese, le zone montuose in cui si parla il curdo e l’analfabetismo è alto. L’insegnante di turco che viene mandato a lavorare lì si descrive dunque come una sorta di missionario laico, di eroe della cultura che all’inizio può venire accolto con diffidenza, o non capire la (sotto)cultura dei suoi alunni e dei loro genitori, ma che intimamente sa di essere dalla parte della giustizia, della libertà, dell’illuminismo, anche se non è necessariamente d’accordo col governo in carica (anche se quel governo, per esempio, lo ha punito per le sue idee di sinistra spedendolo dalla Città affacciata sul Bosforo in uno sperduto villaggio ai confini dell’Iran). Così pensa tra sé il maestro voce narrante di Un inverno ad Hakkâri: Quando penso alla mia situazione, dico tra me e me «ci sono stati dei sopravvissuti più sfortunati di te». Tutti i marinai conoscono nomi e avventure di molti di loro. […] Io, almeno, sono capitato tra la gente. Non capisco la lingua che parla, le condizioni naturali e sociali non sono quelle a cui sono abituato. Ma non sono su un’isola deserta. Non sono stato chiuso in una segreta. Non subisco torture per un crimine che non ho commesso. Non mi obbligano a fare un lavoro contro la mia volontà. […] Ho una classe. Ho degli allievi. Non sono sul mare, non sono il capitano. Sono l’insegnante e lo studente. Dunque, ci sono delle cose che dovrei imparare. Come tutti gli esseri umani. Non è felicità anche questa? (Ferit Edgü, Un inverno ad Hakkâri, pp. 94-95)
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F. Edgü, Un inverno ad Hakkâri (tit. orig.: Hakkâri’de bir mevsim, 1977), trad. it. di P. Kurtböke e M. Alessandri, Catania, De Martinis & C. Editori 1995; nuova edizione a cura di C. Guarrera, Messina, Mesogea 2009, pp. 215 (un tema affine al romanzo, ma con toni più nazionalistici, viene trattato dal recente film di O. Eskiköy e Ö. Doğan Iki dil bir bavul, Olanda-Turchia, 2008; trad it.: Due lingue, un baule; tit. inglese: On the Way to School). Identità nazionale ed educazione letteraria: gli Italiani nella scuola
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Fabio De Propris
Gli accenti non sono poi tanto diversi da quelli di Sandro Onofri. Ma il maestro turco ha dovuto assistere alla morte dei suoi alunni curdi per un’epidemia e ha raccolto la confessione di un assassino che diventa suo amico. Ha conosciuto la vita dura di persone che non hanno dimestichezza con i libri, anzi li guardano con diffidenza e talvolta li bruciano. Viene da pensare a un Carlo Levi andato al confino ancora più lontano, dove non si parla un dialetto, ma una lingua di un altro ceppo. E così conclude: Nel tempo che sono stato qui ho cercato di insegnarvi molte cose, per esempio che il mondo gira, come fanno a volare gli aerei, come fanno a navigare le navi, come si formano le montagne, come si riproducono gli uomini, come si mangia, come si assimila il cibo, come si caga, e come si muore. Avete imparato tutto questo, cari ragazzi, non è vero? E io, prima di partire, vi chiedo un piacere: dimenticate tutto quello che vi ho insegnato […] Molte di quelle cose che vi ho detto quest’inverno erano bugie. Ma quella che vi dirò adesso è la verità. Ragazzi miei, vivere senza morire all’età di tre mesi per malattie sconosciute, è possibile. La lebbra, il tracoma, non sono il destino. Niente è destino, ragazzi. Ecco, tutto qui. La verità che vi dovevo dire è questa. Forza, su, la lezione è finita, via. (F. Edgü cit., pp. 207-08)
Sono persuaso che molti insegnanti italiani, senza affatto sperare di dover affrontare situazioni così estreme, hanno lo stesso spirito e, forse non trovando un vero equivalente nel protagonista di un romanzo italiano contemporaneo, di nascosto (addirittura a se stessi), fanno gli eroi tutti i giorni, in classe, tra un suono della campanella e l’altra, in attesa della macchina-Golia che li sostituirà.
XII. La letteratura degli Italiani a scuola
STEFANO ROSSETTI L’immagine dell’insegnante. Fra libri e televisione
La mia riflessione parte da una semplice constatazione: rispetto al patrimonio di valori e di identità attorno al quale ci appassioniamo in questi giorni, noi insegnanti di letteratura siamo, per tutti gli studenti che non seguono corsi di laurea specifici, mediatori culturali di particolare importanza. È quindi importante interrogarsi, oltre che sui temi, contenuti e metodi della trasmissione di saperi che ci vede protagonisti, anche sulla nostra figura di mediatori e sui fattori che rendono più facile o più difficile il nostro lavoro. Nel corso degli anni, ho maturato la convinzione che risulti determinante, ai fini dell’efficacia culturale del nostro lavoro, confrontarsi con le altre istanze formative che agiscono sugli studenti, ed assumono un peso ed una funzione sempre più rilevante. Sono d’accordo con Howard Gardner quando afferma che la scelta di fare delle scuole luoghi caratterizzati da una sostanziale diversità ed indipendenza rispetto alle altre istituzioni sociali «si rivela particolarmente dubbia nella società contemporanea, in quanto nei media, nel mondo dei commerci e sulle strade sono costantemente in azione potenti fattori educativi (e diseducativi). La decisione di ignorare queste forze è comprensibile; ma non va dimenticato che si tratta di forze che, proprio perché così potenti e così onnipresenti, possono distruggere le lezioni e i contenuti della scuola».1 Penso dunque, con Gardner e con i teorici della media education, che l’importanza, che per molti è invadenza, dei media ponga un problema di alfabetizzazione,2
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H. Gardner, Educare al comprendere, Milano, Feltrinelli 2001, p. 148. Per una definizione delle basi teoriche e delle pratiche media-educative, il testo principale di riferimento è D. Buckingam, Media education, Trento, Erickson 2007. 2
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Stefano Rossetti
che non può essere eluso dall’istituzione scolastica. Infatti, l’analfabetismo mediatico si basa sull’idea che la tecnologia sia un bene in sé, non che lo diventi in relazione alle scelte consapevoli di chi la usa. La mia riflessione sarà centrata da una parte su alcuni libri significativi, che studiano potenzialità e rischi di un incontro di questo genere; dall’altra, quasi ad esemplificarne il valore e la portata, sull’analisi di alcune rappresentazioni televisive della figura dell’insegnante e dell’attività di insegnamento, attraverso le quali si rendono visibili marcati stereotipi e tendenze sociali che segnano l’attualità. Proverò a dare profondità storica al discorso prendendo le mosse dagli albori di questo dibattito, che coincidono con gli esordi della televisione italiana. I primi quindici anni di storia della TV italiana sono accompagnati da una profonda elaborazione teorica, al cui interno spiccano testimonianze importanti di intellettuali la cui funzione pubblica e civile è fondamentale, nel percorso di formazione dell’identità culturale del nostro paese. Faccio tre esempi di idee/ intuizioni critiche molto significative, nel contesto sociale ed economico italiano, caratterizzato dall’assenza del nesso televisione-pubblicità-mercato, che è invece l’asse portante della realtà americana sin dalle origini della comunicazione televisiva. 1. don Milani, già in uno scritto del 1957,3 poneva il problema etico della libertà di coscienza, nel mondo moderno, basato (come quello antico) sull’esclusione dei poveri attraverso meccanismi di distrazione e godimento edonistico. Il classismo che caratterizzava a suo avviso la società italiana aveva con la televisione un nuovo potente strumento a disposizione; si trattava dello stesso meccanismo di esclusione che sarebbe stato indagato in Lettera a una professoressa nei suoi risvolti didattici e pedagogici. 2. Gianni Rodari intuiva molto precocemente il problema del rapporto fra cultura «colta» e «popolare», e lo analizzava con la leggerezza e la profondità consuete nei suoi Nove modi per insegnare ai ragazzi a odiare la lettura:4 il primo modo, infatti, era «presentare il libro come un’alternativa alla TV». In queste pagine denunciava il pericolo di creare contrapposizioni frontali fra la lettura, espressione di modelli scolastici formalizzati e controllabili, e la televisione, o il fumetto, caratterizzati invece dall’esplicito legame all’idea di libertà e divertimento 3. Pasolini indagava il processo di omologazione culturale in atto negli anni Sessanta/ Settanta, di cui la televisione era protagonista importante. Va detto, però, che il problema era posto da Pasolini in termini complessi ed articolati, fortemente ideologici, al punto da considerare essenziale, in questo processo, il ruolo
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L. Milani, La ricreazione, in Esperienze pastorali; il saggio è ripreso e valorizzato, nei suoi aspetti più attuali, da G. Fofi, in Zone Grigie, Milano, Donzelli 2011. 4 Il testo risale al 1966, e si può leggere in appendice a G. Rodari, Libri d’oggi per ragazzi d’oggi, Roma, Il Melangolo 2000. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
L’immagine dell’insegnante
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negativo della scuola media recentemente riformata.5 La sua era, per riprendere le sue stesse parole, una proposta swiftiana, in attesa che il termine «sviluppo» fosse finalmente riempito di un nuovo significato, e venisse a coincidere con «progresso». Tuttavia, per quanto possa oggi apparire paradossale, la televisione di quegli anni era in larga misura a servizio della scuola, e di un’idea complessiva di formazione civile legata a modelli linguistici e letterari canonici. Penso prima di tutto al patrimonio ben noto degli sceneggiati, le narrazioni di allora, che già presentavano alcuni elementi della serialità odierna, e che si presentavano in molti casi come la riscrittura per un nuovo mezzo espressivo di storie classiche, con un taglio divulgativo che non sopprimeva mai le esigenze artistiche ed interpretative degli «autori», né la forza dell’originale.6 Il caso di Diario di un maestro, realizzato nel 1972 da De Seta, è molto istruttivo: lo sceneggiato poneva infatti con forza il problema della funzione sociale dell’istituzione scolastica, indagando con semplicità e rigore sul tema dell’utilità di essa, e sul rapporto fra l’istruzione e la vita reale. Rispetto a questa realtà, gli anni Ottanta segnano un drastico cambiamento. Anche in questo caso, mi limito a segnalare alcuni aspetti macroscopici, la cui continuità sul lungo periodo si riscontra facilmente nella comunicazione contemporanea. 1. l’affermazione delle televisioni commerciali, proposta come evento culturale capace di liberare energie creative, al di fuori del monopolio statale: questa potenzialità si traduce in un progressivo asservimento della comunicazione televisiva alle logiche del profitto e della moda (più recentemente, anche a quelle politiche). 2. la fine di quella che Fofi7 definisce «epoca d’oro della cultura di massa», in cui «essa si appropriava della tradizione e dei modi della cultura popolare per riproporli a un popolo ancora culturalmente attivo» e quindi in grado, secondo il suo giudizio, «di ribattere, di rispondere». Mi sembra molto significativo che Fofi citi poi l’opinione di Godard, che riteneva la pubblicità il fascismo del nostro tempo: si tratta infatti di una precisazione del pensiero pasoliniano, quando evocava il «fascismo televisivo». 3. infine, grazie al libro-culto di Domenico Starnone Ex Cattedra (ed al film che ne trae Lucchetti, La Scuola), l’affermazione, nei racconti sulla scuola, di un registro comico/ basso, che sembra costituire ancora oggi l’unico registro possibile delle
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Quest’idea è esplicitata soprattutto in Le mie proposte su scuola e televisione, in Lettere Luterane. Nell’edizione Einaudi del 2003, il testo si può leggere a partire da p. 172. 6 Buona parte di questo patrimonio è disponibile in video, nella collana I migliori anni della nostra RAI. 7 G. Fofi, Zone grigie cit., pp. 105 e 88. Identità nazionale ed educazione letteraria: gli Italiani nella scuola
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Stefano Rossetti
narrazioni televisive e cinematografiche su questo tema. La tensione drammatica, addirittura tragica, e dunque il valore civile di provocazione intellettuale, che anima opere come il tedesco L’Onda o il francese La Classe8 risulta inconcepibile nell’universo italiano. La forza di queste tendenze provoca una grave conseguenza nel dibattito culturale contemporaneo, e ne riduce la profondità e l’utilità sociale. Il confronto si polarizza infatti su categorie estremamente generiche come «cattiva» e «buona maestra», con le quali anche i migliori interventi sul tema si misurano, a partire dalla pubblicazione del libro del critico televisivo Aldo Grasso Buona maestra, uscito nel 2007, il cui sottotitolo, furbo e provocatorio, è Perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri. Attribuendo a Popper un giudizio assolutamente negativo sulla televisione, si dimentica però che il suo fondamentale scritto Una patente per fare TV,9 poneva in realtà un problema di alfabetizzazione di spettatori e produttori, per evitare che le logiche di mercato prevalessero sulle potenzialità educative del mezzo, che non intendeva mettere in discussione. Fra gli intellettuali che si occupano di insegnamento e di scuola, l’unico a non cadere nel gioco del buono e cattivo è Giulio Ferroni, che affronta direttamente il tema nella sua complessità, soprattutto in Dopo la fine.10 Le conseguenze, gravi sul piano del confronto intellettuale, sono semplicemente catastrofiche nelle narrazioni televisive. La Tv propone con frequenza storie di scuola, al punto che esse costituiscono ormai un genere abbastanza definito e di grande popolarità: dai Ragazzi della 3 C ai più recenti Provaci ancora Prof e Fuoriclasse che, grazie al traino offerto dalla protagonista Luciana Littizzetto, ha battuto ogni record di ascolto. Per chi conosce da dentro la scuola, e si confronta quotidianamente con gli effetti della rappresentazione sociale cui danno il loro contributo anche spettacoli popolari di questo tipo, tre idee guida di questi sceneggiati risultano evidenti: 1. insegnare è un non lavoro: la costruzione del personaggio, nelle grandi serie americane cui vagamente si ispirano i nostri sceneggiatori, passa prima di tutto attraverso il suo mestiere, e poi attraverso la sua umanità. Il Dr House è interessante come medico (ovviamente con tutti i rischi della stereotipizzazione), e il fatto che sia sociopatico e drogato aggiunge interesse alla sua professione, che resta comunque il centro della narrazione. Al contrario, l’insegnante televisivo è
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Film usciti nelle sale rispettivamente nel 2008 e 2009. Il testo, contenuto nel libro curato da Bosetti Cattiva maestra televisione, uscì come allegato della rivista Reset nel 1994. 10 Mi riferisco in particolare al cap. IV, Per un’ecologia letteraria. 9
XII. La letteratura degli Italiani a scuola
L’immagine dell’insegnante
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sostanzialmente un caso umano, o uno che diventa interessante quando invece di insegnare fa altro: si improvvisa, ad esempio, psicologo o detective. La nostra professione non è mai al centro della storia, né viene seriamente messa in scena. L’obiezione per cui mostrare uno o due minuti di una lezione di trigonometria o di letteratura sarebbe noioso è infondata: se così fosse, quale spettatore assisterebbe ad un incontro di House con il suo team, nel quale si parla, magari per due minuti, di vari tipi di cancro? 2. la scuola è un non luogo: alle scuole televisive è sottratta ogni complessità sociale e politica. Il famoso Fuoriclasse, girato nel pieno delle polemiche suscitate dalle parole e dalle azioni della Gelmini non ne reca alcuna traccia: il Liceo in cui insegna la prof. Littizzetto non è a Torino, ma in un mondo televisivo politicamente corretto, dove si considera obiettivo chi non esprime un’opinione. Inoltre, questa sottrazione di realtà dovrebbe, secondo gli autori stessi, tradursi in un’operazione simpatia, in un avvicinamento della scuola al grande pubblico: ma qual è l’utilità di avvicinare il pubblico ad un mondo rinunciando a parlare delle sue contraddizioni reali? 3. nella scuola, il conflitto non esiste: la messa in scena della relazione umana ed educativa paga un prezzo esorbitante alla costruzione di questo mondo «simpatico», perché riduce anche la figura dello studente ad un grezzo stereotipo, quello del babbione. In fondo, gli studenti non desiderano altro che lanciarsi palline di carta, e il compito dell’insegnante è impedire che lo facciano in sua presenza. Da questa rappresentazione sono esclusi tutti gli elementi di autenticità, primo fra tutti la presenza di studenti che hanno voglia di imparare e chiedono alla scuola di accrescere la loro cultura. A questo processo di falsificazione delle relazioni autentiche che spesso si costruiscono a scuola (e che sono talvolta fortemente conflittuali) contribuiscono anche molti libri di successo, che consolidano e rendono popolari stereotipi alla moda, utili a vendere un’immagine, non certo a comprendere il mondo della scuola: mi riferisco in particolare alla saga di Paola Mastrocola, in tutte le sue declinazioni estetiche. Anche alla luce di queste considerazioni, mi pare che l’esigenza di alfabetizzazione mediatica, sottolineata all’inizio di questo intervento, e la successiva domanda su quale debba essere il ruolo della scuola in questo processo, abbiano un profondo significato. Bisogna capire se la sostituzione della dura realtà con un suo doppio banale sia connaturata al mezzo televisivo, nel qual caso la media education rischia di essere una perdita di tempo; oppure se sia determinata da un messaggio che sceglie di nascondere e svelare perché si prefigge uno scopo, che può essere screditare una categoria o vendere una storia di successo: in questo caso educare ai media è una priorità educativa.
Identità nazionale ed educazione letteraria: gli Italiani nella scuola
IDENTITÀ NAZIONALE E PLURALISMO CULTURALE: LETTERATURA PER UNA SCUOLA NON DI SOLI ITALIANI
SIMONETTA TEUCCI Dall’Italia ideale all’Italia reale
«L’Italia altro non è che un’espressione geografica» scriveva Metternich in una nota al conte Dietrichstein nel 1847, aggiungendo che questa espressione riguardava soltanto la lingua ma era priva di valore politico. Lontana dall’avere un assetto politico uniforme, all’inizio dell’Ottocento l’Italia non era che un’entità astratta, un territorio che non costituiva uno Stato unitario né tanto meno una patria unica. Se i confini fra gli Stati sono scanditi da elementi geografici, niente di più facile per il nostro paese. Gli antichi Romani, espandendosi dal Lazio, conquistarono il territorio a nord e a sud di Roma nell’arco di qualche centinaio di anni, estendendo la cittadinanza romana ai soci italici e alle zone della Magna Grecia; ma con la crisi dell’impero prima e con la sua caduta poi, quell’entità geografica, che era Italia solo di nome, fu frazionata fra vari popoli e vari poteri. Il «bel paese là dove ’l sì suona»1 ha visto dall’XI secolo in poi quel grande e fecondo fenomeno che fu la (ri)nascita delle città e del tessuto sociale cittadino, ma il territorio frazionato era e frazionante rimase fino al XIX secolo inoltrato. Eppure esisteva un’Italia ideale, con connotazioni e con una credibilità che superava i limiti fisici e politici: era l’Italia delle lettere, delle arti, degli ingegni. E, come affermava Metternich, della lingua. Francesco De Sanctis concepì la sua Storia della letteratura italiana2 in pieno fer-
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Dante, Inferno, XXXIII 80. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana. L’idea di dare una struttura organica alle sue lezioni venne a De Sanctis nel 1863, dopo il magistero a Napoli e l’esperienza come direttore del Ministero dell’Istruzione nel 1861-62 subito dopo l’unità del Paese. Pubblicata per la prima volta nel 1870 presso l’editore Morano di Napoli, l’opera era il compendio culturale che per molti aspetti costituiva il fondamento dell’assetto politico che si era andato realizzan2
Identità nazionale e pluralismo culturale: letteratura per una scuola non di soli Italiani
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vore di avvenuta unità d’Italia e, ripercorrendo le fasi letterarie, le opere e il pensiero dei vari scrittori, dette vita ad una nuova idea di letteratura. Non più unificata solo dall’uso comune di una lingua, trasformata nei secoli nonostante dominî stranieri sul territorio, ma una letteratura che sembra tendere fin dalle origini a quell’unità politica solo di recente raggiunta, a costo di enormi difficoltà di ordine pragmatico, ideologico e politico. L’esistenza della sede pontificia al centro della penisola e nella Roma caput mundi di antica ascendenza ha poi ostacolato e condizionato il sorgere di una realtà politica nazionale.3 L’idea di nazione4 non era così scontata. Nata nel XVIII secolo sulla base di una cultura latamente romantica, la sua diffusione in Europa non è né uniforme né immediata. Di sicuro la Francia, che fin da Carlo Magno ha visto un’unificazione territoriale ampia sotto un unico potere, ha percorso una strada più facile in questa direzione. Se poi consideriamo che Napoleone coglie l’eredità nazionale dei sovrani che lo precedono, andando ad abitare i palazzi che, come le Tuilleries, erano stati la sede simbolica del potere monarchico, vediamo l’enorme differenza con la situazione del nostro paese. È pur vero che l’elemento unificatore per l’Italia, o meglio per le sue Lettere, era stata la lingua, ma non va dimenticato che l’italiano letterario era stato proprio di un’élite che comunicava fra sé ma non con un pubblico di lettori territorialmente e socialmente esteso.5 Sacche di analfabetismo, uso esclusivo dei dialetti, scarsi
do nella prima metà del XIX secolo. Dove non supportava la realtà storica, la tradizione culturale permetteva di seguire un cammino di idee, comuni a tutto il territorio, proprio grazie a quella lingua, che sembrava bistrattata da Bismarck. 3 Già Machiavelli affermava: «E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch’ella o una republica o uno principe che la governi, è solamente la Chiesa: perché, avendovi quella abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sì potente né di tanta virtù che l’abbia potuto occupare la tirannide d’Italia e farsene principe; e non è stata, dall’altra parte, sì debole, che, per paura di non perdere il dominio delle sue cose temporali, la non abbia potuto convocare uno potente che la difenda contro a quello che in Italia fusse diventato troppo potente». Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I 12. 4 Cfr. F. Chabod, L’idea di nazione, Bari, Laterza 1961. 5 A più riprese è stata dibattuta la «questione della lingua» fra gli intellettuali italiani e, come afferma Gramsci «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa nazional-popolare, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale», A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori Riuniti 1971, p. 252. Se Dante, Petrarca e Boccaccio prendono posizione componendo opere in latino o in volgare, è dal Quattrocento che la questione si formalizza dal punto di vista teorico. Nel corso del XV secolo il latino rimase la lingua dell’insegnamento universitario mentre il volgare ampliò progressivamente il suo impiego sia in ambito letterario che pratico, come accadde in tutte le cancellerie del paese; ed il volgaXII. La letteratura degli Italiani a scuola
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contatti fra le varie zone del paese, tanto diverse da nord a sud: niente aveva favorito un’organizzazione politica unitaria, tanto meno i piccoli poteri locali che avevano teso alla sopravvivenza per almeno tre secoli dopo la grande fioritura del Rinascimento. È difficile pensare che l’Italia che ricorre nei versi di Dante «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / […] non donna di provincie ma bordello!»6 fosse un paese immaginato come reale, ancor meno come autonomo Stato identitario, se è vero che, alla fine del suo percorso ideologico ed in linea con la concezione del tempo, Dante pensava all’Impero come potere politico unificante e universale, l’unico capace di tenere sotto controllo le fazioni cittadine che potevano essere, e lo erano, pericolose per il mantenimento dell’armonia nelle città e anche dei buoni commerci.7
re fu molto diverso da zona a zona per le influenze e le ibridazioni regionali oltre che delle lingue parlate e delle tradizioni locali. Nella lingua dotta dominò il «principio di imitazione», base della cultura umanistica e neoplatonica; in pieno Rinascimento la teoria vincente fu quella di Bembo che con le Prose della volgar lingua del 1525 decretò la supremazia dei due modelli, che tanto peso ebbero nella produzione successiva, Petrarca e Boccaccio. A ben guardare, la scelta di Bembo non risulta del tutto cogente a livello pratico, (almeno negli scrittori non di pura accademia) perché, se analizziamo le opere cinquecentesche posteriori alle Prose della volgar lingua, risulta evidente che gli scrittori più significativi non solo possiedono uno stile proprio che si discosta da quello dei modelli, ma, anche quando lo seguono, operano scelte linguistiche, lessicali e sintattiche che se ne discostano. E non solo perché, come affermerà Wilhelm von Humboldt (1767-1835), la lingua è un organismo vivente e in continua trasformazione, ma anche perché la lingua è una rappresentazione del mondo, legata alle esperienze di chi parla e di chi scrive. Bandello affermò nella Prefazione alle sue Novelle: «Io non voglio dire come disse il gentile ed eloquentissimo Boccaccio, che queste mie novelle siano scritte in fiorentin volgare, perché direi manifesta bugia, non essendo io né fiorentino né toscano, ma lombardo. E se bene io non ho stile, ché il confesso, mi sono assicurato a scriver esse novelle, dandomi a credere che l’istoria e cotesta sorte di novelle possa dilettare in qualunque lingua elle sia scritta»; e nella lettera dedicatoria della novella I della prima parte della raccolta ribadì «Se poi, come di leggiero forse avverrà, cose assai vi saranno rozze, mal esplicate, né con ordine conveniente poste, o con parlar barbaro espresse, a la debolezza del mio basso ingegno l’ascriva e al mio poco sapere, e pigli in grado il mio buon volere, pensando ch’io son lombardo e in Lombardia a le confini de la Liguria nato, e per lo più degli anni miei sin ad ora nodrito, e che, come io parlo così ho scritto…», M.M. Bandello, Tutte le opere, a cura di F. Flora, collana «Classici», Milano, Mondadori 1934-35¹, pp. 4 e 8 [il corsivo è mio]. 6 Dante, Purgatorio, VI, 76 sgg. 7 «Come suggerisce Francesco Bruni, Dante fu tra i primi a intuire che ciò [lo spirito di fazione] costituiva un fattore di estrema pericolosità, capace di minare le fondamenta stesse della coesione e dell’armonia sociale. Nel libro IV del Convivio, il poeta non esita a indicare nella cupidigia l’origine dello spirito di parte, tanto che la ben nota proposta dell’impero universale viene giustificata come rimedio estremo all’avanzata di tale vizio», S. Zamagni, Avarizia, Bologna, Il Mulino 2009, p. 57. Identità nazionale e pluralismo culturale: letteratura per una scuola non di soli Italiani
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L’Impero rispondeva ai due criteri dell’unicità8 e dell’organicismo9 e non poteva contemplare che questa forma ideale fosse minata da territori che rivendicavano l’autonomia e che potevano costituirsi in una struttura statale a sé stante. Eppure dai versi danteschi del canto VI del Purgatorio10 promana l’idea di un’Italia frazionata in zone in lotta fra di loro, che contrasta con quell’«umile Italia […] per cui morì la vergine Camilla, / Eurialo e Turno e Niso di ferute».11 Un’immagine che agli occhi di un lettore ottocentesco evocava il sacrificio di chi combatteva e moriva per l’ideale di un’Italia unita. Come Dante, altri scrittori sono stati letti nell’Ottocento in chiave unitaria nonostante che le loro opere fossero legate ad una realtà storica affatto diversa da quella ottocentesca. Petrarca scrisse la canzone All’Italia quando fra il 1344 e il ’45 si combatteva una guerra a Parma.12 Ma, consapevole della debolezza ormai evidente dell’Impero, nonostante invochi l’imperatore Carlo IV, tocca con mano la degenerazione morale del paese ed il suo concetto dell’Italia come nazione è del tutto letterario. Sono invece una realtà le unità regionali governate dalle signorie e la prospettiva di nazione unita, nel senso che intendiamo noi, non è nemmeno all’orizzonte. Anche la contrapposizione con «la tedesca rabbia» richiama non
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Il “principio dell’unicità” è fondamentale nelle teorie politiche medievali sia di matrice teologica che di natura laica. Tommaso d’Aquino (1225-1274) e Tolomeo da Lucca (1236 c.1327) sostengono la necessità di un potere politico unico, incarnato dal pontefice sia per il piano spirituale sia su quello prettamente politico: «[…] è cosa manifesta che meglio può produrre unità ciò che di per sé già è uno, che non ciò che è plurale. […] Quindi è più utile il governo di un solo, che di più», Tommaso, De regimine principum, trad. it. di G. Mathis, Torino, Paravia 1928, I, III, p. 9; mentre Marsilio da Padova (1280 c.-1343 c.) nel Defensor pacis teorizza l’unicità dello Stato, che deve essere guidato dal potere laico dell’imperatore. 9 Come nell’apologo di Menenio Agrippa ogni organo fisico concorre alla vita dell’intero organismo, così per Tommaso d’Aquino e per il pensiero medievale «nell’uomo, che possiede l’intelletto, e il senso, e la virtù corporale, questi sono reciprocamente ordinati secondo la disposizione della divina provvidenza, a somiglianza dell’ordine che si ritrova nell’universo; infatti la virtù del corpo è sottoposta a quella del senso e a quella dell’intelletto, come strumento dei loro comandi; e a sua volta la facoltà del senso è sottoposta a quella dell’intelletto, e governata da questa. Per la medesima ragione, un ordine si ritrova anche fra gli stessi uomini: quelli infatti che primeggiano per l’intelletto è naturale che governino», Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, III 81, in Scritti politici, a cura di A. Passerin d’Entrèves, Bologna, Zanichelli 1946, p. 141. 10 U. Carpi, Il canto VI del ‘Purgatorio’, in «Per leggere», (2006), 10, pp. 5-30. 11 Dante, Inferno, I 107-108. 12 Azzo da Correggio aveva venduto Parma ad Obizzo d’Este, signore di Ferrara, contrariamente a quanto stabilito dai patti contratti con Luchino Visconti, signore di Milano. Azzo, alleato con i signori di Verona, Bologna e Forlì, fu assalito da Filippino Gonzaga, signore di Mantova, appoggiato dal Visconti. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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tanto le truppe mercenarie, che saranno una spina nel fianco della politica soprattutto italiana del XV e XVI secolo, (e tanto ne scrisse Machiavelli!), quanto Mario e Cesare e la visione, dantesca e tutta letteraria, dell’Italia giardino dell’impero e «del mondo la più bella parte».13 I suoi interlocutori non sono gli italiani di là da venire, non è un popolo che aspira alla libertà, ma sono i Signori d’Italia, che governano porzioni più o meno vaste di un territorio dove dilaga la corruzione. La poesia assolve alla funzione di mediatrice fra un passato idealizzato, quando l’Italia era davvero «donna di province»,14 ed un presente nel quale è alla mercé di soldati stranieri. La canzone si conclude con il tricolon «Pace, pace, pace» e non certo con un’aspirazione ad un’unità, per quanto utopica. Quattro versi di questa canzone chiudono Il principe, «vertú contra furore / prenderà l’arme, e fia ’l combatter corto: / che l’antiquo valore / ne l’italici cor non è ancor morto»,15 a ribadire l’idea di un’Italia libera dagli stranieri e da truppe che si vendono e non combattono per la loro patria. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad uno scrittore che i secoli seguenti hanno indicato come un anticipatore dell’idea di unità del Paese. Quel Machiavelli che con il suo libretto vuole insegnare al principe, e solo per caso e per contingenza storica si tratta di Lorenzo di Piero de’ Medici, come conquistare e mantenere un principato: un principato non uno Stato nazionale. Illuminanti le parole di Gramsci che sottolinea come «nell’Italia studiata dal Machiavelli non esistevano istituzioni rappresentative già sviluppate e significative per la vita nazionale come quelle degli Stati Generali in Francia»16 e che mancava quella classe media borghese che invece nel XIX secolo sarà la molla propulsiva per la creazione di uno Stato unitario. Per ora la nazione ha unicamente il significato di luogo di nascita, non certo quello politico, che iniziò ad essere usato soltanto durante la Rivoluzione francese e diffuso in Europa dalle guerre napoleoniche. Per Chabod l’idea di nazione nasce quando, contro la tendenza illuministica di pensare per universali, si diffonde l’interesse per i singoli popoli, portatori di tradizioni particolari. Solo quando fu formulato il pensiero che l’Italia deve essere «una e indipendente, deve costituire uno «Stato», in quanto […] è un’individualità storica […] e perciò ha diritto di poter liberamente esprimere «anche» sul terreno politico, oltre che su quello letterario, artistico, musicale, ecc., questa sua anima, questo suo spirito, proprio di lei e di nessun altro popolo»,17 si ebbe il passaggio dall’Italia ideale all’Italia reale.
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F. Petrarca, All’Italia, RVF CXXVIII, vv. 35 e 56. Dante, Purgatorio, VI v. 78. 15 F. Petrarca, All’Italia cit., vv. 93-96. 16 A. Gramsci, Note su Machiavelli, Roma, Editori Riuniti 1974, p. 32. 17 F. Chabod, Un’idea di nazione cit., pp. 4 e 8. 14
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Solo un’Italia ideale traspare dall’opera di questi scrittori, che rappresentano le fondamenta di quella che sarà poi l’Italia reale. Ma quante realtà diverse, quante situazioni particolari, frutto di processi storici non certo uniformi nel tempo e nello spazio!18 Nel 1824, dopo i primi moti rivoluzionari e in parallelo con l’inizio della stesura delle Operette morali, Leopardi scrive il Discorso sopra lo stato presente degli italiani, immettendo una dimensione storica nell’insieme della sua riflessione disincantata e critica verso i contemporanei e sull’incapacità italiana di aprirsi alla modernità. Anche lui non si pone il problema politico della nazione, che intende come società, pur sempre distinta territorialmente, ma affronta uno degli aspetti fondanti delle comunità civili: l’opinione pubblica che, presente in Francia e in Inghilterra, è assente in un’Italia, dove dal nord al sud «il passeggio, gli spettacoli e le Chiese sono le principali occasioni di società che hanno gli italiani». Drastico il giudizio che segue: «Gli italiani hanno poche usanze e abitudini che si possono chiamare nazionali, ma sono provinciali e municipali»,19 inevitabile conseguenza di processi storici disomogenei nei territori della penisola. Eppure anche lui, come Petrarca, ha composto nel 1818 una canzone All’Italia che si apre con l’invocazione «O patria mia», che ricalca l’incipit petrarchesco «Italia mia, benché ’l parlar sia indarno», accorato, emotivamente coinvolgente, privo però di pregnanza e realtà storica e politica. Un’Italia di maniera, con echi danteschi e petrarcheschi, come nell’incipit della canzone Per la liberazione dell’Italia, che invoca «Bella Italia, amate sponde» di Monti,20 al quale Leopardi dedica la sua
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Vincenzo Cuoco (1770-1823), scampato alla repressione della rivoluzione napoletana, pubblicò a Milano nel 1801 il Saggio sulla rivoluzione partenopea del 1799, mettendo in luce gli aspetti teorici ed astratti dei giacobini napoletani, che non avevano tenuto conto della reale situazione della popolazione napoletana, disattendendo importanti osservazioni di Vincenzio Russo, morto durante la rivoluzione. Il Russo aveva sottolineato che gli uomini si muovono per bisogno e che «un popolo […] non può risorgere alla libertà se non per via di un’istruzione opportuna e ben guidata e di quelle altre istituzioni le quali debbono accompagnare l’istruzione perché si abbia da questa una soda e sufficiente utilità», V. Russo, Pensieri politici, in Giacobini italiani, a cura di D. Cantimori, I, Bari, Laterza 1956, p. 292. Cuoco definì emblematicamente la rivoluzione partenopea «rivoluzione passiva», in quanto non solo era stata «importata» dalla Francia, dove era nata da esigenze concrete ben diverse dalla situazione partenopea, ma anche perché si era basata su teorie condivise da un ristretto gruppo di intellettuali ma non diffuse e «insegnate» al popolo. 19 G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente degli italiani, a cura di N. Bellucci, Roma, Delotti editore 1988, pp. 19 e 45. 20 Monti ripropone l’immagine di un’Italia «giardino dell’impero» di memoria dantesca, chiudendo la terza e l’ottava strofa con «il giardino di natura, / no, pei barbari non è», ed anche lui rimanda ad un passato lontano creando un parallelo fra Napoleone ed Annibale. Nel seguente 1821, Manzoni scrisse l’ode Marzo 1821, per ricordare la battaglia degli Italiani XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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canzone, mentre il vero eroismo per la salvezza della patria promana dal mondo greco che con la resistenza contro i Persiani alle Termopili sancì l’ideale di eroismo patrio. Ma di lì a pochi anni, nel 1827, quando Leopardi dava alle stampe le Operette morali, destinate ad un elitario pubblico colto, si manifesta uno dei primi esempi di Italia reale con il romanzo manzoniano. Con l’uso della prosa e di una lingua che poteva raggiungere più dei venticinque lettori evocati dall’autore e con il mettere in scena la vita di uomini qualunque, dimenticati dalla grande Historia, si attua la rivoluzione ed il passaggio ad una letteratura e ad una mentalità in sintonia con gli uomini che abitano l’Italia e che iniziano a sentirsi appartenenti ad un’unica nazione. La condizione di Renzo e di Lucia non ha niente di apparentemente politico, né di rivoluzionario, considerato che l’ambientazione è quella di due secoli prima, in un Seicento che vede l’Italia smembrata, disunita e priva di contatti fra le sue varie parti. Nonostante che ogni regione abbia una vita a sé ed una propria organizzazione politica, eppure ogni regione presenta la stessa condizione di emarginazione, di sudditanza, di sofferenza, e forse sogna un glorioso passato lontano. Ecco la realtà dell’Italia in quel momento storico: «dai solchi bagnati di servo sudor, / un volgo disperso repente si desta; / intende l’orecchio, solleva la testa»;21 è un popolo, anzi «un volgo disperso, che nome non ha» (v. 66) che, è questo l’auspicio, comincia a ridestarsi e comincia dalla Lombardia, favorita dalla diffusione delle idee illuministiche e romantiche, dove esiste una borghesia che intende creare quell’opinione pubblica che Leopardi affermava inesistente in Italia. Da qui prende le mosse una nuova prospettiva e del pensiero e della volontà ed anche della letteratura. Se Jacopo aveva sognato di poter tornare nella sua amata Venezia, Carlino allarga il suo orizzonte all’Italia,22 che conosce nelle varie zone così diverse geograficamente e socialmente fra loro. Il suo autore fa l’esperienza dello sbarco in Sicilia, dove si confronta con l’«altra Italia», scoperta dai garibaldini: è una geografia fisica e umana «reale» quella che descrivono Abba, Adamoli, Alberto Mario e tanti altri, che lasciano testimonianza di una scoperta davvero inattesa.23 È l’Italia
contro gli Austriaci sul Ticino «Certi in cor dell’antica virtù, / Han giurato: non fia che quest’onda / Scorra più tra due rive straniere; / Non fia loco ove sorgan barriere / Tra l’Italia e l’Italia, mai più!» (vv. 4-8); e continua: «Una gente che libera tutta / O fia serva tra l’Alpe ed il mare; / Una d’arme, di lingua, d’altare, / Di memorie, di sangue e di cor» (vv. 29-32), con la prospettiva di un Paese unito e libero dal dominio straniero. 21 A. Manzoni, Adelchi, coro dell’Atto III, vv. 3-5. 22 Mi permetto di rimandare al mio Mimesi letteraria fra verità e immaginazione. I protagonisti dei romanzi dell’Ottocento, http://www.griseldaonline.it/formazione/9teucci.htm. 23 Rimando al ricco saggio di Anna Guarducci, «L’altra Italia». I garibaldini e la percezione geografica delle “Sicilie” (1860) in Aspettando il Risorgimento. Atti del convegno di Siena 20-21 novembre 2009, a cura di S. Teucci, Firenze, Cesati 2010, pp. 235-268. Identità nazionale e pluralismo culturale: letteratura per una scuola non di soli Italiani
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reale che compare per la prima volta in letteratura, anche se minore come la memorialistica ma che tanto dice delle condizioni effettive del nostro paese. Bisogna aspettare la fine dell’800 per vedere l’Italia reale protagonista della letteratura e ciò che spesso viene narrato è la condizione delle plebi meridionali che sulla scia del realismo diventano protagoniste di romanzi e racconti, ma anche quella della vita piccolo-borghese che si svolge in altre regioni. Plebi meridionali non sono solamente quelle siciliane descritte da Verga e nemmeno quelle protagoniste di molte novelle pirandelliane, che pure sono una testimonianza reale, nonostante la finzione letteraria; le plebi meridionali sono anche quelle che Ignazio Silone fa agire in Fontamara, scritto nel 1930 in esilio in Svizzera e pubblicato a Zurigo tradotto in tedesco perché allora in Italia c’era spazio solo per opere di propaganda del regime. La vicenda dei cafoni della zona del Fucino è ambientata in un paese immaginario, Fontamara, che «somiglia […] per molti lati, a ogni villaggio meridionale il quale sia un po’ fuori mano, tra il piano e la montagna, fuori delle vie di traffico, quindi un po’ arretrato e misero e abbandonato dagli altri»;24 rappresenta cioè la realtà di un territorio non ancora toccato dalla modernità, legato ad una vita modesta e ad un’economia agraria, molto distante da quella che si svolgeva nelle grandi città, davvero poche all’epoca. Cambiavano i nomi, cambiava il dialetto, ma la condizione umana era la stessa in tutte le parti dell’Italia. Anche oggi, se leggiamo Accabadora di Michela Murgia, ci troviamo a confronto fin dalle prime pagine con una realtà regionale e con tradizioni come quella delle famiglie povere con diversi figli di venderne uno a chi di figli non ne ha. «Rimasta vedova con quattro figlie femmine, Anna Teresa Listru da povera si era fatta misera, imparando a fare il bollito – diceva – anche con l’ombra del campanile. Adesso che zia Bonaria aveva chiesto Maria in figlia, non le sembrava vero di poter infilare tutti i giorni nella minestra anche due patate dei terreni degli Urrai. Se il prezzo era la creatura, poco male: lei di creature ne aveva ancora altre tre».25 I poveri sono poveri su tutto il territorio nazionale e cercano di sopravvivere come possono e con quanto la sorte mette sul loro cammino. Se questa consiste nel privarsi di un figlio, ciò significa una bocca in meno da sfamare. Non fa differenza il luogo. Tutte le zone d’Italia sperimentano le stesse difficoltà, che dalla costituzione dell’unità del paese a quasi tutto il Novecento sono quelle di una società agraria progressivamente in crisi per l’avanzare di una società industriale con un inurbamento che non fa altro che trasportare fatiche e difficoltà dalla campagna in città, in più con una dura realtà di emarginazione e di miseria. Miseria che diventa anche più cruda nel tessuto urbano, dove non c’è nemmeno l’ombra della solidarietà che poteva esserci in campagna e dove l’individualismo e la verghiana «lotta per l’esistenza» lascia l’uomo solo.
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I. Silone, Fontamara, Milano, Oscar Mondadori 1978, Prefazione, pp. 19-20. M. Murgia, Accabadora, Torino, Einaudi 2009, pp. 5-6. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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Nessun territorio nazionale presenta condizioni uniformi ed omogenee al suo interno; ovunque c’è un sud e un nord, ovunque ci sono differenziazioni locali e regionali dovute al clima, alla conformazione del territorio e alle tradizioni. Ma ogni territorio nazionale è caratterizzato, o almeno dovrebbe, da un comune e solidale senso di appartenenza ad uno Stato e ad una nazione. L’Italia non fa eccezione e forse dopo l’unificazione inizia a prendere progressivamente coscienza che le differenze regionali sono gli aspetti poliedrici e particolari di luoghi che fanno parte reale di un unico Paese. Parlare della vita annoiata e vuota dei protagonisti de Gli indifferenti di Moravia oppure delle Langhe di Pavese, che in Paesi tuoi o in La luna e i falò mette in scena la vita di chi esce di prigione e fatica a reinserirsi nella vita quotidiana del paese di origine come Talino, o quella di chi ritorna dall’America dopo anni di emigrazione e ritrova la vita del paese che aveva lasciato26 come Anguilla, o della vita del quartiere fiorentino di San Frediano dove vivono molti dei personaggi di Pratolini, significa parlare di un’Italia reale, a partire da Metello27 che squaderna, fin dalla sua semplicità iniziale, il cammino percorso dai lavoratori di inizio secolo28 che dalla campagna vanno in città sperando in un destino migliore. Il primo sviluppo del paese si ha nell’edilizia, ma non è indolore perché il capitale miete le sue vittime. I lavoratori si ribellano per istinto di sopravvivenza e perché le idee socialiste aprono gli occhi ad una classe di lavoratori ancora ignoranti e per lo più analfabeti. Insegnano loro a rivendicare i diritti e a difendere il lavoro. Ecco i primi scioperi nell’edilizia con i lavoratori contrapposti ai padroni e Metello è il prototipo verosimile che incarna un’intera classe di un’Italia reale di inizio Novecento. L’ambientazione fiorentina non significa di per sé perché il movimento si diffonde più o meno in tutto il paese ed è lo specchio di una realtà storica unitaria.29
26 Nell’incipit Pavese delinea l’uso delle famiglie di contadini di prendere un trovatello per avere un po’ di soldi e delle braccia in più per il lavoro nei campi. 27 V. Pratolini, Metello, Milano, Oscar Mondadori 1980 (1960¹). 28 «La mattina si alzava all’alba e andava a questo o a quel cantiere, sempre per farsi vedere, e perché lo tenessero presente e in nota, nel caso di bisogno. […] C’era stato un corteo, il 1° maggio del ’95, doveva parlare Turati, venuto apposta da Milano, ma erano sopraggiunti i soldati a sciogliere il comizio […]. E spesso, lasciati i muratori, andava alla camera del Lavoro: spazzava la stanza e spolverava il tavolo di del Buono, non c’era altro da fare», V. Pratolini, Metello cit., p. 104. 29 Ad un primo sviluppo seguì negli anni di fine secolo una crisi del settore. Metello vive facendo economia ma disoccupazione e licenziamenti sono all’ordine del giorno e nel ’98 lo scontro fra i lavoratori che dimostravano e le forze dell’ordine è inevitabile. Muratori in sciopero e cantieri serrati: questa la contrapposizione di forze alla fine del secolo. I lavoratori cercano di aiutarsi fra loro per superare la crisi in un clima di solidarietà e di mutuo soccorso. Soltanto dopo un lungo periodo di sciopero e di fame, la situazione si risolse. «I lavoratori del cantiere Badolati erano tutti attorno a Del Buono che risaliva sul calesse, mentre l’ingegnere
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A metà del Novecento con gli ultimi anni del regime fascista, la guerra e la Resistenza, l’Italia sembra sul punto di dividersi a causa della contrapposizione fra fascisti e antifascisti che si combattono in una guerra fratricida. Ancora una volta, accanto alle documentazioni storiche di eccidi, attacchi partigiani e rappresaglie, è la letteratura che trasmette il ricordo e le testimonianze di chi ha lottato per la patria e per la libertà di tutta l’Italia. Da Pavese a Vittorini, da Bassani a Meneghello, le pagine letterarie narrano la storia di un’Italia reale, che racchiude in sé l’aspirazione ad un’Italia ideale; non è più il desiderio di una patria che ancora non esiste, ma la volontà di rifondare un’Italia già esistente, ma che deve trovare una identità nuova, libera e fondata su valori sociali democratici.
gli stringeva la mano: uno di quegli avvenimenti che entrano nella storia, e non ci si fa caso quando accadono sotto i nostri occhi. […]. Come il 20 settembre, quando si prese Roma al papa, il medesimo per il quale si era cantato: Sceso è dal cielo un angelo, / che Nono Pio si nome… I fiorentini, cosa ci avevano guadagnato? Trasferitasi la capitale era succeduto il decennio della Carestia. Eppure, proprio quel 20 settembre, l’Italia era diventata Una», ivi, p. 350. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
ELISA LANZILAO La dimensione europea di Alberto Savinio, scrittore eterodosso
Sciascia riteneva che non esiste nella letteratura italiana un autore più straniero di Savinio, cogliendo pienamente la spiccata eterodossia di quest’ultimo rispetto alla cultura italiana: un’eterodossia che non é conseguenza di isolamento, ma espressione di una matrice intellettuale aliena dall’identificazione con una ristretta prospettiva nazionale. Savinio è un apolide: famiglia di origine siciliana, infanzia e adolescenza in Grecia, quindi, a diciotto anni, trasferimento nella Monaco della prima Secessione e dello Judgenstile e poi, naturale prosecuzione di questo particolare imprinting, il passaggio a Parigi, nel periodo più intenso delle Avanguardie. Ad una prima formazione all’ombra della classicità e del mito segue, dunque, l’immersione nel clima della Secessione di Monaco, affiancata dalla lettura di Schopenhauer e di Nietzsche, assimilati in modo fortemente pessimistico: ciò determina un processo di maturazione in cui diviene centrale, per i due fratelli De Chirico, la ricerca dei fondamenti di un’arte che si liberi dai residui romantici e naturalistici per esprimere vitalità e, al contempo, verità filosofiche. Infine i fermenti parigini trasmettono loro l’ansia di una ricerca cosmopolita volta a scardinare il linguaggio tradizionale di tutte le arti e a contestare, quindi, i fondamenti dell’ordine borghese. La matrice europea della cultura di Savinio coincide pertanto con la sua ricerca della pregnanza filosofica del linguaggio artistico al di là di precostituite posizioni ideologiche. Egli segue un percorso opposto rispetto a quello di molti autori italiani che, sulla base della tradizione nazionale si sono aperti alla condivisione della più ampia cultura europea; nella sua opera, infatti, il nucleo originario, cosmopolita, di una ricerca artistica e filosofica è andato via via ancorandosi in modo originale e autonomo a diverse prospettive culturali nazionali. Per comprendere a pieno l’eterodossia, ovvero l’originalità, di Savinio bisogna, comunque, considerare anche altri elementi, tra cui è fondamentale la sua fedeltà problematica alla ricerca delle Avanguardie. Non solo nel senso di un DNA culturale caratterizzato dallo sperimentalismo, ma, soprattutto, del permanere costante,
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come elemento identitario, dell’estraneità agli stereotipi della tradizione, ai sistemi totalizzanti, alle consolazioni borghesi. Strettamente connessa a tale spirito avanguardistico è, inoltre, la dimensione interartistica dell’opera di Savinio: egli inizia, giovanissimo, la sua ricerca in campo musicale, per allargarla a quello letterario e, più tardi, a quello pittorico, affiancandola, per altro, ad un’originale attenzione alla scenografia e al linguaggio cinematografico: realizza così quello spasmodico lavoro in tutte le direzioni, che Apollinaire aveva definito un’originale riproposizione del «genio multiforme del Rinascimento italiano».1 Una peculiarità che non è solo indice di eclettismo, o di dilettantismo, come piaceva sostenere a Savinio (ma nel senso che la sua arte doveva procurare piacere a lui e al suo fruitore): è, invece, la diretta espressione della matrice «cerebrale», filosofica, della sua arte. Per i fratelli De Chirico, infatti, l’opera d’arte, qualunque sia il linguaggio in cui è realizzata, è espressione di «necessità mentali»: è creazione dell’artista che sa trarre dalla realtà l’essenza metafisica, l’unica in grado di cogliere il valore della psiche e della realtà stessa. Quanto l’autore sostiene nell’articolo «La mia pittura» spiega sia l’origine «cerebrale» della sua arte, sia le ragioni del suo eclettismo: Per i pittori la pittura è un fine; per alcuni pittori è un mezzo. […] Costoro si chiamano pittori perché praticano la pittura […] ma avrebbero potuto scrivere e comporre musica, senza perdere un milligrammo del loro valore […] le immagini dipinte da Durer […] sono immagini da scriverle anche sulla carta. Perché queste immagini, prima che dipinte, prima che incise, prima che scritte, sono pensate.2
Nel suo personale percorso teso a coniugare istanze contestative e ricerca metafisica, Savinio incontra tanti compagni di strada: o meglio, intreccia la sua ricerca con quella dei principali movimenti di Avanguardia dei primi decenni del secolo, ma senza identificarsi totalmente con alcuno di essi; infatti, un’altra delle sue peculiarità consiste nel realizzare formalmente la sua distanza da qualcuno o da qualcosa. Ciò è già evidente nel dramma scritto in francese, Les chants de la mi – mort, pubblicato nel 1914 sulla rivista di Apollinaire Les soirées de Paris, l’opera che sancisce il passaggio dalla produzione musicale a quella letteraria. È il risultato artistico del rapporto osmotico intrattenuto, sia sul piano esistenziale che su quello culturale, da Savinio e Apollinaire e la sua originalità consiste nel modo problematico in cui realizza la consonanza formale e tematica con la ricerca futurista. La sua struttura, definita da una nota posta come sottotitolo «Scènes dramatiques», è quella di un testo che accompagna ed è affiancato da musiche: secondo Pietromarchi si oppo-
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L. Pietromarchi, Dal manichino all’uomo di ferro, Milano, UNICOPLI 1984, p. 13. A. Savinio, La mia pittura, in Catalogo dell’esposizione Savinio, a cura di Marzio Pinottini, Ruggero Savinio, Pia Vivarelli, Milano, Electa 1976. 2
XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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ne all’unità del libretto d’opera, condividendo, dunque, l’obiettivo del Manifesto dei musicisti futuristi di trasformare il libretto d’opera in poema drammatico o tragico per la musica. Ma, di fatto, le scene perdono la loro dimensione dinamica trasformandosi in tableaux, in quadri isolati, che rivelano la statica attesa di un’azione che non si realizzerà. I personaggi, l’«uomo giallo», l’«uomo calvo», gli «uomini bersaglio», gli «uomini di ferro forgiato», sono definiti da Savinio, che li ha disegnati, bozzetti di personaggi: essi, come le marionette di Jarry, per acquisire vitalità, hanno dovuto perdere i propri connotati definiti e reali. L’uomo calvo e l’uomo giallo sono i diretti predecessori dei manichini di De Chirico, come esplicitamente sostiene quest’ultimo: ma, puntualizza incisivamente Maurizio Calvesi, non hanno niente della metafisica superiorità dei manichini di De Chirico che, nella loro disumanità, assurgono al ruolo di «vate», «poeta-teologo», «superuomo finito». È, invece, molto più forte la consonanza tra i bozzetti di Savinio e il suonatore di piffero, «uomo senz’occhi senza naso senza orecchie» presente ne Il musicista di Saint Merry di Apollinaire. Qui la magica armonia della musica del suonatore che distoglie un corteo di donne dalle loro prosaiche occupazioni esprime un’ansia, ancora romantica, di felicità. Negli Chants la bestia «vibrante nella folle attesa di tenerezza» coniuga la tenerezza nostalgica di Apollinaire con la veemenza futurista. Considerando che nell’epigrafe al Preludio si legge: «Quello che noi chiamiamo modernizzazione della vita, non è che una continua e sempre più grande complicazione demoniaca», è opportuna l’affermazione di Luca Pietromarchi, per cui il bozzetto di Savinio è «l’essere che porta in sé la morte del passato senza riuscire a tramutarla in nuova energia vitale».3 Dunque il superamento dell’ansia romantica è, nello stesso tempo, una presa di distanza dal superficiale ottimismo futurista: nel secondo atto tutto assume la dimensione di incubo: gli «uomini di ferro forgiato» hanno la netta consapevolezza della morte della loro vita interiore. La mezza morte si rivela nell’emblematica scena finale: il ragno, pur schiacciato contro il muro, agita un’antenna, continuando una vita larvale, l’«uomo calvo» continua a vivere senza coscienza dopo essere stato ucciso e gli «uomini di ferro forgiato» sono diventati ragni uccisi, ma disperatamente vivi. L’epopea futurista approda così a una dimensione angosciosa in cui la logica del sogno rivela l’inesorabile decomposizione dell’uomo nella modernità. L’eterodossia di Savinio risulta ancora più evidente quando, allo scoppio della prima guerra mondiale, ritorna in Italia inserendosi nella cultura italiana, ma seguendo il filo rosso della filosofia tedesca e dell’Avanguardia e collaborando contemporaneamente a Dada di Tristan Tzara. Ne è esempio la struttura eterodossa di Hermaphrodito, il primo romanzo che egli pubblica, nel 1918, in Italia: esso
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L. Pietromarchi, Dal manichino all’uomo di ferro cit., p. 69.
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propone al lettore un susseguirsi di situazioni irrelate, che sono il prodotto della sua visione «sghemba» della realtà e degli uomini. Il fatto che Carrà avesse dipinto nel 1917 L’idolo ermafrodito e che molti dei testi confluiti in Hermaphrodito fossero stati pubblicati su La voce ci dà solo le coordinate esterne dell’invenzione di Savinio. L’immobilità metafisica dell’equilibrio costruito da Carrà e il frammentismo vociano sono molto al di qua della dissoluzione di ogni statica struttura formale e conoscitiva perseguita da Savinio. Ogni «capitolo» di Hermaphrodito, dai primi pubblicati in francese a quelli più vicini all’Avanguardia futurista, a quelli immersi in una dimensione onirica, è caratterizzato da un linguaggio composito, che mescola una molteplicità di lingue e dialetti, contaminando liberamente avanguardia e tradizione. Il tutto senza un fine preciso, che non sia la volontà di irridere quel lettore che volesse catalogare, in un senso o nell’altro, l’opera. Il susseguirsi vorticoso di analogie e opposizioni disorienta «piacevolmente il lettore, fino all’entusiasmo»,4 come sostiene Pasolini. E il primo a divertirsi è l’autore stesso che si lancia, per esempio, in fantasmagoriche movenze futuriste per farne la parodia con una semplice freddura, frutto della sua intelligenza critica del linguaggio (come nel Rocchetto di Venere in cui quello che sembra alludere a una raffinata avventura erotica si rivela, grazie all’uso ironico della lingua, un semplice atto di ruffianeria). Ma la vitalità del gioco non preclude la deformazione onirica: ad esempio così viene deformata la popolazione di Ferrara, che è emblema della società italiana in guerra: Tristissimi mantelli, color di pietra antica; adornati sul bavero da un contorno di piume rognose, pendono accasciati dalle spalle angolari. Dal contorno di piume emerge la testa dell’animale che vive sotto il mantello.5
Anche se tali trasfigurazioni mostruose non producono angoscia, perché stemperate dal vortice giocoso, rivelano comunque l’assurdo sotteso al reale, come nella tragica immobilità degli Chants: il susseguirsi di straniamenti produce sì divertimento e libertà, ma anche sospetto. La stessa prospettiva del gioco consente a un Savinio immerso nel clima di ritorno all’ordine degli anni Venti di trasferire l’esperienza «classicistica» maturata attraverso la partecipazione alla Ronda e a Valori plastici in una linea di rielaborazione del mito che accomuna, tra gli altri, Cocteau con l’Orpheus, Stravinskij con l’Oedipus Rex, O’ Neill con Il lutto si addice ad Elettra. Sulla base di una visione della classicità sostanziata dallo spirito di Luciano, nel romanzo surrealista Angelica o la
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P.P. Pasolini, Descrizione di descrizioni, Milano, Garzanti 2006, p. 564. A. Savinio, Hermaphrodito, Torino, Einaudi 1976, p. 49. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
La dimensione europea di Alberto Savinio, scrittore eterodosso
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notte di maggio, pubblicato nel 1927, riscrive la favola di Amore e Psiche, parodiando, nello stesso tempo i libri di intrattenimento in voga in quegli anni. Nella grottesca prospettiva di un’«Ellade in vestaglia» Savinio realizza una prosa raffinata, la cui ascendenza rondesca viene stravolta da un sapiente meccanismo di straniamenti. Si sviluppa così la vicenda di una Psiche – Angelica che si fa comprare dal ricchissimo finanziere Rothspeer (il cui nome significa lancia spezzata), sempre accompagnato dal servo Brephus, distante sia dalla dimensione affaristica, sia dalla travolgente passione del suo padrone. Ma il matrimonio non viene mai consumato, dal momento che Psiche dorme sempre, anche se con gli occhi spalancati. In una notte di maggio Brephus, il «chirurgo del mistero» rivela che Angelica si è unita con Angelo – Amore e, a questo punto, Rothspeer, dopo aver ucciso il servo, ferisce Amore. Ciò comporta un’ondata di violenza, una «tanatomania», da cui restano immuni, significativamente, solo gli artisti. Il romanzo si conclude nell’attesa che Psiche – Angelica ritrovi il suo sposo affinché tutto rientri nell’«ordine, nella tranquillità». Un ordine e una tranquillità che il lettore che ha assimilato tutti gli straniamenti costruiti dall’autore dovrà interpretare con il necessario scetticismo. Dunque la riscrittura del mito, pur nella sua atmosfera magica, si rivela, come sostiene Pedullà, una sua decostruzione: ovvero, nel momento in cui lo scrittore di avanguardia sembra rientrare nell’ordine dedicandosi alla struttura chiusa di un romanzo, di fatto racconta ironicamente cosa succede quando l’arte di avanguardia sposa il mercato. Psiche – Angelica, che si è venduta al diavolo, cioè al ricchissimo Rothspeer, in realtà non cede la sua anima grazie al suo sonno con gli occhi sgranati. È dunque possibile che un’arte non di intrattenimento o consolatoria si accosti al mercato; ma l’esperimento si ferma qui, l’unione non può realizzarsi: il sonno sancisce il distacco di Psiche dalla prosaicità e i suoi occhi spalancati rivelano la sua capacità di guardare dentro e oltre la civiltà di massa. Il romanzo evidenzia il fallimento tanto dello squallido affarismo di Rothspeer, quanto delle velleità intellettuali dello stesso Brephus; rimane l’utopia del legame di Psiche con l’AngeloAmore: ma è un’utopia che, nel Novecento, può presentarsi solo attraverso la sua decostruzione. Non si deve, inoltre, trascurare il valore allusivo dei nomi nell’arte di Savinio: sebbene Angelica sia l’amante di Eros, molti lettori saranno probabilmente indotti a cogliere qualche consonanza con la bellezza sfuggente dell’omonimo personaggio ariostesco e, quindi, con una poesia che è, sì, equilibrio, ma anche decostruzione ossimorica. Infatti Savinio, sostiene Pedullà, «aspirava a diventare poeta con i materiali con cui normalmente si diventa critici»:6 ciò non è volto a sottolineare, come spesso si è fatto, la freddezza dell’arte di Savinio, ma, ancora una volta, le ragioni di un
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W. Pedullà, Alberto Savinio, Milano, Bompiani 1991, p. 75.
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Elisa Lanzilao
approccio conoscitivo basato sulla consapevolezza del nulla sotteso al reale, con cui «pudicamente» il ricco linguaggio dell’arte dialoga e gioca, con l’intelligenza di non prendersi mai troppo sul serio. Sono probabilmente queste peculiarità dell’arte di Savinio che hanno indotto Vincenzo Trione, curatore della recente mostra milanese Alberto Savinio. La commedia dell’arte a individuare l’attualità di Savinio in un suo precorrimento del Postmoderno. Ciò spiegherebbe i motivi per cui la sua opera riscuoterebbe oggi quell’interesse che per anni ha suscitato in modo marginale. Certo la pluralità dei linguaggi espressivi, la tendenza alla contaminazione e alla decostruzione, il rifiuto dell’impegno politico legittimano l’accostamento di Savinio al Postmoderno. Ma è, comunque, importante sottolineare che nella sua opera la leggerezza del gioco non è un artificio manieristico, bensì un duttile strumento per liberare l’intelligenza, per dare valore al potere conoscitivo e contestativo dell’arte. Tutti elementi che, ancora una volta, sottolineano la sua originale fedeltà alle Avanguardie storiche e che, per altri versi lo ricollegano a Pirandello, uno degli autori più profondamente «europei» della cultura italiana del Novecento. Se la riflessione metaletteraria, la decostruzione e, nello stesso tempo, l’idea della sacralità dell’arte rendono «debitore» Savinio rispetto a Pirandello, quest’ultimo, come ha rilevato Leone de Castris, ha sicuramente dialogato con Savinio e Bontempelli nella costruzione dei suoi «miti» teatrali. In ultimo, a ulteriore conferma della dimensione europea di Savinio, la mostra fiorentina Uno sguardo nell’invisibile curata da Paolo Baldacci nel 2010 ha rilevato come dai due fratelli De Chirico originano le esperienze del Novecento europeo di Max Ernst e Balthus.
XII. La letteratura degli Italiani a scuola
CRISTINA NESI Il lato oscuro degli Italiani nell’opera di Ermanno Rea
«Professore, cosa ci guadagniamo a essere italiani?»1 La domanda rivolta a Giovanni De Luna durante una lezione lo lascia basito. Che lo studente pensi a una sorta di cittadinanza-bancomat? Pensi a un accrescimento di beni, capace di riassorbire le differenze e di costituire una nazione, in cui ciascuno possa sentirsi figlio dello stesso benessere? Una vera ipoteca al senso civile. O, per dirla con la capacità di sintesi da storico di longue durée di Leopardi, «il popolaccio italiano è» ancora oggi «il più cinico dei popolacci»? Non a caso nei primi mesi del 2011 la Bollati Boringhieri ha riproposto il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani2 con una prefazione di Franco Cordero, che analizza il permanere nel periodo liberale, fascista e infine repubblicano di una stessa fragilità della coscienza civile. Facile preda della combustione, la discussione sul carattere degli italiani ha da sempre impegnato molte delle nostre migliori penne, tenutesi sempre a debita distanza dalla stratificazione degli stereotipi e convinte come Ermanno Rea nel recente La fabbrica dell’obbedienza3 o come Giulio Bollati ne L’Italiano4 (ristampato nel marzo 2011), che non esista un carattere degli Italiani che non sia la loro storia politica e culturale. Il carattere nazionale come storia e come invenzione recita appunto il sottotitolo di Bollati, posizione da cui Rea non si discosta:
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G. De Luna, A che serve essere italiani?, in «La Stampa-Tuttolibri», 14 maggio 2011. F. Cordero, I pensieri di un italiano d’oggi, in G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, Torino, Bollati Boringhieri 2011. 3 E. Rea, La fabbrica dell’obbedienza, Torino, Einaudi 2011. Si tratta di una rielaborazione e di un ampliamento del testo letto nell’estate 2009 al College di Middlebury nello Stato del Vermont. 4 G. Bollati, L’Italiano: Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Torino, Einaudi 1972; nuova ed. Einaudi 2011. 2
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Cristina Nesi
Forse è arrivato il momento che tutti noi italiani cominciamo a interrogarci più seriamente sul nostro passato e sulle nostre perverse eredità, scoprendo che cosa significa veramente la parola «responsabilità».5
L’«apologia del pessimismo»,6 che si respira ne La fabbrica dell’obbedienza all’inanellarsi serrato di un dizionario del degrado («dove le voci sono l’impunità, il favore, la collusione, l’indulgenza incomprensibile, il perdono, sempre vittorioso sulla giustizia»),7 non è comunque rinunciataria: a soccorrerla è una «forza motrice che vede gli ostacoli nella sua complessità»8 per poterli meglio affrontare, «un inno al pessimismo costruttivo, e un no all’ottimismo con il quale – Rea ne è certo – si continua ad avvelenare il paese».9 Certo, il libro non ha né l’amenità, né la bizzarria di una «cicalata»10 sei-settecentesca, letta dopo i banchetti in alcune accademie letterarie, anche se lo scrittore così lo definisce per sospingerlo nell’angolo delle opere letterarie semiserie. Piuttosto, è un cahier de doléances sul tempo presente, un pamphlet, che non disdegna il tono saggistico, le cronache, i documenti, gli inserti diaristici. Forme ibride di scrittura compaiono, del resto, in tutta la narrativa di Rea. L’ultima lezione, Mistero napoletano, La dismissione, Napoli Ferrovia contaminavano la cronaca con i ricordi personali, con i documenti, i diari, le lettere, le interviste, le testimonianze e consegnavano al ricordo personaggi emblematici, difficilmente dimenticati dai lettori: il grande economista Federico Caffè, scomparso una sera d’aprile del 1987 e mai più ritrovato, l’ex operaio Vincenzo Buonocore, incaricato di smantellare l’Ilva di Bagnoli ormai dismessa e venduta ai cinesi, il fotografo Caracas peripatetico nella Napoli notturna dell’emarginazione e della stazione centrale. Indimenticabili poi, la giornalista de «L’Unità» Francesca Spada e il matematico Renato Caccioppoli, nipote di Bakunin, in una città dell’immediato dopoguerra asfittica e asservita alla Sesta Flotta della Nato: una Napoli consegnata per un decennio nelle mani dell’ex fascista e monarchico Achille Lauro, scarcerato, nominato sindaco e arricchito proprio per la sua disponibilità a spostare a Genova la propria flotta, svuotando così i moli di Napoli, le linee di navigazione commerciale, gli spazi dil carenaggio. Da quel momento, gli orologi della città si fermano, dice Rea. Da quel momen-
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E. Rea, L’avanzata dei responsabili fra paradosso e spudoratezza, in «La Repubblica», 7 marzo 2011. 6 Id., Il sorriso di Napoli, intervista di A. Mastrandrea, in «Il Manifesto», 14 luglio 2009. 7 C. Stajano, I barbari siamo noi: dizionario del degrado, in «Corriere della Sera», 19 febbraio 2011. 8 Ibidem. 9 Ibidem. 10 E. Rea, La fabbrica dell’obbedienza cit., p. 65, XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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to, molti si sradicano da Napoli. E, qualcuno, anche dal peso del mondo, come ci ricorda Erri De Luca: Le persone di buona volontà, comunisti e non, presero il largo per non finire assiderate. Renato Caccioppoli e Francesca Spada tennero duro: e quando fu chiaro per loro che non restava più nessun presente e più nessun futuro chiusero la porta. I suicidi hanno la vocazione potente a essere gli ultimi.11
Divenuto scrittore solo dopo i sessant’anni, Rea ha dedicato la sua vita al giornalismo e alla fotografia, regalandoci con i suoi articoli o con le sue foto il ritratto di un Paese e di un’epoca. Ora, anche La fabbrica dell’obbedienza tocca argomenti di cronaca degli ultimi anni, ma con la prospettiva ampia di chi vuole scandagliare la condizione di sudditanza degli Italiani, plaudenti al despota di turno, poco responsabili, poco propensi a «pensare in proprio», disponibili alla «cortigianeria».12 Il sobrio pessimismo leopardiano (quasi da «diario intimo)13 e la signorilità dissimulata del tono non traggano in inganno: il libro è corroborato e sorretto da una passione civile che taglia, in modo impietoso, come una lama, sia che la prospettiva culmini nel presente, sia che l’indagine risalga come un’anguilla fino alla strozzatura del rivo: Che in Italia la responsabilità sia una merce piuttosto rara è cosa nota […] Ricordo lo splendido verso di J. Ramòn Jimenez: «Intelligenza, dammi il nome esatto delle cose». Fino a qualche tempo fa conoscevamo ancora il significato delle parole, almeno in parte. Poi, lentamente, esso è come evaporato, si è fatto via via più ambiguo, fino a inglobare il suo stesso contrario, equiparando per esempio «responsabilità» e «irresponsabilità», o per lo meno oscurando i loro confini agli occhi dei più. Naturalmente la corruzione del linguaggio è soltanto la spia della corruzione generale.14
Per Rea «la lingua è un corpo vivo, mutevole», quasi un grande fiume nel quale confluiscono tanti minori corsi d’acqua con «le loro melme e i loro scarichi inquinanti»; così, in quanto forma e linguaggio, un’opera dovrebbe aderire alla materia trattata «fino ad apparire materia essa stessa».15 Non può stupirci dunque, che nell’ultimo capitolo de La fabbrica dell’obbedienza campeggino le tragedie di Giordano
11 E. De Luca, L’eresia di Renato e Francesca comunisti soffocati dal Pci, in «Corriere della Sera», 30 settembre 1995. 12 E. Rea, Vi racconto il lato oscuro degli italiani, intervista di Paolo Di Paolo, in «L’Unità», 27 febbraio 2011. 13 Id., La fabbrica dell’obbedienza cit., p. 117. 14 Id., L’avanzata dei responsabili fra paradosso e spudoratezza cit. 15 Le tre citazione di Rea sono tratte da D. Maraini, Amata scrittura, Milano, Rizzoli 2000, p. 111.
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Bruno e di Caravaggio, accomunati dalla pretesa di voler cogliere la verità entro le «cose» materiche e denigrati entrambi per una «visione del mondo» per niente rispondente «ai princìpi dominanti»:16 se Bruno voleva il divino presente in ogni cosa, animata o inanimata che fosse, il Caravaggio, non meno di lui, lo intendeva racchiuso soprattutto laddove uno meno se lo aspetta (ai suoi tempi come adesso): tra gli umili, gli scalzi, i diseredati.17
Su questo «binomio perfetto»18 non può che chiudersi il sipario rinascimentale, ammirato durante il Quattrocento e il Cinquecento in tutto il mondo. Quando si riaprirà, non sarà più nella nostra penisola, ma «in più libera terra e in menti più libere»,19 cioè nei paesi della Riforma protestante, dove il fedele sta in rapporto diretto con Dio senza intermediari, e sul terreno della filosofia tedesca, da Kant fino a Hegel. Dunque, per Rea lo spartiacque risalirebbe alla fine dell’homo novus rinascimentale e della civitas, immaginata umanisticamente come una comunità calata in uno spazio urbano adatto alla convivenza civile e aperto all’invenzione, alla vita associata, al dibattito politico: una tesi sostenuta dal filosofo Bertrando Spaventa in Rinascimento Riforma Controriforma e mutuata apertamente dallo scrittore. Riguardo alla genealogia della passività italiana, se Bollati la vede germinare nell’Ottocento dalla sinergia di due elementi, quali la resistenza italiana alla modernità industriale e la tendenza a una gestione consociativa del potere politico sull’onda del trasformismo di Depretis, Ermanno Rea sposa, invece, gli studi storici di Adriano Prosperi20 sull’inquisizione. Dopo una prima fase di lotta serrata svolta dai tribunali dell’inquisizione, la Chiesa si sarebbe piegata a tribunale della moralità quotidiana e al controllo delle coscienze attraverso la confessione. Sia del pentito davanti al sacerdote, sia dell’imputato davanti al giudice. In definitiva, più dell’Inquisizione stessa, a stroncare l’eresia in Italia avrebbe contribuito la confessione, sottratta nel 1559 al vincolo della segretezza da papa Paolo IV Carafa. In sintesi, nell’idea di perfezione raggiungibile con l’obbedienza e la remissione ad altri della gestione della propria coscienza germinerebbero le radici della dissimulazione e dell’autocensura degli italiani. Non manca, a conferma di questa tesi, persino il riaffiorare di un episodio autobiografico, avvenuto nel 1939 durante l’anno di ginnasio frequentato da Rea a Montecassino.
