La leggerezza del ferro. Un'introduzione alla teoria economica delle «organizzazioni a movente ideale»
 8834318722, 9788834318720

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Luigino Bruni e Alessandra Smerilli

LA LEGGEREZZA DEL FERRO Un’introduzione alla teoria economica delle ‘Organizzazioni a Movente Ideale’

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LA LEGGEREZZA DEL FERRO.......................................................................................... 1 INTRODUZIONE ................................................................................................ 4 CAPITOLO I...................................................................................................... 21 MERCATO E RELAZIONI UMANE ..................................................................... 21 CAPITOLO II..................................................................................................... 42 L’ARTE DELLA GRATUITA’ ............................................................................... 42 CAPITOLO III ................................................................................................... 57 QUANDO LA VOCAZIONE CONTA ................................................................... 57 QUANDO GLI IDEALI VANNO IN CRISI............................................................. 95 TUTTI UGUALI, TUTTI DIVERSI .................................................................................. 107 CAPITOLO VI ................................................................................................. 135 PER UNA SEMANTICA DELLA RELAZIONI NELLE OMI: LE ORGANIZZAZIONI COME NETWORKS ........................................................................................ 135 Capitolo VII ................................................................................................... 147 LA VULNERABILITA’ COME PARADIGMA DELL’UMANO ............................... 147

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La

copertina

riporta

un’opera

di

Roberto

Cipollone

(www.labottegadiciro.it), un “artista a movente ideale", che ringraziamo.

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INTRODUZIONE

I migliori poemi sono quelli raccontati dai marinai illetterati sul castello di prora (Cesare Pavese, “Introduzione” a Moby Dick).

1. Questo libro in poche righe

L’economia, e con essa la società, sta attraversando una fase di cambiamento epocale. Le imprese e i mercati attuali si stanno progressivamente allontanando dal modello con il quale li abbiamo immaginati vissuti e descritti solo fino a pochi decenni fa. In particolare, diminuisce, ai fini del successo e della durata delle imprese, sempre più il peso relativo dei capitali tecnologici e finanziari, e aumenta quello delle persone (del capitale umano), del capitale sociale e civile, dei beni relazionali. Le imprese, sia le piccole che le grandi, oggi crescono e muoiono soprattutto per l’inadeguata (rispetto alle sfide) capacità di tenere assieme persone con motivazioni e preferenze diverse, in un mercato nel quale i ruoli della gerarchia, dei sindacati e della politica (i collanti delle imprese e delle organizzazioni tradizionali) stanno cambiando rapidamente e radicalmente. In un tale contesto, la risorsa più scarsa, e quindi più fragile, sarà sempre più l’arte di tessere relazioni, la capacità di far sì che la diversità umana, dentro e fuori le imprese, non imploda nel caos e nell’anarchia, ma dia luogo a nuove sinergie. Anche se può apparire paradossale all’osservatore che segue la vita economica e civile tramite i talk show televisivi, in realtà mai come oggi la competizione di mercato si

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gioca sulla qualità delle persone, sui rapporti tra di loro, soprattutto quando questi rapporti sono non di comando o di obbedienza, ma di reciprocità su un piano di uguaglianza (gli esseri umani non trovano particolarmente difficile comandare o ubbidire, ma interagire con gli altri su un piano di vera uguaglianza). Sta rapidamente e inesorabilmente tramontando la comunità antica ineguale basata sullo status e sulla gerarchia, ma non abbiamo ancora trovato nella famiglia, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nella società civile e politica nuove e positive forme di vita in comune tra uguali. Di fronte a questo vuoto oggi rischiamo però di rispondere con la mutua indifferenza o con l’intolleranza. Anche per queste ragioni questo libro parla soprattutto di rapporti, di persone, di motivazioni, all’interno di organizzazioni e dell’economia, e ne parla a partire da un tipo di organizzazione nella quale è particolarmente evidente il ruolo cruciale che svolgono le persone e le loro motivazioni. Sono le organizzazioni che chiameremo Organizzazioni a Movente Ideale (OMI). Partendo da queste organizzazioni, che sono radicalmente people e motivation based, vorremmo immaginare e suggerire quantomeno una prima grammatica e qualche elemento di semantica dell’intreccio tra motivazioni, incentivi, gratuità e comportamenti cooperativi, elementi presenti, in misure e in modalità diverse, in ogni organizzazione. Infatti, le organizzazioni puramente speculative sono poche e, soprattutto, durano poco tempo, come ci ha rivelato con particolare forza la crisi finanziaria ed economica dalla quale stiamo cercando con fatica di uscire. L’economista svizzero Bruno Frey (2009) ha recentemente messo in luce che la vita media delle assicurazioni speculative americane e dei fondi di investimento che sono stati travolti dalla crisi finanziaria, è stata di pochi anni; le abbazie benedettine medievali del centro Europa duravano, invece, mediamente quasi cinque secoli. Se oggi, ad esempio, l’economia italiana riesce tutto sommato a reggere nella grande crisi che stiamo vivendo

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(giugno 2010), non lo si deve certo e principalmente al grande capitalismo finanziario e speculativo di grandi imprese e banche, ma al tessuto di piccole imprese, radicate nei territori, che spesso hanno ereditato quella cultura tacita e quei saperi cresciuti attorno ad abbazie e conventi, che lottano e innovano ogni giorno per vivere, che non consideriamo nella sostanza troppo distanti da quelle organizzazioni che in questo libro chiamiamo OMI. Scrive ad esempio Giacomo Becattini:

Il metodo canonico di incrementazione di produttività e innovatività, che si fonda su dosi crescenti di scienza e di capitale (accumulazione e progresso tecnico), suppone, nell’agente umano del

processo

produttivo,

un’elevata

capacità

naturale

di

adattamento ai mutamenti proposti da scienza e capitale; adattamento evocabile facilmente con appropriati incentivi monetari. La cosa funziona abbastanza bene finché il problema della produttività domina la scena e quello dell’innovatività viene risolto a monte del vero e proprio processo produttivo, attraverso meccanismi scientifico-tecnologici (laboratori di ricerca tecnica, ricerche di mercato, ecc.) sotto il controllo del capitale, ma non appena il problema dell’innovatività, che implica



comportamenti molto più complessi, acquista rilievo, sia i meccanismi di controllo che gli incentivi monetari risultano insufficienti. Ciò che occorre, ora, è una “genuina partecipazione”, diciamo così, alle sorti dell’impresa, una condivisione generale, almeno in senso lato, della strategia dell’impresa stessa e una lealtà di base tra i membri del team produttivo; doti tutte che non sono sempre evocabili con mere incentivazioni monetarie; ma sono, o non sono, radicate nel soggetto, a seconda del tipo di vita che egli conduce e dell’ambiente in cui è cresciuto. Esse si basano su di un complesso organico di valori, di conoscenze, di reazioni tipiche

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alle circostanze esterne, assorbito lentamente nel ripetersi assiduo delle ordinarie circostanze della vita. Valori, conoscenze e comportamenti tipici che, se condivisi, consentono al messaggio che l’imprenditore creativo

tenta di

trasmettere

ai

suoi

collaboratori di passare dalla sua nelle loro, tradizionalmente diffidenti, teste (Becattini 2009, pp. 44-45).

E quindi aggiunge una considerazione interessante alla luce del discorso che andremo a sviluppare nella seconda parte di questo saggio: “Ebbene il distretto industriale è un organismo sociale per produrre, da certe basi di valori e conoscenze prodotte dalla storia, un complesso di comportamenti del tipo appena descritto. Io non dico affatto che ogni distretto sia popolato solo da perfetti homines distrectuales, dico solo che se una quota consistente e qualificata degli agenti di un distretto non presenta quella caratteristiche, il distretto entra in difficoltà ed esce dalla popolazione dei distretti” (p. 45). Perché allora un libro sulle organizzazioni a movente ideale, quindi un libro sul rapporto tra ideali, organizzazioni ed economia? La ragione principale è la nostra convinzione che l’economia non sia un luogo eticamente neutro, cioè un luogo dove possono entrare solo tecnici “addetti ai lavori”. Noi crediamo che l’economia sia un brano di vita, dove gli uomini e le donne mettono in campo tutte le loro passioni, vizi e virtù. In economia c’è sempre stato, e ad ancora oggi c’è, spazio persino per gli ideali più alti, come la storia dei carismi nelle chiese, del movimento cooperativo, dei sindacati, dell’economia sociale, ci hanno raccontato nei secoli, e come ancora oggi ci raccontano. Chi narra correttamente la storia economica di ieri e di oggi sa che nell’arena economica, assieme ai più gravi peccati, si incontrano grandi virtù, persone che hanno fatto e fanno dell’economia luoghi di autentica eccellenza umana e spirituale, come ci mostra anche la vita di tanti lavoratori, banchieri, sindacalisti e imprenditori,

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che sono stati e sono capaci di raggiungere le vette della perfezione umana, facendo dei loro luoghi di lavoro e delle loro imprese degli autentici santuari dell’umano vero. Ma quando gli ideali entrano nella sfera economica e civili le relazioni umane si arricchiscono e si complicano allo stesso tempo: aumentano i conflitti, i rischi, gli errori, ma aumenta anche la qualità della vita, dentro e fuori delle organizzazioni. Aumentano le “ferite” ma con esse anche le “benedizioni”, e spesso aumentano assieme senza poterle separare (Bruni 2007). Questo saggio è un’indagine sulla maggiore complessità, ma anche sulla maggiore qualità umana, che ritroviamo nelle organizzazioni (economiche, sociali, politiche, religiose, educative …) quando gli ideali le fanno nascere, le fanno vivere e le alimentano giorno dopo giorno, nella fatica appassionante e sorprendente del quotidiano. L’ispirazione che ha originato questo saggio è soprattutto un dato di vita, di esperienza, e non primariamente letture di libri o di articoli scientifici. Gli autori sono accomunati da due elementi: entrambi vivono e operano all’interno di comunità e di organizzazioni a movente ideale; entrambi sono cultori di teoria economica. Ci è pertanto parsa un’espressione naturale del nostro mestiere, che non concepiamo come un “tecnicismo uncommitted” (per usare una bella espressione di Giacomo Becattini, uno dei nostri maestri) ma come impegno civile e etico, utilizzare le nostre conoscenze per gettare qualche raggio di luce in un territorio ancora troppo poco esplorato dalla teoria economica e sociale, quello cioè delle tipiche dinamiche che si vivono in quelle organizzazioni tenute assieme dall’adesione da parte dei suoi membri ad un ideale comune. Queste organizzazioni possono essere economiche, e quindi imprese, che a differenza dalle imprese viste come un insieme di contratti e di incentivi o macchine per far soldi (se ci riescono), sono invece animate e tenute assieme anche da ideali e da motivazioni primariamente non monetarie (e ce ne sono molte, lo abbiamo visto), che interagiscono con

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stipendi, profitti, incentivi e mercati. Ecco perché il nostro discorso sulle OMI non si limita solo ad imprese o ad OMI “economiche”; vorremmo invece rivolgere il nostro discorso ad ogni organizzazione a movente ideale, anche quelle che non hanno una natura o un fine tipicamente economico, come, ad esempio, un partito politico, un ordine religioso, una associazione culturale o ambientalista, un sindacato o una ONG per i diritti umani, le cui dinamiche motivazionali e relazionali possono, o potrebbero, essere descritte e interpretate dai modelli e dalle analisi che presenteremo. Crediamo che questo allargamento di analisi sia oggi necessario, anche perché una delle caratteristiche della post-modernità è il crollo del confine tra l’economico e non economico: allora l’analisi economica, almeno quella buona e non ideologica, può risultare utile, sempre in sinergia con altri ambiti disciplinari. È quanto cercheremo di fare nelle pagine che seguono, dove alle categorie della scienza economica uniremo alcuni strumenti della psicologia, della storia, della sociologia delle organizzazioni, e della filosofia. Tra le tante possibili prospettive o l’oggetto formale di un discorso sulle organizzazioni, abbiamo voluto riservare un’attenzione tutta speciale all’analisi dei momenti di passaggio o di crisi, soprattutto quelli complessi e problematici che coinvolgono l’identità dell’organizzazione, dal cui superamento dipende lo sviluppo di ogni organizzazione, non solo delle OMI. La vita, individuale e collettiva, quando fiorisce e funziona, può anche essere letta come una successione di crisi affrontate e superate. E ogni crisi, sia individuale che istituzionale, è ambivalente: può essere l’inizio di una nuova primavera, può metterci cioè nelle condizioni di scoprire la nostra vocazione profonda, oppure può farci uscire peggiori o bloccare il cammino di crescita psicologica e spirituale. Anche per questa ragione è utile conoscere la grammatica e magari la semantica delle relazioni che si instaurano all’interno di queste organizzazioni, allo scopo di capirne meglio la morfologia e intervenire con strumenti più efficaci nei momenti nei quali

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le crisi emergono (che sono i momenti cruciali: quasi sempre l’inizio è il momento più importante di un processo vitale). E poterle superare con successo.

2. Organizzazioni e scimpanzé

Questo saggio parla di Organizzazioni a Movente Ideale: parla quindi di organizzazioni. La prima domanda da cui partire non può che essere la seguente: che cos’è una organizzazione? Siamo circondati da organizzazioni. La nostra vita si svolge per buona parte all’interno di esse: famiglia, associazioni, imprese, scuole, …. Un’impresa o un ospedale sono delle istituzioni complesse create e coordinate in vista di un fine (o di più fini), con apposite strutture, persone e strumenti. Una famiglia o un’associazione sportiva non vengono immediatamente percepite come organizzazioni, perché non è semplice individuare né il fine per cui nascono, né gli strumenti per il loro funzionamento e la loro manutenzione. Ma la teoria delle organizzazioni ci mostrerebbe che questi fini esistono, come esistono gli strumenti per raggiungerli, sebbene siano più o meno formali o intenzionali. Uno strumento ancora fondamentale nelle organizzazioni, che ha un’origine molto antica e sacrale, è la gerarchia, che svolge una funzione simbolica (la distinzione tra puro e impuro, l’immunità e la mediazione tra di essi) ben più importante rispetto al solo coordinamento o alla sola efficienza delle organizzazioni1. 1 La gerarchia può essere definita uno strumento per l’esercizio dell’autorità. Il dizionario della lingua italiana De Mauro, sulla linea di molti altri dizionari, definisce la gerarchia come “rapporto reciproco di supremazia e subordinazione, in base al quale possono essere ordinate le organizzazioni civili, militari o religiose”. L’antropologo francese Louis Dumont, allievo di Marcel Mauss, ha dedicato buona parte della sua attività di studioso allo studio delle società gerarchiche (quelle tradizionali indiane in particolare), e al confronto di quelle con le moderne società egualitarie. Egli così definisce la gerarchia: “è una scala di comando dove i ranghi più bassi sono rapportati a quelli più alti in una successione regolare” (Dumont 1980, p. 65). Il significato originale della parola, e del concetto, è di natura religiosa. Le caste Hindu in India, o

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Va però ricordato, anche perché spesso dimenticato dagli stessi teorici delle organizzazioni, che la vita sociale non è composta solo da organizzazioni: l’altra metà del cielo è, infatti, occupata da convenzioni, cioè da azioni complesse che non sono “create” intenzionalmente da qualcuno in vista di un determinato scopo.2 Nelle organizzazioni la nota dominante è la cooperazione. Nelle convenzioni la cooperazione è molto meno evidente, e non è normalmente intenzionale: chi esce di casa al mattino e si mette alla guida della propria auto non ha come fine cooperare con gli altri automobilisti lungo la strada, ma arrivare prima possibile e bene al lavoro; la cooperazione (se e quando c’è) è un fatto in un certo senso oggettivo non intenzionale. Anzi, potremmo dire che un’importante differenza tra le organizzazioni (le imprese) e quella grande convenzione-istituzione (non organizzazione) che è il mercato, ha proprio a che fare con il binomio cooperazione-competizione. Il mercato, si scrive e si dice normalmente, funziona bene quando i soggetti competono tra di loro, mentre l’impresa è essenzialmente cooperazione. O meglio: l’impresa in quanto organizzazione, o nei suoi rapporti interni, è soprattutto

la chiesa cattolica, sono luoghi idealtipici ai quali guardare per comprendere, nella sua essenza, che cosa sia la gerarchia. Secondo Dumont, le società gerarchiche (o castali: per Dumont la società castale è l’archetipo o idealtipo di ogni società gerarchica) sono oliste (è il gruppo che esiste, non i singoli appartenenti a quel gruppo), mentre quelle egualitarie sono individualiste (i gruppi hanno valore solo se scelti e creati liberamente dagli individui). L’individuo “nasce” solo quando esce dal reticolo delle caste diventando samnyasin (asceta). L’individuo che esce dalla communitas castale non trova la comunità degli individui, ma la solitudine, la non-comunità. La società gerarchiche, per Dumont, presentano tre caratteristiche, teoricamente distinguibili, ma che nelle società reali si trovano normalmente assieme: (a) La società è ordinata in ranghi tra caste, gruppi, o classi; (b) Esistono dettagliate regole allo scopo di assicurare la separazione tra le diverse classi; (c) Vi è una forte divisione del lavoro e l’interdipendenza che da essa deriva. 2 Il traffico stradale, ad esempio, è un classico luogo dove ritroviamo le convenzione: nessuno ha “creato” intenzionalmente il traffico con in mente un fine (anche perché nelle nostre grandi città sarebbe stata una mente perversa), ma questo è un fatto emergente di un’evoluzione di milioni di azioni di individui mossi ciascuno da un fine diverso (qualcuno esce al mattino per andare al lavoro, qualcun altro per visitare un amico, ecc.). Anche le convenzioni, come le organizzazioni, hanno bisogno di strumenti per la loro manutenzione ed efficienza, ma ben diversa è la loro natura (ad esempio, tra i partecipanti al traffico cittadino non c’è gerarchia, anche se esiste una autorità esterna rispetto agli automobilisti). Altro esempio di convenzione è il linguaggio (chi lo ha creato? e con quale fine?), un altro è la moneta, e potremmo continuare.

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cooperazione; l’impresa, in quanto soggetto del mercato, nei suoi rapporti esterni con i concorrenti è invece prevalentemente competizione. In realtà questa visione, ben consolidata nella teoria e nella prassi, ha delle pecche, sia per l’impresa-organizzazione sia per il mercato-convenzione. Innanzitutto anche all’interno delle organizzazioni anche la competizione svolge un ruolo co-essenziale: le organizzazioni si ammalano a volte per troppa competizione, ma altre volte per assenza di competizione tra i loro membri, che porta a dinamiche di livellamento verso la mediocrità e l’inefficienza. Se la competizione è correttamente letta come cum-petere, come un “cercare insieme” di tipo diverso rispetto al cercare insieme della cooperazione, allora il confronto con gli altri e l’emulazione svolge un ruolo importante per conoscere i miei limiti e le mie potenzialità, analogamente a quanto avviene nello sport dove il concorrente è colui che mi aiuta a conoscere e a superare i miei limiti, e a poter così raggiungere l’eccellenza. La concorrenza con gli altri mi segnala i miei limiti, mi rivela le mie potenzialità nascoste, che potrebbero restare latenti (soprattutto quando siamo giovani) in un contesto dove l’unico registro fosse la cooperazione. Questa concorrenza che, con Giandomenico Romagnosi, Carlo Cattaneo e l’intera tradizione dell’Economia civile potremmo chiamare “civil concorrenza”, mette più in luce il singolo, mentre la cooperazione valorizza il gruppo, ma una vita in comune virtuosa deve valorizzare sia le individualità sia il gruppo (e non solo uno dei due poli). Chi vive all’interno di imprese, scuole, università, e in generale di istituzioni, sa che la buona competizione convive con la buona cooperazione, della quale non è il suo opposto ma, in genere, il suo complemento. In certe fasi e in certi momenti si coopera per un obiettivo comune, e in altre (ad esempio per un premio o per un avanzamento di carriera) si compete (cum-pete) con quelle stesse persone con le quali, contemporaneamente, si coopera su molti altri fronti: quando non si è più capaci di muoversi contemporaneamente su questi due registri, di vedere cioè il collega come un concorrente e un alleato, la vita

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delle organizzazioni si riduce ad una sola dimensione e entra in crisi, la qualità umana dei rapporti si impoverisce e si deteriora conducendo nel tempo le organizzazioni verso sentieri insostenibili (per patologie sia della competizione che della cooperazione). La non sostenibilità delle nostre organizzazioni non è soltanto quella economica, finanziaria, ambientale o energetica: esiste anche una non-sostenibilità relazionale e spirituale dalla quale dipende buona parte della qualità del nostro modello di sviluppo e della gioia di vivere del nostro quotidiano, privato e pubblico. Al tempo stesso, il mercato non può essere letto soltanto come una faccenda di concorrenza, poiché la dinamica di mercato, come ci insegnano autori classici come Mill o Einaudi, è anche, e soprattutto, un’azione cooperativa congiunta, che punta a creare un mutuo vantaggio per i soggetti coinvolti, e quando funziona bene, anche per la società. In altre parole, se vogliamo capire sia le organizzazioni sia i mercati dobbiamo superare la contrapposizione tra cooperazione e competizione, una delle tante dicotomie di cui è pieno il pensiero occidentale – le altre più note sono: anima-corpo, spirituale-materiale, fede-ragione, eros-agape. Certo, l’eros non è l’agape, come la concorrenza non è la cooperazione, ma entrambi sono co-essenziali per una fioritura delle persone e delle comunità; e se magari andiamo a guardarli da vicino e le osserviamo nelle dinamiche storiche, ci accorgiamo che forse tra eros e dono, concorrenza e competizione, prevalgono le analogie sulle differenze, poiché si tratta di faccende umane tutte attraversate dal bene e dal male, tutte popolate di grano e di zizzania. Basterebbero queste prime righe introduttive per restare quantomeno stupiti quando constatiamo la scarsa attenzione che la teoria economica dedica allo studio delle organizzazioni e delle loro dinamiche. Non che manchino analisi economiche delle organizzazioni (si pensi solo alla teoria dell’agenzia o dei contratti, che oggi dominano i libri di testo di scienza economica), ma c’è ancora troppa differenza tra la quantità e qualità di teoria e di impegno dedicati alla macroeconomia o alla econometria, e quelli

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dedicati allo studio delle organizzazioni. E anche se dobbiamo registrare negli ultimissimi tempi una crescita di attenzione per temi organizzativi, l’approccio analitico normale alle dinamiche organizzative non è sostanzialmente diverso da quello seguito in tutte le altre forme di azioni: c’è, in altre parole, una forte tendenza a leggere tutte le azioni, fuori e dentro le organizzazioni, in modo identico, come comportamenti retti dalla stessa e unica logica massimizzatrice e strumentale. Così, per esempio, la scelta di un lavoratore o di un manager può essere descritta esattamente come la scelta di un consumatore, di un risparmiatore, di una famiglia circa il numero di bambini da mettere al mondo, o di Abramo di sacrificare o no Isacco. L’agire all’interno delle organizzazioni è letto come agire razionale, sulla base della stessa idea di razionalità che dovrebbe applicarsi ad ogni altro ambito della vita. Non ci sarebbe pertanto alcuna differentia specifica dell’agire organizzativo. Ma siamo sicuri che ci comportiamo allo stesso modo, seguendo la stessa razionalità, quando cambiamo un lavoro e quando acquistiamo un ticket via internet? Quando protestiamo con il direttore del nostro ufficio e quando protestiamo perché il caffè del bar è di cattiva qualità? L’attenzione, poi, della scienza economica nei confronti di organizzazioni diverse dalle imprese capitalistiche è ancora minore, quasi trascurabile, e quando un po' di attenzione c’è, la famiglia, le Chiese, lo Stato e una multinazionale vengono trattate sostanzialmente allo stesso modo. C’è, infatti, un aspetto particolarmente pericoloso e pernicioso oggi nella teoria, e soprattutto nella prassi, delle organizzazioni: quello che potremmo chiamare “riduzionismo” o “isomorfismo” organizzativo. Di che cosa si tratta? È la tendenza, molto forte soprattutto in ambiente anglosassone3, a trattare tutte le forme organizzative come realtà sostanzialmente simili. La scuola e l’ospedale, la multinazionale e l’impresa 3

È il mondo anglosassone quello dal quale oggi provengono i libri di testo che poi si usano in tutto il mondo per formare studenti, managers e consulenti.

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cooperativa, una università e una squadra di calcio, sono tutte considerate espressioni del genere "organizzazione", e quindi per capirle e per “curarle” i metodi da utilizzare sono sempre gli stessi. Nella nostra esperienza abbiamo conosciuto consulenti che organizzavano gli stessi identici corsi di teoria dell’organizzazione per manager di imprese for-profit e per suore econome di comunità, proprio sulla base di questa teoria organizzativa. Ovviamente ci sono molte cose in comune tra un’impresa commerciale, una cooperativa, e una comunità religiosa; ma siamo convinti che una “buona” teoria organizzativa debba concentrarsi soprattutto sulle piccole differenze che ci sono tra una organizzazione ed un’altra. Gli esseri umani e gli scimpanzé condividono il 98% del DNA, ma proprio quel 2% è ciò che veramente conta se vogliamo studiare e capire linguaggio, economia e vita in comune.

3. Lode della bio-diversità, anche economica e civile

La cultura della globalizzazione porta con sé oggi una radicale tendenza al livellamento e alla standardizzazione degli strumenti organizzativi: ma se non si dà importanza a quel 2% di differenza non riusciamo più a individuare gli elementi decisivi in ogni organizzazione, che si chiamano cultura, identità, valori, missione. L’organizzazione di una cooperativa sociale potrà avere, forse, solo il 2 o il 10% di diversità rispetto ad un’impresa capitalistica, ma se consulenti e managers le trattano allo stesso modo e con gli stessi strumenti, così facendo cancellano secoli di storia, di libertà, di civiltà, e spesso la conducono su sentieri insostenibili. La vita cresce e si alimenta grazie alla diversità: è anche questo uno dei grandi messaggi della biologia. Una società civile cresce bene quando rende possibile la vita a più forme organizzative, rispettandole e favorendole nelle loro specificità e cultura.

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La democrazia e la libertà economica e sociale sono garantite dalla pluralità delle forme organizzative: quando una economia e una società perdono organizzazioni a movente ideale perché, magari, si trasformano in imprese speculative o perché chiudono a causa anche di “cattivi” consulenti e manager, tutta l'economia e la società diventano più povere. Quando sono invece presenti in esse diverse organizzazioni, originanti da realtà diverse, e tra queste tante OMI, la vita è più ricca, l’ecosistema sociale pullula di biodiversità, di varietà culturale, di vita. Ogni OMI è infatti diversa da tutte le altre, perché, nella nostra prospettiva culturale, ognuna nasce da un carisma (dono) specifico, incarnato in una o più persone, che rende quella esperienza una nota unica nel concerto della vita in comune. Con carisma noi intendiamo il dono di ‘occhi diversi’ per vedere risorse e cose belle dove gli altri vedono solo dei problemi. Questa dimensione carismatica4 delle OMI sottostà a tutto il discorso che stiamo iniziando. Essa è, al tempo stesso, il loro principale punto di forza e di debolezza: da una parte riempie l’organizzazione di ideali e di passioni e quindi di vita a tutto tondo, di felicità; d’altra parte questa dimensione carismatica rende più difficile il passaggio intergenerazionale, la gestione dei conflitti relazionali e la sostituzioni di alcune figure chiave da cui dipende spesso la stessa sopravvivenza nel tempo dell'organizzazione. Questo

nostro

saggio

vorrebbe

essere

un

contributo

alla

comprensione di questa tensione vitale che si vive all’interno di queste organizzazioni, e le lori crisi tipiche, allo scopo di migliorare la qualità relazionale e umana all’interno delle OMI, e quindi nell’economia e nella società civile. Infine, anche se parleremo di organizzazioni, il nostro discorso ha sempre sullo sfondo le grandi sfide della vita in comune. In particolare

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Sul significato di “carisma”, ben diverso da quello corrente e ispirato al significato biblico del termine, rimandiamo a Bruni e Smerilli (2008).

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vogliamo collocare le nostre analisi all’interno di una riflessione sulla fraternità. La fraternità è il “principio dimenticato” (Baggio 2007) della modernità. Infatti, mentre la libertà e l’uguaglianza sono diventanti i grandi progetti della modernità, la fraternità è incompiuta, assegnata, forse, alla sola sfera privata e comunitaria, e non è diventata una categoria civile o politica. Perché? La ragione sta anche nel fatto che la fraternità, diversamente dagli altri due principi, non è una condizione o uno stato dell’individuo, ma è un legame, è un bene relazionale. Non la posso godere e difendere da solo contro gli altri, ma la fraternità fiorisce quando siamo capaci di crescere insieme, superando le ferite che ogni fraternità porta con sé. La libertà e l’uguaglianza sono perfettamente compatibili con l’umanesimo individualista, la fraternità richiede invece una visione relazionale della vita in comune, che è sempre meno all’orizzonte delle nostre società opulente, ma sempre più anelata da una società di persone piene di beni ma sempre più sole.

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Questo libro è dedicato a tutti coloro che con i loro ideali sanno generare organizzazioni; e a coloro che non le lasciano morire quando quegli ideali entrano in crisi.

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Ringraziamenti

Ogni buon libro è più grande del suo autore. Questo saggio, che vorrebbe essere, almeno da questo punto di vista, un “buon” libro, nasce da una comunità di pensiero e di vita. Innanzitutto esso è il frutto dei tre anni di corsi dell’Accademia della Cura, espressione del consorzio Comunità Solidali, il cui Presidente, Dott. Alberto Leoni, e l’Amministratore Delegato, Dott.ssa Grazia Fioretti, hanno voluto che quelle lezioni, quelle parole dette, diventassero anche un libro, parole scritte e stampate, in modo da moltiplicare i nostri interlocutori e i fruitori dei contenutie dell’esperienza dell’Accademia della cura. Il nostro primo grazie va quindi a loro, e a tutti gli studenti dell’Accademia in questi primi anni di vita. Grazie poi ai vari attori dell’economia civile e sociale italiana, all’Economia di comunione, agli ordini religiosi, alla cooperazione sociale, al gruppo “Pozzo della Baraggia” (Milano), che in questi anni abbiamo incontrato in vari modi, e che sono stati la vera fonte di ispirazione di queste pagine, anche delle parti apparentemente più astratte e teoriche. Grazie poi agli studiosi, colleghi e maestri, che ci hanno accompagnato in questi anni, tra cui Stefano Bartolini, Leonardo Becchetti, Piero Coda, Luca Crivelli, Alberto Frassineti, Benedetto Gui, Eva Gullo, Giovanni Mazzanti, Vittorio Pelligra, Pier Luigi Porta, e Stefano Zamagni. Grazie anche ai nostri studenti del corso di “Economia della cooperazione” (Università Cattolica, sede di Roma), quelli del corso di “Economia e filosofia” della laurea magistrale in Scienze dell’Economia (Milano-Bicocca), gli studenti e ai professori dell’Istituto Universitario Sophia, e gli studdenti della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium, per aver contribuito con il loro ascolto vivo e intelligenza ad affinare alcuni dei concetti di questo saggio. Un grazie infine al Dottor Aurelio Mottola di Vita e Pensiero, che ha raccolto con noi la sfida di un libro su economia e ideali, e proprio oggi in

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una società dove l’accostamento tra ideali ed economia (e politica) può sembrare molto distante dalla realtà, se non pericoloso.

Questo saggio, pur presentando una forte struttura unitaria, è anche lo sviluppo di articoli pubblicati negli anni passati, in particolare sulle riviste “Nuova Umanità”, “Impresa Sociale”, “Aggiornamenti Sociali”, e la “Review of Social Economy”. Il capitolo 1 è scritto a partire dal capitolo X dell’Ethos del mercato (Bruni 2010).

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CAPITOLO I

MERCATO E RELAZIONI UMANE

Non solo nel mondo degli affari ma anche in quello delle idee, il nostro tempo

sta

attuando

un’autentica

liquidazione. Tutto si ottiene a un prezzo talmente vile, che vien da chiedersi se alla fine ci sarà ancora qualcuno

disposto

Kierkegaard,

a

Timore

offrire e

(S.

tremore,

incipit).

1. Mercato è civiltà

Iniziamo

il

nostro

percorso

partendo

da

una

prospettiva

sull’economia e sul mercato, alla luce della tradizione nota come Economia civile. Un tale discorso generale potrebbe sembrare un’inutile digressione rispetto al discorso sulle Organizzazioni a Movente Ideale, che sono il fulcro del libro. In realtà, prima di iniziare un libro su ideali e vita economica, crediamo che occorra affrontare questioni basilari che sottostanno all’intera nostra analisi: l’esistenza delle OMI, cioè di soggetti aperti a dimensioni diverse dal solo interesse personale, è soltanto un residuo di un mondo ormai passato? oppure il mercato e l’economia “normali” o “ordinari” possono ospitare comportamenti mossi da motivazioni diverse rispetto a quelle considerate normali dalla scienza economica (interessi individuali, strumentalità, ecc.)? In altre parole: a quali

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condizioni una OMI è parte integrante di una economia globalizzata e postmoderna? È solo anomalia, un’eccezione? Per poter rispondere a queste domande, riteniamo utile una breve incursione all’interno della storia del pensiero economico. Nel Settecento nasce in Europa l’Economia Politica come riflessione sistematica e autonoma, attorno all’assunto che per il bene comune (la “ricchezza delle nazioni”) fossero necessari solo gli interessi personali e l’amministrazione della giustizia. Il principale autore che ha teorizzato una tale visione è Adam Smith, filosofo ed economista scozzese. Parallelamente allo sviluppo dell’opera di Smith, a Napoli, Antonio Genovesi5 ed altri filosofi, giuristi e riformatori teorizzavano il mercato (che in realtà non esisteva ancora), in modo diverso, sulla base di una filosofia, umanista e cristiana, fondata sulla reciprocità e sulla “mutua assistenza”. Il mercato è, per Genovesi e per la tradizione moderna dell’Economia civile da lui fondata, un luogo nel quale cercare insieme il bene comune, di tutti e di ciascuno, e la cui legge fondamentale, la reciprocità, non è diversa da quella che governa l’intera vita in comune.

