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Italian Pages 238 [239] Year 2006
Percorsi 7
ANTROPOLOGIA
Serie diretta da Francesco Remotti
VOLUMI PUBBLICATI
Stefano Allovio
La foresta di alleanze. Popoli e riti in Africa equatoriale Pier Paolo Viazzo
Introduzione all’antropologia storica Leonardo Piasere
L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia Adriano Favole
Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte Alessandro Gusman
Antropologia dell’olfatto Leonardo Piasere
I rom d’Europa. Una storia moderna Chiara Pussetti
Poetica delle emozioni. I Bijagó della Guinea Bissau Maria Arioti
Introduzione all’antropologia della parentela
Stefano Allovio
La foresta di alleanze Popoli e riti in Africa equatoriale Introduzione di Francesco Remotti
Editori Laterza
© 1999, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 1999 Settima edizione 2007
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2007 Global Print srl - via degli Abeti, 17/1 20064 Gorgonzola (MI) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-5914-1
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in memoria di Oscar
Francesco Remotti
Introduzione
È abbastanza naturale che nella scienza, come nella vita, si ricerchino protezioni e sicurezze. Nella scienza sono le comunità a fornire protezione e i loro programmi scientifici a garantire sicurezze. Ma ci sono scienze che offrono maggiori sicurezze e altre meno. Ritengo che si possa affermare che l’antropologia culturale e sociale si contraddistingua per un’offerta piuttosto bassa di protezione e di sicurezze. A differenza del chimico, del biologo o dell’antropologo fisico, l’antropologo culturale non ha a disposizione laboratori, luoghi di solito molto protetti e sicuri, in cui le componenti della realtà sono sottoposte a una fortissima riduzione, così da poter essere opportunamente osservate e manipolate. A differenza di molti suoi colleghi umanisti (filologi, storici, filosofi), l’antropologo di solito non circoscrive il suo campo d’indagine ai documenti contenuti in una biblioteca o in un archivio. A differenza di paleo-antropologi e di archeologi, egli non ha da rinvenire, misurare, classificare e interpretare dei «resti», un ciò che è rimasto rispetto a condizioni di vita definitivamente trascorse. Laboratori, biblioteche, archivi costituiscono mondi a parte rispetto alle forme di vita o di realtà corrispondenti, nei confronti delle quali lo scienziato, la scrittura, il tempo hanno operato – in modo programmatico o casuale – fortissime riduzioni e selezioni. Come alcuni altri scienziati, l’antropologo culturale si trova a contatto diretto con la vita, con forme di vita, e questo interpone una bella differenza rispetto ad altre scienze che invece si occupano di cose morte o di oggetti inanimati: è certamente più complicato aver a che fare con forme di vita vissuta, piuttosto che con testimonianze fossilizzate e comunque con resti immobili (ossa, cocci o libri), su cui di solito è possibile ritornare e che si lasciano VII
più tranquillamente osservare, manipolare, analizzare, sezionare. Anche botanici e zoologi, e tra questi soprattutto gli etologi, hanno da osservare e indagare la vita di altri esseri. Per l’antropologo si tratta però di esseri umani, e questo aggiunge un’ulteriore differenza: un conto è l’entomologo che osserva la vita di un formicaio o l’ornitologo che da terra segue i voli dei gabbiani e un altro conto è invece l’antropologo che si intrattiene con gruppi di uomini e donne in una periferia di città europea, in una vallata alpina o in un angolo più o meno sperduto della foresta amazzonica. Non è del tutto ignota all’antropologo la tentazione di comportarsi come l’entomologo, cioè con atteggiamenti e mezzi di osservazione abbastanza scevri da rapporti interattivi. Annullare, ridurre o comunque tenere sotto rigido controllo l’interazione tra il ricercatore e gli esseri viventi che fanno parte del suo campo d’indagine rientrano in effetti in una strategia protettiva contro gli imprevisti e la complessità del reale, adottata non soltanto dai naturalisti che sono a contatto con forme di vita, ma anche da molti scienziati sociali (sociologi, psicologi e, naturalmente, anche antropologi). Tuttavia per l’antropologo l’interazione non è soltanto una faccenda da tenere sotto il suo personale controllo: è qualcosa di essenziale e di irrinunciabile, da curare con molta attenzione, persino da ricercare con intensità e passione. L’antropologo vuole prima di tutto l’interazione; e sarebbe un vero guaio se non gli venisse concessa o per qualsiasi motivo gli fosse impedita o seriamente ostacolata (gente che non risponde a tono, che non risponde affatto, che si sottrae preferendo badare alle proprie faccende o che, al contrario, manda a quel paese l’intruso). Senza interazione egli non potrebbe nemmeno cominciare il suo lavoro e in tutto l’arco dell’indagine egli raccoglie «dati» interagendo: più precisamente, là dove viene meno l’interazione (per stanchezza, per disinteresse, per più o meno esplicita opposizione) si arena anche la sua ricerca. Beninteso, l’antropologo adotta anche lui tecniche o espedienti più o meno spiccioli di controllo dell’interazione. Ma l’aspetto metodologicamente più vitale dell’antropologia coincide proprio con il momento in cui l’interazione sfugge al controllo e l’imprevisto irrompe sulla scena a scompigliare schemi preventivamente collaudati. Così come cercano di controllare l’interazione, gli antropologi cercano anche di proteggersi contro VIII
gli imprevisti: incontrano altri esseri umani (altre società, altre culture) portando nel loro bagaglio mentale concetti e schemi, interessi e temi sufficientemente elaborati per cominciare a districarsi, a delineare forme, rintracciare significati. Ma in una situazione di estraneità e di distanza culturale l’imprevisto è sempre dietro l’angolo. L’antropologo farebbe bene dunque a prevedere l’imprevisto, a mettere sul conto il fatto che i suoi schemi e i suoi orientamenti possano essere incrinati e i suoi interessi originari persino abbandonati durante il percorso di ricerca. Sotto questo profilo, l’antropologo ama il rischio, e – come diceva Platone – «il rischio è bello». L’antropologia è un insieme di schemi costantemente a rischio. Ma il bello del rischio antropologico consiste non tanto in un gusto quasi nichilistico del vedere distruggere certe costruzioni teoriche, quanto piuttosto – in modo ben più positivo – nei contenuti inaspettati che affiorano dall’altra parte dell’interazione. Quanto più le costruzioni sono blindate, tanto meno i contenuti dell’interazione possono penetrarvi. L’antropologia, se programmaticamente deve prevedere l’imprevisto, il suo irrompere talvolta nascosto e talvolta eclatante, fornisce inevitabilmente costruzioni più aperte. Poco protetto e meno incline di altri ad autoproteggersi, l’antropologo sembra per davvero – come rileva Stefano Allovio nel primo capitolo di questo libro – a colui che si trova «gettato nel mondo» (la Geworfenheit di Martin Heidegger), in un qualche angolo, più o meno sperduto, di questo mondo, alla mercé dell’imprevisto, a contatto con gente che non conosce e le cui idee potrebbero cambiare presupposti o pregiudizi, concezioni o teorie di cui egli è portatore. A Heidegger importavano assai poco gli angoli di mondo a cui di solito si interessano gli antropologi: la «grande ricchezza di notizie intorno alle più disparate e remote civiltà» non sarebbe altro che mera e sviante «apparenza», la quale offusca la vera questione del «Che cos’è l’uomo». Queste posizioni contenute in Sein und Zeit (del 1927), e poi ribadite e persino aggravate nelle opere successive, vengono qui ricordate perché vanno davvero al nocciolo del problema antropologico e obbligano a una scelta chiarificatrice. Il problema in effetti è tutto qui. Occorre decidersi se il senso di ciò che si va ricercando è già dato presso di «noi» (comunque venga inteso questo «noi»: occidente, cristianesimo, modernità, scienza, capitalismo e altro ancora) oppure se valga la peIX
na «gettarsi» nel mondo o, meglio, in «altri mondi», mettendo a rischio i propri schemi e le proprie categorie, per poter apprendere altri contenuti, altre idee. Per Kant (e siamo nel 1785) i «felici abitanti di Tahiti» erano perfettamente sostituibili con «pecore e buoi» altrettanto felici nel loro «semplice godimento», nella loro «tranquilla indolenza». Kant, dunque, non sapeva che farsene di Tahiti (così come – avrebbe detto Michel de Montaigne qualche secolo prima – «i selvaggi della Scozia non sanno che farsene della Turenna»). Se andiamo a ripescare queste vecchie tesi non è solo perché a tutt’oggi esistono filosofi e pensatori influenti che non esitano a sostenere posizioni del tutto simili, ma perché obbligano l’antropologia – l’antropologia intesa come esplorazione degli angoli di mondo (anche di quell’angolo di mondo, come avvertiva Herder, che noi stessi siamo) – a ripensare di nuovo e costantemente le motivazioni delle proprie scelte. Vale la pena «gettarsi» in un altrove più o meno lontano, più o meno ignoto, in un’isola forse «felice» (se mai esiste), dove per lo più non vi sono grandi manifestazioni di civiltà (monumenti, archivi, biblioteche), correndo tutta una serie di rischi, epistemologici oltre che personali? Se il senso di ciò che stiamo antropologicamente ricercando è già qui, da «noi», nella nostra storia, nella nostra cultura, allora no, non ne vale affatto la pena. Ma se il senso antropologico non è tutto qui, allora non sapere che farsene di Tahiti (isola felice o no che sia) è semplicemente un vicolo cieco. L’antropologia trae le proprie origini, le motivazioni profonde della propria scelta, dalla convinzione che il senso antropologico non è tutto qui, presso di «noi». Gettarsi in un altrove assume quindi il significato di provare a esplorare altre forme di umanità, altri modi di organizzare la vita individuale e sociale, e di dare senso all’uomo, ben sapendo che neppure altrove, e anzi in nessun angolo di mondo, è contenuto «tutto» il senso antropologico. Non si fa «antropologia» rimanendo nel recinto della propria polis, della propria civiltà; e neppure allora si dovrebbe coltivare l’illusione che il senso antropologico – come il mitico Graal – sia depositato in un altrove. Troppe volte gli antropologi si accontentano di descrivere il loro angolo di mondo – quello in cui il caso o una scelta programmata li ha portati – come se, così facendo, si possa ritenere concluso il lavoro, come se si possa fare antropologia rifugiandosi nel chiuso di X
qualsivoglia altra società. Alla tesi, esplicita o implicita, secondo cui il senso antropologico è già tutto contenuto qui, da «noi», non può venire contrapposta la tesi contraria ed equivalente, secondo cui il senso antropologico è depositato in un qualche altro luogo, altrove. C’è senso qui e altrove, da «noi» come presso gli «altri»; ma è sempre «incompleto». L’incompletezza è uno dei contrassegni caratteristici dell’impresa antropologica, a cominciare dall’incompletezza antropologica di «noi»: è l’incompletezza ciò che maggiormente motiva l’uscita verso un altrove, il «gettarsi» in un qualche strano angolo di mondo, ed è anche ciò che impedisce di elevare un qualsiasi angolo di mondo (una grande civiltà o un piccolo villaggio nella savana) a depositario del senso globale dell’umanità. Qui come altrove non si fa che dar luogo a forme di umanità parziali, locali, incomplete. L’antropologia mette insieme queste forme incomplete: lo fa sempre, anche quando – come di questi tempi – ha abbandonato aspirazioni comparative ad ampio raggio. È sufficiente l’incontro con un’altra società, in un altro angolo di mondo, per realizzare il mettere insieme, porre in connessione, forme diverse di umanità. È allora legittima la domanda se, pur essendo sempre le culture antropologicamente incomplete, l’antropologia, che le raccoglie, le rapporta e le connette, sia in grado di raggiungere la completezza: ponendo insieme le forme parziali di umanità, non si può forse presumere di raggiungere la completezza? Come diceva Goethe, attraversando il finito (il particolare) non si raggiunge forse l’infinito (l’universale)? Le culture sono incomplete, ma l’antropologia che le attraversa non potrebbe forse aspirare legittimamente alla completezza? È indubbio che in certe fasi della sua storia (da ultimo con lo strutturalismo) l’antropologia abbia coltivato un sogno siffatto. Ma questo tipo di ambizione si regge su due presupposti entrambi problematici, o meglio non condivisibili: quello di poter davvero completare – con le risorse limitate che l’antropologia ha a disposizione – l’esplorazione delle forme di umanità locali, e quello di ritenere che il quadro delle forme di umanità sia di per sé completo, come se le forme di umanità siano ormai date una volta per tutte e non vi sia da aspettarsi nulla di inedito, di veramente innovativo (e anzi, semmai, fenomeni di perdita e di scomparsa). Non soltanto sul piano dell’interazione, ma anche su quello delle forme di umanità, l’antropologia ha da prevedere invece l’impreXI