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Le tre citazioni da E. Rea, La fabbrica dell’obbedienza cit., p. 194. Ivi, p. 192. 18 Ibidem. 19 Ivi, p. 57. La citazione riportata da Rea è di Bertrando Spaventa. 20 A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi 1996. 17
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Innamorato di Pico della Mirandola e di Jacopone da Todi il giovanissimo Rea matura dentro di sé la decisione di farsi monaco, di rinunciare ai piaceri e ai beni terrestri per un percorso penitenziale. Un giorno però, un compagno di corso gli rivela la sua decisione di scappare dal collegio ed Ermanno gli regala i soldi necessari per il viaggio di ritorno a casa. Subito rintracciato alla stazione di Cassino, il fuggitivo rivela di essere stato aiutato dall’amico Rea, che diviene da quel momento «più reprobo del colpevole. Forse perché quest’ultimo si era riscattato con una delazione in piena regola».21 Il processo dura a lungo e a niente serve l’aver onorato un rapporto di amicizia, l’aver voluto alleviare uno stato di sofferenza, l’aver donato tutto il denaro posseduto con generosità. Così, a poco a poco il ragazzo comincia a manifestare avversione per il collegio, per i monaci, per quel modo di ragionare: Non riuscivo soprattutto a sopportare la totale e perfino festosa reintegrazione nella comunità dell’autore della fuga, quasi santificato dalla confessione resa. […] Mi vinse all’improvviso un senso quasi angoscioso di solitudine. Allora scrissi una lettera a mio padre pregandolo di mettere fine al mio disagio.22
Oggi Ermanno Rea sostiene, con la prospettiva distanziata che i decenni passati gli hanno regalato (a dispetto alla vicinanza topografica con San Pietro, visto che vive in via del Mascherino a pochi passi dal colonnato della basilica), che essere indenni dal germe dell’obbedienza è quasi impossibile, per quanto si possa essere autocontrollati. È un carattere degli italiani che penetra ovunque e che non lascia indenni neppure i più avvertiti: né i comunisti come Guttuso, convertito e confessato in punto di morte, né il governatore Marrazzo della regione Lazio, che scrive pubblicamente al Papa, per pentirsi delle sue frequentazioni con transessuali. Perfino l’amato Leopardi aveva avuto il suo momento di debolezza e in una lettera inviata al cardinal Consalvi nel 1823, per chiedere un impiego come Cancelliere del Censo, si firmava «umilissimo, devotissimo, obbligatissimo servitore».23 Il pensiero ardito di Bertrando Spaventa suggerisce comunque a Rea uno spiraglio salvifico, pur nelle delusioni cogenti per l’attuale momento storico: un nuovo umanesimo vagheggiato su pochi, ma luminosi esempi di responsabilità. Riemergono allora gli intellettuali napoletani della rivolta nel 1799, Eleonora de Fonseca Pimentel, la prigionia di Antonio Gramsci, i professori universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo e i giovanissimi partigiani con i loro slanci di entusiasmo (fra le cui fila militò anche Rea). Sono esempi da tenere a memoria, anche se oggi difficilmente qualcuno può vantare come Beniamino Placido una “buona” educazione:
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E. Rea, La fabbrica dell’obbedienza cit., p. 42. Ivi, p. 43. 23 Ivi, p. 67. 22
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Cristina Nesi
sono stato educato bene. Da bambino, prima ancora della Vispa Teresa mi hanno fatto imparare a memoria l’elenco dei 13 professori universitari italiani (13 su 1200) che nel 1931 rifiutarono il giuramento al Fascismo: Buonaiuti, Carrara, De Sanctis, De Viti, De Marco… Perché ricordassi sempre che nei momenti duri gli intellettuali (almeno quelli italiani) si comportano come gli altri, peggio degli altri. Con l’aggravante che sono stati tenuti a lungo a scuola, perché imparassero a comportarsi meglio.24
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B. Placido, L’italiano di sempre, «La Repubblica», 14 agosto 1984. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
IDENTITÀ NAZIONALE NELLA RAPPRESENTAZIONE DEGLI ITALIANI: INDIVIDUO, FAMIGLIA, COLLETTIVITÀ
CARMELO TRAMONTANA Foscolo, Manzoni, Nievo: genealogie della famiglia nella letteratura risorgimentale
1. Foscolo: Il desiderio familiare Le Ultime lettere di Jacopo Ortis segnano in Italia la comparsa del giovane come protagonista di un’opera letteraria. Per giovane intendo non l’età anagrafica del protagonista, ma la sua collocazione dentro un orizzonte simbolico in cui centrale è il rapporto tra generazioni diverse e i temi della trasmissione dell’eredità e della necessaria trasformazione della società. Che questo insieme di temi prenda corpo a cavallo tra diciottesimo e diciannovesimo secolo, a ridosso dell’esperienza rivoluzionaria francese nella versione esportata da Napoleone in Italia, è ancora più significativo. La coincidenza segnala, a mio avviso, la capacità di Foscolo di tradurre la sua biografia unica e particolare in una questione di importanza storica. Dietro la maschera di Jacopo agisce un mondo che è collettivo. Jacopo è una singolarità collettiva e ha il respiro ampio di un’intera generazione. Ciò che qui mi interessa affrontare è come nel romanzo Foscolo si ponga il problema della trasmissione dell’eredità tra generazioni e, nel contesto specifico italiano del tempo, quello della definizione della propria identità che il giovane è chiamato a compiere attraverso la mediazione del desiderio con la realtà. In questo quadro, la famiglia come primo ordine simbolico-culturale, in cui l’individuo fa esperienza del conflitto tra desiderio e realtà, acquisisce un aspetto di speciale importanza. Rilievo ancora maggiore se si pensa che il moto risorgimentale spingeva Foscolo, e gli altri due autori scelti, a immaginare modalità di costruzione positiva della nazione a venire, riflessione che doveva passare anche attraverso la riflessione sulla famiglia come prima cellula sociale e morale della nuova Italia. Il discorso familiare,1 come lo si
1
Cfr. M. Recalcati, Cosa resta del padre?, Milano, Cortina 2011.
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Carmelo Tramontana
potrebbe chiamare, si articola poi in due momenti: da una parte la liquidazione tragica o problematica del vecchio modello familiare assimilato alle storture e alla decadenza della vecchia Italia (come è evidente nei casi di Gertrude e di Carlino), dall’altra la difficoltosa elaborazione di un nuovo modello familiare (problema che è toccato da tutti e tre gli autori). Osserviamo la costellazione familiare in cui si installa Jacopo. Le famiglie dentro cui si inscrive il suo essere giovane-figlio sono due: quella biologica di provenienza e quella proiettata dal suo desiderio nel futuro insieme a Teresa. Entrambe sono deficitarie, e il lato oscuro non è l’assenza del padre da una parte, cosa che fa di Jacopo un orfano, o la presenza ostacolante del padre di Teresa dall’altra, cosa che fa di Jacopo un padre mancato, quanto il modo in cui Jacopo prova ad elaborare le due società familiari senza riuscire a darvi, in nessuno dei due casi, realtà e ordine. L’azione di Jacopo è da questo punto di vista ampiamente fallimentare. La famiglia di origine è ridotta alla sola madre, mentre il padre è una figura cui con grande difficoltà Jacopo tenta di dare consistenza nelle lettere. L’immagine del padre biologico sembra quasi che non riesca mai a fissarsi nelle lettere, nonostante il grande investimento di energia memoriale di Jacopo, come simbolo delle legge o solido referente dell’affettività del figlio. Con grande difficoltà Jacopo riesce a vedere nel suo padre biologico il Padre. Lo si comprende bene dai luoghi in cui questo appare, soprattutto in quella fantasia negromantica (che è anche una fantasia di morte del protagonista) che riempie la lettera del 12 Novembre: Jeri giorno di festa abbiamo con solennità trapiantato i pini delle vicine collinette sul monte rimpetto la chiesa. Mio padre pure tentava di fecondare quello sterile monticello; ma i cipressi ch’esso vi pose non hanno mai potuto allignare, e i pini sono ancor giovinetti. Assistito io da parecchi lavoratori ho coronato la vetta, onde casca l’acqua, di cinque pioppi, ombreggiando la costa orientale di un folto boschetto che sarà il primo salutato dal Sole quando splendidamente comparirà dalle Cime de’ monti. […] Frattanto io mi vagheggiava nel lontano avvenire un pari giorno di verno quando canuto mi trarrò passo passo sul mio bastoncello a confortarmi a’ raggi del Sole, sì caro a’ vecchi: salutando, mentre usciranno dalla chiesa, i curvi villani già miei compagni ne’ dì che la gioventù rinvigoriva le nostre membra; e compiacendomi delle frutta che, benché tarde, avranno prodotti gli alberi piantati dal padre mio. Conterò allora con fioca voce le nostre umili storie a’ miei e a’ tuoi nepotini, o a quei di Teresa che mi scherzeranno dattorno. E quando le ossa mie fredde dormiranno sotto quel boschetto alloramai ricco ed ombroso, forse nelle sere d’estate al patetico susurrar delle fronde si uniranno i sospiri degli antichi padri della villa, i quali al suono della campana de’ morti pregheranno pace allo spirito dell’uomo dabbene e raccomanderanno la sua memoria ai lor figli. E se talvolta lo stanco mietitore verrà a ristorarsi dall’arsura di giugno, esclamerà guardando la mia fossa: Egli innalzò queste fresche ombre ospitali! – O illusioni! e chi non ha patria, come può dire lascierò qua o là le mie ceneri?2
2
Si cita da U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Milano, Rizzoli 1992, pp. 53-54. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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Ciò che lo assilla non è l’incapacità di una generazione di padri che non ha saputo preservare il bene (l’unità familiare qui rappresenta il tema politico della libertà dallo straniero e dell’unità nazionale), quanto quello della trasmissione del patrimonio ereditario, cioè del legame tra generazioni che radica un individuo, una famiglia, un popolo in un luogo e nel tempo. Foscolo percepisce chiaramente che la definizione di una nuova singolarità, come quella della nascente nazione italiana, passa necessariamente attraverso il radicamento, per quanto conflittuale, in una lunga sequenza di trasmissioni biologiche e culturali, e in ultima istanza e più in generale simboliche.3 L’anello mancante è rappresentato dal fallimento complessivo di quella generazione di padri, e consiste nell’impossibilità di istituire il simbolico passaggio di consegne. Si osservi ora l’altra configurazione familiare in cui Ortis si installa con la forza del suo desiderio per Teresa. Quella di Jacopo-padre non deve sottovalutarsi come una fantasia compensatoria. Anche questa seconda costellazione familiare fallisce miseramente e la conclusione sarà il suicidio di Jacopo. Prima del suicidio però bisogna osservare con attenzione come accade il singolare fallimento di questa progettata nuova famiglia. Ad ostacolare il desiderio di Jacopo è il padre di Teresa, che incarna in modo esemplare la vecchia generazione dei padri, incapaci di difendere (e riconoscere) la verità del desiderio. Il padre di Teresa non è solo l’ostacolo insormontabile del desiderio di Jacopo, egli indica pure la mancata attivazione di un rapporto conflittuale ma attivo di trasmissione e di continuità tra i vecchi e i giovani. Non è un caso che il padre di Teresa tratti Jacopo come un figlio, e che questi abbia affetti filiali verso di lui. È la funzione ad essere riattivata, ed è questo che interessa Foscolo: il calcolo utilitaristico del padre di Teresa è un ostacolo materiale, ma l’ostacolo è a sua volta solo l’espediente narrativo che permette di mettere in scena la tragedia storica del venir meno del legame generazionale. L’elaborazione di questa disarmonia avviene per Jacopo attraverso due nomi centrali nel vocabolario della modernità romantica: il tradimento e il suicidio. Jacopo è uno sradicato, un esule politico, certo; ma lo è forse in maniera ancora più radicale, se lo si pensa tale innanzi tutto rispetto al primo e più naturale radicamento dell’individuo nella società: la famiglia. Quando si realizza il tradimento si rompe un patto di fiducia, se infatti è necessario che vi sia fede preliminare perché vi sia tradimento.4 E la conseguenza possibile, il più pericoloso degli effetti, è che le parole,
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Secondo le tesi note di A. M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi 2000. 4 Hillman, che pure riconosce al tradimento una funzione positiva, a patto che il soggetto impari attraverso il tradimento la lezione della supremazia della vita sul Logos, sviluppa il tema a partire dal rapporto paterno archetipico nel mondo occidentale, la relazione Dio-Adamo nell’Eden: «la fiducia originale nel mondo paterno significa trovarci nel giardino dell’Eden con Dio e tutte le creature tranne Eva. Il mondo originario non solo è il mondo prima del Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
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su cui poggia per intero l’economia simbolica del patto,5 perdano la capacità di nominare il mondo. Il pericolo del tradimento non è tanto il rischio della morte cui il tradito può essere esposto, ma quello dell’anomia, cioè l’essere costretto a vivere in un mondo su cui le parole, tradite, non hanno più presa. Le conseguenze del tradimento sono il caos e il disordine. E da qui alla violenza non mediata, anche verso se stessi (il suicidio), la via è libera da ostacoli. Jacopo corre lungo questo sentiero, e dietro di sé lascia il fallimentare tentativo di radicare il suo desiderio e la sua singolarità maturamente, da figlio che diventa padre egli stesso. L’espulsione ideale, oltre che reale, dalla famiglia di sangue, l’incapacità di dar vita ad una famiglia segnano con un doppio fallimento il difficile costituirsi della società italiana immaginata alle origini del Risorgimento. Fallimenti che in realtà sono uno solo: l’impossibilità di saldare il legame con il passato, quel legame che unico può permettere di saldarne di nuovi e fecondi per l’avvenire. L’anomia in cui cade Jacopo è da questo punto di vista storica oltre che esistenziale, perché a fare da controcanto al silenzio della generazione dei padri biologici c’è quello, ancora più inquietante, di secoli di genti che si sono dette italiane vivendo in realtà nel loro asfittico particolarismo. Anelli di una catena che non prende mai forma unitaria. Anomia storica significa questo: Italia è davvero solo flatus vocis («Così grido quand’io mi sento insuperbire nel petto il nome Italiano, e rivolgendomi intorno io cerco, né trovo più la mia patria»).6
male, è il mondo prima di Eva. L’essere una sola cosa con Dio nella fiducia originale ci protegge dalla nostra stessa ambivalenza. […] Noi vogliamo [con il patto di fiducia] la sicurezza del logos, dove la parola è la verità e non può essere fatta vacillare», J. Hillman, Il tradimento [1964], in Id., Puer aeternus, Milano, Adelphi 2009, p. 17. 5 Con patto mi riferisco qui alla più generale forma di sigillo della fiducia tra due soggetti, che è il giuramento. Il riferimento al ruolo del linguaggio nell’atto del tradimento dovrebbe così risultare ancora più chiaro: il giuramento (e ogni patto che si fonda sulla fiducia data e ricevuta è una forma di giuramento) è l’atto linguistico con cui le due parti si affidano reciprocamente l’una all’altra. La fiducia conservata nel patto-giuramento è custodita dal valore della parola, «dare la propria parola», «chiamare gli dei a testimoni» ecc. L’anomia come esito del giuramento tradito è chiarita da Agamben: il giuramento «si situa nell’ambito di un istituto più vasto, la fides [fiducia, fede, fedeltà], che regola tanto le relazioni fra gli uomini che quelle fra i popoli e le città. […] La fede è, cioè, essenzialmente la corrispondenza fra il linguaggio e le azioni», G. Agamben, Il sacramento del linguaggio, Bari-Roma, Laterza 2008, p. 32. La parola tradita è quella che dimostra la propria incapacità a tenere fermo il reale e a nominarlo, ed è il tradimento a spingere chi prima aveva garantito con la propria parola la corrispondenza fra linguaggio e azioni nel campo ambiguo e indecidibile della menzogna. 6 U. Foscolo, Ultime lettere… cit., p. 161. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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2. Foscolo: Il padre elettivo Il tradimento non annulla la sola fiducia, ma fiducia e riconoscimento insieme.7 Jacopo rimprovera a Napoleone non solo l’inganno ma l’aver tradito, con la fiducia, il riconoscimento. E qui riconoscimento significa dare come innegabile l’esistenza della patria italiana. L’accusa di Jacopo è così dura perché il tradimento di Napoleone scopriva una verità sgradevole che faceva cadere a pezzi la fiducia di patrioti come Jacopo: esiste una patria italiana? Sembrerebbe proprio di no. Ed è quello che tra le righe è costretto ad ammettere lo stesso Jacopo. Tradimento e mancato riconoscimento dunque. Questa è la fine del rapporto di Jacopo con Napoleone, la prima vera figura sostitutiva di padre (ma anche fratello maggiore) che Jacopo ha scelto. Nel romanzo di questa scelta vediamo soltanto l’esito: apprendiamo, sin dall’incipit, la conclusione di questo legame a causa del tradimento, con il conseguente rigetto della figura sostitutiva. Napoleone, appunto, è nulla più che un traditore. Nel corso del romanzo, nel vuoto familiare e affettivo crescente in cui si muove Jacopo, ci si imbatte in un’altra figura di padre elettivo scelto da Jacopo, e con il quale ingaggia un rapporto che, più che essere semplice trasmissione di modelli esemplari di comportamento, è in realtà conflittuale. Parini è non solo un esempio di grande italiano, un padre esemplare; è, in maniera più decisiva per l’economia del romanzo, anche l’occasione per un confronto generazionale senza ipocrisie, durissimo. Sembra quasi che il padre ideale non riesca a farsi carico del figlio elettivo Jacopo, e viceversa. Nel dialogo tra i due si avverte una continua inadeguatezza (il cinismo dei tempi? i vizi del genere umano?), come se nessuno dei due riuscisse, con la sola forza di volontà, a colmare la distanza che li separa. Nessuno dei due riesce a riattivare del tutto il legame tra la generazione dei padri e quella dei figli, nonostante il riconoscimento appaia all’inizio pieno e certo. Il punto è, come Parini avverte chiaramente, che non ci si salva a prescindere dal proprio tempo. Il vuoto che circonda questa relazione familiare è un vuoto storico, e ciò rende inefficace quella relazione stessa: sono italiani, ma in un tempo e in un luogo in cui questa parola non ha un corrispettivo concreto nella realtà storica e politica. Non significa nulla, al di fuori di quella relazione. L’effetto è che nessun legame ancora Jacopo alla realtà, e dunque è nulla la possibilità di mediare il suo desiderio con la realtà. Un vuoto che trascina con sé futuro e passato: «Allora io guardai nel passato – allora io mi voltava avidamente al futuro, ma io errava sempre nel vano e le mie braccia tornavano deluse senza pur mai stringere nulla; e conobbi tutta tutta la disperazione del mio stato». La soluzione sarà il suicidio, da una parte; dall’altra sarà lo slancio generoso di saltare l’anello rotto tra le generazioni e di alzare la posta puntando tutto su una indefinita posterità-prole futura:
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Cfr. la lettera del 17 Marzo, ivi, pp. 78-79.
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«Scrivete a quei che verranno, e che soli saranno degni d’udirvi, e forti da vendicarvi. Perseguitate con la verità i vostri persecutori».8 Dunque, una doppia soluzione: da una parte la fine tragica del personaggio; dall’altra, la strada dell’utopia che poggia sulla fede nella parola e sulla capacità della letteratura di preservare la memoria. Alla fine, e questa è la tragica verità della parabola storica di Jacopo, l’unica famiglia italiana è quella letteraria, e si tratta di un’utopia tragica, e tutt’altro che retorica e consolatoria. Questo è il terreno su cui nasceranno i Sepolcri. 3. Manzoni: due giovani e una nuova famiglia I Promessi Sposi sono innanzi tutto un romanzo familiare, di un sottotipo speciale che è quello della formazione di una nuova famiglia. L’obiettivo di Renzo e Lucia non è quello romantico di coronare con l’unità il sogno d’amore, ma di formalizzare attraverso l’istituto del matrimonio un sentimento che, molto poco romanticamente, non viene mai messo in discussione lungo il romanzo. La vera partita dunque, per Manzoni innanzi tutto, si gioca intorno al significato di questa pulsione giuridica e alla sua efficacia sociale. Formare una nuova famiglia significa innanzi tutto formalizzare nei confronti della società retta dal diritto il proprio stato civile. Come avrebbe detto Hegel (e i Lineamenti di filosofia del diritto sono del 1821), il matrimonio non è un in sé: non ha valore in quanto tale, non si autogiustifica, lo ha invece nei confronti degli altri. Se si pensa a questo aspetto, si deve ammettere, e non è scontato, che al centro del romanzo non appare il tema dell’amore. Da questo punto di vista, il romanzo è un completo rivolgimento dell’Ortis: mentre il romanzo di Foscolo è pienamente interno alla sensibilità romantica, poiché l’interiorità è bene supremo e valore non sacrificabile, quello di Manzoni non lo è affatto. Sia Renzo che Lucia provengono da costellazioni familiari incomplete (e nel caso di Renzo si può parlare di un vero e proprio orfano). Anche Lucia lo è in qualche modo, se si pensa ai tratti di meschinità e fragilità della madre Agnese: la sua scarsa autorevolezza costringe spesso la figlia a muoversi in una condizione di effettivo vuoto parentale, priva del reale sostegno della madre, nei cui confronti è anzi spesso Lucia stessa a porsi come figura capace di infondere ordine, fermezza, convinzione. Una specie di maternità surrogata nella propria persona, per Lucia. Per questi motivi l’impegno di formare una nuova famiglia si carica di un significato decisivo: non si tratta solo della parabola esistenziale di due giovani, ma anche di una proposta lanciata verso una comunità, quella nazionale dell’Italia unitaria, a venire.
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Ivi, p. 147. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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4. Manzoni: Le figure sostitutive Renzo e Lucia si confrontano lungo il romanzo con figure genitoriali sostitutive. Le più importanti sono Fra’ Cristoforo, Gertrude e il cardinale Borromeo. Partiamo da Fra’ Cristoforo. Il rapporto di Ludovico con il padre è significativo: questi si vergogna delle proprie origini e il desiderio di integrarsi dentro una classe sociale più alta trapassa nel figlio sotto forma di un abito violento, litigiosità, superbia che nascondono un angosciante desiderio di riconoscimento. Questo è causa di una condotta pericolosa che lo porterà ben presto ad un bivio, dopo l’omicidio di cui si macchia: o subire la vendetta di una classe che non lo accetta; o riscattare l’errore passato inserendosi all’interno di una nuova costellazione familiare che, permettendogli di elaborare la colpa commessa attraverso l’umiltà e la richiesta di perdono, vince il blocco in cui Ludovico si era cacciato. Ludovico trae spunto dall’occasione che la Provvidenza ha estratto dal caso per rinascere all’interno di una nuova famiglia. Il padre, colui il quale coniuga legge e desiderio, è naturalmente Dio padre. Il percorso di Ludovico segnala che, per Manzoni, l’unica vera famiglia che può permettere all’individuo, il giovane-figlio, una corretta integrazione nel corpo sociale della comunità degli uomini è quella che ha la sua unica bussola nella fede, e, più concretamente, nella guida dell’uomo sinceramente di fede. Sia Ludovico che Gertrude hanno un rapporto conflittuale con la figura della legge (il padre): per Ludovico essa è inadeguata, e la risposta sarà canalizzare il suo desiderio nel conflitto perenne, che ha origine in un mancato processo di riconoscimento-integrazione, con la legge (la società); per Gertrude la conflittualità con la figura paterna nasce dall’impossibilità della figlia di definire il proprio desiderio come unico e singolare rispetto a quello paterno. Tuttavia, il conflitto familiare non è il vero nodo della storia familiare di Gertrude. L’abisso che perde Gertrude non è un eccesso di conflittualità con un padre che incarna una legge violenta e cinica, al contrario è un difetto di conflittualità. Gertrude non riesce a utilizzare attivamente il conflitto con la legge paterna per trovare una mediazione del suo individuale desiderio con la realtà, in modo da definire se stessa come un’identità unica e autonoma. Superare il conflitto con la legge paterna significa definirsi come individuo autonomo, ossia recidere il vincolo biologico e culturale che la rende figlia di una padre siffatto. Queste eventualità sono presenti nella storia di Gertrude narrata da Manzoni come pieghe nascoste alla vista del lettore, sentieri non intrapresi. Ma pur sempre presenti, e Manzoni li addita maliziosamente. Il primo sentiero è lo scontro aperto tra i due desideri: farne una monaca e vivere nel secolo. Questa eventualità nel romanzo prende ad un certo punto la forma dell’infatuazione di Gertrude per un «paggio», ma è l’incapacità di Gertrude ad essere fedele al proprio desiderio che rende questa via impercorribile: di fronte alla reclusione inflittale dal padre, Gertrude sceglie alla fine l’alleanza con la legge paterna, sottomettendosi. Gertrude fa delle ragioni del padre-legge-potere le proprie ragioni. Di fronte alla possibilità di perdere tutto, non comprende che quel tutto è nulla Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
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rispetto al suo desiderio, e quindi preferisce ridurre questo al silenzio. La resa non è per nulla dialettica, non c’è alcuna vera elaborazione, piuttosto adeguamento e autocastrazione. La seconda possibilità non realizzatasi è ancora più significativa. Dopo la resa e la monacazione, Manzoni aggiunge una riflessione densissima sul caso di Gertrude, ma lasciata sulla pagina come una trasparente nota pedagogica intrisa di sconforto per l’innata debolezza del genere umano. In realtà si tratta di una delle considerazioni più sconfortate dell’antropologia manzoniana, e di una riflessione meditata e disperata sulla responsabilità che ogni uomo ha verso il suo proprio destino: È una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine, ricorra ad essa. Se al passato c’è rimedio, essa lo prescrive, lo somministra, dà lume e vigore per metterlo in opera, a qualunque costo; se non c’è, essa dà il modo di far realmente e in effetto, ciò che si dice in proverbio, di necessita virtù. Insegna a continuare con sapienza ciò ch’è stato intrapreso per leggerezza; piega l’animo ad abbracciar con propensione ciò che è stato imposto dalla prepotenza, e dà a una scelta che fu temeraria, ma che è irrevocabile, tutta la santità, tutta la saviezza, diciamolo pur francamente, tutte le gioie della vocazione. È una strada così fatta che, da qualunque laberinto, da qualunque precipizio, l’uomo capiti ad essa, e vi faccia un passo, può d’allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia, e arrivar lietamente a un lieto fine. […] Ma l’infelice si dibatteva in vece sotto il giogo, e così ne sentiva più forte il peso e le scosse. Un rammarico incessante della libertà perduta, l’abborrimento dello stato presente, un vagar faticoso dietro a desidèri che non sarebbero mai soddisfatti, tali erano le principali occupazioni dell’animo suo.9
In apparenza ci sono tutti gli ingredienti di una meschina pastorale della remissività e della rinuncia. Nulla di più sbagliato. Manzoni ammette che il ricovero offerto dalla fede è tutt’altro che onnipotente (non può cambiare il passato, perché non è detto che a questo ci sia «rimedio»), non può impedire che una «prepotenza», o una «leggerezza», sia «irrevocabile». Con sconsolato realismo Manzoni è interessato alla partita che si apre tra il singolo e le sue responsabilità. Pur nella irriducibile presenza del male, all’uomo si apre un margine di manovra per fare della propria vita un destino non fatale. La fede, e quindi dietro di essa la Provvidenza, possono riscattare quel passato in una prospettiva futura di speranza di «santità», «saviezza», «gioie della vocazione». Manzoni non vede nella fede la distruzione del labirinto maligno che è la vita degli uomini, che vi si aggirano guidati dalle proprie passioni, piuttosto la fede può diventare l’unica via che conduce fuori dal «laberinto». Lasciarselo alle spalle, non cancellarlo. Questo è il percorso che sceglie Ludovico, ma non Gertrude. E il motivo per cui non lo sceglie non è tanto la mancanza di fede, che certo non c’è, come non c’era prima neppure in Ludovico, ma
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A. Manzoni, I Promessi Sposi, Milano, Mondadori 2002, cap. X, p. 207. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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l’incapacità di risolvere il conflitto con il padre. In altre parole, la resa di Gertrude non è la semplice monacazione, ma l’adeguarsi alla legge di violenza incarnata dal padre. Da questo punto di vista, la resa di Gertrude è completa e la porta a esperire già in terra una pena infernale: non uscirà mai dall’orizzonte del conflitto familiare. Il caos di quel labirinto è appunto la legge del padre. Accettarla significa condannarsi eternamente al labirinto rifiutando qualunque via d’uscita. Questa conclusione appare chiara se si pensa che, dopo la monacazione, Gertrude non riceverà alcun sollievo dalla vita claustrale. Nemmeno quella solitudine lontana dalla violenza paterna che, nel periodo della reclusione nella casa paterna, aveva ad un certo punto desiderato ardentemente, verrà a consolarla. Per tutta la vita rimarrà speculare al padre: Gertrude sarà sempre ciò che il padre avrà voluto fare di lei. La sua sconfitta consiste nella vittoria, senza limiti e ombre, della legge del padre. Per tutta la vita Gertrude sarà la figlia che suo padre volle fare monaca. E per tutta la vita da monaca non farà altro che replicare, non mediato e non compreso, in modo meccanico e speculare, il modo di coniugare legge e desiderio che ha appreso dal padre: intolleranza, superbia, sensualità, ira. I tratti del potere paterno saranno per sempre i suoi tratti. 5. Manzoni: Dio padre e la nuova famiglia Fra’ Cristoforo e Gertrude rappresentano nel corso del romanzo due figure genitoriali sostitutive per Renzo e Lucia. Mentre Ludovico rappresenta un modello positivo di figura genitoriale, Gertrude ovviamente non lo è. La monaca è il ritratto della cattiva madre, della legge perversa che non è in grado di insegnare nessuna attiva mediazione con il desiderio. L’altra figura paterna elettiva che Renzo e Lucia incontrano nel romanzo è quella del cardinale Borromeo, che in questa sede lascio sullo sfondo per motivi di spazio. Mi limito a notare che, come nel caso di Cristoforo, Borromeo è la figura del padre ideale, corretta immagine della mediazione attiva tra legge e desiderio, e lo è nella misura in cui a sua volta rappresenta una paternità surrogata. In altre parole, Cristoforo e Borromeo sono due padri elettivi che svolgono la loro funzione come testimonianza della legge del vero padre (Dio) e mediatori (cioè vive incarnazioni), verso gli uomini, della legge di un Dio trascendente. Anch’essi, per un certo verso, sono delle figure sostitutive perché la loro funzione è quella di rappresentare il vero Padre sulla terra. I padri terreni, soprattutto quando sono esempi positivi e degni mediatori della Legge, sono nell’ottica di Manzoni sempre depositari di una Legge che viene dall’altro, da Dio-padre. In altre parole, i padri terreni positivi sono sempre figli che hanno appreso la lezione vera dall’unico Padre. E che l’accento cada sul carattere vivo e terreno di queste incarnazioni, senza ipostasi ingombranti della Legge (quale sarebbe stata la Chiesa come istituzione in generale) è provato dal fatto che essi non sono – anche Borromeo a suo modo – esenti da limiti e dubbi che il vero Padre invece non può avere. Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
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Andiamo alla fine del romanzo, e cerchiamo di osservare la nuova cellula familiare creata da Renzo e Lucia. Il dialogo10 tra il padre e la madre non più giovanifigli orfani è noto. La battuta di Lucia («e io […] cosa volete che abbia imparato?») mette la sordina al «moralista» Renzo, e incrina la solidità della legge paterna che vorrebbe mostrarsi senza crepe nelle parole del neo-padre. L’effetto di quella domanda è portare Renzo a riconoscere i limiti di una legge ricavata unicamente dall’esperienza umana e terrena («ho imparato… ho imparato… ho imparato»). Sul male la legge umana non ha una presa assoluta, e la pretesa di Renzo, molto umana e tipicamente paterna, di offrire un modello di comportamento netto e solido che non preveda eccezioni è costretta a ritirarsi. Una volta verificatosi ciò, la legge corre il rischio di perdere la sua prerogativa essenziale: l’assolutezza incontrovertibile. Nell’incrinarsi della legge paterna umana, tuttavia, come già era accaduto a Ludovico-Cristoforo, non si assiste adesso allo sciogliersi del vincolo familiare, e non si arriva neppure alla constatazione pessimistica che sia impossibile qualunque forma di solidarietà interpersonale. La famiglia qui non rappresenta altro che lo stringersi degli uomini in un vincolo giuridico, esteriore ma non vuoto, di solidarietà contro le avversità, e il vincolo familiare è metafora di questo più ampio legame, oltre ad esserne, in questa logica, il primo costituente. Lucia spinge Renzo a riconoscere che la sua paternità, e la legge che egli incarna dinanzi ai nuovi figli, può presentarsi come una realistica e positiva mediazione del desiderio indirizzato al bene solo se è disposta a riconoscere che questa sua funzione è esercitata in nome di un Padre più grande e non terreno. Conclusione esattamente opposta, e non poteva essere diversamente, a quella raggiunta da Foscolo nell’Ortis. 6. Nievo: desiderio e famiglia Nel romanzo in cui il discorso familiare dovrebbe essere presente con maggiore evidenza, ci imbattiamo invece nelle soluzioni più deboli. Sembra quasi che, proprio quando l’urgenza dell’agenda storica risorgimentale avrebbe dovuto imporre centralità al nostro tema, la spirale tra discorso familiare e discorso risorgimentale si affievolisca. Carlino, come Jacopo e Renzo, è un orfano gettato nella storia. E non in un tempo qualunque, ma nel tempo della rivoluzione. Questo tempo, che è chiaramente per Foscolo e Nievo il tempo della grande Rivoluzione e dell’epopea napoleonica in Italia e in Europa, è tempo accelerato che sottopone improvvisamente tutti i legami a rapidi e infrenabili mutamenti. Lo stesso narratore nota, ricordando ormai vecchio quegli anni, come l’orologio della storia a volte inizi improvvisamente a correre all’impazzata, producendo eventi che in altre età avreb-
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Ivi, cap. XXXVIII. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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bero coinvolto numerose generazioni e non una sola.11 Il tempo rivoluzionario ha effetti mirabili sulla configurazione familiare di partenza di Carlino Altoviti: orfano di padre e madre, cresciuto come un servo nel castello dei parenti Conti di Fratta, presto è costretto a muoversi come può nel vuoto di una figura paterna di riferimento. Il meccanismo che entra allora in azione è quello già notato in Foscolo e Manzoni: la ricerca di una degna figura sostitutiva, quella del padre elettivo. A differenza di Ortis e dei personaggi manzoniani, tuttavia, Carlino non trova nessuna figura adeguata e definitiva, e si rende ben presto conto che i tempi in cui vive lo costringono ad abbandonare questa ricerca, in cui del resto non si impegna mai più di tanto, per tentare alla fine di farsi padre di se stesso. Neppure il padre biologico, mercante del quale per decenni si erano perse le tracce dentro i misteriosi domini dell’impero turco, sfugge a questo schema. Carlino lo reincontra ormai adulto, e nonostante la differenza di temperamento tra i due, il legame è rapido, sincero, aperto. Tra i due però rimane un fondo inespresso di incomunicabilità, che né Carlino né il padre riescono a superare: nessun vero dialogo è possibile, e nessuna eredità esemplare quel padre ha per il figlio. Al sentimento patriottico di Carlo, infatti, il padre risponde con una lezione di Realpolitik. Il padre di Carlo si rivela tagliato fuori dal tempo rivoluzionario: non capisce che il suo desiderio di ricchezza e potere non è quello del figlio, e quando tenta di trasmetterglielo misurandosi con il nuovo tempo rivoluzionario fallisce miseramente. La conclusione è che Carlino surroga la figura paterna nella propria stessa persona. È il meccanismo della scrittura autobiografica che permette questa dissociazione all’interno di un unico personaggio. Sin dall’inizio l’ottuagenario si pone come un padre che ricorda amorevolmente la propria vita passata, non senza lesinare però tirate autocritiche alla sventatezza del giovane Carlino. La vita passata del giovane Carlino appare come quella di un giovane se stesso, di un figlio del proprio tempo che, nel misurarsi con gli imprevisti di un tempo rivoluzionario, ha dovuto imparare da sé educandosi direttamente alla scuola della vita. Si è trasformato insomma nel padre di se stesso, e la finzione autobiografica assunta da Nievo produce questo singolare effetto: nonostante Carlo alla fine abbia avuto una vita familiare adulta feconda di figli e affetti, muore solo, in una solitudine reale che è appena mitigata dalla presenza della sua unica figlia femmina e dei nipoti. L’effetto è paradossale perché il ricordo di una vita veramente romanzesca non conferisce alla biografia di Carlo, se osservata dal punto di vista finale del vecchio autobiografo, una vera compiutezza. Il carattere unico del caso di Carlo rispetto ai giovani-figli degli altri romanzi presi in considerazione ha in sé una forte matrice stendhaliana, nonostante il modello riconosciuto e amato da Nievo fosse quello del Tristram Shandy di Sterne. Come i personaggi dei capolavori di Stendhal, Carlo è
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I. Nievo, Le confessioni d’un italiano, Milano, Rizzoli 2011, cap. XVIII, p. 793.
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un giovane che viene letteralmente espulso da un’età storica che fa appena in tempo a partorirlo prima di morire (il lungo settecento ancien regime della Repubblica veneziana). Egli è abbandonato in un’età in cui l’esperienza della modernità è innanzi tutto quella dell’essere giovani in un tempo in cui i padri non hanno, e non possono avere, nessuna autorità e non possono a maggior ragione trasmettere nessuna eredità spendibile nel nuovo tempo storico. Da questo punto di vista, la solitudine familiare di Carlino incarna bene questa percezione della modernità introdotta dalla frattura del 1789: la rottura definitiva del legame organico tra due generazioni, quella dei padri e quella dei figli. Il giovane Carlino padre a sé stesso si trova ben presto alla congiunzione tra due universi familiari, uno reale e giuridicamente sancito dal matrimonio, l’altro rincorso per tutta la vita e sempre presente, ma mai fissato a norma di codice civile. Il primo è il matrimonio con una giovane donna di Fratta, l’Aquilina, il secondo è il legame d’amore con la Pisana, che attraversa l’intero romanzo. Nel primo caso Carlo riesce in effetti a dar vita ad un nuovo tipo di legame familiare: un rapporto di devozione tra coniugi, in cui lealtà, onestà, rispetto dei doveri familiari sono superiori, per importanza e per energie sacrificate loro, allo stesso legame affettivo tra gli sposi. Si può immaginare che questo tipo di legame familiare, essenzialmente borghese, rappresenti davvero una nuova proposta per l’Italia a venire. Nulla di più sbagliato. Innanzi tutto il matrimonio con Aquilina nasce sotto il segno romantico del sacrificio dell’amore per la Pisana, ed è da questa stessa chiesto e imposto a Carlo in una singolare prova d’amore, e sin dall’inizio si presenta quindi con i colori della tenera ma grigia prosa quotidiana rispetto all’altro, quasi una sorta di volontario suicidio della giovinezza. Solo che questo suicidio non accade nel nome di una maturità conquistata autonomamente dal soggetto, ma per sottostare ad una prova richiesta dall’unica donna amata davvero da Carlo, la Pisana appunto. Il vero amore di Carlo è tale perché bloccato per tutta la sua esistenza terrena dentro l’orizzonte del desiderio romantico. Solo dentro questa regione sempre attraversata ma mai conquistata del tutto, il narratore può immaginare che un amore sia capace di conservarsi tale. L’amore per la Pisana è costante, puro, vero perché continuamente riscaldato dal desiderio che sa di non poterlo mai mediare compiutamente con la realtà. La conclusione del romanzo è emblematica, e cancella di colpo la famiglia reale di Carlo e quindi la mostra vana, frutto di una solo ipotetica matura mediazione del desiderio con la realtà: «Per te per te sola, o divina, il cuore dimentica ogni suo affanno, e una dolce malinconia suscitata dalla speranza lo occupa soavemente».12 Conclusione ben strana per un vegliardo che afferma ad ogni passo che le gioie
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Ivi, cap. XXIII, p. 1098. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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della vecchiaia sono la pace e la serenità che portano alla «tranquillità dell’anima […] imperturbata». Troppo desiderio, e nessuna mediazione. Il desiderio di una vita, proprio mentre si offre di sé agli altri la maschera dello stoico imperturbabile, rispunta improvvisamente. L’unico principio che ha sorretto quell’esistenza, l’unico filo che ha dato un senso alle labirintiche vicende della vita di Carlino è stato l’amore per la Pisana. La luce di pace e serena gioia che illumina l’ultima pagina del romanzo non ha nulla di stoico, né, per fare un esempio più vicino nel tempo, di tolstojano: nessuna serena accettazione del corso della natura in cui la propria singola vita sembra naturalmente inserirsi attraverso la morte, così riscattata come parte del ciclo eterno dell’esistenza. Nulla di questo. Il desiderio di Carlino, privo di qualsiasi figura paterna che gli abbia insegnato a mediare desiderio e realtà, alla fine risorge immutato ed eterno proprio perché ha eluso per intero quel conflitto. E anche il progetto di autoeducazione attraverso il conflitto drammatico con le vicende della storia, questa sorta di auto-paternità rappresentata dalla stessa scrittura autobiografica, si rivela fallimentare. Quella dell’ottuagenario, alla fine, non è che una maschera sotto la quale sorride il ceffo pieno di vita del giovane Carlino. Questa luce è quella radiosa dell’alba dell’esistenza, il desiderio d’amore nutrito per la prima volta per la piccola Pisana. Si fatica in questo desiderio a vedere la luce meno fervida di promesse perché illumina tutto senza incertezze, quella maturità che Carlino non ha mai raggiunto, per finire col dimettersi proprio alla fine del romanzo dal ruolo di padre per tornare il giovane Carlino del castello di Fratta.
Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
PATRIZIA D’ARRIGO Un falegname, una fatina e un burattino: un modello familiare per la nuova Italia
Cent’anni, una fama estesa a tutto il pianeta e a tutti gli idiomi, la capacità di sopravvivere indenne ai mutamenti del gusto, delle mode, del linguaggio, del costume senza mai conoscere periodi d’eclisse e d’oblio.1
Così Italo Calvino riassume la fama del Pinocchio nel 1981, anno del centenario dall’inizio della pubblicazione dell’opera sul Giornale dei bambini. Sono passati trent’anni e l’analisi di Calvino è ancora attuale. Carmelo Bene fino al 1999 ha continuato a lavorare sul Pinocchio a teatro, per la televisione e la radio. Roberto Benigni nel 2002 ha prodotto e interpretato un celebre e costosissimo Pinocchio. Le pay-tv continuano a mandare in onda cartoni animati il cui protagonista è il burattino di legno. La Disney nel 2009, per festeggiare il settantesimo anniversario della celebre pellicola del 1940, ha restaurato il film e distribuito in dvd e Blu-ray disc un’edizione speciale. Nelle librerie è possibile reperire le più varie edizioni, illustrate e non, della storia del burattino. Nonostante i suoi centotrenta anni, Pinocchio è un’opera vitalissima e amatissima, capace di sopportare attualizzazioni e interpretazioni, senza mai perdere la propria originalità. E rimanendo sempre, insieme alla Divina Commedia di Dante e al Principe di Machiavelli, il libro italiano più letto e tradotto al mondo. Questo mirifico libro per ragazzi si è imposto da solo, al di là delle valutazioni letterarie del tempo, e, dal 1883, anno della pubblicazione in volume col titolo Le avventure di Pinocchio, ha segnato e determinato l’immaginario e le fantasie di milioni di persone nel mondo. È evidente che Pinocchio è molto più che un libro per ragazzi, del quale, del resto, ha la leggerezza, l’inventiva, la fantasia, l’incanto. Sulla base
1 I. Calvino, Ma Collodi non esiste, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M Berenghi, Milano, Mondadori 2007, tomo I, p. 801.
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Patrizia D’Arrigo
di questi elementi mi è sembrato quasi naturale, negli anni passati, pensare di lavorare sul Pinocchio al biennio, esattamente come si lavora sui Promessi sposi. Se quest’ultimo, infatti, è un romanzo fondamentale per capire la letteratura italiana dall’Ottocento in poi, col Pinocchio si fa leva su un immaginario consolidato, sulla capacità narrativa, sulla fantasia, sul desiderio di ribellione degli studenti. Legare il Pinocchio ai Promessi sposi consente, inoltre, al biennio, ma ancora meglio al triennio, di delineare un percorso di grande interesse e che può essere seguito fino ai nostri giorni (penso a La coscienza di Zeno, a I vecchi e i giovani, a Il barone rampante, a Lessico famigliare, etc). Il percorso parla di italiani alla ricerca di padri e della definizione di un modello familiare, a partire dall’inizio dell’Ottocento, con Le ultime lettere di Jacopo Ortis, passando attraverso I Promessi sposi e Le confessioni di un italiano fino ad arrivare al Pinocchio e a I Malavoglia. Soluzioni problematiche, diverse, complesse per un’Italia ancora da fare, o che si è fatta da poco, e per italiani che cercano punti di riferimento forti che a livello sociale e politico non hanno mai avuto. Padri naturali, padri politici, padri d’elezione, mortali ed eterni. Ma soprattutto padri letterari, da Dante a Parini, gli unici che siano talmente forti da dare il senso della continuità, della tradizione, dell’identità a una nazione in fieri. Tanti padri inadeguati compaiono nell’Ortis, che si conclude col finale rinnegamento del Padre per antonomasia, Dio. Nei Promessi sposi ci sono padri che incarnano il bene e padri che incarnano il male. Ma c’è anche una famiglia che, nell’ottica di Manzoni, è un modello possibile nella società dell’Ottocento, perché si pone come una sorta di argine contro l’ineludibile male che domina la realtà, come unica possibile cellula di resistenza, a patto però che il grande padre rinnegato nell’Ortis, Dio, venga riconosciuto nel suo valore consolatorio e fondativo. L’assenza di padri, biologici o sostitutivi, che medino il desiderio e accompagnino verso la realtà emerge ne Le confessioni di un italiano, in cui Carlino crea la sua famiglia borghese con Aquilina sacrificando l’amore per la Pisana. Pinocchio è altro. Un libro per ragazzi, dal particolare, ma mai bieco, intento pedagogico che presenta una complessità e, contemporaneamente, una leggerezza sconosciuta ad altri libri di stampo pedagogico che abbiano un valore formativo per i giovani della nuova Italia (mi riferisco a Cuore, chiaramente). Fra figure fantastiche, avventure, incongruenze e contraddizioni, pedagogismo e cinismo, anche Pinocchio cerca un padre. E lo cerca fuggendo da lui. Nella fuga troverà una madre. «Ti mando questa bambinata, fanne quel che ti pare; ma, se la stampi, pagamela bene per farmi venir la voglia di seguitarla».2 Sembra quasi che il padre letterario di Pinocchio, Collodi, abbia della sua creazione un po’ di quella incoscienza che Geppetto ha inizialmente nel creare Pinocchio.
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G. Biagi, Il babbo di ‘Pinocchio’: Carlo Collodi, Firenze, Passatisti 1923, pp. 89-114. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
Un falegname, una fatina e un burattino
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Quello che a noi interessa mettere in luce in questa sede è la configurazione familiare che emerge dalla storia del burattino. Configurazione che è subito chiara. Per quanto il padre Geppetto e la madre fatina non si incontrino mai (qualcuno ha parlato di una famiglia di separati ante litteram3), sono due figure di riferimento fondamentali per Pinocchio, ben tratteggiate e con ruoli diversi. Geppetto è un padre demiurgo. Crea dal legno informe Pinocchio. Lo fa principalmente per realizzare un suo desiderio, che non è nella fase iniziale desiderio di paternità. Geppetto vuole costruire un bel burattino di legno; ma un burattino meraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchiere di vino.4
L’atto generativo, come sempre (anche nel Collodi autore), non è del tutto consapevole. Ha un po’ di quella incoscienza che caratterizza ogni concepimento. Ma poiché il legno di cui Pinocchio è fatto è magico ed è in attesa di realizzare il suo destino, il burattino sarà meraviglioso davvero. Un burattino vivo e dispettoso, capace di far salti mortali. Geppetto si pente subito di aver creato Pinocchio. L’atto generativo, tuttavia, una volta compiuto è ineludibile. La genitorialità di Geppetto è complessa, tormentata e sofferta. Il rapporto fra padre e figlio è caratterizzato dallo scarto e dallo scontro generazionale. Birba d’un figliuolo! Non sei ancora finito di fare, e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male!5 Me lo merito! – disse allora fra sé – Dovevo pensarci prima! Oramai è tardi!6 – Sciagurato figliuolo! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino per bene! Mi sta il dovere! Dovevo pensarci prima!…7
Geppetto è un padre tradizionale, fin dall’inizio. Vuole imporre legge e ordine a Pinocchio, che vive, invece, nella dimensione del fantastico, dell’infanzia, del desiderio sfrenato. Il burattino ribelle non può che fuggire immediatamente da questo padre-legge. Infatti non appena Geppetto gli insegna a camminare, Pinocchio scappa correndo a più non posso (in realtà il burattino corre per tutto il racconto). A fermare la sua prima fuga dall’ordine paterno è un rappresentante della legge, il
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M. Marazzi, Il destino di Pinocchio fra formazione e metamorfosi, in Leggere l’adolescenza, a cura di B. Peroni, Milano, Edizioni Unicopli 2008, p. 248. 4 C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, Torino, Einaudi 2002, cap. II, p. 7. 5 Ivi, cap. III, p. 10. 6 Ivi, cap. III, p. 11. 7 Ivi, cap. III, p. 12. Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
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carabiniere, che prima lo restituisce al padre, ma poi, inspiegabilmente, arresta Geppetto. Per la prima volta Pinocchio è davvero libero. E torna a casa dove incontra il primo personaggio fantastico, il primo animale parlante, cioè il Grillo. Durante l’incontro col Grillo parlante, che gli impartisce le sue sagge quanto noiose e indisponenti lezioni di vita (nella rappresentazione scenica, Bene nella veste di Pinocchio si tappa le orecchie mentre il grillo parla) e prima di ucciderlo con un martello di legno, Pinocchio dice chiaramente qual è il suo desiderio. -Vuoi che te lo dica? – replicò Pinocchio, che cominciava a perdere la pazienza – fra i mestieri del mondo non ce n’è che uno solo che veramente mi vada a genio. -E questo mestiere sarebbe? -Quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo.8
Geppetto, rilasciato dai carabinieri, torna a casa. Come un buon padre, fa sacrifici, nutre il figlio, gli impartisce lezioni di moralità e di buon comportamento, vende la giacca per comprargli l’Abbecedario. Ma Pinocchio nonostante i buoni propositi si distrae dal suo dovere, fa altro, fa quello che gli piace fare. Dal IX capitolo inizia il suo vagabondaggio nel mondo, inizia l’esplorazione del desiderio in perfetta solitudine. Il primo atto della sua esplorazione è il rifiuto della scuola e l’ingresso nel Gran Teatro dei Burattini. All’interno del quadro di analisi lacaniano offerto da Massimo Recalcati in un recente lavoro9 sul senso della paternità nell’epoca ipermoderna, Geppetto è un padre-legge che di fatto non ha l’autorità per educare il figlio (e dunque si risolve in un padre castrato). Pinocchio dal canto suo si muove all’interno della dialettica appartenenza-erranza, sviluppando in modo chiaro il giusto conflitto generazionale. Per accogliere la tradizione e l’eredità del padre Pinocchio deve negarlo, allontanarsene e seguire un desiderio che sia solo suo. Infatti Geppetto scompare dal IX capitolo in poi per ricomparire al XXXV, diventa un personaggio in absentia. Pinocchio entra cioè nella fase di erranza e di rifiuto del padre-legge, per darsi al desiderio sfrenato. Tuttavia il desiderio senza legge è quanto di più distruttivo possa esserci. Pinocchio non fa che passare da un guaio a un altro. Ed è certamente la fase più divertente delle sue avventure. Nella sua erranza Pinocchio non è solo. O meglio, lo è fino al xv capitolo, quando incontra la morte, quando per la prima volta, cioè, vive una situazione estrema. La prima figura femminile umana che Pinocchio incontra è una figura incantata. E all’inizio è anche morta, o almeno dice di esserlo. Pinocchio, in fuga
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Ivi, cap. IV, p. 14. M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Milano, Raffaello Cortina Editore 2011. 9
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dagli assassini (come al solito corre), giunge davanti ad una tetra casina bianca. Bussa forsennatamente chiedendo aiuto. Si affaccia una bimba: Allora si affacciò alla finestra una bella bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale, senza muovere punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo: – In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti. – Aprimi almeno tu! – gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi. – Sono morta anch’io. – Morta? E allora cosa fai costì alla finestra? – Aspetto la bara che venga a portarmi via. Appena detto così, la Bambina disparve, e la finestra si richiuse senza far rumore.10
La Bambina dai capelli turchini non lo aiuta. Gli fa toccare il fondo, da solo, gli fa sfiorare la morte. E quando sembra morto, come lei a sua volta diceva di essere, quando giungono cioè ad una situazione di parità assoluta (due bambini morti), la Bambina (che si scopre essere una buonissima fata), ha pietà di Pinocchio. Da qui inizia il rapporto fra i due. Inizialmente si tratta di un rapporto alla pari, da bambino a bambina. La fata vuole essere la sorellina di Pinocchio, ma lo instrada subito verso il controllo del desiderio attraverso la legge e attraverso il principio di realtà. Lo mette cioè di fronte alle reali conseguenze delle sue azioni (ad esempio la bara portata dai conigli neri quando Pinocchio non vuole prendere la medicina). Lo guida, cioè, all’acquisizione dell’ordine, cosa che Geppetto non era stato in grado di fare. Si configura all’inizio una famiglia senza madre e col padre assente. Nonostante questa parvenza di famiglia, Pinocchio continua a fuggire e continua a cacciarsi in terribili guai. Insensatamente si fa ingannare ancora dal Gatto e dalla Volpe, viene messo in prigione dal giudice gorilla, è costretto a fare il cane da guardia. Poi nell’isola delle Api industriose (cap. XXV), ritrova la fata che non è più una bimba, ma una donna. È cresciuta, forse anche attraverso il rapporto con Pinocchio. Morta la bambina (Pinocchio trova la sua lapide al posto della casa nel cap. XXIII) nasce la madre. Infatti la fata si propone a Pinocchio come madre, di cui lui ha un enorme bisogno e che accoglie entusiasticamente. Nonostante le buone intenzioni, Pinocchio fuggirà altre due volte dalla sua buona mamma, dovrà superare prove difficili, metamorfosi, pericoli. La madre con durezza, ma con grande dolcezza è sempre lì a guidarlo e a perdonarlo per i suoi errori, per le promesse tradite, per le fughe, per gli abbandoni. Gli consente cioè di attuare in modo sano il conflitto generazionale e l’erranza dal nucleo famigliare, che porterà Pinocchio al controllo di sé, alla rinuncia all’infanzia, a diventare un bambino vero. Geppetto fallisce come padre, perché cerca di imporre a Pinocchio un’etica,
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C. Collodi, Le avventure di Pinocchio cit., cap. XV, pp. 51-52.
Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
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una legge superiore che il figlio non sente interiormente, ma che viene dall’esterno. Una violenza che Pinocchio, spirito libero e ribelle, guidato dal desiderio sfrenato non può che rifiutare. Il lavoro della fatina madre è invece molto più accorto. Costruisce e rinsalda la morale interna di Pinocchio, che di base ha buon cuore,11 per farlo, solo dopo e autonomamente, approdare all’accettazione attiva dell’etica, della legge come ordine superiore ed esterno, che controlla e rende sano il desiderio. Lo guida, dunque, ad una interiorizzazione della legge. Molte delle avventure di Pinocchio nascono perché lui cerca il padre. Quando finalmente lo ritroverà, nella pancia del pescecane, i ruoli saranno invertiti. Pinocchio lo salva, lo conduce a nuoto fino alla riva, trova una casetta e inizia a lavorare e a prendersi cura di lui. Pinocchio diventa la figura paterna. Diventa quel padre che Geppetto non è riuscito ad essere. Diventa, in qualche modo, migliore del padre. Senza la figura del padre, tuttavia, non è dato ordine, né interiorizzazione della legge. Pinocchio diventa un bimbo vero quando dentro di lui ha fuso morale ed etica. Quando si è talmente allontanato dal padre, pur cercandolo, da poter riaccogliere la sua eredità morale. La scelta di Pinocchio è veicolata dall’altissimo ruolo educativo della fatina-madre, ma è una scelta spontanea. Pinocchio decide autonomamente di lavorare, di cambiare vita. Non ci sono più promesse verbali, né buoni propositi. C’è solo la necessità, la responsabilizzazione di Pinocchio. Il padre rimane nei desideri e nelle parole di Pinocchio, per tutto il romanzo. Quando è in pericolo pensa al padre che non c’è, ma è la fatina madre a essere presente nelle forme più disparate. Essa è la figura certamente più solida del racconto e svolge in modo estremamente consapevole il ruolo che la donna ha nella famiglia italiana dell’Ottocento, cioè educare i figli. Questo ruolo assume una centralità e una vitalità nuova, forse proprio dal confronto con l’inadeguatezza del padre ad assumere responsabilmente un ruolo educativo. I padri dei romanzi italiani dell’Ottocento presi in analisi sono quasi sempre padri inadeguati, come anche Geppetto. Ma Geppetto è una figura che alla fine viene recuperata, nell’idea appunto che senza padre non è dato ordine. Nel Pinocchio si fonda e si delinea una nuova idea di famiglia, non tradizionale perché il modello operante, probabilmente, non era sentito come solido. Tuttavia una famiglia in cui ogni componente assolve il suo ruolo nella crescita di Pinocchio che giungerà ad introiettare l’etica del sacrificio e del lavoro, rinunciando volontariamente al mondo dell’infanzia ed entrando dolorosamente nel mondo degli adulti. Pinocchio non esiste, vuole. Il bambino è onnipotente, vuole tutto, pesta i piedi, fa i
11 «La sincerità del tuo dolore mi fece conoscere che tu avevi il cuore buono: e dai ragazzi buoni di cuore, anche se sono un po’ monelli e avvezzati male, c’è sempre da sperar qualcosa: ossia c’è sempre da sperare che rientrino sulla vera strada. Ecco perché sono venuta a cercarti fin qui. Io sarò la tua mamma», C. Collodi, Le avventure di Pinocchio cit., cap. XXV, p. 96.
XII. La letteratura degli Italiani a scuola
Un falegname, una fatina e un burattino
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capricci. Questo è il bambino: l’erotismo, l’amore, il senso indefinito, il tutto dell’infanzia. Dopo cominciano i guai, comincia l’imputridimento.
Con queste parole Carmelo Bene definiva, durante una breve intervista, la figura di Pinocchio, da lui amatissima e messa in scena diverse volte a partire dal 1961. Un Pinocchio raffinatissimo quello di Bene che portava il titolo: Pinocchio ovvero lo spettacolo della Provvidenza. Titolo straniante, invero, e che, a ben guardare, ci fornisce una conferma del ruolo forte della fatina, negato da Asor Rosa nel suo saggio su Pinocchio.12 La Provvidenza nel Pinocchio di Bene non è la Provvidenza manzonianamente intesa, ma si incarna nella figura della fata, che secondo Bene, muove i fili della vicenda. Poi, dell’uscita dal mondo dell’infanzia di Pinocchio Bene coglie in modo radicale la malinconia che ogni lettore coglie alla fine della storia. L’inizio della vita vera di Pinocchio è anche la fine della fantasia. Un’ultima riflessione sul rapporto col mondo del lavoro mi sembra doverosa. Si è molto parlato del rapporto fra Pinocchio e ‘Ntoni, il figlio ribelle, ma velleitario, de I Malavoglia. In Pinocchio approdare al lavoro, in ogni sua forma anche la più umile, vuol dire ritornare all’ordine, vuol dire accettare la legge nella sua ineludibilità, e vuol dire crescere, rinunciare all’infanzia e smettere di ridere e divertirsi. Ma è un prezzo necessario. Il conflitto generazionale in Pinocchio non veicola il conflitto sociale che si concretizza nel mondo del lavoro. Il riscatto non nasce da un miglioramento dello status lavorativo, da uno scatto sociale. Il riscatto in Pinocchio nasce dall’accettazione dell’ordine e dalla semplice accettazione del lavoro in ogni sua forma. In ‘Ntoni, invece i conflitti familiari sono metafora di conflitti sociali, lui vorrebbe essere di più attraverso l’avere di più; sente , in senso sociale, l’ingiustizia dello sfruttamento del lavoro. Ma non può realizzare lo scatto sociale, appunto perché il suo essere è velleitario. Pinocchio quello scatto lo realizza passando attraverso ciò da cui ‘Ntoni non voleva passare: Io non voglio vivere come un cane alla catena, come l’asino di compare Alfio, o come un mulo da bindolo, sempre a girar la ruota; io non voglio morir di fame in un cantuccio, o finire in bocca ai pescicani.13
‘Ntoni cioè non vuole vivere nessuna delle esperienze umilianti vissute da Pinocchio. Ma non passare attraverso queste esperienze fa di ‘Ntoni un vinto, passare attraverso i lavori più umili e degradanti fa di Pinocchio un bimbo in carne e ossa, cioè un uomo. E determina, alla fine dei conti, anche un riscatto sociale: Pinocchio avrà una casetta nuova, pulita e ordinata, vestiti nuovi e puliti. La fatina,
12 A. Asor Rosa, Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino di Carlo Collodi, in Letteratura italiana, Torino, Einaudi 1995, vol. 13, pp. 417-518. 13 G. Verga, I Malavoglia, a cura di R. Luperini, Milano, Mondadori 1998, p. 215.
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dopo un ultimo bacio e poche dolci parole, sparisce per sempre in un sogno; Geppetto ignaro di tutto (o forse fin troppo consapevole) continua a fare i suoi lavoretti e mostra a Pinocchio il burattino senza vita. I libri da inserire nel nostro percorso (Le ultime lettere di Jacopo Ortis, I promessi sposi, Le confessioni di un italiano e Pinocchio. Le avventure di un burattino, I Malavoglia) puntano l’attenzione non sui padri, ma sui figli. La nuova Italia forse più che di una famiglia, la cui struttura appare sempre più complessa, ha bisogno del lavoro di tutti e di ruoli educativi forti che conducano le nuove generazioni a rendere solida la struttura sociale ed economica del paese. Pinocchio è certamente il meraviglioso, per quanto triste, punto d’approdo di un secolo di figli ribelli, spaesati e cercatori, e di padri inadeguati e perversi.
XII. La letteratura degli Italiani a scuola
PAOLA LIBERALE Gli Italiani della letteratura. Autobiografismo e Italiani ideali nella letteratura del Novecento
Saranno i personaggi con spiccate caratteristiche di italianità? saranno i caratteri italiani che si ritrovano nei personaggi di romanzi e poesie non solo italiani? saranno i resoconti di viaggio degli stranieri in Italia? Certo, tutte queste accezioni possono soddisfare alla definizione di “italiani della letteratura”, e quindi si impone una scelta: parlerò degli italiani che nella letteratura trovo “esemplari”, e in particolare di personaggi che compaiono in testi “autobiografici”, perché mi sono sempre piaciute le storie “vere” delle famiglie, delle persone, le saghe, che leggevo fin da bambina con una partecipazione estrema, un’immedesimazione assoluta e una assoluta fede nella verità della pagina scritta. Voglio proprio parlare dei libri che ho amato e di cui parlo volentieri agli studenti negli interstizi delle lezioni. Non mi è più possibile, colpevole la consapevolezza critica assunta con gli anni, abbandonarmi come un tempo al riso e alle lacrime, alla voracità della lettura che non lascia spazio per nient’altro, ma ancora mi commuovo quando parlo dei miei libri. Gli studenti pensano che sia pazzia tanto fervore per dei libri e si perdono quella esperienza dell’immersione in una bella storia. Non voglio qui discutere dei perché sia avvenuta una tale frattura tra giovani e letteratura, sappiamo tutti le molte risposte, che non ci servono per ricostruire i ponti. Proprio perché li ho amati e li amo, proprio perché ho amato i loro autori in una «confusione tra una persona e i suoi libri»,1 di questi autori, e dei loro libri, non so molto dal punto di vista critico, ma personaggi, situazioni, oggetti sono diventati così profondamente parte di me che potrebbero riemergere a un tratto con la forza non dei ricordi immaginari ma dei ricordi veri».2 È questa forza della letteratura che parla di te, che diventa la tua famiglia, che entra nei tuoi ricordi e ti
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C. Garboli, Prefazione a N. Ginzburg, Opere, Milano, Mondadori 1986, p. XIII. Ibidem.
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Paola Liberale
fa quello che sei, che spero di far trasparire quando parlo con gli studenti. Non è ortodosso, come metodo didattico, anzi è rischioso, ma per qualche libro, per qualche autore si può fare un’eccezione. All’interno della mia personale antologia, voglio presentare un percorso “didattico” che si incentra su figure ideali, ma vere, di italiani, che dovrebbero suscitare nei giovani interesse, curiosità e forse un sentimento di emulazione. I tempi presenti nella scuola sono privi di memoria, sono scorciati e appiattiti sull’attualità o sulla tecnica “utile”, mentre manca un disegno più generale e profondo di quel che l’Italia è e della storia che l’ha fatta, del futuro che sembra perduto, dato lo stato attuale di degrado politico, morale, economico. Leggere di giovani che in momenti ancor peggiori hanno avuto coraggio e generosità per tentare di cambiare le cose, che hanno creduto in idee forti e hanno messo a rischio la propria vita, il proprio quieto vivere per un futuro non solo loro ma di tutti, dovrebbe dare una speranza ai nostri studenti che il lavoro, lo studio, l’impegno politico, valgono ancora. E anche penso sia necessario ritrovare i legami con il passato che la nostra generazione ha spezzato più o meno consapevolmente: come Fenoglio ne La malora trova nel «passato modelli integri che sembravano scomparsi […] nel tentativo di dare un ritratto dell’identità dei cittadini della neonata Italia repubblicana […], facendo i conti col fascismo passato (e ancora presente) ma tornando anche più indietro del fascismo»,3 così nei ritratti letterari di quegli uomini che hanno costruito l’Italia dalle macerie del fascismo penso si possa ritrovare una nostra identità e modelli etici per le nostre azioni, un nuovo e vitale interesse per la politica e l’impegno civile. L’imprenditore anomalo e l’operaio “intellettuale” Ho letto Lessico famigliare che avevo 13 anni. Sulle prime lo confondevo con Piccole donne, con i libri di Brunella Gasperini, con Via col vento, con altri romanzi “per ragazzi”. Ma la storia di quella famiglia mi ha legato a continue riletture, mi ha fatto conoscere di volta in volta i tanti aspetti di una famiglia italiana dentro il fascismo e la guerra, mi ha indotto a cercare di saperne di più, di capire chi fossero i misteriosi personaggi “storici” come Turati, la Kulisciov, Pajetta, e Pavese, Leone Ginzburg, Adriano Olivetti: davvero degli italiani che dovrebbero essere ancora d’esempio per un Paese che ha smarrito la sua identità. Quanto alla politica, si facevano in casa nostra discussioni feroci, che finivano con sfuriate, tovaglioli buttati all’aria e porte sbattute con tanta violenza da far rintronare
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R. Bigazzi, Fenoglio, Roma, Salerno editrice 2011, pp. 90-91. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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la casa. Erano i primi anni del fascismo. Perché discutessero con tanta ferocia, mio padre e i miei fratelli, non so spiegarmelo, dato che, come io penso, erano tutti contro il fascismo; l’ho chiesto ai miei fratelli in tempi recenti, ma nessuno me l’ha saputo chiarire. Pure ricordavano tutti quelle liti feroci. Mi sembra che mio fratello Mario, per spirito di contraddizione verso i miei genitori, difendesse Mussolini in qualche maniera; e questo, certo, mandava in bestia mio padre […].4
Ci sono ancora famiglie in cui si discute di politica? o si discute su qualche argomento di interesse generale? Alberto ora aveva [come amici] Pajetta e Pestelli, suoi compagni di scuola […] Quanto a Pajetta, mentr’era ancora un ragazzetto in calzoni corti al ginnasio, fu arrestato perché diffondeva, tra i banchi di scuola, opuscoli contro il fascismo; e Alberto, che era tra i suoi amici più intimi, fu chiamato in questura e interrogato. Pajetta andò in carcere, in un riformatorio di minorenni; e mia madre, lusingata, disse a mio padre: – Vedi che te lo dicevo Beppino. Vedi che Alberto i suoi amici se li sceglie bene. Sono sempre più bravi e più seri di lui.5
Ora per fortuna non si va (di regola) in carcere per l’attività politica, ma i ragazzi la fanno, l’attività politica? Direi di no, anzi, considerano la politica una cosa vergognosa, truffaldina, e il loro massimo del rischio è una multa per guida senza casco in motorino. La figura di “italiano esemplare” che presenterei in classe è quella di Adriano Olivetti, che nel libro compare come marito della sorella maggiore dell’autrice, Paola. Adriano è compagno di leva del fratello Gino e veniva spesso a cena nella famiglia Levi: La divisa militare gli cadeva male sulle spalle, che erano grasse e tonde; e non ho mai visto una persona, in panni grigio-verdi e con pistola alla cintola, più goffa e meno marziale di lui […] Adriano, allora, sembrava l’incarnazione di quello che mio padre usava definire un “impiastro”; e tuttavia mio padre non disse mai di lui che era un impiastro, né un salame, né un negro […] e penso che forse mio padre aveva una maggiore penetrazione psicologica di quanto noi sospettassimo, e intravide, nelle spoglie di quel ragazzo impacciato, l’immagine dell’uomo che Adriano doveva diventare più tardi.6
Il suo ritratto continua con il ricordo della famiglia di industriali, ricchi, che avevano molte automobili, ma che erano di semplici abitudini, vestiti modestamente «e andavano in montagna con degli ski vecchi, come noi». Una famiglia del
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N. Ginzburg, Lessico famigliare, Torino, Einaudi 1963, p. 35. Ivi, pp. 70-71. 6 Ivi, p. 72. 5
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capitalismo italiano che ha saputo coniugare l’attività imprenditoriale con le idee del socialismo, con la solidarietà, con l’impegno culturale e sociale.7 La fabbrica di macchine da scrivere si trasformerà nel tempo in una delle prime industrie informatiche del mondo e verrà poi spazzata via dal mercato. In classe si potranno riprendere i temi dei rapporti tra letteratura e industria, e leggere pagine dei romanzi di Volponi, Memoriale, Le mosche del capitale, ma anche il suo intervento a Siena del 1990, durante il movimento studentesco della Pantera, nel quale parla della sua esperienza all’Olivetti e della figura di Adriano.8 Nel libro della Ginzburg, Adriano Olivetti ritorna alla fine, a Roma durante l’occupazione tedesca «vestito come tutti gli altri, ma sembrava, nella folla, un mendicante; e sembrava, nel tempo stesso, anche un re. Un re in esilio, sembrava». Sono pagine che mi danno sempre una fitta di dolore e nostalgia per l’eroismo quotidiano, per i tempi in cui chi moriva, come Leone Ginzburg, sapeva che era per una giusta causa, per quel dolore che trovava riscatto nella consapevolezza delle scelte, per la reticenza con cui la Ginzburg parla della sua tragedia personale che è però legata alla tragedia della storia italiana. Io ricorderò sempre, tutta la vita, il grande conforto che sentii nel vedermi davanti, quel mattino, la sua figura che mi era così familiare, che conoscevo dall’infanzia, dopo tante ore di solitudine e di paura, ore in cui avevo pensato ai miei che erano lontani, al Nord, e che non sapevo se avrei mai riveduto; e ricorderò sempre la sua schiena china a raccogliere, per le nostre stanze, i nostri indumenti sparsi, le scarpe dei bambini, con gesti di bontà umile, pietosa, paziente. E aveva, quando scappammo da quella casa, il viso di quella volta che era venuto da noi a prendere Turati, il viso trafelato, spaventato e felice di quando portava in salvo qualcuno.9
Quando cerco delle figure di italiani esemplari, ecco mi viene incontro tutto l’universo famigliare della Ginzburg, il padre, la madre, i fratelli, lei stessa, e Adriano Olivetti. Accanto all’industriale che ha tentato nuove vie per coniugare imprenditoria e impegno sociale, la figura dell’operaio, anzi, tecnico specializzato, Faussone. Non c’è un collegamento diretto, anche se molti sono i fili che legano i due autori, Ginzburg e Primo Levi: Torino, la scrittura di memoria, l’ebraismo, le scelte politiche, ma, per un percorso scolastico rivolto specialmente ai giovani che studiano in
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M. Crocellai, P. Festuccia, Adriano Olivetti. L’imprenditore rosso. http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=312; vedi anche il sito: http://www.fondazioneadrianolivetti.it/ e S. Sartor, Via Jervis,n.11, Lecce, Manni 2003. 8 P. Volponi, Incontro con la pantera, in Scritti dal margine, Lecce, Manni 1994, pp. 127-171 (in particolare, pp. 132-36). 9 N. Ginzburg, Lessico famigliare cit., p. 174. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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un istituto tecnico, la figura dell’operaio specializzato Libertino Faussone diventa il controcanto dell’imprenditore, il portatore di valori non tanto antagonisti quanto complementari, che nascono da una cultura artigiana, popolare, autonoma rispetto all’egemonia borghese, quella cultura che invece, nell’operaio Albino Saluggia di Memoriale o nel racconto di Calvino La gallina del reparto, si è interrotta, lacerata dall’avvento della società industriale. L’italiano ideale non è, nel libro La chiave a stella, un personaggio reale, ma l’autobiografismo si sente fortemente nella presenza del narratore/autore Levi, che raccoglie e trascrive, commenta e interroga le storie di Faussone. Un po’ manzoniano, l’autore dà voce al suo personaggio per esprimere quell’universo dei mestieri «che a dirle tutte ci andrebbe un libro, e è un libro che non lo scriverà mai nessuno e in fondo è un peccato».10 Quello che colpì particolarmente di questo libro alla sua uscita è la frase «amare il proprio lavoro […] costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra»11, che riassume il pensiero di Levi e anche quello di Faussone. Sull’etica del lavoro e anche sui suoi “rischi” Levi ritornerà in Lilith e ne I sommersi e i salvati;12 qui interessa la consonanza dell’autore con il suo personaggio, l’aspetto autobiografico13 e insieme esemplare di Faussone: ho cercato di chiarirgli che tutti e tre i nostri mestieri, i due miei e il suo, nei loro giorni buoni possono dare pienezza. Il suo, e il mestiere di chimico che gli somiglia, perché insegnano a essere interi, a pensare con le mani e con tutto il corpo, a non arrendersi davanti alle giornate rovescie ed alle formule che non si capiscono, perché si capiscono poi per strada; ed insegnano poi a conoscere la materia ed a tenerle testa. […] Siamo rimasti d’accordo su quanto di buono abbiamo in comune. Sul vantaggio di potersi misurare, del non dipendere dagli altri nel misurarsi, dello specchiarsi della propria opera.14
Ed è lo stesso Levi a confermare questa sovrapponibilità tra personaggio e autore, chiudendo il libro con la citazione di Conrad: «Mac Whirr non è il frutto di un incontro di poche ore, o settimane, o mesi: è il prodotto di vent’anni di vita, della mia propria vita»15
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P. Levi, La chiave a stella, Torino, Einaudi Tascabili 1991 (prima ed. 1978), p. 80. Ivi, p. 81. 12 D. Del Giudice, Introduzione, in P. Levi, Opere, vol. I, Torino, Einaudi 1991, pp. XLIIXLIII. 13 Ivi, p. XLV «è in realtà un dialogo intimo di Levi con Levi sdoppiato nella finzione del testimone narratore e del testimone ascoltatore, un libro in cui prende decisioni, trae le fila del suo lavoro di narratore-testimone-chimico, accetta fino in fondo il proprio destino, la propria scelta». 14 P. Levi, La chiave a stella cit., p. 52. 15 Ivi, p. 180. 11
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Di Primo Levi gli studenti conoscono quasi solo Se questo è un uomo, che ritengono in genere faticoso, deprimente, lontano da sé. Il libro La chiave a stella, che rappresenta il momento dell’abbandono del mestiere di chimico per quello di scrittore, è una possibilità per scoprire l’altro Levi, per consegnarlo alla loro memoria non solo come il testimone dell’esperienza estrema del Lager ma come un uomo che ha vissuto la comune esperienza del lavoro in fabbrica, le quotidiane difficoltà, gli scacchi del mestiere di chimico.16 Nei due capitoli Acciughe, Torino I e Acciughe, II, in conclusione del libro, è Levi a raccontare a Faussone quasi in presa diretta l’ultimo scoglio del lavoro che sta per lasciare, l’errore, anche se non suo, che mette in pericolo la sua credibilità di chimico. L’errore è necessario «per me un uomo che non abbia mai avuto un collaudo negativo non è un uomo, è come se fosse rimasto alla prima comunione. […] lì sul momento fanno star male, ma se uno non li prova non matura. È un po’ come i quattro presi a scuola»17 dice Faussone a Levi che gli racconta i problemi con la vernice venduta ai russi, e dall’errore si impara. Nel capitolo Senza tempo Faussone narra la sua prima esperienza di montatore su un traliccio di 30 metri in Valle d’Aosta che coincide con il primo viaggio in automobile e con la compagnia di una ragazza: «Lei capisce che con tre faccende così in un colpo, la ragazza, il lavoro d’impegno e il viaggio in auto mi sentivo fuori di giri come un motore imballato»18 È la verifica sul campo di un apprendistato iniziato nella bottega del padre e poi nella fabbrica della Lancia quando Faussone diventa saldatore, e la sicurezza acquistata nel lavoro diventa anche la sicurezza di sé.19 Ma è tutt’altra cosa essere soli sul traliccio per la prima volta, con soltanto i disegni tecnici e il consiglio di prudenza dei vecchi del mestiere che sapevano bene come fosse facile mancare un appoggio e precipitare per trenta metri. I cantieri a volte seguono regole ferree, a volte lasciano fare, fidando nell’assicurazione che copre le spese, ma la prudenza ciascuno la impara da sé, «è più difficile da imparare che il mestiere. Per solito si impara dopo, e è ben difficile che uno la impari senza passare dei guai».20 Per Faussone/Levi le difficoltà rendono il lavoro interessante e sempre nuovo, gli ostacoli sviluppano l’intelligenza che deve trovare il modo di superarli, la
16 Sull’utilizzo didattico del libro rispetto al tema del lavoro: E. Zinato, La chiave a Stella di Primo Levi. Dialogo tra mestieri e epica del lavoro, in «Chichibio», XII, (2010), 60. 17 P. Levi, La chiave a stella cit., pp. 155-156. 18 Ivi, p. 129. 19 Ivi, p. 128: «Sta di fatto che dopo che ho preso sicurezza a saldare, ho preso sicurezza a tutto, fino alla maniera di camminare: e anche qui, la pratica che ho fatto nella bottega di mio padre, altroché se mi è venuta a taglio, perché mio padre buonanima mi aveva insegnato a fare i tubi di rame dalla lastra». 20 Ivi, p. 131.