5 Alcune note biografiche su Antonio Genovesi. Nasce il 1° Novembre 1713 a Castiglione (oggi Castiglione del Genovesi), piccolo paese del salernitano, da una famiglia nobile decaduta. Si dedica fin da giovane alla vita ecclesiastica, e nel 1737 viene ordinato sacerdote. Dopo aver vissuto per qualche anno a Buccino (SA), nel 1738 si trasferisce a Napoli. Qui studia filosofia frequentando le lezioni di Vico, il cui pensiero rimarrà una sua costante fonte di ispirazione. Nel 1739 fonda una scuola privata per insegnarvi filosofia e teologia iniziando così a maturare la sua esperienza pedagogica. In quegli anni conosce Celestino Galiani attraverso il quale ottiene il primo incarico universitario di professore di materie metafisiche nel 1745. Nel 1743, intanto, aveva pubblicato la prima parte degli Elementa metaphysicae, opera filosofica duramente attaccata dagli ambienti ecclesiastici. Nel frattempo conosce e intrattiene rapporti anche con Ludovico Antonio Muratori, altro importante autore della “pubblica felicità”, e entra a far parte del circolo di Bartolomeo Intieri, un fiorentino che con il suo approccio galileiano alla scienza ebbe un ruolo molto importante nel passaggio di Genovesi dalla metafisica all’economia, da “metafisico a mercatante” (Cf. Bellamy 1987). Nel 1753 pubblica il manifesto del programma riformatore del circolo: Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze. Tra il 1765 e il 1769 Genovesi pubblica le sue opere più importanti: le Lezioni di economia civile (in tre edizioni tra il 1765 e il 1770: nel presente testo indicate come Lezioni, che sono lo sviluppo degli Elementi di Commercio, rimasti manoscritto, e ora ripubblicati nell’Edizione critica delle Lezioni, 2005), la Logica (1766), la Diceosina o sia della filosofia del giusto e dell'onesto (1766) e le Scienze metafisiche (1767).

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L’Economia civile puntando sulla mutua assistenza e sul mutuo vantaggio invitava a guardare al mercato (e in generale alla società civile) come un grande spazio nel quale cogliere le opportunità di scambio per un beneficio comune (e l’opportunità più importante e preliminare consisteva nel creare mercati e istituzioni che prendessero il posto delle istituzioni della società feudale6). Se concepiamo così il mercato, diventa anche più semplice capire il nesso tra l’interesse individuale e il bene comune poiché l’intenzione di chi agisce è in questo caso orientata al vantaggio proprio ma anche delle persone coinvolte con lui nello scambio di mercato. Infatti, mentre nella visione classica di Smith e della Political Economy, tutto ciò che è chiesto all’individuo è la virtù della prudenza, la laboriosità e un senso di interesse personale illuminato tipici del prudent man (nelle parole di Adam Smith), che lo porta a capire, anche sulla base dell'esperienza propria e degli altri, che l’opportunismo miope non paga nel lungo periodo. Il bene comune è il risultato indiretto e non intenzionale dell’azione di tanti individui tesi alla ricerca del proprio tornaconto, come la metafora della “mano invisibile” ci dice con estrema chiarezza: una sorta di provvidenza laica orienta le intenzioni private, tese all’interesse personale, verso il bene comune, all’insaputa degli stessi soggetti, che così si trasformano in cooperanti inconsci per il benessere collettivo (Bruni 2010). I soggetti agiscono per soddisfare al meglio i propri interessi, ma per una sorta d’inganno della ragione di hegeliana memoria, questi interessi privati producono effetti non previsti né voluti dagli attori che provvidenzialmente generano anche bene comune, come emerge con chiarezza da questo celeberrimo passo della Ricchezza delle Nazioni:

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È nota la polemica di Genovesi presente anche nelle Lezioni nei confronti dell’assistenza ai poveri: la sua politica consisteva creare opportunità di lavoro per essi, e farli così uscire dalla logica feudale di benefattori e assistiti.

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Una rivoluzione della più grande importanza in rapporto alla felicità pubblica fu in questo modo prodotta da due diversi ordini di persone che non avevano la benché minima intenzione di servire il bene pubblico. Gratificare la più capricciosa vanità era il solo motivo dei grandi proprietari. I mercanti e gli artigiani, molto meno ridicoli, agivano soltanto mossi dal loro interesse, e nella ricerca del principio di far soldi laddove ci fosse un affare da cogliere. Nessuno dei due [proprietari e mercanti] aveva né la conoscenza né la previsione di quella grande rivoluzione che la follia dell’uno e l’industria dell’altro stavano gradualmente determinando (1976 [1776], pp. 389-390).

Nella tradizione dell’Economia civile, di ieri e di oggi, la visione del rapporto tra intenzioni private e bene comune è diversa: in questa tradizione esiste un legame diretto tra le intenzioni degli agenti e gli effetti delle loro azioni. Non è necessario operare il “ribaltamento delle intenzionalità” (che ricorda troppo da vicino i “vizi privati e pubbliche virtù” di Mandeville), ma il bene comune viene inteso e cercato intenzionalmente dalle persone, senza che si crei necessariamente un conflitto tra i due livelli di bene (privato e pubblico). Da qui deriva anche l’uso della reciprocità o della fraternità come paradigma del mercato, un assunto tipico dell’Illuminismo napoletano: il mercato ha un contenuto morale (e la moralità implica direttamente un ruolo per le intenzioni), e le società che funzionano bene richiedono che questo senso morale sia incoraggiato, interiorizzato e reso esplicito. L’Economia civile che fiorisce nel Settecento italiano (napoletano, milanese, toscano, veneziano) va poi letta come l’espressione moderna della tradizione civile iniziata nel Medioevo, nelle abazie benedettine, negli studia dei francescani e dei domenicani, e poi nella grande stagione dell’Umanesimo civile toscano. Come per quei primi umanisti, anche per

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Genovesi la vita civile non solo non si contrappone alla vita buona, ma è vista come il luogo in cui la felicità pubblica e quella privata possono essere raggiunte pienamente, grazie alle buone e giuste leggi, ai commerci e ai corpi civili nei quali gli uomini esercitano la loro socialità: “se la compagnia reca dei mali, ella dall’altra parte è l’assicuratrice della vita e dei beni; il che è fonte di grandissimi piaceri, ignoti agli uomini della natura” (1973[1766], p. 37). Genovesi vede le relazioni economiche di mercato come rapporti di “mutua assistenza”. Non quindi impersonali né anonime. Infatti, il mercato stesso è concepito come una espressione della legge generale della società civile, la reciprocità. Ciò è evidente, e importante, soprattutto nella sua analisi della fiducia, o “fede pubblica”, che oggi chiameremmo “capitale sociale” (Bruni e Sugden 2000), che si pone al cuore delle sue Lezioni di economia civile, e dell’intero programma riformatore napoletano. Per l’Economia civile lo sviluppo, i mercati e l’intera vita economica sono una faccenda di fides, di fiducia. Una parola-chiave dell’economia civile è infatti “fede pubblica”, che è vista da Genovesi e dalla tradizione dell’Economia Civile come la vera pre-condizione dello sviluppo economico: “la confidenza è l’anima del commercio, … senza di essa tutte le parti che compongono il suo edificio, crollano da se medesime” (Filangieri 2003[1780], p. 93). Se è vero che lo sviluppo dei mercati porta sviluppo civile ed economico, per la scuola napoletana è ancora più urgente sottolineare che la coltivazione della fede pubblica è la pre-condizione di qualsiasi discorso di sviluppo economico e civile: “niente è più necessario ad una grande e pronta circolazione, quanto la fede pubblica” (Lezioni, II, cap. 10, § 1). Importante è quanto poi Genovesi specifica in nota: “Questa parola fides significa corda che lega e unisce. La fede pubblica è dunque il vincolo delle famiglie unite in vita compagnevole”.

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La categoria di reciprocità è cruciale anche in tutto il pensiero di Genovesi e dell’Economia civile sul mercato. Nella sua analisi della fede pubblica egli sistematicamente lega il concetto di fiducia a quello di reciproca confidenza, di mutua assistenza ed amicizia, sostenendo che tali concetti sono essenziali per lo sviluppo economico e civile della società7. C’è oggi un ritorno di interesse per il tema della reciprocità, sebbene in una prospettiva diversa, almeno in parte, da quella dell’economia civile. In questi modelli della cosiddetta “strong reciprocity”, la dimensione di socialità genuina presente in un comportamento di reciprocità è misurata attraverso la disponibilità a sostenere il sacrificio dei benefici “materiali” per premiare o punire l’altro a proprie spese. Non vogliamo certo negare che anche il sacrificarsi per punire o premiare altri svolga una funzione civile (si pensi a chi rimprovera a proprio rischio chi butta cartacce per strada), ma solo sottolineare che la reciprocità è un rapporto, non una faccenda o una somma di preferenze o di comportamenti di individui separati. Queste teorie della reciprocità restano, infatti, sostanzialmente individualiste, sebbene le preferenze dei soggetti possono essere di tipo altruistico o pro-sociale. Una conseguenza di tale approccio è che la reciprocità è intesa unicamente come “scambio di doni”: solo questa è considerata la “vera” o autentica reciprocità, e le altre forme di scambio dei contratti, dei mercati, dell’economia “normale” vengono definiti reciprocità cattiva, perché autointeressata e non altruistica. Buona parte del pensiero comunitarista oggi si muove in questa direzione8, rifacendosi spesso al pensiero di Aristotele 7

In continuità con Montesquieu, con Kant, con la scuola Scozzese e con quella milanese, anche la tradizione napoletana considera l’attività economica come un’espressione della vita civile, vede cioè il commercio come un fattore civilizzante. Come per gli umanisti civili, anche per Genovesi e per i napoletani la vita civile non solo non si contrappone alle virtù, ma è vista come il luogo in cui le virtù possono esprimersi in modo pieno. Inoltre, per Genovesi e per molti degli illuministi europei della sua generazione, uno dei frutti del commercio “è di portare le nazioni trafficanti alla pace. … la guerra e il commercio sono così opposti come il moto e la quiete” (Lezioni, I, cap. 19, § VII, p. 290). 8 Sul pensiero comunitarista e sul contrasto insanabile tra la logica del dono e la logica dell’economia cf. Anderson (1993).

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come capostipite di tale tradizione (Bruni 2010). Peccato che Aristotele non la pensasse affatto così: per lui la reciprocità, l’antipeponthos, era nell’Etica Nicomachea il “legame sociale”, ciò che tiene assieme la vita della polis, una reciprocità che nella sua visione va dal mercato fino alla philia di virtù. Anche la parola latina reciprocitate etimologicamente proviene da rectus + procus + cum: ciò che viene e che va, che parte e che torna vicendevolmente. Molto più del solo scambio di doni, che è certamente una forma di reciprocità, ma non è l’unica. E soprattutto il dono non va visto teoricamente e in linea di principio in contrasto con la reciprocità (dove si dà e si riceve), e con le varie forme di reciprocità economiche (che si vivono nelle imprese, nei contratti, nei mercati), perché altrimenti non solo saremmo incapaci di comprendere fenomeni civilmente importanti ma si confinerebbe la buona reciprocità in un ambito troppo angusto della vita civile ed economica: si pensi, tra le tante esperienze, a realtà come quelle del Commercio Equo e Solidale o alla Economia di Comunione, della Microfinanza e del Microcredito, dove le persone vengono aiutate ad uscire da varie trappole di indigenza e di esclusione non con doni incondizionali, ma con contratti (sebbene animati dalla gratuità, nel senso in cui andremo a definirla a breve nel prosieguo del capitolo). Siamo convinti che soltanto una reciprocità a più dimensioni che va dallo scambio di doni alle regola e ai contratti, una e molte, è davvero sostenibile e autenticamente umana, anche all’interno di organizzazioni, OMI incluse (Bruni 2006). C’è oggi nelle scienze sociali un forte bisogno di un pensiero non dicotomico, sia per comprendere realtà che ritroviamo in questa teoria che hanno moventi più complessi del profitto, ma anche per capire meglio il mercato e la vita civile che se non si apre al suo interno alla reciprocità e alla gratuità diventa alla lunga una esperienza non più autenticamente umana. Certo, un dono non è un contratto: nondimeno possono essere entrambi forme di buona reciprocità (come possono essere, entrambe,

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forme di cattiva reciprocità, quando il contratto nasconde lo sfruttamento sul debole, e il dono-munus maschera rapporti di potere e di dipendenza). Una nota storica, quasi a mo’ di appendice. Un elemento che ha avuto nella storia una sua importanza nell’affermazione della dicotomia dono-mercato è stato il trauma del mercato delle indulgenze, che ha svolto un ruolo centrale (sebbene non unico) nella Riforma protestante. Davanti allo spettacolo di una Chiesa che pretendeva di vendere anche la grazia di Dio (la charis, gratuità, dono)9, e che aveva istituito tutto un sistema di penitenze che potevano essere permutate con denaro, il mondo protestante si è costituito (qui si pensi soprattutto a Calvino) su una rigida distinzione, o separazione, tra mercato e gratuità: durante l’attività economica business is business, e solo in un secondo momento, ben distinto dal primo, si possono donare parte dei frutti del business, sotto forma di donazioni, fondazioni, filantropia. È questo il modello del capitalismo filantropico, tipico della cultura nordamericana di ispirazione protestante, nella quale è nata e si è sviluppata la tradizione ufficiale della scienza economica moderna. Bill Gates in quanto individuo fa filantropia con le sue Fondazioni, e Microsoft in quanto istituzione fa business. Nel Medioevo il rapporto dono-mercato era molto più promiscuo e meticcio: basti pensare al movimento francescano dal quale è nata la prima riflessione sistematica sull’economico e anche le prima banche popolari, i Monti di Pietà (Bruni e Smerilli 2008). Tutto l’umanesimo medievale è stato un intreccio di santi e mercanti, monaci e lavoro, economia e città. La reazione cattolica alla Riforma, la cosiddetta controriforma, portò, per altre strade, e con motivazioni teologiche diverse,ad un risultato simile a quello protestante, circa il rapporto economia-dono. Nel Sei e Settecento l’Europa cattolica assisté ad una ri-feudalizzazione e ad un ritorno alla terra e alla nobiltà di sangue, e ad

9 Siamo coscienti che il discorso sulle indulgenze, e sulla conseguente Riforma, è molto più complesso e non può essere spiegato solo con l’elemento sul quale stiamo qui ponendo l’accento.

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un conseguente disprezzo della vita civile ed economica: anche a questi aspetti è legata la diversa storia economica dell’Europa mediterranea, le sue arretratezze, e le sue potenzialità ancora inespresse.

2. Il “mercato della cura” inteso come fraternità

Con una concezione non dicotomica della reciprocità e della gratuità entriamo ora all’interno di una possibile diversa analisi delle relazioni di cura, che possono essere intese anche come una forma di reciprocità o di fraternità. In questa seconda parte del capitolo, ci soffermiamo, infatti, su una applicazione della prospettiva dell’economia civile, ad un ambito molto rilevante per le OMI: quello della cura, un ambito economico-sociale sempre più rilevante sia per la vita civile sia per l’economia. Infatti, domande circa la “moralità”, il “tono affettivo” e il non opportunismo degli agenti sono particolarmente rilevanti quando il mercato entra nel terreno della cura dei nostri genitori, dei bambini, e nella nostra salute. Esiste oggi una preoccupazione generale riguardo all’ingresso dei meccanismi di mercato in ambiti così sensibili dal punto di vista relazionale e motivazionale. È nostra convinzione che un’economia e un mercato letti dalla prospettiva dell’economia civile possano offrire nuovi elementi di speranza quando pensiamo a come coniugare l’esigenza di un mercato che continua a espandersi con le esigenze tipiche dei beni relazionali e delle emozioni (attenzione, stima, riconoscimento)10. Da questo punto di vista la situazione attuale non è troppo diversa da quella nella quale Smith e Genovesi scrivevano le loro teorie. Anche nell’Europa settecentesca si viveva la preoccupazione che lo sviluppo del commercio minasse alla radice la comunità tradizionale, l’etica delle virtù e

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Sui beni relazionali cf. Gui (2002) e Gui e Sugden (2005), e sull’attenzione e suoi beni “socioemotional” cf. Dur (2009).

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la moralità cristiana. E ieri come oggi, queste “sostituzioni” hanno però anche grandi potenzialità positive.11 Oggi molti dei servizi una volta offerti dalla famiglia (dalle donne in particolare), dalla comunità, dalle chiese (suore), vengono sempre più offerti dal mercato e da lavoratori remunerati. Al tempo stesso, i lavoratori in questi ambiti (educazione e sanità) erano nella società tradizionale associati a qualche forma di “vocazione” delle persone, cioè si voleva che fossero animati da incentivi e motivazioni non solo monetari. E comunque, quando ci rivolgiamo a queste professioni “relazionalmente sensibili” continuiamo ad aspettarci che quel “qualcosa in più” del solo salario sia ancora presente nella loro “funzione obiettivo” (anche se siamo più disincantati e più cinici rispetto a solo trent’anni fa). La sostanza di questo problema può essere pienamente compreso solo quando dobbiamo affidare un nostro bambino ad un asilo nido o un genitore malato in una clinica. Nel terzo capitolo vedremo un recente tentativo della teoria economica di spiegare come è possibile tenere in qualche modo assieme queste due dimensioni: mercato e “vocazioni” – un tentativo teorico che non è del tutto convincente, anche se degno di essere conosciuto e analizzato. In questo capitolo cerchiamo di imbastire un discorso teorico generale sulla relazione di cura dalla prospettiva dell’economia civile. Questa letteratura economica suppone che l’impresa ipotizzi che un candidato con “vocazione” non sia interessato unicamente al salario o agli incentivi materiali (come invece ritiene la teoria standard), ma che attribuisca anche un certo valore intrinseco all’attività nella quale chiede di lavorare, un valore intrinseco che è parte della soddisfazione (o utilità) che 11

Va poi notato che la sfera di azione del mercato all’interno della società non ha subito un sentiero di espansione monotono (dello stesso segno). Se è vero che oggi il sistema dei prezzi e la moneta stanno entrando in aree in passato coperte da altre istituzioni (famiglia, comunità, …), è anche vero che il mercato negli anni è anche uscito da ambiti della società civile: nel medioevo si compravano le preghiere, le indulgenze, le donne (con i vari sistemi di dote), gli esseri umani ridotti in schiavitù, i servi. Il confine che separa le relazioni umane monetarie da quelle non monetarie è stato e continuerà ad essere flessibile e ambiguo.

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egli trae dal lavoro. In altre parole, la vocazione si traduce in una ricompensa intrinseca (non monetaria o materiale) che il soggetto ricava dallo svolgere quel determinato lavoro. Quando la motivazione è presente, l’ammontare del salario non è l’unico fattore decisivo per i candidati, come vedremo più analiticamente e diffusamente in seguito. Esiste una interessante critica femminista a tali modelli. Alcune economiste (tra cui Julie Nelson, 2009) sostengono che questi modelli proposti all’interno della letteratura sulle “vocazioni”, racchiudono l’antica ideologia maschilista che porta a legittimare salari inferiori nelle occupazioni nei servizi di cura, occupazione che restano ancora principalmente femminili. Secondo una tale critica, i salari più bassi del settore non-profit e nei servizi di cura a domicilio consentirebbero di coltivare la vocazione solo a quelle donne che hanno una indipendenza economica e/o mariti ricchi, mentre quelle donne con maggiori esigenze economiche sarebbero costrette ad accettare altre occupazioni nonvocazionali. L’errore, secondo questa critica femminista, consiste nel pensare che un’attività possa essere svolta “for love” o “for money”, e non per entrambi allo stesso tempo.12

3.

L’economia civile come opportunità da cogliere per crescere insieme

Alla luce di questo discorso sulla cura, torniamo all’idea di mercato che emerge dalla tradizione dell’Economia civile, alla quale il nostro lavoro si ricollega. Innanzitutto, la visione dell’economia civile ci invita a guardare il mercato come una forma di reciprocità.

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In altri lavori (Bruni e Sugden 2008) sono state introdotte alcune distinzioni tra l’approccio di Nelson, quello comunitarista e quello più tipico dell’economia civile.

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Il mercato, infatti, dalla prospettiva di Genovesi o di Dragonetti, e oggi di autori come Sugden o Sen, è anche un meccanismo sociale che, quando funziona correttamente, può essere letto anche come una remunerazione delle virtù civili. Possiamo interpretare il mercato, da una prospettiva inusuale oggi ma comune nel Settecento e in John Stuart Mill, come un sistema per remunerare quelle attività, socialmente virtuose ma scarse, a causa delle insufficienti motivazioni e ricompense intrinseche. In un ipotetico mondo senza mercati dove ciascuno svolge le attività che ama o sente come propria vocazione e che gli procurano ricompense intrinseche, avremmo un eccesso (rispetto alla domanda sociale) di attività intrinsecamente remunerative, e una insufficiente offerta di attività poco remunerative in sé (spazzini, manovali, minatori). Il mercato offre remunerazioni normalmente “estrinseche” per attività che non svolgeremmo, almeno in quantità considerata sufficiente dalla società, se seguissimo solo la gioia inerente all’azione. Il mercato, attraverso il meccanismo dei prezzi, fa sì che le attività remunerate non siano quelle che facciamo solo perché ci piacciono, ma quelle che sono ritenute utili dagli altri con cui scambiamo (e che quindi ci remunerano per quelle attività). Da questo punto di vista il mercato è anche un meccanismo di segnali che ci indicano la scarsità sociale, che ci dicono cioè se le cose che ci piacciono interessano anche – e soprattutto – a qualcun altro; è per questa ragione che il mercato può anche essere inteso come una forma di reciprocità e di legame sociale. Esso consente, quindi, che attività utili al bene comune possono essere svolte in modo libero e con dignità (senza pianificazione collettivista o gerarchia sacrale). Anche per questa ragione non c’è necessaria opposizione tra mercato, virtù civile, libera cooperazione

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umana e bene comune, come ben sapeva la tradizione dell’Economia civile13. Possiamo dire ancora qualche cosa in più. Prendiamo il noto “gioco della fiducia” come punto di partenza, poiché ci offre interessanti spunti per riflettere sullo specifico approccio dell’Economia civile. Immaginiamo una persona (Anna) che trova su internet un antico francobollo, di proprietà di B (Bruno) che vive in un altro continente. Anna deve prima inviare il bonifico di pagamento, e solo in un secondo momento Bruno invierà il francobollo. Il contratto, di fatto, è senza enforcement legale (i costi di transazione sarebbero troppo alti), e l’unica possibilità per Anna di avere il francobollo è fidarsi di Bruno, facendo un pagamento nell’aspettativa di ricevere il francobollo via posta. Se Anna si fida e Bruno si comporta in modo corretto, entrambi faranno un affare, passando dallo status quo (dove non accade nulla: 0,0) ad una situazione di mutuo vantaggio (1,1). Se però Anna si mette nei panni di Bruno, vede che una volta che questi ha ricevuto il pagamento se non invia il francobollo ha un guadagno maggiore (2>1) se decide di comportarsi in modo opportunistico, facendo sì che Anna si ritrovi senza francobollo e senza denaro (-1). La teoria dei giochi standard in questo caso ci suggerisce che la scelta razionale di Anna sarebbe non iniziare l’affare, non fidarsi, chiudendo il gioco in 0,0 (poiché 0>-1). È infatti questa la situazione che spesso ritroviamo quando la diffidenza prevale sulla fiducia rischiosa, una diffidenza che blocca persone e popoli in trappole di povertà.

13 Chiunque oggi voglia rivolgere critiche etiche al mercato non può evitare di fare i conti con questa funzione civilizzante e sociale del mercato, che se andasse persa in cerca di economia di “scambio di doni” perderemmo con essa secoli di civiltà che hanno fatto sì che il mercato potesse nascere e svilupparsi. Ogni critica seria e civile al mercato deve pertanto riconoscere almeno questa sua funzione morale, e orientare le proprie valutazioni critiche in modo da non contraddire questa dimensione delle interazioni di mercato – come certa filosofia comunitarista oggi fa. Tutto ciò era ed è ben chiaro alla tradizione civile dell’economia, dalla quale anche noi ripartiamo per immaginare delle relazioni di cura come espressione di fraternità, senza rinunciare al mercato.

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Come possiamo leggere questo gioco da una prospettiva civile? Semplicemente confrontando i due esiti (0,0) e (1,1): il mercato è un luogo di opportunità di mutuo vantaggio, dove le persone possono crescere insieme, e passare da una condizione peggiore ad una migliore. Perché ciò possa accadere, e il mercato e la società civile crescere, è richiesta solo una condizione: “vinci la tentazione di essere opportunista in un futuro stadio del rapporto”. La fiducia rischiosa è condizione necessaria, ma il mercato non va letto come un soggetto che si sacrifica per premiare l’altro (B che rinuncia ad 1 per premiare A che ha rischiato), ma come un’opportunità per migliorare entrambi e insieme. Quando invece prevale la diffidenza, o la preoccupazione sui futuri guadagni (“come divideremo domani la torta che generiamo assieme?”), spesso si finisce per non iniziare nessuna attività economica e civile, e si resta bloccati nel sottosviluppo. È la traiettoria che porta da (0,0) a (1,1) la traiettoria dello sviluppo e della vita. Il confronto (1,1) vs (-1,2) è invece quello che prevale in persone e popoli rivali e posizionali, dove non si vede la vita in comune come un insieme di opportunità da cogliere; dove il mondo non è percepito come produzione e innovazione, come future possibili torte da creare, ma come una realtà statica, dove esistono “furbi” e “fessi”, che debbono solo accaparrarsi fette di torte date che altri hanno creato, e che alla lunga si traduce soltanto in stoltezza individuale e collettiva, tutti bloccati nello status quo (0,0).

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Il gioco della fiducia A nf f 0,0

B nr

r

-1,2

1,1

Ma possiamo dire ancora altro sul mercato, sulle OMI e sugli imprenditori civili, e lo facciamo a partire non da un economista “civile” del passato, ma da uno degli economisti classici dell’economia mainstream, David Ricardo. Il grande economista inglese, nel 1817 formulò una delle prima vere teorie economiche (poiché contro-intuitive), che è ancora oggi rilevante. Nella teoria a lui precedente (quella mercantilista in particolare), il commercio e lo scambio avveniva quando esistevano dei vantaggi “assoluti”. Se l’Inghilterra e il Portogallo hanno la seguente struttura di costo, allora conviene la specializzazione e lo scambio internazionale: Vantaggi assoluti14:

14

Inghilterra

Portogallo

Seta: 5

seta: 8

Vino: 6

vino: 5

I numeri esprimono costi.

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Ricardo dimostrò che anche nel caso di esistenza di soli vantaggi “relativi”, lo scambio conviene ad entrambi:

Vantaggi relativi: Inghilterra

Portogallo

Seta: 5

seta: 8

Vino: 6

vino: 7

Ricardo ci mostrò che anche in un mondo in cui l’Inghilterra è più efficiente del Portogallo in entrambi i settori, può convenire all’Inghilterra specializzarsi nel settore dove è relativamente più forte, e – qui sta il punto – anche in questo caso lo scambio con il “più debole” avvantaggia anche il “più forte”. L’esempio classico è quello dell’avvocato che sebbene sia più veloce a scrivere al computer di una segretaria, egli ha vantaggio ad assumere una segreteria e concentrarsi sulle pratiche legali (è il concetto noto oggi come “costo opportunità”). Ma come l’Inghilterra, questo avvocato nell’assumere una segretaria meno brava di lui non sta facendo “assistenza” o beneficienza, ma sta traendo anche lui (non solo la segretaria) vantaggio da questo scambio. Quando il mercato fa questo, include cioè chi è più debole e lo fa diventare un’opportunità di bene comune, allora fa il suo mestiere di civilizzazione. Perché questa teoria è significativa per le OMI? Pensiamo alla grande innovazione che ha rappresentato la nascita della cooperazione sociale in Italia: i soggetti svantaggiati inclusi dentro l’impresa, sono spesso diventati (anche grazie ad una partecipazione pubblica ai costi, che quasi sempre è socialmente efficiente15) occasioni di mutuo vantaggio, anche per l’impresa che assume, e non un “costo” o un atto di beneficienza16.

15

Basta pensare ai costi sociali di persone svantaggiate e non incluse. Probabilmente la ragione del mancato successo della Legge 482/1968 sull’inserimento lavorativo di persone disabili nelle imprese sta proprio nella percezione dell’assenza del mutuo

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Sono questi i casi in cui chi è “aiutato” si sente all’interno di un rapporto di reciprocità, che esprime maggiore dignità. Non si sente un assistito, ma un soggetto all’interno di un contratto di mutuo vantaggio, e quindi sperimenta più libertà e più uguaglianza. Anche un soggetto Down17 può realizzare un contratto di mutuo vantaggio con un’impresa: occorre però trovare capacità innovativa vera nell’imprenditore civile, perché il mutuo vantaggio è sempre una possibilità (non si realizza automaticamente e sempre), che richiede molto lavoro e creatività, ma quando ciò accade il mercato si trasforma in vero strumento inclusivo e di autentica crescita umana e civile. Infatti, il sacrificio del benefattore non è sempre un buon segnale per chi riceve l’aiuto, perché può esprimere un rapporto di potere, magari nascosto dalla buona fede. Un imprenditore civile non dovrebbe allora darsi pace finché le persone incluse nella sua OMI non si sentono utili all’impresa e alla società, e non assistiti da un filantropo. Pensiamo al Microcredito: rendere bancabili gli esclusi è stata una delle principali innovazioni economiche di questo tempo, che ha liberato persone (donne in particolare) dalla miseria e dall’esclusione in una maniera più efficace di tanti interventi di aiuti internazionali. Se un intervento non aiuta tutte le parti coinvolte, difficilmente può essere autentico aiuto per qualcuno: se non mi sento beneficiato meno beneficio un altro, raramente l’altro si sentirà veramente beneficiato da me, soprattutto quando il rapporto dura nel tempo. La legge della vita è la reciprocità, che fa sì che i rapporti non si ammalino e crescano nella mutua dignità18. vantaggio. Da quelle imprese, e dai sindacati, il lavoratore disabile era (ed è) visto essenzialmente come un costo o un peso: la cooperazione sociale ha innovato veramente quando ha detto che quei lavoratori svantaggiati potevano diventare una risorsa anche per l’azienda. Ringrazio l’avvocato Carlo Cefaloni di Cittanuova (Roma) per questa nota. 17 Occorre ricordare che ogni persona ha il suo “daimon” da tirar fuori per raggiungere la sua eccellenza, e anche un ragazzo down ha la sua via all’eccellenza, ha il suo daimon da scoprire e far fiorire. 18 Crediamo che il mondo degli anziani sia oggi una nuova frontiera dove cogliere queste occasioni di mutuo vantaggio.

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Il mercato sta oggi occupando zone crescenti della nostra vita, entrando anche negli ambiti più intimi delle nostre relazioni interpersonali. Possiamo cercare di difenderci, e vivere questo passaggio come un male necessario. Possiamo, invece, cercare di far diventare baby-sitter, badanti, infermiere, maestre, come dei preziosi alleati in un nuovo patto sociale dove interpretiamo e viviamo anche il mercato come un pezzo di vita, come economia civile, dove la reciprocità del mercato può essere sussidiaria a quella dell’amicizia e persino dell’agape, dove si può, e si deve pagare, un infermiere o una babysitter, e al tempo stesso vivere con loro un rapporto autenticamente e pienamente umano e morale, di amicizia e di mutuo vantaggio.