visto. Pure così, l’antropologia si scopre come un tipo di sapere che gode di assai scarse protezioni. Anche l’antropologia aveva tentato di avere i suoi laboratori, pensando di poter racchiudere nei musei le forme essenziali dell’umanità, rappresentate in serie di oggetti staccati dai contesti e dalla vita, ormai immobili e resi disponibili all’osservazione protratta. Ma l’umanità non è racchiudibile o rappresentabile in un museo, nemmeno in senso metaforico; mentre l’antropologia tenta di individuare forme, di rintracciare significati e di depositarli, con la scrittura, in una sorta di «registro consultabile» – come sosteneva Clifford Geertz negli anni Settanta –, l’umanità nel frattempo si trasforma, e lo fa in maniera non solo incessante, ma anche creativa e per lo più imprevedibile. L’antropologia deve tener dietro a questi processi (o per lo meno li deve mettere in conto), e così il senso della sua incompletezza aumenta vertiginosamente e con essa l’angoscia che spesso affiora nei suoi esponenti più consapevoli. Poco sicura, priva di protezioni sufficientemente forti, votata all’imprevisto, incompleta, piena di angosce, consapevole della sua relativa impotenza di fronte alla complessità, alla ricchezza e all’innovatività del reale, l’antropologia che cosa ha di significativo da proporre? Fili, reti, tessuti più o meno pregiati – così ci sembra di poter rispondere. Tra un’antropologia che, come avveniva un tempo, si alimentava della presunzione di poter dominare e racchiudere in schemi generali la totalità delle forme di umanità e un’antropologia che, al contrario, vorrebbe rifugiarsi all’ombra di qualche tradizione locale, in non importa quale angolo di mondo, vi è ampio spazio per un’opzione intermedia e davvero virtuosa: quella della ricerca delle connessioni. L’antropologo «gettato» in un angolo di mondo – a Neisu, tra i Medje-Mangbetu, per esempio, come succede per l’autore di questo libro – fin da subito cerca contatti, stabilisce connessioni: deve farlo per cominciare a raccapezzarsi. Egli pone in connessione sé con gli altri, a più livelli (personale, emotivo, intellettuale); e pone in connessione il suo sapere (di tipo antropologico e non) con il sapere altrui. Occorre capire e farsi capire. C’è da augurarsi perciò che anche gli altri siano attivi nell’individuare e stabilire connessioni; queste non vengono orientate a senso unico (come se l’antropologo potesse fare tutto lui): sono invece il frutto di interazioni spesso molto complesse e non esenti da equivoci, incomprensioni, resistenze. C’è XII
dunque – occorre riconoscerlo – una notevole dose di arbitrarietà e di contingenza nell’inizio delle connessioni: chi, che cosa e come si connette sono questioni legate molto al caso e agli aspetti idiosincratici delle persone e delle situazioni. A mano a mano però che le connessioni si infittiscono, certi nuclei tendono a emergere e a proporsi come nodi verso cui convergono e da cui si dipartono particolari percorsi tematici. Sarà – come nel caso di questo libro – l’idea dello scorrere inesorabile del tempo, rappresentata dall’immagine del fiume o, all’opposto, l’idea del costruire in maniera stabile e duratura, quale è raffigurata dal termitaio. Flusso e struttura appaiono così come due poli in opposizione, presenti nel pensiero dei Medje-Mangbetu, impegnati incessantemente nella costruzione di esseri umani e di reticoli sociali: si tratta di un vero e proprio «costruire contro corrente» (cap. V, § 7), in cui, a causa del flusso, la costruzione va continuamente rifatta e proprio per questo anche ripensata. Nelle interazioni locali e contingenti, su cui si fonda il sapere antropologico, si incontrano persone, si scambiano parole; ma alla fin fine si incrociano idee, pensieri, punti di vista. Nelle interazioni non si incontrano culture, come se fossero oggetti (laggiù, ai limiti tra la foresta equatoriale e la savana, «la» cultura medje-mangbetu): si incontrano persone e contesti, in cui serpeggiano pensieri e temi di riflessione. È di questi soprattutto che si nutre il «sapere» antropologico: un sapere costruito mettendo insieme le idee di un tale che, anche se scambiato per ingegnere idraulico (cap. I, § 1), da noi è definito antropologo e le idee che emergono nei discorsi, nel comportamento, nelle azioni rituali, nelle istituzioni della gente con cui ha deciso – o gli è stato consentito – di interagire. Diciamolo pure francamente: non tutte le idee dell’uno o degli altri sono necessariamente buone; nel flusso dell’esperienza e delle interazioni quotidiane occorre operare una scelta. Ma è davvero difficile ritenere che esistano società simili alla Tahiti immaginata da Kant: felici, stupide e soprattutto senza pensieri. Nel 1927 (lo stesso anno in cui esce Sein und Zeit di Heidegger) Paul Radin, un antropologo statunitense di origine polacca, pubblica Primitive Man as Philosopher, in cui ha voluto sottolineare con forza l’esistenza di una dimensione riflessiva e autoriflessiva in società fino ad allora ritenute prive di un pensiero degno di questo XIII
nome. Radin parla espressamente di pensiero filosofico. Noi potremmo proporre di riconoscere, quanto meno, l’esistenza di un pensiero antropologico. Che cosa fanno le società umane, oltre a provvedere alla sopravvivenza dei propri individui e delle proprie istituzioni, se non preoccuparsi del tipo di umanità che le caratterizza, in cui maggiormente sono impegnate e si identificano? «Molto prima che esistessero filosofi che si occupassero della questione» – aveva affermato Margaret Mead nel 1949 – «uomini coi capelli incolti e il corpo sporco di fango» si sono posti il problema del «che cosa fare» per essere uomini, del senso dunque dell’umanità. Se l’umanità non è qualcosa di dato e di garantito, se l’umanità è a rischio («il rischio di essere perduta» – come diceva la Mead), essa va costantemente costruita e pensata. Di molte cose si possono occupare gli antropologi nelle loro interazioni locali (con questa o quella società); ma pare difficile che uno dei nodi più significativi non possa essere proprio questo, ossia le modalità di costruzione e di riflessione antropologica che si possono incontrare presso gli altri. Mettere insieme – nel senso di far dialogare e dunque connettere – antropologie diverse, eterogenee e persino divergenti potrebbe in effetti essere uno degli scopi più significativi e qualificanti dell’antropologia. Che cosa allora si propone: un’antropologia generale – di livello superiore – la quale avrebbe la funzione di raggruppare, sistemare, coordinare le antropologie locali? No, le connessioni di cui si è parlato sono fili, non categorie sistematiche. Le reti che si costruiscono intrecciando i fili sono in continua trasformazione, risentendo inevitabilmente di ciò che si può chiamare la contingenza etnografica: ogni nuovo sapere antropologico, derivante dall’esperienza di nuove interazioni locali, induce – non può non indurre, se è veramente tale – un qualche cambiamento nell’assetto generale. Se da un lato è vero che i concetti che l’antropologia eredita dal suo passato incombono non poco sulle sue possibilità di sviluppo (ispirandole, guidandole, restringendole), dall’altro è altrettanto vero che il fondamento interattivo di questo sapere (con tutti gli «imprevisti» che esso comporta) produce una predisposizione alla revocabilità dei suoi costrutti. Il sapere antropologico può allora essere immaginato come un tessuto, al quale pongono mano tanti soggetti (non soltanto gli antropologi di professione, ma anche tutta la gente con cui essi entrano in conXIV
tatto); come un tessuto inoltre che tiene in certe parti e cede in altre; a cui si fanno dei rappezzi e che, almeno in teoria, andrebbe costantemente rifatto, anche se per inerzia, per mancanza di tempo e di risorse, o per interessi, diverse parti ormai obsolete e lacere del tessuto vengono semplicemente lasciate là. Sia per i suoi difetti interni, sia per la sua incapacità a coprire la totalità dei casi, il tessuto antropologico – come già abbiamo anticipato – è davvero incompleto. Ma la sua incompletezza, il suo carattere di non finito, si coniuga – a ben vedere – con un altro aspetto, indubbiamente più positivo: la sua vitalità, il suo rapporto con le mutevoli forme di vita. Gli imprevisti forniscono altri spunti, altri temi: sono materia di ulteriori sviluppi. Occorre che l’antropologia sia dunque attenta alle novità, così da lasciare aperte le sue possibilità di sviluppo. Occorre anche però che curi il suo tessuto: le connessioni vanno rimeditate, controllate, ristabilite, rinnovate, sostituite con un lavoro teorico ed epistemologico raffinato e avveduto. Il tipo di antropologia che qui si propone in fondo ha insegnato che gli antropologi non sono affatto soli nell’apprendere e nel riflettere sull’umanità: vi sono antropologi anche altrove, nelle società che essi studiano. Sarebbe un guaio però se l’antropologia trasformasse questo contatto privilegiato con le altre società, con le altre forme di umanità, in motivo di isolamento rispetto ad altre forme di sapere. Il tessuto che essa è tenuta costantemente a rinnovare viene costruito con connessioni di varia natura (psicologiche, economiche, storiche, filosofiche ecc.), le quali esigono di essere riviste e aggiornate in un dialogo costante sia con le altre società, sia con le altre scienze umane (sociali, storiche, umanistiche o biologiche che siano). Curare il tessuto vuol dire allora istituire scambi non improvvisati ed estemporanei con altre scienze, rendendosi conto che al tessuto antropologico possono porre mano non soltanto gli antropologi (e i loro corrispondenti indigeni), ma tutti coloro che, in un modo o nell’altro, si occupano di definire aspetti, meccanismi o processi mediante cui gli esseri umani continuano a produrre le loro forme di umanità. Il libro di Allovio dimostra come gruppi bantu, ubangiani e sudanesi, con tradizioni diverse, si siano di continuo affidati l’uno all’altro per costruire la propria identità, esattamente come con il rituale del noutu i Medje-Mangbetu non si limitano a circoncidere i propri ragazzi, XV
ma coinvolgono in questo rituale antropo-poietico i giovani dei Balika, dei Babudu, dei Pigmei. È un continuo costruire reti di alleanze al di là dei confini etnici ciò che emerge dall’analisi di Allovio. Nel momento in cui, con questo libro, si dà inizio a una «serie di antropologia» nelle collane dell’editore Laterza, non sarebbe male se si pensasse di assumere questo stile di reciproco «affidamento» (tra le società, così come tra le comunità scientifiche interessate). In fondo, partendo dal presupposto dell’incompletezza sia delle culture sia dell’antropologia, vale sempre la pena sentire cosa «altri» – che si trovino in un qualche angolo della foresta equatoriale o in un altro edificio universitario – hanno di importante da suggerire, soprattutto quando gli argomenti di cui si tratta sono faccende che ineriscono a processi, sempre incompleti e rinnovabili (talvolta persino fallimentari), di costruzione dell’umanità. Francesco Remotti
La foresta di alleanze
Premessa
Ricordo violenti temporali e forti raffiche di vento che si abbattevano la notte sulle fragili abitazioni di fango adagiate in un mare di vegetazione. Erano i preludi notturni alla stagione delle piogge. Al mattino, invece, dominava una calma assoluta resa irreale da una strana luce che a fatica si faceva spazio nella foschia. Il vento, la pioggia, e l’usura del tempo causavano spesso il crollo di qualche abitazione. Mi stupiva l’impassibilità dei miei collaboratori alla vista di quei crolli, dicevano che era normale e che in poco tempo tutto sarebbe stato ricostruito. Questo libro racconta come nei villaggi del Congo nord-orientale, abitati da gruppi medje-mangbetu, vengono pensati e messi in atto alcuni progetti di costruzione, progetti che non riguardano gli edifici crollati sotto le intemperie, ma gli uomini stessi e i reticoli sociali in cui sono inseriti. Infatti, analogamente alla fragile casa modellata col fango, l’essere umano viene «forgiato» e le relazioni sociali vengono «plasmate», viene data loro una forma particolare corrispondente a una qualche idea di umanità e di società. Durante i soggiorni sul campo (1995-1996) ho rintracciato in alcuni eventi rituali e in specifiche istituzioni i luoghi privilegiati dove cogliere tali progetti di costruzione; ho ascoltato ciò che la gente dei villaggi aveva da raccontarmi in proposito; ho riempito molti nastri e alcuni grossi quaderni. A mano a mano che la ricerca avanzava, i progetti indigeni di costruzione dell’essere umano e della società si intrecciavano nella mia mente e in quei grossi quaderni con il progetto di costruzione della mia ricerca, del modo di riportare i dati, di disporli in un prodotto finale. Analogamente alle case di fango, agli uomini e alle società, anche i dati rac3