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memoria degli errori e dei momenti critici, più che dei successi facili, soccorre a correggere e a scoprire le falle, o a immaginare un’impensata soluzione dei problemi nuovi. Entrambi sono legati alle possibilità reali, alla materialità del bene, ai fatti che raccontano: niente retorica, niente sogni irrealizzabili, niente “invenzione”; entrambi sono attenti alla Natura, come entità leopardiana, più ostile che amica, e Levi consapevolmente sa che l’uomo ne è una parte minima che deve misurarsi con la sua complessità, potenza, imprevedibilità. Meneghello. I piccoli maestri Il resto della mia attività di scrittore è stato un lungo apprendistato per portare ciò che scrivo a pareggiare la potenza di quella antica esperienza, nei vari settori della vita che mi è capitato di attraversare. Ho il senso di non aver ancora finito l’apprendistato: sono quasi al punto però. Penso a mio padre quando terminò il suo apprendistato come tornitore e dovette fare come prova finale un pezzo conclusivo, che chiamavano “il capolavoro”.21
È una frase della Lectio magistralis che Meneghello tenne a Palermo nel 2007, in occasione della laurea honoris causa conferitagli dall’università. C’ero a quella cerimonia, mi sono fatta firmare il suo libro da me per primo letto e il più amato. Non riesco a separare la scoperta di Meneghello e l’amore per lui dal ricordo dell’amico che per primo me ne ha parlato, che è stato il consigliere di molte letture, che ora non è più qui per esplorare e indirizzare. Anche Meneghello se ne è andato, una settimana dopo la sua gloria palermitana, e se ne è andato un altro maestro. L’apprendistato è stato l’argomento della lezione, trattato come di consueto con ironia e autoironia, con quella mescolanza di lingue che contraddistingue il suo narrare. L’apprendistato per Meneghello e i suoi compagni comincia con la guerra, come risulta chiaro già da un articolo, Storia di giovani, ritrovato da Franzina,22 dell’ottobre 1945: I loro anni di crisi furono i primi anni della guerra […] Vissero una crisi variamente lunga e grave, da cui uscirono antifascisti, nemici del regime, odiatori di Mussolini, desiderosi di perdere la guerra ingiusta: con una specie di disprezzo e di vergogna per
21
L. Meneghello, Lectio magistralis per la laurea honoris causa in Filologia moderna all’Università di Palermo, 20 giugno 2007: http://lospecchiodicarta.unipa.it/parliamodi/ index.html. 22 E. Franzina, ‘Storia di giovani’. Le stagioni dei piccoli maestri e la resistenza nel vicentino, in AntiEroi. Prospettive e retrospettive sui ‘Piccoli maestri’ di Luigi Meneghello, Bergamo, Lubrina 1987, pp. 83-85, e anche in L. Meneghello, Jura, Milano, Garzanti 1987, pp. 161e ss. Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
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il mondo di prima, e le loro vane esperienze in esso, arrossendo dei littoriali, della fede nel duce, delle scadenti fantasie che avevano concepite. Per tutti loro fu una crisi mentale e morale, più che politica, una svolta nell’educazione.23
Chi li guida nella nuova etica è Antonio Giuriolo, un atipico professore senza cattedra (perché non aveva voluto prendere la tessera del fascio), un vero antifascista che introduce i suoi discepoli24 alle idee laiche di Giustizia e Liberà, alle letture proibite, e poi diventa il loro capo partigiano, il maestro dei “piccoli maestri”. Quando l’8 settembre l’esercito si sfascia, Meneghello e i suoi amici si ritrovano a Vicenza e, in attesa di Giuriolo, decidono di «formare un gruppo, una piccola squadra scelta di perfezionisti vicentini»25 procurandosi delle armi personali come potevano, andando per i paesi a prendere accordi, a parlare con le persone, aprendosi a un mondo povero, contadino, incontrando i primi bombardamenti e la morte della guerra. Si trovano immersi in «un moto generale di rivolta […] che investiva non solo il regime crollato, ma l’intero mondo che in esso si era espresso».26 Il senso della coralità, infatti, è, come segnala Maria Corti,27 una cifra del libro, che è certo una memoria degli anni formativi del gruppo di giovani vicentini esemplari per non-conformismo, ma è anche un quadro preciso, dettagliato della Resistenza in Veneto, è anche il ritratto di tanti partigiani che quella Resistenza l’hanno fatta, che sono morti, che sono stati rastrellati, che hanno vissuto gli inverni più duri nelle montagne, che hanno avuto fame, freddo e paura; è il ritratto di tanti contadini e montanari che dividono con i giovani partigiani le loro povere cose, che li nascondono e li sfamano.28
23
Ivi, p. 162. Id., I piccoli maestri, Milano, Mondadori 1986 (1964; 1976), p. 31: «L’Italia vera, […] è rinchiusa nell’animo degli oppositori totali, come Antonio Giuriolo. È uno di Vicenza, avrà trent’anni; è professore, ma non fa scuola perché non ha voluto prendere la tessera […] chi frequentava Toni Giuriolo diventava fatalmente suo discepolo, e in fondo anche chi frequentava i suoi discepoli. […] Da Giuriolo si impara quello che si dovrebbe imparare a scuola». Sulla figura di Giuriolo si possono consultare diversi siti internet (ad es. http://www.anpi.it/donne-e-uomini/antonio-giuriolo/); R. Camurri, Tra mito e antimito: note sulla formazione di Antonio Giuriolo, alla pagina http://www.zetamente.net/ISTREVI/books/pdf/GIURIOLO-democrazia -031-052mito-e-antimito.pdf. 25 Ivi, p. 32. 26 Ivi, p. 33 e sotto: «Dappertutto (almeno da noi nel Vicentino) si sentiva muovere la stessa corrente di sentimento collettivo; era l’esperienza di un vero moto popolare, ed era inebriante; si avvertiva la strapotenza delle cose che partono dal basso, le cose spontanee; si provava il calore, la sicurezza di trovarsi immersi in questa onda della volontà generale». 27 M. Corti, Introduzione, in L. Meneghello, I piccoli maestri cit., p. XIII. 28 L. Meneghello, I piccoli maestri cit., pp. 163-165. 24
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I giovani neofiti della guerra partigiana, in attesa di essere raggiunti e guidati dal loro maestro, si aggregano ad altre bande, incontrano “i comunisti” che ammirano per la loro organizzazione, per efficienza, perché «erano sempre primi in tutto, sempre sotto, senza calcoli, pagando sempre di persona»,29 ma che sentono diversi, per la scarsa propensione alla dialettica, alla discussione democratica. C’è una pagina molto bella e commossa sull’incontro con un reparto di comunisti, mentre la banda di Meneghello è quasi allo sbando in una valle poco protetta: Erano meravigliosi. Laceri, sbracati, sbrigativi, mobili, franchi: questi qui, pensavo, sono incarnazioni concrete delle Idee che noi cerchiamo di contemplare, sbattendo gli occhi. […] Saranno stati una quarantina: arrivarono buona parte in fila, il resto alla spicciolata. Avevano armi, non tante ma buone; uno portava in groppa una mitragliatrice pesante e altri lo seguivano con le cassette; avevano i fazzoletti rossi, le scarpe rotte, i visi lieti e feroci. Ce n’era di giovani e di vecchi, di robusti e di scanchenici, ma insieme facevano un Ente palesemente vitale, una Banda in cui al primo sguardo si riconosceva calata l’Idea di Banda. Si accamparono in un baleno, un attimo prima del buio; non era un accampamento formale; in quattro e quattrotto avevano tirato su qualche tenda, occupato un paio di stalle, piantata la mitragliatrice al bivio sopra il paese, provvisto un po’ di viveri e disposto un servizio di guardia […] Si muovevano, provvedevano ai propri bisogni improvvisando, improvvisavano tutto; non avevano nessun piano prestabilito, e facevano la guerra un giorno qua un giorno là. Eravamo annichiliti di ammirazione; si sentiva di colpo, al solo vederli, che la guerra partigiana si fa così.30
Con i vicentini c’era anche Antonio, che, «vestito alla buona, con la sua aria dimessa e riservata» sembra più un escursionista che un capo partigiano e al saluto a pugno chiuso dell’energico comandante comunista, in stivali e cinturone, risponde «Piacere, Giuriolo», tendendogli una mano un po’ rattrappita. In questa scena c’è il senso della distanza tra l’etica laica del Maestro del Partito d’Azione, e la posizione ideologica dei comunisti; questo non toglie che Meneghello concluda: «Uno meglio dell’altro. Provavo fitte di ammirazione contraddittorie».31 La figura di Giuriolo è disseminata, quasi sottotraccia, nel libro: non ne viene fatto un ritratto complessivo,32 ma se ne senta la presenza ideale anche quando non è presente con il gruppo. Giuriolo andrà a morire sull’Appennino e un altro libro riporterà la conclusione della storia del maestro con poche e secche frasi.33
29
Ivi, p. 37. Ivi, pp. 66-67. 31 Ivi, p. 68. 32 Un ritratto più completo in L. Meneghello, Fiori italiani, Milano, Rizzoli 1976, pp. 163182. 33 L. Meneghello, Bau-sète, Milano, Rizzoli 1988, pp. 33-35: «fu deciso che uno di noi 30
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Ne I piccoli maestri Giuriolo compare fisicamente solo a mezzo della storia quando Meneghello e Nello lo incontrano con due inglesi in una malga34 singolarmente vuota e nuda in cui Antonio e gli inglesi si aggirano parlando a bassa voce, in un clima da santità apostolica, da cristianesimo primitivo. Senza di lui non avevamo veramente senso, eravamo solo un gruppo di studenti alla macchia, scrupolosi e malcontenti; con lui diventavamo tutta un’altra cosa. Per quest’uomo passava la sola tradizione alla quale si poteva senza arrossire dare il nome di italiana; Antonio era un italiano in un senso in cui nessun altro nostro conoscente lo era; stando vicino a lui ci sentivamo entrare anche noi in questa tradizione. Sapevamo ripetere appena qualche nome, Salvemini, Gobetti, Rosselli, Gramsci, ma la virtù della cosa ci investiva. Eravamo catecumeni, apprendisti italiani. In fondo era proprio per questo che eravamo in giro per le montagne; facevamo i fuorilegge per Rosselli, Salvemini, Gobetti, Gramsci; per Toni Giuriolo35
Ad Antonio non interessa avere una grande banda, vuole che chi lo segue sia convinto della scelta di fare i partigiani, di “resistere con le armi” per l’aspetto “politico” della guerra civile, e l’aspetto politico era l’antifascismo e il rinnovamento che con la guerra si doveva testimoniare. Antonio, che era anti-militarista, non sentiva molto la guerra come problema tecnico; era del tutto indifferente al tipo di scoppi e di spari, e ad ogni rigido programma, non perché volesse affidarsi al caso, ma perché credeva che ciò che veramente importa è nell’atteggiamento della gente, e il resto viene dopo.36
Nei brevi dialoghi riportati si sente la distanza tra maestro e allievi, dieci anni di differenza significano molto in tempi di guerra e rivolgimenti, ma era anche diverso l’atteggiamento, il carattere, appartato, riflessivo:
andasse a Bologna a cercare notizie di Antonio Giuriolo, e che quest’uno fossi io. Presi la Ganna e mi avviai in direzione sud […] non sentivo ansia, piuttosto un senso di vuoto, ero sicuro che il nostro amico era morto, morto e stramorto. […] Poi feci una breve ricerca presso i partigiani locali. / Antonio era morto, in forma esemplare si dà il caso, quattro o cinque mesi prima, in un piccolo combattimento vero. Ripresi la Ganna e tornai […] a Vicenza a riferire ai miei compagni. Confusamente per me, più nettamente per Franco, non si trattava solo di una perdita personale. Avevamo veduto in Antonio un futuro punto di forza del radicalismo laico, una figura emblematica di quel partito moderno, colto, spregiudicato a cui volevamo affidare il rinnovamento dell’Italia». 34 Per la difficile crono-topologia del libro, può essere utile http://www.comune.malo. vi.it /a_4159_IT_30435_1.html. 35 L. Meneghello, I piccoli maestri cit., p. 93. 36 Ivi, p. 112. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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Stava un po’ al disopra dei nostri traffici, col suo braccio al collo, gli occhi azzurri, il viso arrossato dal sole. […] Era ben piantato, robusto; tutti lo chiamavano il capitano; armi non ne portava, tranne la pistola, quella con cui si era bucata la mano. Tendeva ad isolarsi, a camminare da solo, come per riconoscere i posti; qualche volta andavamo con lui […] parlando di politica, di letteratura e di filosofia, anzi della storia di queste cose, perché Antonio storicizzava tutto spontaneamente. Era un italiano calmo: sdrammatizzava le cose che noi eravamo inclini a drammatizzare. Anche quelle relativamente drammatiche, quando noi gliele proponevamo, e lui dava il suo assenso, non parevano più drammatiche, ma sensate e ragionevoli.37
Si interrogano i giovani apprendisti della libertà e della guerra partigiana, si fanno, da sotto cumuli di masserizie e armi che trasportano da un bivacco all’altro nell’immenso Altipiano, nonostante tutto il proliferare di bande di diversa origine, vuoto come la tebaide, le domande contingenti e anche quelle eterne: cos’è il coraggio, la serietà, la morte e l’amore. La distinzione tra l’umano e il non-umano sembrava sempre più vaga, immersi com’erano nel caos e nella natura. Dalla guerra, dal sacrificio e dalla prova si aspettano una “luce cruda” che illumini non solo il fenomeno del fascismo, ma la mente umana, la natura, la società. I riferimenti culturali che nello sconquasso sono come gli “appigli rocciosi in mezzo alla corrente”: l’antifascismo di Antonio, i poeti come Rimbaud e Baudelaire, molte poesie (Montale è citato spesso), nei rari momenti di ottimismo sembrava che alla fine della guerra, avrebbero rivelato le loro connessioni e si sarebbero saldati con il mondo reale, che era allora la montagna, il bosco «un buon riassunto, storia dei popoli indoeuropei o in generale di questo ramo di homo che abbiamo»38 Conclusioni Alla fine un filo c’è, per un percorso didattico: tre bei personaggi veri, un industriale, un operaio, un intellettuale che si trovano negli anni giovanili a intraprendere un apprendistato rischioso, a imparare la vita, la morte e il mestiere legati strettamente; che operano scelte etiche in contesti difficili, che si misurano con le forze della natura e con gli eventi della storia, che intrecciano relazioni con gli altri uomini, che riflettono su se stessi: italiani esemplari, appunto.
37 38
Ivi, p. 113. Ivi, p. 117.
Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
FRANCESCA PILATO Despoti e vittime, sognatori e opportunisti, ingenui e corrotti: il “sistema famiglia” nei ‘Viceré’ di Federico De Roberto
Vi confesso una leggera vertigine nel riflettere oggi insieme a voi sui Viceré, su quella «machine poderosa» – come ebbe a definirla Giovanni Verga1 – di uno dei romanzi più interessanti della Letteratura italiana di fine Ottocento. Centinaia e centinaia di pagina tripartite nei ventinove anni di una complessa storia di famiglia (dal 1855, anno della morte della Principessa Teresa Uzeda di Francalanza, alle elezioni parlamentari a suffragio allargato del 1882), con una folla di situazioni e di accadimenti che nascono e si sviluppano continuamente, senza concederci tregua o pause. A dominare su tutto e a consegnare il romanzo alla classicità dei capolavori è certamente il registro espressivo, la lingua messa in opera da Federico De Roberto. A metà e in equilibrio perfetto tra scritto e parlato, tra dialogo e narrazione in terza persona, tra i punti di vista di questo o quel personaggio e il contrappunto, il distanziamento ironico dell’Autore, il tutto senza mai una caduta, mai una stanchezza, mai un’indulgenza descrittiva. Una lingua viva, concreta, in movimento perenne. C’è un ordine implacabile tuttavia in tutto ciò, una direzione sicura che impedisce anche a lettori non troppo avveduti di stordirsi nel mare tumultuoso della narrazione: l’attenzione costante e acutissima dell’Autore per «le ragioni occulte su cui su si basa il potere».2 «Ragioni occulte» che nei Viceré si incarnano, prima ancora che nel contesto politico, nelle relazioni tra parenti e consanguinei: l’autoritarismo
1
Lettera di G. Verga a F. De Roberto del 21 ottobre 1894, in Verga-De Roberto-Capuana, Celebrazioni bicentenario della Biblioteca universitaria, Catania 1755-1955, a cura di A. Ciavarella, Catania 1955, p. 129. 2 C.A. Madrignani, Introduzione a F. De Roberto, Romanzi, Novelle, Saggi, Milano, Mondadori 1984, p. XXXIV. Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
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violento della principessa Teresa Uzeda, soprattutto, quello del figlio Giacomo suo successore nella gestione del patrimonio della casata, e il corollario dell’obbedienza filiale – assoluta e imbelle – che essi pretendono. Con attorno la corona di personaggi corrotti e opportunisti (don Blasco, il potente benedettino di San Nicola o l’astuto e freddo don Ludovico) che si adoperano in tutti i modi affinché il loro “sistema famiglia”, pervicacemente perseguito, resista e si perpetui. Sono cosciente di discostarmi in questo modo dai punti di vista più noti (da Giulio Ferroni a Alberto Asor Rosa, da Marziano Guglielminetti a Vittorio Spinazzola, nella loro lettura dei Viceré emerge soprattutto il dispotismo degli Uzeda verso gli altri, verso la società che questo potere subisce).3 La celebre frase pronunciata dal Duca d’Oragua: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri»4 ricorre frequentemente in molte di queste prospettive critiche come la più efficace sintesi di amoralità e di cinismo della Vecchia razza5 rappresentata dalla famiglia aristocratica catanese. Tuttavia, a ben vedere, le prime vittime del potere degli Uzeda sono gli Uzeda stessi: le loro figlie/figli monacati o maritati per forza, tenuti sotto la mano ferrea della principessa Teresa prima e del principe Giacomo poi, che volutamente ignorano i talenti, le passioni, i desideri dei propri congiunti. Una rete interna, intestina di ostilità e sofferenze che segna prima di tutto il destino di ogni membro della famiglia, despota o vittima, sognatore o opportunista, ingenuo o corrotto, come suggeriscono le coppie oppositive, antinomiche del mio titolo. Unico tratto comune, inestinguibile caratteristica trasversale di tutta la stirpe dei Viceré, è una ostinazione «gratuita, esagerata e perniciosa»6 che impedisce loro ogni felicità anche quando, apparentemente, “vincono”. È quel «pessimismo dello scrittore esistenziale ancor primo che storico»7 acutamente colto da Nunzio Zago, che più esplicitamente di altri lettori autorevoli punta il dito sul privato invece che sul pubblico, su quella «cronaca familiare» che è il sale del «sapiente congegno di equilibri e di simmetrie strutturali» messi in opera da De Roberto, e che impone «al racconto una cadenza episodica, minuta, degradata».8
3
Ancora recentemente, Alberto Asor Rosa annota che il tema fondante dei Viceré è ravvisabile nell’«impossibilità di mutare sostanzialmente le forme, i modi e i protagonisti del potere in una situazione immobile come quella siciliana», A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, Vol. III – La letteratura della Nazione, Torino, Einaudi 2009, p. 84. 4 F. De Roberto, I Viceré, in Romanzi, Novelle, Saggi cit., p. 864. 5 Vecchia razza era il primo titolo scelto da Federico de Roberto per il romanzo, cfr. C.A. Madrignani, Introduzione cit., p. XXXVI. 6 C. A. Madrignani, Introduzione cit., p. XXXV. 7 N. Zago, Introduzione a F. De Roberto, I Viceré, Milano, Rizzoli 1998, p. XVI. 8 Ivi, p. XIII. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
Despoti e vittime, sognatori e opportunisti, ingenui e corrotti
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La sua analisi interessante e molto interna alla struttura del romanzo si concentra su due categorie di personaggi: da un lato i despoti o gli opportunisti (la principessa Teresa, il principe Giacomo, don Blasco e don Ludovico, il principino Consalvo, l’ultimo dei Viceré) dall’altro i “virtuosi” (pochi): la principessa Margherita, la contessa Matilde, Teresina, Ferdinando il Babbeo, Giovannino Radalì, assegnando a questi ultimi i tratti soprattutto dell’ossessione patologica. Ciò su cui oggi voglio incentrare il mio discorso è il carattere di complementarità di queste categorie all’interno dei rapporti famigliari, carattere necessario per stringere quella relazione stretta benché antinomica (anzi proprio perché antinomica, la semantica si estende alla sfera morale, c’è un grande perché c’è un piccolo, ma c’è un corrotto perché c’è un ingenuo) che fa degli Uzeda un “sistema famiglia” destinato a durare nel tempo.9 Proprio perché spesso trascurati a favore dei più forti e prepotenti (nella Storia della Letteratura Italiana Cecchi/Sapegno, ad esempio, si legge che i personaggi riusciti dei Viceré sono gli arroganti, i despoti, i Giacomo, i don Blasco, i Consalvo, mentre quasi tutti gli altri risultano «piuttosto incolori»),10 è interessante soffermarsi sulle vittime nelle loro varie declinazioni, e osservare viceversa quanto nitidamente emergano nella machine poderosa del romanzo di De Roberto e quanto siano “necessari” all’agire e all’esistere dei primi. Mogli afflitte, figli sacrificati o lasciati nel silenzioso cantuccio delle loro follie, spose inappagate nel loro desiderio di maternità, si muovono inquieti sugli scenari mutevoli che accompagnano il loro infausto cammino. Non sappiamo con quanta consapevolezza da parte di De Roberto (i personaggi quando sono vivi e coerenti suggeriscono il loro sviluppo all’Autore come bene aveva intuito Pirandello), ma tutti costoro con le loro vicende, i loro desideri e i loro sogni, si dispongono su vari livelli, o “toni”, o registri narrativi: chi sul registro del Tragico (Matilde e Giovannino Radalì), chi su quello del Patetico Drammatico (Margherita e la figliola Teresina), chi sul Patetico Grottesco (Ferdinando il Babbeo e suor Maria Crocifissa, la primogenita figliola della principessa Teresa, al secolo Angiolina, che scivola lentamente da bambina chiusa a San Placido ancora
9 Modello negativo e al contempo vincente perpetrato anche in altri celebri capolavori della letteratura europea del XX secolo, come nei Buddenbrock di Thomas Mann, in cui anche in una famiglia di cultura protestante, la volontà paterna e la logica del matrimonio di interesse inducono la giovane e bella Tony Buddenbrock a diventare la moglie infelice dell’insopportabile mercante Grünlich. 10 «Le figure normali e prive di tratti antipatici come Matilde gli riuscivano piuttosto incolori, mentre i personaggi stravaganti, bislacchi, maniaci attraevano in modo particolare il De Roberto», così in E. Cecchi, N. Sapegno, Storia della Letteratura Italiana, Milano, Garzanti 1968, pp. 395-396.
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ignara del mondo nella condizione di una rimbambita figura di cera senza umanità e senza volto).11 Dentro a queste vite diversamente infelici c’è tuttavia il tratto comune del sacrificio, quasi un privilegio in una prospettiva di abnegazione assoluta, di un immolarsi continuo sull’altare del dovere e della cieca obbedienza familiare, in alcuni casi – la beata Ximena e Teresina sorella di Consalvo – con l’aggiunta della venerazione religiosa estesa fino all’ossessione (ed è in questa direzione che trama e apparecchia tutta una educazione, una tradizione culturale di cui i Viceré sono un esempio “perfetto”). Incominciamo dalla principessa Margherita moglie del principe Giacomo e madre di Consalvo e Teresina: in lei il sacrificio è una propensione spontanea. La sua malinconia rassegnata attraversa come in un soffio le tumultuose pagine del romanzo. La principessa esce di scena con una esplicita sottomissione alla brusca domanda del marito, quando all’annuncio dell’arrivo del colera in una sera d’agosto del 1866, in partenza per qualche luogo sicuro nella campagna etnea, il principe Giacomo la incalza: «Vuoi o non vuoi venire»? Lei, già sofferente e debolissima, risponde «[…] t’accompagno…».12 E poi la contessa Matilde, moglie infelice del contino Raimondo Uzeda, fratello di Giacomo. Assai discosta dal quel profilo di «figura incolore»,13 di personaggio sfocato e incerto che le è stato più volte attribuito, a ben leggere tra le molte pagine che il narratore le dedica, si staglia nella drammatica scenografia del romanzo con una gamma di sfumature espressive piuttosto estesa, un’alternanza tra dolore, scoramento infinito e qualche timida speranza. È per questo che colloco Matilde nell’alveo del Tragico, perché la sua caduta definitiva, e la sua morte di crepacuore come moglie ripudiata e offesa, è al termine di un lungo calvario di cui lei stessa in qualche misura è artefice. La morte di Matilde rimarrà oltre le righe, soltanto allusa, pudicamente al di fuori dalla narrazione. Uno splendido esempio, tipicamente derobertiano, di quella pietas lontana dalla voce narrante e di cui noi tuttavia sentiamo l’eco dalla nuda sequenza dei fatti. Con Ferdinando detto il Babbeo abbandoniamo il registro del Tragico per soffermarci su un crinale forse indefinibile tra il Patetico drammatico e il Patetico grottesco. Con lui De Roberto disegna un carattere unico nel romanzo che vale la pena di ricordare seppur brevemente: quello di un Candide, di un uomo schiettamente inge-
11 «La Badessa, col viso color della cera tra i veli bianchi, era rimbambita del tutto», F. De Roberto, I Viceré cit., p. 982. 12 F. De Roberto, I Viceré cit., p. 835. 13 Cfr. nota 9.
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nuo, cui molte bene si attaglia l’epiteto di Babbeo affibbiatogli dalla famiglia con la tipica cinica noncuranza. Se non nei tratti caratteriali, Ferdinando evolve tuttavia nella bizzarria e varietà dei comportamenti che da ragazzo smemorato nella sua tenuta alle Ghiande lo condurranno in braccio a una morte ammantata di follia. Ferdinando morirà maniaco come ha vissuto, ma con un’aggiunta, alla fine di ossessione furiosa, di onirica disperazione che approda al registro del patetico grottesco e che cancella crudelmente l’antico sogno del Robinson, il desiderio di ragazzo felice nell’Isola, lontano – soprattutto – dalle prepotenze della famiglia Uzeda. E tutto ciò accade in mezzo al frastuono degli eventi storici, che pur ci sono e sono notevoli ( il ritorno di Gaspare Uzeda duca d’Oragua dal viaggio in Italia dopo le elezioni del 1861, la vicenda del convento catanese di San Nicola scombussolato dall’arrivo di Garibaldi che vuole andare contro al Papa – ci si avvicina alla storica data della battaglia dell’Aspromonte, e dello scontro aperto tra Garibaldini repubblicani e il Re Vittorio Emanuele II – l’arrivo del colera in una sera d’agosto del 1866 e tanto altro ancora). Eppure De Roberto non perde mai, proprio mai, il timone del suo intreccio, della sua direzione maestra: seguire in tutti i suoi deliranti sviluppi le perniciose relazioni familiari tra gli Uzeda. Anzi, tanto più la grande Storia scombussola gli animi e il clima della città, tanto più è eclatante che in casa Uzeda non si parli d’altro che di cose private, interne, come quando, in occasione dell’incendio del casino dei Nobili con gli stessi Uzeda rifugiati al Belvedere, la loro residenza fuori porta, giunge l’imbarazzante, intollerabile notizia che il contino Raimondo è arrivato a Catania con l’amante donna Isabella Fersa.14 Le tragedie femminili di Matilde morta di crepacuore e di Margherita morta di colera non oscurano certo l’avvio romanzesco del personaggio del principino Consalvo, l’ultimo dei Viceré. Dopo la morte della madre Margherita, la sua entrata in scena è sempre più da protagonista. Dalla metà della seconda parte del romanzo in poi, il principino figlio di Giacomo reggerà tenacemente gran parte dell’intreccio fino alla fine, con la sua tempra di vincitore, la sua prepotenza lucida, segno inestinguibile della stirpe. C’è lo scontro con il padre Giacomo, una disobbedienza fredda e fermissima, che in verità potrebbe far intuire una frattura, un cambiamento tra generazioni; nel «pessimismo esistenziale»15 di De Roberto ciò prelude invece a una ascesa verso un potere ben più visibile e ripagante di quello del principe Giacomo (prima vedia-
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«L’impressione prodotta da quell’avvenimento fu tale che tutt’a un tratto Garibaldi e Rattazzi, Roma ed Aspromonte passarono in seconda linea. Il conte Uzeda con donna Isabella! All’albergo insieme, quasi fossero due innamorati fuggiti insieme per forzar la mano alle famiglie!», F. De Roberto, I Viceré cit., p. 759. 15 Cfr. nota 7. Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
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Francesca Pilato
mo Consalvo sindaco di Catania, astutissimo nelle relazioni pubbliche, e poi parlamentare acclamato nelle prime elezioni a suffragio allargato, quelle del 1882 su cui si chiude il romanzo). Una frattura con l’ordine patriarcale non per combatterlo ma per sopravanzarlo. Federico De Roberto costruisce passo passo il prevedibile trionfo del principino, tuttavia la vicenda pubblica, esaltante di Consalvo si intreccia con il dolore nella sfera privata, con la sconfitta di chi gli è più caro: la sorella Teresina e il cugino Giovannino Radalì-Uzeda. Sognatori e ingenui entrambi, Teresina e Giovannino sono ritratti da De Roberto al polo opposto dell’opportunismo, della corruzione e della prepotenza rappresentati soprattutto dal principe Giacomo e dalla seconda moglie Graziella (ma anche da altri personaggi quali ad esempio la duchessa Caterina, madre di Giovannino). Già dal loro primo apparire nelle pagine del romanzo, anche se ancora in accenno, Giovannino e Teresa emergono con tratti di gentile diversità dalla feroce stirpe degli Uzeda: Giovannino novizio al convento di San Nicola aderisce al partito dei liberali (il giovanissimo Consalvo è allora borbonico, del partito dei sorci), Teresa a Firenze dalle monache sviluppa talenti musicali e artistici. La storia d’amore e di rinuncia di Giovannino e Teresa è senz’altro il più doloroso e conseguente esempio dell’esercizio del potere all’interno della famiglia dei Viceré, di quel “sistema famiglia” che ho qui brevemente tratteggiato. Incapaci di lottare veramente contro chi ne impedisce l’unione e la felicità, incarnano due comportamenti all’apparenza assai diversi ma in realtà ugualmente funzionali al perpetrarsi dell’ordine sancito: Teresina si incammina verso l’obbedienza, maritale e filiale, Giovannino verso l’estrema rinuncia di sé rappresentata dal suicidio. Giovannino nell’alveo del Tragico, Teresina, nell’alveo del Patetico Drammatico. In nessuno dei due casi, il “sistema famiglia” viene sovvertito, nessuno dei due comportamenti per quanto all’apparenza tanto divergenti, mettono a rischio l’ordine costituito. Nella grande drammaturgia derobertiana la diversità di Teresina e Giovannino da tutti gli altri personaggi accentua ancora di più le leggi terribili della famiglia. Non posso qui soffermarmi sulla straordinaria tensione amorosa e erotica con cui De Roberto rappresenta la vicenda dei due giovani, il loro riavvicinarsi (già Teresina maritata al duca Michele Radalì e madre di più figli) dettato da varie circostanze, la mano tremante di Giovannino che in unico luogo del romanzo sfiora appena i capelli della cugina,16 il suo contemplare il corpo svenuto di lei per il
16 «Egli le asciugava gli occhi, le divideva sulla fronte i capelli scomposti. La sua mano tremava», F. De Roberto, I Viceré cit., p. 1030.
XII. La letteratura degli Italiani a scuola
Despoti e vittime, sognatori e opportunisti, ingenui e corrotti
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dolore della prossima morte del padre, «le braccia nude, il seno nudo, i capelli d’oro diffusi sul guanciale, le labbra dischiuse, gli occhi rovesciati».17 Tensione necessaria a preparare il gesto estremo, il colpo d’arma da fuoco con cui il personaggio si sottrae a una insostenibile sofferenza. Per Teresa il processo di rinuncia è punteggiato da più passaggi psicologici, persino da qualche ambiguità e acquiescenza (la maternità appagata, le letture proibite da ragazza che ora può fare da donna maritata, la soddisfazione di essere lodata da tutti per le sue domestiche e cristiane virtù). Ciò che tuttavia dà il colpo di grazia al dolce profilo di giovane donna gentile e sognatrice trasformandola in un personaggio cocciuto e maniaco, è l’ossessione religiosa, quell’oscuro amalgama di superstizione e pietà molto abilmente messo sul suo cammino dall’accerchiamento della famiglia: la visita domenicale alla zia Crocifissa, la vecchia «Badessa col viso color della cera»,18 le parole del confessore, e poi soprattutto la potente icona della Beata Ximena, l’ava degli Uzeda giunta nel culto della famiglia al suo terzo centenario e celebrata con tutti gli onori, con il suo corpo miracolosamente incorrotto custodito nella chiesa dei Cappuccini di Catania. E come Consalvo è l’unico che può guardare al suicidio di Giovannino con lucidità, e persino con una pietas che sorprende in un “vincente” al par suo (ma è privilegio dei grandi personaggi della letteratura conoscere sfumature e diverse gamme psicologiche), è ancora a Consalvo, l’uomo del cambiamento apparente e del disincanto assoluto, che De Roberto affida nell’explicit del romanzo il giudizio sulle scelte della sorella e su quella «vecchia razza» che paradossalmente, anche con il suo stesso sacrificio, Teresa rappresenta. Ciò che Consalvo non poteva sapere, e De Roberto con lui, che in quell’obbedienza filiale perniciosa, che portò Teresa a sposare «chi non amava e che affrettò la pazzia e il suicidio del povero Giovannino»,19 è inscritto un paradigma destinato a durare per molto tempo ancora, in tanti drammi della letteratura e della società della Nuova Italia.
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Ivi, p. 1038. Cfr. n. 10. 19 F. De Roberto, I Viceré cit., p. 1103. 18
Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
LUISELLA MESIANO Spazi d’identità per mastro-don Gesualdo
Nel Mastro-don Gesualdo di Verga, l’avidità di ricchezza e il conseguente accumulo di roba non solo risultano dominanti a tutti i livelli della società descritta, ma sono anche i regolatori di quegli spazi d’identità che Gesualdo progressivamente conquista: da manovale diventa borghese e attraverso il matrimonio con Bianca Trao stringe rapporti di parentela con la nobiltà. Nello stesso modo, la baronessa Rubiera, di origini contadine, acquisisce il titolo nobiliare attraverso il matrimonio con un barone ormai in miseria e diventa esponente della piccola nobiltà di provincia. Il personaggio della baronessa Rubiera costituisce quasi una sorta di alter ego femminile di Gesualdo, anticipando la parabola di ascesa e caduta del protagonista e attuando una sorta di duplicazione speculare secondo il procedimento, definito mise en abyme, per cui una sequenza-modello riproduce in piccolo l’intera vicenda del romanzo. Tuttavia è proprio sul piano dell’identità, quella che connette l’individuo alle proprie origini familiari, che questa specularità tra i due personaggi si infrange: mentre la baronessa afferma «Io sono rimasta quale mi hanno fatto mio padre e mia madre… gente di campagna, gente che hanno fatto la casa colle loro mani»1 e reca in volto, nei tratti fisiognomici, il segno di questa sua appartenenza, quando viene descritta mentre tende «le orecchie, colla faccia a un tratto irrigidita nella maschera dei suoi progenitori»,2 Gesualdo invece, durante il colloquio con Diodata e sempre nel corso del romanzo, rivendica il suo distacco dalla tradizione familiare: «E la mia roba?… me l’hanno data i genitori forse? Non mi son fatto da me quello che sono? Ciascuno porta il suo destino!… Io ho fatto il mio, grazie a Dio, e mio fratello non ha nulla…».3
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G. Verga, Mastro-don Gesualdo, edizione critica a cura di C. Riccardi, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Edizioni «Il Saggiatore» 1979, pp. 24-25. 2 Ivi, p. 29. 3 Ivi, pp. 90-91. Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
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Gesualdo si è costruito un’identità che non ha sostrati familiari e che coincide con la conquista e il possesso della roba, proiettandosi dunque tutto al di fuori di se stesso, in una tendenza all’espansione che è anche tendenza all’invasione degli spazi altrui. Ma gli spazi d’identità attraversati e conquistati rimangono fin dall’inizio giustapposti, male amalgamati, e in questa forma sdoppiata sono premessi al suo nome: la compresenza di “mastro” e “don”, rispettivamente attribuiti a chi svolge lavori manuali e a chi invece appartiene al ceto dei proprietari, si legge nello stesso ritratto di Gesualdo: «Mastro-don Gesualdo fece così il suo ingresso fra i pezzi grossi del paese, raso di fresco, vestito di panno fine, con un cappello nuovo fiammante fra le mani mangiate di calcina».4 Mentre le case non vivono mai un meccanismo di positiva identificazione con Gesualdo, le terre sono gli spazi in cui egli può espandere la sua identità: ci stava come un papa [a Mangalavite], fra i suoi armenti, i suoi campi, i suoi contadini, le sue faccende, sempre in moto dalla mattina alla sera, sempre gridando e facendo vedere la sua faccia da padrone da per tutto. La sera poi si riposava, seduto in mezzo alla sua gente, sullo scalino della gradinata che saliva al viale, dinanzi al cancello, in maniche di camicia, godendosi il fresco e la libertà della campagna, ascoltando i lamenti interminabili e i discorsi sconclusionati dei suoi mezzaiuoli.5
E ancor più rivelatore è il ritratto dell’uomo saziato dalla roba e dalla riuscita negli affari, quando Gesualdo mostra a Bianca la sua identità dispiegata: Egli aveva di queste uscite buffe alle volte, da solo a solo con sua moglie, quando era contento della sua giornata, prima di coricarsi, mettendosi il berretto da notte, in maniche di camicia. A quattr’occhi con lei mostravasi proprio quel che era, bonaccione, colla risata larga che mostrava i denti grossi e bianchi, passandosi anche la lingua sulle labbra, quasi gustasse già il dolce del boccone buono, da uomo ghiotto della roba.6
Ma l’«uomo ghiotto della roba» è capace anche di condividere con gli altri stati d’animo e ricchezze: «Si sentiva allargare il cuore»7 pensando alla sua ascesa economica e «si lasciava andare alla tenerezza dei ricordi»8 insieme a Diodata; Gesualdo «col cuore largo quanto un mare»9 agli occhi di Bianca; Gesualdo che durante l’epidemia di colera «aprì le braccia e i magazzini ai poveri e ai parenti; tutte le sue case
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Ivi, p. 36. Ivi, p. 297. 6 Ivi, pp. 284-285. 7 Ivi, p. 85. 8 Ivi, p. 89. 9 Ivi, p. 275. 5
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Spazi d’identità per mastro-don Gesualdo
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di campagna alla Canziria e alla Salonia»,10 «Lui colle mani aperte come la Provvidenza. Aveva dato ricovero a mezzo paese, nei fienili, nelle stalle, nelle capanne dei guardiani, nelle grotte lassù a Budarturo»,11 e qui l’azione tutta concreta di un gesto di solidarietà sociale si innalza all’iperbole di una immagine sacra che supera la dimensione umana. Ma Gesualdo «Sembrava una pietra murata»12 nella sua determinazione agli affari: così viene descritta la caparbietà mostrata durante l’asta per l’assegnazione delle terre comunali, ed è su questa pietra murata, sua pietra angolare, che Gesualdo innalza l’edificio della sua ricchezza e della sua identità. Man mano che il romanzo procede, quella pietra murata della sua avidità di ricchezza, il motore primo della sua identità, si troverà posata in un corpo deformato e dilaniato proprio dai passaggi attraverso gli spazi conquistati: le prime avvisaglie di questo processo si osservano nel giorno del matrimonio con Bianca, quando Gesualdo, imparentatosi con la nobiltà, è «imbarazzato anche lui, fra tanta gente, la sposa, gli amici, i servitori, dinanzi a quegli specchi nei quali si vedeva tutto, vestito di nuovo, ridotto a guardare come facevano gli altri se voleva soffiarsi il naso».13 Gesualdo è lentamente portato fuori da se stesso, gli spazi costruiti per la sua identità si rivelano incontrollabili: «Non sono più padrone… come quando ero un povero diavolo senza nulla… Ora ci ho tanta roba da lasciare…»,14 dice a Diodata annunciandole l’intenzione di sposare Bianca Trao. E più avanti, quando Gesualdo è costretto a sorvegliare sua figlia Isabella innamorata di Corrado la Gurna, ovvero è costretto a sorvegliare i suoi interessi nella persona della figlia, il narratore dice di lui: «Era un cane alla catena anche lui, pover’uomo».15 Gesualdo perde addirittura il suo nome quando al parlatorio dell’educatorio di Palermo è chiamato «il signor Trao»16 perché così vuole la figlia. È ormai un Giustino Roncella nato Boggiolo ante litteram, il nome della moglie lo sopravanza. Paradossalmente, mentre la figlia che egli crede legittima, ma che in realtà è figlia di Ninì Rubiera, rifiuta di portare il suo cognome, sono i due figli illegittimi avuti da Diodata ed esclusi dallo spazio della sua identità-eredità, a portare il suo nome e quello di suo padre, i nomi dell’identità familiare. Così avverte Nanni l’Orbo quando gli porta davanti Nunzio e Gesualdo, col lutto al braccio per la morte del nonno paterno: «Don Gesualdo… qui c’è anche roba vostra. Guardate Nunzio e Gesualdo come vi somigliano!»;17
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Ivi, p. 292. Ivi, p. 298. 12 Ivi, p. 168. 13 Ivi, p. 143. 14 Ivi, p. 91. 15 Ivi, p. 342. 16 Ivi, p. 286. 17 Ivi, p. 298. 11
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«C’erano infatti Nunzio e Gesualdo di Diodata, vestiti da festa, colle mani in tasca, e un fazzolettino nero al collo. Compare Nanni lo fece notare al padrone».18 Nella terza parte del romanzo è atroce la rappresentazione di Gesualdo con le vene aperte, mentre si lascia cavare il sangue dal barbiere chiamato dopo un suo eccesso d’ira per la vicenda di Isabella che si è compromessa con Corrado La Gurna: «Dovettero mandare in fretta e in furia pel barbiere e cavargli sangue».19 Ma più avanti l’immagine realistica delle vene aperte dilaga nella rappresentazione metaforica dell’emorragia della roba causata dal matrimonio riparatore di Isabella col duca di Leyra: «Talché don Gesualdo, stretto da tutte le parti, tirato pei capelli, si lasciò aprir le vene, e mise il suo nome in lettere di scatola al contratto nuziale».20 Lo strazio è soprattutto delle terre, ma è patito da Gesualdo come strazio del suo stesso corpo e della sua identità: Prima di tutto le terre della Canziria, d’Alìa e Donninga che le aveva assegnato in dote, e gli facevano piangere il cuore ogni qualvolta tornava a vederle, date in affitto a questo e a quello, divise a pezzi e bocconi dopo tanti stenti durati a metterle insieme, mal tenute, mal coltivate, lontane dall’occhio del padrone, quasi fossero di nessuno. Di tanto in tanto gli arrivavano pure all’orecchio altre male nuove che non gli lasciavano requie, come tafani, come vespe pungenti; dicevasi in paese che il signor duca vi seminasse a due mani debiti fitti al pari della grandine, la medesima gramigna che devastava i suoi possessi e si propagava ai beni della moglie peggio delle cavallette. […] Sembravagli di veder stendere l’ombra delle ipoteche sulle terre che gli erano costate tanti sudori, come una brinata di marzo, peggio di un nebbione primaverile, che brucia il grano in erba. Due o tre volte, in circostanze gravi, era stato costretto a lasciarsi cavar dell’altro sangue. Tutti i suoi risparmi che se ne andavano da quella vena aperta, le sue fatiche, il sonno della notte, tutto.21
Ancora in punto di morte: «Sembravagli che gli mancassero le forze d’alzarsi dal letto e andarsene via perché gli toglievano il denaro, il sangue delle vene, per tenerlo sottomano, prigioniero».22 È lo spazio della sua identità a smungersi e svuotarsi, tanto che Gesualdo è divenuto l’ombra di se stesso: «Dicevano che non capiva più niente, uno stupido, l’ombra di mastro-don Gesualdo, un cadavere addirittura, che stava ancora in piedi per difendere i suoi interessi».23 Quando la folla in rivolta lo costringe a nascondersi in casa Trao, nel delirio della malattia vede un altro se stesso, l’uomo forte che era stato, accanirglisi contro:
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Ivi, p. 332. Ivi, p. 344. 20 Ivi, p. 360. 21 Ivi, pp. 366-367. 22 Ivi, p. 468. 23 Ivi, p. 410. 19
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nella febbre, gli passavano dinanzi agli occhi torbidi Bianca, Diodata, mastro Nunzio, degli altri ancora, un altro sé stesso che affaticavasi e s’arrabattava al sole e al vento, tutti col viso arcigno, che gli sputavano in faccia: – Bestia! Bestia! Che hai fatto? Ben ti stia!24 Era ridotto quasi uno scheletro, pelle e ossa; soltanto il ventre era gonfio come un otre. Nel paese si sparse la voce che era spacciato: la mano di Dio che l’agguantava e l’affogava nelle ricchezze.25
Infine, è emblematica di questo inesorabile svuotamento della sua identità l’immagine di Gesualdo senza più soldi in tasca, mentre si avvia a Palermo: «e mise mano alla tasca per regalargli qualche baiocco. “Scusate, mastro Nardo… non ne ho… sarà per un’altra volta, se torniamo a vederci, eh?… se torniamo a vederci…”».26 Ma al centro di questa insistita rappresentazione del corpo smembrato in organi e parti (il cuore, il fegato, lo stomaco, le vene, il ventre deformato), tra i discorsi spezzati dalla rabbia, dal dolore, dall’opportunità del silenzio, i motori primi dell’identità di Gesualdo perdurano tuttavia fino alla fine, da un lato il «cuore grosso» che lo spinge ad avere scrupoli di coscienza verso i due figli illegittimi avuti da Diodata o un moto di tenerezza per Isabella («Allora l’attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fissa per vedere se voleva lei pure, e l’abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei capelli fini»),27 dall’altro quella «pietra murata» della sua avidità di ricchezza, viva ancora nel lucido calcolo che Gesualdo compie osservando il palazzo dei Leyra: dietro quello sguardo che converte tutto, dai muri ai servitori, in denaro, in terre, nelle sue ricchezze dilaniate, vi è ancora la forma latente di una narrazione onnisciente dell’uomo che ha fatto la roba con le proprie mani e mentalmente la enumera, la passa in rassegna. Ma lo spazio che osserva, pur comprato con la sua ricchezza, non rappresenta più lo spazio della sua identità, è uno spazio estraneo che dilaga irrimediabilmente verso gli altri e al tempo stesso gli implode addosso: Ne aveva data tanta dell’acqua per far macinare gli altri! Speranza, Diodata, tutti gli altri… un vero fiume. Anche lì, in quel palazzo di cuccagna, era tutto opera sua; e intanto non trovava riposo fra i lenzuoli di tela fine, sui guanciali di piume; soffocava fra i cortinaggi e le belle stoffe di seta che gli toglievano il sole.28
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Ivi, p. 435. Ivi, p. 438. 26 Ivi, p. 451. 27 Ivi, p. 475. 28 Ivi, p. 464. 25
Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
LUISA MIRONE L’età dell’innocenza perduta: la famiglia nei ‘Romanzi della rosa’ di Gabriele D’Annunzio
Al processo risorgimentale è sottesa un’equazione esplicita e duratura: «patria=famiglia/parentela».1 Ciò legittima la ricerca, all’interno dei romanzi del periodo, di quelle che Banti chiama le «figure profonde», i «sistemi allegorici», le «costellazioni narrative»2 che contengono ed esplicitano la tavola dei valori dominante in un’epoca che, interamente assorbita dal proposito onnivoro di «fare l’Italia», spesso demanda all’Arte, e in particolare alla Letteratura, il proposito non proprio secondario di «fare gli italiani». I romanzi che accompagnano il Risorgimento italiano non mancano di verificare e consolidare l’equazione, talvolta attraverso la riflessione pensosa e complessa di Manzoni o di Nievo, talvolta attraverso un vero e proprio programma pedagogico (si pensi a Cuore di De Amicis).3 Esiste tuttavia una cifra che accomuna romanzi pur diversissimi come quello manzoniano e quello deamicisiano: è una sorta di innocenza, ben lontana da un’ingenuità davvero insospettabile (e perfino ridicola da ipotizzare) negli scrittori menzionati, piuttosto imparentata con uno slancio autentico di conoscenza, di appropriazione, di rilancio di quelle «figure profonde», una sorta di fede incondizionata nel potere dell’Arte, e della parola letteraria in particolare, di comunicare e soprattutto di educare – eredità ancora tutta romantica e idealista. Ma certamente, soltanto vent’anni dopo la data-simbolo della raggiunta Unità, questa innocenza comincia a sfaldarsi e lo slancio conoscitivo degli scrittori del Risorgimento si trasforma inesorabilmente nell’indagine disincantata condotta con gli strumenti appresi dal Naturalismo.
1
A. M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo. Roma-Bari, Laterza 2011, p. 60. Cfr. l’intero capitolo. 2 Ivi, Introduzione, pp. VI-VII. 3 Cfr. ivi, pp. 59-60-61, pp. 75-76, p. 77. Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
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Luisa Mirone
Il teatro – nella specificità del suo statuto – non manca di rappresentare (o addirittura di denunciare) sulla scena del secondo Ottocento la crisi dalla quale l’istituto familiare è pesantemente investito;4 ma vi è nei drammaturghi italiani una passione e un’evidenza drammatica che fanno pensare, più che a un de profundis, a un grido d’allarme accorato, a un’esortazione ostinata a «salvare il salvabile», a un’estrema offerta catartica per lo spettatore della nascente nazione che, aristotelicamente immedesimandosi negli eroi-antieroi della scena, possa liberarsi da paure e passioni e tornare, libero e rinnovato, ad attendere alla vita della polis, ricominciando dalla famiglia. Ma non c’è catarsi, non c’è riscatto nel romanzo italiano di questa stessa epoca.5 I Malavoglia (1881) e più ancora Mastro-don Gesualdo (1889) o I Viceré (1894) o Senilità (1898) – per citare esempi noti – mostrano, se non con cinismo, con fermezza e struggente distacco il fatale corrompersi delle relazioni parentali e le implicazioni esistenziali di tale dissoluzione. D’Annunzio con il suo ciclo dei Romanzi della rosa, «centrati sull’analisi delle nevrosi dell’individuo incapace di dominare il gorgo della modernità»,6 sembrerebbe scrivere un epitaffio, verboso e altisonante al modo suo, al termine di un funerale già con tutti i crismi celebrato da altri. E in verità chi ne conosce l’inesauribile talento di amplificare e rilanciare le suggestioni (se non le mode) dominanti, chi ne conosce l’ammirazione ora per Tolstoj, ora per Dostoevskj, ora per Shelley o Byron o Nietzsche, è quanto meno tentato di ritenere anche queste prove «della rosa» lo scaltro tentativo di cavalcare l’onda del momento.7 Forse queste veloci riflessioni riusciranno ad attenuare la severità di un giudizio per altri versi sicuramente fondato.8 Il tema della coppia in crisi e del matrimonio fallimentare non è certamente un’invenzione italiana: Madame Bovary è del 1857, Ritratto di signora del 1881 – e questo solo per suggerire coordinate geografiche e temporali abbastanza ampie. Verga stesso si pone su questa scia celebrando una serie di matrimoni male assorti-
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Ho affrontato l’argomento in La famiglia a teatro: conflitti e compromessi familiari sulla scena del secondo Ottocento, Torino, Tirrenia 1990. 5 Per l’inquadramento del Romanzo tra Ottocento e Novecento cfr. M. Guglielminetti, Struttura e sintassi del romanzo italiano del primo Novecento, Milano, Silva 1967. 6 G. De Angelis-S. Giovanardi, Diagramma di un fallimento in Storia della narrativa italiana del ’900, vol. I, Milano, Feltrinelli 2004, p. 26. 7 Sul metamorfismo dannunziano vedi M. A. Balducci, Studio sul metamorfismo dannunziano, Firenze, Vallecchi 1989. 8 «D’Annunzio poteva ancora infilzare i suoi superuomini sul letame fumante dei campi naturalistici», A. Asor Rosa, La storia del romanzo italiano, in Il romanzo, Storia e geografia, III, Torino, Einaudi 2002, p. 282; «Il ripudio del naturalismo si verifica sotto il segno di un’incipiente disgregazione della forma-romanzo, cui tuttavia si oppone una volontà costruttiva ancora oscura», G. De Angelis – S. Giovanardi, Diagramma di un fallimento cit., p. 33. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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ti (Elena e suo marito, Gesualdo Motta e Bianca Trao, etc.)9 e non celebrando l’unico che sembrava poter funzionare, quello tra Alfio e Mena. Ma se per ognuno di questi casi potremmo prendere a prestito la definizione calzante di «romanzo del matrimonio sbagliato»,10 nei tre romanzi dannunziani in esame – Il piacere (1889), L’innocente (1892), Il trionfo della morte (1894) – non è difficile accorgersi che si è già «oltre». Laddove Verga si sofferma ad osservare le ragioni sociali ed economiche sottese al matrimonio, polverizzandone la sacralità, tanto nel Piacere quanto nel Trionfo della morte (L’innocente – vedremo – ha una configurazione particolare) il matrimonio direttamente non è. Scapolo Andrea Sperelli, scapolo Giorgio Aurispa, entrambi possono allacciare le loro relazioni proprio nella assoluta certezza (mai messa in discussione) della totale convenzionalità dei vincoli matrimoniali delle loro amanti, donne perfino troppo consapevolmente andate a nozze per motivi di interesse, senza nemmeno l’illusione momentanea del grande amore. I mariti sono sempre uomini brutti, volgari anche quando il lignaggio o la posizione sociale potrebbero far sperare diversamente, sordi ai richiami dell’arte, dello spirito, del bello, maldestri amatori, viziosi e senza scrupoli11 e proprio per questo, in un paradosso solo apparente, garanti delle relazioni adulterine: «Quel marito era per me come un’assicurazione. Mi pareva che egli custodisse la mia amante contro ogni pericolo».12 Questo deve essere necessariamente il punto di partenza della nostra riflessione: tradizionalmente il matrimonio rappresenta la cellula originaria della famiglia, e alla tradizione non si sottrae certamente la società umbertina. Se nei romanzi dannunziani il matrimonio non è, non può trattarsi di un caso. Si diceva: D’Annunzio non analizza nei suoi romanzi il disgregarsi dell’istituto matrimoniale; i Romanzi della rosa sono in effetti singolarmente privi di dinamismo interno, di «fatti», di accadimenti che non siano quelli estremi che, più che condurre alla conclusione, segnano proprio il finale di ciascuno di essi, in un crescendo, da un romanzo all’altro, di effetti drammatici.13 La fragilità dell’azione – che del
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Ho già affrontato l’argomento in Coppie in crisi e altri binomi: indagine sui romanzi di Giovanni Verga in Ascesa e decadenza del romanzo moderno a cura di G. Bàrberi Squarotti, Torino, Tirrenia 1994. 10 E. Villari, Ritratto di signora: il romanzo del matrimonio sbagliato in Il romanzo, Lezioni, V, Torino, Einaudi 2003, pp. 309-326. 11 Per la descrizione di Lord Heathfield, il secondo marito di Elena, cfr. G. D’Annunzio, Il piacere, Libro III, cap. II; per la descrizione del marito di Maria cfr. ivi, Libro II, cap. II. 12 G. D’Annunzio, Il trionfo della morte, Libro I, cap. III. 13 Il famoso amplesso del Piacere, durante il quale Andrea chiama Maria col nome di Elena; la morte dell’Innocente, del neonato illegittimo, procurata dalla comune volontà di Tullio e della moglie, fedifraga per un istante fatale; il lancio nel baratro di Giorgio, suicida e omicida, avviluppato all’amante-Nemica, con cui termina Il trionfo della morte. Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
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genere romanzesco dovrebbe essere l’elemento portante – in uno scrittore che è ritenuto il fondatore del mito dell’azione «come frutto e coronamento della creazione»14 stupisce relativamente: lo spazio dell’azione è infatti dislocato nella dimensione pubblica, ufficiale. Nel privato l’azione sembra stagnare, irrigidita nelle e dalle convenzioni, quasi non ci fosse tempo, modo, volontà di controverterle. Non vediamo dunque mai «accadere» la dissoluzione di un matrimonio: essa è «data», quasi come un elemento socialmente acquisito, registrato, archiviato. Esemplare nel Piacere il primo e il secondo matrimonio di Elena, la donna bellissima e sensuale di cui è innamorato Andrea Sperelli: Donna Elena Muti era partita per affari di finanza, per combinare «un’operazione» che doveva trarla da gravissimi imbarazzi pecuniari causati dalla sua eccessiva prodigalità. Il matrimonio con Lord Heathfield l’aveva salvata da una rovina. […] Certo, i suoi tre anni di vedovanza non parevano essere stati un casto intermezzo preparatorio alle seconde nozze […]. Senza esitare, aveva concluso un matrimonio utile. […] Insomma, si trattava di questo: una passione, che pareva sincera ed era giurata altissima, inestinguibile, veniva ad essere interrotta da un affar di denaro, da una utilità materiale, da un negozio.15
E non meno esemplare il matrimonio di Ippolita nel Trionfo della morte: Per quali intrichi era ella caduta nelle mani dell’uomo odioso di cui portava ancora il nome? E si raffigurò la vita occulta di certe piccole case borghesi della vecchia Roma, emananti insieme un lezzo di cucina e un tanfo di sagrestia, fermentanti di corruttela familiare e clericale. […] Gli parve probabile che Ippolita finisse così in un amore remunerativo.16
Come dobbiamo valutarla? Superficialità d’analisi di uno scrittore incapace, una volta ultimata la pars destruens, di avviare la pars costruens?17 Anche. Ma c’è probabilmente una chiave di lettura alternativa, ed è nell’Innocente, nonostante venga ritenuto «il peggiore dei romanzi dannunziani»18 o anche «il racconto di una mancanza di perspicacia»:19 assistiamo qui al tentativo opposto compiuto dal protagonista, Tul-
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F. Ferrucci, Il mito in Letteratura italiana, Le questioni, Torino, Einaudi 1986, p. 547. Ivi, Libro III, cap. II. 16 G. D’Annunzio, Il trionfo della morte, Libro VI, cap. II. 17 «Ammesso che i Romanzi della rosa costituiscano nel programma dannunziano di rifondazione letteraria la pars destruens, è nella pars costruens che si manifestano le più vistose lacune, evidentemente legate a un’elaborazione superficiale e sommaria delle idee innovatrici», G. De Angelis-S. Giovanardi, Diagramma di un fallimento cit., p. 27. 18 G. Bàrberi Squarotti, Gabriele D’Annunzio in Storia della civiltà letteraria italiana, Torino, UTET 1994, vol. V, tomo I, p. 552. 19 F. Danelon, Inchiesta sull’‘Innocente’ in Né domani né mai. Rappresentazioni del matrimonio nella letteratura italiana, Venezia, Marsilio 2004, p. 339. 15
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lio Hermil, di ritrovare le gioie del suo matrimonio con Giuliana, la donna raffinata e sensibile che patisce da anni i tradimenti e la lontananza del marito, in un silenzio idolatrato dal marito stesso.20 La malattia e la lunga convalescenza di Giuliana21 sembrano offrire a Tullio l’occasione di riscattarsi dalla schiavitù dei sensi che lo tiene legato all’amante e di riconquistare con la felicità coniugale «un altro principio di vita».22 Non ci soffermeremo sulle dinamiche interne e del romanzo e del menage matrimoniale di cui esso racconta, già analizzate da un’illuminante Inchiesta di Danelon.23 Osserviamo soltanto che quel che del matrimonio Tullio desidera recuperare è la donna di cui si era innamorato;24 di ciò che il matrimonio comporta – i figli, innanzi tutto (Tullio e Giuliana hanno due bambine), la casa, la quotidianità – Tullio fa volentieri a meno. Lo scenario del loro riavvicinamento è la splendida tenuta rurale di Villalilla e non la casa romana, i gesti che li legano sono quelli eccezionali – dell’idillio come dello stupro – e non quelli ordinari della vita domestica, le bambine sono una presenza, se non fastidiosa, comunque un po’ invasiva e alla prima occasione vengono allontanate dal padre, che solo in ultimo, quando ormai incombe la «minaccia» dell’Innocente, del presunto «figlio della colpa»25 di Giuliana, pare accorgersi di loro.26 Scrive Tullio nella sua confessione: «Qualunque altro amore umano parrebbe futile al confronto del nostro, dopo questa grande prova».27 Dunque «la prova», l’eliminazione dell’Innocente si rende necessaria proprio per salvare (per quanto illusoriamente)28 quel grande amore. Insomma la dimensione ricercata da D’Annunzio è quella della coppia «inimitabile» e non quella del matrimonio. Se il matrimonio è «negozio», la coppia degli amanti invece si sceglie sulla base di affinità elettive, come chiaramente appare già nel Piacere: Ambedue, mirabilmente formati nello spirito e nel corpo all’esercizio di tutti i più alti e più rari diletti, ricercavano senza tregua il Sommo, l’Insuperabile, l’Inarrivabile29
20 Oggi appare piuttosto l’espressione di quel «bisogno di dissimulazione che attraversa il racconto», ivi, p. 330. 21 Sulla malattia femminile nei romanzi di D’Annunzio cfr. L. Currieri, Metamorfosi della seduzione. La donna, il corpo malato, la statua in D’Annunzio e dintorni, Pisa, Ets 2008. 22 G. D’Annunzio, L’innocente, cap. II. 23 F. Danelon, Inchiesta sull’‘Innocente’ cit. 24 «Io pensavo di riconquistare non l’anima sola di Giuliana, ma anche il corpo», ivi, cap. VI. 25 «Preme sottolineare però che, consapevole o no, D’Annunzio ha lasciato obiettivamente incerta tale paternità, disseminando per il romanzo indizi contrastanti: Filippo rimane solo un possibile padre di Raimondo», F. Danelon, Inchiesta sull’‘Innocente’ cit., p. 334. 26 «Quando mai, da che le due creature vivevano, quando mai avevo provato per loro un sentimento così profondo?», ivi, cap. XI. 27 Ivi, cap. XXXIX. 28 Cfr. F. Danelon, Inchiesta sull’‘Innocente’ cit., p. 329. 29 G. D’Annunzio, Il piacere, Libro I, cap. IV.
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Prospettiva invero oltremodo seducente, tanto quanto l’unica suggerita dal matrimonio sembrerebbe quella di «passare intorno ad una pentola il resto della nostra vita».30 I protagonisti maschili dei romanzi della rosa dunque, anche quando si renderebbe percorribile, rifiutano l’idea del matrimonio in quanto priva di progettualità, e con essa l’idea della famiglia che di un progetto non riesce più ad essere sostegno, perno o anche solo ragion sufficiente. È interessante notare tuttavia come le famiglie di provenienza dei protagonisti maschili dei tre romanzi siano sempre famiglie blasonate, appartenenti a «quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d’eletta cultura, d’eleganza, d’arte»31 che D’Annunzio non manca di contrapporre al «grigio diluvio democratico odierno». O almeno, è così nel Piacere, dove lo scrittore dedica ampio spazio32 al ritratto intellettuale della famiglia Sperelli, allo scopo di mostrare come Andrea sia «il legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, l’ultimo discendente di un razza intellettuale».33 Ma già nell’Innocente assistiamo a un lieve ma sostanziale spostamento di segno. La famiglia di appartenenza di Tullio è sì un’antica famiglia di gran lignaggio, ma i suoi meriti si ascrivono non nell’ambito intellettuale ma guerresco e Tullio si compiace «d’essere il discendente di quel Raimondo d’Hermil De Penedo che […] operò prodigi di valore e di ferocia sotto gli occhi di Carlo Quinto!».34 L’eredità che Tullio sente di aver ricevuto dalla sua famiglia, «il substrato nascosto in cui erano inscritti tutti i caratteri ereditari della mia razza» è la natura di «un violento e un appassionato cosciente»; ed è solo l’attitudine da «ideologo e analista e sofista» che consente al pensiero di predominare ma «senza distruggere le mie facoltà di azione». E infine quando s’arriva al Trionfo della morte, delle glorie della nobile casata d’origine quasi non v’è traccia. Le intuiamo – il vasto, per quanto dilapidato, patrimonio terriero, la grande casa di famiglia, gli oggetti d’arte donati alla Chiesa e custoditi in Cattedrale – ma si tratta di nobiltà rurale: sullo sfondo non più lo splendore dei salotti romani che caratterizza Il piacere e in parte anche L’innocente, ma l’Abruzzo primitivo e superstizioso dove per un attimo Giorgio crede di poter ricominciare, nell’Eremo scelto quale rifugio per sé e la sua amante Ippolita, una vita nuova;35 e «l’eredità mistica di Casa Aurispa» discen-
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G. D’Annunzio, Il trionfo della morte, Libro VI, cap. II. Id., Il piacere, Libro I, cap. II. 32 È l’intera parte iniziale del lungo cap. II del Libro I del Piacere. 33 Ivi. 34 Questa e le citazioni del capoverso successivo sono tratte da G. D’Annunzio, L’innocente, cap. XIV. 35 L’Eremo e La vita nuova sono i titoli rispettivamente del Libro III e del Libro IV de Il trionfo della morte. 31
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de a Giorgio dallo zio paterno, Demetrio, morto suicida dopo averlo dichiarato erede universale dei suoi beni.36 Ora, mentre Andrea Sperelli è l’unico erede della sua famiglia,37 Tullio Hermil, sebbene orfano di padre, ha ancora la madre – ripetutamente definita «una santa». La madre dunque, che è la figura-cardine della famiglia tradizionalmente intesa e di certo «una delle figure simboliche più pregnanti dell’intero sistema discorsivo nazional-patriottico»,38 è assente nel Piacere e ha nell’Innocente i caratteri assai generici ora di una fatina buona, capace con un semplice tocco di nobilitare persone e oggetti,39 ora di dolce vecchina comprensiva, quando invece non capisce nulla di ciò che si muove intorno a lei e vive in una sorta di perenne scollamento, ignara dei tradimenti del figlio,40 ignara che il bimbo che la nuora porta in grembo sia «il figlio della colpa». Ma questa mite e fragile donnina ritrova una sorta di egoistico vigore, energie vitali, presenza di spirito alla nascita di quello che crede l’attesissimo erede maschio. Allora la madre-santa si trasforma agli occhi dello stesso figlioidolatra in una traditrice, esclusivamente dedita al nuovo arrivato tanto da preferirlo alle due nipotine,41 alla nuora, al figlio, per divenire alla fine addirittura, sul corpo del bimbo morto, «una pazza».42 Tuttavia, di questa madre e del fratello Federico43 – scapolo dal cuore d’oro, in odore tolstojano di «Gesù della Gleba»44 – Tullio cerca incessantemente l’approvazione.45 Tullio crede fermamente nel loro giudizio ed entrambi sono per lui il parametro – l’una sentimentale l’altro razionale
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«Entrambi, infatti, esseri d’intelletto e sentimento […] avevano l’anima religiosa, inclinata al mistero, atta a vivere in una selva di simboli o in un cielo di pure astrazioni», Il trionfo della morte, Libro IV, cap. IV. 37 Andrea ha solo una cugina, peraltro invaghita di lui. 38 A. M. Banti, Sublime madre nostra cit., cap. II, par. 5, p. 77. 39 «La mano santa di mia madre, accarezzando i capelli di Giuliana, aveva per me riacceso intorno a quel capo l’aureola», L’innocente, cap. IV; «Che potevo io temere, dopo aver veduto mia madre premere più volte le sue labbra su la fronte di Giuliana sorridente?», ivi, cap. V. 40 «Come potrà ella sospettare […]? Ella non ha la vista troppo acuta», ivi, Capitolo introduttivo. 41 «Mi pareva che ella non si fosse mostrata così tenera verso Maria, verso Natalia, verso le vere creature del mio sangue», ivi, cap. XXXVI; «Pensai: “In tutta la sera tu non hai trovato un minuto per venire a vederla (Giuliana)! Non è la prima volta che la trascuri! Hai dato il cuore a Raimondo!”», ivi, cap. XLII. 42 Ivi, cap. L. 43 Ci sarebbe anche una sorella defunta, il rapporto con la quale è analizzato ancora da F. Danelon, Inchiesta sull’‘Innocente’ cit., pp. 337-338 e p. 344. 44 Ivi, cap. II. 45 «L’elogio inaspettato di quell’uomo severo (il medico), alla presenza di mia madre, di mio fratello […] fu un premio straordinario», ivi, cap. XXXIII. Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
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– delle proprie azioni. Esplicito sostituto della figura paterna,46 il fratello ha caratteri tali da ricordare davvero «la funzione ideale-normativa» che la psicanalisi attribuisce a quella che Lacan chiama «Imago paterna»:47 Io confidavo in Federico ciecamente. Avrei voluto essere da lui non soltanto amato, ma dominato; avrei voluto cedere la primogenitura a lui più degno e star sommesso al suo consiglio, riguardarlo come la mia guida, obedirgli. Al suo fianco non avrei più corso il pericolo di smarrirmi, poiché egli conosceva la via dritta e camminava per quella con un passo infallibile; ed egli aveva anche il braccio possente e mi avrebbe difeso. Era l’uomo esemplare: buono, forte, sagace48
Questo sembrerebbe accordare alla famiglia un ruolo ancora forte e solido di guida, di norma, di legge addirittura. Ma leggibili perché manifesti sono i segnali contrari. Federico non è il padre di Tullio, ma solo il fratello, per quanto «un fratello archetipico».49 Del padre reale tutto ciò che resta è un ritratto, una maschera funeraria, l’amore tenace della vedova50 e – parola-chiave – il nome: «il nome già da tempo stabilito per l’erede mascolino, il nome di mio padre: Raimondo».51 Ma questo nome – particolare evidentemente di capitale importanza – andrà a un erede che tale non è ritenuto e che pertanto, non ereditando altro che il nome, non potrà mai portare avanti i progetti di palingenesi morale e sociale che lo zio nutre fiduciosamente per lui. Le parole di Federico «Tuo figlio sarà quel che noi non abbiamo potuto o saputo essere». Egli tornava spesso sull’argomento; augurava spesso che il nascituro incarnasse l’ideal tipo umano da lui meditato, l’Esemplare52
illuminano «il più brutto romanzo dannunziano» della luce sinistra della profezia. Ha scritto di recente lo psicanalista lacaniano Recalcati: Il Nome-del-Padre non è il padre reale, ma un puro simbolo che opera sullo sfondo della cancellazione del padre reale. Dove c’è il Nome-del-Padre, il padre reale è sempre morto. Dove invece sopravvive il padre reale […] esso mostra una potenza oscena e distruttiva, totalmente avversa alla Legge simbolica.53
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«Su una parete pendeva il ritratto di mio padre, che somigliava molto a Federico», ivi, cap. XXVIII. 47 Cfr. M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Milano, Raffaello Cortina Editore 2011, p. 35. 48 G. D’Annunzio, L’innocente, cap. II. 49 F. Danelon, Inchiesta sull’‘Innocente’ cit., p. 335. 50 «Stava chiusa in cristalli […] la maschera formata sul cadavere dell’uomo che mia madre amava di un amore ancora più forte della morte», L’innocente, cap. XXVIII. 51 Ivi, cap. XVII. 52 Ivi, cap. XXII. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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Sembra davvero di ripercorrere le tappe dannunziane all’interno del ciclo della rosa. Nel Piacere il padre assente può farci pensare quasi ad una rimozione del conflitto con la figura paterna; conflitto che tende a quietarsi ma non a risolversi nell’Innocente nell’attribuzione del «Nome-del-padre» per poi esplodere senza rimedio nel Trionfo della morte, dove il padre è davvero una presenza «oscena e distruttiva», tale da dissolvere definitivamente la fiducia nell’istituto familiare stesso. Proprio Giorgio Aurispa tra tutti ha la famiglia più numerosa e variegata – alla maniera della famiglie «di campagna»: padre, madre, due sorelle, un fratello, una zia paterna, due cognati, un nipotino e un altro in arrivo. Ma lungi dall’essere il ritratto della solida famiglia radicata nelle buone tradizioni contadine, la famiglia Aurispa è portatrice di tutti i vizi, le malattie, le deformità fisiche, il decadimento materiale e morale che l’Italia postunitaria poteva paventare;54 è tale, insomma, che Giorgio non può non sentirsene estraneo.55 Nel capitolo significativamente intitolato La casa paterna,56 D’Annunzio ne descrive tutti i componenti, cominciando proprio dalla madre, una volta tenera e rassicurante, ora astiosa e querula. Non va meglio con il fratello malvagio, con la sorella minore, scioccamente sentimentale; amatissima la sorella maggiore, ma vittima di un matrimonio infelice e madre di un figlio rachitico; demente la zia paterna, zoppa, ingorda, lurida. Ma è il padre che più di ogni altro conquista la scena con il peso di una fisicità debordante e violenta, dotato di una sensualità bestiale, avido, dilapidatore, dissimulatore; è odiato dalla moglie, temuto dalla sorella demente (alla quale ha azzoppato la gamba), complice in bassezze del figlio minore, disprezzato dal primogenito Giorgio; che tuttavia sente, sa di aver ereditato da lui la sensualità bestiale,57 «la libidine ereditaria»,58 la parte malata di sé che l’ha fatto schiavo di Ippolita impedendogli di realizzarsi come intellettuale, ma anche come pater familias, dal momento che la donna, anche socialmente molto inferiore a Tullio, è significativamente una ninfomane sterile. Giorgio, che dal padre non ha ricevuto un’eredità patrimoniale, cede invece al padre il patrimonio ricevuto dallo zio suicida, così letteralmente comprando il diritto ad un esplicito disconoscimento di paternità: «Non sono più tuo figlio. Non
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M. Recalcati, Cosa resta del padre? cit., pp. 21-22. Già osservato da G. Bàrberi Squarotti, Gabriele D’Annunzio cit., p. 556. Fra gli studi dannunziani di Bàrberi Squarotti, cfr. anche Il gesto improbabile, Palermo, Flaccovio 1971; La scrittura verso il nulla: Gabriele D’Annunzio, Torino, Genesi 1992; La farfalla, l’anima. Saggi su Gabriele D’Annunzio, Verona, Bonaccorso 2007. 55 «Io non ho mai fatto nulla per nessuno; ho sempre vissuto per me solo. Sono uno straniero, qui», Il trionfo della morte, Libro II, cap. V. 56 Ivi, Libro II, cap. II. 57 «Egli aveva orrore del padre! Ma che faceva egli, in fondo, se non la medesima cosa?», ivi, Libro IV, cap. I. 58 Ivi, Libro III, cap.VII. 54
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voglio più vederti; non voglio più sapere nulla di te».59 Disconoscimento che, insieme al padre, gli farà rinnegare proprio «la libidine ereditaria», per riconquistare l’eredità spirituale dello zio, e con essa l’accesso al suicidio. L’azione economica sottesa al gesto, la sostanziale compravendita messa in scena da D’Annunzio è necessaria ma invero assai poco liberatoria Gli pareva d’essere estraneo a quel fatto, incredibilmente; e pur nondimeno sentiva in fondo all’anima una specie di rimorso oscuro che era quasi una istintiva consapevolezza d’aver ecceduto, d’aver commesso una trasgressione irreparabile, d’aver calpestato qualcosa d’umano e di sacro60
Se «l’eredità implica un movimento singolare tra identificazione e disidentificazione», se l’eredità «è una disidentificazione avvenuta e un’identificazione che esige una disidentificazione», se infine è vero il monito di Goethe, fatto proprio da Freud, «Ciò che hai ereditato dai padri /Riconquistalo, se vuoi possederlo davvero»,61 allora nei romanzi della Rosa assistiamo alla perdita totale di questa eredità, alla rinuncia a vivere (che del godimento dell’eredità si direbbe condizione necessaria) nella misura in cui riconquistarla significa rinunciare a se stessi. Ancora Andrea Sperelli nel Piacere può riconoscere l’eredità del padre nel «gusto delle cose d’arte», nel «culto passionato della bellezza», nel «paradossale disprezzo dei pregiudizi», nell’«avidità del piacere», se alla «cura paterna» deve «la sua straordinaria educazione estetica»:62 intento pedagogico invero alquanto distante dai «buoni insegnamenti» di marca borghese e tuttavia dichiaratamente tale e dunque capace di ribadire la funzione primaria della famiglia, quella di educare, nel senso etimologico del termine. Ma l’Innocente mostra tutta la fragilità di tali istanze giacché il protagonista Tullio Hermil sa di trasmettere all’«Intruso» l’eredità tutta formale ed esteriore del «Nome-del-Padre», ben consapevole dell’impossibilità che l’erede si carichi del progetto ambizioso dello zio, di essere «ciò che noi non abbiamo potuto o saputo essere», di colmare cioè gli ammanchi vistosi dell’operato familiare. Ma Giorgio Aurispa comprende non solo che – per ritrovare se stesso, deve rinunciare alla famiglia, ma addirittura «che, invece di sforzarsi a riconquistar sé a sé medesimo, egli doveva a sé medesimo rinunziare».63 Un saggio di qualche anno fa, intitolato La scrittura dei libri di famiglia,64 prende
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Ivi, Libro II, cap.VII. Ivi, Libro II, cap.VIII. 61 Ivi, pp. 17-18. 62 G. D’Annunzio, Il piacere, Libro I, cap. II. 63 Id., Il trionfo della morte, Libro IV, cap. IV. 64 A. Cicchetti-R. Mordenti in Letteratura italiana, Le forme del testo, vol. II: La prosa, Torino, Einaudi 1984. 60
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in esame queste scritture private: libri compilati nelle famiglie e dalle famiglie dai membri della famiglia, riguardanti le «cose» della famiglia e ad uso della famiglia medesima, presente e futura. Essi contengono anche un’eredità – per così dire – morale, ma fondamentalmente suggerimenti di vita pratica, che comunque – va detto – dalla vita morale non era intesa come scissa.65 C’è un passaggio significativo: i libri di famiglia «aspirano ad essere scritture «per sempre», cioè a funzionare come messaggio rivolto a un destinatario futuro anche molto lontano nel tempo».66 Una sorta di «epica familiare» che il romanzo, moderno succedaneo nonché dissolutore dell’Epica, non manca di polverizzare nel momento stesso in cui della famiglia mostra la crisi e appunto la dissoluzione. In una società in cui i padri non lasciano eredità ai figli, perde di senso la «scrittura per sempre» e la solida consistenza del libro di famiglia lascia il posto ai risultati precari del romanzo sulla famiglia.