4. Una prima conclusione

Il discorso fatto in questo capitolo non ci deve portare a negare che nei rapporti di mercato, in particolare nei servizi di cura (sia dentro sia fuori del mercato) ci sia bisogno di sacrificio e di motivazioni intrinseche. Anzi, siamo convinti proprio del contrario, e in tutto il discorso che faremo nei prossimi capitoli e quanto scritto anche in altri nostri lavori, lo sottolinea con forza. I lavoratori con vocazione sono importanti e in certi casi essenziali, e quando si ha anche fare con tali persone tutti i soggetti ne beneficiano, fuori e dentro le organizzazioni. Lavorare con motivazioni intrinseche, e sacrificarsi per gli altri anche oltre il contratto, sono tra le esperienze umane più appassionanti, e che spesso danno vita anche ad ambienti di lavoro più umani e vivibili, per chi ha quella vocazione, e per tutti coloro attorno ad essi. La tesi che abbiamo cercato di argomentare in questo capitolo è infatti un’altra: pur augurandoci che ci siano tante persone che vivono le relazioni di mercato come luogo di autentica vocazione e come sacrificio e come dono di sé, crediamo altresì che il mercato possa

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comunque essere immaginato civile e civilizzante, come luogo pienamente morale e autentico, anche quando queste dimensioni (che possono essere presenti in certi momenti della vita e solo in certe persone) non sono presenti, o quantomeno non sono determinanti per tutti. Perché, ad esempio, dovremmo considerare non autenticamente morale il comportamento di una “badante” che accudisce i nostri anziani malati (consentendo così a tanti di noi di coltivare i nostri interessi e la nostra umanità) “soltanto” per il denaro che riceve? Lavorare correttamente per mantenere la propria famiglia magari in altri Paesi del mondo non è attività pienamente morale? Certo se oltre allo stipendio è anche gentile e non-opportunistica, il benessere di chi interagisce con lei aumenta, ma lo stipendio può essere un’ottima ragione per lavorare, e anche in questa semplice motivazione ci può essere spazio per la gratuità (almeno per come noi la intendiamo). Siamo certamente più contenti quando troviamo nei nostri partners di mercato un “di più” di motivazioni, ma è ugualmente possibile fare un’esperienza pienamente civile quando operiamo con gli altri all’interno di un’azione congiunta, dove siamo corretti, non opportunistici e maturiamo sentimenti di reciproca amicizia. Il messaggio di queste pagine è per una visione non ideologica e pluralista delle motivazioni umane: le organizzazioni, OMI incluse, sono e debbono essere luoghi plurali e pluralistici, anche in termini di motivazioni dei suoi membri. Per questo sarebbe da un lato poco intelligente e fruttuoso guardare con disprezzo chi lavora senza particolari motivazioni intrinseche ma solo per mantenere se stesso e la propria famiglia; dall’altro, sarebbe molto pericoloso, e tendenzialmente illiberale, indagare le “motivazioni” dei nostri colleghi e collaboratori, classificando, assumendo o licenziando le persone in base alla nostra stima di quanto loro sono intrinsecamente motivati. L’economia e le organizzazioni funzionano quando i managers e i responsabili si arrestano sull’uscio dell’intimità delle persone, e pur sapendo che ci sono persone con

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motivazioni diverse, si è capaci di rendere sinergiche le diversità, anche di motivazioni, e non metterle in competizione o conflitto tra di loro. In questo capitolo, abbiamo cercato di mostrare che tra il concepire la vita lavorativa come sacrificio e remunerazione intrinseca e l’intendere il lavoro e il mercato come "mutua indifferenza" dove rispondere unicamente ad incentivi monetari, esiste una terza possibilità, che è quella suggerita della tradizione dell’Economia Civile, per la quale non si tratta di “importare” ogni tanto elementi di socialità dentro un mercato che per natura è anti-sociale o a-sociale, ma di concepire, costruire e vivere il mercato come un momento della vita civile, come gli altri luoghi del vivere: anche l’economia e i mercati sono un pezzo di vita in comune, che diventa civile o incivile a seconda di come li immaginiamo e poi viviamo, a seconda delle nostre intenzioni, sentimenti, azioni. La reciprocità, nelle sue varie forme, è la legge sia della società civile sia del mercato. Se invece continuiamo a leggere la vita economica come un ambito separato dal civile, in linea con tutta la tradizione di pensiero occidentale, una tradizione radicalmente dicotomica (anima-corpo, eros-agape, federagione, dono-mercato …), allora lasceremo le passioni alte e gli ideali nell’attaccapanni della fabbrica o dell’ufficio, poiché non sono “addetti ai lavori” e quindi non possono entrare nei cantieri della vita economica e civile, per usare una bella ed efficace espressione di Igino Giordani. Ma una tale lettura dualistica e manichea della vita continua semplicemente a generare un duplice errore: da una parte contribuisce a tener lontani gli ideali dell’economico, con le conseguenze che tutti osserviamo nei mercati odierni, troppo spesso uggiosi e senza passioni felici (ma solo quelle tristi); dall’altra, tiene i valori dell’economia e le virtù del mercato (efficienza, responsabilità, scarsità) fuori dalle realtà rette da motivazioni ideali, che finiscono spesso per chiudersi su se stesse e tendere all’inefficienza per

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difendersi da un mercato cinico e senza ideali, così ridotto anche a causa dell’assenza delle passioni alte e degli ideali dall’arena dei mercati. Siamo, infatti, convinti che il pensiero dicotomico dono-mercato e economia-ideali, frutto di alcuni grandi traumi culturali nella prima modernità, sia uno dei principali scogli da superare per una piena umanizzazione dell’economia oggi. Noi crediamo che questa dicotomia mercato-ideali vada superata, per il bene delle OMI e degli ideali, e per quello dell’economia tutta. Finora nel mondo degli ideali e dei valori non abbiamo normalmente conosciuto un rapporto corretto con l’ambito economico: è stato a volte asservito per usarlo e altre volte, le più, reso tiranno. Banche e imprenditori sono considerati come soggetti ambigui ma dei cui denari si ha estremo bisogno, e così diventano spesso padroni di molte realtà ideali, dentro e fuori le chiese, che non riescono a rapportarsi con il mondo economico con reciproca stima e rispetto. Stiamo ancora aspettando l’era della fraternità, dove l’economia non è né serva né padrona ma “sorella”. Nei capitoli seguenti entreremo nel vivo del discorso, iniziando col prossimo con un tentativo di definizione delle OMI, addentrandoci così nelle dinamiche che fanno la vita di una OMI, come la selezione dei nuovi membri, o la gestione delle crisi, in particolare delle crisi di qualità ideale.

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CAPITOLO II

L’ARTE DELLA GRATUITA’

Ed ecco l’idea di quest’opera. Se affisseremo gli occhi a sì belle e utili verità, studieremo non per pedantesca vanità, né per superbia di signoreggiare agl’ignoranti, o per malvagità d’aggirarli, ma per secondare la legge del moderatore del

mondo,

che

ci

comanda

d’ingegnarci di essere gli uni utili agli altri (A. Genovesi, Lezioni di Economia civile, 1765).

1. Le motivazioni e la vita economica

Le motivazioni sottostanti le azioni hanno un valore molto importante nella vita, anche in quella civile, economica e nelle organizzazioni. Gli esseri umani sono gli unici animali capaci di attribuire un senso e un valore alle motivazioni, degli altri e proprie, e non solo ai risultati materiali e oggettivi che derivano da determinati comportamenti.

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Fino a quando e nella misura in cui le organizzazioni e i mercati resteranno luoghi umani, le motivazioni conteranno, comprese quelle motivazioni più complesse della semplice ricerca del profitto (Bruni e Zamagni 2009). La scienza economica non guarda, o almeno non guardava fino a tempi recenti, con simpatia e interesse le motivazioni sottostanti le azioni. Anzi, e per ragioni non banali, l’economia considera pericoloso inserirle nell’analisi economica, poiché la caratteristica principale dell’economia moderna, quella forse più radicata e profonda, è la definizione del mercato come un ambito nel quale ci possiamo incontrare e scambiare senza tener conto del “perché” ciascun agente sia spinto a svolgere quella data attività o scambio. L’analisi dei “perché” chiama infatti in gioco identità, storia, ceto, classe, religioni, tutti elementi che nell’ancient régime (e in una certa misura ancora oggi in molte aree del mondo) sono stati causa di limitazione dello sviluppo economico e sociale, e hanno relegato e confinato gli incontri umani solo all’interno dei legami forti nei clan, gruppi, famiglie, nelle reti parentali e amicali. Il mercato ha avuto nei secoli lo straordinario sviluppo che conosciamo proprio perché ha creato un nuovo sistema di relazioni, un nuovo ethos, che si ferma sulla soglia delle motivazioni degli individui, accontentandosi delle “laiche” e anonime scelte. Quando entriamo nel negozio ad acquistare del vino non ci viene chiesto “perché” facciamo quel dato acquisto (se per far festa con gli amici, o per alimentare una dipendenza da alcol): al meccanismo di mercato è sufficiente che chi compra abbia potere d’acquisto e segua i segnali dei prezzi. Non ci viene chiesto dal negoziante del supermercato19 se siamo musulmani, ebrei o cristiani: l’incontro di mercato avviene oltre queste diversità, indifferente rispetto alle motivazioni delle diverse persone. Anche per queste ragioni, l’analisi delle motivazioni non deve avere un ruolo eccessivo, poiché nella 19

Diverso è il meccanismo dei mercati più relazionali e comunitari delle città reali, dove queste domande sul “perché” vengono poste.

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vita pubblica e nel mondo del lavoro l’indagine delle motivazioni non deve diventare strumento di discriminazione e di controllo delle persone. Il mercato attua una sorta di livellamento delle identità proprio perché si ferma sull’uscio della motivazione: e grazie a questo livellamento la relazione di mercato ha mostrato una straordinaria capacità di rendere possibile l’incontro tra persone che non si sarebbero mai incontrate se la relazione di mercato fosse stata dipendente dalle motivazioni e quindi dalle identità, ha incluso miliardi di persone rimaste ai margini della vita pubblica per millenni, ha attivato i desideri delle persone, e la voglia di vivere e di crescere (anche quando i beni di consumo non sono la risposta migliore alla voglia di vita e di crescita delle persone). Il grande economista inglese P. Wicksteed, pastore della chiesa unitarista e studioso di Dante, è colui che più ha teorizzato questa caratteristica dell’economia moderna, quando affermava che gli economisti devono essere “interessati soltanto al “cosa” e al “come”, e non al “perché”” delle azioni ((1933)[1910], p. 165), che restano così libere da qualsiasi analisi dei moventi: “gli oggetti e le azioni di cui si occupa l’analisi economica includeranno quindi ogni cosa che entra nel circolo degli scambi – cioè ogni cosa che gli uomini possono offrirsi a vicenda, o che possono fare gli uni per gli altri, in cui possiamo vedere una sorta di capacità impersonale; o, in altre parole, le cose che una persona può dare a o può fare per un’altra persona indipendentemente da ogni forma di simpatia personale e individualizzata, con lei o con le sue motivazioni o le sue ragioni” (pp. 4-5, corsivo nostro). Da questo punto di vista, però, negli ultimi decenni, grazie anche allo sviluppo del dialogo tra economia e psicologia, e al conseguente crescente utilizzo del metodo sperimentale in economia, gli studiosi di scienze economiche si sono accorti che le motivazioni hanno effetti importanti nelle scelte delle persone, e di chi osserva compiere quelle scelte. Si sta cioè scoprendo sperimentalmente (oltre che dall’osservazione della

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vita delle persone reali) che se non inseriamo le motivazioni all’interno dell’analisi economica, non riusciamo a comprendere tante scelte importanti (come fidarsi, rispondere positivamente o meno ad un atto di fiducia, ricambiare la reciprocità, scegliere o impegnarsi al lavoro, pagare le tasse, rispettare le leggi, ecc.), scelte che dipendono da come i soggetti leggono e interpretano le motivazioni degli altri con i quali interagiscono20.

2. Che cosa sono le OMI?

Questa recente apertura motivazionale dell’economia è importante, poiché solo all’interno di una scienza economica aperta alle motivazioni si possono studiare, e comprendere, le dinamiche delle OMI. Se c’è, infatti,un luogo nel quale la natura delle motivazioni gioca un ruolo tutto speciale è quello delle OMI, un’espressione che oggi inizia ad essere usata per indicare quelle organizzazioni – associazioni, ONG, imprese sociali o le imprese di Economia di comunione, ecc. – nelle quali il movente che le ispira (o che quantomeno ha ispirato la loro costituzione) non è primariamente il profitto né elementi solo strumentali, ma un movente ideale, una missione o una “vocazione” che, in vari modi, nasce dalle motivazioni intrinseche dei suoi promotori. E quando si parla di missione, di motivazioni intrinseche, di vocazione, si parla anche di gratuità, se è vero – è questa la nostra ipotesi di lavoro – che entriamo nel territorio della gratuità tutte le volte che abbiamo a che fare con comportamenti che sono praticati perché buoni, perché hanno un valore in sé, prima e indipendentemente (almeno nel breve periodo21) dai risultati materiali che quelle pratiche portano. Nella letteratura economica e sociale non esiste una definizione condivisa sulle OMI, in generale esse sono normalmente identificate con

20 Per una rassegna, e per un esperimento sulla natura delle motivazioni nella scienza economica contemporanea, si cfr. Stanca, Bruni e Corazzini (2009). 21 Sulla possibilità che le motivazioni intrinseche varino nel tempo cfr. Bruni (2006, cap. 5).

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organizzazioni religiose22. Nella letteratura internazionale per indicare le OMI si utilizzano le espressioni values-based organizations, oppure mission-driven organizations. Secondo Molteni (2009) il movente ideale di queste organizzazioni può assumere diverse forme: può essere presente nel tipo di attività che si svolge, nelle motivazioni per cui un’organizzazione viene posta in essere (ad esempio un’impresa che sorge per includere nel processo produttivo i soggetti più svantaggiati), oppure nel ‘modo’ di fare impresa, che riguarda la scelta dell’assetto di governance, o dell’assetto organizzativo. Queste caratteristiche, a nostro parere devono essere compresenti in una OMI, sebbene in gradi e combinazioni diverse, in quanto è difficile immaginare, per esempio, motivazioni ideali che non si coniughino poi con una governance o un assetto organizzativo adeguati, poiché il “vino nuovo” della mission ideale ha normalmente bisogno di “otri nuovi” adeguati a contenere quel vino, e a farlo maturare con il tempo. In questo libro ci riferiremo alle OMI come organizzazioni che possiedono almeno tre elementi, di cui uno legato all’organizzazione e due ai suoi membri:

a)

L’attività svolta dall’organizzazione è normalmente una parte essenziale della sua identità, perché tale attività è generata da una ‘vocazione’ che rappresenta i valori, l’identità e la missione dell’organizzazione23. Mentre i proprietari

di

un’impresa

capitalistica

possono

normalmente cambiare settore di attività se lo ritengono conveniente, una OMI nasce per uno scopo specifico, che 22

Mitroff e Denton (1999) hanno identificato cinque modelli di OMI tutti basati su religiosità e spiritualità. 23 L’attività qui va intesa in senso ampio. Per una cooperativa sociale, ad esempio, le attività concrete possono essere diverse e cambiare nel tempo (lavanderia, assemblaggio …), ma per l’attività noi intendiamo il reinserimento lavorativo di lavoratori svantaggiati, che costituisce la mission della OMI. In altri casi (ad esempio opere di istituti religiosi), il rapporto tra mission e opere è invece ancora più forte.

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è legato indissolubilmente all’organizzazione stessa. In altre parole, in una OMI l’attività che si svolge non può essere né praticamente né logicamente separata dal risultato che si vuole raggiungere. L’attività, quindi, è parte costitutiva dello scopo per cui si opera.

b)

L’identità dell’organizzazione è un elemento essenziale, sebbene sia, come ogni identità, una realtà dinamica e in continua co-evoluzione con l’ambiente e con la storia. Essa non è un fattore formale o astratto ma è profondamente legato ad una o più persone che condividono, ed in un certo senso incorporano, la ‘vocazione’ e i valori di una determinata OMI24. Noi chiameremo

questi

membri,

che spesso,

ma non

necessariamente, sono i fondatori dell’OMI, soggetti intrinsecamente motivati.

c)

Tali

membri

intrinsecamente

motivati

hanno

la

caratteristica di essere relativamente meno reattivi ai segnali di prezzo (ad esempio al salario e alle ore di lavoro extra) rispetto ad altri membri meno motivati, ma di essere i più sensibili alla qualità ideale della OMI, e per questa ragione sono anche i primi a protestare. Essi quindi svolgono nella OMI una funzione di “sentinelle” dell’identità e della qualità ideale dell’organizzazione, protestando quando l’organizzazione entra in crisi. 24 Qui usiamo le espressioni “vocazione,” “motivazioni ideali,” e “motivazioni intrinseche” come sinonime. Infatti, tra motivazioni ideali o vocazione e motivazioni intrinseche c’è uno stretto legame: non esistono motivazioni ideali senza motivazioni intrinseche per l’attività che si porta avanti.

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Per comprendere la peculiarità di una OMI si pensi a ciò che OMI non è: imprese speculative, ad esempio, che hanno come scopo la ricerca del profitto, nelle quali l’attività è solo uno strumento per ottimizzare qualcosa di esterno, ben distinto dall’attività stessa che quindi non ha alcun valore intrinseco ma, per definizione, unicamente strumentale, dove i dipendenti reagiscono solo ad incentivi materiali, e dove non è richiesta una particolare ‘vocazione’ ai propri membri, oltre le abilità tecniche e al rispetto del contratto. Le OMI possono allora essere ONG, organizzazioni ambientali, educative, cura imprese sociale e civili, politiche, religiose, associazioni culturali25, quando in esse si ritrovano queste tre caratteristiche che abbiamo appena elencato. Il principale obiettivo di ogni OMI è evolversi e crescere senza perdere la propria identità a cui è legata la sopravvivenza della stessa OMI nel medio e nel lungo periodo.26 Infatti, se da una parte un’organizzazione “non può sopravvivere se non tendendo allo sviluppo, che è sempre qualitativo, ma molto spesso anche dimensionale … [poiché] senza tensione allo sviluppo di norma non c’è stabilità, ma regresso” (Molteni 2009, p. 72), dall’altra parte lo sviluppo si deve conciliare con la fedeltà alla missione ideale, che significa fedeltà dinamica all’identità dell’organizzazione.

25

Si comprende allora che non tutte le organizzazioni non profit sono necessariamente OMI. In un senso più ampio, molte organizzazioni possono essere incluse nella categoria OMI. La lista potrebbe includere, per esempio, piccole imprese artigiane familiari che sono formalmente “for-profit” il cui sviluppo e la cui sopravvivenza sono seriamente minacciati dopo la prima generazione di fondatori (ciò che sta accadendo oggigiorno nei distretti italiani, compresi quelli del ‘Made in Italy’). Quando la prima generazione lascia, queste piccole imprese incontrano solitamente grandi difficoltà nel trovare sul mercato nuovi manager che sono capaci di preservare l’identità e la cultura aziendale. Questa cultura specifica legata alle persone rappresenta il più grande potere competitivo di tali organizzazioni, poiché incorpora il knowhow degli imprenditori, e che fa sì che queste imprese non siano semplicemente una merce (commodity) ma un intreccio di storia, valori, saperi, cultura tacita, territorio, tecnologia e tecnica, persone. 26

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Chiunque operi nel campo dell’economia sociale o lavori in organizzazioni caratterizzate da una mission che va oltre i profitti, sa bene che in tali organizzazioni il successo e la crescita armonica dipendono principalmente da un numero limitato di persone (spesso alcuni tra i fondatori dell’organizzazione) che svolgono una funzione chiave per le particolari motivazioni che li muovono, motivazioni che noi chiameremo “intrinseche”

o

ideali.

Queste

persone

influenzano

la

cultura

dell’organizzazione direttamente (con scelte di gestione, regole …) e, cosa molto importante per la nostra analisi, anche indirettamente attraverso i loro comportamenti che sono imitati da altri membri meno motivati. Se alcune di queste figure chiave lasciano l’organizzazione (perché, ad esempio, il nuovo management non rispecchia gli ideali originari) spesso si verificano effetti cumulativi e nel tempo iniziare possono scatenare un processo di deterioramento ideale all’interno dell’organizzazione. Vedremo che un rimedio importante contro tale processo di deterioramento è la lealtà dei membri motivati, che potrebbe essere accresciuta da una governance pluralistica e partecipativa. L’idealtipo di OMI che abbiamo in mente potrebbe essere una scuola primaria gestita da una congregazione di religiose che intende continuare la propria attività solo se e fino a quando i membri più motivati tra gli insegnanti (per esempio le suore) vedono la qualità della scuola in linea con la loro spiritualità e carisma. Un altro esempio di OMI è una ONG ambientalista nata da un piccolo numero di persone che stanno cercando di proteggere alcune specie di uccelli a rischio di estinzione. Quando la ONG cresce, è fondamentale per essa mantenere la vocazione originale con cui si era dato origine alla ONG, vocazione incorporata in maniera del tutto speciale nella cultura dei fondatori o di alcune persone che sentono particolarmente propria la mission di quella OMI.

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Abbiamo iniziato il capitolo affermando che la gratuità gioca un ruolo essenziale nelle OMI. Ma cosa è la gratuità? Nel prossimo paragrafo cercheremo di delinearne alcune caratteristiche.

3. Perché la gratuità nelle organizzazioni?

La vita in comune sarebbe impensabile senza comportamenti ispirati a gratuità, perché senza gratuità non c’è incontro pienamente umano con l’altro e non si genera autentica fiducia senza della quale né le organizzazioni né il mercato né la società possono veramente funzionare. Se, infatti, eliminassimo con un esperimento mentale la gratuità dalle ordinarie faccende economiche, le nostre organizzazioni produttive e molti dei nostri mercati reali imploderebbero nello spazio di un mattino. Per questo suo essere dimensione fondativa dell’umano, e quindi eccedente rispetto alla sola dimensione economica, la gratuità è un concetto estremamente difficile da definire, soprattutto nelle sue declinazioni economico-sociali. È anche questa difficoltà che spiega perché nella letteratura sociale, soprattutto in quella economica, non troviamo una vera e propria riflessione sulla gratuità. Si incontrano, e sempre di più, parole semanticamente confinanti con essa come dono, altruismo, reciprocità, filantropia, ecc., ma la gratuità resta indefinita. Quando si attiva la dimensione della gratuità la strada da percorrere è importante come la meta da raggiungere. L’azione deve avere un valore in sé e non soltanto un significato strumentale. Ma la pure non strumentalità, o motivazione intrinseca, è solo la condizione necessaria, non sufficiente, perché si possa parlare di gratuità o di comportamenti umani (solo l’umano conosce il gratuito) ispirati da gratuità. La categoria antica che più dice che cosa è la gratuità è agape, poiché non c’è comportamento ad essa ispirato senza gratuità. Questa condizione necessaria serve già a distinguere la gratuità dall’altruismo o dalla filantropia, che possono anche restare

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esperienze senza motivazioni intrinseche. Il dono può certamente essere espressione di gratuità, ma nell’esperienza del dono può anche prevalere la dimensione dell’obbligo, del munus antico. Una parola che anche coglie questa dimensione “necessaria” della gratuità è innocenza, quella dimensione che troviamo soprattutto nei bambini: il bambino che gioca senza nessun altro scopo che non sia il gioco stesso esprime questa dimensione della gratuità. La condizione “sufficiente” perché si possa parlare di gratuità è l’orientamento intenzionale dell’azione verso il bene, anche se il “bene” può non essere necessariamente il bene “dell’altro”. Questa condizione sufficiente può escludere dall’esperienza della gratuità il bambino che gioca: non basta essere bambini per vivere la gratuità, ma è necessario recuperare quella dimensione del bambino da adulti se si vuol fare davvero l’esperienza della gratuità. Anche nei comportamenti di mercato più “normali” c’è bisogno di qualcosa che il contratto – anche per la sua incompletezza - non può prevedere. E ce n’è bisogno durante lo svolgimento ordinario delle faccende economiche, mentre produciamo, lavoriamo e scambiamo, e non dopo, come un “di più” che finisce spesso per confinare con il “superfluo” o con l’inutile, con il “limoncello” del pranzo. Ma come tenere assieme – e se è possibile – i beni relazionali (che richiedono gratuità) e le normali transazioni economiche? È infatti ben noto a chi si occupa di queste tematiche, come visto nel capitolo precedente, che se sono pagato per sorridere ad un anziano, il mio sorriso può perdere quel qualcosa di immateriale ma realissimo che è quanto esattamente voleva l’anziano-cliente; o se mi insegnano ad essere gentile e interessato al cliente per vendere di più, nel momento in cui il cliente percepisce la strumentalità del mio atteggiamento posso ottenere proprio l’effetto opposto a quello desiderato. Ciò non significa negare l’importanza di chiedere ad infermieri, dottori, funzionari, baristi che trattino “gentilmente” i clienti e i cittadini: è

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questo un segno di civiltà. La gratuità, però, è un’altra cosa rispetto alla gentilezza e alla buona educazione, o alla politically correctness (anche se non le esclude). Per renderci conto di quanto valga la gratuità basti pensare che ciò che rende l’amicizia, l’amore, la preghiera e la bellezza, i beni più preziosi della nostra vita, è proprio il loro essere essenzialmente faccende di gratuità. Infatti, se ci pensiamo un attimo, è proprio la gratuità che fa un amico “vero” diverso da un “amico” opportunista, che rende una famiglia diversa da un insieme di scambi di beni e servizi, un’opera d’arte non solo una merce, e la preghiera diversa dalla magia o dalla superstizione. Tutti sappiamo, quindi, che cos’è la gratuità sul piano dell’esperienza concreta, tutti la cerchiamo e soprattutto soffriamo quando la smarriamo in noi, negli altri, o quando viene tradita. Se però andiamo a definirla, non appena cioè ci soffermiamo un attimo su di essa per comprenderla, ci sembra che ci sfugga, che divenga o troppo complicata o addirittura banale. E forse conviene proprio lasciarla indefinita, o accontentarci di definirla in negativo, indicando ciò che essa non è. Si potrebbe anche dire che le OMI hanno la loro forza propria nella valorizzazione della gratuità; poiché non nascono che per “vocazione” esse hanno proprio lo specifico sapore della gratuità, perché forse solo ciò che nasce da una vocazione interiore può essere davvero gratuito, perché davvero libero. Infatti, solo dove abita la libertà c’è gratuità, e solo la gratuità è veramente libera, perché la gratuità ci consente di essere mossi dal di dentro, e così obbedendo al nostro daimon socratico obbediamo in realtà al nostro essere più profondo, alla parte migliore di noi. La gratuità è, quindi, una di quelle parole “profonde” che sono, al tempo stesso, particolari e universali, come bellezza, amore, verità, libertà, o comunione. Queste parole hanno in comune proprio la caratteristica che in ciascuna sono contenute anche le altre: una vita buona non è solo bellezza,

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verità o libertà, ma, al tempo stesso, libertà, verità e bellezza da sole dicono l’essenza di una vita buona. La cultura della modernità ha cercato di relegare la gratuità nella sfera privata, espellendola decisamente dalla sfera pubblica. In particolare l’ha espulsa dalla sfera economica: all’economia bastano i contratti, gli incentivi, le buone regole e gli interessi. Ma se l’attività economica perde definitivamente contatto con il territorio della gratuità pone le premesse della sua implosione, e quanto osserviamo nelle attuali economie reali ce lo sta dicendo in un modo sempre più forte e chiaro.

3. Il muro dritto

La gratuità non è dunque un contenuto (un “che cosa”) dell’azione umana. Il dono-gratuità è invece soprattutto un darsi, un donarsi della persona, che quindi attiene primariamente all’essere e all’accogliere, è un silenzio che precede la parola. Per questo l’azione mossa da gratuità può assumere varie forme, poiché la gratuità è una modalità dell’azione, è un “come” si agisce. È questo infatti il significato più vero, a mio parere, della gratuità-dono, che fa sì che la gratuità la possiamo e dobbiamo trovare nello svolgimento di ogni tipo di azioni, anche nell’esercizio del doveroso, del contratto, del mercato, dell’impresa. Il dono-gratuità non è quindi il gadget, lo sconto, i regali, i punti delle fidelity cards, che sono il “dono” che normalmente conosce il mercato tradizionale, e che in genere non ha nulla della gratuità e della sua natura tragica e dolorosa. La gratuità vera mi pone, infatti, di fronte all’altro senza mediatori, mi rende vulnerabile, poiché essa si pone al di qua del calcolo delle equivalenze e delle garanzie contrattuali o legali. La vera gratuità è sempre potenzialmente una ferita. Anche per questa sua natura tragica la modernità ha espunto la gratuità dai mercati e dall’economico, e dalla sfera pubblica in generale.

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Declinazioni di questa gratuità la ritroviamo, ad esempio, in due autori, molto diversi tra di loro, ma accomunati da una grande esperienza di dolore (il dolore è una grande scuola di gratuità, quando non diventa disperazione): Primo Levi e Pavel A. Florenskij. Ricordando la sua esperienza del lager, Primo Levi così scriveva:

Ma ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del “lavoro ben fatto” è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i nazisti, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità (Levi 1997, p. 85).

Tirar su “un muro dritto” per dignità è anche espressione di gratuità, poiché dice che esiste negli altri, in sé stessi, nella natura, nelle cose, persino nei “muri”, una verità ed una “vocazione” che va rispettata e servita, e mai asservita ai nostri interessi. “Quel muro era lui”, ha commentato durante un incontro Foscolo, un liutaio umanista vicino Forlì: “Quella bellezza e quella solidità che quel muratore non vedeva più in se stesso per le condizioni disumane in cui viveva, le aveva incarnate in quel muro, come a dire: ‘anche se tutti voi vedete qualcosa di diverso, in realtà io sono come quel muro: bello e dritto’”. Un tale commento a quel brano di Levi poteva essere espresso forse solo da un artista, da chi è abitato dal daimon della vocazione, che è sempre faccenda di gratuità. Anche la gratuità può diventare un’arte, l’arte della gratuità, come la definisce il grande teologo e scienziato russo Pavel Florenskij nel gulag di Solovki, pochi mesi prima di morire fucilato:

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Nella mia vita le cose sono andate sempre così. Nel momento stesso in cui riuscivo a possedere una certa materia, ero costretto ad abbandonarla per motivi indipendenti dalla mia volontà e dovevo iniziare ad affrontare un nuovo problema, sempre partendo dai suoi fondamenti, per spianare una strada che non sarei stato io a percorrere. Forse in questo si nasconde un significato profondo, dato che questa situazione si ripete sempre, nel corso di tutta la vita: l’arte della gratuità (da una lettera dell’11 maggio 1937, in Florenskij 2009, pp. 397-398).

Spianare strade che non si percorreranno, o vivere con distacco e castità il proprio lavoro e la propria vita (come è difficile attraversare la vita senza cadere nella tentazione di possedere e consumare le cose belle che troviamo in noi e negli altri!), crediamo sia una splendida definizione dell’arte della gratuità, l’arte più difficile da imparare, ma quella da cui dipende molto, forse tutto, della fioritura di una esistenza. Questa gratuità è dunque profondamente legata all’agape, a quella caritas, che nei primi tempi del cristianesimo veniva anche scritta charitas, per sottolineare che era la traduzione ad un tempo di agape (amore) e charis (grazia, gratuità). Le esperienze economiche improntate a questa gratuità sono allora importanti tentativi di valorizzare la funzione civilizzatrice e liberatrice del mercato senza però abdicare alla gratuità, e alla sua natura tragica. In tali esperienze si sperimenta sempre una tensione vitale tra “ferite” e “benedizioni”: chi dà vita ad una cooperativa sociale, o ad una bottega del Commercio Equo e Solidale, ad una impresa di Economia di comunione vive una vita più felice ma, al contempo, soffre di più, perché nell’incontro sempre tragico, ma sempre sorprendente con l’altro, non ha vie di fuga nella gerarchia immunizzatrice o nella lettera del contratto – su questi aspetti torneremo ancora.

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Se la gratuità e il dono sono quelle cose che abbiamo cercato di delineare, allora non è necessario “lasciare” l’ambito economico ed “entrare” nell’ambito sociale quando la gratuità e il dono fanno il loro ingresso nella vita economica, poiché se la dimensione tipica dell’umano è la sua apertura al dono-gratuità, e se l’economia è attività umana, allora una economia autenticamente umana non può prescindere dalla gratuità, altrimenti si esce insieme dall’umano e dall’economico. Se l’economia è attività umana, essa non è mai eticamente e antropologicamente neutrale: o costruisce rapporti di giustizia e di charitas, o li distrugge, tertium non datur. Da tale prospettiva il mercato è allora richiamato alla sua vocazione originaria, ma spesso tradita, di inclusione sociale (presente anche in Adam Smith e nei classici, e non solo in Genovesi e nella tradizione italiana dell’Economia civile), dove il contratto è sussidiario e non sostituto della autentica promozione umana e del bene comune.

Le OMI vivono anche di questa gratuità. L’obiettivo primario di una OMI è crescere e svilupparsi senza perdere la fedeltà al movente ideale che l’ha originata, senza distaccarsi dal proprio “carisma”, quindi senza perdere la gratuità (la charis). Nei prossimi capitoli analizzeremo alcune dinamiche legate al processo di sviluppo delle OMI, in particolare alcuni momenti della difficile arte della selezione del personale, e la gestione dei momenti di crisi motivazionale e ideale.

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CAPITOLO III

QUANDO LA VOCAZIONE CONTA

“Non faccio che seguire un comando divino, sappiatelo: sono convinto, anzi, che la missione che svolgo per il Dio sia il bene massimo che sia toccato a questa città” (Apologia di Socrate).