colti, le annotazioni e le riflessioni necessitano di una forma, «chiedono di essere plasmate». Questo processo di costruzione non è altro che il mio tentativo di descrizione e di interpretazione, un tentativo che prende la forma di un susseguirsi di connessioni attraverso le quali vengono intrecciati fra loro riti di circoncisione, patti di sangue, società segrete, riflessioni indigene su cosa debba diventare un essere umano e su come debba essere costruito un reticolo sociale. L’intreccio che si viene a creare fa emergere, dal groviglio di reti che rappresenta la complessità del reale, un frammento di rete sfilacciata e provvisoria. La costruzione dell’intreccio attraverso le connessioni dipende da una infinità di elementi e condizionamenti che coinvolgono la processualità del «fare» antropologico senza mai abbandonarlo. L’antropologo compie delle scelte specifiche, decide quali società connettere fra loro nella comparazione, quali elementi di una stessa cultura sottoporre a connessioni, e nel fare ciò l’antropologo non può prescindere dal proprio retroterra culturale, dalla «scatola degli attrezzi concettuali» che si porta sul terreno di ricerca, dalla scelta dei collaboratori e degli informatori indigeni, dagli eventi che accadono sul campo, dalle letture mirate e da quelle casuali, dai disegni di trame e spesso dalla progettazione di un libro. Le scelte che l’osservatore compie per descrivere e interpretare il reale determinano il tipo di connessione e di conseguenza il frammento di rete che si vuole fare emergere. Questa prospettiva, secondo la quale la fabbricazione di un intreccio e l’emergere di un frammento di rete sono inseparabili nell’attività «poietica» dell’antropologo (nel «fare» antropologia), vorrebbe rappresentare un tentativo per rimanere contemporaneamente immuni sia dalle derive degli oggettivismi (piegati recentemente da forti raffiche di vento e da violenti temporali decostruzionisti) sia dalle derive dei riflessivismi radicali i cui risultati assomigliano alle calme e irreali mattine in foresta, dove la foschia lascia intravedere davvero poco. L’intreccio inizia da una strana classificazione indigena (cap. I). L’essere identificato dai locali come ingegnere idraulico esperto di fiumi e l’essere arrivato nel Congo nord-orientale durante la stagione delle sciamature delle termiti ha influenzato l’indirizzo 4
della ricerca e ha permesso di cogliere un frammento di antropologia indigena che il lettore ritroverà, a partire dal terzo capitolo, nel rituale di circoncisione. Si impongono fin da subito due immagini (quella del fiume e quella del termitaio) che permangono sullo sfondo dell’intero volume per poi riemergere nelle pagine finali chiudendo il cerchio della narrazione. Il fiume rappresenta lo scorrere inesorabile della vita, mentre il termitaio appare come l’immagine di una costruzione sociale che vorrebbe opporsi al flusso del tempo. Gli strumenti, contenuti nella «scatola degli attrezzi concettuali» che l’antropologo porta con sé, spesso non sono appropriati alla realtà «altra» che si intende studiare. Parlando di villaggi, famiglie e clan e ricostruendo il popolamento della regione (cap. II), non solo si mescolano termini e concetti dell’osservatore e dei locali, ma si narra di un reale mescolarsi di lingue, popoli e pratiche rituali. Significativo è che i gruppi insediati nell’area della ricerca «mescolano», «mettono insieme» addirittura i loro bambini per mezzo di un rito di circoncisione che prevede un’alleanza tra famiglie sancita con lo scambio di sangue dei circoncisi. Lasciando frequentemente parlare in prima persona gli intervistati, ho ricostruito il rito di alleanza tramite circoncisione dei Medje-Mangbetu denominato noutu (cap. III), un rituale di cui non esisteva finora alcun resoconto etnografico. Ancora una volta la «scatola degli attrezzi» è risultata inadeguata. Gran parte delle letture fatte prima della partenza, in particolare i testi concernenti i classici riti di circoncisione, non hanno fornito modelli adatti per il noutu, in cui ogni padre di famiglia sceglie per il proprio figlio un compagno di circoncisione fuori dalla cerchia dei parenti, sovente fuori dallo stesso gruppo etnico. Non è in gioco l’identità medje-mangbetu ma un’alleanza con gli altri gruppi della regione. Accade spesso che il lavoro sul terreno subisca bruschi e repentini stravolgimenti dovuti al mutamento delle aspettative e dell’oggetto di studio. Così, il progetto di condurre la ricerca all’interno dei villaggi medje-mangbetu non poteva più essere sostenibile una volta appurata la valenza interetnica del rituale in questione. Occorreva andare fra gli «altri», nei villaggi dei Babudu, dei Balika, negli accampamenti dei Pigmei, ovunque avessi trovato famiglie alleate, con il sangue dei circoncisi, ai MedjeMangbetu. Grazie a questa apertura verso gli altri, ha preso for5
ma inaspettatamente un metodo di analisi dei riti particolarmente proficuo. Infatti, il viaggio ideale nella foresta delle alleanze ha permesso di comparare diversi stili e tradizioni rituali e la loro evoluzione nel tempo (cap. IV). In tal modo si sono potute ricostruire le dinamiche e rintracciare i motivi dell’affermarsi – probabilmente a causa della sopraggiunta logica coloniale – di questa curiosa alleanza fra famiglie di circoncisi. Il rituale in questione (il noutu) non si presenta soltanto come una ragionevole possibilità per gli abitanti della regione di riformulare la pratica della circoncisione nel quadro del nuovo ordine coloniale, ma veicola e contribuisce a realizzare un preciso progetto «antropo-poietico» (di costruzione dell’uomo) che sottende una specifica idea di umanità. Per meglio cogliere tale progetto si sono suggerite connessioni tra l’alleanza con circoncisione e altri momenti della vita dell’individuo, in particolare la nascita e la morte (cap. V). In questi e altri ancora momenti cruciali della vita la riflessione sull’uomo si intreccia con la riflessione sulla pluralità di individui con cui si interagisce; la costruzione dell’individuo è inscritta nella costruzione della configurazione sociale. Il progetto di costruzione dell’uomo (progetto antropo-poietico) non può prescindere da un progetto di costruzione della società, della comunità (un progetto dunque «koino-poietico»). L’intreccio fra antropo-poiesi e koino-poiesi si chiarisce attraverso la connessione dei significati che scaturiscono in vari momenti del processo di crescita dell’individuo. L’originalità del caso etnografico analizzato in questo libro non risiede soltanto nella centralità assunta dal concetto di alleanza ma anche nello stretto legame fra la riflessione sull’uomo e la riflessione sulla società. Il noutu «costruisce» individui adulti creando alleanze, cioè «mettendo insieme» una pluralità di esseri umani. Qualcosa di analogo sembra accadere nella società segreta denominata nebeli (cap. VI). La connessione fra il noutu e il nebeli mi sembrò talmente importante che a partire da un certo momento del mio soggiorno in Congo, decisi di concentrare la mia attenzione su tale associazione segreta, che – secondo gli indigeni – è un altro modo per «creare rapporti tra famiglie», un altro modo per mettere insieme una pluralità di individui in base a un preciso progetto di umanità. Sembra che entrambe le istituzioni si siano affermate nel periodo coloniale e rappresentino risposte «plurali», «collettive» alla crisi 6
dei valori e dei punti di riferimento tradizionali. È oltremodo significativo il fatto che sia il noutu sia il nebeli creino reti di relazioni che si estendono al di là dei confini etnici, riformulando in termini nuovi il senso dell’appartenenza a un gruppo. Nella parte conclusiva del volume si ripercorre l’intreccio – o meglio, le varie connessioni introdotte – e si sottolineano alcuni aspetti dell’antropologia implicita emersa dalla ricerca. Le riflessioni degli indigeni sull’inesorabile scorrere della vita e sui tentativi di costruzione e di modellamento sia dell’essere umano sia della società – tentativi strettamente connessi alla dimensione plurale dell’esistenza umana – vengono fatte dialogare con alcuni pensatori occidentali (da Dostoevskij a Nietzsche, da Sofocle ad Hannah Arendt), mostrando in tal modo come anche in sperduti angoli della foresta equatoriale africana i gruppi sociali, con i loro rituali, dibattano problemi di notevole profondità teorica come quelli evocati all’inizio del volume: ovvero i problemi connessi ai tentativi di costruire socialmente strutture dure come termitai, al bisogno di pluralità e all’inesorabile fluire del tempo. Benché la responsabilità di ciò che è scritto in queste pagine ricada per intero sull’autore, un’infinità di persone e di amici hanno contribuito più o meno direttamente allo svolgimento della ricerca e alla stesura di questo libro. In primo luogo sono immensamente grato al compianto padre Oscar Goapper per avermi sostenuto umanamente fin dall’inizio e agli amici missionari della Consolata del villaggio di Neisu per avermi «adottato», non solo fornendomi una casa nei pressi della loro, ma soprattutto facendomi sentire a casa ogni qual volta rientravo dalle mie peregrinazioni nei villaggi della zona. Non sarei neppure riuscito ad arrivare nei territori della ricerca senza l’appoggio dei missionari della stessa congregazione che operano a Isiro e a Kinshasa; a loro e alla comunità delle Suore del Sacro Cuore di Neisu va il mio più sentito ringraziamento. Ringrazio inoltre tutti coloro che a più riprese mi hanno aiutato a orientarmi nella cultura medje-mangbetu. In primo luogo, Padre Antonello Rossi che, rientrato in Italia dopo aver fondato la missione di Neisu, è diventato un cultore appassionato della storia mangbetu e mi ha fornito molto materiale bibliografico; in secondo luogo, i responsabili del centro evangelico di Egbita per 7
avermi dato preziose informazioni linguistiche; in terzo luogo, l’etnomusicologo e linguista belga Didier Demolin e l’antropologo statunitense Robert McKee per aver messo a mia disposizione le loro conoscenze sulla cultura medje-mangbetu; e infine, il personale e i ricercatori che lavorano nelle biblioteche e negli archivi di Tervuren. Il debito più grosso quando si conduce una ricerca sul terreno è nei confronti della gente del posto, le persone che mi hanno ospitato nei loro villaggi e coloro che aridamente vengono definiti «informatori» e «collaboratori», ma che in moltissimi casi diventano amici, come è accaduto con Dieudonné Abuomwandrodio e Roberto Mopay, che ringrazio particolarmente. Un ringraziamento doveroso rivolgo alle istituzioni che hanno reso possibile lo svolgimento di questa ricerca: il Dipartimento di Scienze Antropologiche, Archeologiche e Storico-Territoriali dell’Università di Torino, la Missione Etnologica Italiana in Africa Equatoriale patrocinata dal Ministero Affari Esteri e diretta dal professor Francesco Remotti e il dottorato di ricerca in «Antropologia culturale ed Etnologia: teoria e pratica della ricerca». Vorrei ringraziare coloro che a vario titolo hanno letto la mia tesi di dottorato (dalla quale è tratto il presente libro) fornendomi consigli e osservazioni preziose: all’interno del dottorato i miei supervisori, professor Ugo Fabietti e professor Francesco Remotti che ha seguito fin dall’inizio lo svolgimento della ricerca e la stesura della dissertazione finale, i professori Adriana Destro, Salvatore D’Onofrio e Tullio Seppilli della commissione giudicatrice, il professor Pier Paolo Viazzo e il dottor Marco Aime. Penso che mia madre, mio padre e Brunella troveranno in queste pagine una ragione in più al grande sostegno che mi hanno dato e per il quale li ringrazio.