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«Se il cronotopo, secondo quanto afferma Bachtin, individua un genere di scrittura, allora i libri di famiglia […] risulterebbero definiti come genere da una formula cronotopica perfettamente speculare rispetto a quella che lo stesso Bachtin impiega per definire il romanzo – il mondo altrui nel tempo d’avventura –, una formula che potrebbe suonare: il mondo della nostra famiglia nei tempi della quotidianità», ivi, pp. 1117-1118. 66 Ivi, p. 1120. Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
BARBARA MARIATTI Il “romanzo familiare” di don Gonzalo: una lettura della ‘Cognizione del dolore’
La scelta di presentare un romanzo come la Cognizione del dolore in un contesto scolastico può generare qualche perplessità: si tratta di un testo complesso, dai contenuti ardui e dallo stile artificioso. Gadda, non solo in questo romanzo, sembra voler allontanare il lettore, che si perde facilmente nelle spire della sua narrazione, dove fatica a tenere il bandolo della vicenda e a districarsi fra le insidie di una lingua quanto mai composita ed imprevedibile. In questa sede proveremo quindi ad affrontare la sfida che il romanzo ci offre proponendone una chiave di lettura che tenga conto soprattutto della sua componente autobiografica. Apparso a puntate su «Letteratura» fra il 1938 e il 1941 e pubblicato per la prima volta in volume nel 1963, il romanzo uscì nuovamente nel 1970 con l’aggiunta di alcuni capitoli, pur mantenendo il carattere di incompletezza che è segno distintivo della scrittura gaddiana. La Cognizione è ambientata nel Maradagàl, un fantasioso paese del Sud America, dove l’ingegnere Don Gonzalo Pirobutirro vive nella villa di famiglia con la sola compagnia dell’amata-odiata madre, essendo morti tanto il padre quanto il fratello, vittima di quella stessa guerra da cui Gonzalo è invece tornato. La trama del romanzo ruota su due assi narrativi: la critica sociale (nel Maradagàl è ravvisabile l’Italia del periodo fascista con i suoi problemi) e il conflittuale rapporto tra don Gonzalo e la madre. Il romanzo si conclude, anche se di fatto in modo incompiuto, con la morte della madre, probabilmente vittima di un ladro introdottosi furtivamente nella villa, anche se nell’aria aleggia il sospetto del matricidio. Il testo è apertamente autobiografico, autobiografico in modo quasi imbarazzante per il lettore che sia a conoscenza degli episodi salienti della vita dell’autore e che se li rivede scorrere davanti agli occhi appena velati da nomi e ambientazione di fantasia: Gadda, come è noto, era ingegnere e lavorò in Sud America, per la precisione in Argentina; rimase orfano di padre in età adolescenziale e andò incontro all’umiliante deteriorarsi delle proprie condizioni economiche anche a causa della
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costruzione di una villa in Brianza fortemente voluta dai genitori; il regime di severa paupertas che in conseguenza di questi fatti venne imposto ai figli fu da Gadda sempre rimproverato alla madre come un’irragionevole e mortificante vessazione. Infine l’autore partecipò alla Grande Guerra con il fratello che morì durante un’azione aerea. Lo stesso cognome del protagonista, Pirobutirro, allude ad una delle tante imprese fallimentari del padre: la coltivazione delle pere butirro. Il nodo irrisolto dei rapporti familiari era per altro già ben presente, con un autobiografismo ancora più esplicito, in un abbozzo del 1928, intitolato Villa in Brianza1 in cui si sente chiaramente l’urgenza dello sfogo e della denuncia. In quelle poche pagine sono presenti tutti i personaggi della famiglia Gadda, divenuta Pelegatta: il padre Francesco («uomo sommamente morale, e mai non commise atto alcuno che la sua coscienza gli avesse vietato commettere»);2 la madre, la Marchesana Adelaide (nella realtà Adele), seconda moglie di Francesco; la figlia di primo letto di Francesco (nella realtà la sorellastra Emilia); i tre nuovi figlioli, di cui uno chiamato Carlo Emiliuccio. Nel romanzo il travestimento sudamericano della Brianza, i nomi spagnoleggianti, le lunghe divagazioni sulle abitudini del Maradagàl e dei suoi abitanti coprono appena, come un lenzuolo troppo corto, le ferite ancora brucianti della malaccorta gestione economica del padre, della severità della madre, della tragica morte del fratello, del senso di colpa e di inadeguatezza che tormenta Carlo Emilio a causa dei lutti mai completamente elaborati. La Cognizione del dolore, per ammissione dello stesso Gadda, è il romanzo del riscatto e della vendetta nei confronti delle scelte della famiglia, a partire dalla costruzione della casa di Longone al Segrino che, neppure troppo trasfigurata, avrà un ruolo centrale nel romanzo. Nella quinta edizione Einaudi del romanzo, apparsa nel 1971, per la prima volta compare sulla sovraccoperta una fotografia della casa di Gadda in Brianza. Viene così apertamente svelata la chiave autobiografica della Cognizione, denunciata in una lettera privata del 1963 inviata dall’autore al critico Gianfranco Contini. Come nota puntualmente Maria Antonietta Terzoli,3 un’analisi delle foto possedute dall’autore della villa in Brianza, venduta dopo la morte della madre, permette di rilevare numerose analogie con le descrizioni della villa nel romanzo, ad esempio la terrazza a livello, e tra i ritratti dei componenti della famiglia Gadda e i protagonisti della Cognizione.
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Pubblicato a cura di G. Pinotti per Adelphi nel 2007 ma già apparso nel 2001 nei «Quaderni dell’Ingegnere» a cura di E. Manzotti (n. 1, pp. 7-33, 2001). 2 C. E. Gadda, Villa in Brianza, a cura di G. Pinotti, Milano, Adelphi 2007, p. 11. 3 M. A. Terzoli, Le immagini della memoria, in Le lingue di Gadda, Atti del Convegno di Basilea, 10-12 dicembre 1993, a cura di M. A. Terzoli, Roma, Salerno 1995. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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Vediamo dunque come vengono rappresentati gli attori di questo dramma familiare: i due presenti, il figlio e la madre, e i due assenti, il padre e il fratello, la cui presenza aleggia nell’aria senza che i protagonisti mai ne parlino apertamente fra loro, in un tentativo di rimozione tacitamente condiviso. Il protagonista fa il suo ingresso in scena soltanto alla fine del secondo capitolo, come nella tradizione delle tragedie, ma il lettore era già venuto a conoscenza delle sue «stranezze» nella parte precedente, attraverso il monologo interiore del dottore, che riflette sulle dicerie di paese mentre si reca alla villa per una visita a don Gonzalo. Don Gonzalo, come rileva Guido Baldi,4 appare dunque al lettore deformato da un doppio filtro: lo sguardo del dottore e quello degli abitanti del paese per i quali il protagonista è un solitario, egoista, bisbetico, violento e reazionario. La voce del narratore, che si inserisce successivamente, in parte si identifica negli atteggiamenti del protagonista, rappresentandolo come un garbato e malinconico signore dai modi improntati ad un’antica correttezza, in parte ne prende le distanze con ironia. Il lettore, dunque, si trova di fronte a rappresentazioni discordanti dello stesso personaggio in attesa di una ricomposizione che si dimostrerà ardua e dolorosa. Motivo fondamentale del furore di don Gonzalo è il risentimento nei confronti della madre, la Signora che sperpera il patrimonio familiare in opere di beneficenza e che rivolge le sue cure ed il suo affetto ad una variopinta schiera di popolani, la cui ignoranza, meschinità e arroganza generano un profondo disgusto nel protagonista. Don Gonzalo è infastidito dalla loro mediocrità, indispettito nel vedere la madre che riversa il suo affetto, negatogli da piccolo, su bambini estranei, che dà lezioni private a ragazzi «asini» che gli paiono destinati a rimanere tali in quanto privi di adeguate facoltà intellettuali. La madre è portatrice di quei valori che alimentano l’odio viscerale nutrito da Gonzalo nei confronti del mondo borghese e il furore ossessivo di Gonzalo è dunque sempre impastato di un sordo rancore nei confronti della donna, vista come l’ignara colpevole del dolore che lo tormenta e che avrebbe la sua prima causa nella rigida educazione familiare con le sue assurde rinunce, con la negazione di ogni affetto, ad esclusivo vantaggio della tutela della proprietà. Nota giustamente Robert S. Dombroski5 che la figura della madre è costruita su due registri: da una parte sul tragico archetipo del conflitto con il figlio, dall’altra sulla grottesca adesione al mondo borghese di cui la donna condivide il culto per la
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G. Baldi, ‘Pasticcio’ e ordine nella ‘Cognizione del dolore’, in Carlo Emilio Gadda. La coscienza infelice, a cura di A. Andreini e M. Guglielminetti, Milano, Guerini e Associati 1996. 5 R. S. Dombroski, Travestimenti gaddiani, trad. it. di A. R. Dicuonzo, in «The Edinburgh Journal of Gadda Studies» EJGS 2/2002 (or. ingl. in Id., Properties of Writing: Ideological Discourse in Modern Italian Fiction, Baltimore-London, The John Hopkins University Press 1994). Identità nazionale nella rappresentazione degli Italiani
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proprietà e su cui Gonzalo-Gadda si sofferma con sarcasmo. L’ostentazione degli orecchini di brillanti può essere ritenuto esemplificativo di questo atteggiamento di patetica vanità. Come hanno rilevato alcuni critici, fra cui Benedetta Biondi,6 la rappresentazione tragicamente ambigua del rapporto Madre-Figlio è di ascendenza shakespeariana. Nella recensione del ’52 che Gadda dedicò ad uno spettacolo con protagonista Vittorio Gassman, l’autore si soffermava proprio sulla tensione crescente fra Amleto e la madre dopo l’uccisione di Polonio e sulla paura che investe la donna di fronte al figlio. Il «male oscuro»7 di cui è vittima Gonzalo, e che dalla madre è dolorosamente intuito ma non compreso, ha come scenario l’odiata villa, che può essere considerata quasi un ulteriore personaggio, oggetto di continua e dissacrante ironia. Per la madre la costruzione della villa è stata contemporaneamente la «costruzione» della sua affermazione sociale; ella vuole in ogni modo provarne la funzionalità perché in questo modo può darne giustificazione agli occhi del figlio che in essa vede, invece, soltanto l’odiato simbolo delle meschine ambizioni borghesi della famiglia (cfr. G. Baldi).8 La situazione è resa ancora più complessa dall’ambivalente rapporto con il «grande assente», il fratello, nei confronti del quale Gonzalo si sentiva «la prova difettiva di natura, un fallito sperimento delle viscere» (così nella Cognizione del dolore).9 Prendiamo ora in considerazione le circostanze biografiche legate ad Enrico, il fratello minore di Carlo Emilio. Gadda era stato informato della morte del fratello al suo ritorno a Milano, dopo la prigionia a Cellelager in seguito alla disfatta di Caporetto. Il fratello amatissimo è più volte ricordato nel Giornale di guerra e di prigionia con l’affettuoso «caro», «carissimo». Enrico è descritto con caratteristiche opposte a quelle di Carlo Emilio: gioviale, allegro, sempre alla ricerca di soldi che il fratello maggiore prontamente gli invia. Per Carlo Emilio, Enrico è «la parte migliore di me». D’altra parte il fratello è avvertito anche come il prediletto dalla madre, perché più bello e brillante e tale predilezione si sarebbe fatta più evidente dopo la tragica fine. Il tema torna nella Cognizione del dolore con drammatica consapevolezza attraver-
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B. Biondi, Amleto in Gadda, in «The Edinburgh Journal of Gadda Studies» EJGS 2/2002. Non sarà fuor di luogo ricordare che Gadda dedicò una recensione radiofonica al romanzo Il male oscuro (1964) dello scrittore veneto Giuseppe Berto (1914-1978), in cui vengono analizzati i meccanismi inconsci di una nevrosi. 8 G. Baldi, Carlo Emilio Gadda, Milano, Mursia 1988 (1a ediz. 1972). 9 Tutte le citazioni dalla Cognizione del dolore sono tratte dall’edizione a cura di D. Isella C. E. Gadda, Romanzi e racconti I e II; Saggi, giornali, favole I e II; Scritti vari e postumi; Indici, Milano, Garzanti 1988-1993. 7
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so il mito greco dei Dioscuri, i gemelli Castore e Polluce, cui sono implicitamente paragonati i fratelli Pirobutirro. Secondo il mito, Polluce, per seguire il destino di Castore ferito a morte, ottenne da Zeus di vivere con il fratello un giorno sull’Olimpo ed uno nell’Ade. Gonzalo (e Carlo Emilio), invece, sopravvissuto al fratello caduto in guerra, non ha avuto la possibilità di condividerne la sorte (cfr. R. Rinaldi).10 Infine il padre, ricordato nel romanzo (anche se a lui era dedicato un quadro più esaustivo in Villa in Brianza) per la sua incompetenza e la sua eccessiva generosità, fatto sempre oggetto di ironia talvolta bonaria, talvolta crudele. Il padre è protagonista di uno degli episodi centrali, quello in cui don Gonzalo stacca dalla parete il suo ritratto e lo calpesta: il valore simbolico del dipinto è del tutto scoperto, l’immagine è perfettamente sovrapponibile alla persona fisica, tanto che i danni da esso subiti vengo descritti con termini che richiamano le ferite inferte ad un corpo umano («due spaventose ecchimosi del ritratto»). Non sarà il caso di scomodare Freud per osservare che attorno alla figura della madre e del figlio ruotano altri due personaggi maschili – antagonisti in cui il protagonista non può identificarsi e di cui, dunque, non può essere credibile sostituto agli occhi della madre: nell’uno, il padre, non può riconoscersi perché portatore di valori borghesi avvertiti come ipocriti, nell’altro, il fratello, perché caratterialmente troppo diverso. Si noti infatti che nel romanzo, a differenza di quanto accade nell’abbozzo di Villa in Brianza, non trovano posto non solo la sorellastra Emilia (per altro ritenuta dall’autore involontaria origine di tutte le disgrazie in quanto tramite lei, allieva di Adele, si conobbero i genitori) ma neppure la sorella Clara. Non si può negare come la dolorosa esperienza personale di Gadda sia confluita nella rappresentazione di un personaggio che presenta molte affinità con i più tipici anti-eroi della letteratura novecentesca: anche don Gonzalo è di fatto un «inetto». Il termine è sicuramente abusato e «l’inettitudine» è un ombrello molto ampio sotto il quale trova riparo la maggior parte dei protagonisti della letteratura tardo ottocentesca e novecentesca da Corrado di Malombra a Corrado della Casa in collina, per rimanere a due omonimi. Non intendo quindi usarlo come categoria interpretativa che risolva la complessità del personaggio, quanto piuttosto come chiave di lettura che integri quella autobiografica e faciliti l’accesso dello studente alla comprensione delle relazioni che intercorrono fra i personaggi. Giuseppe Stellardi11 si sofferma in particolare sulle analogie fra Zeno Cosini e
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R. Rinaldi, I Dioscuri senza Leda, in Carlo Emilio Gadda. La coscienza infelice cit. G. Stellardi, L’altra vita: scrittura e verità in Svevo e Gadda, in «The Edinburgh Journal of Gadda Studies», EJGS Resources 2008. 11
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don Gonzalo sottolineando come l’anomalia dei protagonisti della Coscienza di Zeno di Svevo e della Cognizione del dolore di Gadda si manifesti in modo concreto attraverso il rifugio nella malattia e in tentativi di cura che risultano sempre fallimentari dando luogo però a due esiti diversi: per Zeno un rifiuto dell’autoanalisi e dell’introspezione e un’ambigua riscoperta della vita attiva e naturale (conquista immediatamente inficiata, si noti, dalla profezia catastrofica della pagina finale); per Gonzalo l’amletica certezza, simultaneamente, del dovere di verità e dell’impossibilità di avere contemporaneamente verità e felicità.
La consapevolezza (o coscienza, o cognizione) della propria malattia (o anomalia, o diversità) mi pare che si sveli in don Gonzalo anche attraverso il confronto scontro con i due antagonisti individuati sopra e che rivestono strutturalmente funzione non dissimile da quella dei due antagonisti di Zeno: il padre, naturalmente, ed il cognato, dunque un fratello acquisito. Come Zeno mette in scena un complesso gioco di specchi e di rivalse con i suoi antagonisti, così Gonzalo acquista coscienza di sé e del proprio dolore attraverso il confronto con il padre e il fratello. Torniamo quindi al titolo, a quella «cognizione» che è una dolorosa presa di coscienza della propria anomalia, per usare un termine che lo stesso Gadda utilizza per definire la propria scrittura. Il titolo del romanzo12 è da «interpretare alla lettera», come precisa l’autore in un’intervista del 1963 («Cognizione è anche il procedimento conoscitivo, il graduale avvicinamento a una determinata nozione»). Non per questo ci troviamo di fronte ad un romanzo di formazione; come osserva Luperini, non si deve pensare che l’autore ci conduca in un viaggio terapeutico e liberatorio che abbia come obiettivo il raggiungimento di tale conoscenza. Tale esito positivo è negato all’inetto: La guarigione o la normalità sono guardate con sospetto anche maggiore della nevrosi: sarebbe una resa all’imbecillaggine sociale. Il dolore non ha alternative. A Gadda non interessa interpretarlo simbolicamente, ma ergerlo ad allegoria del presente e così inserirlo nel cerchio della conoscenza.13
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Il titolo è ripreso testualmente in un passo dell’ottavo capitolo, in cui Gonzalo, affacciato al parapetto del terrazzo della villa osserva il paesaggio: «Per intervalli sospesi al di là di ogni clausola, due note venivano dai silenzi, quasi dallo spazio e dal tempo astratti, ritenute e profonde, come la cognizione del dolore: immanenti alla terra, quandoché vi migravano luci ed ombre. E, sommesso, venutogli dalla remota scaturigine della campagna, si cancellava il disperato singhiozzo». 13 R. Luperini, La costruzione della cognizione in Gadda, in «The Edinburgh Journal of Gadda Studies», EJGS 0/2000. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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Per tornare al parallelo con Svevo, si può concordare con Stellardi quando afferma che per questi due autori la scrittura assume un ruolo compensatorio nei confronti della vita, risarcisce di ciò che l’anomalia-malattia ha loro negato. Come nota molto acutamente Stellardi, l’anomalia che separa Zeno e Gonzalo dal contesto sociale in cui vivono non impedisce ai due autori di presentare i loro protagonisti, in modo che può apparire contraddittorio e paradossale, come rappresentativi della generale condizione umana di sofferenza. […] la Coscienza propone, con altrettanta chiarezza della Cognizione, l’idea di un depotenziamento soggettivo, collegato a un’eccessiva dipendenza dal ricordo e dal sogno a occhi aperti (e non è questa, forse, la definizione migliore dell’inettitudine sveviana?). Sia Zeno che Gonzalo, pur nella peculiarità dei loro comportamenti, rappresentano dunque l’esito inevitabile di un progressivo depauperamento dell’intera specie, e in tal senso assumono un valore di universalità nell’esprimere un destino comune; a un altro livello, però (nella prospettiva empatica, lucida e equanime del lettore che i due libri segretamente invocano), essi incarnano valori positivi, di originalità, di indipendenza di pensiero, e quasi di eroismo nell’ossessivo rifiuto di una facile conformità; e anche in tal senso essi pervengono a simboleggiare un che di universale nella definizione di ciò che è propriamente umano.14
Che Gonzalo sia ultimo frutto di una gloriosa stirpe in decadenza è ricordato più volte ironicamente all’interno del romanzo dove si precisa che egli discende dalla casata d’Eltino («Egli discendeva in linea maschile diretta da Gonzalo Pirobutirro d’Eltino, stato già governatore spagnolo della Néa Keltiké»), laddove, per altro, la deformazione del Tino sembra alludere all’attività di viticoltori o comunque ad un’eccessiva familiarità con il vino. Ma, alla fine del secondo capitolo, Gadda, in riferimento all’atteggiamento cortese di Gonzalo nei confronti del dottore, osserva: I suoi agnati d’Eltino, o del Tino, non pesavano nel suo contegno se non come lontane cause, d’un povero effetto; di cui da un pezzo si sono al tutto dimenticate le cause: come, sul suo cognome, i vecchi cippi del camposanto fuori le mura, sparito. E demolite le mura. Così accade, nei vicoli delle città, che d’un paracarro imprevisto ci si chieda la cagione: ed è, tra superstiti muri, un reliquato di smarrite cagioni. Forse quella correttezza così umana ed inutile, e un po’ triste, era un modo non d’oggi, che veniva di lontano.
In queste righe, che mi paiono la miglior definizione dell’atteggiamento di Don Gonzalo e dello stesso Gadda, il misantropo collerico è un uomo la cui «correttezza così umana ed inutile, e un po’ triste», affonda forse in un passato, familiare e
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G. Stellardi, L’altra vita: scrittura e verità in Svevo e Gadda cit.
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non solo, di cui si sono perse le coordinate. Proprio in questa correttezza credo vada ricercato il dovere di verità di cui parla Stellardi: un obbligo morale che non può coincidere con la ricerca di una felicità vana e ingannevole, che si tratti del prestigio sociale ambito dal padre o della giovanile sventatezza paga di se stessa del fratello. Il padre e il fratello, forse felici, forse solo convinti di esserlo, e le due cose in quest’ottica coincidono, non ci sono più. Gonzalo-Carlo Emilio è rimasto unico depositario di un modello ereditato e dolorosamente accettato, di cui la villa è il segno tangibile, il teatro della sua rappresentazione, e da solo deve cercare le smarrite cagioni per sé, per la madre inconsapevole, per i lettori che si avvicinano ad un romanzo dove il dubbio e la ricerca rappresentano i soli valori forti quanto mai attuali.
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L’IDENTITÀ NAZIONALE: CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ NEL LEGAME TRA INDIVIDUO E COLLETTIVITÀ
CLAUDIA CORREGGI Interpretazioni di un carattere nazionale: dall’Italia all’America con Giovanni Arpino
Vuoi saper anche il mio? Egli è Delitto, Punizion son io G. Verdi, Rigoletto, Atto III
Tutto ha inizio da una coincidenza. La scelta di far leggere ai ragazzi di una quinta liceo scientifico un autore che esuli dal quartetto canonizzato, Pavese Fenoglio Calvino Levi, si incrocia casualmente con la presentazione di un ciclo di film di Dino Risi, dove viene citato Arpino tra gli scrittori ai quali il regista è debitore. Comincia a delinearsi un’idea: partire da un autore prolifico che ha sperimentato tutte le potenzialità della scrittura (16 romanzi, più di un centinaio di racconti, migliaia gli articoli sui giornali, opere teatrali, poesie), molto letto nel Novecento, tra i più tradotti negli anni Sessanta/Ottanta, vincitore di uno Strega (L’ombra delle colline, 1964) e di un Campiello (Il fratello italiano, 1980), giornalista di costume e sportivo, un autore «medio» quindi forse in grado di catturare con la sua accessibilità anche la neghittosa pigrizia degli studenti. Li ho sempre trovati bendisposti verso Levi, per esempio, ma annoiati a morte dalla Micòl Finzi Contini, impermeabili all’ironia (che non colgono) della Donna della domenica, inaspettatamente inerti, anzi assai critici verso Salinger («non succede niente, prof») e senza aver letto la critica corrosiva di Arbasino,1 ma pronti a sciropparsi migliaia di pagine su coetanei vampiri con lo stesso entusiasmo dei loro
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«Noi naturalmente possiamo immaginare come riderebbero Dickens e Stendhal, Balzac e Dostoevskij; ma il pubblico americano ama ancora molto l’idea del «guru» nascosto nella sua tanina, che si prepara delle minestrine Zen, e intanto non perde una notizia pubblicitaria o mondana», A. Arbasino, America amore, Milano, Adelphi 2011. Identità nazionale: continuità e discontinuità nel legame tra individuo e collettività
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colleghi d’oltreoceano. Quindi l’idea è di seguire Arpino nelle pagine di un bel romanzo di formazione, Il buio e il miele e nelle sue filiazioni cinematografiche, Profumo di donna di Dino Risi e Scent of a woman di Martin Brest, entrambe, per diversi motivi prodotti emblematici dell’industria dell’intrattenimento culturale del paese d’origine, l’Italia degli anni Settanta e gli Stati Uniti degli anni Novanta. Dal loro confronto dovrebbe affiorare più delineata la linea di demarcazione tra due caratteri nazionali o due identità, due sistemi di vita, due mondi. Dovrebbe. Il romanzo piace, lo leggono volentieri «finalmente un bel libro prof!». Quello che cattura i ragazzi è la corposità della storia, e infatti «cacciatore di storie» Arpino ama definirsi, e dal 1951, anno di pubblicazione presso Einaudi del primo romanzo, Sei stato felice Giovanni all’ultimo, La trappola amorosa, uscito postumo nell’88, la sua è una produzione davvero opulenta, caratterizzata da una cifra fortemente realistica che non trascura però svolte fantastiche, introspettive, polar, o addiritture calcistiche, come in Azzurro tenebra del ’77, ambientato durante i mondiali tedeschi del ’74, forse un testo tattico da proporre agli studenti più riottosi verso la lettura, ma molto versati nel calcio. La «medietà» di Arpino viene contraccambiata dal favore dei lettori che lo accompagna lungo tutto l’arco della sua produzione, ma non gli risparmia gli strali appuntiti di un Manganelli agli antipodi rispetto alla fiducia attribuita alla capacità della scrittura di rappresentare la realtà, come si legge in un’intervista pubblicata sul Giornale Nuovo, nel marzo 1981, in occasione della pubblicazione del suo libro Amore:2 Arpino: «Si è sempre parlato di due Manganelli: uno ironico, sfregiante, vellutato ma anche cattivo, e l’altro depositario di sogni. E questo Amore sembra appartenere più al secondo che al primo. È d’accordo?» Manganelli: «Naturalmente no. Soprattutto perché questa domanda me la rivolge lei, che è un sanguinolento, un sempliciotto, uno convinto che la realtà sia la realtà». Arpino: «E va bene. Ma non creda di offendermi. Un intervistatore, e più che mai quando è abusivo, non tiene diritto d’offendersi. In ogni caso ho capito, leggendo il libro, che Amore è il Nulla, il Nulla è Amore, e discorrere del Nulla, sul Nulla, col Nulla, fa una gran fatica. Stilisticamente, beninteso». Manganelli: «Uhm. Gulp. Squash».
E invece Arpino rivendica la «consistenza concreta della scrittura»3 e attraverso
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G. Arpino, Ma talvolta l’amore è una cosa meravigliosa in G. Manganelli, La penombra mentale, Interviste e conversazioni 1965-1990, a cura di R. Deidier, Roma, Editori Riuniti 2001. 3 R. Scrivano, Il ventaglio di Arpino in Arpino fra romanzo e film, Atti di un Convegno, Agrigento, Edizioni a cura del Centro di Ricerca per la Narrativa e il Cinema 1990. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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un’inesauribile vena creativa costruisce i suoi testi come avventurosi viaggi nel reale, forieri di scoperte e di esperienze, producendo un catalogo di occasioni molteplici, senza ripetizioni, ed un altrettanto fecondo repertorio di personaggi, luoghi e situazioni, come in un moderno Decameron. Rimangono indimenticabili il giovane squattrinato che vive di espedienti tra i vicoli di Genova, davvero un Andreuccio post-resistenziale, lontano dai sentieri calviniani, (Sei stato felice Giovanni definito da Arpino «il mio gettone d’esordio picaresco, anarchico, corsaro»); il ragioniere quarantenne arresosi all’amore non del tutto disinteressato di una giovane suora (La suora giovane, recensito con entusiasmo da Montale, da cui venne tratto un film escluso dal Festival di Venezia del ’64 per le polemiche suscitate dall’argomento scabroso); il medico avellinese colpito nella sua rispettabilità virile protagonista di Un delitto d’onore; uno zio inquietante dalla doppia vita, quasi un Dottor Jekyll torinese (Un’anima persa, apprezzato da Borges e trasformato anch’esso in film da Risi); il maestro in pensione alleatosi col minatore calabrese per oscure vendette (Il fratello italiano); gli operai comunisti in lotta col disincanto politico (Gli anni del giudizio, un romanzo elettorale che anticipa di qualche anno La giornata di uno scrutatore) ed esistenziale (Una nuvola d’ira, ambientato durante i festeggiamenti del centenario dell’Unità italiana, inviso a Togliatti implacabile nel suo diktat censorio attraverso Salinari). Tanta ricchezza narrativa, profondità di osservazione, unite ad una espressione secca e tagliente che privilegia i toni ironici, sono le caratteristiche dello stile di Arpino che lo convogliano con successo anche verso il giornalismo, prima sulle pagine del Mondo, poi di Paese Sera, infine della Stampa e del Giornale di Montanelli, che ospita, fra le altre cose, i finti Epitaffi, la cui vis comica sferza ancora con efficacia:4 Sopraffatto Dalle sue prose Qui pose L’estrema firma ALBERTO MORAVIA Visse e operò Tra gloria e pene All’erezione Sempre intento Del proprio monumento
La sua formazione di scrittore si alimenta di letture precoci e assidue, e incontri
4 In G. Arpino, Opere scelte a cura e con un saggio introduttivo di R. Damiani, Milano, Mondatori 2005.
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significativi, tra tutti Augusto Monti e Pietro Chiodi, maestri riconosciuti di un’intera generazione torinese, lungo la direttrice Torino, Piacenza, Bra al seguito degli spostamenti del padre, militare di carriera; non così memorabili sono gli interlocutori nel mondo accademico. Poco incisiva anche l’occasione con il deus ex machina dell’industria culturale piemontese illuminata per eccellenza, vale a dire Adriano Olivetti, che lo ricevette «nel suo studio di taglio newyorkese. Seguirono venti minuti di assoluto, reciproco, siderale silenzio. Quindi mi rispedì. Altre vite mi attendevano».5 Episodio questo indicativo di una certa anomalia di Arpino nel panorama di quegli anni in cui pochi intellettuali sarebbero stati deliberatamente inerti di fronte al potere attrattivo del nucleo gravitante intorno ad Olivetti e a Comunità, come viene addirittura registrato da una barzelletta allora famosa: Due orsi passeggiano a Milano, in Galleria. Scheletrico l’uno, pasciuto l’altro. All’amico pelle e ossa il plantigrado in carne spiega – Faccio la spola con Ivrea, dove divoro un intellettuale al giorno. Sono così tanti che nessuno se ne accorge.6
Anomalia che Arpino esprime lungo tutto il corso della sua carriera, vissuta al tempo stesso fuori e dentro l’establishment culturale, attraverso una «vocazione all’isolamento all’eccentricità»,7 nella lunga ricerca di una propria fisionomia di scrittore che seppur legata allo spazio geografico, le Langhe, nel quale si forma ed opera, non rivendica questa appartenenza, né la mitizza, non le ascrive l’ispirazione fondativa di una poetica, certo anche per la sua estraneità alle dichiarazioni programmatiche, che segue le corde di una certa sua spezzatura che «lo affratella ai picari, agli avventurieri, ai Dominghi favolosi dei suoi romanzi», in quanto scrittore e come tale «fratello sedentario»8 di tali avventurieri. Nel marzo 1969 Arpino pubblica nella collana La Scala di Rizzoli Il buio e il miele, una storia apparentemente lontana dalle tensioni sociali di quegli anni, tutta costruita su un protagonista assoluto che non a caso ha trovato nel film di Risi il perfetto interprete nell’istrionico Gassman, vale a dire il capitano in pensione Fausto C., cieco e senza una mano in seguito ad una granata esplosa durante un’esercitazione forse non del tutto regolare, moderno dandy acrimonioso e dolente, che intraprende un viaggio in treno da Torino a Napoli per mettere in atto uno spettacolare suicidio insieme ad un commilitone anche lui cieco, vittima del mede-
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In G. Arpino, Opere scelte cit. In B. Quaranta, Stile Arpino: una vita torinese, Torino, Sei 1989. 7 R. Damiani, Arpino e la sua ombra, in Giovanni Arpino, Opere scelte cit. 8 R. Barbolini in Giovanni Arpino, L’uomo, lo scrittore, Atti del convegno di studi, Bra, 8-9-10 dicembre 1988, a cura di C. Bernardo, Bra 1990. 6
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simo incidente. Si fa accompagnare da un giovane attendente, denominato Ciccio, con noncuranza per il vero nome, che durante il viaggio si trasforma in infermiere, comprimario nelle beffe ai danni dei malcapitati interlocutori, capro espiatorio della sua frustrazione rabbiosa dovuta all’esclusione dalla normalità della vita, complice e infine testimone della sua redenzione grazie all’amore devoto di una giovane donna. Il buio della solitudine viene squarciato ed «il miele del visibile» raccolto9 «e ancora non è morte lo spazio bianco che segue», come chiosano le parole conclusive del romanzo. Ma prima di giungere a questo finale che schiude una commovente luce di speranza il viaggio dei due si immerge nel buio del nichilismo più ostentato, verboso, prepotente, come di fatto si conviene ad un viaggio verso la morte. Attraverso le interruzioni costituite da vari incontri (una prostituta, un cugino prete, Vincenzo, il compagno di sventura di Fausto, la giovane e trepidante Sara, diversi comprimari), con l’ostinato cedere alle sigarette e al whisky e la sarcastica enunciazione di una Weltanschauung amara e risentita, il protagonista obbliga il giovane militare di leva a fronteggiarlo e a misurarsi con l’energica manifestazione della sua personalità. Sarà comunque un’iniziazione sui generis, narrata in prima persona dal giovane attendente che non assurge mai al ruolo di coprotagonista, mentre nei due film il racconto si sviluppa attraverso un narratore esterno. Non vengono evocati nel testo di Arpino né fantasmi paterni né affetti filiali, ma si dà più rilievo alla condivisione amorosa, al venir meno della presunzione di poter fare a meno dell’altra. Nell’incontro col cinema, le dimensioni del personaggio vengono addirittura esaltate dalla prova attoriale, tanto che Gassman vince il premio per la migliore interpretazione maschile a Venezia nel 1975 e Al Pacino l’Oscar come migliore attore protagonista nel remake del ’92. La versione italiana tratta dal romanzo è girata da Dino Risi che ne ha subito comprato i diritti, deciso a realizzare a ogni costo il progetto di cui scrive la sceneggiatura con Ruggero Maccari. Il film rappresenta per Risi un’intensissima tappa professionale ed esistenziale, alle soglie dei sessant’anni, sottolineata dalla coincidenza tra regista, attore famoso per le sue intemperanze vitalistiche e debordanti, antipatico secondo Risi, perché
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Dall’epigrafe de Il buio e il miele tratta da una lettera di Rilke del 1925 al suo traduttore polacco: «il nostro compito è quello di compenetrarci così profondamente, dolorosamente e appassionatamente con questa Terra provvisoria e precaria, che la sua essenza rinasca invisibilmente in noi. Noi siamo le api dell’invisibile. Noi raccogliamo incessantemente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’Invisibile». Identità nazionale: continuità e discontinuità nel legame tra individuo e collettività
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oltre al resto girava intorno il profilo come se avesse il mondo in gran dispetto,10 e personaggio: Raramente come leggendo Il buio e il miele di Arpino ho sentito una «presenza» cinematografica così forte Questo capitano Fausto, cieco, che va verso la morte con una tale sete di vita, mi sembrava che esprimesse, che urlasse addirittura, la sua voglia di essere rappresentato.11
La coppia Risi/Gassman ha già diversi film al suo attivo, fra i quali il più importante è sicuramente Il sorpasso del ’62, una delle opere più emblematiche degli anni Sessanta, resoconto di un Ferragosto on the road nell’Italia del boom, amata anche dai cineasti americani tanto che pare abbia influenzato Dennis Hopper e Peter Fonda nell’ideazione di Easy Rider. Nel Sorpasso veniva mostrata l’Italia del boom economico, Gassman ne era la parte avventurosa e improvvisata […] Trintignant la parte riflessiva e cosciente, la cultura che soccombe nei momenti di euforia nazionale. Profumo di donna è l’Italia di oggi, quella che salta nel buio, ma forse ancora capace, in extremis, di una ripresa coraggiosa.12
Nel film come nel romanzo il rifiuto del contesto è esplicito, come ribadisce il capitano quando pretende dall’attendente la lettura serale del quotidiano: «Sul giornale niente sport, niente cronaca, niente politica: leggimi gli annunci» eppure l’angoscia che lo pervade non può scaturire solo dal destino individuale della cecità o dell’invalidità, non è solo l’amaro sfogo solipsistico di un individuo sfortunato ed orgoglioso, ma è una implicita dichiarazione di vulnerabilità collettiva che trova radici nell’avvio del plumbeo periodo della strategia della tensione e del terrorismo. A maggior ragione bisogna sottolineare questa considerazione se si condivide l’idea che la commedia all’italiana assume la funzione di cinema rivolto a tutti «di sicuro intrattenimento e di provata capacità comunicativa, ma anche veicolo di messaggi e di riflessioni sulla società italiana del suo tempo»13 la cui valenza didattica andrebbe rivalutata. Il remake americano è del 1992, diretto da Martin Brest, affermato regista hollywoodiano abituato a lavorare con grandi star; con le dovute differenze, sono
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V. Caprara, Dino Risi maestro per caso, con la collaborazione di F. Corallo, Roma, Gremese Editore 1993. 11 P. D’Agostini, Dino Risi, Milano, Editrice Il Castoro 1995. 12 Ibidem. 13 Ibidem. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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molte le analogie che accomunano le due operazioni cinematografiche. Risulta evidente che ci troviamo in entrambi i casi dentro produzioni importanti dello show business, affidate a registi di sicuro mestiere e credibilità e finalizzate ad esaltare il divismo attraverso la valorizzazione dei singoli attori sui quali vengono costruiti i film. Del testo di Arpino, finito nel grande outlet delle idee che gli studios americani rimpolpano setacciando le cinematografie delle periferie dell’impero, rimane il nucleo narrativo centrale, il viaggio di iniziazione di un giovane dimesso, ma generoso, qui un biondo ragazzone dell’Oregon, Charlie, che frequenta un prestigioso college di Boston grazie ad una borsa di studio, in compagnia di un militare burbero ed amareggiato per la propria cecità, il colonnello Frank Slade in congedo, veterano del Vietnam, niente di meno che Al Pacino. Abbandonato il treno dell’Italia pre-privatizzazioni, nei grandi spazi americani il percorso prevede l’aereo o addirittura una Ferrari spinta a gran velocità dal colonnello cieco nelle strade di New York, in un adýnaton che speriamo non abbia prodotto proselitismo. E pensare che Arpino disdegnava l’automobile! Viene concesso molto rilievo all’ambientazione studentesca teatro di una bravata contro il preside che coinvolge anche il giovane Charlie, in fondo sono passati solo tre anni dall’Attimo fuggente, ed anche la menomazione fisica ha già sponsorizzato Rain man (1988) e Risvegli (1990), grandissimi successi commerciali interplanetari. Dal processo di americanizzazione emerge un soggetto molto concentrato sul rapporto latente padre/figlio tra i due, qui sì coprotagonisti, nella cornice della festa del Ringraziamento; sul dilemma delazione/fedeltà al gruppo dei pari, una questione evidentemente avvertita dalla sensibilità del pubblico americano, ossessionato dal problema della responsabilità individuale (aveva cominciato Kazan nel 1954 facendo dilaniare Marlon Brando in Fronte del porto), e infine sul Leitmotiv della meritocrazia, del povero che grazie alle sue doti, lealtà e coraggio innanzitutto, ha le stesse opportunità dei discendenti delle gentes, (fra questi spicca un Philip Seymour Hoffman nel suo primo ruolo importante) in un paese dove l’aristocrazia, seppur recente, conta davvero, anche nell’era clintoniana. Non l’amore per una donna, anche se viene lasciata aperta questa possibilità in secondo piano, ma il ruolo paterno assunto nei confronti dello pseudo-figlio redime il veterano del Vietnam; il finale dischiude scenari di serenità familiare, affetti ricambiati, sollecite riconciliazioni. L’ottimismo trionfa, in un’enfasi ben lontana dalla conclusione del libro di Arpino e anche del film di Risi, coerenti nella lettura proposta, dove c’è sì un arrendersi all’altro, nella consapevolezza della necessità della condivisione, nonostante il pessimismo di fondo che scaturisce, lo ripetiamo, non da un destino individuale di sofferenza e menomazione, ma da un contesto collettivo. Qui risiede il nocciolo delle differenti interpretazioni, oltreché in scelte registiche più convenzionali nella messa in scena hollywoodiana e più roboanti nella recitazione, soprattutto nelle ultime sequenze occupate dall’arringa di Al Pacino in
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difesa del ragazzo davanti alla Commissione disciplinare del college, in un crescendo culminato in un’apoteosi tribunizia.14 Che l’industria hollywoodiana imponga il lieto fine da contratto lo abbiamo imparato in decenni di frequentazioni cinematografiche, quello che ci sorprende è come possa pensare ogni volta di renderlo credibile, sempre così eccessivo, insistito, enfatico, confezionato per rassicurare il pubblico, dissipando le ombre con le quali noi conviviamo, a partire dal finale senza idillio del nostro romanzo nazionale per eccellenza, nel quale tra l’altro, sia detto per inciso, l’unico vero padre è il più spietato dei persecutori. Cerchiamo di capirlo attraverso le considerazioni di Guido Piovene contenute nel resoconto di un suo lungo viaggio nell’America degli anni Cinquanta, lontane nel tempo, ma incredibilmente attuali, accostate a quelle di altri due illustri viaggiatori citati di seguito, Cecchi e Manganelli, primordiali testimoni novecenteschi di quel nuovo mondo, pronti a registrarne con acutezza la peculiarità: Ma poi v’è l’eroismo, la durezza, tutti emananti dal rifiuto al dolore: esso ha suggerito all’America di erigere immense industrie; proprio esso è l’ispiratore del rischio e dell’iniziativa. Tutte cose che mirano a contrastare il dolore, e abolirlo. La volontà di non soffrire, in realtà è più efficace, e soprattutto più profonda della ricerca del piacere. Essenza di una civiltà, la quale rifiuta di credere che il dolore sia buono o, come dicono, nobiliti l’uomo: convinta invece che il dolore l’immiserisca.15
La felicità assume qui una connotazione di volontarietà che respinge qualsiasi traccia di scetticismo. L’infelicità rimane la tentazione degli artisti, relegati all’isolamento dal sentimento pubblico negli anni Cinquanta, riaccolti e graziati dal prestigio sociale durante il New Deal, arruolati e quindi resi innocui dall’industria dell’entertainment, confinati nelle cittadelle universitarie e sulle pagine delle riviste in ruoli inoffensivi: Di regola poi, l’americano non prova la minima vergogna d’ignorare. Sa ignorare, se occorre, a faccia tosta. E forse anche lo specialismo si è sviluppato in rapporto a que-
14 M. Vetrone, Dalla letteratura al cinema: ‘Profumo di donna’, la fortuna di un personaggio, sul sito www.studiocinema.net. 15 G. Piovene, De America, Milano, Garzanti 1953. La citazione continua così: «È il motivo per cui, di fronte alla civiltà americana, ed anche ai suoi aspetti meno gradevoli, mi sento portato ad amarla. Per il suo rifiuto al dolore e alla stima del dolore: questo rifiuto che si esprime in forme buone, cattive, contradditorie: passatismo ed avvenirismo, amore per la casa e per l’avventura, per la comodità e la durezza ascetica […] È la lotta contro la morte, che crea le banche, i grattacieli, le industrie; e insieme il culto per il medico; e il desiderio di ignorarla».
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sta gran vocazione d’ignoranza. Il critico, lo studioso, il professore che da anni e anni lavora su Cooper, su Adams o Thoreau, è come se all’uscio del proprio spirito abbia appeso un cartello: «Occupato». Più che il segno dell’impellente occupazione mentale, è una sorta di biglietto di congedo da ogni altra curiosità e da ogni altro interesse.16
Messa a repentaglio è la sorte di chi pionieristicamente svela le miserie e le afflizioni nascoste dietro la facciata dell’ottimismo volontario: dopo la pubblicazione de I peccati di Peyton Place, nel 1956, a Gilmanton, nel New Hampshire, dove vive col marito preside, Grace Metalious è vittima di un vero e proprio linciaggio morale che ha come conseguenze il rogo pubblico delle copie del romanzo, il licenziamento del marito, il divorzio, il ricovero dell’autrice per esaurimento nervoso e poi il suo trasferimento a Chicago, e qui l’aggressione subita da parte di una ragazza che l’accusa di aver diffamato la gioventù americana.17 Un po’ come se, proprio negli stessi anni, da Vigevano Mastronardi fosse stato costretto a trasferirsi per la virulenza delle reazioni alla pubblicazione del suo Maestro. Ora i recessi esistenziali delle casalinghe che albergano nei sobborghi delle grandi metropoli in mano agli sceneggiatori dell’industria televisiva sono merce da prima serata, ricco banchetto per gli inserzionisti pubblicitari. La tendenza alla spettacolarizzazione macina tutte le abiezioni, le infelicità e le debolezze umane, esasperandole e spremendone fuori ogni potenzialità di plot, in un’apoteosi di spudoratezza. Così le nevrosi del boss mafioso italoamericano in odore di caso clinico, le fibrillazioni sentimentali che elettrizzano le corsie degli ospedali, le asprezze caratteriali di diagnosti nervosi al limite della tignosità danno vita a intrecci crepitanti nei quali ogni categoria però rimane relegata al proprio ambito di appartenenza, per placare l’ansia classificatoria e ordinatrice che caratterizza da sempre la cultura americana. Al riguardo appaiono davvero profetiche le parole di Emilio Cecchi nei resoconti dei viaggi compiuti fra il 1930 e il 1938, a più riprese: Caduto, in massima il pudore sociale, e non essendo d’altronde subentrata una sincera capacità di godere, si ha una sorta di gelido e sfrenato paganesimo, che si è messo sotto i piedi tutti i divieti, interni ed esterni, un paganesimo di mera violenza, senza respiro di felicità.18
Così una vagheggiata, calda e avvolgente felicità viene celebrata e resa accessibile dal cinema e dalla pubblicità, costruita a tavolino dai creativi, mai negata, almeno
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E. Cecchi, America amara, Padova, Franco Muzzio Editore 1995. G. Manganelli, De America. Saggi e divagazioni sulla cultura statunitense, a cura di L. Scarlini, Milano, Marcos y Marcos 1999. 18 E. Cecchi, America amara cit. 17
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nei prodotti dell’industria culturale rivolti alle masse, con la funzione di rassicurare un popolo che pone tra le priorità la sicurezza, da sempre, anche ben prima degli allarmismi post undici Settembre, come registra Cecchi: Sentirsi sicuri, mentalmente e materialmente: questo è il grande quesito, l’unico e vero ideale americano. Alla propagazione di tale sentimento di sicurezza tutt’America collabora unanimemente; in migliaia di maniere, geniali e idiote, oneste e frodolente (sic) a qualsiasi piano della propria struttura sociale […attraverso] l’orgoglio del service, dell’efficienza e dell’utilità, anche se si esplicano in occupazioni inette. Tutto in America è inteso a fornire un’illusione di sicurezza, di solidità, d’indipendenza.19
Così è svelato quel senso di già visto che proviamo davanti a tutte le happy end dei film campioni di incassi, vincitori di Oscar etc., un lieto fine coatto, convenzionale, la risposta automatica di un oliato meccanismo socio-culturale, una sorta di semplificazione di ciò che semplice non è. Non è una vita semplice. L’americano è molto spesso infantile, ingenuo, ma non semplice. Mosso da impulsi contrastanti, molto spesso è confuso, contradditorio, impastoiato e perciò sofferente, anche perché non sa rendersi conto della sua complicazione, meno ancora spiegarla.20
Molti scrittori americani si sono addossati il compito di svelare la vera natura dell’America, raggiungendo apici di autocritica mai toccati dai romanzieri europei, spietati accusatori in testi densi di lucida disillusione e amaro disincanto cosicché: è curioso notare come questa superiore letteratura di una civiltà fondata sull’idea del benessere, della felicità materiale, della tranquillità morale e quissimili, sia la più tetra, la più disperata e sconvolta letteratura del mondo.21
Nel 1997 Philip Roth, uno tra i più importanti scrittori americani viventi pubblica Pastorale americana con il quale vince il Pulitzer. Il romanzo racconta la biografia di Seymour Levov, detto lo Svedese per i suoi capelli biondi e gli occhi blu, prototipo dell’americano perfetto che al college eccelle nel basket, nel baseball e nel football, sposa Miss New Jersey, eredita la fabbrica di guanti dal padre, personaggio con molti tratti in comune con H. Ford, così come ce lo descrive Cecchi: eugenista, virtuosista, da giovane ottimo ginnasta, appartiene ad un’America igienica ed emersoniana, che dalle fatiche dell’industria e dei commerci si ritempra nella serenità della natura, nell’atletica leggera e sotto le docce.22
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E. Cecchi, America amara cit. G. Piovene, De America cit. 21 E. Cecchi, America amara cit. 22 Ibidem. 20
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Ma Seymour ha una figlia, Merry, gracile e balbuziente bambina, poi adolescente ribelle seguace di un gruppo di estremisti ostili all’intervento americano in Vietnam con i quali organizza un attentato dinamitardo che provoca vittime. Seymour cerca disperatamente e inutilmente di ricondurre alla ragione e a casa la figlia ormai anoressica, che vive in una casa abbandonata, su un giaciglio di stracci, nell’incuria più totale, adepta di una setta indiana che venera ogni forma di vita, parassiti compresi e che prescrive di non lavarsi per non fare del male all’acqua. Se è vero che non dici mai bugie, che non prendi mai niente che non ti venga donato […] ti prego dimmi la verità […] Parla adesso! – le ordinò. Ma lei si rifiutò. Lui le aprì la bocca con le dita […] e le prese la lingua. Le mancava un dente davanti, uno dei suoi magnifici denti. Ecco la prova che quella non era Merry. Gli anni delle macchinette per i denti, l‘ancoraggio, l’apparecchio per la notte, tutti quegli aggeggi per sistemarle la chiusura… – Parla! – intimò, e finalmente gli arrivò il suo vero odore, l’odore umano più cattivo che ci sia, escluso solo il puzzo dei vivi che marciscono e dei morti che si decompongono. Stranamente benché lei gli avesse detto che non si lavava per non fare del male all’acqua, lo Svedese non aveva ancora sentito niente […] nient’altro che un’ignota esalazione, acidula e nauseante, che aveva attribuito a quella casa impregnata di piscio. Ma l’odore che sentì adesso, mentre le apriva la bocca, era di un essere umano e non di un edificio, un essere umano impazzito che sguazza, felice, nei propri escrementi. Che disgusto! Sua figlia è una cloaca che puzza di liquame. Il suo odore è l’odore di tutto ciò che, di organico, si disgrega. È l’odore dell’incoerenza. È l’odore di ciò che è diventata.23
Raccontare la realtà, soffermarsi sul male per tentare di spiegarlo nella convinzione che ogni parola è un servizio, anche il grido disperato di un padre affranto; affondare lo sguardo nella vita, proprio là dove si mostra più scardinata nei suoi sostegni, più sfilacciata nel suo tessuto, più intollerabile nelle sue esalazioni, Arpino è convinto che questo sia il compito dello scrittore nel Novecento, come lo è Roth. Nel 1980 pubblica con Rizzoli Il fratello italiano, il suo romanzo più nero, con il quale vince il Supercampiello. La trama vede una coppia improbabile, ma affiatata di protagonisti, il torinese maestro in pensione Carlo Botero ed il minatore calabrese Raffaele Cardoso, alleati in un proposito di vendetta sanguinaria, il primo contro l’ex-genero ricattatore della figlia, il secondo, partito dalla Germania dove è emigrato, spinto da un granitico e primitivo senso dell’onore, contro Jonia, la figlia prostituta tossicodipendente disonore della famiglia. La scena si svolge nei pressi del casolare abbandonato dove una spiata ha segnalato la presenza di Jonia:
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P. Roth, Pastorale americana, Gruppo Editoriale L’Espresso 2003.
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La casa si profilò senza porte, senza intelaiature alle finestre, come bocca sdentata […] sulle pareti l’umidità aveva tracciato macchie e sgorbi muffosi. Senza una parola i due tornarono in cortile. Fu l’odore ad attirare Cardoso. Il filo nauseabondo che gli pervenne dal portico. Dietro un carro rovesciato, privo delle ruote, dietro una gabbia per conigli dalla rete sventrata: lì, su una branda e in un intrico di coperte luride giaceva Jonia. Una valigia aperta al fondo della branda, due secchi d’acqua paralleli al cuscino unto. L’odore dolciastro gravava tutt’attorno. Una vespa volò via […] Jonia tremava, due pupille nere fisse. Come due acini d’uva affogati nell’alcool, non potè impedirsi di pensare Botero. La ragazza ebbe un gesto con la mano scheletrica. Le dita restarono a mezz’aria, elitre di moribondo insetto. Ed anche il dorso di quella mano, come il braccio nudo, si mostrava tumefatto dalle piaghe, lividi neri rigonfi. Lo sbattere dei denti di Jonia fu l’unico rumore per un lungo minuto.24
Nella repubblica abitata dai personaggi del nostro immaginario letterario e cinematografico, moderno Medioevo latino popolato da Pathosformeln cosmopolite senza problemi di permesso di soggiorno, uniche in grado di depotenziare qualsiasi assillo identitario, dove gli studenti in cerca di cittadinanza sarebbero i benvenuti se solo volessero entrare, lo Svedese, solidale con Cardoso, gli domanderebbe in quali stratificazioni nascoste di pietà abbia trovato il coraggio di sparare alla figlia. Lì si troverebbe a suo agio anche il colonnello Frank Slade, accanto al coevo professor John Keatings dell’Attimo fuggente, figure sostitutive è vero, ma quanto più affascinanti (ed artificiose) dei padri veri, quanto più solerti nel caricarsene sulle spalle il fardello. Ultimi pseudo-padri superstiti, se come pare seguendo l’attuale dibattito psicanalitico, questo nome ormai marginale nell’esperienza psico-emotiva dei più, tenderà a scomparire non solo dal desco familiare all’ora di cena, dalle foto delle vacanze, dalla triangolazione edipica, ma ahimè anche dal canone occidentale, lasciandoci più liberi o più vacillanti, è presto per dirlo, ma sicuramente più a corto di storie.25
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G. Arpino, Opere cit. R. Iannuzzi, dal sito www.ragionpolitica.it «Roland Barthes, grande semiologo francese, ha osservato acutamente «La morte del Padre» toglierà alla letteratura molti suoi piaceri […]. Ogni racconto non si riconduce forse all’Edipo? Raccontare non è sempre cercare la propria origine, dire i propri fastidi con la Legge, entrare nella dialettica dell’intenerimento e dell’odio?» 25
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LUCIA OLINI Identità e “mutazione” degli Italiani in Pasolini. Una proposta didattica
Premessa La figura di Pier Paolo Pasolini si può iscrivere in tre parole chiave, che un po’ giocosamente replicano la sua triplice iniziale: poesia, parresia, profezia.1 Poesia è la cifra essenziale di Pasolini; da uno studio di Foucault su parola e verità nella Grecia classica2 viene il concetto di parresia: in questo intellettuale «eretico» si riconosce la fisionomia attribuita da Foucault al parresiastes, colui che «non teme niente, ma apre completamente il cuore e la mente agli altri attraverso il suo discorso. […] qualcuno che corre un rischio»;3 profezia è la straordinaria capacità di intuire lo sviluppo di fenomeni e processi che lo scrittore osservava nella società del suo tempo. Questa proposta non può e non vuole essere esaustiva, ma, come si conviene
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Questo spunto, così come l’idea di questo lavoro, viene da un intervento a tre voci organizzato l’anno scorso nell’ambito dei progetti «Incontri con gli autori» e «Letteratura e cinema» nella mia scuola, il Liceo scientifico «A. Messedaglia» di Verona. Nostro intento era delineare il profilo di un intellettuale impegnato nel dibattito culturale e politico, un osservatore critico capace di esprimere coraggiosamente le proprie opinioni, correndo il rischio dell’impopolarità o del paradosso. Un ringraziamento affettuoso ai miei due compagni di viaggio, Giuseppe Galifi, docente di Storia e Filosofia, e Alessandro Tedeschi Turco, esperto di cinema docente di Linguaggio visuale all’Università di Venezia. 2 M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Roma, Donzelli 1996. 3 La parresia, sintetizza Foucault, «è una specie di attività verbale in cui il parlante ha uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una certa relazione con la propria vita attraverso il pericolo, un certo tipo di relazione con se stesso e con gli altri attraverso la critica (autocritica o critica di altre persone), e uno specifico rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere» op. cit., pp. 4-10 passim. Identità nazionale: continuità e discontinuità nel legame tra individuo e collettività
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ad una proposta, intende sollecitare una riflessione, incuriosire, nella consapevolezza che una ricognizione ragionevolmente ampia degli scritti di Pasolini richiederebbe ben altri tempi e diverso impegno. Obiettivo è ricostruire insieme agli studenti alcune tappe della complessa riflessione che ha condotto Pasolini alla certezza che negli anni del secondo dopoguerra si è consumata in Italia la fine di una civiltà e di un mondo.4 Metodologicamente il lavoro è pensato per promuovere una didattica induttiva, che impegni gli studenti in un compito critico e collaborativo, utile a sviluppare strategie di ricerca e confronto. Il procedimento idoneo è il lavoro a gruppi. In tale ottica ho pensato di dare alla proposta la duplice forma di una scansione lineare e di una webquest.5 Introduzione: la Divina Mimesis e Pasolini racconta Pasolini Avvicinerei gli studenti alla figura di Pasolini con due testimonianze, nelle quali il poeta si autopresenta: La divina Mimesis, e il documentario Pasolini racconta Pasolini. La divina Mimesis vede la luce pochi giorni dopo l’assassinio di Pasolini. È un abbozzo di riscrittura in prosa attualizzata dell’Inferno dantesco, buon punto di partenza, poiché ci conduce in medias res, al cuore del nostro argomento. «È un’idea che risale al 1963, ma finora non sono riuscito a trovare la chiave giusta. Volevo fare qualcosa di ribollente e magmatico, ne è uscito qualcosa di poetico come Le ceneri di Gramsci, anche se in prosa». Così l’autore, e l’accostamento alle Ceneri dà la chiave di questo inferno del neocapitalismo della seconda rivoluzione industriale, che ha condotto l’Italia (e tutto l’Occidente) nel tunnel di un consumismo dissennato. Il disorientato poeta-viator immagina che a guidarlo sia un altro se stesso ironico e disincantato, «un piccolo poeta civile degli Anni Cinquanta».6 Nell’inferno della società postindustriale il popolo arranca verso un illusorio
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Sotteso a questo lavoro il giudizio espresso pochi anni or sono da R. Luperini: «La religione del mio tempo, Poesia in forma di rosa e gli scritti luterani e corsari di Pasolini, i saggi e le poesie di Fortini, i poemetti di Roversi, Leonetti e Pagliarani, i romanzi e le poesie di Volponi costituiscono l’ultimo grande tentativo che un gruppo intellettuale italiano abbia fatto per misurarsi in modo attivo con il problema dell’identità e della coscienza nazionale. […]. Il profilo del costume e della coscienza nazionali che esce dalle loro opere […] viene delineato in modo sempre più chiaro, a mano a mano che ci si inoltra negli anni Settanta, Ottanta e Novanta, con i tratti di una dissoluzione irreparabile, che polverizza ogni tessuto connettivo annientando qualsiasi possibilità di memoria comune», R. Luperini, L’autocoscienza del moderno, Napoli, Liguori 2006, pp. 46-47. 5 Vd. http://www.messedagliavr.it/images/stories/storielett/pasolini.swf. 6 P.P. Pasolini, La Divina Mimesis, Milano, Mondadori (Oscar) 2006, p. 15. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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benessere piccolo-borghese, dominato dalla duplice cifra del conformismo e della volgarità. Non c’è ritorno né salvezza: la «mutazione» ha prodotto esiti definitivi. Ma Pasolini non volge al nichilismo, e non rinuncia fino alla fine al dovere dell’intellettuale di esprimere una coscienza e una moralità, che nutrono di passione la parola del poeta. Nella moderna Mimesis la guida, il cui sguardo è «pieno di coraggioso amore», incarna proprio «la cieca testardaggine della poesia». La tecnica dello sdoppiamento, esperita attraverso la guida/alter ego, risulta appropriata al nostro, sempre consapevole di essere, nel dibattito pubblico italiano, un «personaggio» con tratti di singolarità. Nel documentario Pasolini racconta Pasolini7 egli stesso ripercorre la propria storia. Dopo l’introduzione, si procederà lavorando a gruppi su quattro tracce strettamente interconnesse: 1) La critica della società e dei media. 2) La riflessione sul linguaggio. 3) La poesia. 4) Il cinema. Pasolini critico della società e dei media: la televisione A partire dai primi anni Sessanta Pasolini ha dedicato costante attenzione ai mezzi di comunicazione di massa, impegnandosi in una riflessione straordinariamente lucida e lungimirante soprattutto sulla televisione.8 La sua precoce diffidenza (talora un vera avversione) verso di essa nasce dall’intuizione esatta delle peculiarità del nuovo mezzo, atto a condizionare in profondità i modi di pensare e l’approccio con il reale. Nel saggio Contro la televisione9 del 1966 si legge una puntuale diagnosi degli effetti della televisione sulla cultura degli Italiani: uniformando pensiero e gusti, essa deve tranquillizzare e promuovere un acritico, moderato e rassicurante ideale di vita piccolo-borghese; essa inoltre semplifica la realtà, non per renderla più intellegibile, ma per banalizzarla, togliendo alla riflessione sul mondo e sulla società ogni complessità: La televisione, della vita pubblica, delle vicende politiche e della elaborazione delle
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G. Barcelloni, Pasolini racconta Pasolini, 1995: http://video.google.com/videoplay?docid =-7018861937105271463#. 8 Sui rapporti tra intellettuali e comunicazione di massa vd. P. Liberale, Intellettuali e media, in Gli scrittori intellettuali del secondo Novecento. Pasolini, Fortini, Volponi, a cura di P. Fertitta e P. Liberale, Quaderni di «Allegoria», 8, Palumbo 2007, pp. 53-60. 9 In P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori 1999, pp. 128 ss. Identità nazionale: continuità e discontinuità nel legame tra individuo e collettività
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idee, deve – e sente rigidamente tale dovere – operare secondo una selettività di scelta e una serie di norme linguistiche, che assicuri innanzitutto che «tutto va bene», ed è fatto per il bene.10
Troppo drastico? Ma l’era del trionfo del reality, col suo perfezionamento della volgarità, non ha confermato i timori più seri?11 Dal 1968 al 1970 lo scrittore tiene la rubrica «Il Caos» sul «Tempo». Anche da questa sede muove le sue argomentate critiche alla televisione, della quale accusa il carattere autoritario.12 La televisione arriva in Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta, gli anni del processo, dipinto da Pasolini come una rivoluzione antropologica, che ha trasformato volto e anima del popolo italiano. Ad esso lo scrittore dedica riflessioni note; alcune dalle pagine del «Corriere della Sera», e ora si leggono in Scritti Corsari. La potenza pervasiva della televisione, che non racconta, ma «rappresenta», muta il costume, il modo di sentire e di vivere degli Italiani, imponendo un preciso «modello di vita»: «Appunto perché perfettamente pragmatica, la propaganda televisiva rappresenta il momento qualunquistico della nuova ideologia edonistica del consumo: e quindi è enormemente efficace».13 Paiono sfuggire a Pasolini i meriti della televisione nell’acculturazione degli Italiani; ma non per questo perde valore la sua disamina.14 A conclusione del breve excursus sulla televisione confronterei il saggio del 1966 con un articolo scritto una decina d’anni più tardi, in occasione dei tragici fatti del Circeo.15 La proposta di Pasolini è «swiftianamente» provocatoria, tuttavia è anche
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Ivi, p. 137. Su questo saggio vd. G. Sapelli Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini, Milano, Bruno Mondadori 2005, pp. 76 ss. 12 P.P. Pasolini, Giornalisti, opinioni e TV, da «Il caos» sul «Tempo», 28 dicembre 1968, in Saggi sulla politica e sulla società cit., pp. 1165 ss. 13 P.P. Pasolini, Ampliamento del bozzetto sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Scritti Corsari, 11 luglio 1974, in Saggi sulla politica e sulla società cit., pp. 328-329. 14 Lo ha di recente ricordato, sottolineando come Pasolini stesso volesse innanzitutto provocare una discussione, R. Donnarumma, Pasolini, la ragione, lo scandalo, in Gli scrittori intellettuali del secondo Novecento… cit., pp. 15 ss.Le intuizioni di Pasolini sulla televisione trovano corrispondenza nelle analisi sviluppate, da altri punti di vista, da numerosi studiosi: mi limito a ricordare M. Mcluhan, in particolare il «classico» Understanding Media: The Extensions of Man, del 1964, di recente riedito in italiano (Capire i media. Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore 2011). 15 Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia, in Lettere luterane, in Saggi sulla politica e sulla società cit., pp. 687-692 (ma pubblicato sul «Corriere della Sera» il 18 ottobre 1975 col titolo Aboliamo la TV e la scuola dell’obbligo). 11
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un circostanziato atto d’accusa: l’omicidio di Rosaria Lopez è esito tragico di un degrado culturale e morale che ha coinvolto tutta la gioventù italiana. Figli di papà, proletari e sottoproletari sono diventati una massa criminaloide, alienata e deprivata dei più elementari sentimenti di umanità. Artefice di questa trasformazione il consumismo, che ha imposto modelli omologati e ha distrutto gli argini morali. La televisione ha avuto un ruolo fondamentale nell’aprire la stagione dell’edoné, che ha eliminato dall’orizzonte dei giovani ogni prospettiva di pietà. Società industriale e linguaggio La rivoluzione antropologica, altrove anche descritta come genocidio,16 si è affermata negli anni del boom economico, che hanno visto un altro processo di capitale importanza culturale: ad un secolo di distanza dall’unificazione politica, in Italia si compie finalmente l’unificazione linguistica. A questo argomento Pasolini dedica nel 1964 un saggio assai interessante, dal titolo Nuove questioni linguistiche.17 Constatato che in Italia una vera unificazione linguistica non si è realizzata attraverso la letteratura, per ragioni culturali e politiche, lo scrittore si concentra sugli anni Sessanta del Novecento, quando è emersa una crisi linguistica, segnale visibile di una crisi di civiltà, che mette in discussione la funzione tradizionale dell’intellettuale nella società: non esiterei a radicalizzare questa crisi attraverso quella che Fortini, citando Majakovskij, chiama la «fine del mandato» dello scrittore, ossia la fine non solo dell’impegno, ma di tutti quei concetti, del resto assolutamente impopolari, che si sono presentati come surrogati o aspetti evoluti dell’impegno.18
Per decifrare tale crisi bisogna uscire dalla letteratura e coniugare sociologia e linguistica. Nel linguaggio colto l’originaria osmosi col latino, fonte di espressività e originalità, ha ceduto ad una «osmosi col linguaggio tecnologico della civiltà altamente industrializzata», generatrice di omologazione: «centri creatori, elaboratori e unificatori di linguaggio, non sono più le università, ma le aziende».19 È nato «l’italiano come lingua nazionale»,20 ma si tratta di un italiano unificato dalla tecnica,
16 Mi riferisco al discorso pronunciato alla Festa dell’«Unità» a Milano il 27 settembre 1974: P.P. Pasolini, Il genocidio, in Scritti Corsari, in Saggi sulla politica e sulla società cit., pp. 511514. 17 Ora si legge in Empirismo eretico, in P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori 1999, I, pp. 1245-1270. 18 Ivi, p. 1254. 19 Ivi, p. 1262. 20 Ivi, p. 1265.
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che vede l’egemonia di Roma, Firenze e Napoli sostituita da un’egemonia del Nord industriale, e che presenta caratteristiche di rigidità e semplificazione sintattica, funzionali al prevalere del fine comunicativo. In chiusura Pasolini ritorna sulla disgregazione del quadro culturale, che deriva da un vuoto della storia: è finito un tipo di società italiana e ne è iniziato un altro. Da qui il disorientamento della letteratura, che deve fare i conti con questa perdita di orizzonte. Solo prendendo coscienza della rivoluzione linguistica, uno scrittore potrà ritrovare il suo «mandato». Bisogna impossessarsi del nuovo linguaggio e non restarne aristocraticamente fuori. E, laddove lo scrittore si sarà fatto un po’ scienziato, la sua funzione sarà di difendere l’espressività linguistica, che coincide con la libertà dell’uomo rispetto alla meccanizzazione. Si dice talvolta che all’inizio degli anni Sessanta Pasolini decreti la fine della letteratura, non riconoscendone più le ragioni di sopravvivenza, e in tale chiave si legge la sua opzione per il cinema. La conclusione di questo saggio apre invece uno spiraglio, che affida agli scrittori il compito di garantire l’espressività e la libertà, compito iscritto in un quadro politico, non a caso nel nome di Gramsci, voce che richiama gli intellettuali al dovere di misurarsi con la società. Così si chiude il testo: «Mai come oggi il problema della poesia è un problema culturale, e mai come oggi la letteratura ha richiesto un modo di conoscenza scientifico e razionale, cioè politico».21 Pasolini poeta La poesia di Pasolini, collocata nella linea antinovecentista dell’infinito nell’umiltà di Saba, corrisponde alla felice formula della «competenza in umiltà», con la quale Gianfranco Contini nel 1980 ritrae lo scrittore.22 Agli studenti proporrei le seguenti, empiriche, coordinate: – La poesia in Pasolini risponde ad un bisogno espressivo antropologico ed esistenziale: presente in ogni momento della vita, è l’altro volto della sua riflessione intellettuale, storica, civile e politica. – La forma nasce dalla certezza etica e culturale della relazione del linguaggio con gli strati profondi della psiche umana e della civiltà. Se da Pascoli egli eredita il gusto dello sperimentalismo (andrà segnalata agli studenti la straordinaria cultura, il bagaglio ponderoso di «memoria poetica» cui egli attinge), Pasolini è sempre consapevole, anche quando la sua scrittura poetica deraglia verso la prosa, che la lingua ci rivela, nella nostra storia e nella nostra Weltanschauung.