1. Come assumere Socrate?

La selezione del personale è un processo molto delicato in ogni organizzazione. Nelle Organizzazioni a Movente Ideale, che sono realtà nate attorno ad una ben chiara mission, saper attrarre le persone giuste è decisivo per la crescita equilibrata ed armoniosa nel corso del tempo. In particolare le sfide legate alla selezione del personale sono molto delicate nei momenti di crescita dimensionale delle OMI, o durante un cambiamento generazionale. Il ricambio generazionale è infatti un tipico momento critico per le OMI, proprio a causa della necessità di sostituire alcuni membri chiave dell’organizzazione stessa. Il momento della selezione di nuovi membri è una dimensione fisiologica di ogni organizzazione che abbia un ciclo di vita più lungo di quello dei suoi fondatori. In questo capitolo analizzeremo il fenomeno della selezione di nuovi membri (soci o manager) delle OMI. Tali organizzazioni sono interessate ad attrarre persone (almeno un certo numero) che abbiano la “vocazione” per svolgere l’attività che costituisce la mission dell’organizzazione. Ogni OMI ha bisogno di gente che insegna, cura malati, si occupa di sviluppo dei

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poveri per “vocazione” e non unicamente per il salario, come Socrate che, a differenza dei sofisti di Atene, non accettava pagamenti per le sue lezioni. Al tempo stesso, i moderni Socrate hanno bisogno del salario per vivere, quindi occorre immaginare una politica di incentivi che riesca ad attrarre “Socrate” (almeno alcuni). Vedremo che non è necessario che tutti i membri di una OMI abbiano motivazioni intrinseche (la “vocazione”) perché si realizzi un clima positivo e ci sia cooperazione: è comunque necessario che almeno un certo numero di soggetti siano mossi da motivazioni intrinseche, i quali diventano poi capaci (se raggiungono una determinata “massa critica”) di attivare altri che pur non avendo una forte motivazione intrinseca, si comportano ugualmente in modo cooperativo. Vocazione e motivazioni intrinseche sono due aspetti della stessa medaglia. Iniziamo questo capitolo introducendo brevemente la teoria standard della selezione del personale nelle organizzazioni, come viene vista dalla teoria economica, quando l’informazione tra chi si offre per un lavoro e l’OMI che lo deve selezionare non è simmetrica (situazione normale nelle dinamiche reali). Vedremo poi, nella parte centrale, alcuni modelli che propongono teorie alternative nel caso si abbia a che fare con organizzazioni interessate anche alla presenza di certa “vocazione” nei lavoratori che assume, modelli, ai quali abbiamo fatto cenno, basati sull’idea che un buon strumento di selezione delle “vocazioni” sia offrire un salario più basso di quello di mercato (“pagar meno”). Termineremo, infine, questo capitolo offrendo una nostra proposta che cerca di colmare alcuni limiti della teoria presente, offrendo una chiave di lettura poco convenzionale della natura e del ruolo della vocazione nelle organizzazioni a movente ideale. La nostra ipotesi di partenza consiste nel supporre che i dirigenti di una OMI siano interessati a selezionare lavoratori con “vocazione”, vale a dire assumere non solo soggetti preparati e abili, ma persone che oltre ad

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essere preparate27 sentano anche come propria la mission e i valori della OMI. Questo di più lo chiamiamo, in linea con chi si occupa oggi di tali dinamiche, “vocazione”. Quindi, per fare subito un esempio, una cooperativa sociale che si occupa dell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, non vorrà selezionare solo dirigenti e operatori28 preparati “tecnicamente”, ma desidera, o dovrebbe desiderare, di assumere persone che oltre alla preparazione tecnica abbiano una certa dose di “vocazione”, di interesse, di passione (di timos, direbbe Platone), di motivazioni intrinseche per l’attività e la missione che andranno a svolgere. Nel linguaggio che abbiamo introdotto nel capitolo precedente, una OMI vorrebbe selezionare lavoratori capaci di gratuità durante lo svolgimento del proprio lavoro. Tale vocazione dovrebbe portare queste persone ad avvicinare quei soggetti svantaggiati con una attenzione e una cura che nessun contratto potrebbe garantire o imporre con sanzioni o con incentivi. Spesso, infatti, il successo e la sopravvivenza nel tempo delle OMI dipende principalmente dal fatto che i clienti e i vari stakeholders cercano e riconoscono in esse proprio quell’eccedenza che magari non vedono in una struttura pubblica o in una impresa for-profit. Come fare, allora, ad attrarre nelle OMI lavoratori preparati e che abbiamo anche la vocazione? Il nostro primo mattone teorico per esplorare questo tema, che ha una certa complessità, è rappresentato da uno dei più influenti articoli di

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Questa dimensione della selezione qui non ci interessa, anche perché è oggetto di migliaia di scritti di teoria economica. Qui ipotizziamo che la OMI abbia già risolto a monte il problema della selezioni dei candidati “abili”. La selezione della “vocazione” si attua tra quei soggetti che hanno già superato il test della adeguatezza professionale (Katz e Handy 1998, ad esempio, ipotizzano che l’organizzazione sottoponga prima i candidati ad un test per la preparazione tecnica e l’abilità, e solo chi passa questo test accede alla seconda fase del processo di selezione, quello “vocazionale”). 28 In tutto il nostro discorso non distinguiamo tra dirigenti e dipendenti, per evitare di dover trattare anche il complesso problema del conflitto di interessi che può ingenerarsi tra “principale” e “agente”. Una OMI può essere una cooperativa o una associazioni di piccole dimensioni dove tutti i membri sono protagonisti in egual modo, al di là dei compiti che ciascuno svolge, che possono cambiare nel corso del tempo.

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teoria economica degli ultimi decenni, che ha cambiato buona parte del modo di guardare ai rapporti economici (e di scrivere i libri di teoria economica). Ci riferiamo all’articolo “The market of Lemons” (Il mercato dei “bidoni”) di George Akerlof, pubblicato nel 1970. L’idea base di quel breve saggio (che ha guadagnato, tra l’altro, il premio Nobel per l’economia al suo autore), è una applicazione di una delle più antiche leggi economiche, la cosiddetta “Legge di Gresham”, nota con l’espressione: la moneta cattiva scaccia la buona. La legge di Gresham si riferiva al fenomeno, molto comune soprattutto nelle società di antico regime, che si verificava quando in un dato territorio circolavano più monete di diverso valore intrinseco, ma con identico potere liberatorio: in questi casi avveniva che la moneta considerata dalla gente meno buona (la “cattiva”) circolava molto rapidamente (perché tutti volevano disfarsene) e, di conseguenza, spariva presto dal mercato la moneta “buona” (che veniva invece tenuta a casa, tesaurizzata).29 Oggi, anche grazie ad Akerlof, sappiamo che questa legge è di portata molto generale, e si applica non solo alle monete ma a un’ampia gamma di fenomeni, economici e sociali, ma anche di tipo relazionale o motivazionale. Akerlof nel suo contributo andò alla radice della legge di Gresham, mostrando che la ragione che faceva sì che il meccanismo di mercato selezionasse le monete cattive era dovuta essenzialmente ad un problema di informazione, in particolare ad una informazione asimmetrica tra i contraenti: una parte (chi offriva moneta in cambio di beni) sapeva qualcosa in più, e cioè se la moneta che stava per utilizzare in quel contratto era

29 Questa legge diventava operativa, ad esempio, in presenza di monete “tosate” (monete d’oro o d’argento che venivano limate in modo da togliere loro un po’ di metallo), o quando in un momento di cambiamento istituzionale in uno stato esistevano più monete a corso legale (ad esempio la breve convivenza tra euro e lira).

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buona o cattiva (tosata), mentre l’altra parte (chi riceveva la moneta) sapeva di meno, poiché non riusciva a distinguere tra i due tipi di monete.30 L’esempio utilizzato da Akerlof nel suo articolo, e oggi entrato in ogni libro di testo di microeconomia, è il funzionamento del mercato delle auto usate, un esempio che riportiamo anche noi perché crediamo faciliti la comprensione del discorso che stiamo facendo sulle OMI e sulla selezione del personale con un certo grado di “vocazione”. Supponiamo che nel mercato dell’usato esistano due tipi di auto: quelle di qualità “buona” e quelle di qualità “cattiva” (i lemons, nel linguaggio popolare americano,un’espressione che potremmo tradurre con “bidoni”). Chi offre un’auto sul mercato sa se sta offrendo un’auto buona o un bidone (sa, ad esempio, che l’auto ha un difetto difficile da individuare in un giro di prova o a colpo d’occhio: un rumorino della carrozzeria o un difetto al sistema dell’aria condizionata che emerge solo in determinate circostanze), ma chi l’acquista (il concessionario) non può osservarlo direttamente al momento della stipula del contratto. Ciò fa sì che il prezzo delle auto, a causa di questa imperfezione di tipo informativo, venga fissato dal concessionario in base ad una stima. La stima più normale in questi casi del valore di un’auto è quella che emerge dal calcolo più semplice, quello che si basa sul valore atteso. Se, ad esempio, il valore di mercato di un’auto 30

L’eliminazione dal mercato (“driving out”) delle monete buone era quindi dovuta al fatto che nel mercato esisteva un unico prezzo, sia per le buone che per le cattive monete. Data la conoscenza comune che esisteva una certa probabilità di incontrare nello scambio di mercato una moneta cattiva, non potendole “riconoscere” le monete il cambio (o prezzo) delle monete era più basso di quello che sarebbe stato in presenza di sole monete buone e più alto di quello che si sarebbe verificato in presenza di sole monete “cattive”. Così, chi aveva buone monete non accettava il cambio offertogli perché lo considerava iniquo, mentre – e qui sta il punto – chi aveva cattive monete era fortemente incentivato a usarle (perché il prezzo offerto era superiore a quello “giusto” per quelle monete). Akerlof (1970, p. 490) aggiunge che l’analogia tra l’asimmetria informativa e la legge di Gresham è solo parziale, perché la differenza tra le monete buone e cattive è osservabile (ad esempio per il diverso peso, o nel caso più complesso ancora euro-lira). Infatti, il fenomeno monetario osservato dall’agente di cambio inglese Thomas Gresham (1519-1579), e prima di lui dal grande astronomo polacco Nicolò Copernico, nel 1525, e intuito quasi duemila anni prima dal commediografo greco Aristofane (ne Le rane), trattava di fenomeni diversi da quelli che interessavano a Akerlof, sebbene il problema informativo alla base fosse lo stesso.

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usata “buona” è di 4000 euro, quello di un’auto “cattiva” è di 2000, e la probabilità di incontrare un’auto buona è il 50% (0.5), il valore atteso che il concessionario offrirà al venditore è il seguente:

P = 400 (0.5) + 200 (0.5)

Se quindi il concessionario utilizza questa stima in presenza di informazione imperfetta, offrirà per quel tipo di auto usata 3000 euro ad ogni venditore, non potendo, in questa fase, distinguere tra auto usate buone e bidoni Come funzionerà allora in questo caso il mercato dell’usato? È semplice intuire che si avrà un cattivo funzionamento un fallimento di un tale mercato. Infatti, coloro che sanno di avere un’auto buona non accetteranno il prezzo offerto di 3000 euro, perché è inferiore a 4000 (che è il prezzo minimo che egli è disposto ad accettare per l’auto che sa di essere buona), mentre chi sa di avere un bidone correrà dal concessionario ad offrire la sua auto, perché con un prezzo di 3000 ottiene così una rendita netta di 1000 (cioè il prezzo di mercato [3000], meno il valore reale della sua auto [2000]). Da qui le immediate conclusioni del ragionamento di Akerlof, che presentano più aspetti, tutti interessanti e problematici: a)

Una prima conseguenza consiste nel fatto che chi ha un’auto buona non riuscirà a venderla (a meno che non accetti un prezzo inferiore al suo valore, ma realizzando così uno scambio economicamente inefficiente);

b)

In secondo luogo, nel mercato dell’usato si troveranno soltanto auto “cattive”, che sono quelle selezionate da questo mercato.

c)

Terzo: chi cerca un’auto usata buona non andrà a trovarla nel mercato dell’usato, perché, se ragiona correttamente o

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in un modo razionale, sa che il mercato dell’usato è popolato solo da bidoni; d)

Infine, il solo fatto di cercare di vendere un’auto usata viene interpretato da un agente razionale come un segnale che l’auto che si vuole vendere è un bidone.

Il mercato in questo caso fallisce soltanto per una questione informativa: se nel mercato ci sono potenziali venditori di auto buone, e potenziali acquirenti di auto buone (anche ad un prezzo più alto di 3000), questi non riescono ad incontrarsi nel mercato dell’usato.31 I risultati di Akerlof sono stati applicati ad un’infinità di situazioni diverse: dalle agenzie matrimoniali (il solo fatto, ad esempio, di iscriversi ad una agenzia matrimoniale “segnala” che si è persone di qualità estetica o relazionale più bassa della media) alle assicurazioni (come faccio ad evitare che si assicurino contro il furto solo i soggetti più imprudenti, o che stipulino polizze vite prevalentemente persone gravemente malate?), dal credito

al “mercato”32 del lavoro, di cui ci stiamo occupando. In

quest’ultimo ambito, infatti, se l’impresa non sa riconoscere l’abilità e la voglia di lavorare di chi deve assumere e quindi offrirà un salario pari a 300 (sulla base della stima del valore atteso, poiché se assumerà un lavoratore “buono” questi gli renderà 400 mentre se assume uno “cattivo” (meno preparato o volenteroso) questo gli renderà 200), la teoria di Akerlof ci dice che saranno solo i lavoratori “cattivi” ad offrirsi, a quel livello di salario, per quel determinato lavoro.

31

Questo meccanismo spiega, ad esempio, perché il prezzo di un’auto offerta nel mercato dell’usato diminuisce sensibilmente se, pochi giorni dopo aver acquistato un’auto, la rimetto in vendita, una perdita di valore di mercato che è normalmente molto maggiore al solo deterioramento o obsolescenza fisica dell’auto. 32 Usiamo l’espressione “mercato del lavoro” per convenzione, ma, ogni tanto è bene ricordarlo anche in uno scritto di economia, il lavoro è ben più di una merce che si scambia in un mercato.

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Ovviamente questo risultato non è un bel messaggio per la teoria economica. Infatti, poiché nella realtà spesso le imprese riescono ad assumere anche (sebbene non solo) lavoratori preparati e volenterosi, ciò ci dice che il fallimento più significativo che questo modello di Akerlof ci svela è il fallimento della teoria economica ufficiale, che fino agli anni settanta era basata su ipotesi davvero molto semplificate e ingenue, che le rendevano molto difficile comprendere le reali dinamiche della vita economica e sociale. Infatti, dopo Akerlof, la teoria economica ha immaginato diverse soluzioni o rimedi per sanare questi fallimenti (fallimenti della teoria, ripetiamo, più che del mercato), dovuti all’asimmetria dell’informazione. Questi rimedi si possono suddividere in due grandi famiglie: quelli centrati sull’offerta (ad es. i lavoratori che offrono il proprio lavoro, il privato che offre un’auto usata, ecc.), e quelli basati sulla domanda (le imprese che domandano lavoro, il concessionario le auto usate, ecc.). I modelli dell’offerta individuano la soluzione del problema in qualche tipo di “segnale” che l’offerente emette per rivelare alla controparte la propria qualità maggiore (alla media); tipici segnali sono l’istruzione nel mercato del lavoro (avere una laurea può segnalare all’impresa che si è “migliori” di chi non ce l’ha – e quindi meritare uno stipendio più alto), o la “garanzia” nel mercato dell’usato che segnala, in modo costoso (e quindi credibile), che l’auto che garantisco è migliore della media (e quindi l’acquirente può pagare, nell’esempio di cui sopra, un prezzo maggiore di 3000). Se osserviamo la realtà delle organizzazioni e, in particolare, delle OMI, ci accorgiamo che l’uso dei “segnali” è prassi ordinaria nella selezione del personale. Accade, ad esempio, molto spesso che chi ha prestato attività di volontariato sia assunto dall’organizzazione, poiché l’aver prestato lavoro volontario nell’organizzazione riduce l’asimmetria informativa e segnala la presenza di motivazioni intrinseche in quel lavoratore. Oppure nel curriculum vitae di un candidato si guarda il

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trascorso in attività di tipo associativo, un elemento che pesa in una selezione se l’OMI vuole selezionare anche la vocazione, e non solo l’abilità. Più interessanti, per il discorso che stiamo svolgendo in queste pagine relativo alle OMI, sono i rimedi che la teoria suggerisce al lato della domanda, in particolare, per restare nel tema della selezione del personale, i meccanismi che una organizzazione può utilizzare per non selezionare “bidoni” (soprattutto sul piano motivazionale o vocazionale). Una prima teoria, molto diffusa e nota nella letteratura economica, riguarda la politica dei salari. Se esiste asimmetria informativa, il datore di lavoro potrà pagare un salario più alto rispetto al valore atteso, sperando così di non selezionare solo lavoratori scadenti che non garantiranno un adeguato impegno. Infatti, se offro (sempre restando al nostro esempio) un salario maggiore di 300 (magari vicino ai 40033), avrò qualche probabilità che tra i miei candidati ci siano anche dei soggetti “buoni” e non solo dei “cattivi”.34 Questa teoria, oggi molto diffusa e influente, si basa, però, su di una ipotesi importante: che l’unico fattore incentivante i lavoratori, l’unica “carota” alla quale essi sono sensibili e dalla quale sono motivati, sia il salario. I lavoratori sono considerati individui ad una “sola dimensione”. Non c’è spazio, in una tale teoria, per altre forme di remunerazioni di tipo simbolico o ideale, che sono invece molto rilevanti nelle OMI. Che succede invece quando abbiamo a che fare con organizzazioni, come lo sono le OMI, che cercano persone con motivazioni intrinseche? L’OMI si trova anche essa normalmente in una situazione di asimmetria informativa nei confronti del nuovo candidato, e l’interesse 33

Qui stiamo ipotizzando che i salari di riserva (il salario minimo che si è disposti ad accettare) siano distribuiti su di un continuum. 34 Akerlof, in altri lavori, ha messo in luce come un tale meccanismo finisca per elargire dei “doni” ai lavoratori meno abili (che vedono aumentare il proprio stipendio, nella speranza di attrarre qualche lavoratore buono).

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dell’associazione è selezionare soggetti preparati che abbiano però anche motivazioni intrinseche, per i motivi che abbiamo esposto all’inizio del nostro discorso. Nel prossimo paragrafo vediamo alcune soluzioni che la teoria offre in questi casi.

2. “Prendi più se paghi meno”?

Per entrare nella dinamica di questi modelli che si pongono già in modo più attento nei confronti di motivazioni non solo strumentali, nei quali vengono inseriti anche componenti non monetari o immateriali, modelli che ormai stanno entrando nella letteratura economica da qualche anno, immaginiamo che l’impresa ipotizzi che un buon candidato (uno con “vocazione”), non sia interessato unicamente al salario o agli incentivi materiali (come invece fa la teoria standard), ma attribuisca anche un valore intrinseco all’attività nella quale chiede di lavorare, un valore intrinseco che è parte della soddisfazione (o utilità) che egli trae dal lavoro per il quale si candida.35 In altre parole, potremmo affermare che la vocazione si traduca in una ricompensa intrinseca (non monetaria o materiale) che il soggetto ricava dallo svolgere quel determinato lavoro. Questi economisti ipotizzano, quindi, che il lavoratore abbia sia motivazioni intrinseche (la “vocazione”) sia motivazioni strumentali (salario), con pesi diversi: un “buon lavoratore” sarebbe dunque un lavoratore che attribuisce un valore maggiore di zero alla componente intrinseca (mentre un lavoratore senza vocazione, quello ipotizzato dalla teoria standard, attribuisce valore solo al salario).

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In un linguaggio leggermente più formale potremmo dire che le preferenze del “candidato buono” (in questo caso quello con motivazioni intrinseche) possono essere rappresentare dalla seguente funzione di utilità: L = αW + (1-α)M, dove W è il salario, M la ricompensa intrinseca che la persona trae dallo svolgere l’attività tipica di quella OMI, α è il peso attribuito al salario, e 1-α il peso che in quel lavoratore occupano invece le motivazioni intrinseche, che ipotizziamo essere inversamente correlato col peso attribuito al salario.

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Quando la motivazione è presente, l’ammontare del salario non è l’unico fattore determinante per i candidati che l’OMI fronteggia e che intende selezionare. Per Heyes (2005), la “vocation” è proprio il “desiderio di un individuo di impegnarsi direttamente nell’attività a cui attribuisce un valore in sé” (p. 564). In particolare, per Heyes sono due le condizioni che debbono verificarsi per definire un lavoratore intrinsecamente motivato per un dato lavoro: 1. I lavoratori motivati vanno oltre loro dovere nello svolgere il proprio lavoro (“go beyond the call of duty in doing their job”, p. 561). 2. Fanno un lavoro perché traggono piacere per quella data attività, e questo “piacere” si traduce nell’accettare un salario minore (Ib).

Per questa ragione, sempre secondo Heyes, “un più alto salario può attrarre il tipo sbagliato di persona” (Ib.). In situazioni di asimmetria informativa, dunque, l’offrire un salario più basso diventa, per l’impresa, uno strumento che spinge i candidati buoni ad auto-selezionarsi. Traiamo alcune prime conclusioni da questa famiglia di modelli di selezione delle vocazioni: a) se il salario offerto dalla OMI è minore di quello di mercato, quando un lavoratore accetta questo più basso livello di salario, il suo semplice comportamento (l’accettazione) indica di per sé che un tale lavoratore ha un livello di motivazioni intrinseche maggiore di zero, poiché la differenza di benessere tra il salario che potrebbe ottenere nel mercato, e il salario minore che invece egli accetta nella OMI viene compensato dalla soddisfazione intrinseca che quel lavoro gli dà; il “gap remunerativo” viene cioè colmato dalla felicità di essere “in vocazione”. Se, ad esempio, il lavoratore fosse disposto a lavorare senza alcun salario (come volontario ad esempio), ciò

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rivelerebbe che tutto il benessere che egli trae da quel dato lavoro gli proviene dalla ricompensa intrinseca della “vocazione36. b) Se invece la OMI offre ai candidati il salario di mercato, lo strumento remunerativo non gli fornisce di per sé alcuna garanzia di selezionare lavoratori motivati. c) In questo caso, la OMI potrebbe però pagare delle rendite ai lavoratori motivati (non “sfruttando” cioè le loro motivazioni intrinseche), perché non abbiamo buone ragioni per dire che i soggetti “buoni” non accetterebbero un salario più alto e che verrebbero selezionati solo i “cattivi”. d) Se dunque l’organizzazione offre un salario più basso di quello di mercato, può avere una certezza (almeno in un contesto senza disoccupazione strutturale)37: non selezionerà nessun lavoratore con un livello di motivazioni intrinseche pari a zero. Sa, inoltre, che più riduce il salario, più i lavoratori selezionati avranno una componente intrinseca alta (se accettano), e se offrisse zero avrebbe solo lavoratori con sola motivazione intrinseca38 – l’osservazione empirica dei stipendi dei dirigenti dell’economia sociale offre una forte conferma empirica a questa semplice conclusione. e) Se, infine, l’organizzazione cercasse persone mosse unicamente dalle motivazioni intrinseche dovrebbe, coerentemente con questa teoria, non pagare stipendi: la gratuità in questi casi seleziona le Nell’equazione della nota 35, il valore del parametro α sarebbe pari ad 1. In un mercato del lavoro con disoccupazione le cose si complicano, poiché non è detto che il candidato “senza vocazione” abbia una reale alternativa migliore, in termini salariali, a cui rinuncia. In questo caso, ad esempio, offrire ai candidati un salario minore di quello di mercato potrebbe attrarre lavoratori standard (senza vocazione) disposti a lavorare ad un salario più basso di quello di riserva, semplicemente perché disoccupati. In un tale contesto di mercato (pensiamo al mercato del lavoro in alcune regioni italiane, ad esempio), la politica del salario basso non è di fatto utilizzabile come strumento per selezionare i soggetti motivati. 38 È, questa, una conclusione non troppo diversa da quella ipotizzata dalla teoria standard (i cosiddetti “salari di efficienza”), con la significativa differenza che in questo caso per attrarre i lavoratori migliori dovrò pagarli di meno (e non di più come sostiene la teoria standard) rispetto al salario di mercato 36 37

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persone migliori (come nelle caso delle donazioni di sangue, dove il sangue donato è di qualità migliore di quello acquistato sul mercato)39.

Queste prime conclusioni aprono significative prospettive circa l’importanza del lavoro volontario, o del perché organizzazioni che puntano solo sulla gratuità riescono ad attrarre persone particolarmente motivate e “buone”. Sono queste le conclusioni che raggiungono i modelli accomunati dallo slogan: “getting more by paying less” (prendi più pagando meno), di Katz e Handy (1998) relativo alla selezione dei manager del non-profit, o di Heyes (2005) circa la politica salariale nella sanità inglese (notando, in particolare, come le migliori infermiere sono quelle pagate meno). L’ipotesi cruciale di tali modelli teorici è che esista una proporzionalità diretta tra la genuinità delle motivazioni e disponibilità a sacrificare i benefici materiali (salario). Ma, possiamo chiederci, siamo sicuri che accettare un salario basso sia il test corretto per misurare la motivazione intrinseca o la vocazione di una persona? Su questo torneremo in conclusione. Qui accenniamo solo alla critica che le alcune economiste rivolgono a tali teorie (Nelson 2005, Folbre e Nelson 2000, Folbre e Weisskopf 1998). Queste studiose sostengono che l’equivalenza genuinitàsacrificio è stata per molto tempo una copertura del dominio e dello sfruttamento all’interno della famiglia e delle comunità tradizionali, e che ora sulla base di argomentazioni teoriche riemerge giustificando salari inferiori nelle occupazioni nei servizi di cura, occupazioni che, va notato, restano

ancora

principalmente

femminili.

Secondo

questa

critica

39 Cf. Titmus (1970). Frey (1997) citando l’esempio della donazione di sangue negli USA, che per carenza di offerta è costretta a ricorrere al mercato for-profit, ma che tiene rigidamente separati i due circuiti (dono e pagamento). È quindi auspicabile che l’organizzazione consideri il lavoratore volontario come un genus diverso da quello retribuito, con remunerazione, qualifiche professionali e responsabilità diverse. Se invece i due mercati si sovrappongono, possono facilmente verificarsi i fenomeni di crowding-out (spiazzamento motivazionale). Da questa prospettiva, la gratuità non corrisponderebbe ad un prezzo nullo ma ad un prezzo infinito.

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femminista, i salari più bassi del settore non-profit consentirebbero di coltivare la vocazione solo a quelle donne che hanno una indipendenza economica o mariti ricchi, mentre altre donne con maggiori esigenze economiche sarebbero costrette ad accettare altre occupazioni non vocazionali. La vocazione sarebbe coltivabile solo da donne benestanti. Queste considerazioni colgono certamente alcuni limiti importanti di queste teorie del “pagar meno”, e ci spingono a complicare e arricchire le soluzioni teoriche operative proposte da questa famiglia di modelli. È quanto ci accingiamo a fare nei prossimi paragrafi.

3. Quando le motivazioni intrinseche entrano in conflitto con gli incentivi monetari

Una prima complicazione del modello prende in considerazione la teoria del cosiddetto “effetto spiazzamento delle motivazioni intrinseche” (motivational crowding-out effect). I modelli fin qui analizzati si basano su una ipotesi tanto comune in economia quanto molto esigente sotto il profilo antropologico. Si ipotizza, cioè, che i due obiettivi dei lavoratori, quello materiale (il salario, W) e quello non materiale (la ricompensa intrinseca, M), siano tra di loro indipendenti (o "additivi", cioè sommabili tra di loro)40. L’evidenza empirica ci mostra però che questa ipotesi è spesso irrealistica, soprattutto quando abbiamo a che fare con valori e attività “vocazionali”. È questa la tesi dell’economista svizzero Bruno Frey, che nel suo libro “Not just for money” (1997), con uno studio dedicato interamente a questo tipo di situazioni porta molta evidenza empirica circa l’esistenza del fenomeno dello “spiazzamento” (crowding-out) delle motivazioni

40

Cioè rappresentabili con una sommatoria.

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intrinseche da parte degli incentivi monetari. Nella teoria del crowding-out le monete cattive (in questo caso gli incentivi materiali) scacciano (o spiazzano) quella buona (la motivazione intrinseca). Dati alla mano Frey mostra che una ricompensa monetaria può in certi casi ridurre l’impegno profuso in un’attività, invece di accrescerlo, soprattutto quando si ha a che fare con attività nelle quali sono importanti gli aspetti “vocazionali”, dove cioè esistono e sono rilevanti le motivazioni intrinseche. Sono varie le spiegazioni fornite all’effetto spiazzamento dagli psicologi. Secondo Deci e Ryan (1985, 2002) una ricompensa monetaria incide sull’autodeterminazione e sull’autostima di chi è intrinsecamente motivato, perché in presenza di salari o ricompense monetarie il soggetto attribuisce al denaro il motivo per il quale lavora. L’intuizione sottostante è semplice. Le persone non sanno sempre attribuire un valore monetario alle loro attività. Se domandassimo, per un esempio, ad una madre di famiglia o ad un missionario quanto è il valore monetario di assistere un figlio o di ascoltare un povero, loro risponderebbero, probabilmente: “non ne ho idea”. La stessa risposta è quella che ascolteremmo da nostra figlia quando le chiediamo il valore monetario di sparecchiare la tavola. Se però ad un certo punto i genitori iniziano a remunerare la “sparecchiatura” con 5 euro, è possibile, e probabile, che la ragazza inizi ad attribuire a quella sua attività domestica il valore di 5 euro. Se facessimo la stessa operazione con la madre o con il missionario, dando loro una cifra economica per la loro attività, è certo che i due considererebbero quel denaro come una svalutazione o dumping del loro impegno (anche se la somma di denaro fosse molto alta41). Un fenomeno simile, in misure diverse, accade tutte le volte che iniziamo a remunerare lavoratori volontari,

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Ciò di dice che la gratuità non ha un valore nullo ma un valore infinito.

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o quando usiamo incentivi per l’ambiente, e, in generale, in ambiti nei quali sono in gioco le virtù civiche.42 Negli studi psicologici esiste una lunga serie di esperimenti che dimostrano l’effetto deleterio delle ricompense.43 In campo economico, Livernois e McKenna (1999) hanno mostrato che un maggiore rispetto dei limiti di inquinamento può essere ottenuto con multe più basse per il non rispetto delle norme. Alcuni esperimenti economici recenti, cercano di analizzare situazioni del tipo principaleagente. Fehr e Gachter (2002), per esempio, o Irlenbusch e Sliwka (2003) fanno vedere che l’introduzione della possibilità di incentivi (bonus o multe) rendono la situazione del principale peggiore e riducono l’efficienza rispetto a situazioni di salari fissi. Interessante è uno studio svolto dall'economista Gneezy (2003). Egli costruì un esperimento facendo uso di un gioco “proposer-respondent”44 con cinque trattamenti differenti. Il soggetto che propone deve decidere quanto, di $24, trasferire all’altro giocatore. Nel primo trattamento, chiamato il Dittatore, il giocatore che gioca per secondo non può né punire né offrire ricompense al primo giocatore che fa l’offerta. Deve limitarsi ad accettare l’offerta. Nel trattamento “bassa punizione”, il secondo giocatore può far diminuire fino a 1,5 centesimi il guadagno del primo giocatore (al costo di un centesimo), se l’offerta fatta da quest’ultimo non gli è gradita, mentre nel trattamento “alta punizione” il secondo giocatore può, sempre allo stesso costo, far diminuire il guadagno dell’offerente di 5 centesimi. Se, per esempio il primo giocatore offre $10 dei suoi 24 al secondo, quest’ultimo può privarsi di qualcosa per far diminuire (o aumentare) i $14 42

Si nota subito che in tali ambiti il denaro rafforza la motivazione intrinseca se viene percepito come dono (e non come prezzo): è questo il fenomeno che Frey chiama “crowdingin”). 43 Cf Deci e Ryan, 1985; Lepper e Greene, 1978; Sansone e Harackiewicz, 2000. 44In questo tipo di giochi un soggetto A (proposer) ha una somma iniziale e può decidere se e quanto di quella somma trasferire al soggetto B (responder). Quest’ultimo può decidere se accettare l’offerta, oppure rifiutarla. Se rifiuta entrambi i soggetti guadagnano zero.

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che rimarrebbero al primo. I trattamenti con le ricompense sono speculari. Quali i risultati ottenuti da Gneezy? L’offerta media del primo giocatore è più alta nel trattamento “dittatore” che nel trattamento di bassa punizione o bassa ricompensa, anche se è al contempo più bassa rispetto al trattamento di alta punizione o ricompensa. La conclusione sembra essere che un piccolo incentivo fa diminuire la performance, mentre un incentivo più consistente ha effetti positivi, come possiamo vedere dalla figura che riporta i risultati dell’esperimento, e che proprio per tale andamento grafico è stato chiamato ‘the W effect of incentives’. Nella figura 3.1. osserviamo, infatti, che le offerte medie più basse del primo giocatore, il proponente, sono associate ai trattamenti ‘bassa punizione’ e ‘bassa ricompensa’.