Capitolo primo
Una strana classificazione indigena
Guardare il fiume fatto di tempo e acqua e ricordare che il tempo è un altro fiume, sapere che ci perdiamo come il fiume e che i visi passano come l’acqua Jorge Luis Borges L’arte poetica
1. L’ingegnere idraulico nella stagione delle termiti Quando riuscii finalmente a raggiungere il villaggio di Neisu nella foresta del Congo nord-orientale, Oscar, il medico missionario che avrebbe dovuto ospitarmi, non c’era. Era partito una settimana prima per una spedizione di piacere alle cascate del Nepoko (affluente dell’Ituri) organizzata dal capo del dominio Medje (confinante con il dominio Ndei a cui appartiene Neisu) e composta da decine di portatori e da alcuni cacciatori pigmei. L’arrivo non fu dei migliori: non c’era la persona con cui ero in contatto e per di più mi trascinavo da alcuni giorni un’infezione virale con febbre alta. Rimasi quasi l’intera giornata a letto. Il villaggio mi sembrò silenzioso: nessuno schiamazzo, pochi rumori, nessuno venne a curiosare o a indagare sulla mia identità. La sola sensazione fu che la foresta non riusciva a mitigare il calore della stagione secca. Fortunatamente la stessa sera arrivò Oscar, il quale a partire dal giorno successivo mi aiutò a introdurmi fra gli abitanti del villaggio e a cercare potenziali collaboratori e informatori. – «Bonjour ingénieur de la chute!»; dalle prime presentazioni mi resi conto che l’intero villaggio mi aveva già attribuito una chiara identità: ero un ingegnere idraulico. 9
Per spiegare questa curiosa «classificazione indigena» occorre tornare indietro di alcuni mesi, quando era giunto a Neisu un ingegnere argentino, amico di Oscar, per valutare la fattibilità di un piccolo progetto idroelettrico su un fiume che scorre non lontano da Neisu in territorio Ndei. Tramite una piccola turbina sarebbe stato possibile alimentare l’ospedale del villaggio e prevedere eventuali allacciamenti. Partendo dal presupposto che per un africano non si cammina in foresta per più di una settimana soltanto per piacere, Oscar si era evidentemente recato alle cascate del Nepoko per verificare la possibilità di trasferire il progetto idroelettrico laggiù nel dominio Medje. Tutto ciò era vissuto dagli abitanti di Neisu come un alto tradimento; tali supposizioni sarebbero state rafforzate dall’arrivo di un ingegnere esperto di fiumi e cascate. Fu proprio in quei giorni che arrivai nel villaggio; la forzata reclusione durata un’intera giornata, dovuta all’infezione virale, aumentò la diffidenza nei confronti dell’intruso e favorì l’affermarsi dell’ipotesi che resistette alle mie precisazioni per alcune settimane. A conferma che l’impatto con il campo non è mai neutro, un secondo evento si impose al mio «essere là». Durante una delle prime serate, diligentemente trascorse alla luce di una torcia elettrica a riflettere sulle modalità del debutto della ricerca, feci la conoscenza delle termiti alate. Infatti in un determinato periodo dell’anno, a una determinata ora di determinati giorni, numerosissime flotte di termiti alate lasciano i termitai per andare a fondarne altri poco lontano. Attratte dalla luce si dirigono in massa verso la fonte luminosa facendo la felicità di chi è pronto a catturarle per mangiarle, o la disperazione di chi stava ingenuamente riflettendo sulle modalità del debutto della ricerca. Non avevo scampo, ero un ingegnere idraulico arrivato fra i Medje-Mangbetu nel pieno della stagione delle termiti. L’aspetto più rilevante del duplice evento (una falsa identità abbinata a un fatto naturale stagionale) fu l’impossibilità di relegare banalmente tutto ciò nel mondo degli aneddoti e delle curiosità. Le riflessioni serali in compagnia delle termiti, sulle modalità del debutto della ricerca, subirono una «rivoluzione tolemaica»: mi trovai al centro di tali riflessioni, dovetti riflettere su me stesso prima che sull’oggetto di studio. Il punto di partenza 10
dell’intero lavoro sul campo fu completamente diverso da come era stato prospettato. Non più loro, «gli altri», non più l’inizio di un intreccio su di loro ma un frammento di narrazione indigena in cui l’antropologo era il personaggio. Tutto ciò ebbe il sapore di uno scacco matto, dell’essere stato preso in contropiede. La speranza di poter essere un discreto tessitore non doveva venire meno, ma sicuramente doveva fare i conti con una rete preventivamente tessuta dagli indigeni e in cui ero chiaramente inserito. Questa vertiginosa antropologia dell’antropologo mi portò, nelle interminabili serate in foresta, a riflettere (con ironia) su quanto tutto questo richiamasse il concetto heideggeriano della Geworfenheit (l’essere gettati nel mondo), o riecheggiasse l’impresa del capitano Cook identificato dagli Hawaiiani come il dio Lono. Fu così che fin da subito ebbi la sensazione che tale impatto con il campo avrebbe influenzato la ricerca. Non riuscivo o non volevo liberarmene, e per l’intera durata del mio primo soggiorno sul campo molti colloqui con gli informatori riguardarono i fiumi e i termitai. Non fu una scelta ragionata ma una logica possibilità di approccio a una realtà su cui non era stato scritto molto e alla quale ero chiamato ad attingere per accumulare informazioni. I fiumi e i termitai costituiranno uno sfondo sul quale sviluppare l’intera argomentazione del libro. In particolare in questo primo capitolo è mia intenzione, oscillando tra fiumi e termitai, proporre un percorso descrittivo e interpretativo attraverso il quale sia possibile fare emergere una parte di etnografia medje-mangbetu, ipotizzare un frammento di antropologia implicita e quindi iniziare il lavoro di «tessitura» in cui intrecci, connessioni e reticoli incominciano a prendere forma intorno alle due prime immagini che si imposero al mio «essere là». 2. L’ambiente, la dieta e il lavoro Nei mesi di permanenza sul campo, non mi è stato difficile incontrare termitai lungo le strade e i sentieri, nel mezzo dei campi e nel fitto della foresta, e per ciò che concerne i fiumi e i ruscelli, solo la mia bicicletta può ricordare gli innumerevoli equilibrismi su ponti di tronchi instabili che insieme dovevamo affrontare a intervalli regolari ogni qualvolta bisognava raggiungere la nébha (com11
pound, villaggio) di un anziano Medje troppo paziente o troppo timorato di un mondele («uomo bianco» in lingala) per non prestare ascolto alle mie domande. I Medje-Mangbetu sono insediati in una piatta regione sul confine fra la foresta e la savana, attraversata da un’infinità di fiumi le cui acque, scorrendo per la quasi totalità da oriente a occidente, vanno a gettarsi nel Uele e nell’Aruwimi, affluenti del fiume Congo (fig. 2). Da un punto di vista amministrativo1, i Medje-Mangbetu occupano le collectivités (unità politiche che ricalcano le antiche chefferies) di Mongomasi, Ndei e Azanga (fig. 3). Lo storico africanista Jan Vansina, riferendosi al bacino interno del grande fiume africano, include il territorio in questione nelle alte terre dell’est (Eastern Uplands); più specificamente pone la sua attenzione su un’area inclusa fra il medio Bomokandi e il Nepoko in cui «sono parlate 28 lingue appartenenti a tre delle maggiori famiglie linguistiche dell’Africa, come se la popolazione fosse immigrata in questa regione da ogni punto del compasso» (1990a: 169). Gruppi ubangiani, sudanesi e bantu «si sono mescolati a partire dalla seconda metà del primo millennio della nostra era nell’area fra il medio Bomokandi e il Nepoko, e dal 1000 d.C. le loro differenti eredità si sono fuse in una nuova comune tradizione» (Vansina 1990a: 172). Una parte consistente di questa area è occupata dai Medje-Mangbetu che parlano il dialetto medje della lingua mangbetu2 e sono probabilmente originari delle regioni al confine fra Congo, Sudan e Uganda. I motivi di questo confluire di popoli nella regione del medio Bomokandi-Nepoko sono in primo luogo dovuti alle caratteristiche ambientali, in quanto coesistono, sfumando l’una nell’altra, la foresta e la savana (Peeters 1964). Dal punto di vista ecologico si tratta di un’area di confine in cui la varietà di piante e di animali è decisamente più ricca a confronto degli ambienti uniformi di foresta a sud e di savana a nord. Dove finisca la foresta e dove inizi la savana non è facile stabilire con esattezza; il termitaio diventa così un elemento di semplificazione nella percezione dell’ambiente della regione in quanto, come sottolinea Emalongo, un anziano informatore medje: «qui ci sono termitai di foresta e altri di savana. La differenza è fra l’umido e il secco». Mentre i fiumi forniscono direttamente le coordinate più si12