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Ivi, p. 1270. G. Contini, Testimonianza per Pier Paolo Pasolini, ora in Ultimi esercizi ed elzeviri, Torino, Einaudi 1989, pp. 389-395. 22
XII. La letteratura degli Italiani a scuola
Identità e “mutazione” degli Italiani in Pasolini
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– La presenza dell’io, costante e quasi ossessiva, non dà mai luogo ad espressione solipsistica: l’io del poeta è sempre immerso nella storia, nel disperato amore per l’uomo e per la società. Dunque esso si manifesta e agisce come un filtro, uno sguardo straniato sulla vita, che diventa esercizio rigoroso di ragione critica, di veglia intellettuale e morale. La sua poesia attraversa la storia dell’Italia del secondo dopoguerra, ne vive dolorosamente i traumi, le trasformazioni, le conquiste, ma ne smaschera anche le corruzioni culturali, assumendo i toni di una tragica denuncia e la consistenza di una lucida, sconvolgente, profezia. Solo una selezione sistematica riesce didatticamente significativa in un corpus così ampio e complesso. Dalle giovanili Poesie a Casarsa del 194223 si leggerà O me donzel. L’usignolo della Chiesa Cattolica, nato come «libretto di meditazioni religiose», ha vicende editoriali travagliate: nel 1958 arriva alle stampe un testo stratificatosi negli anni, complementare alle Ceneri di Gramsci: se le Ceneri sono la testimonianza di un’eresia marxista, L’Usignolo è il segno di un’eresia cattolica. Celebrazione del rapporto intenso e sofferto con la madre, la bella e lunga poesia Memorie.24 Con Le ceneri di Gramsci, del 1957, Pasolini giunge alla piena maturazione di una coscienza politica e definisce la propria fedeltà alla storia. L’immagine del «piccolo poeta civile degli anni ’50» della Divina Mimesis è la conquista delle Ceneri, la cui novità si misura correttamente contestualizzandole.25 Qui Pasolini esperisce l’andamento narrativo del poemetto, senza mai derogare da un tasso elevato di raffinatezza letteraria, che si rivela nella cura linguistica e stilistica. Al centro dell’immaginario delle Ceneri il «popolo» (non la «classe» del marxismo ortodosso), cui il poeta guarda con intensità e amore proprio in quanto tenuto fuori dalla storia, e da una vera coscienza politica. Ne sono testimonianza i versi del Canto popolare: Ah, noi che viviamo in una sola generazione ogni generazione
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Nella raccolta La meglio gioventù. Poesie friulane. Pasolini stesso traduce queste poesie in italiano. A questo esordio poetico va data giusta importanza: la scelta della lingua friulana risponde inizialmente alla ricerca di un Eden innocente e precedente alla storia. G. Jori collega questa fase a Contini e al suo magistero critico, quando ricorda che negli stessi anni Contini va «tracciando la mappa letteraria […] delle radici aurorali dell’Italia romanza»: G. Jori, Pier Paolo Pasolini in Antologia della poesia italiana, a cura di C. Segre e C. Ossola, Torino, Einaudi 1999, III, p. 1557. 24 L’Usignolo della Chiesa Cattolica, in P.P. Pasolini, Tutte le poesie cit., I, p. 457. 25 Scrive F. Bandini nell’Introduzione a P.P. Pasolini, Tutte le poesie cit., I, p. XXXII-XXXIII: «Le Ceneri rappresentano il tentativo più forte di fuoriuscita dalle poetiche novecentesche, la volontà di lasciarsi alle spalle l’esperienza del decadentismo europeo (e la sua specie italiana individuata principalmente nell’esperienza ermetica)». Identità nazionale: continuità e discontinuità nel legame tra individuo e collettività
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vissuta qui, in queste terre ora umiliate, non abbiamo nozione vera di chi è partecipe alla storia solo per orale, magica esperienza;26
Altri due frammenti densi di significato: il primo dal testo L’umile Italia: l’ambientazione è l’Italia provinciale dei borghi, dove il garrire delle rondini regala il ricordo di un tempo «che uguale s’infutura», quasi al riparo dalla memoria e dalla storia;27 in Comizio un occasionale compagno di un comizio ha il volto del fratello Guido.28 Intorno al 1960 la vicenda esistenziale e intellettuale di Pasolini giunge ad un giro di boa definitivo: la civiltà dei consumi ha omologato ogni cosa: il popolo, travolto dal conformismo piccolo-borghese, ha dimenticato le proprie radici e la propria identità. Si apre la stagione più feconda e amara della meditazione dello scrittore. Ne rendono testimonianza le poesie della Religione del mio tempo, che si nutrono di vita: il poeta percorre le piazze e le strade delle città nello «schiumeggiare della vita», osserva l’umanità nei gesti quotidiani apparentemente insignificanti, con la consapevolezza dell’intellettuale che possiede la ricchezza della cultura. Intatta resta la contemplazione della bellezza: gli affreschi di Piero ad Arezzo si fanno baluardo contro l’avanzare della volgarità consumistica. Molti i testi da leggere: Schiuma è questo sguardo che servile, Ma in questo mondo che non possiede, Ah raccogliersi in sé, e pensare!, Dove vai per le strade di Roma, Sesso, consolazione della miseria!, Li osservo, questi uomini, educati, Chi fui? Che senso ebbe la mia presenza, Questi due che per quartieri sparsi, La reazione stilistica, Frammento alla morte.29 Poesia in forma di rosa, del 1964,30 è una raccolta problematica, di grande complessità; le soluzioni metriche e stilistiche sono differenti: in alcuni casi il linguaggio vira verso la prosa, in altri testi si recuperano metri e forme della tradizione. La fiducia del poeta civile è venuta meno, come quella in una funzione salvifica della letteratura. La poesia registra la distruzione che avanza, col senso angoscioso di una catastrofe inevitabile. Alcuni versi de La Guinea dipingono la situazione che il poeta sta vivendo.31 Nelle pagine di diario delle Poesie mondane, dopo un amaro lapi-
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P.P. Pasolini, Tutte le poesie cit., I, p. 784. «Ah, non è il tempo della storia, / questo, […] Questa è l’Italia, e / non è questa l’Italia: insieme / la preistoria e la storia […]», ivi, pp. 803-804. 28 «Poi su me / posa lo sguardo. Tristemente gli arde // col pudore che ben conosco; ed è / così mio quello sguardo fraterno!», ivi, p. 798-99. 29 P.P. Pasolini, La religione del mio tempo, in Tutte le poesie cit., I, pp. 889 ss. 30 Da segnalare la presentazione dello stesso autore, in P.P. Pasolini, Tutte le poesie cit., I, p. 1707. 31 «L’intelligenza non avrà mai peso, mai / nel giudizio di questa pubblica opinione. […] Io muoio, ed anche questo mi nuoce»., ivi, p. 1089. In rete si possono ascoltare questi versi dalla voce dello stesso Pasolini: http://www.youtube.com/watch?v=2R8dz8QJP3E. 27
XII. La letteratura degli Italiani a scuola
Identità e “mutazione” degli Italiani in Pasolini
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dario ritratto dell’Italia,32 il poeta, in una desolata autopresentazione, denuncia la propria inadeguatezza rispetto ai tempi presenti.33 La ricerca di una casa e Il sogno della ragione sono testi di grande suggestione intellettuale ed emotiva; il lungo poemetto in terzine La realtà è una dolorosa ricognizione della propria vita, delle sue contraddizioni e delusioni. Infine, nell’Appendice I a Poesia in forma di rosa, la straordinaria Profezia contiene i calligrammi, tra cui la famosa «croce» Alì dagli occhi azzurri.34 Trasumanar e organizzar,35 del 1971, segna il ritorno alla poesia dopo anni di un silenzio strano per un poeta tanto prolifico. È una raccolta difforme dalle precedenti: il poeta, scrive nella presentazione Fernando Bandini, sembra non essere più nell’omphalos del mondo; come se avesse perduto la fiducia nella verità della parola poetica36 e, benché disilluso, scopre una vena ironica. L’approdo all’ironia, cifra assai rara in tutto il primo Pasolini e che comincia ad affacciarsi in Poesia in forma di rosa, è il segnale di una resa alla lucida disperazione di constatare come ogni illusione morale e culturale sia ormai definitivamente caduta. Da questa raccolta leggerei il componimento eponimo, intensa rappresentazione della propria vicenda intellettuale, politica, esistenziale. Il cinema ho girato il mio primo film semplicemente per esprimermi in una tecnica differente, tecnica di cui ignoravo tutto e che ho appreso con questo primo film. E per ciascun altro film, ho dovuto imparare una tecnica differente e adatta. Quando facevo solo letteratura, cambiavo continuamente le mie tecniche letterarie. Ciò corrisponde al mio comportamento di fronte alla realtà. Sono un ossesso che ha tuttavia diverse direzioni di espressione, che cambia di continuo tecnica, dalla tecnica della poesia dialettale a quella del romanzo naturalista o mimetico, o del discorso libero indiretto, o del saggio.37
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«Il popolo più analfabeta / e la borghesia più ignorante d’Europa», ivi, p. 1098. «Io sono una forza del Passato./ Solo nella tradizione è il mio amore. […] Mostruoso è chi è nato/ dalle viscere di una donna morta./ E io, feto adulto, mi aggiro/ più moderno d’ogni moderno/ a cercare i fratelli che non sono più […], ivi, p. 1099. 34 Ivi, p. 1289. Anche di questo testo si trovano suggestive letture in rete: si veda ad es. il video con la voce di Toni Servillo: http://www.youtube.com/watch?v=WcfC6rrcExk. 35 Il titolo dantesco viene da Pasolini spiegato in una interessante intervista a Jean Duflot: La contestazione, in Il sogno del centauro (1969-1975), in Saggi sulla politica e sulla società cit., p. 1462. 36 Non senza risultati importanti: «questo ritirarsi in se stesso favorisce nel poeta alcuni dei suoi accenti migliori, per cui […] in Trasumanar e organizzar si leggono alcune delle più belle poesie di Pasolini», F. Bandini, Il «sogno di una cosa» chiamata poesia, in P.P. Pasolini, Tutte le poesie cit., I, p. LV. 37 P.P. Pasolini, Il cinema secondo Pasolini, in Id., Per il cinema, a cura di W.Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori 2001, II, p. 2906. 33
Identità nazionale: continuità e discontinuità nel legame tra individuo e collettività
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Quando lo spettatore non ha dubbi e sa subito, secondo la propria ideologia, individuare da quale parte stare nel film, allora vuol dire che tutto è tranquillo: ma questa è finzione. Nei miei film evito la finzione.38
Queste due coordinate connotano il cinema di Pasolini: l’attenzione agli aspetti strumentali e linguistici, e la ricerca costante di un «senso» profondo, a prescindere da ragioni meramente commerciali, e non senza espliciti intenti di provocazione e scandalo. Limiterei il lavoro con gli studenti a tre film: Accattone (1961), Edipo Re (1967), Il Decameron (1970-71). Essi testimoniano momenti diversi della ampia esperienza cinematografica dell’autore, e affrontano problemi emblematici in relazione al tema di questo lavoro. Nella conversazione Il cinema secondo Pasolini, del 1965,39 lo scrittore esprime le ragioni che l’hanno indotto ad avvicinarsi al cinema e illustra le caratteristiche della sua prima stagione cinematografica ormai conclusa. Accattone è «una specie di poema cinematografico»,40 rappresentazione epica del mondo arcaico e feroce, ma genuino, del sottoproletariato delle borgate romane, travolto dai cambiamenti del boom economico. Completa l’analisi un articolo di quindici anni dopo: Accattone, scrive Pasolini, è stato un esperimento di laboratorio, testimonianza di una cultura ormai scomparsa.41 In Edipo Re Pasolini affronta i propri trascorsi interiori ed affettivi, e, attraverso il confronto con il mito, elabora un nodo tragico fondamentale della cultura occidentale.42 Egli stesso illustra il rapporto con il testo di Sofocle, la scelta della singolare ambientazione «preistorica», la relazione tra il presente e il mito.43 Il Decameron infine ci immerge in un Medioevo emblema di una purezza primordiale, territorio di un’umanità genuinamente e allegramente votata alla vita, precedente alla corruzione indotta dalla società borghese e dal suo modello di progresso. Didatticamente rilevante il rapporto con il testo letterario: il film si configura come una potente proposta ermeneutica.44 38
P.P. Pasolini, Ideologia e poetica, in Id., Per il cinema cit., II, p. 2994. Vd. n. 37. Importante anche la distinzione, qui illustrata, tra la «sintassi classica» e il «cinema di poesia». 40 Ivi, p. 2901. 41 P.P. Pasolini, Il mio Accattone in Tv dopo il genocidio, ora in Lettere luterane, Saggi sulla politica e la società cit., pp. 674-680. 42 S. Murri, Pier Paolo Pasolini, Milano, Editrice Il Castoro 2008 (1^ ed. 1994), p. 84: «A partire dall’oscuro senso di morte insito nel testo di Sofocle, la vicenda di Edipo diviene l’emblema della «condizione umana» occidentale: quella di una vita resa cieca dalla volontà di non sapere ciò che si è, di ignorare la propria «verità» […]». 43 P.P. Pasolini, Edipo Re, in Id., Per il cinema cit., pp. 2918-2930. 44 Vd. S. Villani, Il Decameron allo specchio, Roma, Donzelli 2004, nel quale si analizza il film in relazione al testo di origine. Una sintetica chiave di lettura dell’opera anche in S. Murri, Pier Paolo Pasolini cit. 39
XII. La letteratura degli Italiani a scuola
Identità e “mutazione” degli Italiani in Pasolini
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Conclusione: …un’eroica vocazione a non arrendersi mai…45 In un recente pamphlet Massimiliano Panarari, nel dipingere il quadro desolante della cultura e del dibattito pubblico italiano negli ultimi quarant’anni, denunzia il ruolo della televisione commerciale nella rivoluzione antropologica postcapitalistica e postmoderna: a partire dagli anni Ottanta, gli anni dell’edonismo reaganiano e del grande riflusso, «[…] fu chiaro […] che l’egemonia non nasceva più in fabbrica, come predicava Gramsci negli anni Trenta, ma stava prendendo forma all’interno degli studi di una televisione completamente diversa da quella in bianco e nero: la televisione della pubblicità e degli show con le ballerine scosciate»;46 nel «brutto postmoderno» di fine millennio la televisione diventa «il canale (anzi, il network) perfetto per diffondere pensieri debolissimi e condizionamenti fortissimi».47 Pasolini aveva visto giusto, le sue previsioni «apocalittiche» non sono state smentite. Tuttavia non credo che sia questo l’approdo cui ancorare un’attività didattica su Pasolini; la sola anamnesi storica della società attuale di per sé avrebbe un valore documentario ma non necessariamente formativo. Ciò che con più urgenza ci preme, soprattutto nelle attuali contingenze, è risvegliare la vigilanza critica, coltivare la capacità di indignarsi. È il Pasolini del costante dissenso, l’intellettuale anticonformista che sistematicamente sposta il punto di vista che possiamo assumere come maestro e modello. Calvino nell’Esattezza cercava nella letteratura gli anticorpi per contrastare l’espandersi della peste del linguaggio: oggi più che mai abbiamo bisogno di anticorpi, e forse su questo la scuola, nonostante tutto, può continuare a dire qualche parola.
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Con questi versi da Il sogno della ragione, in Poesia in forma di rosa, ho intitolato anche la webquest complementare al presente lavoro (vd. n. 5). 46 M. Panarari, L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip, Torino, Einaudi 2010, p. 20. 47 Ivi, p. 24. Identità nazionale: continuità e discontinuità nel legame tra individuo e collettività
RITA SEPE Letteratura-memoria-identità collettiva: una riflessione su ‘Piazza d’Italia’ di Tabucchi
Nel suo recente saggio La Repubblica del dolore1 Giovanni De Luna presenta il quadro di una Italia contemporanea, nella quale l’uso politico della storia non è più finalizzato a rafforzare l’identità collettiva degli italiani intorno al processo e ai valori che hanno portato alla nascita della Repubblica e all’elaborazione della Costituzione, ma altri patti memoriali vengono stretti all’occorrenza, per alimentare valori, credenze, simboli che legittimino il potere politico e che accrescano il consenso di partiti politici, la cui identità non affonda le proprie radici nelle origini della nostra Storia repubblicana.2 La scuola, poi, sostiene De Luna, sta progressivamente perdendo il ruolo di agenzia delegata a governare la trasmissione del sapere storico, sostituita in questo compito dai mass media, in quanto formidabili costruttori di memoria e di identità, con uno spostamento del baricentro della cultura verso l’immagine e verso nuove forme di oralità.3 È possibile, in questo contesto, provare ancora a ipotizzare per la scuola un ruolo decisivo per la promozione di una memoria collettiva, in cui riconoscere la propria identità di italiani e rafforzare il senso di cittadinanza? L’esperienza didattica di Piazza d’Italia di Tabucchi dimostra che è possibile e che la letteratura è uno strumento privilegiato in questo senso. Lo stesso autore, d’altronde, dichiarò in un‘intervista rilasciata a Oreste Pivetta per l’Unità nel settembre 1993 in occasione della riedizione del suo romanzo giovanile: «Sono assolutamente convinto che la letteratura resti come memoria lunga,
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G. De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Milano, Feltrinelli 2011. Ivi, pp. 19-21; 46-53. 3 Ivi, pp. 24-25. 2
Identità nazionale: continuità e discontinuità nel legame tra individuo e collettività
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rispetto ai mass media, che sono la memoria breve. […] La letteratura deve servire a ricordare. I libri restano. La televisione passa».4 Com’è noto, Piazza d’Italia5 racconta la storia di una famiglia toscana che si snoda attraverso circa cento anni, dalle vicende risorgimentali del capostipite, il garibaldino Plinio, fino alla lotte prima antifascista e poi operaia dell’ultimo Garibaldo. Il lettore, seguendo le vicende dei protagonisti nel loro microcosmo, viene così coinvolto in un viaggio nella memoria attraverso il nostro passato più o meno recente, dal secondo Ottocento agli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento. E in effetti, Tabucchi stesso ne parla come di «una riflessione sulla storia d’Italia» e, aggiunge, «come un racconto epico scritto alla maniera brechtiana».6 Il riferimento a Brecht e al suo teatro epico offre un’interessante chiave di lettura per l’opera di Tabucchi. Il drammaturgo tedesco definisce «recitazione epica» quella nella quale l’attore fornisce la rappresentazione di una vicenda passata, in un modo tale che lo spettatore possa formarsi un’opinione sulle cause e sui meccanismi che presiedono ad essa. Tale «dimostrazione» ha un significato socialmente pratico, in quanto il fatto rappresentato in una forma o nell’altra può ripetersi, e ancora non è concluso, ma avrà delle conseguenze, sicché diventa importante il modo di giudicarlo, per poter intervenire sulla realtà e modificarla. Per raggiungere tale scopo, il teatro epico utilizza la tecnica dello straniamento (inserimento di cori, di proiezioni esplicative…), attraverso la quale si può dare ai rapporti umani rappresentati l’impronta di cose sorprendenti, che esigono spiegazioni, non evidenti, non semplicemente «naturali».7 «I nuovi straniamenti – chiarisce Brecht – dovrebbero solo spogliare i processi socialmente influenzabili di quell’aspetto consuetudinario che oggi li mette fuori dalla portata di mano. Ciò che da lungo tempo non ha subito mutamenti sembra infatti immutabile», naturale, e «perché tutti questi fattori “naturali” giungano ad apparirgli come altrettanti fattori problematici» l’uomo deve osservarli con un «occhio estraneo», con meraviglia. Trasformando, dunque, il consuetudinario in problematico, si porrà lo spettatore nell’atteggiamento di ricercare le cause, le leggi
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L’intervista è riportata in A. Tabucchi, Sostiene Pereira. Introduzione e analisi del testo di Bruno Ferraro, Torino, Loescher 2006. 5 Per le citazioni e i riferimenti al testo si seguirà la decima edizione del gennaio 2009 nell’Universale Economica Feltrinelli. 6 «J’ai voulu faire la meme chose [di Anghelopoulos in Les voyages des comédiens] avec Piazza d’Italia, une réflection sur l’histoire de l’Italie, comme un récit épique écrit à la manière brechtienne et monté à la manière d’Eisenstein», Le cinèma des ècrivains, a cura di A. de Baecque, Paris, Editions de l’Etoile 1995, p. 18 cit., in F. Brizio-Skov, Antonio Tabucchi. Navigazioni in un arcipelago narrativo, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore 2002, p. 33 e n. 17. 7 B. Brecht, La scena di strada. Modulo-base per una scena di teatro epico, tr. it. in Teatro, vol. 2, Torino, Einaudi 1954, pp. 7-19. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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dei comportamenti umani, ed egli potrà agire di conseguenza per trasformare la realtà.8 Ragioniamo dunque su due aspetti: l’effetto dello «straniamento» e il «significato socialmente pratico» per cui lo spettatore è indotto a influenzare la realtà. È in questo che consiste anche il carattere «epico» del racconto di Tabucchi? Quanto al primo aspetto, in effetti nel testo ricorrono diversi elementi che sortiscono un effetto straniante: il tempo «sbandato» della famiglia protagonista,9 la magia (gli oroscopi della Zelmira, lo specchietto del Dottor Speranza), i motivi fantastici (le finestre che spiccano il volo e lasciano le case senza occhi, in modo che non possano vedere la distruzione di Borgo ad opera delle truppe nazifasciste). Anche l’impianto narrativo contribuisce all’effetto, per il rapporto non lineare tra fabula e intreccio, con l’epilogo in apertura, le numerose analessi e prolessi, che Tabucchi motiva con l’adozione di una tecnica suggerita dalla lettura delle Lezioni di montaggio di Eisenstein, che lo spinse a ritagliare il testo, originariamente di impianto narrativo tradizionale, in tante sequenze e poi a «montarle» per «dislocazione temporale», «successione visuale», «rima analogica», «richiamo metaforico», «corrispondenza sensoriale».10 Quanto al «significato socialmente pratico», l’importanza di un’esperienza culturale di questo genere per gli studenti viene confermata dalla pratica didattica. Infatti, pur nella difficoltà della lettura del testo, l’incontro con momenti significativi della nostra storia nazionale in una narrazione in forma affabulatoria, accanto ai generi della saggistica o della manualistica, lascia il segno e suscita in classe discussioni animate, in particolare su due temi: • il “sentirsi italiani”, che per un adolescente medio non significa molto di più che cantare l’Inno di Mameli sventolando il tricolore in occasione di un evento sportivo; • la partecipazione attiva del singolo individuo al destino della collettività, che appare così lontano dall’orizzonte dei nostri studenti, i quali sembrano spesso preferire la vita “virtuale” o da “spettatore”, indotti dai social network e da alcune trasmissioni televisive, oltre che da un diffuso qualunquismo e da una generale tendenza del mondo degli adulti all’individualismo. Un testo come quello di Tabucchi può avere realmente, sull’esempio di Brecht, un «significato socialmente pratico», se esso contribuisce almeno a suscitare una riflessione su una prassi che sembra «naturale», come quella di delegare ad altri la
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Id., Breviario di estetica teatrale, tr. it, in Teatro cit., pp. 607-641. Sul dibattito critico intorno alla definizione di teatro epico, si veda F. Brizio-Skov, Antonio Tabucchi… cit., p. 35, n. 20. 9 È la definizione che ne dà la Zelmira ad Asmara che le chiede di fare l’oroscopo a Garibaldo, in A. Tabucchi, Piazza d’Italia, Bologna, Feltrinelli 2009, p. 83. 10 Le cinéma des écrivains, in F. Brizio-Skov, Antonio Tabucchi… cit., pp. 32 ss. Identità nazionale: continuità e discontinuità nel legame tra individuo e collettività
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partecipazione e il senso di responsabilità nella vita civile, e a instillare il dubbio se non sia il caso di porsi nuovamente sulle orme di chi nel passato ha incarnato nella propria vita quei valori che hanno ispirato la nostra Costituzione. La lettura di Piazza d’Italia porta, infatti, in primo piano l’esperienza della partecipazione dell’individuo alle sorti della collettività, che si concretizza in momenti storici diversi e con modalità differenti nelle vicende dei protagonisti. Il primo tempo si apre con la figura di Plinio, il quale incarna il volontarismo di matrice garibaldina («Non ce la faccio più, bisogna che parta»), che si realizza nella partecipazione ai fatti di Calatafimi e poi alla presa di Roma («Ho preso a calci Pio IX»), ma anche un senso di giustizia sociale che lo porta ad essere insofferente nei confronti dei responsabili delle ingiustizie («Mi brucia tutto, questa vita, i signori») e a provare a ristabilire un ordine più equo, attraverso la cattura di una folaga dei paduli che gli costa la vita.11 Anche il divieto di cacciare le folaghe era avvertito, infatti, come un’ingiusta norma del governo che toglieva ai poveri una possibilità di sostentamento. Della stessa opinione si mostrerà anche suo nipote Volturno, detto Garibaldo: «Sapeva – dice il narratore – che l’acqua che muoveva il mulino era di tutti, come il grano che macinava, che le folaghe che scendevano nei paduli a novembre erano di tutti, e che le guardie regie c’erano per ammazzare chi se n’era accorto».12 In continuità con l’esperienza di Plinio è quella di uno dei suoi quattro figli, Garibaldo (tutti hanno nomi che rievocano l’esperienza garibaldina: Quarto, Volturno, Anita e, appunto, Garibaldo), il quale è animato dal desiderio di agire in soccorso della gente di Borgo affamata dalla carestia e di porre fine a quella che avverte come un’ingiustizia («Il granaio municipale trabocca, altro che carestia. E il pane non si può comprare perché costa l’ira di Dio. E noi come tanti scemi»13) e trova un alleato in Don Milvio, il prete socialista di Borgo, che progetta da tempo una macchina idraulica per l’uguaglianza che porti il grano dal granaio municipale alle case dei cittadini. Ispirato dalle sue parole, organizza un assalto proprio al granaio, seguito dalla folla che grida «abbasso il re», durante il quale viene ucciso dalle guardie regie, come suo padre. Il rapporto tra Garibaldo, Don Milvio e l’ideologia socialista è sancito dalla voce del medico che può solo constatare il decesso del nostro eroe, commentando: «Turati, Turati, quanto male fai agli italiani!»,14 e in ciò rappresentando probabilmente la posizione conservatrice di chi concepisce la lotta per combattere le ingiustizie sociali solo come un rischio per la propria incolumità o una mera e pericolosa illusione.
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A. Tabucchi, Piazza d’Italia cit., pp. 19-23. Ivi, pp. 15. 13 Ivi, p. 46. 12
XII. La letteratura degli Italiani a scuola
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Col secondo tempo del romanzo ci spostiamo dal secondo Ottocento al primo Novecento. Il Garibaldo di turno è il figlio del Garibaldo morto durante l’assalto al granaio, che in realtà si chiama Volturno come suo zio morto in Africa, ma che, alla morte di suo padre, riceverà in eredità il nome di lui, insieme col suo destino. Il narratore ne segue le vicende, dalla partecipazione volontaria alla prima guerra mondiale fino alla lotta antifascista, prima attraverso azioni individuali di matrice anarchica, poi in forme di resistenza più organizzate. L’epopea di Volturno/Garibaldo continua nel terzo atto, quando siamo ormai nel Secondo Dopoguerra. Il nostro lavora in fabbrica ed è licenziato, prende la tessera del Partito Comunista, ponendo definitivamente fine all’esperienza anarchica, va in giro per feste dell’Unità a cantare canzoni che ricordano il fascismo e le lotte per la liberazione, mentre la voce dell’altoparlante invita a tener «presenti sempre nella nostra memoria [quei tenebrosi momenti]».15 Infine, muore, come suo nonno e suo padre, ucciso dalle forza dell’ordine, durante una manifestazione contro il licenziamento di alcuni operai, che è stato motivato ufficialmente con la crisi, ma che in realtà (è la tesi di Volturno/Garibaldo) è una rappresaglia contro i lavoratori che avevano attaccato i manifesti per uno sciopero. Il primo e più evidente dato che emerge da questa sintesi è la continuità che caratterizza le esperienze di Plinio, Garibaldo e Volturno/Garibaldo, sotto il segno del mito di Garibaldi e del suo valore di lunga durata, anche al di là dei confini cronologici del Risorgimento.16 Rappresentano la continuità i nomi garibaldini che si richiamano o si ripetono, a designare uomini di generazioni diverse animati dalla stessa volontà di azione in nome di un ideale politico e di un profondo senso di giustizia, e la «debolezza nei piedi» che è un evidente richiamo al Garibaldi di Aspromonte (non quello vittorioso, si noti bene!) come modello di riferimento17 (a Plinio viene amputato un piede durante la presa di Roma; suo figlio Garibaldo si spara ad un piede per non prendere parte alla guerra coloniale in Africa (la guerra di «questi stronzi che stanno in panciolle»);18 Volturno/Garibaldo ha problemi ai piedi in seguito ad un congelamento durante la guerra di trincea).
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Ivi, p. 47. Ivi, p. 133. 16 Su questo tema si vedano i due recenti studi di E. Cecchinato, Camicie rosse. I garibaldini dall’Unità alla Grande Guerra, Roma-Bari, Laterza 2007, e M. Isnenghi, Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato, Roma, Donzelli 2007. 17 Mi riferisco alla posizione del Garibaldi che mira a realizzare fino in fondo il suo obiettivo, che trova espressione netta in relazione ai fatti di Aspromonte nella lettera a Giuseppe Civinini del 18 dicembre 1862. Qui Garibaldi parla del governo italiano come «mascherato dispotismo» che predica la conciliazione tra padrone e servo senza preoccuparsi di «procedere al compimento dell’edificio», in M. Isnenghi, Garibaldi fu ferito… cit., p. 84. 18 A. Tabucchi, Piazza d’Italia cit., p. 28. 15
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Rita Sepe
Anche la statua della «piazza d’Italia» rappresenta la continuità, pur nell’apparente cambiamento: dal Granduca a Vittorio Emanuele, da Mussolini alla Democrazia, tutti vengono percepiti come «padroni», il cui avvicendamento non comporta alcun reale cambiamento nella condizione dell’uomo comune, di coloro dal cui punto di vista Tabucchi racconta «la storia di un paese che fatica a trovare la democrazia»: i vinti della storia.19 Sono gli eroi popolari protagonisti della microepica che s’intreccia con la grande trama dell’epica nazionale,20 ma non si tratta di «antieroi [le cui] azioni non sono guidate da un’ottica ideologica vera e propria», e la morte di Garibaldo II non avviene per un tragico equivoco, «per un ideale che non ha più ragion d’essere», com’è stato sostenuto.21 Il suo discorso sui diritti dei lavoratori22 dimostra quanto avesse chiari il suo referente e i suoi riferimenti ideologici. Il grido «Abbasso il re!», che si lascia scappare fuori tempo prima di essere ucciso, ha più il sapore della frase ad effetto che sognava di dire da sempre in un momento-chiave della lotta popolare e che gli sfugge lì, anche se ormai inopportuna, ed è significativamente lo stesso grido che pronunciava la folla mentre assaltava il granaio municipale e suo padre Garibaldo era colpito a morte come lui durante un’azione sovversiva. Quel grido è, dunque, un ulteriore elemento di continuità tra le diverse generazioni e ancora una volta ci pone nella linea del mito garibaldino. Per raccogliere una suggestione di Isnenghi, i nostri personaggi potrebbero essere collocati nell’alveo della «sinistra movimentista» che si oppone alla linea della «rivoluzione disciplinata» rappresentata, per esempio, da Depretis, che ha come espressione oleografica l’accoppiata vincente del «Re galantuomo» e del suo «amico fedele».23 Significativamente, è la stessa statua, quella di Vittorio Emanuele e Garibaldi, di fronte alla quale il padre di Plinio (e risaliamo con la genealogia di “ribelli” di un’altra generazione!) dice del re che è «il nuovo padrone» dopo il Granduca di Toscana.24 A chiudere il cerchio, e a fornire indirettamente la chiave per leggere la continuità tra passato e presente nel nostro testo, Isnenghi cita Rosselli, che lega l’espe-
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Antonio Tabucchi. Così l’Italia è diventata il mio grande rimorso, intervista di Simonetta Fiori, in «La Repubblica», 27 gennaio 2010. 20 Ibidem. 21 N. Trentini, Una scrittura in partita doppia. Tabucchi fra romanzo e racconto, Roma, Bulzoni 2003, pp. 148 ss. 22 «Sì, la legge del Menga!», A. Tabucchi, Piazza d’Italia cit., p. 139; «Il Guidone è in agonia con la testa aperta come un cocomero […] Lo hanno fracassato di botte, e ora ci vorrebbero dare il contentino. Due lire in più, agli schiavi, se fanno i buoni, e si mette una pietra su quello che è successo […] Ma la morte non si compra!», ivi, p. 144. 23 M. Isnenghi, Garibaldi fu ferito… cit., pp. 63 ss., 83. 24 A. Tabucchi, Piazza d’Italia cit., p. 17. XII. La letteratura degli Italiani a scuola
Letteratura-memoria-identità collettiva
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rienza dei «grandi vinti del Risorgimento politico» (Cattaneo, Mazzini, Garibaldi, Pisacane) a quella di Turati, «questo grande, ma provvisorio vinto del Risorgimento sociale», e «perora con eloquenza volontarismo, combattentismo, interventismo come virtù libertarie storicamente rese necessarie […] dall’esistenza e dal ripetersi delle tirannie».25 Non possiamo non riconoscere i nostri eroi. La «favola popolare» di Tabucchi consente, dunque, anche una riflessione storica sul rapporto tra Risorgimento e Resistenza,26 e non cessa di farci interrogare sul rapporto tra passato e presente, su quanto il presente sia tributario del passato.27 In conclusione, per dirla con Isnenghi, «noi siamo quello che ricordiamo. Più esattamente: il meccanismo generatore della coscienza nazionale è la rammemorazione, memoria più affabulazione»,28 e se «la rammemorazione degli uomini di lettere» (la riflessione di Isnenghi parte dai Sepolcri di Foscolo) ha prodotto «oltre mezzo secolo di “pensiero e azione” almeno fino al 1861»,29 perché non ipotizzare che la «rammemorazione» nei nostri studenti, attraverso opere narrative come questa di Tabucchi, contribuisca almeno a «produrre» (e-ducere) quelle competenze relative a Cittadinanza e Costituzione di cui si parla nelle ultime Indicazioni Nazionali?30
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M. Isnenghi, Garibaldi fu ferito… cit., pp. 193 ss. Cfr. R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana (1953), Torino, Einaudi 1995 e M. Isnenghi, Garibaldi fu ferito… cit., p. 198. 27 Nell’intervista a O. Pivetta per l’Unità, in A. Tabucchi, Sostiene Pereira. Introduzione… cit., Tabucchi afferma che Piazza d’Italia è un «omaggio ad un ideale, quello anarchico, che ha influenzato profondamente la storia della mia terra, che è stato spazzato via ma che ha dato un grande contributo alla democrazia occidentale, perché c’è un filo che lo lega ai propositi e alle aspirazioni della rivoluzione francese». 28 M. Isnenghi, Garibaldi fu ferito… cit., p. 5. 29 Ivi, p. 6. 30 E ancora: «I percorsi liceali forniscono allo studente gli strumenti culturali e metodologici per una comprensione approfondita della realtà, affinché egli si ponga, con atteggiamento razionale, creativo, progettuale e critico, di fronte alle situazioni, ai fenomeni e ai problemi», dal Profilo culturale, educativo e professionale dello studente liceale, p. 10. 26
Identità nazionale: continuità e discontinuità nel legame tra individuo e collettività
CINZIA GALLO Il mito dell’italianità in uno scrittore di confine: Pier Antonio Quarantotti Gambini
La coscienza di una identità nazionale italiana percorre i testi narrativi di P. A. Quarantotti Gambini, ambientati, negli anni intorno le due guerre mondiali, essenzialmente fra l’Istria e la Venezia Giulia, a marcare l’unità territoriale di queste due zone con l’Italia e quindi l’opportunità di una unione anche politica. Già nella raccolta di racconti I nostri simili, del 1931-32, essere Italiano significa condividere alcuni caratteri – fisici e comportamentali –, per cui, ne Il fante di spade, la diversità di Maurizio è sottolineata dai suoi capelli di un biondo «poco comune in Italia»,1 ne La casa del melograno, Luisa mostra curiosità nei confronti delle donne d’Italia e allude, per converso, all’ammirazione che può aver suscitato, quale Italiano, Guerino in Russia, mentre Romoletto riporta dal fronte italiano, presso cui si è recato disertando l’esercito austriaco, l’abitudine ad atteggiarsi a profondo conoscitore degli uomini e del mondo. È già chiaro, quindi, come gli Istriani e i Giuliani si sentano intimamente Italiani (per storia, etnia, tradizioni, lingua, cultura) e aspirino ad essere ritenuti tali a tutti gli effetti (anche per organizzazione politica): ne Il fante di spade, infatti, il protagonista, Carlino Tomsich, di Fiume, si trova perfettamente a suo agio nella scuola ufficiali di una «piccola città subalpina»2 e Romoletto, ne La casa del melograno, corre a Fiume per raggiungere D’Annunzio, «l’asceta della nuova Italia!»,3 a indicare l’entusiasmo nei confronti di un’ Italia repubblicana, allargata ai suoi confini naturali e fortemente idealizzata. Ormai superato è allora l’atteggiamento del conte Paolo, de La rosa rossa, il quale, secondo la concezione stupariciana dell’Austria «dei popoli»,4 vede armonicamente riunite varie etnie e nazionalità
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P. A. Quarantotti Gambini, I nostri simili, Torino, Einaudi 1981, p. 80. Ivi, p. 79 3 Ivi, p. 189. 4 G. Stuparich, Prefazione a La nazione czeca, Catania, Battiato 1915, p. 9 cit. da R. Bertacchini, Stuparich, Firenze, La Nuova Italia 1968, p. 31. 2
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nell’impero asburgico, di cui, perciò, può ritenersi buono suddito senza contraddire il suo status di Italiano, considerato un fatto interiore, una «qualità».5 E che la lingua sia espressione dell’identità nazionale, come avevano già giudicato Alfieri e Settembrini6 – e come Quarantotti Gambini rileva nelle pagine diaristiche di Primavera a Trieste,7 – è dimostrato dal fatto che l’imperatore, per evidenziare la componente italiana dello Stato asburgico, ama parlare anche il toscano. L’importanza della discendenza, come segno di identità nazionale, è invece attestata dai sospetti rivolti al conte Paolo durante la prima guerra mondiale dagli Austriaci per il «suo nome, le sue parentele»,8 grazie alle quali, comunque, ritornato a Capodistria, riceve gli omaggi del marchese Balzeroni e di altri ex-combattenti sul fronte italiano, suoi parenti. Una nazione, però, è soprattutto una entità politica, che si manifesta nei due tipi di soldi, austriaci e italiani, che il vecchio Andrea possiede e nell’elezione a deputato del marchese Balzeroni. Si precisa, a questo proposito, secondo i principi dell’Associazione pro-Italia irredenta del 1877, il legame dell’irredentismo con la tradizione risorgimentale, sintetizzata nella figura di Garibaldi, che aveva avuto, come si asserisce ne La rosa rossa, numerosi seguaci fra i giovani e che diviene oggetto di mitizzazione, quale assertore di un rinnovamento politico-sociale, a confronto con lo scadimento presente. «Adesso coi partiti non si capisce più niente, anche i nomi sono nuovi», afferma, difatti, la signora Ines, a cui il signor Pietro replica: «I nomi sono nuovi […] ma la gente è sempre la stessa. Come ai tempi di Garibaldi, che aveva ragione di arrabbiarsi».9 Ma è soprattutto nel ciclo di romanzi Gli anni ciechi che l’italianità dell’Istria e della Venezia Giulia viene ulteriormente puntualizzata tramite una particolare struttura narrativa che segna il distacco fra presente e passato. Il ciclo si apre, difatti, con il brano Tre bandiere, in cui Paolo Brionesi, tornando nelle zone di Capodistria e di Semedella, quindici anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, ne mette in evidenza, attraverso il tema del ricordo, tipico di Quarantotti Gambini sin dai suoi esordi solariani, il mortificante processo di cancellazione dell’italianità, sia
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P. A. Quarantotti Gambini, La rosa rossa, Torino, Einaudi 1960, p. 17. Cfr. A. Di Benedetto, Libri che hanno fatto (e disfatto) gli Italiani, in «La Modernità letteraria», (2011), 4, p. 27. 7 P.A. Quarantotti Gambini, Primavera a Trieste. Con una lettera al Presidente della Repubblica e altri scritti Milano, Mondadori 1967. A p. 181 si legge: «La lingua che si parla: non è un fatto, in ogni paese, fondamentale, decisivo?». Ed, ancora: «la nostra forza è soltanto morale: la lingua che parliamo, la storia di cui le nostre città e noi stessi – mezzo milione d’italiani – siamo la testimonianza vivente» (pp. 9-10); «nella mia famiglia non ci si è mai sentiti altro che italiani; questa è la nostra civiltà, questa è la nostra lingua» (p. 242). 8 Id., La rosa rossa cit., p. 84. 9 Ivi, p. 257. 6
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dei luoghi che degli individui, avviato da Tito e dettagliatamente descritto in Primavera a Trieste: il risultato è l’esodo degli Istriani scampati ai massacri e alle foibe, i quali, consci della loro origine italiana (definiscono l’Italia «madre»),10 si proclamano contrari all’annessione dell’Istria alla Repubblica Federativa Jugoslava, formano la sezione capodistriana del partito comunista italiano, preferiscono lavorare sotto padrone in Italia piuttosto che diventare coltivatori-proprietari in Jugoslavia. I successivi romanzi sono dei flash-back con cui viene rievocata l’infanzia di Paolo fra la villa dei nonni a Semedella e Trieste, sullo sfondo delle vicende precedenti e successive la prima guerra mondiale: le storie individuali di Paolo e della sua famiglia, animate da una profonda coscienza dell’identità italiana, si saldano così a quella collettiva. Si spiegano allora, ne Le redini bianche, l’attesa, come del «più bel giorno»11 della vita, del momento in cui l’Istria sarebbe stata liberata dalla dominazione austriaca e sarebbe stato possibile issare la bandiera italiana, la simpatia per la canzone Viva Tripoli italiana, molto diffusa nel periodo della guerra italoturca. Anche altre abitudini dei componenti la famiglia Brionesi-Amidei dimostrano, ne La corsa di Falco, la loro forte italianità: il padre di Paolo legge il «Corriere della sera», la madre canta l’Inno italiano e «E contro i patri nostri stendardi /cadrà l’orgoglio dello stranier»,12 lo zio Manlio discute, con i suoi amici, di questioni politiche. Siamo nel periodo dell’attentato di Sarajevo e Paolo percepisce a casa, nelle conversazioni dei familiari, le espressioni «triplice alleanza», «neutralità dell’Italia», «interventisti», «alleati», «offensiva», «avanzata»13 e riceve la raccomandazione di non riferirle a nessuno, soprattutto ai servi, slavi, così come non può indossare il cappello da bersagliere regalatogli dai genitori dopo un viaggio in Italia. Questa, indicata con la locuzione avverbiale «di là»,14 assume i contorni di un luogo mitico in cui non c’è guerra, in cui non c’è carestia e si mangia ancora il pane bianco, da cui ci si aspetta aiuto («Ma gli italiani, se sbarcano, passeranno ugualmente»;15 «Quando verrà l’Italia» è la metonimia che condensa le speranze di tutti e quel giorno «A tutte le finestre sarebbero apparse le bandiere d’Italia, e un bel grande tricolore sarebbe stato issato, finalmente, in cima all’asta che c’era sul terrapieno»).16 Disertare l’esercito austriaco, perciò, come fanno alcuni, non è segno di viltà ma di coraggio, perché significa disubbidire all’Imperatore, ormai rappresentante dell’Austria «tradizionale»,17 secondo la definizione di Stuparich. Quando
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Id., Tre bandiere, in Gli anni ciechi, Torino, Einaudi 1971, p. 24. Id., Le redini bianche, in Ivi, p. 52. 12 Id., La corsa di Falco, in Ivi, p. 150. 13 Ivi, p. 199. 14 Ivi, p. 201. 15 Id., L’Imperatore nemico, ivi, p. 212. 16 Ivi, p. 234. 17 G. Stuparich, Prefazione, in R Bertacchini, Stuparich cit., p. 31. 11
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però la guerra viene estesa anche all’Italia, esplodono le lacerazioni che la difesa dell’identità nazionale comporta: la nonna di Paolo è internata, il padre, che ritiene impensabile dover uccidere degli Italiani, viene messo in prigione, come la nonna; lo zio Manlio e il nonno, le cui proprietà sono sequestrate dal governo austriaco, si rifugiano in Italia. I vari avvenimenti, considerati attraverso il punto di vista di Paolo, in un progressivo processo di conoscenza dei vari aspetti della realtà, dimostrano le assurdità e la disumanità delle guerre, a rilevare gli errori dei più fanatici interventisti: una bomba italiana uccide, a Trieste, il proprietario del negozio di giocattoli «cui erano andati, per anni, i desideri suoi [di Paolo] e di tutti i bambini di Trieste»18 e Paolo, a scuola, si sente a disagio nel non poter, come gli altri bambini, cantare e pregare per l’imperatore, nonostante sia «giovane e gentile e voleva la pace».19 Pure nel momento della disfatta di Caporetto, rimane però la consapevolezza del maggior pregio degli oggetti italiani, a chiarire come l’affermazione di un carattere nazionale non dipenda dalle guerre: i camion italiani con le gomme prendono il posto degli autocarri austriaci con le ruote di ferro, un compagno di classe di Paolo indossa, in occasione della pioggia, un elmetto di cui vanta la fattura italiana. Anche gli atteggiamenti degli Italiani nei confronti degli Istriani, messi in evidenza da Paolo ne I giochi di Norma, riscuotono più simpatie rispetto a quelli degli Austriaci: gli Italiani hanno «un’aria sciolta e piena di confidenza», un «modo di fare per cui s’intendevano subito con le ragazze e coi bambini, e che li faceva così diversi dagli austriaci, ch’ erano invece […] taciturni […] e contro i quali spesso i cani abbaiavano».20 Che l’identità nazionale non debba affermarsi tramite la guerra e la sopraffazione ma sia soprattutto un fatto etnico, storico-culturale, si desume anche da Il cavallo Tripoli, in cui è descritta, sempre attraverso il punto di vista di Paolo, l’occupazione di Semedella da parte di soldati austriaci. Paolo, così, prova, suo malgrado, simpatia per il soldato austriaco Hans che, dal canto suo, la ricambia riconoscendo nella lingua il segno distintivo di un popolo, in quanto manifestazione di un patrimonio ideologico-culturale, nello specifico ammirevole, («conosceva abbastanza l’italiano e gli faceva piacere parlarlo»)21 e giudica i soldati italiani e austriaci un «tutt’uno: soldati, e nient’altro; soldati messi a combattere gli uni di qua e gli altri di là».22 Sono in sostanza privi di fondamento gli attriti fra individui di varia nazionalità, tant’è che Hans promette a Paolo di regalargli, finita la guerra, la zattera che ha costruito. Analogamente Paolo diventa amico di Ghesa, figlio del capitano distret-
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Id., L’Imperatore nemico cit., p. 226. Ivi, p. 234. 20 Id., I giochi di Norma, in Gli anni ciechi cit., p. 572. 21 Id., Il cavallo Tripoli, Torino, Einaudi 1977, p. 12. 22 Ivi, p. 16. 19
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tuale, che testimonia l’esasperazione e l’assurdità del concetto di italianità in senso esclusivamente politico: suo fratello, infatti, l’avvocato Tomaso, è, nonostante l’incredulità di Paolo, italiano, e conferma l’importanza della lingua quale espressione dell’appartenenza nazionale. Egli ricorda come a colazione con la cognata, questa non voglia parlare italiano e lui non voglia parlare tedesco, per cui entrambi ripiegano sul francese. L’avvocato Tomaso si mostra in contrasto anche con la madre, a cui attribuisce «sentimenti piuttosto slavi».23 Si comprende allora come egli usi, nei confronti del cocchiere – un croato di Zagabria –, il termine «zagabredan», che indica un individuo di Zagabria, nella sua connotazione spregiativa, «uno ch’è rozzo e straccione».24 Questa concezione negativa degli slavi, già emersa ne Le redini bianche, sembrerebbe distinguere Quarantotti Gambini da altri scrittori del periodo, come lo slavofilo Giani Stuparich. In effetti Quarantotti Gambini si limita a registrare un’opinione abbastanza diffusa nei confronti di un gruppo etnico ritenuto diretto antagonista degli Italiani in Istria. A chiarire, però, come un carattere nazionale non implichi alcuna superiorità, la madre di Paolo asserisce che i contadini sono italiani al pari dei loro padroni e non sono differenti dagli Slavi. E così la Frau Mutter, la madre del capitano, «una signora col bastoncino e l’occhialetto»,25 è slava come le lavandaie, le donne che portano latte e uova in città, le contadine, le serve. Alla fine del romanzo, alla notizia della vittoria degli Italiani si unisce quella del loro arrivo in Istria ed è in questo momento che si precisa la loro mitizzazione. Gli Italiani appaiono «tutti belli»,26 «la gente più civile del mondo, e gentili e coraggiosi e leali»;27 l’italiano diviene la lingua che tutti desiderano parlare, anche la famiglia del capitano distrettuale, che adesso riconosce la parentela con l’avvocato Tomaso, dappertutto sventolano bandiere tricolore. L’anelito alla liberazione dagli Austriaci può collegarsi a quello dell’età risorgimentale, intesa quale epoca in cui il sentimento d’italianità si è affermato con più forza e con maggiore autenticità: lo dimostrano il ritornello «Viva l’Italia / vestita da guerrier, /con Garibaldi a Roma / e il papa prigionier!»28 intonato da Paolo e da suo padre, e il grido «Viva Garibaldi».29 È così che i versi «Fuoco, per Dio, sui barbari, /sulle tedesche schiere»30 cantati dalla folla, e «Non deporrem la spada /sin che sia schiavo un angolo /dell’itala
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Ivi, p. 70. Ivi, p. 71. 25 Ivi, p. 107. 26 Ivi, p. 241. 27 Ivi, p. 196. 28 Ivi, p. 219. 29 Ibidem. 30 Ivi, p. 231. 24
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contrada, /sin che su Fiume e Zara /non splenda il tricolor!»,31 cantati dall’avvocato Tomaso, l’inno italiano ed il ricordo di un episodio del 1848, quando «la folla, a Capodistria, era sfilata […] gridando viva la Costituzione e cantando»,32 giustificano la volontà di annessione ad un’Italia democratica, mentre la testa di Victor Hugo sul bastone dell’avv. Tomaso indica come al riscatto nazionale debba essere accompagnata una riforma dell’assetto sociale. I reali caratteri degli Italiani d’Italia emergono dalle vicende, narrate ne L’amore di Lupo, dei soldati che occupano le case di Semedella. Attraverso il punto di vista di Paolo, essi, dapprima, sono avvolti in un alone idealizzante: Gli italiani parlavano come loro, soltanto più bene e più svelto, e non slavo o tedesco o chi sa che altra lingua come gli austriaci. Ed erano o parevano tutti giovani, e allegri; con essi […] ci si trovava e si poteva scherzare come con ragazzi un po’ più grandi. Paolo era felice di poterli conoscere, finalmente: perché ricordava quanto la mamma gli aveva insegnato sin da piccolo: che gli italiani – gentili, coraggiosi e leali – sono il popolo più civile del mondo. […] Per salutare, anziché dire addio, gli italiani dicevano ciao;33 Marciavano bene, i camion italiani, quasi fossero automobili da andare a spasso; non come quelli austriaci, ch’erano più grandi e pesanti, e avevano le ruote tutte di ferro, senza gomme, e quando passavano in città facevano sussultare il lastrico e tremare i vetri delle finestre.34
Vivono in perfetta sintonia con gli Istriani: Si chiacchierava e si rideva, e spesso venivano a spassarsela con un fiasco anche i contadini; e i soldati regalavano loro tutto ciò che potevano.35 I soldati furono felici di far contento il vecchio murando quella lastra sulla facciata della casa, […] e in alto misero una lampada che si poteva accendere dall’atrio. Murare lì quel leone […] era sempre stata intenzione del nonno; e ora, caduta l’Austria, glielo mettevano lì su con le loro mani quei soldati venuti da ogni parte d’Italia.36
E mentre ne Il fante di spade Baggioni e Specilli non si differenziano dagli altri allievi, per essere rispettivamente romano e meridionale, qui ciascun soldato ha una propria individualità, in parte riconducibile alla mentalità, alle abitudini diffe-
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Ivi, p. 233. Ivi, p. 239. 33 Id., L’amore di Lupo, in Gli anni ciechi cit., p. 409. 34 Ivi, p. 444. 35 Ivi, p. 424. 36 Ivi, p. 434. 32
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renti delle regioni di provenienza. È questa l’opinione del nonno («È permaloso e insolente: ho capito ch’è toscano»37 dice di Frangisacchi), che legittima così l’inserimento a pieno titolo fra gli Italiani degli Istriani. Perciò se Paolo è chiamato «polentone»,38 Borsarelli è «un toscano alto biondo e sdendato»,39 Battiston è «un camionista veneto»,40 Piveroni è di Novara, Lorusso è pugliese, La Lumia siciliano, Crippa è piemontese. Tutti però sono accomunati dall’essere italiani: per Paolo, difatti, i termini «piemontese, abruzzese, siciliano, lombardo» non hanno alcun significato, per Frangisacchi «Quando uno è vissuto nella capitale, non è più questione di paese»41 e Tommasone, camionista pugliese, si arrabbia quando gli si chiede da dove provenga. Tutti, poi, ritengono che il cammino per dare all’Italia un assetto politico-sociale definitivo non sia concluso: il nonno mira all’instaurazione della Repubblica, Crippa spera nella diffusione del socialismo, Borsarelli odia tutti gli individui infidi «che rovinano l’Italia».42 Egli critica il governo attuale, pensa che «Gli italiani van rifatti a uno a uno».43 Appunto per questo diserta, raggiungendo a Fiume D’Annunzio, accostato a Garibaldi, a testimonianza del processo di idealizzazione a cui è sottoposto e che è confermato nelle pagine di Primavera a Trieste.44 A poco a poco, inoltre, i soldati dimostrano, con il loro comportamento, soprattutto riguardo la vicenda di Nerina, la complessità della realtà, lontana da ogni mitizzazione. E Paolo, prendendone atto, si domanda: «Sono dunque così, gli italiani? Sono tutti così, e non gentili, coraggiosi e leali, come mi diceva un tempo la mamma?».45 Crippa dà la risposta: «Uomini sono».46 Possono allora risaltare meglio, ne Le estati di fuoco, i meriti degli eroi istriani che si sono battuti, a volte fino alla morte, per la causa dell’Italia. È il caso di Giusì, che ha chiamato la figlia Italia e il cui nome, come quello di Garibaldi, «apparteneva ormai […] alla storia»,47 come avevano insegnato a scuola a Paolo. Il sacrificio, però, non ha dato gli esiti sperati. La realtà è differente dagli ideali. Significativa è
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Ivi, p. 414. Ivi, p. 413 39 Ivi, p. 423. 40 Ivi, p. 429. 41 Ivi, p. 413. 42 Ivi, p. 456. 43 Ivi, p. 496. 44 Quarantotti Gambini vi ricorda: «l’impresa di Fiume non è stata militaresca e cupa come quelle che sono venute poi, ma – almeno per chi ha saputo vederla coi nostri occhi – viva di lieto slancio giovanile, fervida e avventurosa, e incline anche a una sua gentilezza, che c’era – è innegabile – soprattutto in D’Annunzio (nel quale si fondeva con una nota d’intelligente tristezza, talvolta)», Primavera a Trieste cit., p. 138. 45 Id., L’amore di Lupo cit., p. 526 46 Ibidem. 47 Id., Le estati di fuoco, in Gli anni ciechi cit., p. 535. 38
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l’esperienza di Bepi: egli, dopo aver combattuto con gli Austriaci, con «tanti italiani di questi paesi (istriani, triestini, dalmati, friulani)»,48 capitato a Napoli, a fine guerra, viene trattenuto a scaricare carbone in uno stato quasi di prigionia, peggiore a quello patito in Russia al punto che un suo compagno, di Zara, che aveva inneggiato, arrivato in Italia, alla libertà, finisce in ospedale. Ma il nonno di Paolo, il quale crede fermamente nei valori dell’italianità, afferma la possibilità di realizzarli, al di là delle difficoltà contingenti. A Matteo, infatti, legionario di Fiume, il quale, legato allo «slancio», al «fervore avventuroso»49 di quell’impresa, esprime la sua insoddisfazione per «quest’Italia convulsa, egoista, incosciente, che sembra nata non dalla vittoria ma dal dissolvimento di Caporetto […] per quest’ Italia inetta, che non sa neanche governare i paesi liberati»,50 che ha il suo rappresentante in Nitti, il nonno replica: Nella mia vita ho veduto molte cose. Ero bambino quando assistetti, nel 1848, alla prima dimostrazione. Tutta una folla attraversava la città […] gridando «Viva Pio IX, Viva la Costituzione!», e quella sera vidi mio padre rientrare con gli occhi sfavillanti e con la fascia della Guardia Nazionale… […] – Da quel giorno […] sono trascorsi più di settant’anni, e in questi settant’anni c’è dentro tutto il nostro Risorgimento. Ebbene, credete che noi, ai nostri tempi, non abbiamo avuto le nostre delusioni? Ci sono stati momenti (quando Garibaldi rispondeva «Obbedisco!», quando Lamarmora, presidente dei ministri, parlava di Trieste come di una città germanica, e quando re Umberto indossava la divisa bianca di colonnello austriaco per andar a stringere la mano a Francesco Giuseppe) che ci siamo sentiti perduti, poveri illusi beffati, e non abbiamo creduto più a nulla e a nessuno […] E ci sono stati altri momenti che […] avremmo voluto forzare le cose, sconvolgere il mondo: e fu in uno di questi momenti che Oberdan, che tra noi era il più giovane, appena un ragazzo, agì per tutti; e fu il primo dei nostri a conoscere la forca.51
È opportuno a questo punto osservare come, per dare maggiore autorevolezza a queste asserzioni e a tutta la vicenda del ciclo, Quarantotti Gambini abbia fatto riferimento, in molti casi, all’esperienza della propria famiglia: la figura del nonno di Paolo, così, è molto simile a quella del proprio nonno, quale appare dalle pagine di Primavera a Trieste. Il nonno di Paolo, infatti, viaggia sempre fra Parenzo e Vienna con i cavalli, è benvoluto e rispettato da tutti, anche dai più poveri, che aiuta in tutti i modi, ha fatto costruire la ferrovia e portare l’acqua in Istria.52 E Quarantotti Gambini dice riguardo suo nonno Gambini:
48
Ivi, p. 537. Id., Primavera a Trieste cit., p. 138. 50 Id., Le estati di fuoco cit., p. 560. 51 Ivi, p. 561. 52 Cfr. Le redini bianche cit., pp. 50, 55, 59 e L’Imperatore nemico cit., p. 232. 49
XII. La letteratura degli Italiani a scuola
Il mito dell’italianità in uno scrittore di confine
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Dividendo il suo tempo fra Parenzo – ove era il capo della maggioranza italiana alla Dieta dell’Istria – e Vienna, la città della sua giovinezza – ove era deputato al Parlamento e membro delle Delegazioni dell’Impero – attraversava l’alta Istria in carrozza […] Le Noghere, Monte Toso, la Valle del Quieto, quante volte non lo videro passare quando si batteva per la «provincia» aprendo strade, fondando scuole, istituendo linee di navigazione, chiedendo ferrovie; e in ogni borgata c’era qualcuno (vecchi amici, la generazione garibaldina, ed altri, specie i più umili) a salutarlo e a fargli festa.53
Quarantotti Gambini ricorda ancora sua nonna e suo padre arrestati nell’estate del 1915 nella loro villa di Semedella, mentre suo nonno si reca in Italia come ne La corsa di Falco e suo zio Pio si arruola, per combattere contro gli Austriaci, come lo zio Manlio. Il nonno di Paolo, comunque, non è il solo a nutrire profonda fiducia e speranza in un futuro italiano dell’Istria. Paolo che, cosciente della complessità della realtà, rammenta con grande meraviglia di aver sentito parlare male dell’Italia non solo dagli Austriaci ma anche da alcuni Italiani (austriacanti, imboscati e disfattisti), riporta l’opinione di un meccanico di Gorizia, simbolo della gente comune, consapevole delle proprie radici italiane: Come? […] Noi dunque eravamo austriaci! Quando eravamo austriaci? E siamo diventati italiani! Quando siamo diventati italiani? – Arrabbiato […] il meccanico urlò, a smozziconi […] altre cose, che Paolo potè afferrare perché le aveva già udite qualche volta in casa. E fu, infine, come se avesse parlato così: – Quando eravamo austriaci? Mai non eravamo austriaci. Eravamo italiani costretti a vivere in Austria, sotto l’Austria; e nessuna guerra ci ha fatti diventare italiani: italiani eravamo sempre, già prima di nascere. E volevamo vivere e morire, e magari andare alla malora, uniti con la gente nostra, e non con i tedeschi: per questo abbiamo voluto la guerra.54
La guerra del ’15, perciò, è giustificata solo in quanto continuazione del percorso risorgimentale, quarta guerra di indipendenza, secondo le idee di altri triestini, come Stuparich.55 L’insoddisfazione per gli esiti di questo processo appare, però, ne La calda vita. A Francesco e Stelio, che, come si narra in un flash-back, nel 1915 valicano il confine e si arruolano nelle truppe italiane contro l’Austria, si contrappone Bruno, il
53
P. A. Quarantotti Gambini, Primavera a Trieste cit., p. 328. Id., Le estati di fuoco cit., pp. 558-559. 55 I rapporti di amicizia tra Stuparich e Quarantotti Gambini sono intensi. Ricordiamo, qui, il profilo di Stuparich tracciato da Quarantotti Gambini ne Il poeta innamorato (Pordenone, Studio Tesi 1984), la Prefazione a G. Stuparich, Il ritorno del padre. Racconti scelti da P. A. Quarantotti Gambini (Torino, Einaudi 1961). 54
Identità nazionale: continuità e discontinuità nel legame tra individuo e collettività
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Cinzia Gallo
quale non ammettendo «che si cercasse di risolvere i problemi del mondo, o di un continente, o addirittura di un solo paese, uccidendo uomini»,56 pone in discussione un particolare concetto di italianità, quello promosso dal fascismo, nei cui anni – nel 1939 – il romanzo è ambientato. Non mancano infatti allusioni negative alla società italiana del periodo,57 mediante l’uso di una tecnica quasi cinematografica.58 Criticata, per es., è l’onorificenza di cavaliere del lavoro assegnata, secondo Bruno, non a «qualcuno che si sia fatto davvero col proprio lavoro» ma a «qualcuno che si è fatto soprattutto col lavoro altrui, a spese della fatica altrui».59 Roma, poi, è la città in cui domina la menzogna e l’intrigo, in cui «si stenta a credere a tutto, anche alla verità, anzi soprattutto alla verità – quando qualcuno la dice –, e si pensa invece subito, in ogni situazione, a scoprire quale trucco c’è sotto».60 Appunto per questo Bruno detesta Roma («Io appartengo a un’Italia di cui Roma non è la capitale!»),61 identificata con il fascismo, come avverte Liuli («Voleva dire che detesta il fascismo?»),62 che, invece, da fascista, ammira Roma, la più bella città del mondo («Soltanto Roma non le aveva mai fatto sentire quella stanchezza della terra, quel bisogno di posare le pupille sulla distesa marina»).63 Roma rappresenta una società i cui valori sono dettati dal denaro; dice, infatti, Enrico: «Roma è Roma! […] Cosa vuoi che ti manchi qui a Roma, se hai quattrini?».64 Risalta, a confronto, la sincerità e l’autenticità degli abitanti del Nord, dei confini, «gente seria che ascoltava quanto le veniva detto e credeva ciò che udiva».65 E difatti a Trieste Giorgio e Guido si mantengono distanti dalla «politica dominante, dalle “direttive” che venivano da Roma»66 e, di fronte all’ascesa di un ceto di nuovi ricchi che idoleggia il denaro, si propongono di resistere sia ai soldi che al potere, cioè di non «rinunciare a una parte di sé, neanche minima, per raggiungerli»67 e auspicano, in una prospettiva universalizzante che sembra superare la dimensione nazionale, l’avvento di una società formata solo da individui degni di essere uomini, dotati cioè di cuore, cervello, coscienza e volti al rispetto dell’uomo in quanto tale. Soltanto quando siffatti
56
P. A. Quarantotti Gambini, La calda vita, Torino, Einaudi 1958, p. 219. Ne I giochi di Norma è criticato l’eccessivo fiscalismo dello Stato italiano: «Sempre tasse, […] Tasse, imposte, contributi…», I giochi di Norma, in Gli anni ciechi cit., p. 644. 58 Cfr. R. Scrivano, Quarantotti Gambini, Firenze, La Nuova Italia 1976, p. 56. 59 P. A. Quarantotti Gambini, La calda vita cit., p. 331. 60 Ivi, p. 335. 61 Ivi, p. 414. 62 Ibidem. 63 Ivi, p. 351. 64 Ibidem. 65 Ivi, p. 348. 66 Ivi, p. 536. 67 Ivi, p. 634. 57
XII. La letteratura degli Italiani a scuola
Il mito dell’italianità in uno scrittore di confine
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individui formano la classe dirigente di una nazione, si vive un periodo di progresso e di equilibrio umano. Come esempio Fredi cita Lincoln ma anche Garibaldi, a sottolineare come la battaglia per far sì «che i veri uomini si riconoscano, si stringano assieme»68 è legata a quelle per il riconoscimento dell’identità nazionale e dei diritti umani. Condannato è perciò il nazionalismo di stampo fascista, indicato con l’espressione «resurrezione dell’impero romano»69 che, secondo l’autorevole opinione di Umberto Saba, altro personaggio del romanzo e nume tutelare di Quarantotti Gambini,70 avrebbe comportato la perdita, per l’Italia, della Venezia Giulia e quindi l’umiliante mortificazione dell’identità di una parte dei giuliani. Ma è impossibile rinunciare alle proprie radici: lo dimostra la vicenda di Guido, che, a contatto con una cultura diversa, quella americana, sente di amare sempre di più, fino all’adorazione, il Mediterraneo, l’Adriatico, la propria terra, considerata, modernamente, un tutt’uno con l’Europa. Ed è questa la lezione sempre attuale di uno scrittore involontariamente engagèe.71
68
Ivi, p. 751. Ivi, p. 625. 70 I legami fra Quarantotti Gambini e Saba sono attestati, tra l’altro, dalla raccolta epistolare Il vecchio e il giovane (Milano, Mondadori 1965). 71 Quarantotti Gambini dichiara, nell’incontro italo-francese di Royaumont, del 1948: «Io credo che l’artista deve essere impegnato, sempre e il più profondamente possibile. Credo, in altri termini, che l’impegno più totale sia la condizione stessa della creazione artistica. Ma per chi, o per che cosa deve essere impegnato? […] egli deve essere impegnato con se stesso, o – se si preferisce – con i demoni della propria creazione In questo contatto profondo e oscuro con se stesso l’artista mette in luce qualcosa di ciò che costituisce il nocciolo della sua personalità segreta e dunque fatalmente attinge – anche contro la sua volontà – a sentimenti religiosi o politici (dico sentimenti, non idee); o, per dir meglio, attinge a zone istintive dove si sviluppa la sua fede su altri terreni. È soltanto in questa maniera, del tutto involontaria, che la religione o la politica possono entrare autenticamente nella sua opera» citato da R. Scrivano, Quarantotti Gambini cit., p. 1. 69
Identità nazionale: continuità e discontinuità nel legame tra individuo e collettività
XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
Il nome dell’Italia intorno al sacco di Roma La Repubblica romana del 1849 «La letteratura nostra nella nostra storia»: Lodovico il Moro fra Rinascimento e Risorgimento
IL NOME DELL’ITALIA INTORNO AL SACCO DI ROMA
FULVIO PEVERE «La non più bella Italia»: Pietro Aretino
I primi accenni alla situazione italiana compaiono, nell’opera di Pietro Aretino, in due canzoni, la Laude di Clemente VII e l’Esortazione de la pace tra l’imperadore e il re di Francia, pubblicate entrambe nel dicembre del 1524, nelle quali l’autore intende porsi come portavoce e sostenitore della politica papale, e con tono vibrante ed enfatico celebra, nella Laude, le straordinarie virtù di colui al quale Dio ha affidato sia la salvezza della Chiesa sia quella dell’umanità, destinandolo ad essere il medico capace di curare l’Italia dalle sue piaghe, alla cui guarigione dovranno contribuire anche Carlo V e Francesco I, invitati a rappacificarsi e a unirsi nella lotta contro gli infedeli. Un analogo appello viene rivolto ai due sovrani nella seconda canzone, poiché Clemente VII vuole la pace tra i cristiani e desidererebbe che essi, anziché contendersi l’Italia, che appartiene ai suoi abitanti, ponessero le loro armi al servizio della fede: Domar de ’l Turco ogni expugnabil parte più gloria vi saria, vita più eterna che l’Italia tener sempre im-paura. Superbissima e iniqua turba externa, Italia è nostra, e a noi la diede im-parte quando compartì ’l mondo la natura; e che sia ’l ver poneteci voi cura, e vedrete che l’Alpi divis’hanno da le vostre le nostre alme contrade.1
Quello della improbabile riconciliazione tra il re e l’imperatore sotto l’autorità
1 P. Aretino, Esortazione de la pace tra l’imperadore e il re di Francia, vv. 15-23, in Id., Poesie varie, t. I, a cura di G. Aquilecchia e A. Romano, Roma, Salerno 1992.
Il nome dell’Italia intorno al sacco di Roma
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della Chiesa non è nulla di più, evidentemente, che un motivo topico e scontato, che non tiene in alcuna considerazione la reale situazione storica, e anche il richiamo all’iniquo dominio degli stranieri altro non esprime se non un generico sentimento di sdegno, comune a tutti gli Italiani, per le infelici sorti della penisola, ridotta a campo di battaglia fra le due maggiori potenze europee. Il solo intento di Aretino pare così essere quello di accrescere la stima e la benevolenza del papa nei propri confronti e non certo difendere gli interessi e l’onore dell’Italia, e questo dimostra come la sua visione degli eventi sia spesso piuttosto limitata e parziale, soprattutto perché incapace di liberarsi dal condizionamento di interessi e rapporti personali e di aprirsi, quindi, a una prospettiva più ampia. La sostanziale equidistanza tra Francia e impero mostrata nelle due canzoni del 1524 viene però ben presto meno, con l’adesione al partito filofrancese maturata grazie all’amicizia con Giovanni dalle Bande Nere, presso cui Aretino riuscirà a recuperare quel ruolo di consigliere fidato e influente che si era soltanto illuso di assumere alla corte pontificia, e quindi la speranza di dare finalmente corpo alle proprie ambizioni politiche. Quando egli, così, descriverà nella lettera a Francesco degli Albizi del 10 dicembre 1526 l’agonia e la morte del condottiero, lo piangerà come colui che avrebbe potuto «far reina l’Italia che è serva»,2 e dunque il solo che, forse, sarebbe stato capace di opporsi ai conquistatori stranieri e di sottrarre la penisola al loro dominio. Non vi è dubbio che le espressioni di dolore e rimpianto e il senso di smarrimento presenti nella missiva siano ben più di un semplice omaggio dovuto alla memoria dell’eroe, o un tentativo di mettersi in mostra sottolineando lo stretto rapporto che lo aveva unito a lui, ma pare forse eccessivo affermare, come fa Larivaille,3 che Aretino credesse effettivamente che il Medici potesse essere l’artefice di un riscatto dell’Italia la cui idea esulava totalmente dalla prospettiva dello scrittore, sempre più vincolato invece da quella complessa strategia di relazioni interpersonali con i potenti del tempo che egli aveva iniziato ormai a tessere. E anche quando, all’inizio del maggio 1527, verrà raggiunto a Venezia dalle drammatiche notizie sulle atrocità e le devastazioni del sacco di Roma, la sua reazione sarà fortemente ambigua e rispecchierà entrambe le interpretazioni che più comunemente a questo evento si diedero, uno scempio sacrilego che compromette e sminuisce la stessa autorità imperiale, oppure giusta punizione divina per i vizi e la corruzione della curia romana. Aretino infatti, su invito del pittore Sebastiano del Piombo, invia il 20 maggio 1527 una lettera a Carlo V, chiedendogli di liberare il pontefice e di porre fine al saccheggio della città, rinnovando, come osserva Larivaille, l’«aspirazione a imporsi come un ausilio insostituibile della politica pontificale».4 Pochi giorni dopo, con
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P. Aretino, Lettere. Libro I, a cura di P. Procaccioli, Roma, Salerno 1997, lett. III. Cfr. P. Larivaille, Pietro Aretino, Roma, Salerno 1997, p. 124. 4 Ivi, p. 132. 3
XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
«La non più bella Italia»: Pietro Aretino
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analogo intento, volendo arrogarsi il ruolo di intermediario tra le due autorità in vista di una loro possibile riconciliazione, indirizza una missiva anche a Clemente VII, nella quale afferma, non senza un tono a tratti arrogante e di malcelato compiacimento, che la sventura che lo ha colpito non dipende dalla fortuna avversa, ma è opera della giustizia di Dio che, a causa della «licenzia dei peccati del clero»,5 gli ha inflitto questa terribile pena. Queste lettere dimostrano come Aretino non scinda mai il giudizio sulle vicende storiche dalle mire, dagli interessi e, come nel caso dell’epistola a Clemente VII, dai risentimenti personali, al punto da vedere nel sacco quasi una rivalsa per i torti subiti a Roma. Ed è questo livore non sopito che lo indurrà, dato il silenzio opposto dal pontefice ai suoi tentativi di riavvicinamento, a comporre la frottola Pax vobis, brigate, ove si rinnova la sua vena pasquinesca con una virulenza ignota persino alla pubblicistica di parte imperiale o luterana. In essa «mastro Pasquino», rievocando la presa della città e la somma di errori politici e militari che portarono ad essa, lascia sì trasparire un profondo senso di sgomento per i sacrilegi e le indicibili crudeltà cui si abbandonarono le soldatesche imperiali, elencati secondo una sorta di canone che si ripete nelle opere di molti autori, ma sullo sdegno per l’oltraggio subito e la pietà nei confronti dell’Italia intera prende ben presto il sopravvento lo sprezzante e amaro sarcasmo con cui vengono colpite l’insipienza e la viltà di chi è non è stato in grado di difenderla, dai capitani imbelli al raccogliticcio esercito della Lega, sino ad arrivare a una lunga serie di insulti nei confronti del papa e del collegio cardinalizio. Clemente VII, definito «coglion papa santo, / misero e ’ngiusto tanto e sciagurato»,6 appellato con epiteti come «gaglioffo», «infame», «sciocco», «balordo», «dappoco», «pecora», «disonesto», «boia», «furfante» e immaginato in prigionia sbeffeggiato da tutti, è il vero responsabile della tragedia per cui «Italia langue»,7 causata dalle sue trame politiche, dalla sua inettitudine e, soprattutto, dai vizi della sua corte e dei suoi favoriti, e alla descrizione degli eventi finisce per intrecciarsi inscindibilmente la vicenda dell’autore, che condiziona e deforma il suo punto di vista, tanto che tra le colpe del pontefice, e non per ultima, viene annoverato anche l’ingiusto trattamento a lui riservato: Ma ttu non se’ cristiano, ma demonio incantato, e hai sempre esaltato e pari tuoi. Parti onesto fra nnoi sopportar che tradito
5
P. Aretino, Lettere. Libro I cit., lett. VII. Id., Pax vobis, brigate, vv. 131-132, in Scritti di Pietro Aretino nel Codice Marciano It. XI 66 (=6730), a cura di D. Romei, Firenze, Cesati 1987 (cito dall’edizione integrale del testo posta nell’Appendice seconda). 7 Ivi, v. 709. 6
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sia un che tt’ha servito già sette anni? Con quanti crudi affanni stato è predicatore l’Aretin del tuo onore a più signori! E ha scemati gli onori per chi vuol darti male, e ’n premio d’un pugnale gli fu dato. Chi ’l fe’ fu premiato di grandissima entrata, né un Turco arebbe usata simil cosa.8
Questa asprissima invettiva mostra chiaramente come il sacco fornisca ad Aretino l’occasione per vendicarsi dei torti subiti, colpendo implacabilmente, assai più dei responsabili del saccheggio, i propri nemici, a partire dall’odiato datario pontificio Gianmatteo Giberti e dai suoi sodali: Come furfanti stanno i giotti, in tradimenti dotti; dico de la mala setta: in ca[u]sa maladetta è Giammatteo, il Sanga arciplebeo, ch’ha lla suora in bordello, e ’l Berna, suo fratello, e ’l traditore, anch’egli en gran favore per fottere il padrone; e perché il bardassone all’Aretino diede, per uom divino l’ha ’l datario tenuto; ora a dDio n’è ’ncresciuto tanto male, e vanno allo spedale, per li aspri portamenti, e Cristo dà e tormenti equali al merto.9
Se il sacco, secondo un diffuso topos della libellistica filoimperiale e protestante fatto proprio da Aretino, è stata una punizione divina per i peccati di Roma, questa è dovuta anche alle offese che lo scrittore ha subito. L’atteggiamento vittimistico che egli assume, però, e il suo non sopito livore inevitabilmente venano di una forte ambiguità il sentimento di orrore e smarrimento per le profanazioni, i tormenti, la morte di vittime innocenti che pure trapela dalla loro descrizione, poiché ad esso si mescola e sovrappone, fino a soffocarlo, un’inconfessabile compiaci-
8 9
Ivi, vv. 715-729. Ivi, vv. 405-420. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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mento, un senso di rivalsa che disegna sul volto di Pasquino un ghigno canagliesco e irridente e lo porta a trasformare la scena del dramma in una sorta di sfrenato carnevale degli invasori che impazzano per la città abbigliati, in modo blasfemo, da prelati: Ma ora come matti, allegri e da prelati, van per Roma addobbati da signori: qualcun da monsignori, da papa quello e questo da cardinale onesto col cappello; chi rosso ha ’l gran mantello, chi ’l porta pagonazzo, che per mi e’ s’è sollazzo a veder loro.10
La dimensione carnevalesca ha certo anch’essa un risvolto tragico, poiché presuppone la visione di un mondo stravolto, in cui ogni ordine e ogni gerarchia sono stati violentemente e radicalmente sovvertiti. Ma tale, in realtà, era la condizione di Roma ancor prima del sacco,11 il quale non ha altro effetto che farla apparire parodicamente in tutta la sua evidenza, poiché, come Aretino aveva già mostrato con la Cortigiana del 1525 e farà in modo ancor più mordace nella riscrittura del 1534, essa da «caput» si era veramente trasformata in «coda mundi», nuova Babilonia ove ogni valore viene non solo capovolto, ma irriso e disprezzato. La sfrenata oltranza verbale di Pax vobis, brigate, alimentata da un implacabile risentimento che impedisce di considerare in modo obiettivo la portata traumatica della devastazione della capitale della cristianità da parte dei mercenari luterani, non dà però totalmente conto di un atteggiamento dell’autore che è assai più sfumato e complesso, come testimonia la lettera inviata il 7 luglio del 1527 a Federico Gonzaga per offrigli la canzone Deh, havess’io quella terribil tromba, composta contemporaneamente alla frottola su richiesta dell’arcivescovo Cornaro: Optimo signore, io ho intitolata a Va Extia questa canzone […]; et se ci è qualche vocabolo che non sia petrarchevole non è perch’io non conoscha messer Sovente et ser Unquanco & don Quinci et maestro Quindi forse quanto gli altri poeti que pars est, ma la passione che diede quella buona robba di mona Laura a ser
10
Ivi, vv. 472-480. Sulla dimensione carnevalesca del sacco cfr. le osservazioni di V. De Caprio, Il Sacco di Roma del 1527 e l’immaginario collettivo: (B) Testi poetici sul Sacco di Roma del 1527, in «Rivista di studi italiani», IV (1986), 1, pp, 35-53, alle pp. 39-40 e N. Catelli, Scherzar coi santi. Prospettive comiche sul Sacco di Roma, in «Critica letteraria», XXXIV (2006), 132, pp. 463-482, alle pp. 472482. 11
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Petrarcha fu più dolce che questa che ci dà Roma coda mundi per gratia de li Spagnuoli et de i Thodeschi, che, per Dio, bisogneria per isfogarsi che le parole fosseno spiedi & archibusi. Hora degnatevi legerla, ché, secundo che dicono l’infinite et nobilissime persone che in così fatto caso hanno mendicata la vita, la ruina di Cartagine et di Ierusalem et quella di Troia devette essere minore, perché ci sono stati offesi più dei che huomeni; et non bisogna che io vi ramenti il pianto, mentre che leggerete l’excidio de la comune patria, perché io so quanto vi dole il publico danno.12
Dalle parole di Aretino traspaiono un dolore e uno sconcerto sinceri per Roma ridotta a «coda mundi» (espressione priva di quell’intonazione sarcastica che avrà invece nella Cortigiana del 1534). La rovina dell’Urbe è un fatto inaudito e sconvolgente, tale che, per narrarlo in modo veritiero, occorrerebbero parole che fossero anch’esse «spiedi» e «archibugi», ed è stata addirittura più grave di quella delle grandi città dell’antichità, perché essa ha dovuto subire, oltre alle stragi e alle distruzioni, anche innumerevoli profanazioni di luoghi e oggetti sacri e sevizie contro i religiosi. Il paragone con la presa e la devastazione di Troia, Cartagine e Gerusalemme, frequente in molte descrizioni degli eventi del 1527, trae forza dal fatto che, come osserva De Caprio, queste città, che possiedono una forte connotazione di carattere letterario, ideologico e religioso «costituiscono un insieme di referenti simbolici tutto particolare», poiché il loro saccheggio «ha anche posto fine alle civiltà che esse hanno rappresentato», e quindi anche il sacco «appare l’atto conclusivo di un processo storico secolare non suscettibile di ulteriore sviluppo se non nella direzione del totale suo annientamento o nella direzione di una renovatio palingenetica».13 Il tono drammatico della lettera si riflette nella canzone, che presenta un registro linguistico e stilistico alto, sostenuto da una forte tensione tragica e da magniloquenti effetti patetici e declamatori, come indica sin dal primo verso il richiamo alla «terribil tromba» di cui Virgilio si servì per narrare la distruzione di Troia e la cui potenza sarebbe ora necessaria per dar voce all’orrore per quella di Roma, secondo un accostamento già proposto nella lettera dedicatoria e che, come vedremo, sarebbe ricomparso circa dieci anni dopo, parodicamente stravolto, nella seconda giornata del Dialogo della Nanna e della Pippa. Il componimento, in cui le considerazioni di carattere politico cedono allo sdegno ed alla riprovazione morale, si apre con un lamento accorato e solenne, nel ricordo dell’«orrendo / giorno infelice, paventoso et crudo, / che fa scrivendo sbigotir gl’inchiostri»14 nel quale la
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Cito da Scritti di Pietro Aretino nel Codice Marciano It. XI 66 (=6730) cit., p. 58. V. De Caprio, Il sacco di Roma… cit., p. 48. 14 P. Aretino, Deh, havess’io quella terribil tromba, vv. 15-17 in Scritti di Pietro Aretino nel Codice Marciano It. XI 66 (=6730) cit. 13
XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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«diletta donna» dell’universo cadde «in preda al temerario ardir tremendo / de Alamagna et di Spagna agli occhi nostri, / in man de i cani e de spietati mostri»,15 e prosegue con un lungo elenco di indicibili efferatezze, sintetizzate in una serie di episodi emblematici, analoghe a quelle narrate nella frottola, di cui viene mantenuto lo schema fondamentale, basato sulla rappresentazione del rovesciamento di ogni ordine nella città che, decaduta dall’antico rango di signora dei popoli, si trasforma in vittima indifesa straziata dalle armi straniere, ma allo spirito irridente e feroce del carnevale si è ora sostituita un’atmosfera livida e luttuosa. Per accrescere il pathos Aretino sfrutta tutte le risorse di un’elocutio emotiva e iperbolica, dall’enfasi alla deprecazione all’apostrofe all’interrogazione, ripercorre luoghi topici dei «lamenti», ricorre ai motivi più tradizionali della riflessione pessimistica riguardo la vita e il destino dell’uomo, impreziosisce e innalza il tono dei versi con reminiscenze poetiche, in particolare dantesche e petrarchesche, che testimoniano l’ispirazione fortemente letteraria di un componimento artificiosamente costruito, dove le espressioni di riprovazione per la sottomissione di Roma e dell’Italia agli stranieri non vanno oltre una serie di formule convenzionali ricorrenti. Come in Pax vobis, brigate, il sacco appare una conseguenza della collera divina verso la curia romana, ma lo scrittore, anziché compiacersene, si rivolge prima a Dio, implorandolo di cessare la sua vendetta, di impedire la profanazione da parte dei protestanti di templi, reliquie e oggetti sacri e di porgere aiuto al papa, e quindi all’imperatore, il quale viene rimproverato per la sua mancanza di clemenza (dote che invece, paradossalmente, è esaltata nella già citata lettera del maggio 1527) e di rispetto verso Dio e gli uomini, che lo ha portato ad infangare la dignità cesarea, ed esortato a cessare di spargere sangue cristiano, con il consueto invito a intraprendere una crociata contro gli infedeli; se egli, invece, non si ravvedrà, restituendo a Cristo ciò che è di Cristo, gli Italiani combatteranno contro di lui per non essere costretti in futuro a una guerra perenne. Aretino lascia quindi intravedere una possibilità di riscatto, il miraggio di un rinnovamento civile e morale della penisola che trarrà origine dalle sue rovine ed è in qualche modo già implicitamente inscritto nel richiamo iniziale al destino, dal valore fortemente paradigmatico, di Troia, la cui distruzione è stata sì definitiva, ma ha anche portato alla nascita di una nuova e ben più gloriosa civiltà.16 Si avverte però chiaramente come nessuna autentica speranza o slancio utopico vi sia in questo generico quanto velleitario auspicio che risuona di echi letterari e altro non è se non un artificio retorico per dare maggior vigore all’argomentazione. Lo scrittore è però ben presto costretto a constatare l’inutilità dei suoi tentativi di ottenere ascolto presso Clemente VII e Carlo V, e decide quindi di rivolgersi al
15 16
Ivi, vv. 19-21. Su questo argomento cfr. V. De Caprio, Il sacco di Roma… cit., p. 49.