Figura 3.1

Frey e Gotte (1999) in uno studio econometrico sul settore del volontariato mostrano che le ricompense monetarie riducono l’ammontare del volontariato. Altri interessanti esperimenti fatti sul campo, sono proposti da Gneezy e Rustichini (2000a, 2000b). Il più famoso è collegato a 10 asili in Israele. Nel 1998, ad Haifa, per 4 mesi fu realizzato un esperimento in 10

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asili-nido. In questi asili, come in tutti gli asili del mondo, i genitori a volte arrivano tardi, oltre la chiusura, a raccogliere i loro bambini. Questi ritardi gravavano sulle maestre le quali dovevano trattenersi oltre l’orario di lavoro. Ad un certo punto, e su consiglio di economisti, si decise di introdurre una multa, sulla base della teoria economica che vede la multa come un aumento del “prezzo della flessibilità”, determinando così una riduzione dei ritardi. L’esperimento diede invece risultati diversi: l’introduzione della multa fece aumentare i ritardi del 40%. L’esperimento però non finì con l’introduzione della multa: visti i cattivi risultati, di segno opposto rispetto alle aspettative delle maestre, ad un certo punto (dopo 17 settimane) la multa fu tolta, ma … il ritardo medio non diminuì, non tornò indietro, attestandosi invece sugli stessi valori delle settimane in cui operava la multa. Il secondo esperimento è legato alle donazioni. In Israele ogni anno, in un giorno predeterminato, gli studenti si dedicano alla raccolta di fondi per scopi sociali. Nell’esperimento 180 studenti che si accingevano ad iniziare questa raccolta, sono stati divisi in tre gruppi. Il primo gruppo riceve semplicemente un discorso sull’importanza del compito loro affidato. Il secondo gruppo, oltre al discorso, riceve la promessa dell’1% dell’ammontare totale di fondi raccolti. Il terzo gruppo riceve la promessa del 10% percento dell’ammontare raccolto. I risultati sono: 1° gruppo: 238.6 (ammontare medio raccolto da ciascuno) 2° gruppo: 153.6 3° gruppo: 219.33 Gli studenti del terzo gruppo (con al promessa del 10%) hanno raccolto più di quelli nel secondo gruppo (con la promessa dell’1%), ma meno di quelli del primo gruppo. L’evidenza empirica dunque supporta l’idea che in certi casi le ricompense possono avere effetti deleteri sulla performance. Sulla base della teoria del crowding-out, Frey spiega i dati che mostrano che mentre un aumento di salario può avere sia effetti positivi che

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negativi sulla performance (l’effetto netto sarà positivo se l’effetto incentivante dell’aumento di salario compensa lo spiazzamento delle motivazioni intrinseche), il passaggio da un lavoro gratuito ad una qualche forma di remunerazione monetaria sembra invece sistematicamente avere effetti negativi sull’impegno del lavoratore. Una conseguenza di tale teoria, è la difficoltà, o l’impossibilità di ritornare alla gratuità una volta che abbiamo iniziato a remunerare un volontario, senza che il benessere del lavoratore diminuisca, come l’esperimento sugli asili nido dimostra. Le raccomandazioni di questa teoria a livello di selezione, sarebbero le stesse delle teorie presentate nel paragrafo precedente: pagar poco, almeno all’inizio. In questo caso, però, il pagar meno non è associato al fatto che chi ha motivazioni intrinseche colma il differenziale di salario con la “vocazione”. Qui l’accento si pone sul fatto che se siamo in presenza di motivazioni intrinseche, esse potrebbero venire spiazzate da una remunerazione elevata. Neanche queste conclusioni suggestive e importanti dei modelli con crowding-out motivazionale ci soddisfano del tutto (anche se gettano luce su alcuni fenomeni importanti). Perché? Pensiamo, per fare un esempio, ad un giovane lavoratore volontario che, in seguito al matrimonio, si trova costretto a cercare un’occupazione retribuita. L’organizzazione nella quale lavora, conoscendo le sue motivazioni intrinseche, potrebbe facilmente proporgli l’assunzione retribuita pur di non perdere un lavoratore “con vocazione”. In questo caso sembra poco plausibile che si verifichino effetti di crowding-out motivazionale. Più in generale, non può essere presa per buona una teoria che pone in conflitto endemico le motivazioni intrinseche e quelle monetarie, come se la vita civile fosse un gioco “a somma zero” tra economia e socialità autentica: è questo il contenuto dell’ultima sessione.

4. Ma che cos’è la “vocazione” in un lavoratore?

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Al termine di questa analisi dei meccanismi di selezione delle persone con vocazione (i moderni “Socrate”), quando consideriamo questi modelli una domanda cruciale resta ancora aperta: perché la vocazione dovrebbe essere associata ad una disponibilità ad accettare uno stipendio più basso? Quale è la giustificazione teorica di questa ipotesi? In realtà, l’ipotesi culturale associata a questi modelli è l’antica e radicata idea (che risale almeno a Smith45) che la socialità genuina e le motivazioni intrinseche non siano compatibili con la normale dinamica economica e con i meccanismi di mercato. Se quindi vuoi introdurre tali realtà intrinseche nel mercato occorre “ridurre” da qualche parte la loro componente tipicamente economica per lasciar spazio alla genuinità. Anche i modelli del “crowding-out” motivazionale condividono una premessa simile: le motivazioni strumentali (lavorare per un salario) e quelle genuine (lavorare per la vocazione) sono in conflitto tra di loro, le une tendono a scacciare o a “spiazzare” le altre. Una tale lettura, quindi, incorpora a nostro modo di vedere un vizio culturale: il considerare la dimensione economica e quella genuina in conflitto strutturale. Non crediamo che questa visione conflittuale tra vocazione e remunerazione economica sia un messaggio positivo per l’economia e la società, certamente non lo è per chi si muove in una prospettiva di economia civile, dove in mercato è visto come un momento del civile (Bruni e Zamagni 2004, 2009). A questo riguardo, una proposta interessante è quella che troviamo in un modello dell’economista austrialiano Brennan (1996), il quale propone un modello in parte diverso. Non pagare meno, ma comporre il salario in modo tale da renderlo relativamente più appetibile per chi ha la vocazione. Nell’esempio dei docenti universitari (che è l’oggetto del suo studio), egli nota come il modo per indurre i candidati all’auto-selezione sia necessario

45

Cf. su questo Bruni e Sugden (2007).

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offrire un salario più basso di quello di mercato, ma al tempo stesso colmare la differenza con forme di fringe benefits (es. fondi di ricerca) che sono apprezzate in modo selettivo, cioè solo da chi ha la vocazione accademica. Gli stessi Handy and Katz (1998), oltre allo strumento del “paying less”, suggeriscono anche questo meccanismo di autoselezione (p. 258), in particolare nel campo accademico, dove “i professori orientati alla ricerca valutano i fondi di ricerca di più dei professori che non hanno un tale interesse” (Ib). Similmente, Brennan divide i potenziali candidati in due categorie: i veri studiosi (S) “che attribuiscono un alto valore ai successi scientifici” (p. 265), e gli “Expedients” (E), “che sono motivati unicamente dal reddito che procura loro il lavoro accademico” (Ib.). Questo filone di ricerca risulta, dalla nostra prospettiva, interessante perché non afferma la necessaria incompatibilità o conflitto tra vocazione e mercato: Socrate non viene pagato meno, ma solo diversamente, con incentivi più complessi e sofisticati, in modo da indurre i candidati buoni ad auto-selezionarsi.46 A questi sviluppi dedicheremo ancora attenzione in seguito, poiché sono elementi chiave del nostro discorso. In ogni caso il “pagar diversamente” è una buona strada da seguire, anche se nel caso delle OMI la domanda chiave diventa: quali sono queste forme di remunerazione che spingono le persone giuste a candidarsi auto-selezionandosi? Nei professori universitari i fondi di ricerca possono essere un buon strumento, ma in una cooperativa sociale, in una ONG, in una bottega del mondo, in un’azienda dell’EdC, quali fringe benefits si possono utilizzare? La nostra proposta è che bisogna andare oltre l’idea che il fringe benefit sia solo di tipo materiale (come i fondi di ricerca), e muoversi nella direzione di individuare forme di remunerazione simbolica e relazionale,

46

Anche Hargreaves-Heap (2000) si muove in questo filone di ricerca.

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che non compensano i minori salari, ma si aggiungono ad essi come strumenti di auto-selezione47. Va infatti notato che non c’è solo la OMI che, in situazione di asimmetria informativa, cerca le vocazioni (Socrate); ci sono anche i lavoratori con vocazione (i Socrate) che cercano la organizzazione giusta alla quale rivolgersi. Il segnale “simbolico” ha dunque una duplice natura: consente all’impresa di segnalare la sua qualità ideale, e al candidato di auto-selezionarsi. In questo senso ci sembrano fondamentali la cultura organizzativa e la governance di una OMI. Se la mission ideale è ben evidente, se l’idealità è alta e accountable, questi fatti sono importanti segnali che attraggono le persone con vocazione. Non è forse vero – e l’evidenza è sotto gli occhi di tutti – che quando una organizzazione o una comunità esprime idealità alte attrae persone di qualità, e quando queste idealità vanno in crisi inizia ad attrarre persone “strane”? E che quando inizia ad attrarre persone sbagliate è già, in un certo senso, troppo tardi? Infatti dovremmo onestamente concludere che quando una organizzazione inizia a non attrarre più “Socrate” già la sua crisi ideale è in uno stato avanzato. La difficoltà nell’attrarre le “persone con vocazione” è già un sintomo (non la causa) che l’idealità dell’organizzazione è in crisi, o almeno non è più visibile dall’esterno. In sintesi, è la mission e la cultura complessiva di una organizzazione che diventa il vero segnale di auto-selezione per i nuovi candidati; e quando arrivano candidati senza vocazione, ciò dice che è la cultura generale dell’organizzazione che non attrae più, ed è dunque a

47

Se nel mondo dell’economia sociale non ci fosse un reale vincolo di bilancio, non vedremmo alcun motivo teorico per non dare ai lavoratori di tali imprese a movente ideale gli stessi standard lavorativi dei lavoratori del privato e del pubblico. I bassi salari sono una questione di fatto non di teoria: il pericolo insito nei modelli del “paying less” consiste nel legittimare teoricamente una situazione di fatto iniqua, dovuta a carenza di fondi e di risorse.

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questo livello identitario e fondativo che occorre agire se si vuol trasformare il circolo da vizioso a virtuoso. Certo non è questo un bel messaggio con cui chiudere questo capitolo su come attrarre persone con vocazioni nelle OMI, ma è in ogni caso qualcosa che può aiutare a prevenire tali fenomeni. Infine una domanda scomoda, soprattutto a questo punto del discorso: siamo sicuri che la vocazione sia un qualcosa (uno dato o un tratto caratteriale ) che esiste nelle persone prima di iniziare un lavoro, come una sorta di dotazione iniziale che un lavoratore incorpora in sé e nella sua storia; oppure è anche possibile immaginare che la vocazione sia almeno in parte endogena all’attività e al lavoro stesso? Si potrebbe, infatti, distinguere tra preferenza per il lavoro ex-ante (prima di intraprenderlo), e l’atteggiamento verso il lavoro ex-post (una volta intrapreso). Per fare un esempio pensiamo, ancora, al “mercato” dei professori universitari. Nel selezionarli occorre individuare la vocazione (ad esempio dedizione agli studenti e alla ricerca) offrendo a questo scopo un salario più basso, oppure possiamo ipotizzare che una volta assunti i professori riconoscono che un obbligo di un buon docente impegnarsi nella ricerca e dedicare tempo agli studenti? E potremmo estendere questo discorso a infermieri, pompieri, maestre, e molte altre professioni, non solo quelle di cura. Ci piace lasciare a questa domanda aperta la conclusione di questo capitolo dedicato ai criteri per selezionare le vocazioni nelle OMI. Da una parte, infatti, le storie, le culture, le identità delle persone sono diverse, e la parola “vocazione” esprime questa diversità: non tutti passeremmo quarant’anni a curare malati, non tutti dedicheremmo la nostra vita alla ricerca di nuove galassie, non tutti doneremmo la nostra vita ai poveri per un mondo più giusto. D’altra parte, è anche vero che ci sono tante altre cose che accomunano tra di loro gli esseri umani al di là di queste differenze, e fanno sì che una persona, soprattutto se è giovane, fiorisce e scopre la sua vocazione se inserita in organizzazione vive e positive, e sfiorisce,

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diventando nel tempo cinica e opportunistica, se cinica e triste è la cultura organizzativa. Senza “Socrate” non c’è OMI; ma una volta che l’OMI esiste, è essa stessa, con la sua dinamica e con la sua cultura che sa creare Socrate, tirando fuori da ciascuno il suo “daimon”.

5. OMI, incentivi e premi

In questo paragrafo dedicato al rapporto tra motivazioni e incentivi, riprendiamo un antico tema che crediamo essere di una certa rilevanza nelle OMI: la differenza tra incentivo e premio. Ma che cos’è propriamente un incentivo? L’incentivo è uno strumento sviluppato dalla teoria economica contemporanea, in base alla quale per ottenere impegno (effort) dai soggetti si fa in modo di allineare gli interessi dell’organizzazione con quelli del lavoratore, offrendo incentivi appunto, che facciano aumentare l’impegno del lavoratore. Gli incentivi sono prevalentemente di tipo monetario e sono legati alla performance: si ottengono gli incentivi se si raggiunge un certo livello di performance o di produttività. Il punto di partenza della teoria degli incentivi è che solo in rari casi gli interessi dei lavoratori o dei membri di un’organizzazione sono allineati con quelli dei dirigenti o dei fondatori. Campbell48, uno degli autori che più si è occupato di questo tema, ci offre un esempio interessante. Egli fa notare che il pilota di un aeromobile è determinato tanto quanto i passeggeri del volo ad arrivare sani e salvi a destinazione. In questo caso c’è uno spontaneo allineamento di interessi. Ma forse il benessere del meccanico a terra non è direttamente collegato con gli 48

Cf. Campbell (1995).

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interessi dei passeggeri del volo. Allora i passeggeri hanno bisogno di essere rassicurati che il meccanico sia intenzionato ad agire secondo i loro interessi di sicurezza. Da questo esempio Campbell trae la conclusione che senza incentivi, o con incentivi inappropriati, il meccanico potrebbe essere tentato di evitare i lavori più duri e più noiosi, operando servizi di ispezione e di riparazione solo superficiali. Gli incentivi diventano quindi lo strumento cruciale per risolvere questo tipo di problemi, non solo relativamente ai meccanici, ma all’interno di ogni tipo di organizzazione: essi sarebbero la causa della vitalità di ogni organizzazione, piccola o grande che sia. In realtà, quello degli incentivi è un tema controverso, soprattutto all’interno delle OMI. La teoria degli incentivi, infatti, è basata su varie ipotesi, tra le quali due emergono come cruciali: (i) ogni lavoratore è portato a fare il meno possibile, dal momento che il lavoro è considerato un male ed evitarlo aumenta invece il benessere49, (ii) esiste additività tra incentivi e motivazioni: gli incentivi si sommano alle altre motivazioni esistenti nella persona. L’evidenza empirica mostra che effettivamente in media gli incentivi funzionano e aumentano le performance, ma c’è una tale diversità tra i vari ambiti e i vari casi analizzati che questo risultato non può essere ritenuto significativo in generale.50 Si può aggiungere ancora qualcosa sul rapporto incentivi e motivazioni. Quando sono presenti forme di motivazione intrinseca, o ideale, gli incentivi possono produrre effetti controversi, e in certi casi addirittura perversi sulle motivazioni, come abbiamo visto nel paragrafo precedente. Quindi l’ipotesi (ii) della teoria degli incentivi non è confermata. Infatti, in organizzazioni che puntano sulla cooperazione attorno ad obiettivi che possiamo chiamare “ideali”, come sono le OMI, l’introduzione di incentivi per aumentare la produttività dei singoli membri

49 50

Lane (1991) a pagina 349 sostiene che le persone non lavorerebbero senza ricompense. Cf. Guzzo e Katzell (1987).

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potrebbe essere controproducente, in quanto innescherebbe dinamiche di competizione e spiazzerebbe il senso dell’insieme, del ‘noi’, tra i membri dell’organizzazione, che nelle OMI è fondamentale, date le caratteristiche proprie di una organizzazione che nasce da un movente ideale e che si ispira a tale ideale. L’ipotesi che l’introduzione di incentivi spiazzerebbe il senso del ‘noi’ si basa su un filone di letteratura psicologica ed economica che si occupa di decisioni e “frame” e che ha tra i suoi principali esponenti March (1995), Messick (1999), Tenbrunsel e Messick (1999), e Cialdini (1996). L’idea di base di una tale teoria è che un soggetto di fronte ad una decisione reagisca in modi diversi, a seconda del frame all’interno del quale quella decisione è inquadrata. Il frame può essere definito come un qualcosa che sta al ragionamento come gli assi cartesiani stanno ad un grafico: delimita i ragionamenti possibili e logici. Ad esempio, se il frame ‘noi’ è attivo in chi prende le decisioni, sicuramente la collaborazione con gli altri diventa un elemento importante. Per quanto riguarda i dilemmi sociali e la cooperazione, gli autori sopra citati sostengono che la presenza di incentivi o di sanzioni fa scattare il frame della competizione e di conseguenza fa diminuire la cooperazione.51 Un altro tipo di analisi, di origine empirica e non sperimentale, può rafforzare l’ipotesi che le ricompense monetarie possano far diminuire il senso del noi. Ci riferiamo all’indagine sulle imprese no-profit italiane condotta da Borzaga e Depedri (2005) e Borzaga e Tortia (2004). In questa indagine si rileva, tra l’altro, che la soddisfazione nel lavoro (che è direttamente collegata con la lealtà dei lavoratori nei confronti dell’organizzazione), è influenzata dagli aspetti relazionali del lavoro, che “producono un senso di appartenenza al gruppo, di coinvolgimento nella mission dell’organizzazione e di integrazione” (Borzaga e Tortia 2004, p. 15). Allo stesso tempo si fa notare che esiste una sorta di trade-off tra 51

Messick e Tenbrunsel (1999) dimostrano questa ipotesi attraverso alcuni esperimenti.

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incentivi relazionali (che qui interpretiamo come intrinseci) ed estrinseci: se gli incentivi sono strumenti molto usati, questi diminuiscono il senso di appartenenza, le motivazioni intrinseche, il sentire la mission come propria. Per un verso, nelle OMI si rende necessario, proprio per la natura dell'organizzazione, aiutare i membri a tenere alte le motivazioni, premiando e riconoscendo l'impegno dei singoli. Per altro verso, va però posta molta attenzione agli strumenti utilizzati come premi e ricompense, affinché questi non producano gli effetti opposti. Anche qui, se non si fa attenzione a quel 2% di differenza rispetto ad altri tipi di organizzazione, si rischia di applicare strumenti che poi possono portare la OMI a perdere la propria identità, o quantomeno ad abbassare la qualità ideale. L’elemento cruciale diventa allora come tenere alte le motivazioni evitando che incentivi individuali trasformino la “natura” dei membri, che da agenti cooperativi con un alto senso del “noi” si trasformino nel tempo in soggetti “io” interessati unicamente alle proprie remunerazioni, siano esse monetarie o fringe benefit. Ci si potrebbe, infatti, ritrovare in una situazione paradossale: i responsabili o i manager di una OMI, una volta (correttamente) individuati i membri da cui dipende maggiormente la cultura cooperativa, cercano di rafforzarli con incentivi e premi, ma sbagliando la natura degli incentivi (individuali e monetari, ad esempio), finiscono per trasformare la natura delle motivazioni di quelle persone, perché iniziano a ragionare sempre più in termini di “io” e di vantaggi individuali, ritrovandosi così in una situazione paradossale: la buona intenzione di rafforzare con incentivi i più motivati ha trasformato nel tempo quei membri in soggetti meno interessati al bene dell’organizzazione. Per questo nelle OMI gli incentivi sono strumenti molto delicati, che vanno usati con molta cura, e mai imitando semplicemente le imprese capitalistiche. La cosa più importante è tener conto degli effetti ‘relazionali’ degli incentivi, di qualsiasi genere (individuali o collettivi) essi siano, in

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modo da far sviluppare reti robuste che aiutino la vita e lo sviluppo delle organizzazioni a movente ideale. Abbiamo visto che l’ipotesi (ii), cioè l’additività o somma delle motivazioni umane, non può avere applicazione nelle OMI, in quanto le motivazioni intrinseche sono generalmente alte e potrebbero venire in conflitto con gli incentivi. Rimane dunque la prima ipotesi (i)(cioè il fatto che il lavoro sia considerato come un male necessario e che i lavoratori cerchino di lavorare il meno possibile): cerchiamo di leggerla all’interno delle OMI, per vedere se essa ha fondamento. Per rispondere dobbiamo cercare di capire meglio cosa è il lavoro. Innanzitutto il lavoro è attività umana, e quindi non è possibile dire qualcosa su che cosa sia il lavorare senza avere un’idea di che cosa sia l’umano e l’uomo, senza una “antropologia”. Siamo convinti che, in particolare nelle OMI, ma questo discorso vale per ogni tipo di attività lavorativa, lavoriamo veramente quando il destinatario della mia attività lavorativa libera è “un altro”. Se, infatti, l’attività lavorativa è attività umana e se l’umano è davvero tale quando è amore, quando si dona agli altri, allora lavoriamo davvero quando la nostra attività è espressione di amore. Allora questo “lavorare per”, può essere visto come la condizione necessaria (sebbene non sufficiente, come in parte vedremo) per poter parlare di lavoro dalla prospettiva che qui adottiamo. Ecco, allora, perché non è lavoro l’attività del bambino che gioca per sé; come non è lavoro l’hobby, mentre è lavoro (o, attività lavorativa) quello della casalinga, o quello del volontario. E non è attività lavorativa quella retta solo da motivazioni intrinseche, senza che qualcun altro la consideri un valore, e sia magari disposto a pagare o a compiere un lavoro per ottenerla. Per questa stessa ragione, se un bambino dà vita ad una azione “per i poveri”, non sta semplicemente giocando, ma svolge pienamente una attività

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lavorativa (come molti hanno intuito quando definiscono il gioco il “lavoro del bambino”; come, d’altra parte, il lavoro dell’adulto può diventare solo il suo modo di giocare, invece di lavorare, se è solo espressione di narcisismo). Si capisce poi che il lavorare “per” ha molte dimensioni. Innanzitutto non è solo un lavorare per “te” che mi sei di fronte, che vedo, e con cui ho un rapporto personale. Significa anche lavorare per “lui” o “egli” che non vedrò mai magari, e con non saprò neanche riconoscere qualora lo incontrassi, perché, magari, è quel paziente che utilizzerà il laboratorio della mia clinica, o il cliente che utilizzerà quel determinato prodotto. Si inizia dunque a lavorare veramente quando si lavora per qualcuno. É questa, crediamo, la vera dignità del lavoro. Lavoriamo davvero quando ci dimentichiamo di noi e dei nostri interessi e ci doniamo agli altri. Se il lavoro è quanto detto, e le ricompense sono viste in quest’ottica, allora cade il discorso sull’allineamento degli interessi: se lavoro per ‘te’ o per ‘egli’, allora non lavoro solo per ‘me’, e vivo il lavoro con dignità, e quindi il mio interesse è anche il tuo interesse.

6. Incentivi o premi?

In una OMI, se valgono i discorsi fatti in precedenza, in particolare sulla selezione, i potenziali membri e lavoratori sono proprio coloro che vedono il lavoro in quest’ottica, e soprattutto, sono animati da passioni e da motivazioni intrinseche. Una prima possibile conclusione porterebbe a dire che nelle OMI viene a cadere la necessità dell’utilizzo degli incentivi a scopo di controllo e di allineamento degli interessi. Anzi, a nostro parere, l’uso di incentivi, produrrebbe il crearsi di quello che negli intenti di chi li usa si vorrebbe evitare: l’incentivazione, alla lunga, creerebbe le condizioni perché le persone inizino a comportarsi secondo le due ipotesi sopra citate.

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Con lo spiazzamento delle motivazioni, diventa chiaro che ci si lascia poi motivare dalle remunerazioni, ma come abbiamo detto, con un di meno, e non un di più di motivazioni intrinseche, che sono invece proprio ciò che in una OMI si cerca, più che in altri luoghi. Non crediamo che questa possa essere la soluzione unica né la migliore. C’è infatti evidenza empirica anche sul fatto che una remunerazione piatta e sempre uguale per tutti è altrettanto demotivante. È stato dimostrato in numerosi esperimenti che se una ricompensa monetaria viene percepita come uno strumento di controllo della performance, allora l’effetto di tale ricompensa in presenza di forti motivazioni intrinseche può far ridurre la performance. Se la ricompensa viene percepita invece come un premio e un riconoscimento, allora tiene alte le motivazioni e aumenta la performance. In particolare, se le ricompense sono legate allo svolgimento di compiti particolari o al raggiungimento di determinati obiettivi, allora le motivazioni intrinseche si abbassano: è come se la persona non si concentrasse più sul perché svolge determinati compiti, ma solo sul quanto e come. Per di più il valore della ricompensa, soprattutto se monetaria, viene percepita come il valore di quello che si fa, dunque come quello che si vale, e tutto ciò scoraggia l’impegno. È questo il motivo per cui i circuiti che raccolgono il sangue per le trasfusioni a pagamento sono normalmente più inefficienti di quelli che operano sulla base di donazione volontaria di sangue (Titmuss 1970). La domanda che ci poniamo, allora è questa: esiste un modo per tenere alte le motivazioni dei membri di una OMI senza incorrere negli effetti di spiazzamento? La risposta che tenteremo di dare è che, se la ricompensa, o le remunerazioni vengono percepite, da parte di chi le riceve, come un riconoscimento e un apprezzamento, e cioè come un premio, allora avranno sicuramente un effetto positivo. Ma cosa hanno di diverso i premi rispetto agli incentivi?

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Una sfida campale per chi dirige una OMI e vuole tenere alte le motivazioni è dunque

saper premiare i membri e non farli sentire

controllati. Un premio rappresenta un riconoscimento, un dire, in vari linguaggi e con creatività,‘grazie, tu, voi, siete importanti e preziosi per l’organizzazione, e per tutti noi come persone’. Ma una domanda resta ancora aperta (e ci resterà anche dopo questo nostro saggio): come distinguere gli incentivi dai premi? A questo proposito ci viene incontro un autore, Giacinto Dragonetti, un autore importante di quella tradizione di pensiero nota come Economia civile. Di formazione giuridica, Dragonetti, a poca distanza dalla pubblicazione del libro di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene, in gioventù pubblicò nel 1766 a Napoli un piccolo libro dal titolo Delle virtù e dei premi. Nell’Introduzione del libro si legge: «Gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti, e non ne hanno stabilita pur una per premiare le virtù» (1768, p. 3). Dragonetti sviluppò il discorso sul diritto lungo una direttrice diversa da quella seguita da Beccaria il quale, come lo stesso Dragonetti scrive), aveva accennato al tema senza svilupparlo. Nello stesso tempo Dragonetti intendeva fare anche diversamente e di più di quanto aveva fatto Beccaria, immaginando cioè una vera e propria legislazione dei premi alle virtù, in particolare alle «virtù politiche» (1768, p. 3), addirittura un codice delle virtù che si affiancasse al codice penale: «I Legislatori Romani conobbero la necessità delle ricompense, le accennarono, ma non ebbero il coraggio di formarne il codice» (ivi, pp. 3-4). E quindi aggiunge che «il parlare dunque dei premi alle virtù dovuti non farà opera perduta in questo Secolo, che si crede destinato a rende la nativa efficacia ai rispettivi dritti degli uomini» (ivi, p. 4). Ovviamente Dragonetti non nega l’importanza delle pene, crede però

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che puntare solo sulla punizione dei delitti non sia sufficiente per porre un paese su una via di sviluppo civile ed economico. In altre parole, Dragonetti si muove all’interno della tradizione classica, quella aristotelica, ciceroniana e tomista dell’etica delle virtù. La virtù, nella teoria classica che inizia almeno con Socrate, non può essere descritta con una logica puramente strumentale o consequenzialista: l’areté, infatti, è praticata dall’uomo virtuoso innanzitutto perché è buona in sé, e non perché procura piacere o frutti materiali. In realtà, poi, la vera virtù porta anche piacere e frutti materiali, ma è un effetto quasi indiretto o non intenzionale di chi agisce virtuosamente. Come possiamo allora premiarla? Dragonetti, in linea con il pensiero classico, associa la virtù alla ricerca diretta e intenzionale del bene pubblico (visto come un obiettivo distinto da quello privato). Quando qualcuno agisce per «l’altrui vantaggio» abbiamo a che fare con le virtù: «si diede il nome di virtù a tutte le azioni, che riguardavano interesse degli altri, o a quella preferenza del bene altrui sopra il proprio» (Dragonetti 1768, p. 7). È quindi certo che per Dragonetti la semplice ricerca dell’interesse personale, sebbene sia naturale e non da considerarsi di per sé un vizio, non è sufficiente per poter chiamare un’azione virtuosa. La virtù richiede sforzo, sacrificio per andare oltre il puro interesse privato: Noi chiamiamo Dio buono più che virtuoso, perché non ha egli bisogno di sforzo per far del bene [...]. Altro dunque non è la virtù che un generoso sforzo indipendente dalla leggi, che ci porta a giovare altrui. I suoi estremi sono il sacrificio, o scapito del virtuoso, e l’utile che ne risulta al pubblico (ibid.). Ecco dunque l’altro elemento, o condizione sufficiente, per la virtù (condizione necessaria sono il sacrificio e lo sforzo, che non sono spontanei come la ricerca del piacere o dell’interesse): l’utilità per il bene comune. E aggiunge: «molti con equivoco danno il nome di virtù alle azioni, le quali

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sono un puro effetto della legge naturale, divina, o civile, e che dovrebbero con più giusto vocabolo chiamarsi doveri» (ivi, p. 8). Da qui la sua visione dei premi:

Essendo la virtù un prodotto non del comando della legge, ma della libera nostra volontà, non ha su di essa la società diritto veruno. La virtù per verun conto non entra nel contratto sociale; e se si lascia senza premio, la società commette un’ingiustizia simile a quella di chi defrauda l’altrui sudore (ivi, pp. 11-12).

Il “premio” è dunque una ricompensa per l’azione che va “oltre” quelle spettanti dai contratti privati e sociali: è una ricompensa a un atto libero orientato intenzionalmente al bene comune:

È vero, che tutti i membri dello stato gli debbono i servigj comandati dalle leggi, ma è altresì fuor di dubbio, che i Cittadini debbono esser distinti, e premiati, a proporzione de’ loro servigi gratuiti. Le Virtù sono tanti servigj considerabili, e arbitrari, che si prestano allo stato. Sono più che umane quelle Virtù, che bastano a se stesse (ivi, p. 12).

Le espressioni “servigi gratuiti” e “[s]ono più che umane quelle Virtù, che bastano a se stesse” sono due indizi che ci svelano altri elementi dell’idea di virtù civile di Dragonetti. La virtù è faccenda di libertà, e la ricompensa alla virtù, il premio, non è quella dovuta in base ai normali patti. Al tempo stesso, Dragonetti ci sta dicendo che non è sostenibile un’etica delle virtù civili dove la ricompensa alle virtù non è pubblicamente riconosciuta o è assegnata interamente alla componente intrinseca («bastano a se stesse»), poiché ciò non sarebbe umano, ma “più che umano”, e quindi

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non funzionerebbe nella vita civile. A differenza di quanto comunemente si pensa oggi nella teoria delle virtù civili, normalmente associate alla ricompensa intrinseca, il premio alla virtù per Dragonetti ha natura civile, e quindi è essenzialmente esterno al soggetto virtuoso. E poi così prosegue: «Ne oppongasi, che quando le virtù abbian proposta la loro mercede, si riguarderanno non più come azioni generose, ma mercenarie» (ibid.). Dragonetti afferma, dunque, che è possibile premiare le virtù civili senza che il premio “esterno” trasformi la gratuità della virtù in mera controprestazione di uno scambio (mercenario), il che comporterebbe la perdita di quella spontaneità, non obbligatorietá e libertà della virtù – è questa una questione ancora oggi molto attuale all’interno del dibattito su come remunerare le attività associate a “vocazione” (cfr. Bruni e Sugden 2008; 2009). Che cosa dunque voleva sottolineare Dragonetti quando postulava l’importanza di riconoscere un “premio” alle “virtù”? La prima cosa che viene in mente allo studioso contemporaneo è proprio l’idea di incentivo. Potremmo, infatti, definire il premio come un tipo particolare di incentivo:a) generalmente non monetario; b) simbolico; c) selettivo (non tutti sono incentivati dai premi, a differenza dell’incentivo monetario); d) pubblico (il premio è un incentivo per azioni di rilevanza pubblica). Al tempo stesso, non sarebbe corretto interpretare il premio di Dragonetti semplicemente come un sinonimo dello strumento che la teoria economica oggi chiama incentivo. L’incentivo è infatti normalmente centrato sull’interesse privato (e solo come effetto indiretto/inintenzionale può produrre anche bene comune), mentre il premio è legato al riconoscimento di un elemento intenzionale di bene comune in una data azione individuale. L’incentivo, infatti, è una “pena” (sanzione) di segno opposto, con natura e funzione puramente estrinseca. Un residuo dell’idea dragonettiana di “premio” alle virtù è oggi presente in quella branca del diritto nota come diritto premiale, e cioè

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l’insieme dei premi che le società, in vari modi e istituzioni, attribuiscono a singole persone per meriti speciali, per comportamenti o per una conduzione di vita particolarmente esemplari o virtuosi: titoli onorifici, medaglie al valore civile o militare, ma anche premi accademici, scolastici, sconti di pena per comporta- menti civilmente virtuosi (pentitismo), e molti altri. Da una lettura attenta del testo di Dragonetti (e della sua corrispondenza inedita52) emerge però un’altra visione del ruolo dei premi, che solo in parte è in linea con la teoria dell’incentivo e con quella del diritto premiale attuale. Nonostante Dragonetti non fornisca una vera e propria teoria del rapporto virtù-premi né ci dica con chiarezza teorica come ricompensare le virtù (e qui sta anche il principale limite della sua opera), nei brani che troviamo nel suo libro possiamo comunque rintracciare, o onestamente dedurre, alcune interessanti considerazioni che vanno lette, e interpretate, all’interno della visione generale della tradizione dell’economia civile. Innanzitutto egli afferma che l’azione orientata al bene comune non è normalmente in contrasto con l’amor proprio (anche se ne è distinto, e l’uno non è direttamente riconducibile all’altro), né con gli interessi o gli incentivi individuali: riferendosi ai tempi della repubblica romana e della polis greca, Dragonetti sostiene che «la pubblica grandezza non era condensata in pochi, ma talmente si dilatava sopra i Cittadini, che i pubblici interessi si confondevano con i privati. Que’ Repubblicani, mentre in apparenza s’immolavano alla Patria, servivano ai loro personali vantaggi» (1768, pp. 13-14). Da qui la sua definizione puntuale di premio:

Il premio è il vincolo necessario per legare l’interesse particolare col generale, e per tenere gli uomini sempre intenti al bene. Laonde le Virtù, che per patto sociale non si

52

cfr. Bruni 2010

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appartengono alla società, non debbono restar defraudate de’ premj loro dovuti (ivi, pp. 14-15).

Dragonetti pur distinguendo le azioni virtuose da quelle tese al solo interesse personale, non pone pertanto alcun contrasto né incompatibilità tra i due tipi di azioni (auto-interessate e virtuose): potremmo concludere che, da questa prospettiva, una buona società è quella che sa tenere assieme interessi personali e virtù, premi e incentivi, contratti e gratuità, eros e agape, senza metterli in conflitto tra di loro. La conclusione del libro merita di essere riportata: «quello è il più felice Stato, dove la precedenza si misuri con la virtù» (ivi, p. 102).