gnificative (anche da un punto di vista storico-culturale) per presentare il territorio, i termitai che segnano e costellano ovunque la regione aiutano indirettamente a descriverla. Se il fiume – come si vedrà in seguito – rientra nelle riflessioni degli antropologi, non altrettanto si può affermare riguardo ai termitai. Quando si ha bisogno di conforto ci si rivolge agli antenati; fu così che tornato dall’Africa dopo il primo soggiorno, andai a verificare se qualche antropologo africanista si fosse mai minimamente interessato alle termiti. Fra i pochi riferimenti che trovai ve n’era uno altamente significativo: Edward E. Evans-Pritchard, uno dei più noti antropologi africanisti, nel suo scritto sulla stregoneria e la divinazione zande descrive e analizza il ruolo dell’oracolo delle termiti fra gli Azande, confinanti a sud con i Medje-Mangbetu. Occorre sottolineare che nel volume in questione, il primo riferimento alle termiti non è in relazione alla divinazione ma alla dieta dei locali: «Per sopravvivere, coltivano il suolo, uccidono animali e pesci e raccolgono frutti selvatici, radici e insetti [...]. La selvaggina è molto abbondante, e le sciamature annuali delle termiti raramente deludono le loro speranze» (Evans-Pritchard 1976: 51). Oggi, molti Medje-Mangbetu continuano a inserire le termiti nella loro dieta3 composta, di solito, da un piatto base consistente in radici e tuberi (soprattutto manioca) abbinati a legumi e olio di palma. Fagioli, arachidi, riso, semi di zucca e mais (raro) scarseggiano soprattutto al termine della stagione secca (febbraiomarzo), periodo in cui abbonda il pesce (il livello delle acque è basso e la pesca viene favorita) e avvengono le sciamature delle termiti. Il consumo di carne non è frequente, malgrado non sia difficile vedere intorno alle abitazioni polli, anatre, maiali e capre, tutti animali inseriti non tanto nei pasti quotidiani quanto nelle reti di scambi – rituali e non – e nel pagamento di determinate prestazioni. Poiché l’attività venatoria non è così generalizzata e frequente come gli stessi Medje-Mangbetu amano affermare, l’approvvigionamento di selvaggina è altamente irregolare. Le termiti, quindi, svolgono un ruolo fondamentale come integratore proteico al termine della stagione secca. Esistono diversi tipi di termitai e ognuno ha la sua «personalità». Nominare il termitaio ebieto scatena risate collettive abbinate a disprezzo; le termiti anziuma e emangele sono le più con13
sumate e se ne parla in termini alimentari; il termitaio eitia suscita un grande rispetto e facilmente si abbina a qualche storia di spiriti (nopi); il termitaio esubu è rispettato per le grandi dimensioni delle termiti e dal punto di vista alimentare viene solitamente connesso con i funghi che nascono sulla superficie, denominati nezubambu; il termitaio epopo è trattato con molta simpatia, in quanto si crede occorra utilizzare la musica per fare uscire le termiti. I discorsi inerenti i termitai trascendono il gruppo etnico: se si parla delle termiti enyonyo si fa riferimento alle terre dei Babudu e genericamente all’est, mentre ogni discorso inerente le tecniche di raccolta porta inevitabilmente all’elogio dei vicini Mayogo (di solito disprezzati), in quanto riescono a fare uscire un numero maggiore di termiti. Oziatandra, un famoso cacciatore della regione (il quale non mancava di regalarmi un pollo a ogni mia visita), sostenne che l’attività della raccolta delle termiti fosse simile alla caccia perché si va in foresta e alla coltivazione in quanto il termitaio va pulito come il campo. In effetti alcuni tipi di termitai si trovano in foresta e solitamente vengono utilizzati per la raccolta dei «soldati» e non delle termiti alate, mentre la pulizia del termitaio (che consiste nello sradicare ogni sorta di erba dalla crosta di fango esterna e nel preparare il buco utilizzato per la raccolta delle termiti alate) ricorda i lavori preliminari del campo. Queste operazioni vengono effettuate agli inizi della stagione delle piogge (marzo) prevalentemente dagli uomini. Il termitaio è considerato il luogo di incontro delle diverse attività lavorative: la raccolta delle termiti è ovviamente una raccolta, ma ricorda per alcuni aspetti la caccia e per altri la coltivazione. I Medje-Mangbetu, perlomeno quelli con cui ho avuto occasione di parlare, appaiono coltivatori poco entusiasti. Durante la stagione secca (gennaio-marzo) gli uomini preparano i campi strappati alla foresta tagliando e bruciando la vegetazione, mentre le donne seminano e raccolgono. I prodotti che si riescono a ricavare per il consumo o per il piccolo commercio sono: arachidi, manioca, patata dolce, riso e un po’ di mais. Alle donne è affidata gran parte della attività di raccolta e hanno l’esclusiva per determinate tecniche di pesca, soprattutto quella denominata nóoli 4. La più gratificante attività maschile è la caccia in foresta. Può 14
essere praticata con l’arco e le frecce, il machete, le lance oppure con le reti; solo in quest’ultimo caso è collettiva e di solito coinvolge gli uomini appartenenti a un medesimo «patrilignaggio esogamico»5. La raccolta delle termiti alate (per lo più del tipo anziuma) avviene parecchie volte fra febbraio e marzo a determinate ore della sera e del mattino successive a una giornata di sole caratterizzata da una alta umidità causata da recenti piogge. La tecnica consiste nel ripulire la superficie del termitaio e nel fare un buco ai piedi dello stesso; al momento opportuno occorre appoggiare una torcia su un lato della piccola fossa in modo tale che le termiti, attratte dalla luce, si infilino nel buco. Nei mesi di permanenza in Africa, mi è capitato di raccoglierne nei pressi della mia stanza. La scena non presentava nulla di esotico e di «autentico»: dopo essermi spogliato il più possibile onde evitare che la nuvola di termiti si infilasse fra i vestiti, procedevo nella raccolta armato di scopa, paletta e secchiello. Ricordo che José, un amico missionario brasiliano, si divertiva a prenderle per le ali e a succhiarne il corpo, io le preferivo il giorno dopo, specie se immobili, rinsecchite e leggermente croccanti! Durante l’intero anno è possibile avventurarsi in foresta, individuare un termitaio emangele e catturarne i «soldati» (le termiti munite di tenaglie, addette alla difesa del termitaio). La tecnica di raccolta – a detta dei locali – è di origine pigmea e consiste nel perforare la base del termitaio e introdurre il fumo ricavato dalla combustione di una banana secca che ha lo scopo di irritare e allarmare i «soldati». Nel buco si introduce successivamente uno strumento denominato nanzonzo: un piccolo bastone ricavato da piante particolari (nabelu o nebuanvi) alla cui estremità si fissano strisce sottili estratte dalla radice nóoli o dalla corteccia dell’albero nemoinvi. Le grandi e scure termiti-soldato si attaccano alle strisce del nanzonzo facilitando la raccolta. Se i termitai conducono inevitabilmente a parlare non solo della dieta e del lavoro, ma anche del territorio, la percezione di quest’ultimo è tuttavia strettamente connessa all’immagine del fiume, o meglio, all’asse lungo il quale scorrono i corsi d’acqua della regione.
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3. A monte e a valle Dalle interviste condotte sembrerebbe che lo spazio in cui vivono i Medje-Mangbetu sia organizzato lungo l’asse est-ovest. Nella lingua locale questo asse prende forma attraverso l’uso frequente di due parole: zebo e zebu. Zebo significa indistintamente «levante» e «a monte (di un fiume)», mentre zebu significa «ponente» e «a valle (di un fiume)». I Medje-Mangbetu del sud (fra i quali ho svolto la ricerca) utilizzano il termine zeboi per denominare i Medje-Mangbetu della regione di Rungu (a nord-est di Neisu) e zebui per autonominarsi nei contesti in cui ci si contrappone agli zeboi. Zebui è una sorta di Noi situazionale. Anche fra i Kuba del Kasai (una delle regioni centrali dell’ex Zaire) il termine ngel, che significa «a valle», e il termine tyeen, «a monte», sono riferiti ai corsi dei fiumi e ricorrono costantemente sia per posizionare un individuo nello spazio, sia per narrare le origini e le migrazioni dei Kuba (Vansina 1978). La grande migrazione capeggiata dall’eroe fondatore dei Kuba, Woot, è avvenuta da valle verso monte, contro corrente. Il luogo originario si troverebbe a valle del fiume nella più ampia distesa d’acqua concepibile6. A livello linguistico, qualcosa di simile è rintracciabile nel dialetto medje in cui la foce del fiume è denominata nedandreti. Questa parola è composta dal termine neda (fiume) e da neti (origine, ceppo, radice); gli stessi miei collaboratori trovavano curioso il fatto che «la radice del fiume» (così era la loro traduzione in francese) fosse la foce e non la sorgente. Significativo è anche il simbolo dell’unità nazionale dei Kuba, il muyum, la pagaia su cui sono incisi tutti i modelli di scarificazione dei diversi gruppi etnici. Sia la pagaia sia la canoa (utilizzata per designare il re kuba) rappresentano la resistenza nei confronti della corrente, dello scorrere dell’acqua che porta via. Particolarmente importante, in quanto si riferisce a un rituale di circoncisione, è ciò che scrive Wauthier De Mahieu sul rapporto tra i corsi d’acqua e la tradizione del gandjá kentende, uno stile di circoncisione introdotto dai basáyó fra i Komo del Congo: Uno dei contributi della storia [...] è costituito dal legame che, in ragione delle loro migrazioni lungo il Maiko [il fiume che attraversa il territorio komo] connette i basáyó, instauratori del kentende, all’ac-
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qua. Questo elemento calza alla perfezione con certi riferimenti cosmologici secondo i quali la rivelazione del rituale giunge dagli antenati situati sotto l’acqua. Il punto importante è che i basáyó avrebbero portato il rituale del kentende dopo il loro ritorno dalle sorgenti del Maiko, situate a est del territorio occupato dai Komo. Dal fatto che il sole sorge da quel lato e tutti i grandi fiumi che attraversano il territorio scendono da est a ovest, si è sviluppato un certo numero di rappresentazioni, secondo le quali tutta la vita e tutto il costume autentico hanno la propria fonte a Oriente. L’est stesso si designa d’altronde con il termine okómo da cui i Komo fanno derivare il nome con cui si designano, collocando inoltre le proprie origini in questa direzione. [...] Il rituale del kentende si basa abbondantemente sul tema della risalita alle sorgenti (De Mahieu 1985: 43).