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re di Francia, sperando di ricevere da lui quella riconoscenza negatagli dal papa e dall’imperatore, con il capitolo Italia afflitta, nuda et miseranda, che si rifà al nutrito genere dei «lamenti» e nel quale ritornano molti dei temi già presenti in Deh, havess’io. Si tratta di una prosopopea dell’Italia, che si apre con la deplorazione dell’ignavia dei suoi principi, ancor più grave e dolorosa dello scempio che gli stranieri hanno fatto di lei, e il richiamo a Francesco I, al quale ella si abbandona totalmente: Italia afflitta, nuda et miseranda, ch’or de’ principi suoi stancha si lagna, a te, Francesco, questa carta manda. Offesa m’hanno i miei più che Alamagna, gli miei m’hanno ferito il petto tristo et di lor mi doglio io più che di Spagna; et però, dopo ’l scellerato aquisto di Carlo, a te la tua divota corre, specchiando sé ne l’oltregiato Christo.17
La penisola, a differenza di quanto era stato affermato nella canzone al marchese di Mantova, si mostra totalmente incapace di reagire da sola alle offese che le vengono inflitte ed è ora invece rappresentata come una donna «abandonata e sola», «poverissima d’arme e di consigli»,18 che trova conforto unicamente nella memoria delle sue antiche glorie, un’ammalata ormai languente e col corpo pieno di piaghe, che solo il re, impietosito, potrà sanare movendo guerra a Carlo V. Come nel caso di Deh, havess’io, i versi di questa lirica suonano pomposamente artificiosi, carichi di ampollosità e ridondanze, con la frequente ripresa di formule ed espressioni dantesche e petrarchesche e richiami alla tradizione dell’antica Roma – la cui grandezza è, come di consueto, implicito termine di paragone per la decadenza di quella attuale –, e costituiscono un esempio di quella tendenza al «virtuosismo di pura forma»19 che Larivaille individua nelle poesie politiche o encomiastiche di Aretino. Egli continua infatti a orientare il suo punto di vista sulle vicende italiane in base ai propri interessi, e neppure nella conclusione di Italia afflitta rinuncia alle consuete, iperboliche espressioni di adulazione, rivolte al conte Guido Rangone, Federico Gonzaga e, com’è ovvio, Francesco I, per il quale si preconizza il destino di re dei Romani. Il tema del lamento dell’Italia per la sottomissione agli stranieri, che hanno vio-
17
P. Aretino, Italia afflitta, nuda et miseranda, vv. 1-9, in Scritti di Pietro Aretino nel Codice Marciano It. XI 66 (=6730) cit. 18 Ivi, vv. 130 e 144. 19 P. Larivaille, Pietro Aretino tra Rinascimento e Manierismo, Roma, Bulzoni 1980, p. 275. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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lato i suoi confini naturali, si ripete ancora stancamente in un sonetto composto nel periodo tra il sacco di Roma e il 1531 e indirizzato al marchese di Mantova, dove essa è nuovamente rappresentata come una donna ferita, addolorata e privata dell’antica bellezza che, con una prosopopea non meno enfatica e manierata di quella di Italia afflitta, accusa coloro che non sono stati capaci di difenderla: La non più bella Italia, u’ ’l mar lei bagna et dove ’l non più suo regno comparte questo monte e quell’alpe, non di Marte ma de’ principi suoi stancha si lagna; et dice: – Io, che fui diva, altera et magna, per voi non ho nel proprio albergo parte, e ’l corpo mio, piagato in ogni parte, è in preda al temerario ardir di Spagna –.20
Aretino, nonostante questi tentativi di intervenire nel vivo delle vicende italiane, dovrà però momentaneamente rinunciare, dopo che neppure il capitolo indirizzato a Francesco I aveva sortito l’effetto sperato, a ricoprire un ruolo attivo in esse, e sarà costretto ad accettare l’ospitalità, ma anche la vita inoperosa, che Venezia gli offre. Qui egli infittisce progressivamente la propria rete di relazioni, cercando di acquistare una rispettabilità che gli consenta di consolidare la sua posizione e il ruolo di imparziale apostolo della verità che si era attribuito e che esercita anche attraverso la composizione dei pronostici satirici; in particolare il Pronostico del 1534, l’unico pervenutoci integralmente, è l’ultimo scritto in cui Aretino assume una posizione apertamente filofrancese e profetizza per Francesco I la conquista dell’intera Italia, mentre Carlo V pagherà il prezzo dell’avidità e crudeltà mostrate durante il sacco di Roma. Di lì a poco, nel 1536, lo scrittore, indispettito per la scarsa munificenza del re di Francia nei suoi confronti già rimproveratagli nel Pronostico, aderirà alla causa imperiale, col pretesto dell’accordo stipulato tra la Francia e la Turchia che egli condanna aspramente. Su Carlo V, che sarà capace di mostrare in modo ben più tangibile la sua benevolenza verso Aretino, il quale in una lettera a lui indirizzata del 4 giugno 1536, del tutto dimentico delle le accuse che più volte gli aveva rivolto, lo celebrerà come pacificatore dell’Italia, convergeranno così d’ora in poi quelle aspettative che in precedenza si erano appuntate via via su Giovanni de’Medici, Federico Gonzaga e Francesco I. È dunque evidente come, per ritrovare nell’opera aretiniana un giudizio più sincero e sofferto sulla situazione della penisola occorra andare oltre queste ondiva-
20 P. Aretino, La non più bella Italia, vv. 1-8, in Scritti di Pietro Aretino nel Codice Marciano It. XI 66 (=6730) cit.
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ghe e interessate considerazioni politiche e soffermarsi sul Ragionamento, sul Dialogo e sulle due redazioni della Cortigiana, dove viene rappresentato un mondo guasto e corrotto (un «mondaccio», come dice la Nanna), affetto da un degrado morale e civile la cui responsabilità principale va addossata ai signori e agli ecclesiastici che, anziché fungere da esempio con la loro condotta, mostrano ormai il più assoluto disprezzo per quegli stessi principi etici di cui dovrebbero essere garanti, ma al quale ha contribuito anche il fatto che «le guerre, le pesti, le carestie e i tempi che inclinano al darsi piacere, hanno imputtanita tutta Italia».21 Il disordine della storia, che si manifesta nella carnevalesca sovversione di ogni ordine e norma, non potrà però, in questa prospettiva, essere rappresentato, con quanto di grottesco e farsesco esso comporta, con i toni della tragedia: nessun Virgilio canterà più con la sua «terribil tromba» la turpe e meschina realtà della Roma moderna, che non offre alcuna materia al respiro solenne dell’epica, ma richiede la forma dell’irrisione e della parodia, la sola adatta ad essa. All’inizio della seconda giornata del Dialogo Aretino colloca così la famosa riscrittura in termini contemporanei della vicenda di Enea e Didone, narrata dalla Nanna alla Pippa come ammonimento riguardo ai tradimenti che gli uomini perpetrano nei confronti delle donne. La presa di Ilio è rimpiazzata da quella dell’Urbe e l’eroe troiano è trasformato in un «barone romanesco, non romano»,22 con un abbassamento del personaggio reso evidente dal doppio senso dell’appellativo nobiliare, che allude alla sua natura ingannatrice e infida. Egli è sfuggito per caso alle violenze dei conquistatori, e sempre per caso viene «gittato con molti suoi compagni da la bestialità dei venti pazzi al lito di una gran cittade de la quale era padrona una signora che non si può dire il nome»:23 più nessun destino provvidenziale, dunque, guida i passi degli eroi, poiché non esistono un disegno trascendente, una logica umana o divina che siano capaci di giustificare gli avvenimenti e redimere gli uomini dal caos nel quale tutto pare essere precipitato. La storia patetica e sublime dei due amanti virgiliani è ridotta dalla Nanna a exemplum sul comportamento sessuale degli uomini che ha come protagonisti un Enea-barone infido e spregiudicato conquistatore non di terre ma di cuori femminili, «maestro di astuzie» pronto ad abbandonare senza rimpianti colei che ha appena sedotto, e una Didone che, pur conservando ancora in parte la propria statura tragica, oltre a subire il declassamento dal rango di sovrana a quello di anonima e imprecisata «signora», è presentata come una «meschina», una «poveretta», una «sempliciotta»24 che si lascia irretire dalla truffaldina eloquenza del suo ospite inna-
21
P. Aretino Cortigiana, II, X, in Id., Teatro, t. I, Cortigiana (1525 e 1534), a cura di P. Trovato e F. Della Corte, Roma, Salerno 2010. 22 P. Aretino, Dialogo, in Id., Ragionamento. Dialogo, a cura di N. Borsellino, Milano, Garzanti 1984, p. 317. 23 Ibidem. 24 Ivi, p. 318. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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morandosi di lui; e anche se il sublime sopravvive sotto forma di frammento nelle parole disperate della donna, che riprendono quasi alla lettera il testo dell’Eneide, il commento straniante della Pippa al tragico monologo seguito alla partenza del seduttore («che bel lamento»)25 e, soprattutto, l’ironica ammissione da parte dell’autore di aver «furato il Quarto di Vergilio»26 mostrano come esso sia del tutto negato alla letteratura contemporanea, in un mondo che non offre più nulla di nobile e di esemplare. L’attualizzazione del modello virgiliano va ben oltre, perciò, il puro gioco letterario, per dipingere il ritratto di un mondo capovolto il cui simbolo è il sacco di Roma, nella cui descrizione Aretino, pur manifestando una sincera pietas per i suoi orrori, abbandona il dettato dell’Eneide per ritornare alla dissacrante beffa pasquinesca di Pax vobis, brigate, con minor accanimento polemico ma con più sottile sarcasmo: il saccheggio non è un dramma meritevole degli accenti dell’epica, di parole sdegnate e commosse, come in Deh, havess’io, ma una miserevole farsa, narrata, per soddisfare la curiosità della signora di conoscere «in che modo l’astuzia pretesca si lasciò incappare ne le unghie di male branche»,27 dal barone che porta in dono alla sua ospite non le preziose vestigia che Enea riuscì a sottrarre all’incendio di Troia, ma povere e dubbie reliquie pseudo-pontificali e romane, che offrono l’occasione per un’ennesima puntata satirica contro la curia papale, punita da Dio per la sua empietà. Nessun atto di eroismo si compie, inoltre, nella difesa di Roma, a differenza degli innumerevoli che, sia pur vani, resero gloriosa la caduta dell’antica Ilio, dove Enea diede prova della sua virtù, mentre il barone è spettatore passivo degli avvenimenti e la sua unica azione è la fuga ingloriosa. Questo opposto comportamento rispecchia, come nota Larivaille, il carattere delle rispettive patrie, a testimoniare una volta di più che il paragone tra i loro destini stabilito nella canzone al marchese di Mantova non è più assolutamente sostenibile;28 Roma è ormai divenuta l’antitesi di Troia, vittima non del fato avverso ma, come Aretino ha ripetuto più volte, della sua corruzione, una città decaduta e imputridita che non è neppure comparabile a quella antica celebrata da Virgilio. Se infatti in Deh, havess’io o nel capitolo al re di Francia il richiamo alla grandezza e alla gloria trascorse era motivo di maggior compianto per la rovina attuale ma anche segreta speranza di una rinascita futura, la forma degradata della parodia mostra invece, nel Dialogo, l’infinita distanza da
25
Ivi, p. 331. Ivi, p. 334. 27 Ivi, p. 320. 28 Cfr. P. Larivaille, La «grande différence entre les imitateurs et les voleurs»: à propos de la parodie des amours de Didon et d’Enée dans les ‘Ragionamenti’ de l’Arétin, in Réécritures I. Commentaires, parodies, variations dans la Littérature Italienne de la Renaissance, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle 1983, pp. 41-119 a p. 91. 26
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quel modello, non più eguagliabile né proponibile: il solo eroe le cui gesta possano essere cantate in questo tempo di miseria è un meschino imbonitore, mentre nessun nuovo Enea giungerà a far risorgere l’Urbe e l’Italia dalla loro desolazione priva di speranza.
XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
MORENO SAVORETTI I berneschi e il sacco di Roma
A voler cercare nell’opera di Francesco Berni, o dei suoi imitatori, cospicui ed espliciti riferimenti alla situazione politica italiana o al Sacco di Roma, si resterebbe certamente delusi. La poesia bernesca – o meglio quella parte della produzione del Berni che ha ottenuto maggior successo grazie a una folta schiera di emuli e prosecutori, vale a dire il filone dei capitoli di lode paradossale1 – per sua natura, infatti, è votata al disimpegno e allo sberleffo, magari alla critica di costume provocatoria e oscenamente esibita, ma sempre entro i limiti dell’evasione e del gioco. E proprio in questo senso allora è necessaria una preliminare e fondamentale distinzione tra il caposcuola, se così si può definire il Berni, e la schiera dei suoi sodali e imitatori che si riunivano a Roma nell’Accademia dei Vignaiuoli,2 e la cui esperienza burlesca nasce e si sviluppa nel giro di anni che va dal 1532 al 1535, ma che, paradossalmente, trova terreno fertile fin da subito dopo il Sacco, se già nel giugno del 1529, il Berni da Verona scrive a Giovan Francesco Bini, esortandolo a scrivere il più possibile e rimpiangendo i banchetti che si tengono nella capitale.3 Il clima sembra nuovamente favorevole al fiorire della poesia burlesca, che, in effetti, raggiunge in breve tempo il punto di massimo successo, forse anche in virtù del
1 A proposito delle lodi paradossali bernesche si rimanda a S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, Padova, Antenore 1983, pp. 138-181. 2 Cfr. M. Maylender, Storia delle Accademie d’Italia, Bologna, Cappelli 1926-1930, pp. 466467. 3 F. Berni, Poesie e prose, criticamente curate da E. Chiòrboli, Genève-Firenze, Olschki 1934, pp. 320-321: «A vivere avemo sino alla morte, a dispetto di chi non vuole; et il vantaggio è vivere allegramente, come conforto a far voi, attendendo a frequentar quelli banchetti che si fanno per Roma, e scrivendo sopra tutto manco che potete».
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suo essere «poesia di un dopoguerra», come ha scritto Romei,4 nel senso che trae anche giovamento da una situazione politica e sociale ancora poco definita, da un potere che faticosamente cerca di riorganizzarsi e che inevitabilmente offre ampie zone franche. Amici e imitatori del Berni, come il Bini, appunto, Giovanni Mauro, Francesco Maria Molza e altri, trovano all’interno dell’Accademia una «solidarietà di gruppo»5 in grado di sostituire in qualche modo la dipendenza dalla volontà di controllo dei committenti e possono quindi affrontare in maniera esplicita, e senza timori di censure, argomenti anche pericolosi o delicati come la scomunica e la sifilide6 o, peggio ancora, l’elogio esplicito e generalizzato dell’omosessualità, soprattutto dei rappresentanti della Chiesa (la censura per i testi berneschi arriverà a partire dalla metà del secolo, a esperienza ormai largamente conclusa). Nonostante tale libertà d’espressione, che si esprime in una spensierata noncuranza per le regole e le “buone maniere” letterarie, tra i berneschi sembra emergere una volontà quasi programmatica di evitare gli argomenti politici e di conseguenza il genere satirico, come dimostra, tra l’altro, la scelta di privilegiare il filone delle lodi paradossali a scapito del sonetto, canonicamente associato alla satira. Appare evidente come nessuno del gruppo senta la necessità di ricordare nei propri testi, se non proprio gli avvenimenti più terribili e luttuosi, anche soltanto gli eventi politici e sociali che anticiparono o seguirono il Sacco del ’27. Difficile dire quali siano le reali ragioni di tale scelta, se non limitandosi a considerare le più ovvie e plausibili. In primo luogo, e in modo del tutto scontato data la portata della tragedia, non si può non tener conto del fatto che le ferite non solo fisiche, ma morali e sociali che avevano segnato così in profondità la città di Roma, non erano ancora rimarginate negli anni di massima diffusione della poesia bernesca. Risultava pertanto difficile scherzare su certi temi, anche per autori che, per altro, non si erano mai risparmiati in quanto a sovvertimento delle regole, soprattutto nella scelta degli argomenti e nell’uso spregiudicato di un lessico apertamente osceno e ricco di doppi sensi e allusioni.7
4
D. Romei, Berni e berneschi del Cinquecento, Firenze, Centro Edizioni 2P 1984, p. 76. Ivi, p. 82. 6 Cfr. Capitolo del mal franzese di Giovan Francesco Bini e Capitolo della scomunica di Francesco Maria Molza, in Il Primo libro dell’opere burlesche di M. Francesco Berni, di M. Gio. della Casa, del Varchi, del Mauro, di M. Bino, del Molza, del Dolce e del Firenzuola, ricorretto e con diligenza ristampato, Firenze, Bernardo Giunti 1548. 7 Per questo aspetto della poesia bernesca si rimanda a J. Toscan, Le Carnaval du langage. Le lexique érotique des poètes de l’équivoque de Burchiello à Marino (XV-XVII siècle), Lille, Presses Universitaires 1981. 5
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La seconda e più importante ragione va cercata nel fatto che molti di questi autori gravitavano nell’orbita di Clemente VII e avevano incarichi a corte di un certo rilievo, e allora si spiegherebbe questa ritrosia nel parlare di una tragedia che, è bene ricordarlo, era stata provocata anche, o in gran parte, dall’incompetenza politica del pontefice e da una sottovalutazione del pericolo che aveva finito per abbandonare la città alla furia del lanzi imperiali. Questo secondo fattore naturalmente vale anche per il Berni, il cui percorso poetico e umano, tuttavia, merita un discorso più approfondito e in parte diverso, in virtù soprattutto del maggiore spazio che il tema politico e il Sacco, in particolare, occupano nella sua produzione poetica. E basterebbe ricordare – pur in un ambito estraneo alla produzione burlesca – l’unica opera nella quale egli faccia esplicito riferimento al sacco del ’27, vale a dire il rifacimento dell’Orlando Innamorato, dove alcune stanze del canto XIV sono dedicate alla descrizione e al ricordo doloroso degli avvenimenti che causarono la distruzione della città. Tuttavia, anche volendo escludere questa parentesi seria (forse dettata dall’adesione al progetto riformista del datario Giovan Matteo Giberti presso il quale si trovava al servizio) e limitando la nostra analisi alla produzione burlesca tout court, rispetto ai sodali dell’Accademia il percorso poetico del Berni risente del clima e delle tensioni che caratterizzano gli avvenimenti legati al Sacco. In questo senso mi pare interessante focalizzare l’attenzione su un piccolo nucleo di testi, composti in un arco temporale abbastanza ristretto – cioè dalla fine del 1526 al 1529 – che più o meno esplicitamente fanno riferimento alla situazione storico-politica e ruotano intorno alla figura del papa, Clemente VII, a cominciare dal Sonetto di papa Chimente. Composto in occasione della Lega Santa nel 1526, il sonetto ironizza pesantemente sulla condotta incerta e miope del pontefice – definito, senza troppi riguardi, «castron» e «balordo»8 –, così sciocco da non capire quanto sia pericoloso e controproducente l’accordo contro l’imperatore: Non vedi tu, non odi o non senti che costor voglion teco far l’accordo per ischiacciarte il capo come al tordo, co i lor prefati antichi trattamenti? (Sonetto di papa Chimente, 5-8)
Sotto il velo del sarcasmo, il Berni traccia con lucido realismo un quadro tutt’altro che confortante per la città di Roma e per l’Italia intera, le cui sorti sono affidate alla politica fallimentare di un pontefice incapace di decidere (malato di «rovino-
8 Cito, qui e in seguito, da F. Berni, Rime, a cura di G. Bárberi Squarotti, Torino, Einaudi 1969.
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sa incertezza», lo ha giustamente definito Bárberi Squarotti),9 e all’inettitudine dei «domini imbarcati», vale a dire gli ammiragli italiani che dovrebbero guidare la flotta della Lega, e cioè i vari Renzo da Ceri, Andrea d’Oria e Roberto Sanseverino, i quali se ne staranno con le mani in mano mentre il papa andrà a solazzo il sabbato alla Vigna o a Belvedere e sguazzarà che sarà un piacere. (Sonetto di papa Chimente, 21-23)
Naturalmente le conseguenze di questo immobilismo saranno tragiche, come traspare dal finale amaro e quasi profetico nell’ipotizzare un destino di schiavitù o di morte: Voi starete a vedere; che è e che non è, una mattina ci sarà fatto a tutti una schiavina. (Sonetto di papa Chimente, 24-26)
Questo senso di sfiducia nella politica incerta e dissennata del papa si ritrova anche nel successivo Né navi né cavalli o schiere armate, perfida parodia del sonetto Mentre navi, e cavalli, e schiere armate, composto dal Bembo e indirizzato al datario Giberti.10 Laddove infatti il Bembo si sofferma sul proprio ruolo di intellettuale, scrivendo «io vo, signor, pensando assai sovente / cose, ond’io queti un desiderio ardente / di farmi conto alla futura etate»,11 il Berni replica esprimendo ironicamente la propria perplessità riguardo alla guerra contro l’imperatore («mi par ch’abbiamo un desiderio ardente / di parer pazzi alla futura etate»),12 allargando in tal modo l’orizzonte del discorso e uscendo dai confini di un personalismo un po’ gretto. Dello stesso tenore appaiono le osservazioni finali, dove vengono declinati in negativo, e quindi ridicolizzati, i riferimenti di ascendenza petrarchesca alla condizione di
9
G. Bárberi Squarotti, Introduzione a F. Berni, Rime cit., p. 28. Così scrive Dionisotti: «Il sonetto fu scritto o nel 1526 o più probabilmente nei primi mesi del 1527, comunque poco prima del Sacco, e l’involontaria, ma non perciò meno significativa, coincidenza spiega che esso risultasse documento ridicolo di egoistica ignavia e imprevidenza, e che suscitasse nella cerchia stessa del Giberti la risposta satirica per le rime del Berni», P. Bembo, Prose e rime, a cura di C. Dionisotti, Torino, Utet 1966, 2ª ed., p. 599. 11 P. Bembo, Mentre navi, e cavalli, e schiere armate, 6-8 (cito da P. Bembo, Prose e rime cit., pp. 599-600). 12 F. Berni, Né navi né cavalli o schiere armate, 7-8. 10
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intellettuale isolato dal mondo, nonché i tentativi di cattivarsi i favori del datario, nel quadro di una «vicenda di ambizioni e sollecitazioni pratiche»:13 Intanto al vulgo mi nascondo e celo là dov’io leggo e scrivo; e ’n bel soggiorno partendo l’ore fo picciol guadagno. (Mentre navi, e cavalli, e schiere armate, 9-11) Onde al vulgo ancor io m’ascondo e celo: non leggo, e scrivo sempre, e ’n mal soggiorno perdendo l’ore, spendo e non guadagno. (Né navi né cavalli o schiere armate, 9-11)
Dove, tuttavia, appare in maniera più palese l’irrisione nei riguardi delle posizioni bembiane, è nel rovesciamento degli accenti ottimistici dell’incipit, che vorrebbero presentare la forza militare della Lega di Cognac come un argine efficace alle truppe imperiali e che più realisticamente il Berni dipinge nella sua cruda e reale inefficienza e inettitudine: Mentre navi e cavalli o schiere armate che ’l ministro di Dio sì giustamente move a ripor la misera e dolente Italia e la sua Roma in libertate, (Mentre navi, e cavalli, e schiere armate, 1-4) Né navi, né cavalli o schiere armate, che si son mosse così giustamente, posson ancor la misera e dolente Italia e Roma porre in libertate. (Né navi né cavalli o schiere armate, 1-4)
Questa capacità di analisi e questa lucidità di giudizio sono forse le caratteristiche più interessanti del Berni polemista, consapevole della situazione politica italiana e soprattutto dei limiti di un pontefice al quale non ha mai risparmiato le proprie frecciate polemiche, fin dal 1526 con il sonetto Per Clemente VII, quadro impietoso di un pontificato fondato sull’apparenza e le cerimonie, paralizzato dall’eccessiva prudenza, dalle buone intenzioni mai tradotte in atti concreti e soprattutto privo, nella sua inconsistenza, del necessario pragmatismo per affrontare un momento storico tanto delicato:
13
P. Bembo, Prose e rime cit., p. 600.
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Un papato composto di rispetti, di considerazioni e di discorsi, di pur, di poi, di ma, di se, di forsi, de pur assai parole senza effetti; di pensier, di consigli, di concetti, di conietture magre per apporsi; d’intrattenerti, pur che non si sborsi, con audienze, risposte e bei detti; di pie’ di piombo e di neutralità, di pazienza, di dimostrazione di fede, di speranza e carità; d’innocenzia, di buona intenzione, ch’è quasi come dir semplicità, per non li dar altra interpretazione. Sia con sopportazione, lo dirò pur, vedrete che pian piano farà canonizzar papa Adriano.
Roma e l’Italia intera sono insomma destinate a subire una catastrofe annunciata e da molti prevista – tra cui lo stesso Giberti, contrario alla Lega Santa nonostante le sue posizioni filo-francesi – e invece sottovalutata dalla «semplicità» dei vertici, come non manca di sottolineare perfidamente anche l’Aretino nella frottola Pas vobis, brigate, dove ricorda come, ancora pochi giorni prima della catastrofe, il pontefice non sia in grado di valutare il reale pericolo che incombe sui propri sudditi, tanto da emettere un bando di morte per tutti coloro che cercano di abbandonare la città senza autorizzazione.14 Fin qui il Berni che potremmo definire pre-Sacco, quello cioè critico e sarcastico nei confronti del potere, e del papa in particolare; ma la tragedia del ’27, come noto, segna la fine di un’epoca e le conseguenze, spesso vissute in prima persona da molti artisti e letterati in termini di violenze, perdite e scelte forzate, rappresentano un brusco risveglio rispetto ai sogni e alle ambizioni che la Roma precedente il Sacco poteva alimentare. Anche per il Berni – costretto a trasferirsi a Verona e poi a Venezia a seguito del datario per sfuggire alla violenza dei lanzichenecchi – il Sacco è dunque un momento di svolta, non solo dal punto di vista umano ma anche letterario, che si traduce in un primo tempo nella scelta di rinunciare alla poesia burlesca per dedi-
14
P. Aretino, Pas vobis, brigate, 229-237: «[…] stimando nïente / la Spagna, comandò / et un bando mandò per Roma presto, / che s’alcun disonesto / suo robe isgomberassi / o·lla moglie levassi o ’ suo figliuoli / per timor d’i Spagnuoli, / fussi arrostito e preso, / crocefisso e appeso e scorticato». Cito da D. Romei, “Pas vobis, brigate”: una frottola ritrovata di Pietro Aretino, in «La Rassegna della letteratura italiana», XC (1986), 3, pp. 429-473. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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carsi alla letteratura alta e impegnata con il rifacimento dell’Innamorato, e in seguito nel progressivo abbandono della satira politica, il cui spazio si fa sempre più ristretto15 a favore della lode paradossale e dell’epistola in versi di stampo oraziano. Tuttavia l’aspetto che maggiormente colpisce nel difficile passaggio a ridosso degli avvenimenti del Sacco, è il mutamento di prospettiva nei confronti della scena politica e dei suoi protagonisti. In particolare cambia, e in maniera radicale, l’atteggiamento nei riguardi di Clemente VII, non più bersaglio di critiche più o meno sferzanti, ma addirittura difeso e incoraggiato. E la conferma di questo mutamento si trova già, a mio avviso, nella polemica con l’Aretino, in seguito alla pubblicazione da parte di questi della già citata frottola Pas vobis, brigate, feroce e infamante invettiva contro il papa, nonché occasione per una personale resa dei conti nei confronti del datario Giberti, suo acerrimo nemico e probabile mandante dell’aggressione subita pochi anni prima per mano di Achille dalla Volta. La risposta del Berni, affidata al sonetto Contra Pietro Aretino, colpisce l’avversario con una violenza e una cattiveria che raramente ritroviamo in altri suoi testi – se non forse nel capitolo contro il papa fiammingo Adriano VI – e ha il chiaro intento di assumere le difese non solo del datario Giberti e del suo entourage (definiti «mala setta» dall’Aretino),16 ma anche, ed ecco la novità, del pontefice Clemente VII. Il testo, quasi privo di ironia – se non nei versi iniziali, che ricalcano in chiave parodica un passo della Cortigiana, come ha rilevato Silvia Longhi17 – non risparmia gli insulti («storpiataccio, ignorante e arrogante»), le minacce di morte («al fin si troverà pur un pugnale / meglior di quel d’Achille e più calzante») e le accuse di maldicenza, fino ad arrivare alle pesanti allusioni riguardo al ruolo di ruffiano dell’Aretino e, di conseguenza, alla professione delle sorelle: quelle due, sciagurato, c’hai nel bordel d’Arezzo a grand’onore, a gambettar: «Che fa lo mio amore?»
15 Berni si concede un’unica deroga nel sonetto, a mio parere straordinario, intitolato L’entrata dell’imperadore in Bologna, composto in occasione dell’incoronazione di Carlo V da parte di Clemente VII nel 1530. 16 P. Aretino, Pas vobis, brigate, 407. 17 S. Longhi, Poeti lirici, burleschi, satirici, didascalici, in Poeti del Cinquecento, a cura di G. Gorni, M. Danzi e S. Longhi, Milano, Ricciardi 2001, p. 829: «Con somma perfidia, il Berni colpisce l’avversario rifacendogli il verso: questi due versi ricalcano infatti una battuta della Cortigiana: “O traditore! Adesso gli caccio nel petto questo pugnale, linguacia frascida!” ([I redazione], IV 3, 2)».
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Di quelle, traditore, dovevi far le frottole e novelle, e non del Sanga che non ha sorelle». (Contra Pietro Aretino, 24-29)18
Tuttavia – al di là della scontata carica aggressiva dell’invettiva, dettata dalla necessità di fornire una risposta adeguata all’attacco dell’Aretino –, ciò che appare interessante è proprio il diverso atteggiamento nei riguardi del pontefice, di cui il Berni riconosce e sottolinea, in modo quasi apodittico e impensabile fino a pochi mesi prima, un ruolo e una funzione che non possono essere messi in dubbio o irrisi («Il papa è papa e tu sei un furfante»). Ora, anche volendo leggere in questo testo una doverosa difesa d’ufficio, probabilmente sollecitata dal papa stesso per tramite del Giberti, non si può non considerare l’enorme distanza rispetto ai testi di pochi mesi prima. Distanza che si fa ancora più marcata, qualche anno dopo, nei tre sonetti dedicati alla malattia di Clemente VII. Scritti nel 1529 durante il breve soggiorno a Roma al seguito del Giberti, recatosi nella capitale appunto per assistere il papa, i testi sviluppano il topos dell’inettitudine dei medici, incapaci non solo di riconoscere e curare un semplice attacco di catarro, ma anche presuntuosi al punto di lasciare morire il paziente pur di non dover ammettere l’infondatezza della propria diagnosi: Ha buon occhio, buon viso, buon parlare, bella lingua, buon sputo, buon tossire: questi son segni ch’e’ non vuol morire; ma e’ medici lo voglion amazzare. Perché non ci sarebbe il lor onore, s’egli uscisse lor vivo delle mani, avendo detto: «Gli è spacciato, e’ more». (Di papa Clemente VII malato, 5-11)
Tuttavia, ciò che preme sottolineare, in rapporto al nostro tema, sono le allusioni alle potenziali trame e congiure dalle quali il papa dovrebbe guardarsi, risolvendosi a prendere un orinale e dare «con esso nel mostaccio» ai medici, uscendo così dalle mani di individui non solo incapaci, ma anche ambigui e pericolosi, pronti a vendere la sua vita a cardinali senza scrupoli: E fanno mercanzia del vostro male:
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Ma qui va precisato che il Berni non fa che rispondere per le rime a una pesante allusione dell’Aretino, il quale nella frottola attacca Giovan Battista Sanga, segretario del Giberti, nonché amico del Berni e interlocutore del Dialogo contra i poeti, definendolo: «Il Sanga arciplebeo, / ch’ha·lla suora in bordello», P. Aretino, Pas vobis, brigate, 409. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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han sempre il petto di polizze pieno, scritte a questo e a quell’altro cardinale. Pigliate un orinale e date lor con esso nel mostaccio: levate noi di noia, e voi d’impaccio. (Sonetto a papa Chimente VII malato, 12-17)
Siamo di fronte, insomma, e per la prima volta, ad un Berni non solo tollerante verso il papa, ma quasi umanamente solidale e pronto ad assumere su di sé – pur con la consueta ironia – il ruolo di premuroso consigliere e amico, l’unico in grado di dare consigli disinteressati in virtù della propria fedeltà e del proprio amore: Fate a modo de un vostro servidore, el qual vi dà consigli sani e veri: non vi lassate metter più cristieri, che, per Dio, vi faranno poco onore. Padre santo, io vel dico mo’ de cuore: costor son macellari e mulattieri. e vi tengon nel letto volentieri, perché si dica – Il papa ha male, e’ more – (Sonetto a papa Chimente VII malato, 1-8)
Ecco così chiuso il cerchio, con questo trittico che rappresenta la naturale conclusione del breve percorso ideale che ho cercato di tracciare. Un percorso cominciato pochi mesi prima del Sacco su presupposti decisamente differenti, con un Berni apertamente critico e sarcastico nei confronti di Clemente VII e della sua scellerata condotta politica e che approda, in seguito alla tragedia, su posizioni più caute e prudenti, se non addirittura di difesa della figura del pontefice. Un percorso apparentemente poco coerente e connotato da un’inversione di rotta repentina e quasi ingiustificata, se non dovessimo tener conto del terremoto politico e sociale che è stato il Sacco di Roma. Sono trascorsi solo tre anni dal sonetto Per Clemente VII, ma nulla è più come prima: per il Berni non è più tempo di polemiche, di invettive o di rivendicazioni di preveggenza politica, laddove altri non hanno saputo o voluto vedere i prodromi di una catastrofe. Il mondo è cambiato e con lui il Berni, desideroso a questo punto della propria esistenza di intraprendere un cammino virtuoso che lo porti a essere «un uomo da bene» (come scrive alla duchessa di Camerino nell’ottobre del 1528)19 e pronto a
19 F. Berni, Poesie e prose cit., pp. 319-320: «Se Dio mi dà grazia ch’io vinca un poco questa mia poltronería, con la quale ho combattuto tanti anni e sempre ho perso, come faceva colui con la cena, la vostra eccellenzia conoscerà ch’io sono un uomo da bene, idest ho voglia d’es-
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farsi «teatino e romito», in linea, cioè, con i programmi riformistici del Giberti, fondati sul rigore e i costumi austeri. Purtroppo – o forse per fortuna, dal punto di vista di noi lettori moderni – questo cammino si interromperà molto presto, quando nel 1532 il Berni deciderà di lasciare definitivamente il Giberti, ammettendo la propria sconfitta umana e letteraria e ritornando a quelle «baie» della poesia giocosa che più gli si confanno, come egli stesso ricorda in un bellissimo passo del Capitolo al cardinale de’ Medici: Provai un tratto a scrivere elegante, in prosa e in versi, e fecine parecchi, et ebbi voglia anch’io d’esser gigante, ma messer Cinzio mi tirò gli orecchi e disse: – Bernia, fa’ pur dell’Anguille, ché questo è il proprio umor dove tu pecchi: arte non è da te cantar d’Achille; ad un pastor poveretto tuo pari convien far versi da boschi e da ville –. (Capitolo al cardinale de’ Medici, 37-45)
sere uomo da bene; e che sia vero, son tornato a Verona per stare appresso ad uno uomo da bene e provare se li essempli suoi mi possono far qualche giovamento». XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
MARCO CHIARIGLIONE Il nome dell’Italia nei commenti quattro-cinquecenteschi della ‘Commedia’: da “Nidobeato” a Castelvetro (1478-1570)
Gli autori quattro-cinquecenteschi che si sono presi in considerazione in questo studio – vale a dire Cristoforo Landino (Firenze 1424-1498), Martino Paolo Nibia (i.e. «Nidobeato», Novara 1432-forse Parma 1483), Trifon Gabrielli (Venezia 14701549), Alessandro Vellutello (Lucca 1473-?), Giovan Battista Gelli (Firenze 14981563), Pier Francesco Giambullari (Firenze 1495-1555), Bernardino Daniello (Lucca 1500 circa-Padova 1565), Benedetto Varchi (Firenze 1503-1565), Ludovico Castelvetro (Modena 1505-Chiavenna 1571) – nei loro commenti, chiose, lezioni intorno alla Commedia non fanno che esigui e puntuali cenni alla situazione storica loro contemporanea. Tuttavia di tali circoscritti riferimenti alla contingente situazione storica dell’Italia intorno al sacco di Roma si possono individuare i più rilevanti intorno alle questioni relative ai rapporti tra impero e chiesa, ai conseguenti conflitti interni tra fazioni e parti avverse negli stati italiani e ai contestuali reggimenti politici, alle riflessioni sulla formazione degli eserciti e sugli stemmi delle casate, oltreché alle indicazioni più generali, relative da una parte alla lingua e dall’altra ai nomi e ai confini geografici dell’Italia. L’Italia e Firenze «patria, città e republica nostra» Innanzitutto commentatori quali Landino1 e Daniello2 con Italia non intendono
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Cfr. C. Landino, Comento sopra la ‘Commedia’, a cura di P. Procaccioli, Roma, Salerno 2001, Introduzione. 2. Apologia nella quale si difende Danthe e Florentia da’ falsi calumniatori, e 13. Marsilii Ficini fiorentini; e commento a Inf XXVII, 40-42. In questo studio, dopo la prima indicazione bibliografica completa, verranno indicati i luoghi di cisacun commento alla Commedia Il nome dell’Italia intorno al sacco di Roma
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un concetto di «patria» per Dante – come del resto è abbastanza ovvio3 –, la quale invece viene espressamente identificata con Firenze, che alcune volte in tale contesto viene chiamata «republica nostra» (da Landino)4 o «città nostra» (da Gelli)5 o «nostra patria» (da Landino6 e Castelvetro)7. Lingua e confini d’Italia La concezione dantesca dell’Italia quale regione fisica e linguistica mostra di essere perlopiù accolta e in qualche modo fatta propria dai commentatori quattrocinquecenteschi. Questi spesso infatti da una parte rilevano e aggiornano la toponomastica dei luoghi geografici indicati da Dante8, magari quali confini che delimi-
secondo la formula fissa che riporta il solo nome dell’autore seguito da «commento/i a» e quindi l’indicazione di cantica, canto e verso, o di titoli particolari. 2 Cfr. L’espositione di Bernardino Daniello da Lucca sopra la ‘Comedia’ di Dante, edited by R. Hollander & J. Schnapp, with K. Brownlee & N. Vickers, Hanover-London, University Press of New England 1989, [ripresa dell’ed.: Venezia, Da Fino 1568,] commento a Inf XX, 64-65. 3 Si consideri infatti che quando Dante al principio dell’Epistola V si rivolge a tutti e ai singoli re d’Italia e ai senatori di Roma, nonché ai duchi, ai marchesi, ai conti e ai popoli per invocare la pace, si presenta proprio come «l’umile italiano Dante Alighieri fiorentino»; cfr. Epist V, 1. 4 Cfr. in particolare, in riferimento al contesto del presente studio, Landino, commenti a Inf XXIV, 142-144; Purg VI, 127-129; e Proemio di Purg XIV. Cfr. più in generale anche Landino, Introduzione; e commenti a Inf II, 2-24; VI, 49-51 e 64-66 e 73-75; X, 52-54; XIII, 139-147; XVII, 61-63; XXIII, 103-108; XXVI, 7-9; XXVII, 40-42; XXVIII, 103-108; XXX, 58-63; Purg VI, 19-21; XX, 70-75; Par XV, 97-99; XVI Proemio e 136-141; XXIX, 103-105. 5 Cfr. particolarmente, sempre in riferimento al contesto del presente studio, Letture edite e inedite di Giovan Battista Gelli sopra la ‘Commedia’ di Dante, a cura di C. Negroni, Firenze, Bocca 1887, commento a Inf X, 43-51 (Lett. V, Lez. III, 22-93). Cfr. più in generale anche Landino, Introduzione; e commenti a Inf X, 52-54; XX, 115-117; XXXIII, 34-36; Gelli, Introduzione ‘Inferno’; e commenti a Inf II, 73-75; VI, 49-54 e 58-84; VII, 97-111; X, 22-27 e 43-51; XVI, 721; XXI, 1-6; XXII, 1-12; XXIV, 139-151; Annotationi nel Dante fatte con M. Trifon Gabriele in Bassano, ed. critica a cura di L. Pertile, Bologna, Commissione per i testi di lingua 1993, commenti a Purg XXXI, 70-71; e Par XVI, 63; Daniello, commenti a Inf X, 87; XVI, 64-69; XVIII, 122; e Sposizione di Lodovico Castelvetro a XXIX canti dell’‘Inferno’ dantesco, ora per la prima volta date in luce da G. Franciosi, Modena, Soliani 1886, commento a Inf XVI, 77. 6 Cfr. Landino, Introduzione. 3. Fiorentini excellenti in doctrina. Cfr. più in generale anche Landino, commento a Inf X, 91-93. 7 Cfr., sempre in riferimento al contesto del presente studio, Castelvetro, commento a Inf XVI, 70-72. 8 Cfr. in particolare Inf I, 65-69; 103-101; VII, 22-24; XVI, 94-105; XXII, 66-67; XXIV, 139-151; XXVIII, 70-90; XXXIII, 79-84; Purg VI, 85-87; VIII, 11; Par VIII, 67-75; IX, 25-30; XI, 100-108; XXI, 106-111. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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tano l’Italia stessa,9 e dall’altra parte mostrano di accogliere, se non condividere, l’interpretazione dantesca della lingua comune del «bel paese là dove ’l sì suona».10 I riferimenti toponomastici – dunque spesso aggiornati – ai luoghi e ai confini dell’Italia sono abbastanza diffusi, come dimostrano le varie attestazioni di Landino, 11 Nibia, 12 Gabrielli, 13 Vellutello, 14 Gelli, 15 Giambullari, 16 Daniello 17 e Castelvetro.18 Dall’altra parte, per quanto riguarda le considerazioni sulla lingua
9 Per quanto riguarda i confini fisici dell’Italia si vedano particolarmente: De Vulg El I, VIII, 8-9; X, 6; XV, 8; e Inf IX, 114; XX, 62-63; Purg III, 49; XXX, 86; Par VIII, 61-62; XXI, 106. 10 Inf XXXIII, 80. In merito alla questione della lingua secondo Dante si vedano soprattutto: De Vulg El I, VIII, 3-4 e 8-9; XVI, 3-4; XVIII, 5; e Conv I, X, 5 e 12; XI, 1-2; XII, 5; XIII, 12. Circa le divisioni dialettologiche cfr. De Vulg El I, X, 7; e Conv I, V, 9; VI, 8; XI, 21. In particolare riguardo alla lingua quale luce, forse in quanto emanazione stessa della seconda Persona trinitaria, cioè appunto il Verbo, si veda: De vulg El I, XVIII, 5. 11 Cfr. Landino, commenti a Inf IX, 112-114; XXV, 97-102; Purg VI, 85-87; VIII,116. 12 In realtà le chiose relative ai luoghi geografici riportati da Nibia nella sua edizione della Commedia riprendono perlopiù, seppur con qualche minima variante, il commento laneo, si veda in proposito: Comincia la ‘Comedia’ di Dante Aldighieri excelso poeta firentino [incipit], [con il commento al testo di Martino Paolo Nibia, i.e. «Nidobeato», e Guido da Terzago,] Milano, Piemontesi 1478, commento a Inf IX, 112 («s»; cfr. ‘Comedia’ di Dante degli Allagherii col commento di Jacopo della Lana bolognese, nuovissima edizione della Regia Commissione per la pubblicazione dei testi di lingua sopra iterati studii del suo socio L. Scarabelli, Bologna, Tipografia Regia 1866-1867, commento a Inf IX, 112); commenti a Inf XX, 61-84 («l»; cfr. Lana, commento a Inf XX, 61-86); Par VIII, 61-66 («r»-«s»; cfr. Lana, commento a Par VIII, 61-66); IX, 25-27 («f»; cfr. Lana, commento a Par IX, 25-29); a XI, 96-107 («u»-«x»; cfr. Lana, commento a Par XI, 100-107); XXI, 106-114 («r»-«s»; cfr. Lana, commento a Par XXI, 106-111). Fa eccezione il commento a Purg VI, 85-87 («r») in cui, al commento di Lana, Nibia aggiunge alcune citazioni latine: la prima dalla Pharsalia (I, 24-26) di Lucano, la seconda dalle Variae (I, 1) di Cassiodoro, la terza dal Bellum Iugurthinum (X, 6) di Sallustio, la quarta e ultima dal Salmo 13 (3, secondo il testo della Vulgata Clementina); si veda dunque Nibia, commento a Purg VI, 85-87 («r»; cfr. Lana, commento a Purg VI, 85-87). Martino Paolo Nibia, noto anche sotto lo pseudonimo umanistico «Nidobeato», curò l’edizione milanese della Commedia del 1478 adottando dichiaratamente il commento di Iacopo della Lana, cui tuttavia aggiunse delle chiose proprie. 13 Cfr. Gabrielli, commenti a Inf I, 65-66, 105-106; IX, 112; XXIX, 59-63. 14 A. Vellutello, La ‘Comedia’ di Dante Aligieri con la nova esposizione, a cura di D. Pirovano, Roma, Salerno 2006, commenti a Inf I, 105; Par VIII, 67-75; IX, 25-30. 15 Cfr. Gelli, commenti a Inf I, 67-69 e 103-105 (Lett. I, Lez. VII, 66-108); VII, 22-24 (Lett. III, Lez. VIII, 22-26); XVI, 94-105 (Lett. VII, Lez. II, 64-136); XXIV, 139-151 (Lett. IX, Lez. IV, 91-138). 16 Cfr. Comento sopra il I canto dell’Inferno di Pier Francesco Giambullari, in [appendice a] M. Barbi, Dante nel Cinquecento, Pisa, Bocca 1890, pp. 365-407, commento a Inf I, 100-111. 17 Cfr. Daniello, commenti a Inf I, 105-106; XX, 64-65. 18 Cfr. Castelvetro, commenti a Inf I, 105; XXII, 66-67; XXVIII, 73-75.
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dell’Italia,19 si trovano diverse occorrenze nei commenti di Landino,20 Gabrielli,21 Vellutello22 e Daniello.23 Tradizioni classica e virgiliana dell’Italia Anche i riferimenti alla tradizione classica e in particolare all’opera virgiliana, sui quali si fondano gli stessi appellativi impiegati da Dante nella sua opera per indicare l’Italia («Terra latina»,24 «Ausonia»,25 «Hesperia»,26 «Latinum»,27 e lo stesso «Italia»),28 paiono essere più o meno esplicitamente condivisi e riconosciuti da Landino,29 Nibia,30 Gabrielli,31 Vellutello,32 Giambullari,33 Gelli,34 Daniello35 e Castelvetro,36 i quali – come Dante – proprio alle tradizioni classica e virgiliana fanno riferimento per l’origine e la storia dell’Italia.
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Si noti in proposito che Gelli cita la riflessione dell’autore a lui pressoché coevo Trissino (Vicenza 1478-Roma 1550) – riportata nel Proemio dell’Italia liberata – riguardo all’elogio dell’impiego da parte di Omero delle similitudini e dei termini bassi, ritenendola quanto mai adatta e conveniente anche al linguaggio dantesco della Commedia, e in particolare a quello adoperato nella descrizione della seconda bolgia dell’ottavo cerchio infernale; cfr. Gelli, commento a Inf XVIII, 106-114 (Lett. VII, Lez. VII, 100-136). 20 Cfr. Landino, commenti a Inf XXXII, 4-9; XXXIII, 79-84. 21 Cfr. Gabrielli, commento a Par III, 63. 22 Cfr. Vellutello, commento a Inf XXXIII, 79-81. 23 Cfr. Daniello, commento a Inf XXXIII, 80. Riguardo alla lingua di Firenze si veda: Gelli, commento a Inf X, 22-27 (Lett. V, Lez. III, 22-93). 24 Cfr. Inf XXVII, 26-27; XXVIII, 71. 25 Cfr. Par VIII, 61; Mon II, XI, 8. 26 Cfr. Mon II, III, 12; Epist VI, 12. 27 Cfr. De Vulg El I, X, 6; XIV, 2; XVI, 6; Epist VII, 5. 28 Cfr. Inf I, 106; IX, 114; XX, 61; Purg VI, 76 e 124; VII, 95; XIII, 96; XX, 67; XXX, 86; Par XXI, 106; XXX, 137; Conv I, V, 9; VI, 8; XI, 1 e 21; II, X [XI], 8; III, XI, 3; IV, V, 6 e 9; VI, 20; IX, 10. 29 Cfr. Landino, commento a Inf I, 106-108. 30 Cfr. Nibia, commento a Inf I, 106-108 («x»-«z»; talune parti di tale commento sono riprese piuttosto liberamente dal quello laneo – cfr. Lana, commento a Inf I, 106-108 –, si tratta tuttavia perlopiù di chiose originali di Nibia, il quale riporta inoltre da parte sua molte citazioni virgiliane, ma anche di Orazio e della Bibbia). 31 Cfr. Gabrielli, commento a Inf I, 106. 32 Cfr. Vellutello, commento a Inf I, 106-108. 33 Cfr. Giambullari, commento a Inf I, 100-111. 34 Cfr. Gelli, commento a Inf I, 106-111 (Lett. I, Lez. VII, 66-108). 35 Cfr. Daniello, commento a Inf I, 106. 36 Cfr. Castelvetro, Introduzione; e commento a Inf I, 107-108. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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Reggimenti politici e scontri tra fazioni presso le città d’Italia e corruzione della chiesa Secondo Dante nella Monarchia ideale, costituita dal Sacro Romano Impero, l’Italia – che pur non viene considerata un’entità politica autonoma – assume un ruolo di notevole rilievo, anche dal momento che ne ospiterebbe la capitale naturale Roma.37 Ma la decadenza dell’Italia, dilaniata da guerre e lotte interne tra le varie fazioni, in particolar modo tra Guelfi e Ghibellini, deriva per Dante proprio dall’impossibilità di esercitare da parte dell’imperatore – o monarca – le proprie funzioni, a causa dell’ingerenza del pontefice che, per cupidigia, esercita il potere temporale oltreché quello spirituale di cui è investito.38 Pertanto l’equilibrio fra i due poteri è saltato, e tale condizione consegue e determina l’assenza di pace in Italia, divenuta quindi «serva»;39 e ancora a livello universale impedisce il raggiungimento delle mete proprie dell’uomo, vale a dire la felicità terrena (il paradiso terrestre) e quella celeste (il paradiso celeste), cui le guide dell’imperatore e del pontefice sono provvidenzialmente e naturalmente preposte.40 A tale concezione dantesca paiono rifarsi alcuni commentatori cinquecenteschi della Commedia, anche per spiegare la condizione politica e religiosa dell’Italia loro contemporanea, e quindi per ricercare le cause delle guerre intestine fra Guelfi e Ghibellini che dilaniano i vari stati italiani, denunciando talvolta la responsabilità della Chiesa di Roma. A partire da Nibia che nella «chiosa di Romagna» (i.e. a Inf XXVII, 37-54), dopo aver ripreso dal commento di Lana la presentazione di figure, avvenimenti e contingenze storiche dell’epoca di Dante, «introduce polemici e risenti paragoni con la situazione politica del suo tempo»,41 la quale è espressamente aggiornata all’anno
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Per una moderna analisi critica della visione politica dantesca dell’Italia e di Firenze rapportata ai successivi sviluppi storici – come la discesa in Italia dell’esercito di dodicimila Lanzichenecchi al servizio di Carlo V e il conseguente sacco di Roma (1527) – si veda: N. Fosca, [‘Divine Commedy” Commentary,] ed. N. Fosca and R. Hollander, electronic text supplied by author: http://dante.dartmouth.edu/, commento a Purg VI, 148-151. 38 Come noto secondo Dante all’origine del potere temporale dei pontefici e quindi delle sciagure dell’Italia starebbe la donazione di Costantino; cfr. Mon III, X, 1; e Inf XIX, 115-117; e ancora Par XX, 55-60 e XXVII, 22-27. 39 Cfr. Purg VI, 76-126. 40 Cfr. Mon I, V, 4-10 e III, XV, 7-12; e anche verosimilmente Purg VI, 19-42. 41 Voce Nibia, a cura di G. Resta, nell’Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana 1970 e 19842, IV, p. 44: «Ancora più rilevante è l’opera dell’editore quattrocentesco [i.e. Nibia] nell’esplicazione di fatti e figure storiche (per cui è adoperato anche il commento di Pietro [Alighieri]), a proposito delle quali il Nidobeato introduce polemici e risenti paragoni con la situazione politica del suo tempo (si veda, per tutte, la chiosa di Romagna, in Inf XXVII)». Il nome dell’Italia intorno al sacco di Roma
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1477 e descritta piuttosto precisamente.42 Effettivamente «Nidobeato» sembra manifestare una certa insofferenza riguardo ai reggimenti politici coevi, in particolare di Faenza, Imola e Cesena, come si evince dall’espressione ironica in cui ne affida ai sudditi il giudizio: Or sappi che[’]n questo 1477 Faenza si trova sotto signoria del miser Carlo di Manfredi. Imola si trova sotto[’]l conte Hieronimo nipote di papa Sisto quarto. Cesena sotto santa Chiesa. Quale mo fosse migliore signoria li subditti forse lo saprebbono dire.43
Ma è Vellutello che nelle discordie e guerre tra chiesa e impero individua la causa della rovina delle città d’Italia, dal momento che in esse tale scontro si ripercuote e manifesta nelle lotte interne tra «parti Guelfe e Ghibelline». Il commentatore considera – nell’ambito del contesto storico, politico e sociale italiano – una vera e propria «pestilentia» tale situazione, che afferma perdurare ancora ai suoi tempi, così da esser ormai tanto «invecchiata» da disperarne la soluzione.44 Vellutello sembrerebbe quindi denunciare più o meno esplicitamente e direttamente la responsabilità della «gente de la Chiesa, come Papi e Cardinali», la quale «tralignava più da’ suoi antecessori, per le ragioni a tutti notissime».45 In quest’ultimo riferimento sarà verosimilmente da riconoscersi proprio l’ingerenza nel potere temporale da parte del pontefice e del clero per avidità e cupidigia. In maniera decisamente più esplicita e diretta Gelli denuncia l’attuale corruzione dello «Stato Ecclesiastico». Il commentatore afferma infatti che oggigiorno la maggior parte di coloro che «s’ingeriscono in maneggiare le cose della Chiesa» sono «grandemente macchiati di questi vizii dell’avarizia e del ragunar denari […] e della prodigalità», e sono divenuti i reggitori stessi dello Stato della Chiesa.46
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Cfr. Nibia, commento a Inf XXVII, 37-54 («i»-«o»). Nibia, commento a Inf XXVIII, 52-54 («o»). 44 Cfr. Vellutello, commento a Par XVI, 58-66: «Dimostra, che le discordie e guerre, le quali furon tra la chiesa e l’Imperio, sono state cagione de la ruina de le città d’Italia, per le parti Guelfe e Ghibelline, che da tali discordie nacquero a principio in quelle, in che tutte si son divise, perché qual favoriva et era ossequente a l’una, e qual a l’altra parte, e quel ch’è peggio, che in una città medesima tra particolari e privati cittadini, era la medesima pestilentia, la qual ancora hoggi dura, che per esser tanto invecchiata è talmente divenuta incurabile, che si dispera de la salute». I corsivi sono nostri. 45 Ibidem. 46 Cfr. Gelli, commento a Inf X, 43-51 (Lett. V, Lez. III, 22-93): «E perché i sacerdoti debbono, come si è detto, essere spiccati e spogliati dalle cose terrene, il Poeta si maravigliò in tal maniera di vederne in quel luogo tanti, che non lo potendo quasi credere, ei ne domandò […] Virgilio. La qual cosa, se il reggimento dello Stato Ecclesiastico era in quei tempi come egli è ne’ tempi nostri, si vede che fu fatta da lui a proposito e ad arte; conciossia che la maggior parte di quei che s’ingeriscono 43
XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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Anche Gelli riferisce delle fazioni in cui era divisa Firenze ai tempi di Dante, le quali afferma che ancora paiono spaccare e frammentare l’Italia intera: È da saper che quelle due parti, che noi chiamammo di sopra la parte bianca e la nera, nelle quali era divisa in quei tempi la città nostra, si chiamavano ancora l’una Guelfa e l’altra Ghibellina; nelle quali due fazioni era in quei tempi, e pare che sia ancora oggi, divisa tutta la Italia.47
Il lettore dantesco quindi procede nella descrizione e definizione di tali fazioni, cioè i Ghibellini e i Guelfi, affermando che al tempo presente essi sostengono, rispettivamente, da una parte la «Casa imperiale» e dall’altra la «Casa di Baviera» e la «parte franzese»: Sono adunque i Ghibellini, e così si vede ancora oggi, quei della Casa e fazione imperiale; ed i Guelfi quei della Casa di Baviera e della parte franzese. Ma o l’una o l’altra di queste origini che abbino avute queste parti, elle sono state perniziosissime a tutta Italia, e particularmente a la città nostra, e massimamente ne’ tempi del Poeta nostro.48
Gelli, come anche Vellutello, si riferisce alla situazione storico-politica contingente in cui l’Italia, già terreno di scontro delle monarchie europee e dopo il Sacco di Roma, presenta un assetto ancora frammentario e instabile.49 Influssi della Riforma protestante in Italia Per altro verso Varchi invoca, prima che sia troppo tardi, provvedimenti urgen-
in maneggiare le cose temporali della Chiesa sieno grandemente macchiati di questi vizii dell’avarizia e del ragunar danari (per veder ch’ei sono oggi diventati in quello Stato il membro principale, e il mezzo secondo il quale si distribuiscono gran parte de’ gradi, e così le grazie, e finalmente si fanno insino a’ Santi, non si potendo eglino, come dicon loro, canonizzare e approbare senza certa quantità di danari), e della prodigalità, perché trovandosi eglino grossissime entrate senza fatica, quei che sono naturati a spendere sono più larghi, che non sono quei che le hanno acquistate con l’opera delle lor mani; ancor ch’ei sieno stati alcuni che abbino voluto attribuire l’avarizia de’ sacerdoti agl’influssi celesti, dicendo che Saturno, che inclina a la religione, inclina ancor similmente a ragunar ricchezze; e la prodigalità di poi a la suntuosità e lascivia delle Corti, la quale si è convertita mediante la consuetudine in natura». I corsivi sono nostri. 47 Ibidem. 48 Ibidem. 49 Cfr. M. Rosa, M. Verga, Storia dell’eta moderna, 1450-1815, Milano, Mondadori 1998; C. Capra, Età moderna, Grassina, Le Monnier 1996; Id., Storia moderna, 1492-1848, Firenze, Le Monnier 2004; G. Ricuperati, F. Ieva, Manuale di storia moderna, Torino, UTET 2006-2008. Il nome dell’Italia intorno al sacco di Roma
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ti da parte di «chi può» a fronte delle note discordie che avvengono ancora presso «tutte le città anzi castella e ville d’Italia»; e ne individua l’origine e la causa nelle dispute in merito al libero arbitrio, alla predestinazione e alla provvidenza non più solo fra teologi e filosofi, ma pure da parte di letterati e uomini volgari.50 Varchi evidentemente con tali dichiarazioni si riferisce agli influssi della Riforma protestante in Italia, nonché plausibilmente anche, in maniera implicita, alle prime spinte e movimenti controriformistici (si pensi particolarmente al Concilio di Trento indetto da papa Paolo II proprio nel 1545 – lo stesso anno delle citate lezioni di Varchi – e conclusosi fra numerose interruzioni nel 1563 con la condanna delle tesi riformiste, anche di quelle più moderate).51 Cangrande «re d’Italia» Sia da parte di Vellutello sia di Gelli (che il primo riprende) viene attribuito un riconoscimento di una certa rilevanza al figlio di Bartolomeo della Scala (che
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B. Varchi, Lezioni sul Dante, in Opere di Benedetto Varchi, Trieste, Dalla Sezione LetterarioArtistica del Lloyd Austriaco 1859, II [p. 398,] commento a Par I, 121-142 (Sopra il primo canto del Paradiso di Dante, [XI] Lez. VIII): «Del libero arbitrio. La quistione del libero arbitrio, ciò è se l’uomo ha la volontà libera di maniera che possa volere e disvolere quello che gli piace più, dipende manifestamente, come può vedere ciascuno, dalla quistione di sopra, ed è non meno d’importanza né meno disputata di quella, e, quello che è peggio, non solamente dai teologi e dai filosofi, ma da tutte le sorti dei letterati, anzi pure da qualunque idiota e vulgare uomo; ed io mi ricordo essendo in Padova, che infino i ciabattini e fruttaruoli, non che i sarti ed i calzolai, erano venuti a tale, dopo le prediche di non so che frate degli Scappuccini, che mai non ragionavano d’altro, ma sempre disputavano della libertà dell’arbitrio e conseguentemente della predestinazione di Dio, della grazia e dell’opere, di maniera che per tutte le città anzi castella e ville d’Italia sono venute quelle dissensioni che ciascuno sa, e s’è ito tanto oltra, che io dubito omai, se non si provvede tostamente da chi può che tutti i rimedi saranno tardi»; e ivi [p. 397]: «Della Provvidenza divina. […] Giovanfrancesco della Mirandola, nipote del dottissimo Pico, pare che creda, o più tosto voglia che altri credano, che Aristotile sia poco meno che d’accordo con i teologi; del che non istaremo a disputare, giudicando che non si possa far cosa né più impossibile né più scandalosa e di maggior danno, che volere accordare in molte cose la Filosofia e la Teologia insieme, ed oserei dire che questo è stato principalissima cagione delle discordie che vivono oggi e d’infinite eresie». 51 Si vedano: M. Firpo, Riforma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento. Un profilo storico, Roma-Bari, Laterza 20088; S. Caponetto, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino, Claudiana 1997; D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento e Prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento, a cura di A. Prosperi, Torino, Einaudi 2002; A. Olivieri, La riforma in Italia. Strutture e simboli, classi e poteri, Milano, Mursia 2010; circa il Concilio di Trento, si veda: A. Prosperi, Il Concilio di Trento e la Controriforma, Trento, UCT 1999. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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ospitò Dante durante l’esilio), cioè Cangrande, celebrato direttamente dallo stesso Dante nella Commedia attraverso le parole di Cacciaguida52 e verosimilmente anche indirettamente nella profezia del veltro.53 I due chiosatori ne testimoniano infatti a posteriori le qualità, le imprese e le potenzialità, fino a rendere testimonianza dell’opinione comune presso gli uomini di quei tempi secondo cui lo stesso Cangrande sarebbe potuto divenire, se solo la prematura morte non lo avesse impedito, «Re d’Italia».54 L’ambito è proprio quello relativo alla profezia del veltro, in cui i nostri commentatori perlopiù riconoscono proprio Cangrande della Scala.55 Peraltro è da riconoscersi decisamente suggestiva l’interpretazione di Gelli, il quale nel nome stesso di Cangrande, che chiama «Messer Cane», indica il legame con il simbolo del veltro, che è proprio un cane da caccia, ragion per cui il «Messer Cane» sarebbe da identificarsi con il veltro dantesco:56 «Onde mantenendosi nella metafora, e accommodando a tal cosa il vero nome d’esso suo figliuolo, il quale era Messer Cane (chiamando noi i cani da caccia veltri) narra in questo luogo con brevi parole».57
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Cfr. Par XVIII, 70-93. Cfr. Inf I, 100-111. 54 Cfr. da una parte Vellutello, commento a Inf I, 110-111; e dall’altra parte Gelli, commento a Inf I, 100-102 (Lett. I, Lez. VII, 66-108). 55 Oltre ai citati Vellutello e Gelli si vedano in proposito anche i commenti di Gabrielli (a Inf I, 101-105), Giambullari (a Inf I, 100-111), Daniello (a Inf I, 101-105) e Castelvetro (a Inf I, 101-111). Fa eccezione Landino (cfr. commento a Inf I, 103-105), il quale fornisce invece una triplice interpretazione del veltro: che si tratti di Cristo venturo; oppure di un principe che rinnovi e restauri la dignità della repubblica cristiana in base a una previsione astrologica che fisserebbe anche un preciso riferimento temporale (il 25 di novembre del 1484 alle ore 13 e 41 minuti); oppure della progenie celeste profetizzata da Virgilio nell’Ecloga IV (4-10: 7) che Dante avrebbe ricalcato nell’oracolo del veltro. Si veda per una moderna sintesi della tradizione critica della questione: N. Fosca, [‘Divine Commedy Commentary’] cit., commento a Inf I, 101105. 56 Presso i commentatatori moderni una simile identificazione nel nome di Cangrande del veltro dantesco è stata menzionata, seppur brevemente e senza darvi troppo credito, da Mestica, Provenzal, Mattalia e Chiavacci Leonardi; solo quest’ultima parrebbe non escludere l’ipotesi; cfr. La Commedia, di D. Alighieri […], esposta e commentata da E. Mestica, Firenze, Bemporad 1921-1922, commento a Inf I, 100-102; D. Alighieri, La Divina Commedia, commentata da D. Provenzal, [s.l.,] Mondadori 1949, commento a Inf I, 101; D. Alighieri, La Divina Commedia, a cura di D. Mattalia, Milano, Rizzoli 1960, commento a Inf I, 101; e D. Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori 19911997, commento a Inf I, 105 (nota integrativa). 57 Gelli, commento a Inf I, 100-102 (Lett. I, Lez. VII, 66-108). 53
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La questione dell’esercito secondo Landino Landino – nell’ambito di un ampio discorso sull’esercito e sulla sua necessaria funzione per il reggimento e il mantenimento dello Stato e in particolare sulla gloria di quello di Firenze dei tempi passati che sconfisse la potente Fiesole – pare riferirsi indirettamente, in una piuttosto esplicita polemica, alla costituzione dei moderni eserciti formati da mercenari e guidati da capitani stranieri.58 Dunque Landino biasima evidentemente simili consuetudini, forse non cogliendo i radicali mutamenti della guerra e degli eserciti tra medioevo ed età moderna.59 Tuttavia l’autore imbastisce una riflessione assolutamente fondamentale circa l’importanza e la formazione degli eserciti presso gli stati d’Italia, la quale più tardi verrà come noto sviluppata da autori quali Machiavelli e Guicciardini. Le insegne nobiliari e la virtù e la cortesia in Italia Gelli nel contesto di una disquisizione sulla fattura delle «armi», vale a dire le insegne nobiliari delle famiglie, contrappone i tempi antichi a quelli moderni, biasimando questi ultimi, particolarmente nell’ambito degli stati italiani. Precisamente dichiara che le insegne nei tempi antichi erano riconoscimenti istituzionali alla virtù degli uomini, che dunque rimanevano a contraddistinguerne le famiglie, e inoltre mostra come esse fossero regolate da precise norme di composizione, per descrivere le quali impiega alcuni versi di autori suoi contemporanei quali Trissino (L’Italia liberata dai Goti X, 866-878) e Alamanni (Girone il Cortese XXIII, 74). Il commentatore dunque asserisce che invece nei tempi moderni «i più da loro» si fanno le insegne senza curarsi delle relative regole, senza alcuna investitura «d’onor publico» e dunque senza merito di virtù.60 Parrebbe peraltro trattarsi in qualche modo della medesima virtù (e cortesia)
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Landino, Introduzione. 2. Apologia nella quale si difende Danthe e Florentia da’ falsi calumniatori: «La quale concordia [tra Firenze vittoriosa e Fiesole conquistata] tanto valse, che ne’ sequenti tempi benché tutta Italia con perpetuo et diuturno diluvio da varie et barbare nationi submersa, et Fiorentia quasi desolata fussi, nientedimeno in brieve tempo mirabilmente crebbe. Non è mio consiglio illustrissimi signor nostri riferire al presente quante volte el nostro exercito, l’exercito vostro dico, non di soldati mercennarii ripieno, ma di vostri cittadini instructo, non da externo capitano guidato, ma da’ suoi prefecti ordinato, riportò amplissime vittorie, con le quali e brevissimi confini dilatò». 59 Si veda in proposito almeno: C. Capra, Età moderna cit., pp. 104-105. 60 Cfr. Gelli, commento a Inf XVII, 52-57 (Lett. VII, Lez. IV, 37-60). XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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che anche Castelvetro nel suo commento (a Inf XVI, 70-72) lamenta al presente bandita «dalla nostra patria».61 Come evidente nei menzionati commenti danteschi vengono affermate considerazioni e riflessioni talvolta forse non esattamente ineccepibili circa l’analisi della realtà storica contingente, o perlomeno non proprio corrispondenti alle interpretazioni della storiografia moderna. Simili testimonianze risultano tuttavia fondamentali per il nostro studio poiché manifestano il punto di vista di questi intellettuali di fronte al reale svolgersi degli eventi loro contemporanei in Italia, espresso attraverso gli spunti offerti dai loro stessi commenti alla Commedia, se non talvolta anche attraverso il filtro della concezione e dell’ideologia dantesche.