Anche il mercato è per Dragonetti e per l’economia civile un ambito dove vivere e sviluppare le virtù. Senza sviluppo del commercio e del mercato non si dà pubblica felicità. Per questa ragione, occorre che la società riconosca e premi anche le virtù commerciali, dia riconoscimento pubblico ai mercanti, proprio come nell’antica Roma, dove, come ricorda Dragonetti, i migliori mercanti erano ammessi all’ordine equestre. Tutto ciò emerge anche dalla conclusione di una lettera inedita di Dragonetti, scritta al fratello Gian Battista che gli chiedeva di spiegargli il nesso tra la prima e la seconda parte del suo libro: «se io non parlo dell’agricoltura, guerra, nautica e commercio, che sono le [...] principali virtù umane, a che si ridurrebbe la mia [...] operetta?» (in Bruni 2010). Come possiamo immaginare allora il premio alle virtù come via allo sviluppo economico e civile? Come una strada per far fiorire le OMI? Una prima strada è quella di premiare le virtù ricompensando correttamente le virtù civili, favorendo comportamenti cooperativi, e scoraggiando quelli non cooperativi e opportunistici. A differenza degli

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incentivi, che vanno a valutare il merito e pongono i lavoratori in concorrenza tra di loro, i premi, così come li stiamo delineando, sono un riconoscimento per le virtù e per l’impegno alla cooperazione. Gli incentivi si basano su un sistema di valutazione della performance individuale, mentre i premi sono un ‘di più’ che va a riconoscere gli sforzi fatti da un gruppo per collaborare e raggiungere gli scopi dell’organizzazione. Se pensiamo ad una scuola, instaurare un sistema di incentivi basarsi potrebbe voler dire prefissare determinati obiettivi (in termini di qualità didattica per un insegnante, o di produttività per il personale ausiliario) e remunerare adeguatamente chi riesce a perseguire tali obiettivi. Il premio può essere inteso (sulla linea oggi risalutata da Bruno Frey) come un di più che si riconosce all’azione civilmente virtuosa, sotto forma di titoli, medaglie, riconoscimenti ecc. che aumentano il benessere o la felicità di chi li riceve, e che hanno il principale scopo di far aumentare queste azioni rispetto a quelle anticivili (come esplicitamente dice Dragonetti). Un premio, è normalmente una forma di remunerazione comunitaria (e non puramente individuale), che rafforza il senso di lealtà e di appartenenza alla scuola, che potrebbe consistere in un viaggio "premio", nell'offrire possibilità di perfezionamento nello studio, orari flessibili per conciliare il rapporto famiglia-lavoro, una maggiore attenzione alle esigenze extra-lavorative, che non sono un bene privato del singolo lavoratore, ma conquiste che portano effetti positivi per l'intera organizzazione. Allora a volte un semplice grazie, detto con il cuore, a chi collabora nella OMI con tanti sacrifici spesso nascosti (e magari in presenza di altri: sono importanti gli atti pubblici di riconoscenza, che non può restare sempre un rapporto privato) può essere un sostegno all’interiorizzazione delle virtù civili. Al tempo stesso, nella vita organizzativa il “grazie” non può essere il solo premio per i lavoratori, ma l’arte di chi governa le OMI è saper inventare dei premi che siano più ricchi e complessi del “grazie”, e che non solo non scoraggino le buone motivazioni, ma le rafforzino.

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CAPITOLO IV

QUANDO GLI IDEALI VANNO IN CRISI

È certo assurdo fare dell’uomo felice un

solitario:

nessuno,

infatti,

sceglierebbe di possedere tutti i beni a costo di goderne da solo: l’uomo, infatti, è un essere sociale e portato per natura a vivere insieme con gli altri. Questa caratteristica, quindi, appartiene anche all’uomo felice. … L’uomo felice ha bisogno di amici (Aristotele, Etica Nicomachea)

1. Exit, voice e massa critica

Stiamo entrando sempre più all’interno delle dinamiche tipiche delle OMI. Dopo aver affrontato nel capitolo precedente, lasciandolo ancora alla fine aperto, il tema della selezione dei lavoratori che in una certa misura sentono propria la mission della OMI e che abbiano una qualche vocazione nei confronti di quella specifica attività, nel presente capitolo, che costituisce un po’ il cuore del presente saggio, ci domandiamo che cosa accade qualche alcuni di questi “Socrate” lasciano la OMI, magari per una crisi interna non superata, per un cambio generazionale non riuscito, o per qualsiasi altra ragione, che comunque ha a che fare con la crisi di dimensioni simboliche o ideali delle OMI. Questi momenti di crisi sono passaggi importanti in ogni organizzazione, ma sono assolutamente cruciali nelle OMI poiché, come

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detto, in queste organizzazioni le persone con motivazioni ideali giocano un ruolo cruciale. In particolare, esamineremo il meccanismo che può portare le persone intrinsecamente motivate, cioè quelle più interessate alla mission dell’organizzazione in quanto portatrici in qualche modo di una “vocazione” o di un “carisma” relativo a quella data realtà, ad abbandonare la stessa quando essi percepiscono che la loro protesta

è ignorata . La crisi

dell’idealità colpisce, lo vedremo, prima e più intensamente proprio i soggetti più idealmente motivati, quelli cioè più attenti alle dimensioni di “vocazione”. Per questa ragione se la loro protesta (voice) non incontra l’ascolto, la crisi diventa abbandono (exit), un abbandono che può far precipitare l’OMI in una trappola mortale a causa di meccanismi cumulativi che si possono innescare.53

L’analisi che proponiamo in questo capitolo è duplice: 1)combinare il classico modello di “Exit e Voice” con le teorie della “massa critica”, 2) applicare questa teoria combinata, con opportuni adattamenti, alle OMI. Questo capitolo rappresenta dunque un tentativo di analisi teorica di alcune dinamiche che possono verificarsi in momenti di crisi delle OMI. Sarebbe opportuna una ricerca empirica che verifichi questo quadro teorico. Infatti, mentre esiste un’abbondante evidenza empirica circa l’importanza della massa critica nelle organizzazioni, e delle loro dinamiche di cambiamento, sarebbero ancora necessari studi empirici sui meccanismi cumulativi di deterioramento della qualità nei momenti di crisi, e sulle best

53 Inoltre, il deterioramento della idealità ha anche l’effetto di danneggiare la capacità competitiva e di sviluppo dell’organizzazione, quando questa fronteggia una domanda di mercato. Va notato che, sebbene il deterioramento delle motivazioni intrinseche non investa direttamente le motivazioni intrinseche dei clienti dell’organizzazione, tuttavia esso ha un effetto indiretto anche verso di essi. In altre parole, gli effetti negativi del deterioramento delle motivazioni intrinseche non dipendono dall’indebolimento della idealità nei clienti dell’organizzazione (non occorre infatti pensare che chi si rivolge per una cura ad una cooperativa sociale debba avere particolari motivazioni intrinseche per quella scelta), ma normalmente una parte di essi “domanda” idealità, e se ne trova meno tende, coeteris paribus, ad uscire.

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practicesdi quelle organizzazioni che hanno risolto felicemente queste crisi. Siamo convinti che il mondo dell’economia sociale è un campo estremamente promettente per una tale analisi empirica, che vorremmo diventasse presto un progetto di ricerca, nostro e di altri.

2. Il valore civile della (buona) protesta

L’ipotesi con cui apriamo questo capitolo consiste nel supporre che nelle OMI esista una dinamica organizzativa nella quale il ruolo chiave è giocato dalle minoranze motivate e dagli effetti imitativi delle loro azioni. Crediamo che poche persone intrinsecamente motivate determinino la cultura cooperativa (o non cooperativa) dentro le organizzazioni, specialmente nelle OMI. Per questo motivo non perdere i membri chiave, quelli con vocazione, può risultare cruciale per la vita e per lo sviluppo di una OMI. Nell’analisi di tali fenomeni relazionali ci faremo aiutare dal saggio Exit Voice and Loyalty di Albert Hirschman (1970), un libro teoricamente ancora molto fecondo, e certamente tutto da scoprire nell’ambito dello studio delle organizzazioni a movente ideale.54 Hirschman in quel volume proponeva di mescolare di più gli strumenti di exit e voice. Tradizionalmente nel mercato, dove i consumatori possono “uscire” se non amano quel bene, non veniva considerata la voice (la protesta), mentre nella sfera politica, nella quale l’uscita è (o era negli anni settanta) molto difficile (non si esce facilmente da un partito, dal Paese o comune dove si vive …) lo strumento da utilizzare per ottenere dei cambiamenti è la voice. In altre parole, non avrebbe molto senso, dalla 54

L’attenzione nei riguardi del libro di Hirschman all’inizio fu grande, ma dopo l’entusiasmo dei primi anni, negli ultimi due decenni se ne parla molto poco in economia, e, a nostra conoscenza, quel modello non è stato ancora applicato alle organizzazioni a movente ideale. Conviene quindi ripartire da quel piccolo ma inspiring libro, ripercorrendo la sua linea argomentativa, per poi inoltrarci nell’analisi oggetto del nostro studio.

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prospettiva classica, protestare con la Fiat perché non mi piacciono le sue auto: è sufficiente ed opportuno “uscire” e comprare altre auto da altre case automobilistiche. La protesta (voice) non è amata dalle imprese, proprio perché esiste la più semplice e meno costosa opzione exit. Hirschman nel suo lavoro diceva che stava giungendo il tempo in cui dovevamo portare più exit nella politica e più voice nel mercato, come la storia ha poi mostrato con forza: quando oggi i movimenti di consumo criticano protestano o boicottano un’impresa stanno dicendo che non basta uscire dai mercati, poiché anche se io esco altri consumatori rimangono, l’impresa continua ad inquinare l’ambiente sociale e naturale anche dopo la mia uscita: per questa ragione la voice anche nei mercati è un esercizio della cittadinanza e della responsabilità. Un punto importante dell'analisi del saggio di Hirschman è il funzionamento "speculare" dei mercati nei quali si compete sulla qualità rispetto ai mercati nei quali si compete sul prezzo. L’esempio classico è quello della scuola. Alla fine degli anni sessanta si discuteva negli USA la proposta dell’introduzione di vouchers (buoni) avanzata dall’economista liberale Milton Friedman. Il Governo, proponeva Friedman, per finanziare l’istruzione (che è un tipico bene meritorio che quindi va sussidiato), invece di intervenire con sussidi nei confronti dell’offerta (i classici aiuti economici alle scuole, di vario tipo), sarebbe dovuto intervenire direttamente sulla domanda, assegnando cioè dei buoni ai genitori da spendere nella scuola che consideravo migliore per i loro figli: “free to choose”, quindi, secondo la nota filosofia sociale della scuola di Chicago.55 Il meccanismo dei vouchers avrebbe così aumentato la 55

Friedman aveva criticato, tra l’altro, la scuola (l’università in particolare) pubblica gratuita in base all’assunto che “nessun pasto è gratis”, perché la scuola “gratis” di fatto viene pagata con le imposte dei cittadini, evidenziando così il paradosso dei neri (poveri) che pagavano buona parte dei costi dell’istruzione dei figli dei bianchi (ricchi) – le tasse venivano pagate essenzialmente da lavoratori dipendenti i cui figli non accedevano normalmente all’università, mentre l’università veniva frequentata dai figli di imprenditori e di professionisti che, a detta di Friedman almeno, di tasse ne pagavano poche. Il sistema universitario americano era di fatto

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concorrenza, e, conseguentemente, l’efficienza dei servizi scolastici e la qualità dell’istruzione negli USA. Il voucher, infatti, fornisce o rafforza per le famiglie l’opzione exit, introducendo nella gestione di quel servizio il tipico meccanismo della concorrenza di mercato: se il “bene” non mi piace “esco”. L’exit offre così un segnale all’organizzazione, la quale, se è razionale, cerca di rettificare la qualità se non vuol continuare a perdere clienti e alla lunga essere espulsa dal mercato, e svolge una funzione che aumenta l’efficienza e quindi il benessere sociale. L’introduzione dei vouchers crea così un mercato nel quale si compete essenzialmente sulla qualità. Hirschman – e noi con lui – non vuol negare che in certi contesti il sistema dei vouchers possa anche funzionare (soprattutto in situazioni molto inefficienti e rigide, dove la protesta non accompagnata dalla minaccia di exit non è efficace per ottenere il miglioramento), ma, in base alla sua metodologia, vuole “complicare” il discorso economico, aggiungendo considerazioni assolutamente importanti anche per le OMI. Il punto di partenza della sua analisi consiste nella presa di coscienza che quando si ha a che fare con la concorrenza basata sulla qualitàdei beni, il mercato agisce in modo sostanzialmente diverso rispetto al classico caso della concorrenza basata sul prezzo (per la quale i meccanismi di mercato sono stati pensati e studiati). Nei casi di concorrenza di qualità, infatti, il mercato con i soli suoi meccanismi non è un buon strumento. Vediamo perché. Nel modo normale di utilizzare (e insegnare) l’economia, la domanda dei consumatori è espressa come una funzione che lega tra loro quantità (x) e prezzo (px) di un dato bene, e un cambiamento di qualità viene considerato equivalente ad un cambiamento di prezzo: “Una merce di un sistema iniquo dove i poveri pagavano la scuola ai ricchi. Una analisi simile viene ancora oggi rivolta da quegli economisti liberal che criticano i finanziamenti pubblici dei teatri, poiché, dicono, chi usufruisce di quei beni meritori sono persone benestanti, mentre chi contribuisce sono in gran parte lavoratori dipendenti che raramente entrano in quei teatri. Ovviamente il discorso è troppo articolato (i benefici pubblici dei teatri e della cultura vanno ben oltre i diretti utilizzatori), per sbrigarlo con una nota.

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qualità scadente può spesso essere considerata semplicemente una quantità minore della stessa merce di qualità standard; è il caso, ad esempio, del pneumatico d’auto che duri in media soltanto metà (in termini chilometrici) di un pneumatico di alta qualità” (Hirschman 1982[1970], p. 44). La concorrenza di qualità, pertanto, dalla teoria economica viene considerata come un caso particolare della concorrenza di prezzo; da cui segue che nelle analisi economiche non si tratta la competizione di qualità come un tipo di competizione diversa da quella di prezzo.56 Per Hirschman, invece, il punto cruciale del discorso sta nel sottolineare le insidie che si nascondono proprio in questa mancata distinzione tra i due tipi di concorrenza. Infatti, nella tradizionale analisi della concorrenza di prezzo (quella classica presente in tutti i manuali di economia), quando il prezzo sale chi esce è il “consumatore marginale”, quello cioè caratterizzato da un minore apprezzamento soggettivo del bene, colui che ha il “prezzo di riserva”57 più basso. Chi esce è, per così dire, il “peggiore” del mercato, nel senso che soggettivamente stima relativamente meno quel dato bene. Nella concorrenza di prezzo, i clienti sono quindi ordinati in ordine decrescente rispetto al loro prezzo di riserva. Facciamo un esempio. Supponiamo che in un dato mercato ci siano tre tipi di consumatori A, B, C. A ha il prezzo di riserva più alto (poniamo pari a 20) B pari a 15, e C, il più basso, uguale a 10. Se il prezzo di mercato è 10, tutti e tre i consumatori lo acquistano. Quando il prezzo sale (es. da 10 a 12) è il "peggiore" (C) ad uscire dal mercato (colui, cioè, con il prezzo di riserva più basso), e rimangono in quel mercato coloro con i prezzi di riserva più alti, 56 Se due beni (A e B) hanno lo stesso prezzo e uno dei due (A) ha una qualità (Qa) maggiore dell’altro (Qa>Qb), nella teoria economica standard si può trovare per il consumatore un paniere di indifferenza tra il paniere composto dal bene A e un ipotetico paniere composto da bene A con un prezzo minore e una qualità minore. 57 Il prezzo di riserva è il prezzo più alto che un consumatore è disposto a pagare per un dato bene pur di non rinunciarvi. Il prezzo di riserva ha a che fare con le preferenze dei consumatori, e non dipende dal reddito (che invece è un vincolo, dal quale anche dipende la scelta del consumatore).

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che quindi apprezzano relativamente di più quel bene (i consumatori di tipo B e di tipo A). Si verificherebbe, quindi, un meccanismo simile ad una gara di salto in alto: quando sale l’asticella coloro che restano in gara sono i migliori (a meno di trucchi come il doping o giudici corrotti).

Per queste ragioni, il meccanismo concorrenziale di mercato basato sul prezzo è normalmente considerato dagli economisti come uno strumento che garantisce l’efficienza del sistema economico (e sociale), proprio perché l’esercizio dell’exit fa sì che siano le preferenze dei consumatori ad orientare la dinamica di mercato, a costi di transazione molto bassi. L’uscita dei consumatori è un segnale poco costoso e agile che consente all’impresa di diventare più efficiente. Inoltre, tradizionalmente l’economia vede di buon grado una domanda dei beni elastica: più la domanda reagisce velocemente alle variazioni di prezzo più efficiente è il mercato. La “protesta” (che Hirschman chiama “voice”) dei clienti, quindi, è vista con sospetto dall’economia, perché crea attriti all’efficiente funzionamento del meccanismo di mercato, richiedendo tempo, rende la domanda più rigida e

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alza i “costi di transazione”. Mentre l’uso dell’exit porta efficienza (se sono rispettate le varie ipotesi sulla concorrenza). Che cosa accade, invece, nella competizione giocata principalmente sulla qualità? Hirschman ci ricorda innanzitutto che la qualità è un concetto multidimensionale. Come già accennato, per molti beni di mercato, non c’è una distinzione significativa tra prezzo e qualità in termini di concorrenza ed efficienza. Esiste, tuttavia, un tipo (o una dimensione) della qualità che, secondo Hirschman, fa sì che il mercato di questo tipo di beni operi in modo diverso rispetto alla concorrenza standard giocata sui prezzi. E’ il caso in cui la qualità non è una caratteristica oggettiva e perfettamente osservabile del bene, quanto piuttosto una qualità associata ad una dimensione intrinseca del bene. Hirschman sostiene, per noi correttamente, che in questi casi potrebbe verificarsi un risultato esattamente opposto a quello che si verifica con la competizione di prezzo: in presenza di un deterioramento della qualità colui che esce per primo può essere il soggetto "migliore" (A), chi cioè è più sensibile alla qualità (che normalmente non corrisponde al consumatore che uscirebbe per primo dal mercato in caso di un aumento del prezzo).

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Figura 4.2

Questo succede perché il deterioramento di qualità è “spesso differente per differenti consumatori dell’articolo perché l’apprezzamento della qualità è molto diverso tra di essi” (p. 48). In questo tipo di concorrenza, quindi, l’ordine dei consumatori potrebbe essere invertito, come vediamo nella figura 4.2: il soggetto che reagisce per primo ad un deterioramento di qualità è colui che più valuta la qualità. 58 Se, infatti, la qualità si deteriora, per A, il migliore in questo mercato, il deterioramento di qualità “è equivalente ad un aumento di prezzo che consuma il suo intero surplus” (p.138), mentre per C “l’equivalente aumento di prezzo può essere così piccolo che egli rimane sul mercato” (Ib). Quindi, quando si assiste ad un deterioramento di qualità, il consumatore A minaccerò di lasciare per primo il mercato. Per lui, infatti, un pur piccolo deterioramento di qualità è equivalente ad un incremento di 58 La qualità di riserva esprime la massima tolleranza in termini di deterioramento di qualità: il consumatore A, con qualità di riserva di 10, è più sensibile al deterioramento di qualità del consumatore B, che ha una qualità di riserva di 15.

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prezzo che annulla tutto il suo surplus. Di conseguenza, il consumatore meno sensibile dal punto di vista del prezzo, diventa quello più sensibile “in caso di un deterioramento di qualità” (p. 138). In altre parole, la persona più interessata a questo tipo di qualità non è molto interessata ai prezzi (o lo è meno di altri consumatori), ma solo se la qualità rimane alta. È importante sottolineare ancora che questa analisi basata sulla distinzione tra concorrenza di prezzo e di qualità non è applicabile a tutti i tipi di beni. Hirschman limita l’analisi ai cosiddetti “connoisseur goods”, beni che hanno due caratteristiche principali (e che rappresentano le condizioni necessarie perché possa applicarsi il suo e nostro modello: 1) Gli aumenti di prezzo equivalenti ad un declino di qualità sono differenti per differenti consumatori; 2) questi aumenti di prezzo equivalenti sono correlati positivamente con il corrispondente surplus del consumatore. Un esempio tipico ci viene dal mercato dei vini di alta qualità i consumatori ‘migliori’ (quelli che apprezzano di più il vino, cioè che hanno il prezzo di riserva più alto) non sono molto reattivi ad un aumento di prezzo se gli standard di qualità rimangono alti. Se, invece, il vino (per esempio un vino Chianti di una data annata) perde in qualità, gli stessi consumatori sono i primi che tendono ad abbandonare il bene. Per analizzare meglio la questione, possiamo mostrare, seguendo Hirschman (p. 142), le curve di indifferenza (tra qualità e prezzo) di differenti consumatori – per esempio, di una persona più interessata alla qualità (quality-conscious) e una persona più interessata ai prezzi (price-conscious). Quali sono, allora, le conseguenze di una tale analisi? Torniamo all’esempio dei vouchers nelle scuole. Se davanti ad una crisi di qualità escono i genitori più sensibili che si rivolgeranno a scuole di eccellenza, il risultato potrebbe essere – soprattutto in presenza di qualità non codificata e non “oggettiva”, come nel caso della qualità relazionale o motivazionale un peggioramento della qualità media del sistema scolastico

104

(l’offerta può essere ri-calibrata sulla base degli standard più bassi di chi resta).59 È facile intuire che questa teoria di Hirschman si applica perfettamente alle dinamiche delle organizzazioni a movente ideale. Pensiamo, per un esempio, ad una impresa di Economia di Comunione, una cooperativa sociale, o a una “bottega” del commercio equo, che ad un certo punto del proprio ciclo di vita subisce un deterioramento nella qualità motivazionale

dei

suoi

dirigenti,

e

quindi

della

qualità

ideale

dell’organizzazione. Il caso più comune è il passaggio dalla prima fase di fondazione alla seconda fase di istituzionalizzazione e normalizzazione dell’attività.

In

certi

casi

questo

passaggio

può

coincidere

con

l’invecchiamento dei fondatori, e il necessario avvio del processo di ricambio generazionale. In questi casi succede – e sono molti gli esempi storici che si possono portare – che l’organizzazione spesso entra in una situazione di conflitto. Il modello di Hirschman ci dice che in casi come questi siamo di fronte ad una situazione in cui la qualità (ideale) si sta deteriorando. Secondo Hirschman, infatti, in questo caso “un deterioramento di qualità deve quindi essere ridefinito in termini soggettivi: dal punto di vista dei membri, è equivalente ad un crescente disaccordo con le politiche dell’organizzazione” (pag. 87). Alla luce di questa teoria, in quanto segue supponiamo che i membri più interessati alla qualità saranno i primi a protestare quando osservano un deterioramento di qualità ideale e di valori nell’OMI. Il concetto di qualità ideale, infatti è analogo a che quello di “connoisseur good”. La qualità ideale, infatti, rispetta le due caratteristiche chiave dei connoisseur goods: a) Gli aumenti di prezzo equivalenti sono differenti per persone differenti (intrinsecamente motivate oppure no); b) I

59

Si verificherebbe in questo caso una forte polarizzazione: da una parte poche scuole di élite, dall’altra un alto numero di scuole mediocri. Un’analisi costi-benefici denuncerebbe una perdita netta d’efficienza, misurata sulla base della qualità.

105

primi a reagire (i tipi A) a un deterioramento di qualità ideale sono quelli con il più alto surplus in termini di prezzo (le persone intrinsecamente motivate sono meno sensibili a variazioni di prezzo – effort, stipendio, ecc… -- lo abbiamo visto), ma nello stesso tempo sono anche i più sensibili ad un deterioramento di qualità. È il caso, ad esempio, dei clienti di una banca etica che sono disposti ad accettare un tasso di interesse più basso, o a non avere gli sportelli sottocasa, a condizione e fino a quando quei clienti percepiscono la presenza di qualità ideale alta; oppure dei cittadini che comprano prodotti del commercio equo e solidale facendo chilometri di strada ogni settimana per recarsi alla bottega del mondo, finché … ne vale la pena ideale. Ma proprio per questo, queste persone sono le prime a protestare e a minacciare di andarsene in caso di un deterioramento della qualità etica dei prodotti e/o dell’organizzazione.

Se questo tipo di protesta è considerata

dai

responsabili della OMI solo come un costo organizzativo ed è ignorata, allora l’uscita, cioè il lasciare l’organizzazione, può diventare l’unica opzione disponibile per chi protesta60. Nel prossimo capitolo ci soffermeremo su alcune conseguenze rilevanti per l’organizzazione dovute a questa possibile uscita di chi protesta per il deterioramento della qualità ideale.

60

Nella nosta analisi è implicita un’ipotesi, e cioè che i membri più motivati hanno la possibilità di trovare beni di migliore qualità se lasciano l’OMI.

106

Capitolo V

TUTTI UGUALI, TUTTI DIVERSI

Gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti, e non ne hanno stabilita pur una per premiare le virtù (Giacinto Dragonetti 1766).

1. La massa critica

Nelle prossime pagine, continuando il discorso iniziato nel capitolo precedente, svilupperemo un ragionamento relativamente complesso e ricco, ma a partire da un modello semplice e, crediamo, intuitivo. Una prima implicazione di quanto abbiamo analizzato nel capitolo precedente, e cioè l’uscita dei più motivati, è immediata. Se l’organizzazione fronteggia una domanda di mercato (come accade per la maggioranza delle civil society organisations e per tutte le imprese sociali), il deterioramento della qualità ideale produrrà subito effetti in termini di capacità di trattenere i clienti migliori (quelli più sensibili alla qualità “ideale”). L’organizzazione deve molto del suo successo alla sua mission ideale: attira clienti e finanziatori perché le attribuiscono un valore sociale, la produzione di esternalità positive. Un deterioramento motivazionale nei suoi membri porta ad una minaccia di abbandono proprio dei clienti “migliori”.

107

Inoltre, in presenza di una crisi di qualità ideale, che potrebbe verificarsi, ad esempio, per una crescita dimensionale

che porta

l’organizzazione a rivolgersi al mercato per nuovi dirigenti più efficienti e preparati ma meno motivati, l’organizzazione tenderà a perdere i membri più motivati. È questo un fenomeno che si somma a quello precedente, e che è forse ancora più preoccupante. Infatti, quando un numero sufficiente di persone motivate sono presenti in una OMI, esse hanno effetti di spillover sugli altri lavoratori, che possono iniziare a imitare le persone più motivate nel lavorare di più e meglio, nel riempire di gratuità gli spazi appartenenti al “non contrattabile”61. Potremmo chiamare questo fenomeno di imitazione “cultura dell’organizzazione”, che, sebbene creata prevalentemente dalle persone più motivate (per esempio i fondatori dell’attività), permea lo stile di azione di tutti gli altri membri. Vale la pena di notare qui, che quel “di più” dato dal clima presente nelle OMI e dall’impegno dei membri (che porta per esempio a fare bene il proprio lavoro anche se non controllati, il “muro dritto” di Levi) ha le caratteristiche di un bene pubblico che viene in esistenza solo se c’è un numero sufficiente o adeguato di contributori. La nostra ipotesi teorica è dunque la seguente: la presenza di persone intrinsecamente motivate in una OMI è importante non solo perché queste persone contribuiscono direttamente a preservare la qualità ideale dell’organizzazione, ma anche perché la loro presenza influenza indirettamente il comportamento degli altri membri attraverso l’imitazione. Per sviluppare questo aspetto della nostra analisi, facciamo uso dei modelli di massa critica, specialmente nelle versioni sviluppate da Schelling (1978) e da Granovetter (1978). Questi modelli sono stati utilizzati anche 61

Per esempio, se si lavora a contatto con i clienti, la presenza di almeno una persona che sa prestare attenzione alle esigenze del cliente, che sa sorridere e che non si spazientisce facilmente, può creare un clima in ufficio nel quale anche gli altri membri siano portati a comportarsi allo stesso modo. Cf. Durlauf (2001), Brock e Durlauf (2000), e Blume e Durlauf (2000).

108

per spiegare alcuni fenomeni relativi ai comportamenti collettivi, come scioperi, manifestazioni, diffusione delle innovazioni e delle mode, evoluzione culturale, dove scattano dei meccanismi di reazione a catena una volta superata una soglia o una “massa critica”.62 La storia è piena di esempi (dal Cristianesimo al movimento di indipendenza di Gandhi, dalle organizzazioni ambientali a quelle per i diritti umani), in cui cambiamenti culturali significativi sono stati generati dall’azione di poche persone intrinsecamente motivate, che potremmo anche chiamare “minoranze profetiche”. Gladwell (2002), per esempio, mostra una convincente evidenza di come poche persone con particolari caratteristiche sono sufficienti per cambiare situazioni su larga scala.63 Egli chiama questo fenomeno “La legge dei pochi” (“the law of the few”). Secondo questa teoria, dunque, la cultura di una data comunità o di un dato gruppo non dipende dalla maggioranza delle persone; dipende, invece, da un piccolo numero di persone che riescono ad attivare gli imitatori che normalmente costituiscono la maggioranza dei membri di una organizzazione o di una comunità.

È

l’antica logica del “lievito”. In questo capitolo noi estendiamo le dinamiche della ‘legge dei pochi’ o alle relazioni interne delle organizzazioni, sulla base dell’ipotesi che la cultura organizzativa è determinata principalmente da “minoranze profetiche”, e per effetto di processi di imitazione queste minoranze influenzano il comportamento di tutti i membri dell’organizzazione.

62

Più recentemente, l’economista americano Durlauf e altri studiosi (cf. Durlauf (2001), Brock e Durlauf (2000), e Blume e Durlauf (2000)) hanno proposto una formalizzazione dei modelli di massa critica, all’interno del loro progetto di ricerca conosciuto come ‘social economics’. Questi studiosi offrono un’abbondante evidenza empirica e storica di comportamenti collettivi che avvalorano le ipotesi che sono alla base di questi modelli di massa criticaPer esempio, Durlauf (2001) analizza la diffusione della Silicon Valley, un fenomeno di diffusione dell’innovazione e di migrazione. 63 È importante notare che la minoranza (i pochi) non sono necessariamente un gruppo di elite. Il modello non distingue il ruolo gerarchico delle persone che attivano il cambiamento organizzativo.

109

Quando, cioè, un numero sufficiente di persone intrinsecamente motivate sono presenti in una OMI la loro presenza e cultura influenza gli altri membri, i quali migliorano il loro comportamento cooperativo64. In particolare ci soffermeremo su che cosa accade, all’interno di questa prospettiva teorica, quando alcuni di questi membri chiave lasciano l’organizzazione, poiché possono verificarsi delle forme di “poverty trap” nelle quali l’OMI può precipitare, senza rendersene subito conto.

2. Minoranze profetiche e imitatori

Partiamo da un’ipotesi tutto sommato abbastanza comune nella teoria organizzativa: un’organizzazione cresce e si sviluppa quando un’attitudine cooperativa si diffonde tra i suoi membri, che vedono il bene comune più saliente dell’interesse individuale; di contro, un’organizzazione si avvia verso il declino quando i membri guardano maggiormente ai propri guadagni personali e li vedono in conflitto con il bene comune dell’organizzazione65. In una OMI per “cooperazione” noi intendiamo un comportamento che va oltre la lettera del contratto e fa propri in una certa misura i valori della OMI, al di là (e non al di qua!) dei compiti e dei doveri previsti dalla job description. Per la nostra analisi supponiamo, in linea con il modello di Schelling (1978), che in una data OMI esistano tre tipi di membri o tre gruppi di persone: 64

Il punto chiave è comprendere cosa significhi esattamente un ‘numero sufficiente’. Qui usiamo il concetto di numero sufficiente nel senso utilizzato da Schelling nella teoria della massa critica, e cioè il numero minimo che può far scattare una reazione a catena. 65 Per una rassegna della letteratura sull’argomento cf. Astley W. and Van de Ven A. (1983), Keley M. (1978), e Williamson O. (1995), un testo classico.

110

-

Il Gruppo 1 è quello composto da persone intrinsecamente motivate, che cooperano senza condizionare il loro comportamento cooperativo ai comportamenti delle altre persone, perché essi sono ricompensati prevalentemente dall’attività stessa.66 Tali membri hanno però un secondo livello di condizionalità: cooperano se e fino a quando il livello di qualità ideale dell’OMI è ‘abbastanza’ alto, altrimenti sono i primi che tendono ad abbandonare l’organizzazione.

-

Il Gruppo 2 è costituito da membri che non coopereranno mai, indipendentemente da quanti altri cooperano nell’organizzazione. Non sono influenzabili dal comportamento degli altri. Questi membri non sono necessariamente persone negative o cattive, ma lavoratori che in quella data organizzazione non vanno oltre la lettera del contratto: per questi lavorare nella OMI o lavorare in un’impresa pubblica o in una multinazionale è esattamente la stessa cosa, non cooperano oltre la normale cooperazione prevista dal contratto di lavoro e dalla convenzioni. Questi lavoratori possono anche essere degli opportunisti e dei furbi (e nella prassi concreta spesso possono esserlo), ma non è necessaria questa valutazione etica negativa perché sia un membro sia parte di questo secondo gruppo; è sufficiente essere un soggetto che non fa nulla per andare oltre il contratto.