Anche per i Lele, studiati da Mary Douglas (1985), l’andare contro corrente, tende, è un movimento molto prestigioso in netta opposizione al discendere la corrente (angele); inoltre, per i Lele, la direzione tende è associata agli uomini, mentre la direzione angele alle donne. Quest’ultima associazione di genere ci riporta sorprendentemente nell’universo simbolico dei Medje-Mangbetu in cui l’orientamento del cadavere nella tomba risponde a regole precise: gli uomini vengono sepolti con il volto rivolto verso zebo (a monte, levante), le donne con il volto verso zebu (a valle, ponente). Per i Medje-Mangbetu il risalire la corrente, il resistere alla forza dell’acqua che scorre, ha una grande importanza, ma prima di entrare nel merito occorre insistere su una particolarità del binomio zebo-zebu, la stessa particolarità che Wauthier De Mahieu ha evidenziato per i Komo. I due termini non si riferiscono soltanto allo scorrere delle acque dei fiumi ma anche al percorso che il sole compie nel cielo. Per comprendere il comune riferimento al fiume e al sole è sufficiente osservare una carta geografica della regione (fig. 2). Appare evidente come tutti i fiumi della zona (Uele, Nepoko, Nava, Bomokandi, Ituri, Uruwimi ecc.) scorrono da est a ovest (seguendo il percorso del sole), in quanto hanno origine lungo il versante occidentale della cresta Congo-Nilo e scendono nel bacino del Congo. Dal punto di vista antropologico tale correlazione risulta estremamente rilevante in quanto l’orientamento spaziale investe in pieno la dimensione temporale. Sembra infatti lecito ipotizzare 17
che lungo questo asse spazio-temporale prenda forma l’immagine della vita: il trascorrere del tempo sovrapposto ai letti dei fiumi, l’inesorabile procedere dei giorni, il susseguirsi ininterrotto dell’alba e del tramonto accompagnati dallo scorrere delle acque, riguardano direttamente la vita degli uomini. Una sintesi significativa di tale concezione è riscontrabile in un proverbio raccolto sul campo: «Nekoko ogwea a mezebo ogwea sia mezebu», «la piroga non invecchia (non marcisce) a levante, invecchia verso ponente». Il trascorrere della vita è inesorabilmente inscritto nello scorrere delle acque; la forza impressa alla pagaia, la capacità di trattenere la piroga in un tratto di fiume ed eventualmente risalirlo, alla fine verranno meno e inesorabilmente si andrà verso valle, verso il tramonto. Ciò che si prospetta è la lotta contro la corrente che trascina via, una lotta che riguarda non solo popolazioni africane7. Per gli amerindi Pirá-paraná del Vaupés (tra il Brasile e la Colombia) la foce del fiume è il luogo originario dell’umanità e il popolamento della terra sarebbe avvenuto attraverso la risalita degli anaconda e la loro successiva uscita dall’acqua (Hugh-Jones 1995: 276); analogamente la grande migrazione dei Kuba è avvenuta da valle verso monte. Anche fra i Medje-Mangbetu sono rintracciabili immagini significative concernenti il rapporto tra il fiume e il processo di formazione dei gruppi sociali. Innanzitutto tali immagini riguardano l’origine della differenziazione etnica. I Medje, infatti, narrano di essere «scesi» dal Sudan e di aver avuto lungo il percorso l’esigenza di costruire ponti di liane per attraversare i fiumi. Il gruppo «indistinto» di migranti avrebbe tentato di attraversare i fiumi; a un certo momento di ogni singolo attraversamento, le liane si sarebbero però spezzate lasciando per sempre al di qua del fiume una parte del gruppo. Ciò che è interessante notare è che ogni gruppo etnico della regione spiega la formazione dei vicini in questo modo, attraverso storie di liane spezzate (Denis 1961: 12-13). La più emblematica resistenza allo scorrere del fiume è però rappresentata dal rituale di intronizzazione di un capo mangbetu. L’individuo designato per ricoprire tale carica deve coricarsi sul letto di un piccolo fiume preventivamente sbarrato e prosciugato per un tratto. Il futuro capo, coricato su un letto di foglie ai piedi della diga, costruita per l’evento, deve resistere alla corrente 18
dell’acqua fatta defluire dalla diga. Gli informatori sottolineano quanto sia importante che un capo sappia resistere «alle vicende della vita». In seguito il capo dovrà uscire dal fiume e correre velocemente verso la sua abitazione senza voltarsi indietro. Lungo il tragitto verrà bastonato duramente da chiunque lo voglia. Non si è di fronte a una vera risalita ma a una resistenza abbinata a una fuoriuscita. Van Der Kerken (1932: 8) riporta una credenza mangbetu, la quale – benché non mi sia stata confermata sul campo – è significativa in relazione al tema della risalita. Secondo lo studioso belga ciò che risale il fiume per i Mangbetu è il «doppio» (na toro) del defunto, il quale raggiunge la sorgente e lì dimorerà. I locali con cui ho conversato sono stati invece concordi nel raccontare una simbolica risalita effettuata dai ragazzi sottoposti al rituale della circoncisione (noutu). Durante le fasi finali della cerimonia i circoncisi, dopo aver dormito ognuno per conto proprio in alcuni compound situati a zebu (a valle, ponente) rispetto al luogo dell’operazione, devono risalire verso zebo (a monte, levante) per ritrovarsi insieme a consumare un pasto speciale, con il quale si sancisce la loro unione in qualità di fratelli di circoncisione. Se la direzione zebu è associata alla dissoluzione, alla morte, all’oblio di ogni singolo individuo, la direzione zebo è connessa all’idea della costruzione. Ciò è particolarmente evidente durante il noutu in quanto è verso est che viene costruita una rete di relazioni che coinvolge i circoncisi e le loro famiglie. Come verrà diffusamente mostrato in seguito, la risalita verso est segna la strutturazione di un gruppo i cui componenti (i fratelli di circoncisione) dovranno nell’arco dell’intera vita collaborare e condividere i beni. In questo caso la risalita è un passaggio da una riflessione solitaria compiuta a zebu e concernente la propria sorte alla realizzazione di un gruppo: è un passaggio dalla singolarità alla pluralità. A ben vedere, anche fra i già menzionati Pirá-paraná, la connessione fra la risalita e la costruzione dei gruppi è rinvenibile nell’immagine di ogni singolo anaconda che, dopo aver risalito il fiume ed essere uscito dall’acqua, diventa un gruppo di persone (Hugh-Jones 1995: 56). Un altro esempio significativo è quello degli indiani Huni Kuin dell’Amazzonia peruviana (Deshayes e Keifenheim 1994), i quali pensano il loro universo di relazioni attraverso una triplice divi19
sione: due metà esogamiche sono al loro interno suddivise in un gruppo di uomini e uno di donne; i quattro gruppi così costituiti vengono ridivisi al loro interno in due gruppi di generazioni alternate. Queste suddivisioni, sconosciute ai loro antenati antidiluviani, sono connesse, nel mito d’origine, proprio con la risalita dei fiumi da parte dell’unica sopravvissuta al diluvio (Nete Bekun) e dei suoi figli (Inu, Dua, Inani, Banu). Durante la risalita dei corsi d’acqua Nete Bekun trova i resti delle piante coltivate e istruisce i figli, i quali alla fine di questo lungo tragitto verso monte si uniscono in matrimonio (Inu sposa Banu e Dua sposa Inani) dando origine alle metà esogamiche e ai gruppi di genere. È nella direzione verso monte che gli Huni Kuin si appropriano della cultura (piante coltivate e istruzioni) ed è alla fine della risalita che si dividono in due metà esogamiche (a loro volta divise in base al genere) diventando esseri umani; infatti, gli Hiri (antenati antidiluviani) non sono considerati umani in quanto non «divisi» fra discendenti di Inu/Dua/Inani/Banu (Deshayes e Keifenheim 1994: 67). In molte società africane e non solo, il fiume è il luogo privilegiato in cui inscrivere una certa antropologia. La forza simbolica dello scorrere del fiume si manifesta in ogni cultura in modo diverso; gli stessi esempi etnografici riportati sopra esprimono caratteristiche peculiari nell’intendere il significato del discendere e del risalire il corso d’acqua. Tuttavia, volendo cogliere un elemento comune a tutti sembra che la direzione verso monte appaia come un tragitto che permetta all’uomo di specificare la propria esistenza culturale, mentre dalla parte opposta (a valle) permane tutto ciò che è ineluttabile e naturale. Per i Bakuba, i Pirá-paraná e gli Huni Kuin la risalita corrisponde al popolamento e alla distinzione fra gruppi di appartenenza e di discendenza; per i Komo e i Medje-Mangbetu la risalita è invece contenuta nel rituale di circoncisione e rappresenta un andare nella direzione dell’origine del costume autentico (Komo) o verso la strutturazione di una rete di relazioni (Medje-Mangbetu). Infine gli abbinamenti donna-valle e uomo-monte (Lele e Medje-Mangbetu) rimandano alle connessioni donna-natura e uomo-cultura riscontrate in diversi contesti etnografici e soggette nell’antropologia contemporanea a una analisi critica (MacCormack e Strathern 1980). 20
In opposizione all’ineluttabilità naturale della morte, della dissoluzione impressa nella direzione a valle, il tragitto dell’esistenza sociale e culturale dell’uomo viene condotto verso monte, verso il costume autentico, i gruppi di discendenza, le reti di relazioni. La risalita è un’espressione simbolica che sta alla base di molte antropologie indigene; contrapporsi allo scorrere delle acque non è solo una lotta contro ciò che è necessario e inevitabile ma diventa un progetto verso ciò che è possibile. La direzione «a monte» dischiude un ventaglio di possibilità: ci sono anaconda che si trasformano in sib, fratelli che danno origine a metà esogamiche, circoncisi che si dirigono verso l’origine del costume autentico, altri che si mettono insieme per diventare fratelli di sangue. Se l’ineluttabilità che si trova a valle è uguale per tutti (ogni cosa a valle è indistinta e dissoluta: i gruppi, la vita ecc.), la costruzione culturale verso monte si differenzia secondo le società. L’immagine del fiume è realmente efficace a rappresentare questa differenza, in quanto tutti i fiumi di un bacino idrico si dissolvono verso valle e si definiscono verso monte: la confusione è a valle, mentre la distinzione è a monte. Come si è già accennato in precedenza, nel caso specifico del rito di circoncisione medje-mangbetu, la risalita verso zebu dei neofiti è un passaggio dalla singolarità alla pluralità. In seguito si tornerà sul peculiare tragitto culturale esplicitato nel rituale di circoncisione e inteso come un tentativo di «mettere insieme» una pluralità di individui. Per il momento – continuando a oscillare fra fiumi e termitai, e ampliando ulteriormente un reticolo di connessioni capace di fare emergere i significati di tali immagini – l’idea del «mettere insieme» può essere connessa alle gesta di Nabiembali (l’eroe fondatore del regno mangbetu), il quale prima di intraprendere la grande conquista (storicamente ricordata come un susseguirsi trionfale di attraversamenti di fiumi) salì su un termitaio per radunare il suo seguito, per «mettere insieme» i gruppi della regione. 4. L’immagine della società Raccogliere informazioni su come si svolgono le attività umane intorno al termitaio, mi ha portato a focalizzare l’attenzione su una 21
dicotomia costantemente rintracciata nelle interviste condotte sul campo. Analizziamone due frammenti: Il termitaio è dove si è uniti – mi raccontò Neti, un anziano del villaggio di Neisu – ci sono i soldati, le termiti, i piccoli soldati bianchi. C’è il capo e la regina [...]. Il termitaio appartiene a colui che lo pulisce, che lo mette in ordine. Quando qualcuno va a prendere le termiti da un termitaio pulito da un altro possono scoppiare liti, ci possono essere combattimenti con il Nedaadaa [coltello da guerra] e feriti. Le termiti – afferma Anyabose – lavorano insieme e per questo costruiscono rapidamente il termitaio. Tutto funziona perché tutti si danno da fare, tutti lavorano, non ci sono capi [...]. Quando un termitaio viene diviso fra due famiglie scoppiano disordini e scontri.
Nei due esempi riportati è in primo luogo evidente la contrapposizione fra il mondo del termitaio, chiaramente descritto come il mondo dell’unità, della collaborazione e dell’ordine, e il mondo degli uomini, allusivamente o esplicitamente definito come il luogo delle dispute, del disordine e delle divisioni. In secondo luogo, è curioso notare come i due informatori nell’idealizzare il misterioso universo delle termiti attribuiscano ad esse due opposti sistemi politico-sociali: per Neti, il termitaio cela una ordinata società centralizzata e gerarchizzata, mentre per Anyabose l’ordine e la funzionalità del termitaio poggia su un’organizzazione politica acefala. Il disordine e le contrapposizioni che caratterizzano l’agire umano intorno a un termitaio, sono in un certo senso rinvenibili anche nel modo in cui gli uomini immaginano lo sfondo politico di un ordine, di una unità relegata nel mondo delle tenebre. Nelle occasioni in cui si discorreva di termitai era inevitabile il riferimento a conflitti e dispute fra uomini, fra animali o fra spiriti ed esseri umani. La tensione fra ordine e disordine, l’idealizzazione del primo e l’ineluttabilità del secondo rimandano ad alcune importanti riflessioni di Georges Balandier, secondo il quale la dicotomia ordine-disordine non va relegata fra gli strumenti di analisi della sociologia del mutamento, ma può assumere un valore paradigmatico all’interno dell’antropologia culturale (Balandier 1991). Tutto ciò non tanto per allontanarci dai termitai e dai 22
fiumi del Congo nord-orientale, quanto per tessere un discorso significativo su di essi. Balandier sostiene da sempre la necessità di valorizzare la dimensione temporale nelle analisi delle diverse società. La temporalità di cui parla si inscrive all’interno di una più ampia visione della società caratterizzata dalla complessità e dalla «vulcanicità». Il carattere vulcanico delle organizzazioni sociali fa sì che la continuità e gli equilibri siano relegati nel mondo delle illusioni e che i rivolgimenti, le crisi, le mutazioni, i disordini irrompano periodicamente sulla scena e negli interessi degli antropologi. In tal modo, lo studioso francese non intende riproporre la vecchia dicotomia fra le sociologie dell’equilibrio e quelle del mutamento, ma ritiene di poter cogliere un’essenza generativa della realtà sociale e cioè l’essere il risultato di una produzione continua e mai conclusa dove il disordine è inteso come una condizione dell’uomo che potenzialmente è in grado di agire come forza creativa e costruttiva. Ciò che viene chiamato «società» non corrisponde ad un ordine globale già presente, già fatto, ma ad una costruzione di apparenze e di rappresentazioni o ad una proiezione nutrita dell’immaginario. Il sociale, si potrebbe dire con una formula, è ininterrottamente alla ricerca della propria unificazione: ed è questo il suo orizzonte (Balandier 1991: 88).