61 Cfr. Castelvetro, commento a Inf XVI, 70-72. Per «nostra patria» sarà da intendersi Firenze, cfr. sopra.
Il nome dell’Italia intorno al sacco di Roma
GIORDANO RODDA L’italianità dell’‘Orlandino’ di Teofilo Folengo
«Dov’era il Folengo, chiuso forse a Mentana, quando precipitò la catastrofe che all’intelligenza italiana apparve il flagello mandato da Dio a percuotere nel suo centro indegno il secolo peccatore e una minaccia di naufragio per le lettere e per la civiltà: il sacco di Roma del 1527?».1 La domanda del Billanovich riguarda uno dei periodi più convulsi della vita di Teofilo Folengo. Solo due anni prima l’autore delle Macaronee era stato infatti costretto a lasciare la congregazione benedettina per riparare a Venezia. Nella città lagunare Luigi Grifalcone, allievo del Pomponazzi, lo aveva presentato a Camillo Orsini, governatore di Bergamo; del figlio Paolo l’ex benedettino divenne il precettore. Dov’era Folengo nel 1527? Ancora oggi la domanda fatica ad avere una risposta univoca. Il biennio ’26-’27 fu trascorso prevalentemente nei circoli culturali veneziani ma anche al seguito dell’Orsini, condottiero valoroso che diede prova della sua capacità di comando contro i Lanzichenecchi di Georg Frundsberg, da lui fermati a Lonato nel 1526 – gli stessi, com’è noto, che poco dopo avrebbero colpito a morte Giovanni dalle Bande Nere. L’anno successivo l’Orsini si precipitò a difendere Roma minacciata e Clemente VII, riuscendo a salvarsi per miracolo dal disastro.2 Teofilo si era probabilmente fermato un po’ prima; se non proprio a
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G. Billanovich, Tra Don Teofilo Folengo e Merlin Cocaio, Napoli, Pironti 1948, p. 124. Secondo la Vita dell’Orologi, «Combattè egli con molto valore, e ributtò i nemici, avendo loro tolte due insegne. Ma sentendo poiché di già erano entrati dentro d’altra parte, e che non v’era più tempo da difesa, tentò di salvarsi uscendo dalla città per un condotto di sporcitie, e non sapendosi nuova alcuna di lui, fu con grandissimo cordoglio della moglie e di tutti i suoi cercato fra corpi morti, dandosi ogn’uno a credere che in quel primo impeto fusse stato ammazzato da’ nimici», G. Orologi, Vita dell’illustrissimo signor Camillo Orsino, Venezia, Giolito 1565, pp. 22-23. 2
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Mentana, comunque a una distanza sufficiente per assistere alla disfatta delle truppe papaline. A cavallo di questi due anni tumultuosi Folengo pubblica l’Orlandino e il Chaos del Triperuno. Il secondo è con ogni probabilità l’opera più oscura e complessa del mantovano, mentre l’Orlandino ha trovato la sua valutazione critica come testo impregnato di polemica religiosa, non di rado sorprendente per la sua spregiudicatezza.3 L’allegoria scoperta (con accenni a Lutero ed Erasmo e perfino al Beneficio di Cristo) e gli attacchi alla curia sono tanto diffusi tra le ottave del poema da catalizzare inevitabilmente l’attenzione. Eppure i temi dell’Orlandino sono molteplici, sempre legati tra loro in un complesso rapporto di reciprocità; tra questi spiccano in particolar modo un patriottismo forse insospettabile in un autore tanto dissacrante, il dolore per le sorti d’Italia, l’odio per lo straniero invasore. Teofilo conosce bene gli orrori della guerra. Da Sant’Eufemia ha visto Brescia messa a ferro e fuoco da Gaston de Foix nel 1512 e gli echi dell’esperienza risuonano nel Baldus come nella Zanitonella. La fede e il terribile momento storico rappresentano facce diverse della stessa medaglia in un secolo considerato ormai, e non solo dal benedettino, come l’apogeo del degrado civile e spirituale. Ne è un’ulteriore conferma il rapporto con l’Orsini, condottiero ma anche personalità religiosa di rilievo e consigliere di vescovi, poi sbeffeggiato dall’Aretino in un sonetto proprio per il suo animo bigotto.4 Il primo ad analizzare compiutamente i risvolti patriottici in Folengo fu Luigi Messedaglia, autore di una completa rassegna dei passi in questo senso più significativi;5 e non stupisce che a farla da padrone sia proprio l’Orlandino. La trama dell’opera di Limerno Pitocco – questo il nom de plume scelto per l’occasione da Teofilo – si rifà ai Reali di Francia e riguarda l’infanzia di Orlando, che diverrà poi quella di Baldo nelle Macaronee. La polemica contro i francesi e l’insistenza nel proclamare l’italianità di Orlando e Milone meritano osservazioni più approfondite, anche considerando che lo spirito campanilista si innesta sovente sulla polemica linguistica, viva e importante tanto che Mario Pozzi si è basato proprio sull’Orlandino per delineare la «rivolta» folenghiana contro il toscano.6 Già nella dedica a Federico Gonzaga Limerno infatti proclama:7
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L’analisi fondamentale di questo periodo della biografia folenghiana (soprattutto per quanto riguarda la riflessione religiosa e le sue implicazioni su Orlandino e Chaos) è Folengo e le sue «scorte», in M. Chiesa, Teofilo Folengo tra la cella e la piazza, Alessandria, Ed. Dell’Orso 1988, pp. 52-112. 4 Cfr. Il sacro sancto sier Camill’Orsino, riportato da A. Luzio, Nuove ricerche sul Folengo, in «Giornale storico della letteratura italiana», XIV (1889), p. 367. 5 Italia e stranieri nel pensiero del Folengo, in L. Messadaglia, Vita e costume della Rinascenza in Merlin Cocai, Padova, Antenore 1974, pp. 3-44. 6 M. Pozzi, Teofilo Folengo e le resistenze alla toscanizzazione letteraria, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLV (1978), pp. 178-232. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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pur saper de’ ch’io son di Lombardia e ch’in mangiar le rape ho del restio; non però, se non nacqui tosco, i’ piango; ch’anco lo ciatto gode nel suo fango. (I 7, 5-8)
Ma al di là di queste baruffe, il vero nemico – quello che rischia di rendere del tutto inutili le polemiche letterarie – arriva dall’esterno. Folengo non ha intenzione di rimarcare le divisioni d’Italia, da lui sempre confinate in un ambito garbato e ironico: le «gran parti» sono infatti ciò che impedisce agli eredi dell’Impero di cacciare gli invasori, e l’azione più riprovevole per un italiano è proprio l’appello (com’è noto, tristemente frequente) a sovrani stranieri perché diano manforte nelle lotte intestine. Nel secondo capitolo la sifilide, il mal francese, viene usato con ben maggior violenza come metafora dell’invasione d’oltralpe: Per me un sol contento si desia, che ’l cancaro mangiasse il Taliano, il qual, o ricco o povero che sia, desidra in nostre stanze il tramontano. (II 4, 3-6)
Significativa è la risposta di Rampallo alle accuse di Berta dopo la scandalosa giostra burlesca dei paladini di Carlo. Questo episodio tanto ispirerà Tassoni nella Secchia ed è sovente citato come uno dei più icastici momenti di abbassamento carnascialesco all’interno dell’intero Orlandino: il basso corporeo, il campo semantico del rifiuto e dell’escremento, la parodia (le stoviglie come armatura, gli asini in preda ai bollenti spiriti per destrieri), tutto contribuisce a inserire in un’inedita dimensione ridicola la società dei cavalieri (senza però quegli elementi di prosperità e di rinascita che porta con sé il basso corporeo in Rabelais),8 seguendo uno spirito eroicomico che – come sempre in Folengo – non può però esaurirsi nella semplice ricerca del riso. Secondo Berta …pel vostro supé ben spesso accade ch’Italia vi ritien nel fil di spade. (II 52, 7-8)
Il supé, la cena ovviamente pantagruelica, sta alla base della decadenza delle
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L’edizione di riferimento è T. Folengo, Orlandino, a cura di M. Chiesa, Padova, Antenore 1991. 8 Si veda naturalmente M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi 1979. Il nome dell’Italia intorno al sacco di Roma
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virtù guerriere.9 A questo punto Limerno si trova di fronte a un problema di coerenza: per celebrare l’italianissimo Orlando – e Milone – è necessario pagare omaggio anche alla nobiltà dei paladini di Francia e soprattutto dello stesso Rampallo, che sarà strumentale nell’amore tra i genitori del futuro paladino. La soluzione del dilemma è negare contro ogni evidenza l’attuale sangue francese dei cavalieri di Carlo, rifacendosi a un’origine più nobile e antica. Se noi «baghe di vino» e «bottaglioni» chiamano, dican questo a quei di Franza, perché di Carlo e’ duodeci baroni sono, for che la stirpe di Maganza, scesi da Roma, da que’ Scipioni, Corneli, Fabii, o d’altra nominanza, che Cesar, espugnando questa parte, lasciòvi assai del popolo di Marte; e di cotesto poscio farvi fede col testimon del vescovo Turpino, ch’un libbro vecchio e autentico possede lo qual Silvestro scrisse a Costantino, ove la nostra origine si vede: Mongrana, Chiaramonte e di Pipino. Non siamo ispani, franchi né alemani, non arabeschi no, ma taliani. (I 57-58)
A spiccare è soprattutto Chiaramonte, la stirpe di Milone nonché quella di Orlando, italiano quindi sia per nascita (Sutri, come si vedrà) che per discendenza. Il francese Rampallo proprio non ci sta a essere contato nel novero di «quei di Franza» e prorompe in un appello accorato: Italia bella, Italia fior del mondo, è patria nostra in monte et in campagna, Italia forte arnese che, secondo si legge, ha spesso visto le calcagna dell’inimici, quando a tondo a tondo
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La celebrazione del cibo, anche nel Baldus, è sempre in qualche modo a doppio taglio. «Sotto la maschera di Merlino, uno dei messaggi che don Teofilo vuole comunicare è la moderazione nel cibo, la sobrietà […] Se Merlino può esser ascritto alla «macaronea secta», don Teofilo fa invece espressamente professione di sobrietà», M. Chiesa, Don Teofilo della sobrietà, in Il Parnaso e la zucca. Testi e studi folenghiani, a cura di M. Chiesa e S. Gatti, Alessandria, Ed. Dell’Orso 1995, p. 188. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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ebbe talor Tedeschi, Franza e Spagna; che, se non fusser le gran parti in quella, dominarebbe il mondo Italia bella. (II 59)
Va segnalata l’assenza al «giostrar mendace» di Milone, che non prende parte al combattimento in groppa agli asini evitando così di macchiare il proprio blasone; la disobbedienza a Carlo arriva anzi a conferirgli un’aria da pari e non da sottoposto, laddove Rampallo è il fedele interprete della volontà regale, per quanto imperscrutabile. Si è detto più sopra che lingua e politica sono profondamente legati nell’Orlandino. Sul piano linguistico, il desiderio di unità e la rivendicazione di una parità culturale si rifanno al passato classico. Folengo vede diffondersi il pericolo di un’imposizione della maniera petrarchesca, che peraltro sa maneggiare con abilità, come dimostrano tanti suoi sonetti (di cui l’autore fittizio è proprio Limerno, diventato personaggio) nel Chaos. Ma per lui il fulcro dell’italianità è ancora a monte, in un pantheon personale che non teme liste di proscrizione: Dante, che di Petrarca «vola più alto» e viene chiamato «Omer toscano», così come Virgilio è l’«Omero mantovano». Omero è quindi il denominatore comune di due autori fondamentali per Teofilo, nati in Lombardia e in Toscana ma ugualmente italiani e protagonisti di una tradizione di cui anch’egli vuole far parte e proclamarsi erede.10 La loro influenza è chiara anche nello stesso Orlandino, sia nell’atto di fondazione di Milano da parte di Milone sia, per fare solo un esempio, nella chiara eco di Purg. VI, 76-78: Però l’Italia non più Italia appello, ma d’ogni strana gente un bel bordello. (I 43, 7-8)
Questo richiamo alle origini – lo dimostrano gli studi del Goffis11 – per Teofilo
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Non a caso Francesco De Sanctis citerà proprio Folengo come autore più vicino a Dante nel celebre capitolo XIV della sua Storia. «Questo realismo rapido, nutrito di fatti, sobrio di colori, fa di Merlino lo scrittore più vicino alla maniera di Dante», F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di Niccolò Gallo, Milano, Mondadori 1991, pp. 473-474. Sul dantismo di Folengo cfr. E. Faccioli, Dante nel Folengo, in Cultura letteraria e tradizione popolare in Teofilo Folengo, Milano, Feltrinelli 1979, pp 136-152. A proposito invece dei debiti di Teofilo verso Virgilio cfr. fra gli altri G. B. Perini, Vita di Merlino e vite virgiliane, in «Quaderni Folenghiani», I, Padova, Imprimitur 1995, pp. 43-54 e S. Gulizia, All’ombra del faggio: il preso della tradizione virgiliana nella formazione del mondo macaronico, in «Quaderni Folenghiani», II, Padova, Imprimitur 1998, pp. 219-234. 11 In particolar modo Limerno, pitocco evangelico, in C.F. Goffis, Roma, Lutero e la poliglossia folenghiana, Bologna, Patron 1995, pp. 59-72. Il nome dell’Italia intorno al sacco di Roma
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va applicato anche e soprattutto in campo religioso: proprio dopo il proclama di ammirazione per Dante si innesta infatti un’ambigua dichiarazione che appare un’esaltazione della patristica, riportata in auge dalle tradizioni erasmiane, rispetto agli sterili dibattiti della Scolastica tante volte messi in ridicolo nel Baldus: lode di Dante non biasman Francesco; credil a me, se Scotto e san Tomaso ebber l’onor dinnanzi, or un Tedesco, o sia di Franza, Erasmo, aperse il vaso (III 20, 2-5)
Malgrado l’eterodossia delle posizioni, sia in politica che in religione Folengo rimane un laudator temporis acti. Anche dal punto di vista linguistico il macaronico non funge tanto da proposta per il futuro quanto da sarcastico e disperato richiamo al passato, alla purezza del latino aureo, alla tradizione dei dialetti settentrionali destinata all’oblio.12 Chiusa questa parentesi, Limerno/Teofilo ritorna alla descrizione di una giostra ben più violenta della prima, «il vero» dopo il «giostrar mendace»: i maganzesi, proverbialmente traditori, congiurano contro Carlo e trasformano in una vera battaglia la sfida con le lance che dovrebbe essere innocua «per servar tra soi baroni pace». En passant l’autore non si fa sfuggire un rilievo di gusto campanilista: trenta Lombardi e trenta Maganzesi correndo fan di polve l’aere bruno. Ma di Maganza vinti son distesi e di quel scorno ride ciascaduno; sol de’ Lombardi cinque Novaresi, tre Bergamaschi e da Cremona un paro non ebber al cascar alcun riparo. (III 25, 2-8)
La lotta si conclude con Milone che, potendo finalmente combattere in un contesto adeguato, viene convinto a riprendere le armi e fa strage dei suoi nemici. Il quarto capitolo – centro del poema e momento del concepimento d’Orlando – si apre con un banchetto, logica conseguenza della vittoria militare di Milone (e
12
Cfr. M. Chiesa, Il Parnaso e la zucca. La letteratura secondo Folengo, in Teofilo Folengo nel quinto centenario della nascita, (1491-1991), Atti del Convegno Mantova-Brescia-Padova 26-29 settembre 1991, a cura di G. Bernardi Perini e C. Marangoni, Firenze, Olschki 1993, pp. 49-58, e in particolare sull’Orlandino l’introduzione a T. Folengo, Orlandino, a cura di M. Chiesa cit., pp. VII-XLIII. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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infatti le cucine risuonano come «un campo d’arme quand’è rotto»); questo intermezzo cortese mostra ancora uno stile sottilmente allegorico, che prende spunto da una nota di costume all’apparenza innocua per nascondere una violenta polemica antifrancese. Si parla infatti dell’uso di Francia di frequentare le dame con molta disinvoltura, senza lesinare neppure i baci, approfittandosi del confine labile tra lecito e illecito del corteggiamento cortese: un costume che …molto par di strano in queste nostre parti al Taliano. (IV 50, 7-8)
Un nostro compatriota, vedendo al ritorno a casa sua un Francese nell’atto di baciare sua moglie, non esiterebbe a farsi giustizia da sé pugnalando il rivale; ma è facile capire a che cosa alluda realmente Folengo quando l’offeso grida, prima di sferrare il corpo mortale, Perché farti signor de l’altrui spoglie? (IV 51, 4)
L’allegoria è anche qui scoperta: e infatti «mecco», cioè adultero, «lo Talian vol esser, e non becco», ancora un richiamo alla passata grandezza d’Italia e al suo ruolo naturale di conquistatrice, non di conquistata. Milone dà inizio alla sua fuga insieme a Berta e si scaglia contro i Francesi, ormai dall’altra parte della barricata e definiti …quelle genti al mondo nate per tradir sempre et ingrassar la terra di sangue et ov’è pace porvi guerra. (V 26, 6-8)
Il tradimento, legato alla sfera dell’onore e dell’amore nonché peccato supremo, è il tratto saliente dei nemici, contro il quale nemmeno l’autorità del giusto Carlo può nulla: Milone ignora deliberatamente i richiami del re e massacra gli avversari fino a quando viene bandito. Limerno ne approfitta per evocare uno spettacolo visto probabilmente nella capitale in gioventù e prima dell’ingresso in monastero, quando …un leon tra cani vidi cacciarsi sotto Giulio a Roma, smembrandovi mastini, bracchi, alani con la virtù sì altera e mai non doma (V 27, 1-4)
È il topos arcinoto del nobile animale (toro, leone) accerchiato dai cani e che si
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dibatte furiosamente; lo stesso Folengo ne farà ancora uso nella sua opera.13 Qui, però, lo stilema in qualche modo si attualizza con un riferimento alla personalità dell’autore e a un momento storico ben definito: valutando il riferimento precedente alla codardia e all’indole traditrice dei soldati di Carlo, l’immagine – non è la sola – funge quasi da oscura prefigurazione dello stesso sacco di Roma. Viene citato Giulio II, per eccellenza il papa guerriero e l’animatore della prima Lega Santa, di cui si sperava che Clemente VII fosse il continuatore; e come un «leon tra cani» combattè l’Orsini prima di essere costretto a fuggire dalla città tramite una via fognaria. Man mano che il poema si avvicina al suo momento cruciale, la nascita d’Orlando, il tono tende a farsi più regolarmente encomiastico e raggiunge il suo culmine nell’orazione di Atlante, al cui cospetto è giunto Milone. Il capitolo sesto (proprio come i canti nella Commedia) è di gran lunga quello dove il tema politico si presenta con maggior forza: la naturale conseguenza della vicenda raccontata da Limerno è ora l’aggancio delle stirpi più nobili d’Italia – i Colonna, gli Orsini, gli Este e i Gonzaga – rispettivamente a Orlando, Rinaldo, Ruggiero e Guidon Selvaggio. A quest’ultimo spetta il compito di riportare Mantova all’antica gloria: Mantoa famosa per il primo vate, ma più famosa pei trofei e spoglie che riportar in lei Gonzaga deve dal Gange al Nilo et iperborea neve. (VI 29, 5-8)
Poco dopo Milone arriva, da solo, proprio in Italia, mentre su una barchetta Berta disperata si raccomanda a Dio con preghiere ispirate alle tesi dei riformatori – «mercé ch’era tedesca», precisa Limerno – come ti faccio voto non prestar mai fede a ch’indulgenzie per dinar concede! (VI 45, 7-8)
Con feroce sarcasmo Folengo fa notare che, contrariamente a quanto sarebbe lecito aspettarsi, Non volse Dio però guardar a quella perfidia d’una donna d’Alemagna; ma fece che con lei la navicella pervenne ove le ripe l’onda bagna. (VI 47, 1-4)
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Ad esempio nel libro XI del Baldus: «Quali cum furia taurus sub amore amore vedellae,/quando canegiatur mastinis undique grossis,/nunc pedibus spolpat, nunc illos cornibus urtat», T. Folengo, Baldus, libro XI, vv. 265-267, Torino, UTET 2006, p. 498. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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Nella stessa ottava Berta attraversa Lombardia e Toscana (ancora una volta i due poli simbolici della penisola) per arrivare fino a Sutri, dove infine si prepara a dare alla luce Orlando. Come nel Baldus, il parto avviene grazie all’intervento di un personaggio di grande umiltà – in questo caso un pecoraro, nella Macaronee il contadino Berto Panada – che dimostra però «somma cortesia» ed è incidentalmente il primo italiano incontrato dai protagonisti. Ma non è ancora finita: le ottave successive rappresentano infatti la più fiera rivendicazione di orgoglio nazionale contenuta nell’Orlandino. Dopo la digressione sul parto, che al pari dell’opera maggiore presenta i temi di povertà evangelica ispirati alla Natività, i grandi eventi della politica e della guerra tornano alla ribalta. Spaventato da Carlo, Re Desiderio manda un messaggio ad Agolante per un’alleanza che permetta di …farsegli compagno, e Italia poi soggiugar tutta a’ Longobardii soi (VI 52, 7-8)
Ben diverso è il comportamento di Milone. Egli non ha volontà di conquista di terre altrui, e anzi, in un inedito ruolo a metà tra l’eneico e il messianico, fonda una nuova civiltà traendo da un buio metaforico i suoi abitanti. E come qui Milone capitando trovò sotto Appennino entro le grotte un popol infinito, ch’aspettando dal Ciel aiuto, s’erano ridotte per trarsi omai dissotto a quel nefando re Desiderio e darli tante botte che sia poi specchio agli altri tramontani che non s’impaccian mai con Taliani. Quivi Milon, orando lungamente, trasseli for di tenebre a la luce; la qual ben ordinata e bella gente in un vallon de Insubria ricconduce; e come una citade grossamente edificaro e di Milon suo duce le diero il nome; dopo il volgo insano non più Milon, ma l’appellòr Milano. Quel gran Milan, ch’a tradimento e forza vien tolto spesso da li tramontani al nostro talian signore Sforza, onde sempre con loro siamo a le mani, facendoli lasciar drieto la scorza, che poi mangiati son da lupi e cani; e ben scriver si pote su le mura:
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Italia barbarorum sepultura. (VI 53-55)
È evidente la fusione tra motivo politico e motivo religioso, che dimostra per l’ennesima volta come nell’Orlandino (e per Folengo) questi non siano soltanto due diverse sfaccettature della stessa poetica, quanto piuttosto l’uno il riflesso terreno dell’altro. C’è ancora Dante. E per conferma, nelle ottave successive viene evocato il Giorno del Giudizio, quando «Sguizeri, Francesi, Tedeschi, Ispani e d’altri assai paesi» – cioè più o meno tutte le etnie dei mercenari che in quegli anni stavano devastando l’Italia, ma non gli stessi «Taliani» – verranno ridotti a un inestricabile miscuglio d’ossa, dalla quale usciranno poi trasformati loro malgrado con …gambe de boi, teste di muli, e d’asini le schiene, sì come a l’opre di ciascun conviene. (VI 57, 5-84)
Il capitolo successivo, che ha per tema la nascita e l’infanzia di Orlando futuro «senator romano», comincia con una sorta di parziale ricusazione delle ultime atmosfere luterane, anche tramite una condanna dei volgarizzamenti biblici all’apparenza poco coerente ma che va probabilmente ricollegata all’inquieta spiritualità di Folengo, sempre in movimento e incapace di trovare un porto sicuro e definitivo: così come la sua proposta di lingua, almeno a giudicare dai ripensamenti e i dietro-front che portano dalla redazione Toscolanense delle Macaronee fino alla Vigaso Cocaio, passando per la Cipadense.14 In verità, il settimo e soprattutto l’ottavo capitolo (la «gionta» di Griffarosto) presentano un numero di accenni politici minore rispetto al sesto, ma tutti di non poco conto: il giovane Orlando, vera testa calda infervorata dai racconti su suo padre come il suo omologo Baldo nelle Macaronee, promette di …cacciar fora Carlo del mondo, non che d’Anglia e Franza, e bever tutto il sangue di Maganza. (VII 32, 6-8)
Orlando ha quindi un doppio ruolo, da un certo punto di vista la personificazione di questo confondersi del motivo religioso con quello politico: da una parte è figlio di Milone, come rivendica orgogliosamente: 14
«nella storia personale di Folengo scrittore è da riconoscere il segno lasciato dalla chiusura bembiana della questione della lingua […] La scoperta che la letteratura volgare ha preso una strada alta e diversa (e percorribile per via di grammatica e di imitazione, dunque difficile da battere, quasi come quella latina) è stata fatta e verificata», L. Curti, Sul macaronico, in Teofilo Folengo nel quinto centenario della nascita cit., pp. 181-182. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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Io son d’italiano sangue nato, e la mia casa «Chiaramonte» appello. (VII 61, 5-6)
Dall’altra è figlio di Berta, «todesca» e portatrice di istanze religiose eterodosse. La semplicità evangelica e la prospettiva luminosa di un futuro guerriero arrivano a una sintesi, un po’ come nel pio condottiero Camillo Orsini. Lampante, a questo proposito, la conclusione dell’episodio in cui il futuro paladino prende a bastonate un frate che non voleva donargli del pane per sfamarsi e per punirlo gli ruba tutto il cibo che portava. Quando Berta, ignara della sua provenienza, manifesta il proposito di donare parte di quel ben di Dio al monastero, la risposta di Orlando è sferzante: Più tosto – parla Orlando – vo’ ch’i tarli lo rodino che darne un bocconcello a frate alcuno […] Fa’ ciò che ’l tuo figliolo ti consiglia; e se ti voglion predicar la fede, dilli che ’l laico più del frate crede. (VII 56-57)
«’l laico più del frate crede»: affermazione di gusto amaro, scritta com’è da un ex benedettino (sia pur attraverso il filtro del «pitocco» Limerno, erede dei cantori di piazza). A conclusione dell’ottavo capitolo e del poema, dopo la lunga novella di Griffarosto che rappresenta la polemica finale contro l’avidità ecclesiastica, Limerno chiude frettolosamente le fila della vicenda con un breve riassunto del racconto di Turpino: il ritorno di Milone, la rovina di Chiaramonte (con un ulteriore affettuoso omaggio a Virgilio) e soprattutto un’altra immagine che profetizza quel fatidico giorno del 1527: …in Roma il giovenetto Almonte entrò col gran triunfo di vittoria; e come né per pianto né per monte non era più di cristian memoria (VIII 91, 1-4)
Solo un anno dopo – forse a Mentana, forse altrove – a Teofilo toccherà assistere alla stessa scena. In quei giorni tragici è possibile che in lui cominciassero a germogliare sia il desiderio di rientrare tra i benedettini che la volontà di temperare la violenza espressiva del Baldus: in altre parole, la rinuncia a molte delle speranze per una lingua diversa, per la fede evangelica, per la gloria d’Italia.
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MARCO LAZZERINI L’Italia «lacerata e distrutta» nel corpus epistolare di Baldassarre Castiglione
Le lettere private e pubbliche di Baldassarre Castiglione, redatte in un periodo compreso tra il 1497 e il 1528,1 anno antecedente a quello della sua morte, avvenuta a Toledo il 02 febbraio 1529, favoriscono, anzitutto, un’approfondita comprensione della personalità del loro autore, di cui testimoniano tanto la sensibilità affettiva nelle questioni concernenti i suoi rapporti con i parenti più intimi, quanto la sua acutezza politica e diplomatica, la sua passione civile, la sua fervida coscienza delle responsabilità connesse al proprio ufficio di uomo di corte; nel contempo, però, l’epistolario giova, altresì, alla definizione del quadro delle forze politiche, militari, culturali e sociali dominanti sulla scena italiana ed europea del tempo, fornendo dell’Italia un prospetto che conferma la drammaticità della situazione pe-
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La prima iniziativa mirante a raccogliere le numerose lettere di Baldassarre Castiglione, da intendersi come esercizio pressoché quotidiano, al fine di mantenere la comunicazione sia con i parenti più vicini, per la risoluzione di interessi e questioni concernenti la vita famigliare, sia con i principi e le cancellerie, per fornire e ricevere le informazioni indispensabili allo svolgimento della professione diplomatica, risale a suo figlio primogenito, il conte Camillo, intorno al 1570. Il progetto viene, poi, ripreso nel Settecento, grazie al cardinale Silvio Valenti Gonzaga, segretario di stato del pontefice Benedetto XIV, il quale, ottenuti dagli eredi di Castiglione i manoscritti in loro possesso, affida all’abate Pierantonio Serassi la realizzazione di una edizione sistematica delle lettere, che appare, in due volumi, tra il 1769 e il 1771 (L’edizione di riferimento è la seguente: Lettere del conte Baldessar Castiglione, ora per la prima volta date in luce e con l’Annotazioni Storiche illustrate dall’abate Pierantonio Serassi, voll. I-II, Padova, Giuseppe Comino 1769-1771). Vengono così alla luce 322 missive. Se ne aggiungono, poi, un’ottantina alla madre Aloisia, pubblicate nel 1969 da Guglielmo Gorni (B. Castiglione, Lettere inedite e rare, a cura di G. Gorni, Milano, Ricciardi 1969). Infine, nel 1978, Guido La Rocca, al termine di una lunghissima ricerca, appronta una nuova edizione, in cui sono raccolte 540 lettere, relative al periodo 1497-marzo 1521 (B. Castiglione, Le lettere, a cura di G. La Rocca, in Tutte le opere di Baldassarre Castiglione, vol. I, Milano, Mondadori 1978). Il nome dell’Italia intorno al sacco di Roma
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ninsulare da lui stesso lamentata nel IV libro del Cortegiano, summa dell’eleganza letteraria dell’umanesimo, ma anche paradigma del trapasso epocale del mondo che celebra, allorquando egli afferma che il nome italiano «è ridutto in obbrobrio»2 (Cortegiano, IV, 4), a causa di quel periodo che, principiato con la morte, nel 1492, di Lorenzo il Magnifico, e con la discesa, nel 1494, di Carlo VIII in Italia e perpetrato, poi, con le successive lotte nella penisola per il predominio tra Francia e Spagna, era considerato l’epoca delle Guerre horrende de Italia, come recitava il titolo di un anonimo cantare cinquecentesco.3 In aggiunta alla sua importanza letteraria, l’epistolario del Castiglione è, quindi, anche una preziosa testimonianza della crisi italiana, causata, in primo luogo, dal sopraggiungere delle truppe straniere in Italia, che rievocano alla mente dell’autore, lucido testimone del contrasto tra i valori dell’antichità e la realtà contemporanea ormai in procinto di volgere al tramonto, le remote invasioni barbariche e le glorie di Roma, ridotte in macerie a causa delle invasioni medesime. Difatti il giovane Baldassarre, inviato dal marchese Federico Gonzaga a Roma nel 1519 come plenipotenziario, dove si rivelerà un abilissimo diplomatico riuscendo a ottenere il riavvicinamento fra il papa e i Gonzaga, rimane impressionato dalla città, nettamente incomparabile con le realtà di cui, fino a quel momento, ha fatto esperienza presso le corti di Milano e di Mantova; tuttavia, già in una lettera alla madre Aloisia Gonzaga, datata 16 marzo 1503, in cui ricorre l’esclamazione «gran cosa è Roma!»,4 relativa a un suo primo viaggio nella città in qualità di componente di una missione diplomatica, il Castiglione presentava la sede papale come il cuore vivo di quella tradizione classica e umanistica a cui è stato educato, ma anche come il baricentro di quelle relazioni politiche e diplomatiche verso le capitali degli Stati italiani e delle grandi monarchie europee. L’attenzione rivolta dall’autore alla Roma dei papi, oltre a essere una valida occasione per riflettere sulla fugacità del tempo e sulla trascorsa grandezza, emergente anche nel sonetto Superbi colli e voi, sacre ruine, è anche un’efficace opportunità per esternare il lamento nei confronti delle devastazioni perpetrate dai barbari ai danni dei monumenti della Roma classica. Proseguendo, in tal modo, una tematica già affrontata nel Roma triumphans del forlivese Flavio Biondo, il Castiglione, nella nota lettera a Leone X, databile al 1519, scritta insieme a Raffaello Sanzio e incentrata sul tema della conservazione delle vestigia dell’antica Roma, sostiene che gli splendidi monumenti e le meravigliose opere romane «furono dalla scellerata rabbia e crudele impeto de’
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B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di A. Quondam, Milano, Garzanti 1981, p. 367. 3 J. Guidi, Castiglione et les guerres d’Italie, in «Chroniques italiennes», LXI (2000), 1, pp. 17-26. 4 B. Castiglione, Le lettere cit., p. 17. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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malvagi uomini, anzi fiere, arse e distrutte».5 La questione, agli occhi di Castiglione, che vede così contrapporsi la civiltà romana, emblema di una società avanzata e acculturata, con quella degli invasori, paradigma, invece, di una cultura selvaggia e primitiva, dalla quale non può che derivare il rapido decadimento di tutte le arti, assume però scottante attualità, soprattutto in vista delle più recenti invasioni in Italia, a opera degli eserciti francesi e spagnoli, definiti dal contemporaneo Ariosto come «lupi arrabbiati»6 (Furioso, XVII, 3, 8), «lupi di più ingorde brame» (Furioso, XVII, 4, 3), «populi di noi forse peggiori» (Furioso, XVII, 5, 2), «fameliche, inique e fiere Arpie» (Furioso, XXXIV, 1, 1). L’effetto di queste devastazioni, come le conseguenze della scellerata rabbia e del crudele impeto dei popoli invasori che condussero alla caduta dell’Impero romano d’Occidente, non può che essere, allora, l’imbarbarimento della nazione, con la perdita dell’ingegno e di ogni ricordo dei passati splendori. Difatti, il Castiglione, giunto a Milano per compiere il suo tirocinio di umanista e cortigiano presso la splendida corte sforzesca, nel periodo dell’ingresso del sovrano francese Luigi XII e dei suoi soldati in città, fornisce al cognato Girolamo Boschetto, nell’epistola datata 8 ottobre 1499, un dettagliato resoconto dell’accaduto: La piacia era carica di gente, e lì dove passava la Sua Maiestà era fatto una strata de guasconi, balestrieri a piedi, armati cum celata da coppa e quelli vestitelli, ma non recamati. Quelli guasconi sono homini di poca statura: li arcieri poi sonno molto corpulenti. In questa pompa entrò la Maiestà del Re di Francia nel Castello de Milano: già receptaculo del fior de li homini del mundo, adesso pieno di bethole e perfumato di ledame.7
Spicca in questo estratto, innanzitutto, la meticolosa registrazione delle vesti e delle armi peculiari dell’esercito conquistatore, con una nota di implicito sarcasmo relativa agli arcieri corpulenti e ai guasconi dalla bassa statura. Tale estratto epistolare, benché possa apparire una semplice descrizione dell’esercito francese, è in realtà di estrema rilevanza, in particolar modo se confrontato con la tematica delle armi e delle lettere, trattata dall’autore anche nel primo libro del Cortegiano, dove riflette sulla profonda differenza sussistente tra la civiltà italiana e quella francese, relativamente all’uso degli strumenti bellici e della cultura, la quale rammenta, altresì, il noto duello tra Orlando e Agricane magistralmente descritto da Matteo Maria
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F.P. Di Teodoro, Raffaello, Baldassarre Castiglione e la Lettera a Leone X, Bologna, Minerva 1994, p. 146. 6 L. Ariosto, Orlando Furioso secondo l’edizione del 1532 con le varianti delle edizioni del 1516 e del 1521, a cura di S. Debenedetti e C. Segre, Bologna, Commissione per i testi di lingua 1960. 7 B. Castiglione, Le lettere cit., p. 6. Il nome dell’Italia intorno al sacco di Roma
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Boiardo ne L’inamoramento de Orlando, in cui all’esercizio delle sole armi peculiare dell’esemplare immagine del cavaliere pagano, al quale «la forza de il corpo e la destreza / conviense […] exercitare»8 (Inamoramento de Orlando, I, XVIII, 43, 5-6) si contrappone il modello del perfetto cavaliere cristiano, abile nelle armi, ma fornito, anche, di una colta e sapiente «doctrina» (Inamoramento de Orlando, I, XVIII, 44, 7). Secondo il Castiglione, quindi, mentre nelle corti italiane il paradigma umanistico stabilisce che alla formazione del gentiluomo concorrano, insieme, le armi e le lettere, in Francia, al contrario, vale ancora il codice feudale e cavalleresco, che reputa disonorevole, per il gentiluomo, ogni tirocinio diverso da quello strettamente militare. Ne consegue, quindi, che in Francia, a differenza che in Italia, gli uomini di lettere siano reputati privi di valore: e ciò non stupisce affatto, soprattutto alla luce delle devastazioni che gli eserciti stranieri, in maniera similare alle trascorse invasioni barbariche, hanno perpetrato ai danni dei monumenti e delle opere italiane, con il conseguente declino delle arti e, più in generale, degli aspetti salienti della civiltà, come, per esempio, la constatazione, sul suolo italiano, per ciò che concerne la questione dell’abbigliamento, affrontata dal Castiglione anche nel secondo libro del Cortegiano, della rinuncia al consolidamento di uno stile nazionale, a detta dell’autore vero e proprio «segno di libertà»9 (Cortegiano, II, 2), per un’immotivata sudditanza nei confronti degli stranieri, portatori, invece, di mode diverse e «infinite varietà».10 Nella lettera al cognato, oltre alla registrazione degli abiti e delle armi, viene, altresì, messa in risalto la trasformazione repentina subita dalla corte, per effetto dell’arrivo degli stranieri: il castello di Ludovico il Moro, fulcro delle arti e delle lettere e «receptaculo del fior de li homini del mundo», ora, come sostiene l’autore, si trova «pieno di bethole e perfumato di ledame», a causa della violenza, sterminatrice di civiltà e cultura, come il cavallo di Leonardo, trasformatosi in bersaglio per i balestrieri guasconi, si erge a palesare. Ma la brutalità e la furia più turpe e spregevole attuata dagli eserciti invasori si ripete, ancor più tragicamente, con il Gran Sacco di Roma, compiutosi nel maggio del 1527, a opera delle truppe imperiali di Carlo V, le quali, esasperate per i continui ritardi nel pagamento delle somme dovute e animate da un violento sentimento antipapale, come sostiene il Castiglione nella lettera, databile al 1528, indirizzata ad Alfonso de Valdès, segretario del sovrano asburgico e autore del Dìalogo de las cosas ocurridas, hanno causato in Roma «glj incendj, le ruine, i tormenti, i sacrilegi, le morti, e tutte le immanità ed
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M.M. Boiardo, L’inamoramento de Orlando, a cura di A. Tissoni Benvenuti, Milano-Napoli, Ricciardi 1999. 9 B. Castiglione, Il libro del Cortegiano cit., p. 158. 10 Ivi, p. 157. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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empietà, che si possono immaginare»,11 avvalorando, in tal modo, la triste descrizione offerta anche da Francesco Guicciardini nella sua Storia d’Italia, laddove egli sostiene che «tutte le cose sacre, i sacramenti e le reliquie de’ santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de’ loro ornamenti, erano gittate per terra»12 (Storia d’Italia, XVIII, 8). E tutto ciò, a causa di guerre rese maggiormente violente anche dall’uso delle armi da fuoco, già definite all’epoca come «scelerata e brutta / invenzion» (Furioso, XI, 26, 1-2) secondo il giudizio di Ludovico Ariosto, in quanto estirpatrici del valore individuale e della virtù del singolo, per le quali «anderan sotterra / tanti signori e cavallieri tanti / prima che sia finita questa guerra / che ’l mondo, mai più Italia ha messo in pianti» (Furioso, XI, 27, 1-4) e tanto pericolose da minare quella civiltà che proprio sulla virtù dell’individuo fondava il suo precipuo valore. Dalle epistole del Castiglione, oltre alla funzione esercitata dagli eserciti invasori nel provocare nella penisola la sudditanza al nemico e la perdita della libertà, l’involuzione della civiltà e delle arti, rendendo l’Italia sede di numerose morti e rovine, nonché di «calamità universali»13 (Cortegiano, I, 2), come egli stesso sostiene nel Cortegiano, merita attenzione anche il ruolo svolto, nelle guerre combattute nella penisola, dalla Chiesa e la sua effettiva responsabilità, nei rapporti politici del tempo, della crisi italiana. Il Castiglione, difatti, presentando la città dei papi come il baricentro di quelle relazioni politiche e diplomatiche verso le capitali degli Stati italiani e delle grandi monarchie europee, dopo una fase di iniziale entusiasmo, durante il soggiorno a Roma del 1505 in compagnia del duca di Urbino, Guidubaldo di Montefeltro, ricava la turbata impressione che la città romana sia pervasa dal lusso, dallo sfarzo e dalle conseguenti spese che è necessario affrontare per poter vivere agiatamente. In questa città, scrive Castiglione alla madre Aloisia in una lettera del 31 gennaio 1505, un’insaziabile voracità sembra contrassegnare le mode, che costringono a mutare con continuità vesti, armature e abitazioni, così che le spese divengono, come scrive l’autore, sempre più ingenti «in modo che pur è forza che sempre qualche cosa se spendi».14 Con costante frequenza, trovandosi a condurre, suo malgrado, una vita frivola e mondana, egli è costretto a chiedere che da Mantova gli siano spediti i denari e i vestiti di cui necessita, come si ricava sia dall’epistola, indirizzata alla madre Aloisia e datata 10 gennaio 1505, nella quale sostiene di vive-
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Cito il testo da Lettere del conte Baldessar Castiglione, ora per la prima volta date in luce e con l’Annotazioni Storiche illustrate dall’abate Pierantonio Serassi cit., vol. I, p. 177. 12 F. Guicciardini, Storie d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, Torino, Einaudi 1971, vol. III, p. 1859. 13 B. Castiglione, Il libro del Cortegiano cit., p. 18. 14 Id., Le lettere, a cura di G. La Rocca cit., p. 47. Il nome dell’Italia intorno al sacco di Roma
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re «assai legiero»15 e, non avendo più contanti a sua disposizione, le richiede l’invio di «qualche soldi, o marchetti, o bagatini»,16 sia dalla lettera, che ha sempre come destinataria la genitrice, del 15 marzo 1505, in cui chiede nuovamente un prestito di «quelli pochi denari […] per satisfare ad alcune cosette»,17 delle quali non può fare a meno. Nel contempo Baldassarre descrive accuratamente le cerimonie ecclesiastiche e diplomatiche a cui partecipa, autentiche occasioni per far sfoggio di abbigliamenti e di acconciature eccentriche e non può non confessare un senso di disagio nei confronti di usi tanto dissimili da quella sobrietà a cui è stato abituato, affermando, nell’epistola del 13 febbraio 1505 indirizzata alla madre, che se le raccontasse le turpi azioni e i dialoghi dei «prelati, vescovi, cardinali […] non conoscendo le persone, se ne pigliaria poco apiacere».18 Ciò che emerge della città è, dunque, la descrizione di un centro ambiguo e contraddittorio, «fonte de li homini docti»19 come scrive alla madre nella lettera del 24 marzo 1505, ma, anche, teatro di una pericolosa degenerazione dei costumi ecclesiastici, come la politica di Leone X dimostra, lasciando sprofondare l’istituzione medesima nell’abisso della rovina, a causa di piani di magnificenza che hanno portato a un debito di «800 trenta milia ducatj»,20 come è testimoniato nelle lettera a Elisabetta Gonzaga del 10 dicembre 1521. Alla morte del papa, avvenuta sul finire dello stesso anno, la Chiesa è ridotta a una tale decadenza che, come sostiene il Castiglione, nessuno avrebbe mai creduto alla sua triste condizione e le sue finanze sono così disastrose che, a detta dell’autore, nell’epistola datata 16 dicembre 1521 e indirizzata a Federico Gonzaga, si sarebbero impegnate «oltre li debiti grandi lassati da Papa Leone […] tutte le gioie, tutti li panni di Arazzo, […] quelli bellissimi, e mitre, e regni, e paci, e argenti della credenza». Addirittura l’autore, a causa della situazione drammatica determinata dalla cattiva condotta di Leone X, che ha reso, tra l’altro, l’elezione di Adriano VI molto complessa per il ruolo impegnativo che il nuovo pontefice avrebbe dovuto sostenere, sempre nella medesima lettera, afferma, che «se deve haver paura non sperar di esser papa», non solo internamente a una Chiesa allo sfacelo, invischiata in lotte perenni tra vari potentati e stracolma di corruzione a ogni livello, ma soprattutto per far fronte ai sopravvenuti impegni di politica estera.
15
Ivi, p. 44. Ivi, p. 45. 17 Ivi, p. 60. 18 Ivi, p. 51. 19 Ivi, p. 62. 20 Poiché l’edizione di Guido La Rocca comprende le epistole relative al periodo tra il 1497 e il marzo 1521, per questa citazione, estratta dalla lettera datata 10 dicembre 1521, così come per le successive relative alla lettera del 16 dicembre 1521, mi sono avvalso delle trascrizioni pubblicate sul sito AITER (Archivio Italiano Tradizione Epistolare in Rete), curate da Guido La Rocca (trascrizione), Umberto Morando (revisione della trascrizione, codifica AITER) e Roberto Vetrugno (revisione della trascrizione, codifica AITER). 16
XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
L’Italia «lacerata e distrutta»
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Anche l’opinione del contemporaneo Francesco Guicciardini pare confermare il ritratto di Leone X offerto dal Castiglione e la deriva morale in cui, ormai, si è inabissata la Chiesa: l’autore dei Ricordi sostiene, infatti, che Leone X sarebbe stato un vero pontefice solo se «quella cura e intenzione che ebbe a esaltare con l’arti della guerra la chiesa nella grandezza temporale avesse avuta a esaltarla con l’arti della pace nelle cose spirituali»21 (Storia d’Italia, XI, 8). E non si discostano da tale pensiero neppure le opinioni fortemente critiche di Niccolò Machiavelli, il quale, avendo piena coscienza della crisi italiana, scaturita, secondo lui, dalla mancanza nella penisola di solidi organismi statali, dalla presenza di una serie di Stati regionali e cittadini deboli, dall’uso di milizie mercenarie e compagnie di ventura in luogo di fedeli eserciti cittadini, dal dileguo di tutti quei valori considerati come saldo fondamento del vivere civile, per la difesa di quel summum bonum che solo possa garantire prosperità e valida difesa al paese, individua come principale colpevole del frazionamento politico della penisola proprio la Chiesa, che, a suo parere, «ha tenuto e tiene [l’Italia] divisa»22 (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I, XII) e della quale l’autore condanna proprio quell’«imperio temporale»23 (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I, XII), quell’amore per il lusso, quella viltà morale, quelle ambizioni, che emergono così lucidamente nelle testimonianze epistolari del Castiglione. E proprio lui, addirittura, dopo il terribile sacco di Roma del 1527, durante il quale i Lanzichenecchi hanno sottoposto la città a un efferato saccheggio, trucidato civili ed ecclesiastici, seviziato donne, profanato i simboli della religione, afferma, in una lettera da Burgos, del 10 dicembre 1527, che la responsabilità dell’evento è di papa Clemente VII, il quale, con la sua politica ambigua, ha reso impossibile l’accordo a cui Castiglione stesso aveva lavorato, relativo a una sua possibile alleanza con Carlo V. Ma, nonostante le gravi colpe del papa e la corruzione della sede apostolica romana, l’autore del Cortegiano giunge, persino, a difendere la Chiesa dai pesanti attacchi, teologici e politici, contenuti nel Diàlogo de las cosas ocurridas, risalente al 1527, di Alfonso Valdès, che aveva giustificato il sacco di Roma come giusta punizione per l’immoralità della sacra istituzione e, tenendo fede al suo alto ufficio di rappresentante ecclesiastico, scrive al Valdès la già citata lettera di risposta, databile al 1528, che denuncia la tragedia consumatasi come la spia di uno scontro irrazionale, il quale, sulla base dell’odio diffuso in Europa dalla predicazione luterana, ha annientato ogni forma di civiltà; il Castiglione, proprio in tale lettera, ribadisce che, sebbene siano numerosi gli ecclesiastici indegni per ignoranza e scarsa moralità, nulla però può giustificare la feroce violenza perpetrata contro gli innocenti e a danno dei simboli più sacri della religione cristiana, come emerge, del resto, dal
21
F. Guicciardini, Storie d’Italia cit., vol. II, p. 1115. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, a cura di F. Bausi, Roma, Salerno 2001, vol. I, pp. 87-88. 23 Ibidem. 22
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seguente passo della lettera medesima: «se i sacerdoti fussero tali che ingannasero il volgo e per questa via cercassero di guadagnar denari, che ha a che fare in questo caso al castigo loro spogliar e rubar quella croce e il resto della chiesa, ammazzare uomini e donne e fanciulli, violar le donzelle e mettere ogni cosa a sacco, a fuoco e sangue?».24 Anche soltanto da questi tragici accenni, si percepisce come la rappresentazione dell’Italia, emergente da tale epistola, sia intensamente drammatica: la «ruina di Roma»25 è, invero, presentata come «infortunio» di una Italia «lacerata e distrutta»,26 a causa non solo della responsabilità degli eserciti stranieri, annichilitori di civiltà e cultura, e della corruzione della Chiesa, sempre più invischiata nelle questioni temporali, ma, altresì, a causa anche della presenza di «principi […] tanto corrotti dalle male consuetudini e dalla ignorantia e falsa persuasione di se stessi»27 (Cortegiano, IV, 9) e del raffinamento, interno alle corti, dei costumi, divenuto, anziché strumento politico, obiettivo appagante in sé. Si tratta di una questione affrontata indirettamente anche nelle lettere, in particolar modo nell’Epistola de vita et gestis Guidubaldi Urbini Ducis, scritta nei mesi successivi alla morte, avvenuta il 12 aprile 1508, di Guidubaldo di Montefeltro e indirizzata a Enrico VII, re d’Inghilterra, nella quale si raccomanda che il gentiluomo di corte non deve essere solo un coraggioso professionista della guerra, ma anche un raffinato diplomatico, perfettamente a suo agio nelle conversazioni, dotato di garbo, affabilità e facondia, capace di elevarsi al rango di una civiltà eticamente superiore, ponderatamente abbigliato secondo la moda vigente. Tale questione, tuttavia, reperisce il suo autentico inveramento e acquista il suo significato più recondito proprio se confrontata con l’impegnato discorso di Ottaviano Fregoso, contenuto nel IV libro del Cortegiano, dove si sostiene che la causa del tracollo italiano sia di ordine politico, sebbene l’autore si rifiuti di rendere pubblica la colpa di alcuni e la motivazione di esso, in quanto l’ammissione tornerebbe a universale vergogna. A differenza del Machiavelli che auspica l’intervento di un salvatore italiano che faccia risorgere la virtù italica, in quanto «a ognuno puzza questo barbaro dominio»28 (De principatibus, XXVI), il Castiglione, invece, ha fiducia nella forza civilizzatrice della corte, che non deve disgiungersi, però, dal piano strettamente politico, pena le conseguenze disastrose che tale sfasatura comporta.29 Difatti, intersecando i piani del
24 Lettere del conte Baldessar Castiglione, ora per la prima volta date in luce e con l’Annotazioni Storiche illustrate dall’abate Pierantonio Serassi cit., vol. II, p. 180. 25 Ivi, p. 177. 26 Ivi, p. 190. 27 B. Castiglione, Il libro del Cortegiano cit., p. 373. 28 N. Machiavelli, Il Principe, a cura di M. Martelli, Roma, Salerno 2006, p. 320. 29 Per l’argomento si faccia riferimento ai seguenti contributi: G. Bárberi Squarotti, Il ‘Cortegiano’ come trattato politico, in Id., L’onore in corte. Dal Castiglione al Tasso, Milano, Franco
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L’Italia «lacerata e distrutta»
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costume con quelli della prassi di governo, a una analisi più attenta, si deduce che anche la «cortigianìa», se viene distolta da quel fine politico che ne è giustificazione essenziale, perde ogni valore ed efficacia, causando, a detta dell’autore, quei particolari «effetti che ’l nome italiano è ridutto in obbrobrio», in quanto le «condicioni» della vita di corte rischiano di divenire «leggerezze e vanità […] più tosto degne di biasimo che di lode»30 (Cortegiano, IV, 4). Quindi, anche il raffinamento dei costumi, indirettamente discusso nelle lettere, che ha senso solo nella misura in cui aiuta a stabilire un nuovo modo di intendere la dialettica diplomatica, contribuisce alla definizione di quelle disastrose conseguenze che hanno determinato la crisi italiana. Dall’analisi dell’epistolario, in definitiva, emerge una graduale presa di coscienza, da parte del Castiglione, della ruina d’Italia: mentre le prime avvisaglie di un futuro collasso si reperiscono nell’ingresso dei francesi e di Luigi XII a Milano nel 1499, causa di un primordiale tracollo della civiltà e della cultura e nella degenerazione dei costumi ecclesiastici, sempre più immorale e frequente negli anni compresi tra il 1521 e il 1527, tanto da far dimenticare all’autore l’opinione positiva espressa nei confronti della città romana nella già citata lettera del 1505, l’autentica catastrofe si manifesta, invece, solo con il sacco di Roma del 1527, a causa del quale, non diversamente dalla visione percepita dall’Ariosto secondo cui la penisola è «accecata […] e d’error piena» (Furioso, XXXIV, 1, 2) e dal contemporaneo Machiavelli che rappresenta un’Italia «più stiava che gli Ebrei, più serva ch’ e’ Persi, più dispersa che li Ateniesi»31 (De principatibus, XXVI), la penisola appare, dunque, al Castiglione come un coacervo di «mali, morti, destruzioni, incendi»32 (Cortegiano, IV, 8), come una «più mortal peste» e un «obbrobrio»33 (Cortegiano, IV, 4), come «una preda esposta a genti strane»34 (Cortegiano, IV, 33), come una penosa sede di «ruine»35 (Cortegiano, Dedica al reverendo ed illustre signor Don Michel de Silva vescovo di Viseo) e «calamità universali»36 (Cortegiano, I, 2), come un ricettacolo dove incombono ineluttabili «glj incendj, le ruine, i tormenti, i sacrilegi, le morti, e tutte le immanità ed empietà, che si possono immaginare»37 (Lettera di risposta al Valdés),
Angeli 1986; C. Ossola, Dal ‘Cortegiano’ all’‘Uomo di mondo’, Torino, Einaudi 1987; A. Quondam, «Questo povero cortigiano». Castiglione, il libro, la storia, Roma, Bulzoni 2000; U. Motta, Castiglione e il mito di Urbino. Studi sull’elaborazione del ‘Cortegiano’, Milano, Vita e Pensiero 2003. 30 B. Castiglione, Il libro del Cortegiano cit., p. 368. 31 N. Machiavelli, Il Principe cit., p. 312. 32 B. Castiglione, Il libro del Cortegiano cit., p. 372. 33 Ivi, p. 367. 34 Ivi, p. 403. 35 Ivi, p. 9. 36 Ivi, p. 18. 37 Lettere del conte Baldessar Castiglione, ora per la prima volta date in luce e con l’Annotazioni Storiche illustrate dall’abate Pierantonio Serassi cit., vol. I, p. 177. Il nome dell’Italia intorno al sacco di Roma
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per la cui gravità gli stati italiani hanno perduto la loro autonomia e la «povera» Italia è resa «lacerata e distrutta»38 (Lettera di risposta al Valdés).
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Ivi, vol. II, p. 180. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
ROBERTA GIORDANO La «non men serva che stolta Italia» di Giovanni Guidiccioni
Tra i lirici che all’inizio del Cinquecento svolsero la propria attività non solo intellettuale ma anche diplomatica al servizio di Papa Paolo III, al secolo Pier Luigi Farnese, e per questo definiti da Gorni «poeti farnesiani», insieme al Com mendator Annibal Caro e a Francesco Maria Molza, Giovanni Guidiccioni, prima governatore di Roma e vescovo di Fossombrone, poi Presidente della Romagna e nunzio apostolico presso Carlo V, viene ricordato come «un grande italiano del secolo decimo sesto»1 che ha avuto il merito di ritenersi tale quando ogni altro intellettuale contemporaneo si definiva straniero in patria, a seguito dello smarrimento di una coscienza civica che prevedesse l’assunzione di uno sguardo nazionale o, quantomeno, sovra-municipale. Le sue liriche si allineano tra i documenti esemplari di quella elevazione morale che riscatta la cultura italiana del Rinascimento proprio nell’ora in cui essa soggiace a forze e problemi nuovi ed estranei.2 In particolare, negli anni a cavallo del 1527, il vescovo lucchese compone quattordici sonetti «per la patria», dedicandoli all’umiliazione che Roma e il suo Pontefice Clemente VII subivano nel mese di maggio, ad opera delle truppe imperiali di Carlo V, determinando un trauma insanabile e una frattura epocale che veniva a
1 Cfr. M.A. Benincasa, Giovanni Guidiccioni scrittore e diplomatico italiano del secolo XVI. La vita, i tempi, le opere, Roma, Tipografia elzeviriana 1895. Per indicazioni generali sull’autore e sulla sua opera rimando a R. Fornaciari, Giovanni Guidiccioni e la letteratura contemporanea, in Id., Fra il nuovo e l’antico, Milano, Hoepli 1909, pp. 195-223; A. Sole, La lirica di Giovanni Guidiccioni, Urbino, Quattro Venti 1984; V. Pascale, Il sentimento patriottico nella poesia di Giovanni Guidiccioni, in Il sentimento patriottico in tre poeti del Cinquecento, Napoli, Tipografia Angelo Sangermano 1906, I. 2 Cfr. C. Dionisotti, Introduzione a G. Guidiccioni, Orazione ai nobili di Lucca, Milano, Adelphi 1994, pp. 21-101: 45.
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sconvolgere il corso della storia. Guidiccioni fornisce con tali poesie, analogamente ad autori contemporanei come Della Casa, Bembo, Vittoria Colonna e Bernardo Tasso, una viva testimonianza del tragico evento legato al saccheggio della sede apostolica romana, con la particolarità di aver previsto per tali componimenti una sistemazione in gruppo o collana e di aver ad essi assegnato un marcato rilievo incipitario. I quattordici sonetti creano infatti, all’interno del Canzoniere, due nuclei distinti che nel complesso forniscono la possibilità di studiare il funzionamento di un macrotesto cinquecentesco di sicuro progetto autoriale: se il primo nucleo manifesta appunto una natura storico-politica, il secondo, che si inserisce nel solco della tradizione petrarchistico-bembesca della prima metà del Cinquecento, rivela un carattere amoroso-esistenziale.3 Tuttavia è presente una sostanziale unità fra le rime politiche e quelle amorose, sia perché entrambe fanno riferimento ad un sistema formale che presuppone un approccio aristocratico ed un preciso marchio ideologico e sociale, determinando un tipo di pubblico elitario, sia perché tale sistema formale si fa veicolo di valori etico-religiosi nel segno di un intimo e sincero umanesimo cristiano che media il petrarchismo con la recente tradizione neoplatonica. Inoltre, tutta la raccolta affonda le radici in una peculiare esperienza storica, quella del cortigiano al servizio dello Stato Pontificio che avverte continuamente in urto le proprie esigenze morali e religiose con il concreto operare del mondo che si manifesta nel particolare ambiente, condizionato e soffocante, della Corte romana. Pur presentandosi come unità individuali, al pari di numerosi «microcosmi tematici»,4 i sonetti politici possono essere studiati seguendo lo svolgersi di un disegno narrativo ben più vasto e complesso di quanto non sia la semplice evocazione della vicenda storica. Tale disegno, già applicato dal Petrarca nella sua famosa canzone dedicata all’Italia, prevede l’adozione del modello oratorio classico costituito da exordium, narratio, petitio e infine conclusio: come se, al pari di un particolare acrostico, i quattordici componimenti potessero essere letti ciascuno come uno dei versi di un ideale sonetto che riproduce a grandi linee la struttura dell’orazione classica.5
3
Cfr. E. Torchio, Giovanni Guidiccioni: sonetti in sequenza d’autore (il ms. Parmense 344), in «Italique», (2006), 12, pp. 29-63. Lo studioso sottolinea che non si conoscono soluzioni comparabili a questa, potendo forse solo ricordare la scelta di Alamanni che nel primo volume delle Opere toscane separa i sonetti amorosi da quelli politici, introducendoli però con una precisa didascalia «Scritti al chri. Re Fran. primo», e senza ordinarli secondo alcuna sequenza narrativa. 4 Cfr. A.A. Piatti, 1527: «Lo spaventevole caso di Roma» nella poesia di Giovanni Guidiccioni, in «Giornale storico della letteratura italiana», (2005), 182, pp. 42-68. 5 Ricordo la suggestiva interpretazione di Gorni che legge la scelta del numero quattordici per la collana di sonetti come un voluto richiamo alle altrettante stazioni della Via Crucis, segno di una perfetta fusione d’ispirazione politica e senso religioso della storia. Cfr. Poeti del XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
La «non men serva che stolta Italia»
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La raccolta si apre con due liriche composte nel 1526 alla vigilia del Sacco: esse mostrano l’influenza delle tradizionali suggestioni apocalittiche, diffuse proprio negli anni antecedenti la calata dei lanzichenecchi sulla base dei timori tipici di un’età caratterizzata da una grande precarietà politica. La minaccia tardo quattrocentesca dell’intervento militare straniero aveva infatti capovolto l’ottimistica attesa di una nuova aurea aetas: con il peggioramento della situazione politica italiana, associata ad un crescente aumento della corruzione, soprattutto in ambiente ecclesiastico, e alla minaccia esterna rappresentata sia dall’avanzata turca sia dal primo diffondersi della Riforma, crebbero anche i timori apocalittici riguardo alla distruzione della Curia e al dissolvimento degli Stati. I sonetti di Guidiccioni antecedenti il Sacco manifestano questo tono catastrofico e suonano come lugubri profezie: Carlo V, definito «augel di Giove», viene descritto come un’aquila imperiale mentre «l’ali sue spande» in «più superbo volo / per l’italico ciel» (I, 1-3),6 così che da emblema del potere imperiale e da nobile effige che contrassegna quel potere, l’aquila diventa simbolo di distruzione e morte, costantemente «volta», cioè intenta, «a ’nsanguinar l’artiglio» (I, 12) e a disseminar «spavento e duolo» (I, 8). Il tragico evento si compirà solo nel maggio dell’anno successivo ma viene svelato dal poeta con estrema lucidità: il richiamo alla calata di Giorgio Frundsberg anticipa l’imminente destino dell’Italia che, nel volgere di pochi mesi, dovrà subire il passaggio di quella «nova e ingorda gente» (II, 3) che, movendo «orribilmente il piede» (II, 1) alla volta di Roma farà dell’«alta reina» e degli impotenti popoli italiani «più dolorose prede» (II, 4). Il pericolo non è temuto, ma sentito come reale dal poeta, che immagina l’Italia «misera, dolente» mentre «l’ultime notti a mezzogiorno vede» (II, 7-8): l’implicito contrasto della coppia luce-buio contrappone metaforicamente il lume della civiltà all’oscurità della barbarie, laddove l’arrivo dei soldati, originari di contrade rimaste sostanzialmente ai margini della civiltà classica greco-romana, presagiva i segni di un oscuro regresso per Roma e per l’Italia intera.7
500. Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a cura di G. Gorni, M. Danzi e S. Longhi, Napoli, Ricciardi 2001, pp. 529-549. 6 Per le citazioni e per la numerazione delle liriche guidiccioniane l’edizione di riferimento è G. Guidiccioni, F. Coppetta Beccuti, Rime, a cura di E. Chiorboli, Bari, Laterza 1912. L’edizione più recente del manoscritto parmense 344, alla quale rimando soprattutto per l’accurato lavoro filologico del curatore, e contenente settantatre sonetti, tra cui la collana delle liriche politiche, ordinati dall’autore e dedicati ad Annibal Caro, è G. Guidiccioni, Rime, Ed. critica a cura di E. Torchio, Bologna, Commissione per i testi di lingua 2006. 7 Tateo insiste sul carattere apocalittico che la letteratura tende ad attribuire all’evento romano, creando spesso paralleli con la distruzione di Troia, di Cartagine o di Gerusalemme. Cfr. F. Tateo, Il sacco di Roma del 1527 e l’immaginario collettivo, in «Roma nel Rinascimento», (1987), 3, pp. 21-25. Per uno sguardo generale sul Sacco romano rimando inoltre a A. Chastel, Il sacco di Roma 1527, Torino, Einaudi 1983; M.L. Lenzi, Il sacco di Roma del 1527, Il nome dell’Italia intorno al sacco di Roma
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Nei sonetti che occupano la parte centrale della silloge, l’epicentro tematico si fissa sulla descrizione vera e propria degli orrori legati al Sacco, per mezzo di procedimenti retorici già utilizzati dal Petrarca nella sua canzone: innanzitutto il lamento per le misere condizioni dell’Italia viene modulato attraverso una serie di coppie oppositive basate sull’antagonismo tra la decadenza presente e il passato di grandezza di Roma, con ripetuti richiami alle imprese di Mario e Cesare che forniscono al poeta la possibilità di vagheggiare un’epoca in cui virtù e gloria erano ideali vivi e sinceri. Il tono apocalittico, con cui viene espresso in apertura il motivo dell’invasione rapinosa, lascia a poco a poco spazio ad un tono più pacato e mesto di rassegnazione, che si esprime secondo i canoni propri dei lamenti del periodo: «Così, caduta la sua gloria in fondo / e domo e spento il gran valor antico, / ai colpi de le ingiurie è fatta segno» (IX, 9-11). Il dualismo è messo soprattutto in risalto dalle immagini figurate di Roma e dell’Italia che ne sottolineano l’aspetto umano, come fossero creature viventi: in particolare, la patria «già lume di beltà e di valor» si presenta ora «pallida e ’ncolta» (VIII, 10), una volta «degna nutrice delle chiare genti» (X, 1), e «albergo già di dèi fido e giocondo» (X, 3), «or», invece, «di lagrime triste e di lamenti» (X, 4); e ancora, se l’Italia prima si presentava come «donna de le province e di quel vero / valor che in cima d’alta gloria ascese» (IX, 3-4), adesso invece «giace vil serva; e di cotante offese / che sostien dal Tedesco e da l’Ibero» (IX, 5-6). Dunque, «il real sembiante umano» (III, 6) dell’Italia declina in un’inarrestabile impallidimento, mentre nel «bel corpo» (VIII, 3) della patria avvilita e ridotta in schiavitù sono ormai solamente ravvisabili «piaghe alte e mortali» (VIII, 4).8 La personificazione di Roma, attraverso alcune definizioni come «altrice de’ famosi eroi» e «madre d’imperi», insiste invece sull’immagine materna della procreatrice intenta ad allevare i propri figli: l’uso di locuzioni ed elementi lessicali di ascendenza classica, connessi al concetto di maternità e rigenerazione della vita, pone la lettura dei fatti storici legati al Sacco in una chiave dichiaratamente simbolica: l’attacco alla città, che incarna dunque una civiltà intera, è sentito al pari del crimine peggiore, quale solo può essere il matricidio. Tra i testi che, allo stesso modo, hanno ripreso la personificazione dell’Italia devastata, sul modello della canzone del Petrarca e delle Familiari, va ricordato almeno l’ultimo capitolo del Principe, caratterizzato da una intensità emotiva dovuta al ritmo martellante degli asindeti: «Più stiava che li ebrei, più serva che’ persi, più dispersa che gli ateniesi: sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, e [avessi sopportato] d’ogni sorte ruina» (XXVI, 3).9 D’altra parte, se già Ariosto
Firenze, La Nuova Italia 1978; M. Tafuri, Il sacco di Roma, 1527: fratture e continuità, in «Roma nel Rinascimento», (1985), 1, pp. 21-35. 8 Per tali questioni rimando a G. De Santi, Moralità, storia e «maniera» nella poesia di Giovanni Guidiccioni, in «L’approdo letterario», (1977), 77-78, pp. 195-216: 196. 9 Cfr. N. Machiavelli, Il Principe, a cura di G. Inglese, Torino, Einaudi 1995. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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aveva definito l’Italia «assonnata, accecata, imbriaca e d’error piena»,10 poco dopo Guicciardini rilevava lo sfacelo della patria descrivendola come una donna malata, la cui infermità e debolezza era tale da non poter essere curata con medicine leggere. Nelle liriche guidiccioniane, l’uso frequente e retorico delle personificazioni assolve al tentativo di provocare sdegno, indignazione ma anche pietà e dolore nel lettore e destinatario: infatti non solo gli abitanti di Roma e, per esteso, dell’Italia, soffrono per la sventura abbattutasi su di loro che non risparmia neppure i monumenti, le opere d’arte e ogni frutto dell’ingegno umano, ma anche la natura con i suoi elementi partecipa alla commozione e al lutto che affligge i cittadini: in particolare il Tevere, l’Arno e il Po acquistano lineamenti e psicologia umane per innalzare l’accorato lamento di chi assiste rassegnato ad un irreversibile declino. Guidiccioni immagina di ascoltare il pianto dei tre fiumi, sineddoche con cui si intende ricostruire l’unità geografica dell’Italia intera, mentre accompagnano con parole piene di commozione e incredulità il loro lamento: Chiuso e sparito in queste rive il sole e l’accese virtù d’amore spente; ha l’oscura tempesta d’occidente scossi i bei fior de’ prati e le viole; e Borea ha spento il mirto e ’l sacro alloro, pregio e corona vostra, anime rare, crollando i sacri a Dio devoti tetti: non avrà ’l mar più le vostr’acque chiare, né, per gli omeri sparsi i bei crin d’oro, fòr le ninfe trarran de l’onde i petti (V, 5-14).
Anche in questo sonetto è significativa la struttura binaria: all’immagine benefica del sole che alimenta le «virtù d’amore» è posta in antitesi «l’oscura tempesta» annientatrice, pronta a travolgere senza pietà le azioni e le opere tanto dell’uomo quanto della natura. Tale tempesta è assimilata a Borea, divinità dei venti, figlia del titano Astreo e di Eos, raffigurazione stessa del vento freddo del settentrione: metaforicamente, dunque, il passaggio dei mercenari invasori è accostato al vento gelido foriero di morte, che col suo soffio annientatore sradica brutalmente il mirto e l’alloro, piante sacre a Venere e ad Apollo, rispettivi simboli dell’amore e della gloria, da sempre degno ornamento del «bel corpo» dell’Italia. Una nuova personificazione ritrae l’Italia, immaginata come creatura dormiente, ancora viva ma «sepolta» in un sonno innaturale «pigro e grave» (VII, 1). La riflessione del poeta mentre cerca di destarla dal torpore risulta venata di una pun-
10 La citazione è tratta dalla prima ottava del canto XXXIV in L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di S. Debenedetti e C. Segre, Bologna, Commissione per i testi di lingua 1960.
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gente ironia: «Sorgi e respira / e disdegnosa le tue piaghe mira / Italia mia, non men serva che stolta» (VII, 2-4), e l’amara conclusione trova conferma nelle due terzine successive, ove si legge: «Ché se riguardi le memorie antiche, / vedrai che quei che i tuoi trionfi ornâro, / t’han posto il giogo e di catene avvinta. / L’empie tue voglie, a te stessa nemiche, / con gloria d’altri e con tuo duolo amaro, / misera! t’hanno a sí vil fine spinta» (VII, 9-14). La ricerca delle cause cui si lega il tracollo dell’Italia risponde ad una precisa ideologia che informa le liriche civili sulla base di una puntuale e concreta riflessione circa le motivazioni politiche, religiose ed economiche che portarono alla crisi italiana. Rivolgendosi direttamente all’Italia, Guidiccioni fa cenno alla «bella libertà, ch’altri t’ha tolta / per tuo non san’oprar» (VII, 5-6): questa coppia di versi, che addebita ad un agire politico dissennato il principio delle sventure della patria, costituisce una sostanziale conferma della tesi che Machiavelli aveva espresso soltanto quattordici anni prima nel Principe, e che Guicciardini aveva poco dopo ripreso nella sua Storia, riconoscendo le cause della disfatta politica e militare della Penisola nell’ignavia e nella miopia dei governanti italiani che, sul finire del Quattrocento, senza prestar fede alle leggi cicliche e inesorabili che guidano il corso delle vicende umane, si illusero che il tempo di pace e relativa prosperità a loro toccato in sorte non sarebbe mai tramontato. «Assai col nostro sangue avemo il folle / error purgato di coloro che in mano / di sí belle contrade hanno il governo» (VI, 12-14), all’indomani del Sacco e con queste parole, Guidiccioni individua il riflesso del dissennato operato politico dei principi italiani nella totale assenza di un sentimento nazionale unitario su cui possa fondarsi la coesione tra gli Stati: con il riferimento ad un preciso «odio interno» che rende «sbandita» (XIII, 8) ogni pietà dal suolo italiano, il poeta riconosce e sottolinea il problema della disunione e della discordia tra gli Stati stessi della Penisola che, al sopraggiungere delle armate straniere, avevano ceduto ciecamente alle gelosie interne, lasciandosi poi sopraffare dal corso della storia. Una seconda condanna è rivolta poi all’operare di Carlo V: rivelando nel fallace quanto «breve e vergognoso acquisto» (I, 13) di Roma e dell’Italia, per rinsaldare l’Impero e bloccare le mire espansionistiche del Re di Francia, una mossa semplice e forse scontata sul piano militare ma improbabile e di dubbia utilità sotto il piano della convenienza politica, il vescovo lucchese afferma che l’azione del sovrano avrebbe dovuto esplicarsi seguendo altre linee, ponendo in primo luogo freno al dilagare dei riformatori protestanti che minacciavano le basi dell’ortodossia cattolica e spingevano la «verace» e «santa fé di Cristo» (I, 10) nel periglio di una morte sicura. È significativa la metafora per cui l’aquila, simbolo dell’imperatore, troppo intenta a volare sul cielo italiano, non si avvede che «un rio e perfido stuolo» (I, 5) si raccoglie «entro ’l suo proprio e vero nido» (I, 6): è evidente l’allusione allo scisma luterano, che infieriva in Alemagna, sottraendo il nord dell’Europa alla dottrina della Chiesa di Roma proprio mentre l’Imperatore guerreggiava in Italia.11 Il 11
Cfr. A.A. Piatti, 1527: «Lo spaventevole caso di Roma» cit., p. 47. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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poeta, denunciando la cecità di Carlo V, sostiene, da perfetto servitore della Chiesa romana, che proprio dall’incuria nei confronti degli sviluppi dell’eresia di Lutero, sentita non soltanto sul piano dottrinale, ma anche e soprattutto nei suoi effetti pratici e politici, dipendeva un’oggettiva minaccia per l’unità ed autorità dell’Impero, che si sarebbe poi allargata sin alla Chiesa e alla dottrina rivelata. Con ferma fede cattolica, Guidiccioni reagisce al diffondersi anche in Italia della nuova eresia: una silloge di dottrine, egli scrive, degli «Ussiani, i Valdesi, gli Ebioniti, gli Arriani e tante altre sette», con cui Lutero dirigeva «tutto il cieco impeto della mente a volgere sottosopra lo stato della religione cristiana».12 Nell’opera maggiore, l’Orazione ai nobili di Lucca, il poeta si scaglierà nello specifico contro l’incerta politica religiosa dei Senatori della Repubblica, denunciando in particolar modo le casate mercantili che dalle terre ultramontane, portando in patria le loro ricchezze, non avevano esitato a recarvi anche i costumi e le tradizioni barbare e le dottrine eretiche. Guidiccioni non soltanto istituisce una precisa correlazione tra le nuove credenze religiose e gli ambienti finanziari mercantili, individuandoli come i canali diffusivi sul territorio italiano, ma al contempo è tra i primi a rendersi conto che questa diffusione poteva venire agevolata nelle stesse aree cattoliche anche dai mutati ideali ispiratori della condotta degli uomini d’affari. In questo senso, il poeta individua una delle cause del disastro nel lento porsi da parte dell’economia italiana oltre i limiti della morale e al di là del rispetto sia per le esigenze politiche comunitarie, sia per le indicazioni di natura spirituale e religiosa che avevano guidato per secoli la condotta dei popoli cristiani: secondo il vescovo lucchese, lo spirito utilitaristico stava corrompendo, nelle sue varie manifestazioni, il mondo cristiano ancora di più di quanto non facesse la recente eresia, poiché questa giungeva a spezzare l’unità millenaria della Chiesa, mentre i nuovi costumi politici ed economici stavano frantumando gli stessi principi etici di ogni ordinata convivenza civile.13 L’Italia si ritrova dunque asservita, secondo Guidiccioni, per specifiche ragioni storiche: da un lato a causa dell’inefficienza e dell’incapacità di quanti avrebbero avuto il compito di proteggere il Paese e favorire il sentimento di unità nazionale, dall’altro a causa «dell’ozio pigro» e del «viver molle» (VI, 9) degli italiani, la cui cultura gravitava su di un profondo vuoto morale;14 inoltre anche l’azione stessa del papa diviene, all’interno delle liriche, motivo di biasimo e di riprovazione, lad-
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Cfr. G. Guidiccioni, Orazione ai nobili di Lucca cit., p. 150. Cfr. G. Barbieri, L’orazione del Guidiccioni alla Repubblica di Lucca e la sua dottrina politicosociale, in «Economia e Storia», (1970), 17, pp. 141-164: 145. Si veda inoltre M. Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino, Einaudi 1965. 14 Per le questioni di carattere morale nelle liriche guidiccioniane si veda A.A. Piatti, «Ché tempo di ritirarsi al vero lume». Moralità, spiritualità e pentimento nelle “rime di religione” di Giovanni Guidiccioni, in Rime sacre dal Petrarca al Tasso, a cura di M.L. Doglio e C. Delcorno, Bologna, il Mulino 2005, pp. 95-124. 13
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dove il poeta, accennando al Vaticano come luogo di corruzione umana e spirituale, afferma che «la santa fé di Cristo / negletta more» (I, 10-11): è d’altra parte noto che sotto Clemente VII le critiche contro la corruzione della Chiesa raggiunsero un livello insostenibile. Tuttavia, la critica nei confronti della Curia romana rimane in questi versi solo accennata e in tono minore rispetto alla feroce invettiva che Guidiccioni elabora in una lettera datata 15 maggio 1527:15 all’ignoto destinatario, il poeta porta alla mente i fatti legati allo «Spaventevole caso di Roma» che provocò «sì gran romore» da «risonare in ogni orecchia e in ogni luogo» e che fu determinato sia dalla «malvagità dei tempi» sia dal «furor di quelle fiere» che recarono «infinito danno e disonore di Roma e della Sede Apostolica».16 Nel tentativo di individuare le cause della tragedia, il poeta afferma: «Forse l’ira d’Iddio sarà caduta sopra Roma e gli abitatori di quella per correggerli e per dare essempio al resto del mondo».17 L’interpretazione delle vicende storiche legate al Sacco di Roma attraverso l’idea della collera soprannaturale che, come giusta punizione, si abbatte inesorabile su un’umanità empia e dissoluta, è presente anche nel primo libro dalla Storia d’Italia: dal Guicciardini, il vescovo lucchese riprende in particolare il senso fatalistico di decadenza dei valori civili e cristiani, sottolineato dal frequente ricorrere al tema della Fortuna, e legato a quella convinzione circa la sostanziale fortunosità degli accadimenti che nacque, nello storico fiorentino, proprio in seguito ai fatti che si conclusero con il Sacco. Machiavelli era morto nel ’27, dopo aver condotto una grande e minuziosa celebrazione della Roma antica, esemplare nell’arte della guerra, quanto in quella del governo, simbolo stesso dell’affermazione delle possibilità proprie dell’energia umana, cioè della cosiddetta Virtù. Pochi anni dopo, Guicciardini non credeva più né nell’una né nell’altra, sbarazzandosi di un modello smentito dal corso della Storia: la Virtù del Machiavelli svaniva proprio nell’impotenza e nella confusione nata dall’inestricabile groviglio delle circostanze seguenti il tragico evento. Nell’esprimere il proprio giudizio morale e religioso sul Sacco, che viene dunque letto come la giusta punizione inviata da Dio all’umanità, Guidiccioni sviluppa, all’interno della epistola del ’27, una feroce invettiva contro la Chiesa e la sua Sede Apostolica colpevole di trovarsi, insieme all’intera città, alla «mercé della lorda e corrotta vita de’ chierici». Proprio in quegli anni, Roma subiva una profonda tra-
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Per le lettere di Guidiccioni ricordo: F. Catenazzi, Letteratura e diplomazia nell’Italia cinquecentesca. Le lettere di Giovanni Guidiccioni, in «Humanitas», (1980), 4, pp. 587-592; M.L. Doglio, Il regesto privato di Giovanni Guidiccioni, in Ead., L’arte delle lettere. Idea e pratica della scrittura epistolare tra Quattro e Seicento, Bologna, il Mulino 2000, pp. 105-118. 16 Cfr. Lettera a Ignoti del 15 maggio 1527, in G. Guidiccioni, Le lettere, a cura di M.T. Graziosi, Roma, Bonacci 1979, p. 54. 17 Ibidem. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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sformazione in senso cortigiano: l’impressione suscitata dalla sfarzo, la sistematica negazione della morale evangelica, l’insanabile dissidio tra la pratica della vita ecclesiastica e la teoria delle Scritture agitava molti pellegrini, che fossero questi animati o meno da istanze di Riforma. Tra questi pellegrini va inclusa la voce di Guidiccioni che descrive la Curia romana originariamente «maestra de’ buon costumi, scacciatrice de’ vizi, premiatrice della virtù», e alla vigilia dell’invasione straniera invece come «scuola di gola, di lussuria e d’eresia, ricettatrice d’ogni sceleratezza e nemica di tutti i buoni».18 Nell’epistola, il concetto di italianità viene fortemente legato alla nozione di romanità, per questo, il saccheggio della sede apostolica costituisce per Guidiccioni non soltanto un’umiliazione per la città e per il papato, ma per l’italianità stessa: la sciagura aveva mostrato agli italiani e al mondo la contradditorietà di una società tanto artificiosa come quella costruita dalla città pontificia, e al contempo la mancanza di un sentimento nazionale nella Penisola. Tuttavia, non soltanto il tema della collera divina insieme ai feroci attacchi alla dissolutezza della Chiesa non hanno seguito nell’epistolario di Guidiccioni, ma allo stesso modo non trovano riscontro nelle liriche relative al Sacco: l’ottica romanoecclesiastica che informa i quattordici sonetti, integrata nell’ideologia universalistica della Chiesa, in virtù della quale la Roma dei papi rivendica una continuità rispetto alla Roma imperiale, fa sì che sfumi in un fugace accenno, non privo di ambiguità, quanto espresso da Guidiccioni in privato nella lettera del ’27, scritta evidentemente quando ancora non era al servizio del cardinale Farnese, alla luce della manifesta condotta scandalosa del Clero e dell’interpretazione del Sacco quale monito divino. Su questi punti di estrema severità, il poeta preferisce sorvolare: da un lato l’invettiva che nei versi poteva volgersi in satira ha più che altro il tono del lamento, a sua volta modulato secondo un alto stile oratorio che fornisce la cifra necessaria per interpretare la dimensione storico ideologica delle rime politiche del Lucchese; inoltre, il poeta, ormai determinato a percorrere la carriera ecclesiastica, addolcisce, fino a lasciarlo cadere, il duro giudizio sul clero romano esprimendo invece la viva speranza che Roma possa tornare all’antica grandezza e ristabilire il suo primato sul mondo e sulla cristianità. A questo proposito, secondo il canone dell’oratoria classica filtrato dalla tradizione petrarchesca, Guidiccioni mira al risveglio di una coscienza civile e morale evitando di piegare la propria lirica nel lamento sterile fine a se stesso ed elaborando una vera e propria peroratio: al pari dell’accorato appello rivolto da Machiavelli a Lorenzo de Medici perché liberi l’Italia dai barbari, il sonetto IV del Canzoniere guidiccioniano si presenta come una chiamata alle armi, come un febbrile grido di guerra che sprona Francesco Maria della Rovere, allora prefetto di Roma, a impugnare la spada per guidare l’azione contro i Lanzichenecchi e porre fine a sacrilegi
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Ibidem.