-

Il Gruppo 3, normalmente il più numeroso, comprende gli imitatori, membri che si trovano tra il gruppo uno e il gruppo due poiché non sono

66



cooperatori

incondizionali



non-cooperatori

Confronta Bruni and Smerilli 2004.

111

incondizionali ma hanno la caratteristica di cooperare se vedono “abbastanza” membri che cooperano (e di non cooperare se non ne vedono abbastanza). L’elemento chiave da cui dipende la tecnologia del nostro modello è l’interpretazione di questo “abbastanza”, poiché, come vedremo, tutti i membri del gruppo tre hanno un loro “abbastanza” oltre il quale iniziano a cooperare, ma ogni singolo membro ha un suo proprio valore: per Andrea “abbastanza” è vedere sei persone che cooperano, per Maria 12, per Giorgia 2, e così via. Tutti e tre questi lavoratori (Andrea, Marta e Giorgia) appartengono comunque a questo gruppo intermedio di cooperatori condizionali.

Va poi notato che l’interpretazione del valore soglia in base a “quanti altri cooperano” deve essere molto ampia. Nelle organizzazioni reali le persone cooperano o meno sulla base di molte ragioni, ma, a nostro modo di vedere, l’elemento fondamentale è rappresentato dalle relazioni con gli altri. Normalmente le persone, soprattutto se giovani, sono molto flessibili, imparano, cambiano, e la qualità dell’impegno in una data organizzazione dipende molto dai modelli che vedono attorno a sé. Se in ufficio sono circondato da 10 persone, e 8 di queste si comportano in modo opportunistico, è molto probabile che la qualità del mio lavoro sarà diversa rispetto alla situazione nella quale nel mio ufficio gli opportunisti sono soltanto due. Al tempo stesso, la nostra storia, l’educazione, il carattere giocano un ruolo importante: alcuni cambiano comportamento con più difficoltà e hanno bisogno di più tempo (sia i buoni che i cattivi comportamenti), altri sono molto più veloci ad attivarsi cooperativamente all’interno di una organizzazione. Il significato dei valori soglia e il “quanti cooperatori vediamo attorno” a noi va dunque interpretato in questo senso ampio, che, va notato, abbraccia anche clienti, fornitori, stakeholders, e non solo i lavoratori. Una impresa sociale, una OMI in generale, sviluppa una

112

cultura cooperativa e capace di futuro quando sa attivare positivamente lavoratori, sponsors, clienti, società civile e politica attorno ad essa. La nostra intuizione è che anche estendendo il concetto di “membro” dal lavoratore agli stakeholders in generale, è sempre possibile classificare le persone in varie tipologie, e che l’attivazione cooperativa resta sempre una faccenda di relazioni umane, e di imitazioni. Con questa precisazione, nel prosieguo del libro parleremo soprattutto di lavoratori e di dinamiche interne alle OMI, ma è bene tenere a mente questa nota di metodo, per evitare di ridurre il campo di applicazione dei discorsi che seguono. Tornando ai nostri tre tipi, una tale tripartizione è coerente con il discorso del filosofo inglese Martin Hollis (1998) relativamente al fenomeno delle donazioni gratuite di sangue:

Ci saranno sicuramente alcuni altruisti che donano il loro sangue senza curarsi degli altri, e lo farebbero anche se la raccolta fosse a livello mondiale. Ci saranno ugualmente alcuni egoisti psicologici che cercano di guadagnarsi approvazione sociale mostrando di avere uno spirito civico. Credo poi che esiste un gruppo di donatori il cui altruismo creativo è locale e condizionale, in base alla presenza di abbastanza altri soggetti. Per persone che fioriscono nelle reti di relazioni, la reciprocità generalizzata è un’espressione razionale di chi sono e a che cosa appartengono (Hollis 1998, p. 147).

Possiamo chiamare questo “abbastanza”, cioè questo numero minimo (o proporzione), il valore soglia (threshold value) di attivazione di una data persona. Avendo ogni agente di questo gruppo un differente valore soglia, allora esisterà una distribuzione di frequenze dei valori soglia, e quindi anche una distribuzione cumulativa. La distribuzione cumulativa F(x) misura, per ogni numero o proporzione x di persone che lavorano come

113

motivate, il numero, o la proporzione, di persone per cui quel numero è “abbastanza” alto per iniziare a cooperare. Quindi, se m rappresenta il numero di persone che sono motivate in t, il numero di persone che lavoreranno come motivate in t+1 è dato da F(m). La condizione di equilibrio è quindi:

F(m*)= m*

Graficamente, se si pone m sull’asse ascisse orizzontale e F(m) sull’asse verticale, i punti di equilibrio sono quelli in cui la distribuzione cumulativa incrocia la bisettrice (la retta di 45° lungo la quale i valori dell’ascissa e dell’ordinata sono uguali, e quindi i cooperatori non tenderanno nel tempo né ad aumentare né a diminuire), come rappresentato nella figura 5.1.

114

F(m) 50

nm’ e3

e2

e1 F(0)=m’ m 0

12

25 Figura 5.1

40

50

La funzione F(m) varia a seconda di come è fatta la distribuzione dei valori soglia delle persone componenti una organizzazione o una comunità. Quella rappresentata nella figura 5.1 è costruita su una distribuzione di valori soglia unimodale (come ad esempio, la distribuzione normale, che è la più comune tra le distribuzioni: quella a forma di "campana", dove la maggior parte dei valori sono concentrati attorno alla media). La proporzione di soggetti che hanno valore soglia uguale a 0 è data dal valore di F(0), cioè, nel grafico, dal punto di partenza sull’asse verticale della nostra funzione cumulativa. Se F(0) = 0 ciò vuol dire che non esistono lavoratori intrinsecamente motivati (che cooperano anche quando nessun altro, eccetto loro, cooperano), i membri del gruppo 1. Il grafico può essere letto anche in modo dinamico. In questo caso sull’asse orizzontale è rappresentato il numero di coloro che oggi

115

cooperano67, sull’asse verticale, invece, la distribuzione mi dice quanti sono coloro che domani coopereranno (in base ai valori soglia68). In questo contesto un punto di equilibrio (se stabile) è un punto in cui il numero di coloro che cooperano oggi è uguale al numero di cooperatori di domani: da un tale punto di equilibrio non ci si sposta, a meno di perturbazioni esterne. Se, per fare un esempio, tre persone hanno oggi valore soglia 2 e una ha valore soglia 3, qualora si osservassero oggi 3 lavoratori motivati, nel periodo successivo ci saranno altre 4 (3+1) persone disposte a cooperare, e così via. Quando il numero di persone che oggi si comportano da motivate è uguale al numero delle persone che lo saranno domani (graficamente tutti i punti nei quali la funzione F(x) interseca la bisettrice), siamo in un punto di equilibrio. Come si può notare dal grafico, a seconda della distribuzione dei valori soglia (e quindi dalla forma della funzione cumulativa F(x)), possono esistere più equilibri. Al tempo stesso, è possibile che esista anche un solo equilibrio, o addirittura casi in cui l’equilibrio diverso da zero non c’è, e cioè quando la distribuzione cumulativa giace sotto la bisettrice. Quest’ultimo è il caso che si verifica quando non ci sono persone del gruppo 1 (cioè soggetti con valore soglia 0), quando cioè nessuno comincia a cooperare se non vede qualcun altro farlo. Il caso degli equilibri multipli, come il diagramma rappresentato in figura 5.1, è però il più interessante. Il grafico presenta tre equilibri, di cui due stabili (e1, e3) ed uno instabile (e2). Con la stessa distribuzione dei valori soglia si può, quindi, a seconda del punto di partenza, trovarsi in una 67 Tale interpretazione si riferisce all’approccio di Granovetter, uno dei pionieri nell’applicazione dei modelli di massa critica ai fenomeni sociali: “Si assegni ad ogni persona un valore-soglia (il numero o la proporzione del gruppo che egli vuole vedere prendere una decisione, prima che anch’egli la prenda)… Se alcuni individui k hanno valore-soglia 0, questo numero di individui prenderà la decisione rilevante e in t=1 abbiamo k cooperatori. … Se esistono alcuni individui m con valore soglia minore o uguale a k allora essi si attiveranno e in t=2 avremo k+m cooperatori” (Granovetter and Soong 1983, p. 167). 68 Può essere utile ricordare che i valori soglia non sono un tratto caratteriale immutabile delle persone, ma qualcosa che varia ed evolve in base alla cultura di una data organizzazione.

116

situazione di alta (e3) o bassa (e1) proporzione di lavoratori motivati: se il processo inizia con un numero di cooperatori superiore alla "soglia critica" (che nel grafico corrisponde al valore di e2 sull'asse orizzontale: 25 nel nostro grafico) si convergerà nel tempo verso l'equilibrio alto (e3), altrimenti si tenderà verso quello basso (e1). Pensiamo, per restare all’esempio portato dallo stesso Schelling (1978), ad un seminario universitario a partecipazione facoltativa. Abbiamo 100 studenti che potrebbero frequentare il seminario. La domanda da cui parte Schelling è la seguente: come mai in certi anni il numero di studenti non diminuisce dopo la prima lezione o addirittura aumenta, mentre in altri anni, allo stesso seminario (stesso docente) dopo la prima lezione il numero tende drammaticamente a precipitare? Schelling ipotizza la seguente dinamica. Il primo giorno si presenta al seminario una percentuale x; il secondo giorno la percentuale aumenterà o diminuirà a seconda di due elementi: quanti abbandonano dopo il primo giorno, e i valori soglia degli studenti, cioè quanti compagni ogni studente vuol vedere per decidere di continuare a frequentare il corso (da cui dipende la forma della funzione cumulativa F(x)). Se, infatti, il primo giorno ne vanno pochi e i valori soglia sono bassi, probabilmente il numero di partecipanti è destinato a diminuire nel tempo: perché? Coloro che oggi hanno partecipato e che avevano un valore soglia leggermente più alto dei presenti, domani non verranno e i partecipanti “marginali” che sarebbero rimasti solo se quelli di ieri fossero stati presenti anche l’indomani, non vedendoli domani, dopodomani non verranno. E così via in un processo cumulativo. In questi casi si rappresenta questa dinamica dicendo che il tratto di curva rilevante si trova al di sotto della bisettrice (e che quindi porta a convergere nel tempo verso l'equilibrio basso e1). Se, invece, il numero dei presenti nel tempo 1 è maggiore di quello atteso (il primo giorno si supera la “massa critica”, e quindi il tratto

117

rilevante della curva si trova sopra la bisettrice), allora il numero dei presenti tenderà ad aumentare (ecco perché solo e1, ed e3 sono equilibri stabili, e non e269). Un ambito di applicazione dei modelli di massa critica è quello della cultura ecologica e delle azioni a essa connessa, come per esempio il riciclaggio dei rifiuti. Tenendo da parte per un momento le diverse leggi e i diversi sistemi di incentivi e di sanzioni nei diversi Paesi, ci chiediamo come mai i livelli di cultura ecologica e di comportamenti in materia ambientale sono così differenti nei vari Paesi, ma anche nelle diverse regioni all’interno di uno stesso Paese. Anche in questo caso possiamo spiegare questi fenomeni con la teoria della massa critica (e dei valori soglia). Quando, ad esempio, in una società oltre a non esserci una élite di cooperatori incondizionali che potrebbero operare da starter (coloro che hanno una cultura ecologica), anche l’intera cultura della società civile non è propensa alla cooperazione ecologica, e quindi i valori soglia sono bassi, i processi spontanei di cooperazione e di riciclaggio non iniziano nemmeno, e l’unico equilibrio è in zero. Se, invece, la cultura ecologica è bassa (valori soglia molto alti: ho cioè bisogno di vedere molte persone che fanno la raccolta differenziata per attivarmi), ma abbiamo un piccolo gruppo di cooperatori incondizionali (tipi 1), in una tale società è possibile raggiungere un numero di cooperatori maggiore di zero, sebbene rimanga basso. È questo il caso della “nicchia”: la cultura ecologica resta confinata in una nicchia fatta quasi unicamente di motivati intrinseci (tipi 1) e pochi “imitatori” (tipi 3), la piccola nicchia di cooperatori dura nel tempo, non si torna mai al livello 0, ma quella élite non è capace di trasformare l’intera cultura della popolazione.

69 Il punto e può essere un equilibrio solo nel caso che il processo inizi esattamente con quel 2 valore soglia (25 nel nostro caso), né più né meno, altrimenti si convergerà o verso e1 (se non si supera la soglia) o verso e3.

118

Se, infine la cultura ecologica è alta, e quindi i valori soglia non sono troppo elevati70, e sono presenti abbastanza tipi 1, i cooperatori incondizionali, allora, come nel caso della figura 5.1, è possibile raggiungere un equilibrio alto, con quasi tutta la popolazione che pratica la raccolta differenziata dei rifiuti. Tornando al nostro modello, la selezione di un equilibrio alto o basso, e cioè la riuscita o il fallimento di una campagna ecologica, culturale, o di un cambiamento organizzativo, dipende allora da più fattori:

a) Il numero delle persone intrinsecamente motivate (la numerosità del gruppo 1); b) La distribuzione dei valori soglia tra le persone del gruppo 3 (e quindi dalla forma della funzione F(x)), i cui comportamenti imitativi dipendono da quanti cooperatori sono presenti; e c) Il numero delle persone non intrinsecamente motivate (la numerosità del gruppo 2, i cui membri hanno un valore soglia infinito). d) Quante persone iniziano a cooperare all'inizio del processo.

Facciamo un altro esempio. Immaginiamo che una importante organizzazione internazionale voglia far partire un'azione ecologica (es. la pulizia di un parco con interventi giornalieri durante un intero mese) in due quartieri di due città di due Paesi diversi, Archimede e Erasmo. La campagna promozionale è la stessa, e, ipotizziamo, che l'organizzazione riesca a portare la stessa percentuale di persone (25%, per esempio) sia nella città di Archimede sia in quella di Erasmo. Che cosa ci dice a tale proposito

70

Si ricordi sempre che se una persona ha una alta cultura ecologica, avrà un valore soglia basso.

119

il modello di massa critica? Semplicemente che il successo potrebbe essere ben diverso nelle due città in base al valore soglia di quella popolazione (e quindi la forma della funzione cumulativa): il 25% della popolazione potrebbe essere sufficiente per superare la massa critica ad Erasmo, ma non ad Archimede, poiché in questa seconda città i valori soglia sono più alti e non scatta la reazione (l'azione non riesce: dopo il primo giorno il numero dei partecipanti diminuirà sempre più fino ad arrivare ad un numero di persone presenti nel parco pari ai volontari dell'organizzazione, cioè il numero del gruppo 1, più pochissimi imitatori). Tutto ciò per dire che anche nelle organizzazioni non basta la presenza di persone molto motivate perché scatti una cultura cooperativa: molto dipende dalla cultura media delle persone che vi lavorano. Non è pertanto certo che l'esser riusciti a creare una bella impresa sociale in una regione garantisca il successo di una simile impresa in un'altra regione, neanche quando i promotori, le tecniche e le forme organizzative sono le stesse. Il successo di qualsiasi azione cooperativa dipende soprattutto dalle persone, e dalle loro culture, e da che cosa accade il primo giorno: molto del successo di una iniziativa dipende dal suo lancio, dal primo giorno. In tutto ciò resta comunque vero che un fattore chiave della dinamica di questo processo è il numero delle persone intrinsecamente motivate (i membri del nucleo).71 Nel prossimo paragrafo ci chiediamo quindi che cosa può accadere se alcuni cambiamenti nell’organizzazione ne riducono il numero, poiché 71 Come già menzionato, l’importanza delle motivazioni intrinseche nelle organizzazioni è stata sottolineata da numerosi studiosi come Frey, o Le Grand. In particolare, Frey (1997) distingue tra motivazioni intrinseche ed estrinseche, mentre Le Grand (2003) parla di soggetti ‘knavish’ (opportunisti) e ‘knightly’ (leali). Lo scopo di entrambi gli studiosi è disegnare schemi di incentivazione che permettano ai lavoratori di mantenere alte le motivazioni. La nostra analisi delle motivazioni nelle OMI, sebbene condivida i principi di base di queste teorie, enfatizza un punto differente, e cioè la relazione tra i membri intrinsecamente motivati e altri membri non intrinsecamente motivati, ma neanche interessati solo a motivazioni estrinseche, che attraverso meccanismi di imitazione giocano un ruolo chiave nel determinare i punti di equilibrio (o la cultura) che possono essere raggiunti in una data OMI.

120

alcuni del primo gruppo scelgono l’opzione exit, come abbiamo visto nel capitolo precedente.

3. Alcuni scenari possibili (e alcune avvertenze per i manager)

Torniamo all’exit e voice. Come visto, se non c’è la possibilità di protestare, le personepiù motivate sono le prime che minacciano l’uscita. Se alcuni del gruppo 1, cioè dei più motivati lasciano l’organizzazione, l’effetto sulle persone del gruppo 3,

i

cui

comportamenti

dipendono

da

quanti

motivati

operano

nell’organizzazione, potrebbe essere molto significativo. Nel peggiore dei casi, il punto di equilibrio di alto livello potrebbe anche essere distrutto in seguito al’exit di alcuni soggetti intrinsecamente motivati (gruppo 1). Nell’esempio qualitativo rappresentato nella figura 5.1, nella nostra OMI abbiamo un totale di 50 lavoratori, di cui circa 10 (indicati dal segmento m’ sull’asse verticale nel grafico) sono intrinsecamente motivati (gruppo 1) e circa 10 (il segmento nm’), sono soggetti non motivati (gruppo 2): tutti gli altri (circa 30) sono gli “imitatori” (i componenti il gruppo 3). Abbiamo due equilibri stabili (12 [e1] e 40 [e2] lavoratori): si può finire nell’uno o nell’altro a seconda delle condizioni iniziali, e dal superamento della massa critica all’inizio del processo. In questo esempio gli equilibri sono tre (due stabili e uno instabile), ma ci sono casi, come nella figura 5.2, in cui l’equilibrio è unico, o addirittura può non esserci (o meglio è semplicemente uguale a zero). Tutto dipende dalla distribuzione dei valori soglia, e quindi della cultura di una data organizzazione o comunità.

121

F(m) 50

nm’ A

B

m’ m 40

0

50

Figura 5.2

In questo secondo esempio, la curva A mostra il caso in cui c’è solo un equilibrio (positivo), mentre la curva B mostra il caso in cui non c’è un equilibrio con una quota positiva di persone che lavorano come motivate. In quest’ultimo caso, nessuno coopera, quindi il processo semplicemente non comincia. Il livello, quindi, di cooperazione che si afferma in una OMI è strettamente collegato al numero delle persone intrinsecamente motivate, attraverso la distribuzione dei valori soglia tra le persone il cui comportamento è invece condizionale, perché dipende da quante persone motivate sono presenti. Comunque l’elemento decisivo resta la presenza di almeno alcune persone intrinsecamente motivate, altrimenti il processo cooperativo non parte. La presenza di persone appartenenti al gruppo 1 è quindi condizione necessaria perché il processo virtuoso possa attivarsi: è questo il messaggio che abbiamo enfatizzato nel discorso fin qui svolto. Al tempo stesso, la

122

motivazione dei membri del gruppo1 non è una condizione sufficiente perché il processo duri nel tempo e sia robusto di fronte alle inevitabili crisi, è solo condizione necessaria. C’è, infatti, un ruolo cruciale giocato dalla distribuzione dei valori soglia, e quindi dagli imitatori. Se, infatti, i motivati sono pochi, e non si riesce a creare una cultura media di cooperazione nell’organizzazione, l’OMI è molto vulnerabile e fragile. Una buona governance deve dunque saper puntare sulle motivazioni dei soggetti intrinsecamente motivati trascurando tutti gli altri, ma è necessario accudire coltivare e investire anche sulla cultura media dei tipi intermedi i quali, sebbene siano cooperatori condizionali e imitatori, sono anche coloro dai quali dipende la cultura generale dell’OMI. Infatti, un buon numero di tipi 3 con un basso valore soglia (che quindi cooperano facilmente) all’interno dell’organizzazione (caso ben rappresentato dalla curva A) la rende più robusta di fronte alle crisi e crea le precondizioni affinché possa scattare e mantenersi la cooperazione in una data organizzazione. Vediamo allora che cosa accade quando la OMI attraversa una crisi generazionale o comunque una crisi che fa scendere la qualità ideale dell’organizzazione. Abbiamo visto che se non ci sono abbastanza possibilità di voice i più motivati sono i primi che minacciano l’opzione “exit”. Ci si potrebbe chiedere perché questo accada, dal momento che i più motivati sono disposti ad andare avanti anche da soli (sono cioè quelli disposti a contribuire a quel particolare bene pubblico che è il “clima” cooperativo dell’organizzazione, anche se e quando gli altri non lo fanno). Occorre tener presente che questi soggetti del gruppo 1 vanno avanti anche da soli solo se e fino a quando il livello della qualità ideale dell’OMI rimane è considerato da loro “abbastanza” alto72. Altrimenti non trovano più

72

L’abbastanza dunque opera anche nei soggetti del gruppo 1, ma non è un abbastanza condizionato dalla cooperazione degli altri, ma dalla qualità ideale della OMI: si va avanti non facendo conti, ma finché ne vale la pena, finché il gioco vale il consumarsi della candela.

123

le ragioni per il loro “committment”. È come se il soggetto intrinsecamente motivato avesse una componente psicologica tra i suoi pay-off che, se ha un valore sufficientemente alto, lo spinge a cooperare nell’organizzazione in modo incondizionale, anche conscio del free-riding che i non-motivati possono fare nei suoi confronti. Questo valore non è però un parametro costante, ma una variabile che risente dell’ambiente, evolve a cambia nel tempo. In altre parole, è come se i soggetti intrinsecamente motivati avessero un “vincolo identitario” o “ideale”: se vedono, o pensano, che l’organizzazione sta perdendo (magari a causa della cultura del nuovo management) l’identità ideale originaria, quella componente intrinseca che li ha spinti per anni a “non fare i conti” nel misurare il loro impegno nella OMI può abbassarsi di molto, o addirittura sparire. Con quali effetti? Un primo

effetto

potrebbe

essere

appunto

l’exit,

cioè

l’abbandono

dell’organizzazione da parte di queste persone (i vecchi fondatori, ad esempio, che vanno in pensione o lasciano). Non è però necessario ipotizzare questa soluzione estrema. È sufficiente che la crisi ideale riduca il valore intrinseco sotto una certa soglia, facendo sì che la cooperazione di quelle persone non sia più incondizionale. Nel nostro modello, è come se il lavoratore e/o socio passi dal gruppo 1 al gruppo 3, diventando così un cooperatore condizionale, che coopera in base alla convenienza relativa dei calcoli costi-benefici. Espressioni popolari quali “fesso sì ma fino ad un certo punto”, o “non ne vale più la pena”, sono segnali eloquenti che si sta passando dal gruppo 1 al gruppo 3. Ma se e quando i più motivati lasciano l’organizzazione (sia letteralmente, o trasformandosi in cooperatori condizionali), l’effetto sugli altri membri è considerevole. Nel caso peggiore, l’equilibrio con un alto livello di persone motivate potrebbe addirittura scomparire, come ci fa vedere la seguente figura:

124

F(m) 50

nm’

m’ 0

m 12

25 Figura 5.3

40

50

Supponiamo che nel primo periodo si raggiunga l’equilibrio con un alto numero di cooperatori (es. 40). Immaginiamo che una crisi motivazionale

faccia

abbassare

il

livello

di

qualità

ideale

dell’organizzazione, in modo che i più motivati, quelli più interessati alla qualità ideale lasciano l’organizzazione (o “cambiano gruppo”). Se i più motivati se ne vanno (letteralmente o solo cambiando gruppo e tipo di impegno), la curva dei valori soglia si abbassa.73

73

Sicuramente il punto di partenza della curva sull’asse verticale è più basso, a causa del minor numero di tipi 1; poi, a seconda che ci sia un uscita o un cambiamento nelle motivazioni

125

Nella figura 5.3 mostriamo il caso in cui pochi membri (circa 6, nel nostro esempio) intrinsecamente motivati lasciano l’OMI: in questo caso non sarà più possibile raggiungere l’equilibrio con un alto numero di cooperatori, in quanto questo equilibrio semplicemente non c’è più. L’uscita di soli 5 o 6 membri intrinsecamente motivati, porta ad un nuovo equilibrio composto da soli 6 o 7 lavoratori motivati invece di 40 come nella situazione precedente! Ci sembra un risultato di una certa rilevanza. L’abbandono (exit) di pochi soggetti interiormente motivati ha un effetto amplificato sull’intera dinamica organizzativa74. È importante notare che una piccola variazione nel nucleo delle persone più motivate, può generare effetti notevoli.

Il discorso fin qui svolto ci offre la possibilità di riflettere su aspetti importanti nella dinamica motivazione delle organizzazioni, nelle OMI in modo particolare. La situazione che abbiamo appena illustrato ci rivela una dimensione cruciale quando si ha anche a fare con organizzazioni a movente ideale: se i fondatori, o i soggetti motivati intrinsecamente, sono una minoranza, e se vogliono dar vita ad una organizzazione robusta, capace di reggere di fronte alle crisi, non debbono preoccuparsi soltanto delle proprie motivazioni alte (elemento importante, ovviamente), trascurando la cultura dei tipi intermedi, degli imitatori (i tipi 3): se infatti la cultura cooperativa di questi soggetti è molto bassa (i valori soglia sono cioè alti) l’OMI è molto fragile ed esposta a crisi gravi. È sufficiente la pensione, o l’uscita, di pochi membri del primo gruppo perché l’intera cultura si perda. È questo il caso di organizzazioni,

dalle

cooperative

sociali

all’impresa

famigliare

dell’Economia di Comunione, nelle quali quando il fondatore lascia nell’impresa rimane poco o nulla della sua cultura ideale originaria. (quindi tipi 1 che diventano tipi 3), la curva subirà una traslazione verso il basso o un cambiamento di forma. Su questo cfr. Schelling 1978. 74 Non è comunque sempre detto che l’equilibrio alto (ammesso che esistesse prima della crisi) vada distrutto, sebbene questa possibilità esista.

126

Un esempio storico importante è quello di Adriano Olivetti: con il suo carisma personale Olivetti ha dato vita ad una delle esperienze di impresa più innovative del XX secolo, anche dal punto di vista sociale e relazionale; al tempo stesso, dopo la sua morte quell’esperienza di impresa di comunità non è continuata, anche (non solo ovviamente) per la mancanza di una cultura media distribuita tra più persone, e non solo nel fondatore e in pochissimi collaboratori. Quando, invece, quel o quei fondatore/i lavora/no nell’alzare la cultura media dell’intera impresa, a tutti i livelli, creando le possibilità affinché tutti i soggetti dell’organizzazione possano, in qualche misura, far propria quella data cultura, in questi casi l’impresa resiste molto meglio agli shock dovuti al cambiamento generazionale, o all’uscita dei membri intrinsecamente motivati. È questo il caso illustrato dalla curva A nella figura 5.2, che rappresenta la situazione in cui nella OMI sono presenti molti soggetti appartenenti al gruppo 3 e con un basso valore soglia (che si attivano facilmente), gli effetti sono notevoli, ma non così devastanti, come vediamo dalla figura che segue:

127

F(m) 50

nm’ A

A’

m’ m 0

12

25

50

Figura 5.4

Anche qui una piccola riduzione di membri appartenenti al gruppo 1 porta a delle conseguenze importanti, ma non radicali come nel caso precedente (dove si passava, nel nostro esempio, da 40 a 7 cooperatori). Tutto ciò per dire quanto sia importante per la OMI saper tenere nella dovuta considerazione sia i membri del gruppo 1 che quelli del gruppo 3, che se presenti in buon numero, e soprattutto con un basso valore soglia (persone cioè che si attivano in fretta), aiutano a gestire bene i cambiamenti generazionali, o limitare i danni nei tempi di crisi. Se invece l’organizzazione

punta

solo

sui

tipi

1,

curando

e

investendo

motivazionalmente soltanto sull’élite di soggetti più motivati, si possono raggiungere anche alti equilibri nei momenti felici, ma nei tempi di crisi l’organizzazione diventa, come abbiamo visto, molto fragile, ed esposta alla catastrofe. Ci sono infine due corollari del discorso che stiamo facendo che assumono una certa importanza a conclusione del discorso appena svolto.

128

Il primo riguarda l’importanza di saper individuare da quale gruppo (1, 2 o 3) proviene la protesta. Infatti la protesta dei tipi intrinsecamente motivati (i membri del gruppo 1) va accolta e svolge sempre un ruolo importante, perché è normalmente tesa al recupero della qualità ideale e se produce soltanto l’exit di chi esprime quella protesta può produrre gli effetti che abbiamo appena analizzato. Diverso il discorso per la protesta che proviene dal gruppo 3, poiché in questo caso essa non nasce dal desiderio di recupero della qualità ideale della organizzazione, ma spesso solo da interessi privati e opportunistici. Una gestione attenta è quella che sa distinguere da chi proviene la protesta, e quindi riconoscere la protesta che ha un potenziale costruttivo per l’organizzazione, da quella che non lo ha, e gestire questi due tipi di protesta in modo sostanzialmente diverso: una crisi può deteriorare anche perché non si è capaci di capire che tipo di protesta sta emergendo all’interno di una OMI, non si ascoltano le proteste “buone” e si dedica tempo ed energie all’ascolto di quelle “cattive” e distruttrici. Alcune imprese falliscono perché non si ascoltano le proteste buone, altre falliscono perché si ascoltano le proteste cattive. Esistono alcuni segnali o indicatori per capire, con una buona probabilità, che una protesta è buona. Innanzitutto, le proteste sono pubbliche e trasparenti, e non assumono la forma del pettegolezzo o delle mormorazioni lungo i corridoi e sottovoce. Resta sempre vero l’antico adagio, sulla differenza tra l’amico e il nemico: l’amico quando sbagli lo dice a te, il nemico quando sbagli lo dice altri (e in modo non pubblico e trasparente). Inoltre, chi esprime questa buona protesta rischia in prima persona e si assume le responsabilità delle proprie azioni e parole. Infine la voice buona è costosa per chi la esprime, poiché non è mai soltanto una richiesta di cambiamento rivolta agli altri, senza che questo cambiamento e maggiore impegno investano anche colui che protesta. Quando invece la protesta avviene in modo non pubblico e trasparente, quando chi protesta non è pronto a pagare di persona e pretende che siano solo gli altri a

129

cambiare, abbiamo quasi certamente a che fare con una protesta che non tende al ripristino della qualità ideale perduta, ma che nasce da interessi personali o, in ogni caso, da qualcuno che mette al primo posto le proprie esigenze e visioni soggettive e non il bene comune. Sta

anche

in

questa

capacità

di

discernimento

l’arte

dell’amministrare organizzazioni complesse come quelle che stiamo qui esaminando, poiché è molto difficile individuare il tipo di voice. Occorre infatti tener ben presente che nelle stesse persone possono convivere proteste giuste e proteste sbagliate. I tipi 1, 2 e 3, infatti, non vanno letti in modo rigido e statico, ma come dei modelli: le persone reali si comportano, in alcune scelte, come tipi 1, inoltre come tipi 2, e in altre ancora magari come tipi 375. Anche se una persona è tendenzialmente di tipo 1, questa può esprimere in certi momenti proteste sbagliate, che non vanno accolte sempre e in ogni caso: occorre cioè evitare che i responsabili di una OMI considerino che certe persone esprimono sempre proteste buone, e altre sempre proteste sbagliate. Anche evitare questi errori è arte di amministrare le OMI. In secondo luogo, dal nostro modello emerge che anche quando l’OMI si assesta nell’equilibrio cooperativo (l’OMI funziona bene e la sua cultura è cooperativa), esiste normalmente una certa quota di soggetti noncooperatori. Non occorre infatti confondere la presenza di una buona cultura cooperativa, con l’unanimità: essendo le organizzazioni realtà dinamiche ed evolutive, è ingenuo pensare che il 100% dei membri delle OMI siano in atteggiamento cooperativo; ed è ancora più ingenuo pretenderlo. La buona gestione delle OMI comporta il saper gestire anche quella quota di noncooperatori presenti al suo interno, senza la pretesa di convertirli (anche 75

Non dobbiamo dunque avere una lettura semplicistica e quindi errata dei “tipi”: per certe dimensioni della vita dell’OMI il tipo può coincidere con la persona (il fondatore, ad esempio), ma per molte altre dinamiche in ogni persona normalmente coesistono i tre tipi, e si attivano in base ai contesti, gli umori o le fasi della vita. Non tutte le proteste di quelli che sono normalmente dei “tipi” 1 debbono essere considerati per ipotesi o per “natura” sempre costruttive e buone.

130

perché non sono sempre le stesse persone ad essere non-cooperative: in certe scelte i tipi 3 possono essere alcuni, e in altre scelte possono essere altri). Occorre evitare che si cada nell’errore, molto comune nelle organizzazioni, di ascoltare sempre e solo le proteste che provengono da alcune persone, e mai quelle che provengono da altri. Tutto ciò per dire che nelle realtà storiche il mysterium iniquitatis esiste, e le organizzazioni maturano quando da una parte evitano il rischio, sempre presente, del cinismo, che spinge a guardare gli altri sempre come potenziali opportunisti e disonesti; dall’altra a non sottovalutare, per irenismo, la presenza di comportamenti non-cooperativi anche nelle OMI più positive e di successo, perché anche in questi casi felici avremo sempre la presenza di soggetti in dissonanza con la cultura organizzativa, soggetti che non sono sempre gli stessi.