L’immagine dei termitai nella cultura medje-mangbetu, nel modo in cui gli informatori la narrano (la proiettano), contiene questa idea dell’unificazione alla quale si tende illusoriamente nel mondo degli uomini. La direzione del movimento e del divenire attraverso uno sforzo individuale o collettivo tenderebbe a seguire l’ordine immaginato e successivamente proiettato. È interessante a questo punto verificare se e come l’immagine del termitaio attragga verso di sé il movimento creatore di una azione volontaria della società. Fra gli innumerevoli racconti medje-mangbetu in cui compare l’immagine del termitaio, è stato possibile rintracciare due casi in cui il termitaio rappresenta l’ideale punto di arrivo di un tragitto. Come si vedrà, le differenze fra le due situazioni risultano molto significative. Il primo caso è un racconto riportatomi dal vecchio kapita (ca23
po) Emalongo. Ci si può servire ancora una volta delle parole di Balandier per introdurlo: «la storia pratica l’astuzia e l’ironia». Una coppia pulisce un termitaio di foresta per poi andare a raccogliere le termiti. Un uomo volendo ingannare la coppia e prendere le termiti del loro termitaio si avventura in foresta [verso il termitaio] prima della coppia. Quando il sentiero giunge a una biforcazione, l’uomo pulisce il sentiero che si perde in foresta e si incammina lungo il sentiero del termitaio abbattendo gli alberi dietro di sé per farlo apparire abbandonato. In tal modo la coppia che aveva pulito il termitaio si perde in foresta e lui prende le termiti.
Lo stesso Emalongo nel commentare il racconto ne esplicita il significato: l’importanza dell’intelligenza e dell’astuzia per riuscire a raggiungere un obiettivo. Il termitaio, simbolo positivo di unità, collaborazione e funzionalità, è un obiettivo il cui raggiungimento comporta un’azione di astuzia e di intelligenza intorno a una biforcazione, la quale oltre a essere il luogo in cui si dischiudono le possibilità, in cui è possibile, anzi necessario, compiere una scelta, è il luogo in cui le potenzialità tipicamente umane, come l’intelligenza e l’elaborazione di una strategia, hanno una forza risolutiva notevole. Il tema della scelta risulterà in seguito (cap. III, § 2) centrale nella descrizione dell’organizzazione del noutu (il rituale di circoncisione medje-mangbetu). Ogni singola famiglia sceglie accuratamente i compagni di circoncisione dei propri figli, in quanto il noutu crea una rigida fratellanza fra i vari circoncisi, i quali per il resto della vita avranno obblighi e doveri reciproci; lo scopo del rituale sembrerebbe quello di incrementare la rete di relazioni orbitante intorno a una famiglia. Attraverso il noutu si «mette insieme», sulla base di una scelta strategica, una pluralità di bambini, costruendo un legame nuovo che spesso trapassa i confini etnici. In evidente contrapposizione con il racconto di Emalongo è possibile riportare la fase centrale dell’iniziazione alla società segreta nebeli diffusa nel Congo nord-orientale. A qualche distanza dal «tempio», circa duecento metri, è stata costruita in foresta una specie di galleria di circa 150 m. di lunghezza, 0,50 m. di larghezza e 0,50 m. di altezza. Questa galleria, costruita per mezzo di bastoni ricurvi ricoperti di foglie, conduce a un grande ter-
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mitaio trivellato da un buco. L’aspirante è introdotto con la forza e deve percorrerla il più rapidamente possibile strisciando, per scappare alle numerose bastonate inflitte dagli assistenti. Contemporaneamente, attraverso il buco scavato nel termitaio, si introduce del fumo nella galleria. Se ne approfitta anche per soffiare del pilipili negli occhi delle vittime (Philippe 1962: 98).
La biforcazione del sentiero si contrappone a una galleria dritta e chiusa; il fermarsi nei pressi della biforcazione per escogitare (pensare) una strategia si oppone al rapido strisciare del nebeli; l’eventualità del perdersi nella foresta, del non raggiungere l’obiettivo non può essere contemplata nella cerimonia di iniziazione. L’astuzia, l’ironia e la possibilità vengono sostituite dalla coercizione, dalla violenza, dalla necessità. Il disordine, le dispute e le contrapposizioni delle vicende umane vengono sospesi. Incanalare l’uomo lungo una galleria costringendolo a percorrerla velocemente strisciando comporta l’annullamento di ogni possibile fonte di disordine. La galleria non «lascia dubbi»8, elimina la biforcazione e con essa la scelta; a riprova di ciò, basti pensare alla pratica del reclutamento forzato esercitato dai membri del nebeli (si veda il cap. VI) nei confronti della popolazione, una pratica che non lascia scelta. Al di là delle logiche contrapposte emerse nel racconto di Emalongo e nella ricostruzione di Philippe (una contrapposizione rintracciabile, come si vedrà, anche confrontando il noutu con il nebeli) pare che permangano due punti fermi: 1) il termitaio come obiettivo (indipendentemente dalle modalità di raggiungimento); 2) il movimento di moto a luogo – sia esso lento e riflessivo, o veloce e strisciante – che si esprime in una tensione verso un ordine e un’unità più ideale che reale. Questo movimento si connette a ciò che succede attraverso il noutu e il nebeli, modalità diverse e per tanti aspetti opposte per tenere insieme una pluralità di individui. 5. La costruzione e il flusso Attorno al termitaio prende forma un mondo umano fatto di contrapposizioni, di dispute, di astuzie e strategie: il tutto tendente a un ideale di mondo il più possibile ordinato e strutturato. Come 25
vedremo, in riferimento a certe istituzioni (società segrete), si compie lo sforzo obbligato e necessario di incanalare le forze umane verso un traguardo inevitabile e urgente (il nebeli si affermò negli anni dell’occupazione belga e l’attività dei membri era diretta contro i bianchi). Il percorso verso il termitaio potrebbe essere pensato come un percorso di costruzione ideale della società, di fine tessitura dei rapporti sociali, il tutto tendente all’ordine, alla compattezza e alla funzionalità. Intraprendere metaforicamente il cammino che conduce al termitaio potrebbe voler dire partecipare a un progetto di costruzione e strutturazione che inevitabilmente prende le sembianze di un processo mai concluso. È sorprendente rintracciare nelle Memorie del sottosuolo (1864) di Fëdor Dostoevskij un ragionamento del tutto analogo a quello proposto in queste pagine; ancora più sorprendente è il riferimento dello scrittore russo al mondo degli insetti: L’uomo è un animale per eccellenza costruttivo, condannato a tendere coscientemente verso la meta e ad esercitare l’arte dell’ingegneria, cioè a tracciare eternamente ed incessantemente una strada, sebbene diretta dove che sia. [...] L’uomo ama costruire e tracciar delle strade, è indiscutibile. Ma perché mai egli ama fino alla passione anche la distruzione e il caos? [...] Non può darsi ch’egli ami tanto la distruzione e il caos (perché è indiscutibile che a volte li ama molto, è proprio così), in quanto lui stesso istintivamente teme di raggiungere la meta e di ultimare l’edificio in costruzione? Che ne sapete? Forse l’edificio lo ama solo da lontano, e niente affatto da vicino; forse ama unicamente costruirlo, e non viverci dentro, riservandolo poi aux animaux domestiques, come formiche, montoni ecc. ecc. Ecco, le formiche hanno tutt’altro gusto. Esse hanno un solo meraviglioso edificio dello stesso genere, inalterabile in eterno: il formicaio (1988: 34).
Riconducendo l’argomentazione nell’ambito etnologico è opportuno riportare ciò che è scritto in un articolo di Marcel Griaule del 1961 sulla classificazione degli insetti presso i Dogon: «Quanto alla famiglia delle formiche e delle termiti, essa è associata alla costruzione, in quanto tali insetti costruiscono ‘abitazioni’ complesse; essi sono anche connessi alla fecondità, le termiti vengono considerati (con i pesci) gli animali più fecondi» (Griaule 1961: 13). 26
A conferma della stretta connessione fra l’immagine del termitaio e il concetto di strutturazione riportiamo un elenco di attributi utilizzati da Francesco Remotti per descrivere la «categoria» della strutturazione (Remotti 1993: 166). Al fine di verificare l’appropriatezza di tale elenco, è sufficiente immaginarsi fisicamente i termitai e ripensare a ciò che si è detto precedentemente riguardo al loro valore simbolico: unità, positività, coagulazione, identità, integrità, definitezza, compattezza, solidarietà, costruzione, mantenimento delle forme, sicurezza, dimensione vistosa, individuazione. Remotti affianca a ognuno di questi attributi il suo contrario in modo da formare un secondo elenco utilizzato per presentare la categoria della «fluidità». L’intenzione è quella di riflettere sull’azione, in ogni singola società, di una duplice tendenza espressa dall’opposizione flusso/strutturazione e riferita in particolare alla tematica dell’identità. Le società irrigidiscono, solidificano ma al contempo decostruiscono e destrutturano; «il flusso è un cambiamento continuo, ed è di per sé destrutturante» (1993: 164). Alla strutturazione si contrappone l’ineluttabile fluidità della vita, del tempo e della storia. Tale fluidità può essere ricondotta, in certi termini, al nesso disordine-movimento teorizzato da Balandier e inoltre permette di recuperare l’immagine del fiume (cap. I, § 3). Al di là del fatto che la connessione tra fiumi e termitai risulta evidente nell’opposizione flusso/struttura, basta procedere nella ricostruzione del rituale di iniziazione alla società segreta nebeli proposta da Philippe per passare dall’immagine del termitaio a quella del fiume. Infatti gli aspiranti, dopo aver percorso la galleria che conduce al termitaio, vengono condotti sulle rive di un fiume: «dopo che si sono purificati nelle acque di un corso d’acqua vicino, possono rientrare al tempio» (Philippe 1962: 98). L’acqua ha la capacità di purificare, ma ancora più giusto sarebbe dire – come mi è stato puntualizzato dagli informatori locali – che è lo scorrere dell’acqua che aiuta a portare via ciò che si vuole allontanare dal corpo di una persona. «Nel passato, quando c’erano dispute, per esempio, in famiglia si andava al fiume per lavarsi le mani insieme». Il fiume è qualcosa che porta via; il termitaio è invece la proiezione di un qualcosa che si vuole raggiungere: l’uomo resiste alla 27
corrente, esce dall’acqua, progetta e percorre tragitti. L’essere umano ha un rapporto ambiguo sia con il fiume sia con il termitaio. Può essere soltanto una questione di sfumature narrative, ma l’ipotesi che si sta delineando porta a sottolineare come il frammento di antropologia indigena emerso dagli elementi finora proposti non preveda una completa risalita del fiume e una perfetta e ordinata tessitura della società (cioè, comportarsi come le diligenti termiti). L’individuo costruisce verso zebo la propria esistenza sociale e culturale, e la tessitura di una rete sociale durante il noutu ne è una efficace rappresentazione. Ma la risalita non si completa nel corso della vita; tutt’al più, dopo che il corpo ha ineluttabilmente trovato la sua dissoluzione verso valle, è il «doppio» del defunto a raggiungere la fonte. Il termitaio si limita a occupare il centro ideale (l’ordine immaginato e proiettato) del disordinato mondo degli uomini e la vita – o meglio la vita del singolo – è altrove, nella contingenza di un breve spazio (lungo un frammento di riva) e in un limitato intervallo di tempo inscritto nello scorrere delle acque. Si cerca di resistere alla corrente, si esce dall’acqua, si corre senza voltarsi indietro, verso un ordine sociale proiettato all’orizzonte (Balandier 1991), ma la «piroga invecchia sempre verso valle mai verso monte». La vita sociale coinvolge un frammento di fiume e la riva corrispondente, punto di fuga verso un tentativo di strutturazione. Significativo, al riguardo, è che ogni famiglia possiede un nedome (una porzione di fiume) dove si è liberi di pescare utilizzando la tecnica denominata nokyé 9, e dove – secondo alcuni informatori – viene gettato il prepuzio del ragazzo circonciso. Il nedome appartiene a una singola famiglia e viene messo in relazione con gli antenati. Più che un risalire c’è un farsi da parte, un uscire e una affannosa costruzione che non può però fermare la «discesa biologica» lungo il fiume. Ogni individuo vive entrambi i percorsi, non può evitare nulla. Si costruisce sulle sponde – parallelamente al fiume in un breve spazio – ma simultaneamente si scende a valle. Il fiume lo si ha dentro di sé.