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e violenze. Se in tale lirica, il poeta e prelato elabora una breve e concentrata exhortatio volta a convincere l’illustre destinatario della legittimità di un’azione di forza, nel vano tentativo di salvare il mito della patria alimentato dal culto delle bonae litterae, nel sonetto che chiude la raccolta la speranza di una pace delle armi e degli animi prende il sopravvento sugli echi di guerra. L’immagine di desolazione con cui si apre la lirica («Quel dì che ’l giogo indegno e grave», XIV, 1) è subito riscattata dai versi successivi («O graditi e felici anni, / o fortunata libertà soave!», XIV, 3-4): in questo senso, il profilo della breve raccolta presenta una indiscussa coerenza interna sostenuta da un itinerario lineare attraverso cui si realizza una sorta di palingenesi spirituale, al termine di un moto ascendente. Un motivo conduttore guida infatti lo sviluppo della trama lirica, dai primi clamori delle armi che si odono in lontananza, fino alla fine della raccolta, dove i riferimenti alla guerra e alle devastazioni sono sostituiti da un forte anelito di pace, presagio di rinnovata speranza. Se Machiavelli nel capitolo venticinquesimo del Principe aveva citato direttamente gli ultimi versi della canzone All’Italia, Guidiccioni li rielabora denunciando la cifra ideologica e il messaggio morale che conferisce senso all’intera silloge: pur dipingendo il momento storico della crisi, il richiamo finale alla pace suggerisce infatti un programma utopico che di fatto non riesce a superare il dissidio tra i due poli opposti dell’esistenza e della parola.
XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
GIORGIA FISSORE L’«infelice Italia» nelle ‘Lettere’ e nelle ‘Rime’ di Bernardo Tasso
L’esperienza politica di Bernardo Tasso non può essere analizzata prescindendo da due fattori fondamentali: innanzitutto il cambiamento, avvenuto nel corso del primo Cinquecento, della figura e del ruolo sociale degli intellettuali che, divenuti cortigiani, si vedono costretti a cercare fortuna nelle corti, procacciandosi l’appoggio di potenti signori. In secondo luogo, il passaggio di Tasso, avvenuto nel 1532, dall’attività diplomatica al servizio di signori filofrancesi (Guido Rangone dal 1525 al 1527 e Renata di Francia presso la corte ferrarese dal 1528 al 1532) al ruolo di segretario del filospagnolo Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, cambiamento che obbliga naturalmente il poeta a un brusco «rovesciamento di alleanze».1 In questo scenario è dunque d’obbligo usare molta cautela nel cercare di definire l’idea d’Italia che emerge dall’opera del Tasso. Tra le maglie del fitto carteggio tassiano, però, si può talvolta intravedere il reale pensiero politico del poeta. Se per Williamson2 non sembra emergere dai componimenti del Tasso un particolare concetto dell’Italia, che vada al di là del luogo comune tradizionale e letterario, secondo Pintor,3 invece, lo spirito cortigiano di Tasso non esclude un reale e sentito amor di patria. Per Pintor, infatti, sia dall’epistolario che dalle poesie di contenuto politico, emerge un senso di profonda angoscia dovuto alla piena consapevolezza dell’umiliazione subita dall’Italia e dal suo popolo nella prima metà del secolo. Nella lettera I, XXVII (1528), nella quale Tasso cerca di convincere l’amico Claudio Rangone a non abbandonare il servizio della Repubblica di Venezia per servire il re francese Francesco I, si può percepire, in modo evidente, lo sconforto del poeta per le condizioni italiane. Ciò che rende ancora più avvilente la schiavitù
1
G. Cerboni Baiardi, La lirica di Bernardo Tasso, Urbino, Argalia 1966, p. 94. E. Williamson, Bernardo Tasso, Roma, Edizioni di storia e letteratura 1951, p. 38. 3 F. Pintor, Delle liriche di Bernardo Tasso, Pisa, Nistri 1899, pp. 13-101. 2
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del bel paese, infatti, è il fatto che a contendersi la supremazia sulla penisola siano popolazioni un tempo dominate dalla potenza di Roma: In quest’oscuro e tempestoso secolo, quale altra luce o splendore è rimasto a la misera Italia? Non siamo noi tutti servi, tutti tributari, non dirò di barbare, ma di straniere nazioni? Di quelle dico, che gli antichi e nobili Italiani, inanzi il carro legate e di catene cariche, menarono ne trionfi loro?4
L’accostamento tra gli invasori e le popolazioni barbare, suggestione che torna più volte nelle lettere del Tasso, così come la vergogna per l’essere sottomessi a popolazioni un tempo dominate dagli eserciti della penisola, rappresenta un topos piuttosto diffuso nel Cinquecento. Emblematico, a questo proposito, l’atto d’accusa dello storico Girolamo Borgia, nelle sue Historiae de bellis italicis. Analizzando le cause che hanno portato l’Italia a questa condizione di schiavitù, infatti, Borgia scrive: «Cum principum nostrorum culpa et ignavia factum sit, ut terram omnium olim gentium Dominam in barbarorum potestatem iterum redactam videamus».5 Lo sgomento manifestato da Tasso e Borgia di fronte alle condizioni della penisola riporta alla mente l’invettiva ariostesca del canto XVII del Furioso: O d’ogni vizio fetida sentina, dormi, Italia imbriaca, e non ti pesa ch’ora di questa gente ora di di quella che già serva ti fu, sei fatta ancella?6 XVII, LXXVI, vv. 5-8
Solo la Repubblica di Venezia si sottrae a una schiavitù così indecorosa, conser-
4
B. Tasso, Li tre libri delle lettere, Alli quali nuovamente s’è aggiunto il quarto libro, Ristampa anastatica dell’ed. Giglio 1559, Bologna, Forni 2002, I, XXVII, Al conte Claud. Rangone, p. 65. Ogni citazione si riferisce a questa edizione. Nella trascrizione si è eliminata la h etimologica. Il nesso latineggiante -mph- è stato uniformato alla grafia volgare -nf-. I nessi -ti- e -tti- seguiti da vocale si sono mutati in -zi-. Si è rispettata l’oscillazione tra scempia e doppia. Et si è resa con e davanti alle parole inizianti con consonante. Si è unito e accentato il composto fuorché. Si è unita la forma ogni uno. Conformemente all’uso odierno si è unito piu tosto. L’uso dell’accento e dell’apostrofo è stato uniformato alle convenzioni odierne. La punteggiatura è stata regolarizzata. Si è regolarizzato l’uso delle maiuscole uniformandolo all’ortografia corrente; l’iniziale maiuscola è stata conservata nei titoli onorifici. 5 «È per le colpe e per l’ignavia dei nostri principi che ci tocca vedere questa terra, una volta signora di tutte le genti, di nuovo ricondotta sotto il dominio dei barbari» G. Borgia, Historiae de bellis italicia ab anno 1494 ad 1541, manoscritto della Biblioteca Nazionale Marciana cod. lat. 3506. 6 L. Ariosto, Orlando furioso, secondo l’edizione del 1532 con le varianti delle edizioni del 1516 e del 1521, a cura di S. Debenedetti e C. Segre, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1960. Ogni citazione si riferisce a questa edizione. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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vando l’immagine della passata maestosità dell’impero romano. Nelle Lettere del Tasso, la Repubblica di Venezia si configura come un vero e proprio mito di libertà, un fulgido esempio di buon governo da opporre alla deriva subita dal resto della penisola. Ecco perché, una volta elencati i vantaggi pratici che potrebbero derivare a Claudio Rangone dalla sua fedeltà alla Repubblica, Tasso ricorre ad argomentazioni dal sapore nazionalistico. La lettera assume infatti un respiro più vasto; ad essere in discussione, non sono solo i destini e la dignità di Venezia, ma dell’intera penisola. La strategia politica perseguita dal Tasso cerca di coniugare l’interesse particolare dei signori italiani con un’idea di nazione che, se non è ancora presente in modo maturo come concetto ideale, si delinea almeno come espediente strategico di difesa dalle nazioni straniere. Venezia si configura come unico baluardo da opporre alle ingerenze di francesi e spagnoli, ultima barricata da difendere perché, dalla sua caduta, dipende il destino di un intero paese. Ecco che, agli occhi del Tasso, Venezia diventa: Quella Repubblica, alla quale (a giudicio de buoni) ogni signore, ogni prencipe italiano dovrebbe servire, non è ella l’ornamento e lo splendore de la italiana dignità? Non rappresenta ella un’imagine de l’auttorità e la grandezza de la Romana Republica? […] Questa sola ha conservato la sua antica libertà, questa sola a niuno (fuorché a Dio e a le sue ben’ordinate leggi) rende ubidienza. Conserviamo queste reliquie, anzi, questo essempio de la antica dignità. Non sete voi italiano e sotto un medesimo cielo con essolei generato? Non è ella vostra sorella? Non servite, servendo lei, a voi medesimo, a la patria vostra, a la vostra libertà, a la vostra salute, a la vostra reputazione, a figli, a i posteri, a l’eternità del nome vostro?7
In questa lettera sembra quasi di sentire un’eco del discorso machiavelliano, l’idea di uno Stato nazionale non ancora in grado di radunare, sotto la propria bandiera, tutte le popolazioni d’Italia, ma sufficientemente maturo, potenzialmente, per unirsi di fronte al pericolo comune.8 Questo, almeno, sembra il sogno vagheggiato dal Tasso. Militare al servizio di un re straniero, dunque, vuol dire accettare di portare la guerra in luoghi familiari. La retorica di Tasso non è quella del partigiano fazioso; egli mostra apprezzamento per il re francese, al punto da definirlo un re «sì liberale, sì magnanimo, sì amico della virtù»9 ma tutto ciò appare ininfluente ai suoi occhi. Prestare i propri servigi al cristianissimo vuol dire militare contro la propria terra d’origine, contro i propri affetti, contro ciò che definisce la propria appartenenza ad un luogo. Contro la propria patria, insomma, e infatti Tasso stimola così la riflessione dell’amico Claudio Rangone:
7 8
B. Tasso, Lettere… cit., I, XXVII, Al conte Claudio Rangone, p. 65 G. Getto, S. Jacomuzzi, Poeti e prosatori italiani nella critica, Bologna, Zanichelli 1978, p.
277. 9
B. Tasso, Lettere… cit., I, XXVII, Al conte Claudio Rangone, p. 63.
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Volete voi andar a portar quell’armi che potrebbono spargere il sangue de figli, de fratelli, de gli amici, e de parenti vostri? Ad accender quel fuoco che potrebbe ardere la patria, la casa e le vostre sostanzie?10
Nella lettera III,I indirizzata al Sanseverino, principe di Salerno, Tasso rivendica con orgoglio la devozione dovuta da ogni cittadino alla sua patria; per convincere il principe a recarsi alla corte imperiale in difesa delle ragioni dei napoletani, contro quelle del viceré Don Pietro di Toledo, infatti, Tasso fa leva proprio sull’obbedienza dovuta da ciascun uomo alla propria patria: Non credo, Illustrissimo Sig. mio, che sia alcuna persona di giudicio che non sappia che, doppo Iddio, niuno obligo è maggior che quello che abbiamo alla patria; e che, eziandio che caro ne sia il padre e la madre, cari i figliuoli, i parenti, gli amici, che la carità della patria abbraccia e stringe insieme tutti questi amori; di maniera che, se l’ingratitudine è quel vizio che più d’ogni altro debbiamo fuggire e odiare, niuna ingratitudine è maggiore di quella che s’usa verso la patria, perché dov’è maggiore l’obligazione, ivi è maggior l’ingratitudine, e l’obligo che le abbiamo è tale, che nelle sue necessità un animo nobile ha da prepor la morte sua alla servitù, al danno e all’infamia della patria sua.11
Le uniche motivazioni che potrebbero spingere il Sanseverino a rifiutare l’incarico «piuttosto sono fondate su l’utile, che su l’onesto»12 e seguire il proprio interesse particolare, invece del bene universale, sarebbe deplorevole. Tuttavia, Tasso non può trascurare il fatto, indubbio, che l’uomo sia portato a tutelare anche il proprio bene, oltre quello collettivo, e mostra al principe i vantaggi che potrebbe trarre accettando l’incarico: Il danno che vi potesse venire di questa cosa sarebbe picciolo e vostro particolare, in comparazione dell’utile grande che ne tornerebbe in universale a questo regno. E voi, come cavaliero magnanimo e virtuoso, avete da preporre il beneficio universale al privato. Ma qual danno potrebbe essere così grande, che non sia maggior l’utile che ne sentirete? Mostrando al Re vostro l’amor che vi porta questo popolo, la fede che ha in voi, il rispetto che v’ha la nobiltà e la riverenza che vi porta tutto questo regno, mostrandogli che non ha miglior ministro né instrumento di voi, per conservar questa città e questo regno nella fede e devozion sua, per persuaderli a sodisfare a qual si voglia desiderio, bisogno o necessità sua.13
Come nella lettera a Claudio Rangone, l’analisi politica di Tasso si mostra lucida e sensibile ai problemi di politica reale.
10
Ivi, p. 66. B. Tasso, Lettere… cit., III, CCCVII, Al Prencipe di Salerno, pp. 501-502. 12 Ivi, p. 502. 13 Ivi, p. 505. 11
XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
L’«infelice Italia» nelle ‘Lettere’ e nelle ‘Rime’
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Dalla lettera al Rangone, infatti, emerge un’immagine piuttosto complessa dell’Italia; una mescolanza tra suggestioni legate alla storia, all’affetto e, certamente, anche all’utile. Servire il Re cristianissimo invece che la repubblica porterebbe infatti solo svantaggi; esattamente com’è capitato a tutti i signori italiani che sono divenuti suoi alleati. Spesso, nella sua attività diplomatica, Tasso fa strumentalmente appello a valori universali come l’onesto o l’utile. Nella canzone Principe sacro, il cui gran nome suona, ad esempio, il poeta esorta il re francese Francesco I a servire «l’util della fè nostra»,14 minacciata dalle pressioni turche, in luogo del suo «particular comodo».15 Il richiamo tassiano, però, non risponde solo alle logica partigiana del segretario che tutela gli interessi del suo signore; la preoccupazione del poeta nei confronti della minaccia turca è reale. Nella lettera I, CVII a Raffaello Guicciardini (databile tra il 1542 e il 1544) infatti, Tasso si rammarica che il velo che offusca lo sguardo degli uomini non permetta loro di scorgere la verità. Se questo secolo non fosse così corrotto, sostiene Tasso: La povera Italia non sarebbe sì piena di guerra, di sangue, di fuoco, di rapine, come ella è, né vedrebbe ora il Tirreno, né il mar di Liguria, senza lacrime le insegne della cornuta luna dell’Ottomano, con tanti legni nemici della fede nostra e di Cristo, già tanto formidabili e odiosi, per li loro seni andar vagando.16
Le sorti dell’Italia e della cristianità sembrano inscindibilmente legate, non solo perché Roma, da sempre, è stata il centro indiscusso del cristianesimo, ma soprattutto perché la politica miope dei signori italiani sottovaluta il pericolo costituito dal sovrano turco, rendendo in questo modo vulnerabili le coste della penisola. Già Ariosto, nel canto XXXIV del Furioso, aveva rimproverato la scarsa lungimiranza di Ludovico il Moro e Giulio II: Troppo fallò chi le spelonche aperse, che già molt’anni erano state chiuse; onde il fetore e l’ingordigia emerse, ch’ad ammorbare Italia si diffuse. XXXIV, I, vv. 1-4
La miopia dei signori italiani ha dunque spalancato le porte della penisola alle scorribande degli eserciti barbari; il timore del Tasso è che la medesima cosa possa succedere con il sovrano turco. Nella lettera CLXVIII a Giovan Antonio de Tassi
14
B. Tasso, Rime, Torino, Res 1995, Libro secondo de gli Amori, I, p. 50. Ogni citazione si riferisce a questa edizione. 15 Ibidem. 16 B. Tasso, Lettere… cit., I, CVII, A M. Raffaello Guicciardini, p. 194. Il nome dell’Italia intorno al sacco di Roma
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(1544), il legame tra le sorti dell’Italia e quelle del cristianesimo è ribadito in termini ancora più espliciti. Nel ribadire l’importanza della prudenza in ambito politico e, in particolar modo, in materia di trattative di pace, Tasso scrive: Non vedete voi che da questa dipende, non pur la quiete d’Italia e la pace della Republica Cristiana, ma la conservazion della religione e della fede nostra, la quale, parte per l’eretica pravità, che quasi in tutte le città d’Europa va serpendo, parte per lo timore dell’orrenda potenzia dell’Ottomano, come nave disarmata di vele e di governo in un periglioso mare, da contrari venti combattuta, sta per sommergersi, se la seconda e prospera aura di questa desiderata pace non la sospinge in porto? Quanto più sarà tarda la risoluzione, tanto più sarà savia, stabile, e buona.17
Dalla forza politica e militare dell’Italia dipendono dunque le sorti dell’intera cristianità. È più che comprensibile, quindi, che nella lettera I, I ad Annibale Caro (1544), a quasi vent’anni di distanza da quella a Claudio Rangone (1528), il fastidio del Tasso per l’occupazione del suolo italiano da parte di eserciti stranieri non si sia per nulla attenuato. Si può percepire però un maggiore sconforto. Il senso di dignità e fierezza che emergeva dalla lettera al Rangone sembra essere svanito, evaporato a causa delle guerre che, da troppi anni, incendiano la penisola. L’Italia torna nelle parole del Tasso in una veste più dimessa, come se il glorioso passato che l’ha resa così magnifica e ambita agli occhi degli invasori fosse ormai irrimediabilmente perduto. Non appare più possibile un’esaltazione di un modello di libertà e dignità come quello fornito dalla Repubblica di Venezia fino a pochi decenni prima. Non si può più vagheggiare un’Italia intesa come un’entità in grado di esercitare, attraverso una politica unitaria, un ruolo di prestigio che ne riscatti la passata servitù. I destini della penisola appaiono ormai segnati; la via che porterà, nel 1559, alla pace di Cateau-Cambresis e alla spartizione del suolo italiano tra le due potenze europee è stata intrapresa. L’Italia sopravvive dal punto di vista culturale e linguistico ma, da un punto di vista politico, non resta nulla se non un malinconico rimpianto: O dolcezza de Italia, quanto sei grande? Che ognuno cerca di gustarti. Non bastava che i Goti, i Vandali e tante altre straniere e barbare nazioni avessero procurato, e tutto giorno procurino, de occuparti e che da tutte le più remote parti del mondo le genti ci vengano ad abitare, che ancor le Signorie, che prima da te non erano mai state né vedute, né conosciute, lasciando il loro natural paese de la Spagna, siano venute in tanto numero a viversi con essonoi; e di maniera abbino pigliata la possessione de la nostra ambizione e vanità, che non ce le possiamo spiccare da le spalle?18
La tristezza del Tasso per le sorti italiane acquista anche le sfumature di un’a-
17 18
Ivi, I, CLXVIII, Al Signor Gio. Antonio de Tassi, p. 306. Ivi, I, I, Al Signor Annibal Caro, pp. 19-20. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
L’«infelice Italia» nelle ‘Lettere’ e nelle ‘Rime’
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mara ironia quando paragona le potenze straniere agli animali che infestano le campagne e ipotizza, come metodo di disinfestazione, un curioso diserbante: S’io pensassi che ci valesse usar la scommunica, in quella guisa che in Calavria sogliono usare i contadini contra quegli animaluzzi che in herba rodono loro il grano, io direi che voi, che sete famigliare del Papa, ne procuraste una da sua Santità de le più maladette che si possono ritrovare, che so che avreste chi vi servirebbe per cacciarnele tutte.19
Ma se il glorioso passato dell’Italia non è servito a nulla di fronte alla potenza degli eserciti stranieri, diverso è il discorso per quanto riguarda il passato culturale. La continuità tra la lingua latina e quella italiana fornisce infatti, agli occhi del Tasso, un invidiabile patrimonio di illustri modelli da imitare. In questo caso, tradizione e presente possono fondersi per arricchire il patrimonio linguistico italiano. Esattamente come avviene a una «fanciulla nata di savia e di virtuosa madre»:20 essa non può limitarsi a godere della buona fama materna ma deve improntare la propria condotta sull’imitazione di tale modello. E infatti Tasso non esita a ricordare al Caro il naturale meccanismo d’evoluzione delle lingue: Non sapete voi che le lingue nascono povere e che, sì come i regi e gli imperadori fanno a gli uomini le donazioni e i privilegi de gli onori e degli stati, così la liberalità de gli ingegni d’alto sapere e di purgato giudicio, come voi sete, fanno le donazioni e i privilegi a le lingue de le parole, de le locutioni, de le figure e de gli altri ornamenti del dire e con la loro auttorità li confermano per tutti i secoli?21
La scelta della lingua volgare in luogo del latino non è per il Tasso una scelta né scontata né semplice. Cerboni Baiardi,22 ricollegandosi all’autorità di Dionisotti, sottolinea infatti come, nei primi decenni del Cinquecento, il contrasto tra le due lingue fosse ancora assolutamente aperto. Dionisotti non ha dubbi: Ci fu allora, proprio negli stessi primi decenni del Cinquecento in cui pare a noi che irresistibilmente si sviluppasse la moda del volgare, una altrettanto irresistibile e altrettanto nuova moda del latino […]. Fino al 1530 e oltre […], il contrasto tra latino e volgare non era deciso affatto: ancora non c’erano né vincitori né vinti.23
La scelta della lingua volgare da parte di Tasso rimarrà costante negli anni.
19
Ivi, p. 20 Ivi, p. 18. 21 Ivi, p. 19. 22 G. Cerboni Baiardi, La lirica di Bernardo Tasso cit., p. 13-15. 23 C. Dionisotti, Appunti sulle rime del Sannazaro, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXL (1963), 430, p. 192. 20
Il nome dell’Italia intorno al sacco di Roma
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L’idea di un’Italia considerata dal punto di vista linguistico e culturale, dunque, permane ma dal punto di vista politico, invece, il sogno sembra ormai irrealizzabile. Quantomeno non è più possibile pensare a un’Italia che si ribelli al giogo impostole dagli eserciti stranieri. Nella lettera CLV a Bernardino Rota (1544), Tasso sembra proporre nuovamente un’idea unitaria della politica italiana ma la prospettiva è irrimediabilmente mutata. Bernardo, nel tentativo di difendere la prudenza della strategia militare del Marchese del Vasto, enumera le varie ragioni che l’hanno resa necessaria per evitare danni maggiori. Tra le altre cose, Tasso scrive anche: Vedendo che l’essercito nemico potentissimo, acquistata la reputazione, padrone della campagna, si insignorirebbe del resto d’Italia, pigliò quel partito che ogni prudente e savio capitano, in questa disperazione di cose, avrebbe pigliato.24
E poco più avanti: Non entrò egli due o tre volte nell’orrore della battaglia, con isperanza d’essere seguitato e con animo piuttosto di morire che di fuggire, conoscendo che, dove un capitano perdeva l’onore, non doveva salvar la vita? Se poi, considerando che dalla perdita della persona sua dipendeva quella del Ducato di Milano e di tutta Italia, mutò consiglio e procurò di salvarsi, dee essere piuttosto laudato che ripreso.25
L’elemento chiave, però, emerge poco dopo. Difendendo la lungimiranza della strategia del Marchese, infatti, Tasso rivela il cambiamento avvenuto nel corso degli ultimi vent’anni. Così scrive al Rota: Chi averebbe, in tanta ruina di cose, pensato che il menare a combattere quelle genti era temerità e poco giudicio, e considerato che, potendo salvare quelle, salvava lo stato di Milano e tutta Italia a sua Maestà?26
L’Italia esiste sempre come idea di unità territoriale ma dal punto di vista politico è ormai definitivamente tramontato il sogno del suo riscatto. L’Italia è una preda di conquista da consegnare a re stranieri, quegli stessi re che solo vent’anni prima erano visti come barbari invasori e che ora costituiscono l’unica possibilità di pace per la misera Italia. Una pace per la quale bisogna pagare un caro prezzo ma che ormai non sembra più conquistabile se non a patto di rinunciare alla propria libertà. Anni di guerre hanno martoriato l’animo e i territori della penisola, fiaccandone
24
B. Tasso, Lettere cit., I, CLV, Al Sig. Bernardino Rota, p. 285. Ivi, p. 286. 26 Ivi, p. 288. 25
XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
L’«infelice Italia» nelle ‘Lettere’ e nelle ‘Rime’
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la resistenza e lasciando dietro di sé solo sangue e devastazione. Dalla discesa in Italia di Carlo VIII, nel 1494, l’Italia non ha più conosciuto pace: «Mentre che io canto, o Iddio redentore, / vedo l’Italia tutta a fiamma e a foco» registra Boiardo nell’ultimo canto dell’Inamoramento d’Orlando (III, IV, XXVI, vv. 1-2).27 La descrizione dell’Italia straziata dalla guerra che Tasso fornisce nell’Inno a Venere è emblematica di questo senso di impotenza: Che vedrai l’ampie strade Tinte del nostro e peregrino sangue, Sì ch’ogni erbetta langue, E tronca da le spade Ogni gioia d’Italia in terra cade; Vedrai l’Adda e ’l Tesino, Che trasparente e più d’un ambra puro Altero iva e sicuro, Or gir col capo chino E con l’onde turbate al suo camino; Vedrai la Secchia e ’l Taro Timidi ancor dal gorgo alzar la testa, Per mirar la tempesta Che senza alcun riparo L’Arno, l’Arbia e ’l Mugnon sforza di Paro; E d’alte vele pieno, Che dipredando van di piaggia in piaggia Quasi veltro in selvaggia Parte le fiere, il seno Del gran mar di Liguria e del Tirreno, Tal che teme Sebeto E Partenope bella il suo periglio, E con turbato ciglio Nel luogo più secreto L’abito pongon più purpureo e lieto; Vedrai che “n ogni parte De l’infelice Italia, in ogni loco, E col ferro e col foco Va il furibondo Marte, Sì che di tronche membra e fiamme sparte
27
M. M. Boiardo, L’inamoramento de Orlando, Napoli, Ricciardi 1999.
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Ogni riva, ogni colle, Ogni selva, ogni valle, ogni campagna, Carca et arsa si lagna, E col volto ognor molle Le voci del suo dol al cielo estolle. Inno a Venere, vv. 61-95
Anche il sonetto A l’Italia testimonia il senso d’impotenza di fronte alla condizione di schiavitù in cui giace la penisola. L’immagine dell’Italia che ne emerge richiama alla mente il capitolo XXVI del Principe, nel quale Machiavelli la definisce «sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa».28 Ma se Machiavelli rivolge alla famiglia Medici l’esortazione a prendere la bandiera della redenzione e a liberare l’Italia dalle «sue piaghe già per lungo tempo infistolite»,29 diversa è la scelta del Tasso. Il sonetto A l’Italia, infatti, è una preghiera a Enrico II affinché assuma su di sé la responsabilità di riscattare la penisola dalla sua condizione. Il degrado è giunto al culmine, nessun principe italiano sembra più in grado di risollevare le sorti del paese. Più volte, nelle Lettere, Tasso ha utilizzato l’immagine del paese soffocato dalle pressioni straniere, che spera di tornare a respirare. Ora, invece, sembra aver esalato l’ultimo respiro. Così si rivolge Tasso all’Italia: Il giogo porta al gran tempio a lui sacro, Che ’l collo t’ha si duramente offeso; E quello a piè de la sua statua appendi: Gridando: o magno Herrico, io ti consacro, De la mia servitute il grave peso, Lieta e felice: e tu benigno il prendi. A l’Italia, vv. 9-14
Il liberatore invocato, dunque, non è altro che un nuovo sovrano straniero. Ogni speranza appare ormai vana e l’unica forma di libertà possibile per l’Italia è l’umiliante sottomissione a un re che si faccia carico della sua difesa.
28 29
N. Machiavelli, Il Principe, a cura di G. Inglese, Torino, Einaudi 1995, p. 169. Ibidem. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
LA REPUBBLICA ROMANA DEL 1849
VALERIA TAVAZZI Prima ricognizione sulla Repubblica romana del 1849 e la narrativa: Antonio Bresciani
All’interno di un lavoro di ricerca sulla Repubblica romana che si interroga sia sul ruolo della letteratura in questa esperienza storica sia sulla letteratura che essa stessa ha prodotto nei pochi mesi della sua durata e in seguito, occuparsi della narrativa, e in particolare del romanzo, significa fare da subito i conti con un’anomalia. Anomalia dovuta al fatto che fin da una primissima ricognizione fra la narrativa di metà Ottocento, alla ricerca di opere che possano avere avuto come tema o come sfondo la Repubblica romana e gli eventi connessi, o che ad essa rimandino per via allusiva, ci si imbatte in una serie di testi particolarmente ingombranti sia per mole che per contenuto ideologico: la trilogia dell’Ebreo di Verona, La Repubblica Romana e il Lionello del famigerato padre Antonio Bresciani, usciti a puntate in appendice alla «Civiltà cattolica» fra l’aprile del 1850 e il dicembre 1852. A differenza di quanto sembra accadere per la lirica o per il teatro, spesso veicoli di attese, speranze e idee patriottiche, per quanto riguarda il romanzo la Repubblica romana diventa prestissimo il banco di prova per elaborare un monumento alla reazione, il tramite privilegiato attraverso il quale le gerarchie cattoliche impongono la loro versione dei fatti. Con questo, prima ancora che con affreschi suggestivi e atti eroici, deve quindi confrontarsi una ricerca che si accinga a mettere il relazione romanzo e Repubblica del ’49; ricerca che però non intende fermarsi certo a questa prima tappa, ma verrà in futuro estesa anche ad altri testi, selezionati per il momento in un arco temporale esteso almeno fino al 1870. Il 1870 non è infatti solo la data in cui si risolve la questione romana, ma è anche l’anno in cui esce il romanzo di Giuseppe Garibaldi sul 1849 Cantoni il volontario. Fra questi due poli estremi e contrapposti – quello di Bresciani e il romanzo di Garibaldi – è prevista fin d’ora l’analisi di altri testi che sono legati a questa esperienza o perché la assumono come spunto narrativo (è il caso di Un prode di Roma di Francesco Sebregondi del 1864) o perché, anche se non toccano direttamente le vicende repubblicane, restituiscono il clima politico e ideologico da cui quelle vicende si sono sviluppate (come accade ad esempio per I
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moderni farisei di Luigi Capranica, presente a Roma in quel periodo e attivo soprattutto come autore di testi teatrali dall’elevato tasso patriottico).1 Una volta indagate le modalità con cui gli eventi repubblicani vengono trasformati in narrativa, sarà poi possibile sondare l’inserimento di quei temi e dei nodi problematici ad essi legati in opere che ne sono apparentemente lontane (perché magari ambientate nel passato, secondo la modalità ricorrente del romanzo storico a chiave, o perché volte a celebrare altri episodi della storia recente). Partire, anche solo per ragioni cronologiche, dai romanzi di Bresciani impone subito un’ottica attenta non tanto ai fermenti culturali e politici che la Repubblica romana aveva prodotto, quanto piuttosto alla cristallizzazione di questo episodio dal punto di vista storiografico. La sua trilogia ha infatti l’intento, evidentissimo, di fare da contraltare alla pubblicistica rivoluzionaria e ai tanti articoli sull’eroismo patriottico dimostrato durante l’assedio ampiamente diffusi dalle testate giornalistiche di mezza Europa. Ne propone dunque una rilettura complessiva ed estesa non solo ai fatti di Roma ma a tutto il fenomeno risorgimentale a partire dalle sue origini illuministico-giacobine. È sul piano dei simboli e della retorica utilizzata dagli scritti di propaganda, oltre che nel racconto degli eventi in sé, che si gioca quindi il discorso. Particolarmente significativa è, da questo punto di vista, la scelta del genere romanzo. Se da un lato il romanzo storico era stato infatti uno dei mezzi privilegiati per divulgare motivi patriottici – si pensi a Guerrazzi, Cantù, D’Azeglio, Grossi – dall’altro esso era stato osteggiato dalle gerarchie cattoliche, e in primis dai gesuiti, fin dal Settecento.2 Il fatto che poi comparisse a puntate, come secondo feuilleton italiano,3 su un periodico – mezzo ugualmente osteggiato – dà in pieno la misura di una svolta su cui ha scritto pagine illuminanti Alessandra Di Ricco.4
1 Il romanzo, uscito nel «Romanziere illustrato» nel 1865, fu poi pubblicato in volume da Treves nel 1871. Su Capranica cfr. la voce di A. Briganti, nel Dizionario biografico degli italiani (DBI), Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, XIX, 1976, pp. 158-160 e l’introduzione e le note che accompagnano L. Capranica, Donna Olimpia Pamfili. Storia del sec. XVII, a cura di A. Romano, Roma, Salerno editrice 1988. 2 Cfr. ad esempio il parere negativo sul genere espresso da un uomo di vasta cultura come Giambattista Roberti (Del leggere i libri di metafisica e di divertimento, in Opere dell’abate Giambattista Roberti di Bassano, Nuova edizione, Venezia, Antonelli 1830-1831, 19 voll., V-VI), su cui E. Guagnini, Rifiuto e apologia del romanzo nel secondo Settecento italiano. Note su due «manifesti» (Roberti e Galanti), in Letteratura e società. Scritti di italianistica e critica letteraria per il XXV anniversario dell’insegnamento universitario di Giuseppe Petronio, Palermo, Palumbo 1980, 2 voll., I, pp. 291-309. 3 L’unico feuilleton precedente sarebbe quello di Pio Bandiera, I fiori sempiterni e il cholera, uscito tra il 1848 e il 1849 sul «Lampione» di Firenze. Per la notizia cfr. E. Picchiorri, La lingua dei romanzi di Antonio Bresciani, Roma, Aracne 2008, p. 23. 4 A. Di Ricco, Padre Bresciani: populismo e reazione, in «Studi storici», XXII (1981), n. 4, pp. 833-860.
XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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Siamo dunque in presenza di testi composti ricorrendo ai mezzi dell’avversario, elaborati in un clima in cui padre Curci, fondatore della «Civiltà cattolica», scriveva che «in fatto di propaganda» i gesuiti dovevano dimostrare di saper «forse qualcosa di meglio di Mazzini».5 Un’ulteriore conferma del rilievo di questa operazione viene poi dal fatto che il romanzo, come la rivista, è presentato ai lettori come frutto della diretta volontà papale. Circostanza confermata nei fatti dall’esistenza negli archivi della «Civiltà cattolica» di una bozza del capitolo dell’Ebreo di Verona sulla fuga del papa da Roma, corretto direttamente dalla mano di Pio IX.6 Se la giusta collocazione della trilogia all’interno del contesto reazionario è stata evidenziata da tutti gli studiosi che se ne sono occupati,7 quello che forse deve ancora essere messo in luce è il peso che agli occhi dei lettori dell’epoca doveva assumere la seconda parte – intitolata proprio La Repubblica romana – finora un po’ trascurata perché considerata un’appendice dell’Ebreo di Verona. Sebbene si tratti di un seguito, meno coerentemente legato all’evoluzione di un plot romanzesco (Orvieto per questo non lo giudica nemmeno un vero romanzo), questo secondo testo tocca la fase calda dell’esperienza rivoluzionaria, di cui l’Ebreo aveva semplicemente descritto i prodromi, e sappiamo che lo stesso Bresciani aveva ricevuto pressanti sollecitazioni a non arrestare la sua narrazione alla fuga di Pio IX.8 Ma vediamo in breve, perché non è possibile riassumerli, di cosa parlano questi romanzi. Il primo, uscito a puntate dall’aprile del 1850 all’agosto del 1851, imposta la trama su cui poi si innesteranno i successivi: è ambientato a Roma e narra le vicende di un gruppo di personaggi dal 1846 fino alla fine del ’48. I protagonisti sono il neoguelfo Bartolo Capegli che, inizialmente simpatizzante con i liberali durante la stagione riformista aperta dall’elezione di Pio IX, ripiegherà in seguito su rigide posizioni legittimiste; sua figlia Alisa, monolitica «madonnina infilzata» fin dall’inizio espressione del più ottuso conformismo cattolico, e il coraggioso rivoluzionario Aser, l’ebreo di Verona, che innamorato di Alisa arriverà nel finale a rin-
5
Ivi, p. 842. La citazione proviene da una lettera di Curci a Betti del febbraio 1850, ora in «La civiltà cattolica» 1850-1945, antologia a cura di G. De Rosa, S. Giovanni Valdarno 1971, 4 voll., I, p. 29. 6 Cfr. E. Picchiorri, La lingua dei romanzi di Antonio Bresciani cit., p. 49-52. 7 Oltre ai citati Di Ricco e Picchiorri, cfr. almeno R. Rinaldi, L’estrema civiltà di padre Bresciani. Passeggiate critiche, in «Critica letteraria», n. 38 (1983), pp. 27-61; N. Del Corno, Letteratura e anti-risorgimento. I romanzi dell’abate Bresciani, in «Memoria e Ricerca. Rivista di storia contemporanea», gennaio aprile 2007, num. monogr. Letteratura e politica. Sulla contro-rivoluzione nell’Europa del XIX secolo, pp. 21-32 e il recentissimo P. Orvieto, Buoni e cattivi del Risorgimento. I romanzi di Garibaldi e Bresciani a confronto, Roma, Salerno editrice 2011. 8 Cfr. la lettera di Bresciani a Marcantonio Parenti del 25 maggio 1851, in Opere del p. Antonio Bresciani della compagnia di Gesù, Roma-Torino, Ufficio della civiltà cattolica – Pietro di G. Marietti tip. pontificio 1865-1869, 18 voll., XVI, 1869, p. 464: cfr. E. Picchiorri, La lingua dei romanzi di Antonio Bresciani cit., p. 20. La Repubblica romana del 1849
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negare tutto il suo operato per convertirsi e che verrà per questo ucciso dagli ex compagni «settari». In una trattazione a tinte fosche in cui vengono direttamente inseriti i personaggi pubblici attivi in quegli anni – Sterbini, il capopopolo Ciceruacchio, Mamiani, Mazzini stesso, cui viene dedicato un ampio e terribile ritratto – Bresciani svela il piano delle sette segrete per manipolare le coscienze, la loro capillare organizzazione in tutta Europa, la loro spietatezza e i torbidi fini dei loro capi (Mazzini) per sostituirsi di fatto ai legittimi governanti. Il secondo romanzo è ambientato in Svizzera, dove Bartolo si è rifugiato insieme ad Alisa e ai nipoti Mimo e Lando, altri rivoluzionari pentiti, e da cui osserva i fatti di Roma durante i mesi della Repubblica. La trattazione dei rivolgimenti politici avviene attraverso la lettura e il commento di lettere inviate alla compagnia da alcuni amici rimasti nella capitale, e dalle discussioni in proposito che avvengono fra i personaggi e altri loro compagni di viaggio. Relegati in un’oasi di pace, in una specie di hortus conclusus che li mette al riparo da ogni sconvolgimento, i personaggi presentano eventi di cronaca ed episodi di abnegazione repubblicana con risvolti grotteschi, spesso ammantandoli di un’aura carnevalesca che non rifugge nemmeno dal ricorso alla parodia della retorica sacra: in quest’ottica, Mazzini è il papa e i repubblicani sono gli apostoli, vengono smascherati tutti i tentativi dei rivoluzionari di rifarsi a una religiosità superiore alle gerarchie (con l’ordine ai sacerdoti di celebrare la Pasqua o con l’uso strumentale della scomunica), e viene persino inventata da uno dei cugini di Alisa una confessione fra «monna repubblica» – che incede «tutta contrita e picchiandosi il petto […]» col «velo rosso grondante di sangue» – e un prete compiacente pronto ad assolvere i suoi peccati.9 Mentre i personaggi discorrono di politica nell’albergo in cui sono ospitati, dalla stanza accanto si sente uno sparo. Accorsi a vedere di cosa si tratti, trovano il cadavere di un uomo morto suicida, Lionello, e un manoscritto in cui è narrata la sua vita: una vita spesa tutta al servizio delle sette segrete che lo hanno condotto a commettere le più atroci nefandezze. L’espediente del manoscritto ritrovato permette così a Bresciani di inserire un terzo romanzo all’interno del secondo. La storia di Lionello, sorta di discesa agli inferi senza redenzione, sposta l’attenzione di nuovo sulla prospettiva internazionale che aveva ispirato le digressioni dell’Ebreo di Verona e non ha più un legame diretto con la Repubblica romana che qui ci interessa. I tre romanzi, che l’autore considerava come un affresco unitario e inscindibile delle recenti vicende rivoluzionarie, mescolano dunque «verità» e finzione con il
9
A. Bresciani, La Repubblica romana e Lionello, in Opere… cit., VIII-IX, 1866, VIII, p. 138. Sullo «scambio fra religione e male sotto il segno della falsificazione […] possibile proprio perché Bresciani fornisce una descrizione del Male omologa e specularmente inversa alla Religione stessa» cfr. R. Rinaldi, L’estrema civiltà di padre Bresciani cit., pp. 32-36. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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ricorso a diversi espedienti tradizionali del genere: l’inserimento di una storia d’amore (quella fra Alisa ed Aser) all’interno di un preciso e documentato contesto storico (in questo caso di cocente attualità) nell’Ebreo di Verona; il racconto-cornice costruito intorno a testimonianze epistolari, che permette di variare lo stile fra le voci dei personaggi e quelle dei testimoni oculari di cui si leggono le missive, nella Repubblica romana; e infine, nel Lionello, l’espediente del manoscritto ritrovato, nella versione tanto più efficace delle memorie private casualmente sottratte all’anonimato. Appare chiaro dunque come Bresciani, pur nella granitica e quasi ossessiva ripetizione di schemi e argomenti reazionari, cerchi in tutti i modi di sfruttare a suo vantaggio le regole già codificate del genere narrativo e come sia in grado anzi di dosarne con accortezza le molteplici sfumature, in un gioco di scatole cinesi in cui la verosimiglianza della cornice fictional risulti avvalorata da un profluvio di testimonianze esterne (documenti e articoli di giornale riprodotti e commentati all’interno del testo), e di converso ogni nuova invenzione si basi su ben calibrate rivendicazioni di realtà, anche attraverso un patto col lettore di tipo pseudo-memorialistico o epistolare.10 Allora forse, invece di notare come la struttura sfilacciata della Repubblica Romana renda quest’opera «un’attenta e accorata cronistoria dei fatti» e «un documento soprattutto storico» più che un romanzo vero e proprio,11 occorrerebbe evidenziare come Bresciani preferisca non abbandonare la classica impostazione romanzesca del primo volume per comporre anche queste «appendici», mantenendo una continuità data non solo dall’orizzonte tematico, ma dal preciso ricorso, almeno nella seconda parte, agli stessi protagonisti. In quest’ottica, la scelta di affidare a personaggi di invenzione, già cari ai lettori, riflessioni che sarebbero potute comparire anche in altra forma, ad esempio in indignati articoli di approfondimento politico, rende la Repubblica Romana e il suo inserto Lionello parti di un tutto inscindibile e mostra come il romanzo si prestasse, ancora in pieno Ottocento, ad accogliere strutture narrative molto più varie ed aperte di quanto siamo soliti riconoscere oggi.12
10
Sul rapporto spesso distorto fra storia e invenzione nei romanzi di Bresciani e sulle tecniche da lui utilizzate cfr. ivi, pp. 56-59. 11 P. Orvieto, Buoni e cattivi del Risorgimento… cit., p. 129. Una seppur vaga impostazione romanzesca permane, del resto, nell’evoluzione dei personaggi di Alisa e del cugino Lando, che negli ultimi capitoli maturano entrambi la vocazione religiosa: Alisa ne parla con il suo confidente spirituale, padre Cornelio, Lando invece abbandona la compagnia senza dire nulla a nessuno, per chiudersi in monastero. 12 Nel panorama italiano, del resto, fin dagli esordi il romanzo si era connotato come genere aperto e ibrido: si vedano ad esempio i dialoghi che Antonio Piazza inserisce nel suo Il teatro ovvero fatti di una veneziana che lo fanno conoscere, o la struttura ancora più insolita, a metà fra romanzo allegorico e gazzetta, del Mondo morale di Gasparo Gozzi. Su questi temi cfr. T. La Repubblica romana del 1849
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Siamo quindi in presenza di un ciclo che, almeno nelle intenzioni del suo autore, associa all’invenzione romanzesca una notevole abbondanza documentaria, spesso di parte avversa, inserita nel testo in modo diretto con l’intento di disinnescarne l’efficacia retorica. Vittime di questa pratica sono ad esempio le riviste, e soprattutto due giornali apertamente schierati in campo repubblicano, la «Pallade» e il «Contemporaneo», di cui vengono citati alcuni articoli, riportati in corsivo, accompagnati da commenti ironici. A questa guerra aperta con le fonti democratiche se ne aggiunge un’altra, più sottile, che prevede la ripresa non dichiarata, all’interno del testo, di passi provenienti dalla pubblicistica coeva. Un esempio, piuttosto noto perché individuato da Lucy Riall nella sua monografia su Garibaldi, riguarda l’uso che Bresciani fa, nel Lionello, della biografia del generale pubblicata nel 1850 da Giovanni Battista Cuneo.13 Bresciani parafrasa la descrizione di Cuneo, riprende nel testo alcuni versi che questo attribuisce a Garibaldi e arriva addirittura ad inserire, nel finto manoscritto di Lionello, una frase intera prelevata dalla biografia reale senza rielaborazioni, quasi a voler sovrapporre, come ha ipotizzato Picchiorri, la finta vita di Lionello al testo vero del garibaldino.14 Allo stesso modo, probabilmente, altri episodi del romanzo prevedono uno stretto dialogo con articoli o pamphlet repubblicani freschi di stampa e una ricerca delle fonti analoga a quella compiuta da Lucy Riall sul cammeo garibaldino porterebbe sicuramente a risultati altrettanto interessanti, vista anche la natura libresca dell’ispirazione di Bresciani che, sebbene in quei mesi fosse a Roma, era costretto alla clandestinità e non avrebbe potuto quindi fornire una testimonianza diretta dei fatti. Tale verifica esulerebbe però dai confini di questa ricerca, orientata verso prospettive più ampie. In generale preme però notare come Bresciani tenda a creare miti antitetici e alternativi rispetto a quelli risorgimentali, usando spesso gli stessi ingredienti di racconti esemplari divulgati sui giornali dell’epoca. Significativa in proposito – anche per il ruolo tradizionalmente attribuito alle donne nella fortuna del romanzo – è la rappresentazione dei personaggi femminili. Un aneddoto riferito sul «Monitore romano» del 19 marzo 1849, racconta: Nel principio della Seduta di jeri, poiché il deputato Mazzini ebbe accennato ai sacrificii di ogni sorte che la guerra imminente domanda, e certo otterrà dal patriottismo del
Crivelli, «Né Arturo né Turpino né la tavola rotonda». Romanzi del secondo Settecento italiano, Roma, Salerno editrice 2002 e sul Mondo morale, I. Crotti, L’esperimento del romanzo: ‘Il mondo morale’, in Gasparo Gozzi. Il lavoro di un intellettuale nel Settecento veneziano, a cura di Ilaria Crotti e Ricciarda Ricorda, Atti del Convegno (Venezia-Pordenone 4-6 dicembre 1986), Padova, Editrice Antenore 1989, pp. 187-205. 13 L. Riall, Garibaldi: l’invenzione di un eroe, Roma-Bari, Laterza 2007, p. 175. 14 E. Picchiorri, La lingua dei romanzi di Antonio Bresciani cit., pp. 46-48. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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popolo, dalla tribuna riserbata alle donne, cominciò una pioggia d’oro di pendenti, fermagli, ed anelli. Non si sa quale delle cittadine che assistono alle Sedute dell’Assemblea abbia dato questo nuovo esempio della potenza della parola, e della prontezza del popolo a secondarla. Del resto questo primo tratto non ci sorprende nelle patria delle Cornelie. Cittadine di Roma! Voi vi mostrerete degne pronipoti di quella, che, domandata quali fossero i suoi tesori, mostrò i due figli che ella stessa educava al santo amore di patria e di libertà. Voi darete certo i vostri vani ornamenti alla Repubblica che li aspetta, come li hanno dati volenterosi le donne Venete e le Lombarde: e imiterete, se fia d’uopo, quella giovinetta toscana, che non avendo né oro né argento, recise e vendette le sue belle trecce e ne offerse il prezzo alla patria, e la fidanzata di Modena, che, alla partenza della crociata, diede lo sposo la vigilia delle nozze lungamente desiderate, dicendo: lo sposerò vincitore. Nella scienza de’ nobili sagrificii la donna è maestra!15
L’articolo rimanda a molti episodi simili noti all’epoca, raccontati anche nella raccolta delle poesie di Mercantini a proposito degli effetti della predicazione di Ugo Bassi.16 Vi si lodano le donne che rinunciano ai loro ornamenti – siano essi monili d’oro o trecce bionde – nonché quelle che rimandano il matrimonio spingendo lo sposo alla guerra o privandosi del corredo, riconoscendo nella mortificazione della bellezza e nella dilazione delle «nozze lungamente desiderate» i massimi sacrifici offerti dalle donne, degne per questo di essere paragonate alle eroine romane. Ogni sforzo per la causa comune, commisurato alle possibilità – economiche e di genere – del soggetto che lo compie, viene dunque giudicato ammirevole e assume un forte valore simbolico nell’ottica di una partecipazione collettiva e compatta all’ideale patriottico.17 Su questo stesso piano sembra rispondere Bresciani quando presenta un caso analogo ma ribaltato di segno nella sua Repubblica romana: in seguito all’obbligo imposto a tutti i lavoratori pubblici di «aderire» al nuovo sistema di governo, egli si sofferma a parlare di quelli «i quali vollero prima vivere poverissimamente, che
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«Monitore romano» del 19 marzo 1849, p. 209. Cfr. il testo Elisa ovvero una povera giovane bolognese alle offerte per la patria nella primavera del 1848 e la nota in cui si riporta un articolo apparso sul giornale «La Donna» nel 1858, in Luigi Mercantini, Canti, Nuova edizione con l’aggiunta di molte poesie inedite e un discorso di Giovanni Mestica, Milano, Oreste Ferrario 1885, pp. 15-17 e 547-49. Cfr. inoltre S. Soldani, Donne e nazione nella rivoluzione italiana del 1848, in «Passato e presente», n. 46 (1999), Speciale 1848. Scene da una rivoluzione europea, a cura di H.-G. Haupt e S. Soldani, pp. 75-102. 17 Sulla partecipazione femminile alla Repubblica romana del 1849, oltre alla bibliografia citata cfr. anche R. De Longis, Tra sfera pubblica e difesa dell’onore. Donne nella Roma del 1849, in «Roma moderna e contemporanea», IX (2001), n. 1-3, fasc. monografico Roma repubblicana 1798-99, 1849, a cura di M. Caffiero, pp. 263-283. 16
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macular la coscienza» e aggiunge «Questa gloria della fede romana non mancherà mai, checché ne dica e ne sghignazzi chi le vuol male».18 Dopo aver elogiato gli uomini che non si sono piegati a questa legge, considera dunque l’appoggio che costoro hanno ricevuto dalle mogli e racconta il caso di Nardo, sua figlia Lisetta e il fidanzato di lei Pippo. Nardo e Pippo sono entrambi coinvolti nel problema dell’adesione e entrambi rinunciano al loro impiego. Un ruolo fondamentale in questa loro scelta lo ricopre Lisetta, che rimanda il suo matrimonio e provvede al ménage familiare e ai bisogni del fidanzato in questo modo: Questa eroica fanciulla, pochi giorni appresso il congedo del padre, gli entra una mattina in camera con un gran vassoio, sul quale avea posto in bell’ordine tutt’i vezzi, gli ori e le gioie del suo corredo per le prossime nozze, e gli disse: – Babbo, or non è stagione da vezzi, è bisogno di pane, e voi servitevene per la famiglia. E detto, non attese gli abbracciamenti paterni e ritirossi, lasciando il padre con un tal groppo d’affetti in seno, che non ebbe campo di poterle rispondere: ti ringrazio, Dio ti benedica. La Lisetta rimandò anche i doni nuziali a Pippo dicendo: – Questi gioielli ti ponno venire in acconcio pe’ tuoi bisogni; o tu me li rifarai, o io ti sposerò senz’essi, chè la gioia più bella di due sposi è l’amarsi di buon amore.19
Il gesto di Lisetta, che si priva dei gioielli e si mette poi a lavorare fino a notte fonda per mandare avanti la casa, sembra in tutto e per tutto il rovescio di quello delle donne repubblicane infiammate dal discorso di Mazzini, solo che è volto alla custodia della famiglia. Sostituita l’idealità repubblicana con l’abnegazione familiare – in linea con la tendenza propria della «Civiltà cattolica» a valorizzare, come dice Alessandra Di Ricco, gli «organismi minori preesistenti allo stato (famiglia, comune, corporazione)»20 – il sacrificio di Lisetta si offre, dalle pagine di Bresciani, come paradigma di comportamento eroico, da affiancare a quelli forse troppo patinati della perfetta e ottusa Alisa o delle pie monachelle che affollano il romanzo. La condotta esemplare di Lisetta, insieme a quella analoga di Luisella nell’Ebreo, è dunque il risultato di un recupero in chiave papalina di topoi risorgimentali giudicati assimilabili anche da parte avversa. Nel caso in cui le patriote assumano invece una condotta troppo spregiudicata per la limitata visione reazionaria, Bresciani compie un’operazione ancora più sottile sdoppiando un’unica figura in due cloni speculari, uno negativo attribuito ai repubblicani e l’altro positivo, ma smorzato, recuperabile nelle file dell’anti-risorgimento. È quanto avviene con il modello della donna guerriera, incarnata sulle mura di Roma da Colomba Antonietti e riproposta da Bresciani nella figura di Polissena e della croata Olga. La prima è l’istitutrice che
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A. Bresciani, La Repubblica romana e Lionello cit., VIII, p. 38. Ivi, p. 40. 20 A. Di Ricco, Padre Bresciani: populismo e reazione cit., p. 840. 19
XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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Bartolo mette sprovvedutamente vicino ad Alisa appena uscita di convento: fervente mazziniana, settaria e cospiratrice, la donna finirà per arruolarsi, sarà ferita a morte e raggiungerà la conversione solo alla fine, grazie alla pia accoglienza in casa di contadini e alle preghiera della sua pia sorella Ombellina. La seconda invece è una combattente croata che va in guerra nell’esercito austriaco per permettere al fratello di rimanere con la famiglia, lotta valorosamente e raccoglie in sé abilità mascoline, tenerezza femminile e pietà cristiana. Convogliato nell’alveo della perfetta ortodossia cattolica e stemperato dalla distanza culturale – che permette a Bresciani di recuperare in chiave positiva il termine «croato» usato per indicare spregiativamente gli austriaci – lo stereotipo della donna guerriera trova così una sua incarnazione papalina, esente da ogni suggestione patriottica.21 Del tutto irrecuperabili nelle file cattoliche e legittimiste sono invece due altre figure femminili, la diabolica Babette d’Interlaken, femme fatale invischiata nelle congiure settarie, protagonista di alcuni passaggi da romanzo nero dell’Ebreo di Verona,22 e la principessa Cristina di Belgioioso, il cui profilo ci permette di riflettere ulteriormente sulle modalità con cui Bresciani porta avanti la sua propaganda.23 Bresciani presenta la principessa sempre in termini caricaturali e sarcastici, dando sfogo – nel rendere i dettagli più minuti del vestiario o nella parodia della retorica rivoluzionaria – a quel compiacimento linguistico così tipico della sua prosa, già individuato da De Sanctis nella celebre recensione apparsa sul «Cimento» nel 1855.24 Nell’Ebreo di Verona la troviamo avvolta nel suo «farsettino di velluto a svolazzi» o nel «guarnelletto a connoncelli gheronati di soprariccio»,25 mentre esorta eloquentemente all’azione un gruppo di napoletani raccolti in un caffé; o, ancora, nel secondo romanzo ci appare come una «papessa», a capo di «certe santesse della Repubblica»,26 mentre gira i conventi della città per persuadere le monachelle a
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Sul recupero dei croati operato da Bresciani anche con il supporto delle sue conoscenze etnografiche cfr. ivi, pp. 849-852. 22 Questa figura ha trovato una riattivazione letteraria nel Cimitero di Praga di Umberto Eco (Milano, Bompiani 2010). Sulle citazioni da Bresciani presenti in quest’opera cfr. E. Picchiorri, Padre Bresciani nel ‘Cimitero di Praga’. Eco, riscrittura, citazione, in «Parole rubate», rivista semestrale on-line, http://www.parolerubate.unipr.it, fasc. 4 dicembre 2011, pp. 169-186. 23 Su Cristina di Belgioioso e sulle peculiarità del suo comportamento femminile cfr. M. Tatti, Cristina di Belgioioso, una donna sul palcoscenico della storia, in Ead., Il risorgimento dei letterati, Roma, Edizioni di storia e letteratura 2011, pp. 143-155. 24 Ora in F. De Sanctis, ‘L’Ebreo di Verona’ del padre Bresciani, in Saggi critici, vol. I, Bari, Laterza 1952, pp. 44-70. Cfr. anche R. Rinaldi, L’estrema civiltà di padre Bresciani cit., pp. 38-44. 25 A. Bresciani, L’Ebreo di Verona. Racconto storico dall’anno 1846 al 1849. Unica edizione riveduta e corretta dall’autore con aggiunta di note storiche e filologiche, Milano, Tipografia Arcivescovile Boniardi Pogliani 1855, 2 voll., I, p. 327. 26 Id., La Repubblica romana e Lionello cit., IX, p. 182. La Repubblica romana del 1849
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sciogliere i voti. Ovviamente il suo zelo viene sempre premiato con l’indifferenza o gli sberleffi degli astanti; nei monasteri ad esempio «era una delizia a veder quelle sposine del Signore beffarsi di quella spilungona di principessa, ch’era un sacco d’ossa, animato dalle furie repubblicane».27 A rendere ancora meglio l’interazione di Bresciani con le fonti risorgimentali è però un caso appena accennato, quello in cui a causa del suo impegno organizzativo, la Belgioioso viene associata alle «infermierine» che «snellette intorno a’ letti in grembiulino di seta a ventaglio» avrebbero mandato all’altro mondo i feriti «in ben altra guisa che non fanno i preti in cotta e stola».28 Il riferimento sotteso al passo rimanda non solo all’allora piuttosto diffusa percezione della sconvenienza di un simile incarico affidato a donne giovani, belle, spesso nubili; ma anche, come dimostra una nota dello stesso autore,29 a una polemica in voga nei mesi successivi alla caduta della Repubblica, quella sulla presenza negli ospedali di donne di facili costumi. La stessa principessa aveva ritenuto necessario discolparsi da una simile accusa, inviando una lettera a Pio IX il 20 gennaio del 1850, in cui sosteneva di avere accettato l’aiuto di alcune volontarie senza sapere del loro «disonesto mestiere» e ribadiva di aver sempre esercitato il più severo controllo sulla moralità al punto da aver allontanato delle giovani oneste perché avevano avuto comportamenti sconvenienti.30 Se è evidente dunque il dialogo continuo che lega la complessa costruzione di Bresciani ai miti patriottici diffusi dalla breve parabola repubblicana – nella consapevolezza di quanto quest’ultima avesse incrinato, nell’immaginario collettivo, il nesso che vedeva come necessario e inevitabile il potere temporale dei papi – è altrettanto chiaro il suo tentativo di smontare dall’interno quei miti, ribaltandoli nel loro opposto speculare per intercettare il bisogno di alte idealità da loro alimentato e infangandoli quando invece non potevano essere in nessun modo ricondotti nell’alveo del legittimismo papale. Nei contenuti, insomma, la trilogia di Bresciani ripresenta lo stesso accorto e spregiudicato calco dei modelli nemici sotteso alla scelta della forma narrativa. Si tratta adesso di vedere come, dall’altra parte, temi eroici e nodi politici vengano assunti nella narrativa e quanto eventualmente le trasposizioni successive risentano di questo primo, abnorme, monumento della reazione.
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Ivi, p. 186. Ivi, p. 249. 29 Ivi, p. 250: «[…] Di quelle svergognate poi, che tenean luogo del demonio tentatore al capezzale di quegl’infelici (alcuni de’ quali morirono col perfido bacio in bocca) abbiamo testimoni gravissimi: e la stessa principessa Belgioioso, facendo mostra di negarlo, ce lo confessa apertamente ne’ suoi scritti pubblicati ne’ giornali». 30 Cfr. L. Montesi, Tracce femminili nella Repubblica Romana, in Studi sulla Repubblica Romana del 1849, a cura di M. Severini, Ancona, Affinità elettive 2002, pp. 151-163. 28
XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
BEATRICE ALFONZETTI La Repubblica romana: il teatro
Si presentano qui i primi risultati dello spoglio del quotidiano «La Pallade» dal 16 giugno 1847 al giugno 1849.1 Occorre precisare tuttavia che l’ultimo numero che tratta ancora di teatro è quello del 12 aprile in cui si dava notizia di una recita al teatro Valle della compagnia di Luigi Domeniconi con la «regina delle attrici» Adelaide Ristori.2 La scelta di questo argomento è legata a un lavoro di équipe che s’inquadra nel Prin e in un progetto di ricerca dell’Ateneo Sapienza. Sullo sfondo un lavoro più ampio sul teatro dei patrioti nei primi decenni del processo unitario, che risponde a varie sollecitazioni e che si può riassumere così: il teatro continua ad avere la stessa centralità che aveva nel Settecento? Rispondo con una formula: se, come si diceva allora, la tragedia francese ha fatto la Rivoluzione, il Risorgimento è stato
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Cfr. «La Pallade. Giornale di arti, varietà ed annunzi commerciali». Dal 1° aprile 1846 settimanale, si trasforma dal 16 giugno 1847 (n. 1) in quotidiano con l’illustrazione di Pallade armata con la seguente spiegazione: «La Pallade ha scritto sul petto la sua impresa: pubblico bene: perché tutti la leggano». 2 Si trattava di una commedia tradotta dal francese: La congrega ovvero l’elezione di un deputato in cui – secondo l’estensore della cronaca teatrale – ognuno riconosceva qualche personaggio romano. Sulla presenza di Domeniconi cfr. ivi n. del 19 novembre 1847 da cui si apprende che il capocomico Luigi Domeniconi aveva inoltrato la domanda di stabilirsi a Roma. Sotto la rubrica Notizie diverse si legge: «La Compagnia Romana è stabilita. Per questo mezzo l’arte comica potrà pur fra noi riporsi in quel seggio dove la chiama la civiltà dei tempi». Ivi, n. 108 e n. 519. Nessun nesso, fra la venuta a Roma dell’attore riminese e il particolare momento politico, nel profilo di R. Ascarelli in Dizionario biografico degli italiani. Sulla Ristori vd. T. Viziano, Il palcoscenico di Adelaide Ristori, Roma, Bulzoni 2000 e, più in generale sul teatro e gli attori di questi anni e per i rimandi bibliografici, S. Ferrone e T. Megale, Il teatro dell’età romantica, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. VII, Il primo Ottocento, Roma Salerno 1998, pp. 1029-1091. La Repubblica romana del 1849
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fatto dal melodramma. Per i letterati ‘patrioti’, però, il teatro è ancora il canale più prossimo all’opinione pubblica da formare (è la scoperta settecentesca perfezionata dal teatro patriottico di fine Settecento) e soprattutto è ritenuto ancora luogo per un discorso a più livelli, modello di modelli politici. Appurata questa caratteristica del teatro dei patrioti – che per quanto mi riguarda è un cantiere ancora aperto3 – l’obiettivo qui si focalizza sul teatro che ruota attorno a un singolo evento. Inevitabilmente le ricerche precedenti ci condizionano e dunque sto tentando di non sovrapporre lo schema con cui avevo ‘sistemato’ i dati riguardanti l’esempio più contiguo, quello della repubblica napoletana del 1799: un teatro per la rivoluzione, un teatro della rivoluzione e un teatro che parla della rivoluzione.4 Qui mi fermerò invece a un livello descrittivo, a causa dei dati insufficienti.5 Rispetto alle onde lunghe dell’immaginario e dunque delle pratiche messe in opera, annoto due primi elementi che mi appaiono persistenti: a) l’uso del linguaggio teatrale per definire un evento percepito come drammatico quale la rivoluzione. Ne è esempio l’editoriale del 13 luglio 1848 intitolato in maniera significativa Teatro della guerra: In questo teatro si è posta in scena una produzione che è un assieme di tragico, di comico e di caratteristico. Essa non ha alcun titolo, e sin qui da diversi atti che si son già rappresentati non puossi arguirne la fine. Gl’intrecci sono infiniti, e la confusione però è indicibile. Gli attori sono pochi, ma forse presto diverran molti. Le comparse d’altronde sono innumerevoli. Il vestiario di alcuni è di color giallo e nero, di altri bianco, verde e rosso. S’attende che allo scioglimento della catastrofe compariscano in scena altri attori di color bianco rosso e blu. Questi daranno il titolo e il fine alla produzione. Senza di questi, la tragedia, per quelli che l’hanno convertita in commedia, va a terminare in farsa.
b) la relazione teatro-rivoluzione in base alla quale si ribadisce la necessità del teatro per attuare un cambiamento politico. La conferma di ciò si ha dal mutamen-
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Cfr. B. Alfonzetti, Controfigure del teatro dei patrioti (Pellico, Benedetti, Niccolini), in L’Italia verso l’Unità. Letterati, eroi, patrioti, a cura di Beatrice Alfonzetti, Francesca Cantù, Marina Formica, Silvia Tatti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2011, pp. 77-92; Ead., Esempi e tipologie del teatro dei patrioti (1821-1849), in corso di stampa. 4 Cfr. B. Alfonzetti, Teatro «nazionale» e teatro «patriottico» nella Partenopea, in Ead., Congiure. Dal poeta della botte all’eloquente giacobino (1701-1801), Roma, Bulzoni 2001, pp. 251-268. 5 Qualche notizia, riguardante soprattutto il melodramma, in A. De Angelis, Il teatro a Roma nel 1849, in «Capitolium» 1949, pp. 291-297, in cui si rileva che le composizioni erano scelte «per il riferimento dei soggetti e delle frasi agli eventi auspicati, più che per il loro intrinseco valore artistico» (p. 291). Sulle allusioni della produzione patriottica dopo il 182021 vd. F. Doglio, Il teatro patriottico nel Risorgimento, in Teatro e Risorgimento, a cura dello stesso, Rocca San Casciano, Cappelli, 1961. XIII. La storia degli Italiani nella loro letteratura
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to di indirizzo registrato nel numero del 28 settembre 1848 con cui si annunciava la nascita della nuova rubrica Cronaca teatrale (prima le notizie sui teatri erano riportate alla voce Cose diverse): Considerato lo stato di abbandono in cui trovasi ingiustamente il teatro italiano, mentre niuna premura dovrebbesi tralasciare per renderlo veramente nazionale, essendo l’unico mezzo d’istruzione, l’unica scuola del popolo, […]. Considerato l’utile che ne risulterebbe incoraggiando i giovani ingegni, proponendo cose utili alla nobilissima arte drammatica, sempre collo scopo di contribuire alla formazione di un teatro nazionale e veramente Italiano, Udito il volere di Sua Eccellenza il ministro Plenipotenziario direttore della Pallade, Udito il consiglio de’ suoi rispettabili collaboratori, Ordiniamo e decretiamo quanto segue. Fino dal giorno di domani Pallade porterà un breve, ma esatto ragguaglio di tutto quello che si vede e si sente nei teatri di Roma.
La rubrica non si limitava a recensire le recite, ma interveniva con suggerimenti agli attori e alle compagnie, come si registra nella Cronaca politico-teatrale (è questo il titolo veramente eloquente) del 7 ottobre 1848 in cui si dava l’«amichevole avvertimento» al Domeniconi – e più in generale agli attori – di recitare testi quali Il frappatore di Goldoni, Le false confidenze di Mariveaux, Il tartufo di Molière, la tragedia Giovanni da Procida e il Ferrucci del marchese Luigi Capranica. Il testo era “dedicato” a Garibaldi, forse perché quest’ultimo era la controfigura dell’eroico difensore della Repubblica fiorentina contro i Medici che anche il noto romanzo di Guerrazzi, L’assedio di Firenze, pubblicato a Parigi nel 1836 sotto pseudonimo, aveva riammesso nel circuito della popolarità. La scelta di ritagliare un periodo temporale più ampio rispetto alla stretta cronologia delle fasi repubblicane – da datare alla fine del 1848, dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi del 15 novembre e la fuga di Pio IX (il 24) a Gaeta – si basa su alcuni dati di cronaca politica fra i quali il giubilo per l’anniversario dell’elezione al soglio pontificio di Pio IX che diede luogo a sfilate, feste, componimenti poetici, drammatici e musicali. Senza assumere un approccio disciplinare specifico, si è fatto rientrare nell’oggetto ‘teatro della Repubblica romana’ tutta una serie di pratiche all’epoca aggettivate come teatrali. In questo risiede la differenza con molti orientamenti di storia del teatro che assimilano, invece, alle forme spettacolari tutto ciò che rientra nell’idea novecentesca di teatro. Diversamente, in queste pagine cerimonie e feste sono considerate teatro soltanto se i contemporanei le hanno così percepite e vissute.6 Si può così notare un ulteriore elemento significativo, cioè il trasferimento o meglio il prolungamento della festa dalla piazza al teatro. Questo comporta la pratica che chiameremo ‘poesia a teatro’.
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Più in generale, sulla prospettiva di assumere l’ottica dei contemporanei, vd. M. Tatti,
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Chiediamoci: è una novità? No, si dispone di svariati esempi risalenti al triennio giacobino che attestano l’uso dei teatri per la declamazione di poesie, discorsi pubblici, balli, feste, lotterie (il lotto è pratica ovviamente della repubblica Napoletana del 1799). Questo sovvertimento dei luoghi deputati agevola l’interferenza dei linguaggi: come gli sciolti declamati nelle feste della Cisalpina riproducevano il registro oratorio della tragedia repubblicana e nazionale, così i sonetti o gli inni recitati nelle accademie teatrali o nelle feste