4.Lealtà

Dall’analisi precedente è emerso che il non prestare attenzione alle motivazioni intrinseche, o il non saperle riconoscere nelle persone, può portare la OMI in una dinamica cumulativa che diventa una sorta di trappola di povertà. La domanda allora diventa: come prevenire queste trappole di povertà? Il suggerimento di Hirschman in casi come questo è la lealtà (loyalty). Per comprendere meglio il ruolo della lealtà, bisogna partire dalla protesta (voice). La protesta è definita come “ogni tentativo di cambiare, invece che di evadere da una situazione discutibile, attraverso azioni personali o collettive verso il management, appelli ad un’autorità più alta con l’intenzione di forzare un cambiamento del management, o attraverso vari altri tipi di azioni o proteste, incluse quelle per la mobilizzazione dell’opinione pubblica” (Hirschman 1982[1970], p. 30). Infatti, per evitare

131

di perdere i membri chiave, che, come visto, sono i primi che minacciano di lasciare l’OMI in caso di un abbassamento di qualità ideale, e per fare così in modo che essi rimangano scegliendo l’opzione ‘lealtà’, invece dell’exit, è necessario che questi membri possano intravedere “miglioramenti che arrivano come risultato di azioni poste in essere da loro stessi, o da altri”(Ib. p. 37). Quando i membri (o gli stakeholders) sono leali, la protesta diventa un’alternativa all’exit. La possibilità di selezionare l’opzione ‘lealtà’ da parte dei membri intrinsecamente motivati, è quindi, subordinata alla speranza di recuperare la qualità perduta. La possibilità della scelta della lealtà richiede quindi l’ascolto della protesta da parte degli altri: “La decisione di andarsene, spesso viene presa alla luce delle prospettiva in merito all’uso efficace della protesta”(ib. p. 39). In altre parole, l’uscita rappresenta per le persone intrinsecamente motivate

una

decisione

estrema,

che

si

verifica

solo

quando

nell’organizzazione non c’è più accoglimento della protesta. Uscire a volte non è una scelta ottima, ma una scelta di ripiego alla quale si è costretti perché non si intravede la speranza di recupero di qualità ideale, a causa del non ascolto della protesta. La lealtà di chi protesta ma non esce, aiuta invece l’organizzazione ad evitare il deterioramento cumulativo. Come può allora essere favorita la lealtà nelle organizzazioni e specialmente nelle OMI? Una governance pluralistica e partecipativa che lascia spazio alla protesta favorisce nelle persone intrinsecamente motivate la speranza di ravvivare quella qualità ideale che sta diminuendo o che si sta perdendo. Questa speranza riaccende il senso delle motivazioni delle persone intrinsecamente motivate (i tipi 1) e dà loro speranza e buone ragioni per continuare a lavorare nell’OMI. Lasciare spazio alla (buona) protesta, quindi, allontana l’opzione exit e accresce la possibilità della lealtà.

132

Se, quindi, quanto abbiamo cercato di dimostrare in questo capitolo è quantomeno plausibile, se cioè il fattore chiave che determina la cultura organizzativa è la valorizzazione delle persone intrinsecamente motivate, allora l’arte più importante e più difficile per i responsabili di una OMI diventa l’arte di ascoltare la protesta delle persone motivate preoccupate per la qualità ideale dell’organizzazione, e rendere loro possibile restare anche quando percepiscono una crisi della qualità ideale, evitando così processi cumulativi di deterioramento.

5. Una conclusione

Quando una organizzazione è capace di dar vita ad una governance pluralista, ascolta le proteste (buone) e non emargina i soggetti complicati e scomodi che sollevano istanze ideali, allora abbiamo detto è possibile che la voice non produca l’exit ma la lealtà. Un segnale di capacità di ascolto della voice buona è il non considerare ogni portatore di istanze ideali come qualcuno che ha “il pallino”, o semplicemente come un rompiscatole (anche quando si comportasse effettivamente come tale). Una OMI deve crescere nella capacità dei suoi responsabili nell’arte di “coltivare i pallini”, perché spesso nei pallini si nascondono sviluppi futuri, e nuove motivazioni ideali che rendono la OMI viva e “carismatica”. Se infatti la protesta è “ogni tentativo di cambiare una situazione difficile” (Hirschman 1982 [1970], p. 30), allora se chi protesta intravvede la possibilità reale di un miglioramento della qualità può decidere di restare, e quando fa questo la sua protesta si trasforma in “lealtà” e rafforza la OMI. La lealtà è però molto esigente per l’organizzazione perché richiede la speranza in chi protesta che le sue istanze siano ascoltate: se invece questa speranza manca, allora l’exit può diventare l’unica alternativa, con le conseguenze che abbiamo visto, e discusso.

133

In conclusione, le organizzazioni a movente ideale, vivono anche e, per certi versi soprattutto, di motivazioni intrinseche: sono quelle richieste dalla società civile, dagli stake e need holders, e che non possono essere “acquistate” sul mercato del lavoro, ma solo selezionate con meccanismi indiretti. Le motivazioni sono incarnate nelle persone, e non in tutte: solo quelle portatrici di un “capitale motivazionale” che è stato costruito in anni o decenni, e che non ha sostituti di mercato. Il discorso che abbiamo cercato di articolare in questo scritto guarda alle motivazioni umane come una forma di ricchezza, come una misura della civiltà di ogni organizzazione umana e di ogni comunità. Le crisi – di ogni natura – tendono di per sé a ridurre questa ricchezza, e a far perdere così gradi di libertà. Le crisi diventano insostenibili quando distruggono il capitale simbolico e identitario delle persone e delle organizzazioni, un capitale che, soprattutto nelle OMI, non può essere offerto né da prestiti agevolati né da sussidi statali. In questi tempi di crisi speriamo che le considerazioni che abbiamo suggerito in questo capitolo possano essere di qualche aiuto a chi vive nelle organizzazioni, ama gli ideali e le passioni umane, e non vuole perderla sottovalutando le crisi e i conflitti.

134

CAPITOLO VI

PER UNA SEMANTICA DELLA RELAZIONI NELLE OMI: LE ORGANIZZAZIONI COME NETWORKS

Oggi ci rendiamo sempre più conto che niente succede isolatamente; fenomeni ed eventi perlopiù connessi con innumerevoli altri pezzi di un complesso puzzle universale, si causano l’un l’altro e interagiscono tra loro.

Ci accorgiamo

ormai di vivere in un mondo piccolo, in cui ogni cosa è collegata alle altre … Siamo arrivati a capire l’importanza delle reti (Barabasi, 2004 pag. 8)

1. Introduzione

Il discorso fatto nel precedente capitolo apre la pista per una riflessione sull’organizzazione vista come una rete, dove i nodi sono rappresentati dalle persone che lavorano al suo interno: essi sono interconnessi tra di loro, in modo più o meno fitto, attraverso dei link. La vita in comune può essere letta come networks e links. Le stesse organizzazioni possono essere pensate come una rete sociale, dove non valgono solo le relazioni gerarchiche e formali, ma anche legami che connettono tra di loro i membri dell’organizzazione al di là degli organigrammi e delle mansioni. Anche il mercato, sebbene in un modo tutto suo, può essere letto come un grande e complesso network. Lo studio di

135

un’organizzazione attraverso le reti ci permetterà di cogliere alcuni aspetti, legati alle tipologie di legami che si instaurano anche tra i membri di una OMI, non sempre immediatamente visibili, come nota uno dei maggiori studiosi dei network:

dobbiamo rimuovere l’involucro. L’obiettivo che abbiamo davanti è comprendere la complessità. Le reti sono soltanto lo scheletro della complessità, i meccanismi su cui si articolano i processi che fanno pulsare il mondo. Per descrivere la società dobbiamo rivestire i link della rete sociale con le effettive interazioni dinamiche fra le persone (Barabasi 2004, p. 236).

Guarderemo alle diverse tipologie di reti, agli effetti di incentivi sulle persone che all’interno della rete rivestono ruoli particolari, e ai beni relazionali che possono svilupparsi e diffondersi all’interno delle reti che nelle organizzazioni sono, soprattutto, rapporti tra persone, reti di relazioni umane.

2. Reti e organizzazioni

I link rappresentano i nessi che collegano le diverse persone (rappresentate dai nodi) tra di loro all’interno dell’organizzazione. Essi sono le strade di diffusione delle informazioni, delle nuove conoscenze, ma anche dei processi di imitazione di comportamenti cooperativi: se una persona ha legami (link) con molti membri dell’organizzazione, l’effetto delle sue azioni raggiungerà tanti. Se è isolato, i suoi comportamenti non saranno linkné imitati.

osservati,

136 Figura 6.1

Per comprendere qualcosa delle dinamiche che si possono innescare nei momenti di crisi, può essere necessario, oltre ad individuare i diversi tipi di soggetti, capire anche la semantica delle relazioni tra i diversi soggetti dell’OMI. È ormai noto tra coloro che si occupano di management che l’organigramma e la struttura organizzativa formale di un’organizzazione normalmente dice poco della distribuzione informale o sostanziale dei centri di potere e soprattutto della leadership. Solitamente, anche in piccoli gruppi, i responsabili delle organizzazioni sono spesso sorpresi dai sentieri di collaborazione che risultano diversi da quello che si immagina quando si stabiliscono ruoli e gerarchie, e dai sentieri suggeriti dagli organigrammi76. Per fare un esempio, le figure che seguono riportano rispettivamente un organigramma e un’analisi di come è effettivamente composta la rete delle

76

Su queste dinamiche cf. Cross R. e Parker A. (2004), p. 7-8.

137

relazioni in una data organizzazione. La grammatica (organigramma) non coincide con la semantica delle relazioni in una comunità o organizzazione, soprattutto quando abbiamo a che fare con realtà complesse.

Figura 6.2

138

Figura 6.3

Dalle figure 6.2 e 6.3 possiamo vedere come il nodo fondamentale nell’organizzazione, che riesce a connettere due mondi che altrimenti non comunicherebbero è Cole, il quale, secondo l’organigramma non occupa alcun

posto

di

rilievo

nella

struttura

formale

e

gerarchica

dell’organizzazione. Egli infatti rappresenta il punto di connessione tra la divisione di produzione e il resto dell’organizzazione. Non conoscere la semantica

(e

non

solo

la

grammatica)

delle

reti

di

relazioni

dell’organizzazione può portare a prendere decisioni sbagliate, che non produrranno gli effetti sperati, semplicemente perché esse non coinvolgono le persone che all’interno della rete ‘fanno la differenza’. Una comprensione, invece, più profonda e attenta della rete sociale legata all’organizzazione può portare ad assegnare i compiti giusti alle persone giuste, aumentando così sia l’efficienza (fare le cose ‘bene’), sia

139

l’efficacia (fare le cose ‘giuste’ e che servono) dei processi. Riconoscere, per restare nel nostro discorso sulle OMI, i tipi 1, e collocarli in posti strategici (e non necessariamente gerarchicamente superiori), potrebbe aiutare l’organizzazione a creare un ambiente collaborativo e produttivo, innescando le dinamiche di massa critica viste nel capitolo precedente. Ma c’è di più. Nell’esempio in questione, l’analisi della rete ci fa vedere chiaramente che l’ufficio produzione (il sottogruppo in alto nella figura 6.3) è isolato dal resto dell’organizzazione. In realtà, pochi mesi prima questo ufficio era stato spostato in un altro piano dell’edificio, e si erano venute così eliminando le occasioni di incontro spontaneo tra i membri di questo ufficio e tutti gli altri. Verificando lo stato delle cose, i managers hanno deciso di aumentare il numero di incontri formali, per supplire alla mancanza di altre forme di incontro. Un errore che normalmente si commette quando non si considerano le morfologie delle reti, è pensare che tutti dovrebbero essere legati a tutti nell’organizzazione, in modo che le comunicazioni e le innovazioni arrivino a tutti nel minor tempo possibile; ma tutto ciò, soprattutto nelle organizzazioni complessi (molti nodi e link) è impossibile, e non è neanche desiderabile. È infatti provato che accrescere indistintamente i legami e la comunicazione all’interno dell’organizzazione può portare a rigidità e a inefficienze gravi. Nel prossimo paragrafo cerchiamo di approfondire il discorso sulle reti soffermandoci sulle tipologie più note.

3.Le tipologie di reti

Le reti possono assumere almeno tre tipologie.

140

Fig. 6.4: Rete a stella

La forma di rete più semplice è quella “a stella”, nella quale tutti i nodi sono in qualche modo collegati con un nodo centrale, ma hanno pochissimi legami tra di loro: in altre parole in queste reti coefficiente di clustering (che l’indice che ci dice quanto sono compatti i legami all’interno della rete) è 0, e c’è un’unica persona in grado di tenere insieme i nodi, mentre è inesistente la comunicazione e la relazionalità “laterale”, tra i singoli membri77. È questo il caso di organizzazioni nate attorno ad una persona carismatica, dove i membri hanno un rapporto di fedeltà e lealtà con il fondatore, ma non esistono rapporti tra i vari membri dell’organizzazione o comunità. Nell’organizzazione c’è ordine e anche una certa efficienza, ma, come nei casi che abbiamo già analizzato nel capitolo precedente, queste organizzazioni sono molto fragili e vulnerabili, poiché una volta che il leader viene meno, i vari membri si ritrovano incapaci di sviluppare rapporti tra pari, e si precipita spesso da una situazione di grande ordine e efficienza, ad una di stallo e di blocco relazionale.

77

Cf. Barabasi L. (2005), p. 51-52

141

Fig. 6.5: Rete casuale

Situazione speculare rispetto alle organizzazioni a stella c’è la “rete casuale”, nella quale i legami tra i diversi nodi sono del tutto casuali ed equiprobabili. In questo tipo di reti non c’è un nodo che ha legami particolari con altri nodi, e che quindi ha un posto di rilievo o di leadership nell’organizzazione. Esempi di tale morfologia di relazioni sono gruppi spontanei di amici dove ci aggrega per breve tempo, e le dinamiche relazionali non seguono un particolare ordine né formale né informale (a meno che il gruppo non diventi stabile, e allora nel tempo un certo ordine normalmente emerge).

Fig. 6.6: rete small world

142

Infine, come vediamo nella figura 6.6 abbiamo la tipologia di rete detta anche “small world” (oppure, in un linguaggio più tecnico, network a invarianza di scala78), in cui si possono identificare alcuni nodi particolari, detti hub (come per gli aeroporti), che possiedono un numero maggiore di legami rispetto ad altri nodi. Il mondo di internet è un esempio idealtipico di small world: la sua architettura è dominata da pochi nodi, come per esempio Google, Yahoo, Amazon, ecc., altamente connessi. In realtà sembra, che non solo il web, ma anche le reti delle relazioni sociali, le reti che esistono in natura, le reti cellulari, e le reti delle infrastrutture e dei trasporti (come per esempio le reti di aeroporti o di stazioni ferroviarie in una nazione) fatte possono essere ben rappresentati come small world network. Se prendiamo, ad esempio, la distribuzione degli aeroporti in una nazione o in un continente, notiamo che ci sono alcuni grandi aeroporti che fanno da hub e tutti gli altri aeroporti sono interconnessi attraverso questi hub. Le reti small world sembrano essere quelle che più fedelmente rappresentano l’andamento del mondo reale. Cosa rappresentano le tre tipologie di reti all’interno di un’organizzazione? Le reti a stella rappresentano un’organizzazione verticistica e molto gerarchica, dove tutte le connessioni sono in mano ad un solo soggetto. Nelle organizzazioni a movente ideale solitamente questo soggetto è il fondatore, che ha grandi ideali e progetti, ma che non favorisce la fraternità e l’amicizia tra i membri. Queste organizzazioni risultano forti e fragilissime nello stesso tempo: forti finché è il fondatore a dirigerle, ma possono crollare in men che non si dica quando il fondatore lascia, proprio perché tutti i legami erano con questa figura. 78

In una rete casuale, come quella della figura 6.5, i nodi hanno quasi tutti lo stesso numero di link, e quindi una rete casuale ha una tipica scala rappresentata dal nodo medio, cioè quello che ha un numero medio di link. Nelle reti small world, invece, non c’è l’idea di un numero medio di link: ciò che si può osservare è una gerarchia di nodi che va dai poco diffusi hub (con tanti link), agli innumerevoli piccoli nodi. Per questa caratteristica tali reti vengono anche dette a invarianza di scala.

143

La seconda tipologia, quella casuale, è la meno frequente in natura: per un’organizzazione rappresenterebbe il regno del caos. Se i legami, infatti, ci sono, ma sono casuali, risulta difficile governarla. Se, in una tale organizzazione, alcune persone vengono meno altri membri vengono influenzati in maniera casuale da queste defezioni, e quanto una organizzazione ne risente è proporzionale a quanto i nodi sono legati tra di loro, cioè al valore del coefficiente di clustering. Più le persone sono legate tra di loro, più una crisi si diffonde indistintamente su tutta l’organizzazione. Veniamo alle reti small world: in esse, come abbiamo detto, sono presenti degli hub che sono più connessi rispetto ad altri nodi. Tale tipo di rete, oltre ad essere, come abbiamo detto, la più comune delle reti che spontaneamente si formano in natura o a livello sociale, rappresenta anche la più resistente tra le reti. In un’organizzazione la presenza di una rete small world significa l’esistenza non di un solo centro di potere e di coordinamento, ma più centri, i cosiddetti connettori, che sono quelle persone che più di altri stringono legami, alle quali più facilmente ci si rivolge per risolvere un problema. Barabasi parla dei connettori, o hub, come nodi di una rete che hanno una fitness elevata:

In un ambiente competitivo ogni nodo ha una certa fitness. La fitness è la nostra abitudine a stringere più amicizie rispetto ai nostri vicini; è l’abilità di un’azienda di attirare e mantenere più clienti rispetto ad altre aziende; è la bravura di un attore che lo fa apprezzare e ricordare più di altri; è la capacità di una pagina web di farci tornare quotidianamente sul suo contenuto anziché su quello di altri miliardi di pagine che si contendono la nostra attenzione (Barabasi, 2005, p. 105).

144

Ciò che succede solitamente nelle reti è che i nodi con queste caratteristiche, e quindi con una fitness più alta, vengono ‘linkati’ più frequentemente dai nodi che si aggiungono mano a mano alla rete. Al crescere della rete, quindi, è come se gli hub si rafforzassero. Tutto ciò rappresenta la forza della rete: quando ci sono novità nell’organizzazione o vere e proprie innovazioni, queste, passando per gli hub, arrivano a tutta la rete, quindi si diffondono su tutta l’organizzazione.

Come collegare questo breve discorso sui networks con le OMI e con le nostre analisi? Dalla teoria dei networks sappiamo che nei momenti di crisi se la crisi influenza nodi periferici, questa non si propaga facilmente all’interno dell’organizzazione. Se invece vengono colpiti gli hub, allora gli effetti delle crisi saranno più devastanti. Nel discorso fin qui sviluppato sulle OMI abbiamo visto che solitamente le crisi, soprattutto se sono a livello della qualità ideale, riguardano e spingono all’exit proprio le persone più motivate che sono di esempio per gli altri, e cioè, nel linguaggio delle reti, sono gli hub dell’OMI. E se vengono colpiti gli hub la rete collassa in breve tempo (soprattutto se ci sono pochi hub con un alto indice di clustering), come dimostrano le numerose simulazioni fatte da Barabasi e dagli altri studiosi che si occupano di reti sociali – e l’esperienza storica di tante comunità e organizzazioni. Questa analisi rafforza alcune delle conclusioni alle quali eravamo giunti con i nostri modelli. In primo luogo corrobora la tesi che nei momenti di crisi della qualità ideale è quanto mai importante evitare le conseguenze estreme, cioè l’abbandono dei membri più motivati, che, nel linguaggio delle reti, possono essere considerati a tutti gli effetti degli hub nello small word del network aziendale. In secondo luogo, la teoria degli hub ci rafforza nella conclusione che avevamo raggiunto circa la fragilità delle organizzazioni che puntano

145

soltanto, o eccessivamente, sui soggetti intrinsecamente motivati. Se si punta solo su questi pochi, o addirittura sul solo fondatore o “capo carismatico”, è come se avessimo una rete con un solo hub al centro (una rete a stella), al quale sono collegati tutti gli altri nodi: al venir meno di questo, l’intera cultura cooperative e ideale dell’OMI crolla. Se invece la rete presenta più hub, le crisi possono essere meglio gestite e superate. Anche qui ritroviamo uno dei messaggi chiave del discorso che stiamo svolgendo, e ormai concludendo, in questo saggio: la diversità, il policentrismo, sostengono e rafforzano la buona reciprocità e la cooperazione, e rende le organizzazioni meno fragili quando fronteggiano le inevitabili crisi.

146

Capitolo VII

LA VULNERABILITA’ COME PARADIGMA DELL’UMANO

L’Amore è la più universale, la più formidabile e la più misteriosa delle energie cosmiche. Dopo ricerche a tentoni durate per secoli, le istituzioni sociali sono riuscite ad arginarla ed incanalarla all’esterno … Sul piano sociale, si fa finta d’ignorarla nella scienza, negli affari, nelle assemblee mentre, copertamente, è dappertutto. Sembra che si sia giunti a disperare di capire e di captare questa forza selvaggia, immensa, ubiquitaria e sempre indomata. Allora la si lascia (e la si sente) serpeggiare ovunque, sotto la nostra civiltà, chiedendole tutt’al più, di divertire e di non nuocere … È veramente possibile che l’Umanità continui a vivere ed

a

crescere

senza

interrogarsi

decisamente sul quanto di verità e di forza che sta sperperando nella sua incredibile capacità d’amare? (Pierre Theilhard de Chardin)

Se l’economia, i mercati, le imprese e le organizzazioni, sono brani di vita in comune, allora gli ideali devono trovare diritto di cittadinanza

147

anche all’interno dei luoghi di quella che una volta fu chiamata “scienza triste”: l’economia sarà infatti sempre una scienza triste finché gli ideali e le passioni non abiteranno in essa, poiché solo dove abita la gratuità è possibile incontrare la joie de vivre. È solo riconoscendo il diritto di cittadinanza alla gratuità e agli ideali all’interno della vita sociale ed economica, e quindi delle organizzazioni, che questi ambienti, spesso pesanti, possono iniziare a volare e a far volare. È questo il senso del titolo di questo libro e dell’immagine di copertina. Per troppo tempo la gratuità e gli ideali sono stati considerati come ‘buonismo’, o come comportamenti ingenui, che fanno male a se stessi e agli altri, perché si lasciano sfruttare dai furbi. Nel corso di questo libro abbiamo cercato di mostrare che, se ben intesa, la gratuità è invece una forza potente, che fa la differenza nelle organizzazioni. Giunti alla conclusione di questo saggio vogliamo consegnare le sue ultime pagine a poche ulteriori considerazioni su che cosa realmente comporta il fare spazio seriamente alla gratuità e agli ideali dentro un’organizzazione, al prendersi cura dell’altro. Uno dei messaggi emergenti più chiaramente da quanto fin qui argomentato potrebbe essere così riassunto: se introduciamo gli ideali, e con essi l’umano tutto intero, all’interno della vita delle nostre organizzazioni e dei mercati, le dinamiche relazionali si arricchiscono e si complicano. Aumentano, infatti, le “benedizioni” ma aumentano anche le “ferite”. La vita in comune irrorata dagli ideali è più degna di essere vissuta e promette l’autentica fioritura umana; ma, proprio per questa sua apertura all’umano integrale, quando l’economia le organizzazioni e la vita civile si incontrano con gli ideali dobbiamo mettere in conto una maggiore sofferenza relazionale e maggiori conflitti, ma tenendo ben presente che la sofferenza non è solo e sempre un male, è spesso soltanto l’altra faccia della felicità, della aristotelica eudaimonia.

148

C’è un racconto nel libro della Genesi che è anche un’icona della vita delle OMI: il combattimento di Giacobbe con l’angelo (Gen. 32). Dopo il lungo esilio, dovuto anche ai conflitti con il fratello gemello Esaù (l’ambivalente fraternità, che è sempre una ferita!), Giacobbe torna nella terra dei padri, delimitata dal torrente Yabbok79, affluente tumultuoso del Giordano. Prima di tornare a casa deve quindi attraversare quel fiume. Durante il guado notturno dello Yabbok, Giacobbe rimane solo e viene affrontato da un altro uomo, che nel corso del racconto diventa una presenza di Dio, JHWH stesso. Il combattimento termina con Giacobbe vincitore e ferito, con l’articolazione del femore slogata. Giacobbe però chiede che il suo avversario lo benedica prima di lasciarlo: ottenuta la benedizione, Giacobbe cambia nome, diventa Israele, un nome di un popolo intero, e per lui “splendeva il sole” (33). Il messaggio è chiaro: l’A(a)ltro è insieme una ferita e una benedizione, l’una è la strada e la pre-condizione dell’altra. Quando l’altro mi ferisce mi cambia profondamente, mi dà un nuovo nome (nel mondo semitico il nome è la realtà più profonda, la vocazione della persona). Tutta la storia, quella moderna soprattutto, è anche un tentativo di trovare nuove relazioni che fossero solo benedizioni, immunizzandoci dalla ferita dell’altro (Bruni 2007, 2010). La tristezza solitaria della postmodernità è però anche e soprattutto il frutto del progetto immunitario, che separa gli uni dagli altri per evitare loro le ferite della relazione. Quando gli ideali entrano in gioco veramente nella vita individuale e collettiva, succede infatti qualcosa di inevitabile: si diventa vulnerabili all’altro, perché in queste realtà non ci si può più immunizzare dietro la mediazione del sistema dei prezzi o della gerarchia (i due grandi strumenti immunizzanti dell’economia moderna). Non ci si può immunizzare da quella diversità tra gli esseri umani che è la prima fonte delle sofferenze

79

In ebraico Yabbok è l’anagramma del nome di Giacobbe (Yaacov), a sottolineare, forse, che il combattimento di Giacobbe è anche un combattimento con se stesso, alla ricerca della propria identità e vocazione, dal quale esce Israel.

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relazionali quando ci si pone su un piano di vera uguaglianza gli uni con gli altri80. E quando questa ferita della diversità non è accolta, l’apertura della ferita non diventa feconda, non diviene un luogo di incontro e di accesso all’altro, ma si infetta e si incancrenisce nelle mille patologie prodotte dalla diversità rifiutata, che si chiamano razzismo, discriminazione, esclusione, …. La Genesi non ci dà indicazioni chiare su che cosa accadde alla ferita di Giacobbe in seguito al combattimento, non ci dice con chiarezza se Giocobbe guarì o se invece continuò a zoppicare per tutta la vita. Ci sono soltanto alcune allusioni e alcuni indizi, e alcune tradizioni rabbiniche che su questi indizi contenuti nella Genesi si sono sviluppate nei millenni. Ad esempio, nello stesso testo del combattimento, l’autore sacro scrive: “Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l'articolazione del femore” (32, v. 33). E nel capitolo successivo troviamo che “Giacobbe arrivò sano e salvo alla città di Sichem” (33, v. 18). L’arrivare “sano e salvo” a Sichem porterebbe a pensare che Giacobbe guarì dalla ferita, mentre il divieto di mangiare il nervo sciatico sembra andare nella direzione ermeneutica opposta: il mangiare è infatti attività quotidiana, e ogni giorno occorre ricordare che da quel guado dello Yabbok non è più possibile separare la ferita dalla benedizione, come narrano anche alcune tradizioni della letteratura midrashica81. La forza simbolica e vitale della Bibbia sta anche in queste conclusioni non scritte, in queste ambivalenze cariche di simboli e di verità.

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Buona parte della crescita relazionale e spirituale di una persona consiste nel comprendere che esistono ferite che gli altri ci procurano che non sono frutto della loro cattiveria, né della nostra, ma solo della diversità. 81 “Questa astensione dalla consumazione del nervo sciatico è l'unica legge della kashrùt ad avere una funzione di memoria. Questo se escludiamo le leggi di Pessach, naturalmente, che hanno sì una funzione simile, ma sono legate alla festa e non alla kashrùt propriamente detta. Il nervo sciatico è chiamato dalla Torà ghid ha nashé, legame della dimenticanza. Questo appellativo richiama in effetti proprio la nozione di memoria, e di mancanza della stessa. Questa proibizione singolare è volta probabilmente a ricordare … che Yaakov raggiunge la propria pienezza attraverso la ferita, attraverso lo zoppicare” (http://lnx.levchadash.info).

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A noi, non esperti di sacra scrittura né di ebraismo, né tantomeno teologi, piace pensare che Giacobbe non guarì mai del tutto da quella ferita, perché nel momento in cui si smette di “zoppicare” si smette di vivere. La vulnerabilità, l’esposizione alla ferita dell’altro (e dell’altro alla mia), è la prima condizione dell’umano. Si smette di vivere quando ci si ritrae dal combattimento con l’altro, quando si pensa di poter vivere bene senza l’esposizione alla ferita, quando si smette di prender sù le ferite degli altri, vicini e lontani, quando si rinuncia a cercare di guarirle e a trasformarle in benedizioni. Potremmo esprimere la stessa realtà dicendo che le due tradizioni (guarigione e zoppicare) non sono inconciliabili, poiché si guarisce veramente quando si accetta la condizione di vulnerabilità, quando ci riconciliamo con le ferite profonde nostre e con quelle degli altri. È, infatti, la mutua consapevolezza della vulnerabilità che genera la vera reciprocità e la cooperazione libera tra gli uomini su un piano di vera uguaglianza. Dopo quel combattimento, con Dio con l’altro ma anche con se stesso, Giacobbe dopo anni di conflitti e di inganni riesce a riconciliarsi

con il fratello Esaù: “Poi Giacobbe alzò gli occhi e vide

arrivare Esaù … si prostrò sette volte fino a terra, mentre andava avvicinandosi al fratello. Ma Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero insieme” (33, vv. 1-4). Solo dopo il combattimento e la ferita alla coscia Giacobbe si riconcilia con il fratello – è bello quel “piansero insieme”: quante riconciliazioni finiscono ancora oggi con grandi pianti insieme82! –, e solo dopo Giacobbe riesce a riconoscerlo. Poche righe dopo si legge: “io sono venuto alla tua presenza, come si viene 82 In realtà non abbiamo abbastanza elementi per sapere se Esaù perdonò veramente Giacobbe: nella letteratura rabbinica si trova a questo proposito una certa ambivalenza (anche perché Esaù, capostipite degli edomiti, è anche simbolo delle nazioni attorno ad Israele: quell’abbraccio si è sempre caricato di significati storici e politici complessi): ma anche questa ambivalenza ci piace, poiché l’abbraccio con l’altro ha un valore in sé anche se dura solo il tempo di quell’abbraccio, e se, per le nostra fragilità, la pace riconciliazione non riesce a durare. Non tutte le relazioni si riescono a curare completamente e per sempre, e non tutte le ferite diventano benedizioni stabili: ma ciò nulla toglie al valore infinito di un abbraccio di riconciliazione.

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alla presenza di Dio”: ora Giacobbe riesce a vedere l’immagine di Dio nel fratello, a rispettarlo davvero nella sua alterità, una alterità che ora è benedizione, trovata oltre la ferita. E solo a questo punto Giacobbe può tornare alla casa dei padri (v. 43), ritrova le radici profonde della propria storia e di quella di Israele. Non c’è alcuna autentica cura dell’altro senza combattimento. Noi crediamo che quando i protagonisti di una OMI iniziano a non avvertire più questa dinamica di ferite e di benedizioni, quando i suoi membri smettono di combattere queste buone battaglie, tutto ciò è un segnale che la OMI ha perso la nota MI (Movente Ideale), restando soltanto una semplice e sola O, come tante altre Organizzazioni. È, infatti, la capacità di vedere ciò che ancora manca, bisogni insoddisfatti, diritti negati, persone non riconosciute e rispettate, che tiene viva una OMI, che alimenta quell’ideale da cui quella realtà è originata, e la rende sempre giovane. Per questa vulnerabilità “buona” (c’è ovviamente una vulnerabilità “cattiva” che va combattuta e possibilmente eliminata: quella dei bambini, dei deboli, delle donne in alcune regioni del mondo, dell’ambiente, degli animali …), che nelle OMI è particolarmente avvertita e presente per i motivi che abbiamo accennati, è necessario che in queste organizzazioni ci si attrezzi in modo adeguato a comprendere, prevenire e gestire anche i conflitti relazionali. Questa capacità di accudire e gestire i conflitti deve infatti diventare nelle OMI una vera e propria arte, da coltivare e nella quale specializzarsi, per evitare che di fronte ai primi conflitti e alle prime ferite profonde, gli ideali della OMI entrino in crisi mortale, producendo delusione e cinismo in chi aveva creduto genuinamente di poter coniugare ideali e vita economica. C’è oggi un urgente bisogno di investire in questa arte dell’accudire i confitti relazionali, nella quale la nostra civiltà è gravemente deficitaria e immatura: negli ultimi due millenni abbiamo investito moltissimo in tecnica e tecnologia e abbiamo raggiunto risultati straordinari; nella nostra capacità

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di accudire e risolvere i conflitti, nell’arte delle relazioni umane difficili, siamo ancora troppo simili al fratricida Caino. In un mondo che, nonostante i sogni di immunitas, ci costringerà sempre più all’incontro con la diversità vera, l’investimento in questa arte non è meno cruciale degli investimenti nelle energie rinnovabili, poiché da entrambi dipende la sopravvivenza della nostra specie, e la qualità della vita che saremo capaci di generare e custodire nei prossimi secoli.

Che i mercati e le nostre società del terzo millennio siano sempre più popolati di ideali, di carismi, di gratuità, di reciprocità, di fiducia rischiosa e vulnerabile, di passioni felici, animati da protagonisti sempre più portatori di vita a tutto tondo e sempre più esperti nell’arte di accudire i rapporti umani: è a questo augurio che vogliamo consegnare le ultime parole di questo libro.

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