Capitolo secondo
Osservatori sprovveduti
Naturalmente esiste un vedere così e un vedere diversamente Ludwig Wittgenstein Ricerche filosofiche
1. Un groviglio di concetti Il confronto fra la durezza dei termitai e la fluidità dei fiumi si ripropone, come metafora, nel momento in cui si vuole gettare uno sguardo sulla storia della regione occupata dai Medje-Mangbetu e sulla struttura attuale dei loro villaggi. In questo caso, la realtà sembra estremamente fluida, mentre i concetti utilizzati per descriverla appaiono duri come termitai. Un osservatore, che la comunità degli antropologi non avrebbe dubbi nel definire sprovveduto1, non andrebbe molto per il sottile e inoltrandosi con un fuoristrada nella foresta occupata dai gruppi mangbetu, tutte le volte che attraversasse un agglomerato di case distribuite su entrambi i lati della strada si limiterebbe a constatare l’esistenza di un «villaggio». Non avrebbe neppure il tempo di domandarsi quali criteri sociali, economici e culturali tengano unite quelle poche decine di individui che si ritroverebbe nuovamente immerso nella vegetazione. L’antropologo, dal canto suo, ha il dovere di non accontentarsi e di raccogliere la terminologia e i significati indigeni che si nascondono fra quelle basse case di fango, oltre a rovistare nella bibliografia sulla regione alla ricerca dei termini e delle interpretazioni rintracciabili nei lavori di altri studiosi. Tuttavia non sempre (è il caso in questione) si raggiunge la chiarezza auspicata; ogni osservatore sceglie stra29
de diverse, ognuno insistendo su elementi differenti e seguendo particolari percorsi di analisi e di interpretazione. Pare che un’unica realtà osservata si sia frantumata in una miriade di termini, concetti, metafore, immagini. Come afferma lo storico belga Jan Vansina2 la realtà è multipla, sempre vagliata dalla mente e dal punto di vista dell’osservatore (Vansina 1990a: 71). Durante la ricerca sul campo, ebbi una prima occasione di riflettere sulla questione della traducibilità della terminologia indigena mentre in sella a una bicicletta mi recavo in qualche villaggio della zona in compagnia di Fabien, un amico del posto. Armato di taccuino e registratore arrancavo sulla strada fangosa e sdrucciolevole cercando di evitare le buche e di non investire polli e capre. Ogni qualvolta ci trovavamo ad attraversare un gruppo di case, mi affiancavo alla bici di Fabien e iniziavo, con il poco fiato che mi restava, a bersagliarlo di domande. Non meno sprovveduto del comune osservatore, volevo semplicemente conoscere i termini locali corrispondenti a «casa», «villaggio», «famiglia», «clan» ecc. Volevo corrispondenze esatte fra i miei termini e i suoi e ovviamente, fu un fallimento. Non mi restava che risparmiare fiato e mettermi a ruota di Fabien pensando a quanto sia facile perdersi in foresta senza un amico del posto che ti conduce, e quanto sia facile perdersi viaggiando nella terminologia indigena con l’illusione che gli strumenti concettuali portati da casa funzionino da bussole. Non mi è dato sapere se i pochi studiosi che mi hanno preceduto su quelle strade spesso fangose viaggiassero in sella a una bicicletta o al volante di un fuoristrada; tuttavia sono certo che si posero interrogativi analoghi ai miei. Per tale motivo, viaggiare nei loro scritti è stato altrettanto importante che viaggiare in bicicletta fra i villaggi. L’antropologo statunitense, nonché missionario protestante, Robert McKee ha condotto di recente una ricerca sul campo inerente ai riti funerari medje-mangbetu (1995). Venni a sapere dell’esistenza di McKee durante il primo incontro con il vecchio Emalongo: a una mia precisa domanda sulla genealogia della sua famiglia mi disse che un altro bianco gliela aveva già posta anni addietro. Spesso gli antropologi vanno a svolgere le proprie ricerche in territori già visitati da colleghi, ancora più spesso si ostinano a raccogliere genealogie e discendenze immobilizzando gli at30
tori sociali in aridi schemi piramidali al cui vertice si trova un antenato reale vissuto alcune generazioni precedenti il cui legame genealogico può essere ricostruito (in questo caso la piramide schematizza un lignaggio), oppure il vertice è occupato da un antenato sovente mitico il cui legame genealogico non è sempre ricostruibile (in questo caso lo schema rappresenta la struttura di un clan). La forza di questi schemi è rappresentata dall’ordine che si viene a creare (ogni individuo è in tal modo chiaramente inserito in una linea di discendenza e quindi in un gruppo di parentela), mentre la debolezza di tali impalcature risiede nella rigidità formale più ideale che reale (curiosamente questi schemi piramidali ricordano la forma di un termitaio, che come si rammenterà è stato definito nel capitolo precedente troppo «duro» e «ideale» per riguardare gli uomini). Nella scia della consolidata tradizione di antropologi africanisti i quali, a partire soprattutto da Meyer Fortes ed Edward E. Evans-Pritchard, attribuirono ai gruppi di discendenza (in particolare ai lignaggi) un ruolo centrale nell’organizzazione sociale, la realtà osservata da McKee è vagliata dalla mente – direbbe Vansina – per mezzo di concetti come clan e lignaggio. Il fazzoletto di terra strappato alla foresta e costellato da poche abitazioni di fango risulta in tal modo occupato da individui riconducibili a un preciso patrilignaggio esogamico, concetto traducibile grosso modo nella lingua locale (il dialetto medje) con il termine némava (plurale émava). Nel riferirsi alla stessa realtà (i villaggi dei gruppi mangbetu) gli storici africanisti come Jan Vansina (1990a) e Curtis Keim (1979) prediligono utilizzare non tanto un concetto riconducibile alla discendenza, come risulta essere patrilignaggio, ma un concetto riconducibile alla residenza, optando per la nozione di «casa» (house). L’ampio aggregato domestico – spesso grande un intero villaggio – insediato in un fazzoletto di terra strappato alla foresta viene così definito «casa», termine che nella lingua locale è traducibile con nébha (plurale ébhá). Tuttavia sia il termine némava (gruppo di discendenza) che il termine nébha (gruppo di residenza) non sono chiaramente riconducibili alle nozioni analitiche che l’antropologia utilizza. Infatti il termine némava può essere utilizzato per designare un clan, un lignaggio e una famiglia, mentre il termine nébha viene impie31
gato indifferentemente in riferimento a un intero villaggio, a un compound3 e a una singola abitazione. Se la terminologia indigena risulta difficilmente riconducibile agli univoci concetti contenuti nella «scatola degli attrezzi» dell’antropologo (come appunto «casa» e «lignaggio») anche la stessa separazione fra residenza e discendenza pare essere una violenza classificatoria nei confronti di una realtà che risulta effettivamente costituita da villaggi (ébhá), ma abitati prevalentemente da individui appartenenti a uno stesso némava. È evidente che il confronto fra gruppo di residenza e gruppo di discendenza (in relazione all’etnografia medje-mangbetu) non si risolve sul piano della nitidezza. Ci si inizia a domandare se non abbia ragione Wittgenstein quando afferma che: «se [...] nell’originale i colori sfumano l’uno nell’altro senza traccia di un confine, – non sarà un compito disperato il disegnare un’immagine nitida corrispondente a quella confusa?» (1983: 52). Malgrado il concetto di «casa» sia generalmente connesso all’idea della residenza, gli studiosi che si affidano alla cosiddetta house analysis si prefiggono di ripensare i gruppi di discendenza in relazione al reale interagire degli individui nello spazio e nelle economie domestiche; in altre parole un certo impiego del concetto di «casa» permetterebbe dopotutto di coniugare gli aspetti legati alla residenza con quelli legati alla discendenza4. Per ciò che concerne lo studio dei gruppi mangbetu, sembrerebbe che l’uso della nozione di «casa» sia servito soprattutto a connettere la storia della regione con l’organizzazione sociale. Gli studiosi che si sono occupati di ricostruire la storia del regno mangbetu – mi riferisco essenzialmente a Curtis Keim e Jan Vansina – si sono fortemente affidati al concetto di «casa». Tale concetto lo si ritrova però anche nel più recente lavoro etnografico dedicato a un gruppo del Congo nord-orientale, Houses in the Rain Forest (1994), in cui l’autore, Roy Richard Grinker, prendendo in esame le relazioni fra i raccoglitori Pigmei Efe e i coltivatori Lese (appartenenti allo stesso gruppo linguistico dei MedjeMangbetu), adotta il termine «casa» (house) come «modello riferito all’organizzazione concettuale delle relazioni di differenza così come all’organizzazione della società». Per i Lese e i loro partner di scambio (i Pigmei Efe), «la casa lese è dove avviene la produzione, il consumo e la distribuzione. In altre parole, la casa è il 32
luogo fisico dove avvengono le interazioni economiche fra i Lese e gli Efe» (Grinker 1994: 112). Grinker lamenta il fatto che, soprattutto in ambiente africanistico, gli antropologi (in particolare quelli con interessi di antropologia economica) si siano decisamente affidati al concetto di household 5 rinunciando a sistematizzare la house analysis. Poche sono le eccezioni: fra esse i lavori di Schildkrout sui contesti domestici in comunità urbane interetniche del Ghana (1975, 1978), le ricerche storiche nell’Africa centrale di Vansina e Keim, e lo studio di Saul (1991) sulla casa dei Bobo del Burkina Faso. Nel volume intitolato African Reflections (1990) incentrato quasi interamente sull’analisi della cultura mangbetu e scritto da Schildkrout e Keim (con un contributo di Vansina), è contenuta gran parte della house analysis africana. Per intanto occorre sottolineare la prima delle ragioni per cui Grinker utilizza il termine «casa»: «questa è la migliore traduzione del termine ai, con cui i Lese usano descrivere l’attuale struttura dentro cui la gente vive e dentro cui le attività economiche sono organizzate» (Grinker 1994: 114). Non resta che scendere idealmente dalla bicicletta e gironzolare fra quelle basse case di fango descrivendo gli spazi dentro cui la gente vive. 2. Villaggi nella foresta Nel dialetto medje, l’abitazione viene denomitata nédjó (plur. édjo). Si tratta normalmente di un edificio rettangolare non più lungo di 7-8 metri e largo 3-4. Le pareti sono formate da una intelaiatura di canne su cui viene fissato il fango; il tetto, la cui struttura portante è di solito ricavata dal bambù (Annaert 1960: 61), è costituito da frasche di palme appoggiate su uno strato di ampie foglie di foresta; l’unica apertura è una piccola porta (nédjó-no) la quale, orientata nella maggior parte dei casi in direzione del sentiero (o strada), si affaccia su un ampio cortile (némúngálimá). Il némúngálimá è lo spazio domestico per eccellenza, è un frammento di terra strappato alla foresta e tenuto continuamente pulito. Al centro di questo spiazzo si trova il négbámú, un basso edificio senza pareti utilizzato come riparo (diurno e serale) dal sole e dalle piogge e luogo di riunione per gli uomini. Sotto il négbámú 33
si è svolta la quasi totalità delle mie interviste e colloqui con informatori e amici, i quali mi ricordavano spesso che il négbámú è uno spazio riservato agli uomini, malgrado abbia potuto constatare ovunque la presenza femminile sotto il riparo. La valenza di genere del négbámú è confermata dalla vicinanza semantica dei termini négbama (il desiderio sessuale maschile) e négbámá (uomo giovane). Sul cortile (némúngálimá), nel cui centro si trova il riparo (négbámú), si affacciano diverse case (édjo). Mantenendo come punto di osservazione il sentiero (néhí’e), lungo il quale si snoda su entrambi i lati il «villaggio», si osserva di solito la presenza di tre edifici collocati in semicerchio intorno a ogni négbámú (cfr. lo schema sottostante): l’edificio (nédjó) dietro al riparo viene utilizzato per dormire, mentre le due abitazioni ai lati (anch’esse rivolte verso il négbámú) sono state definite rispettivamente come la «cucina» (némáfíká) e la casa per i visitatori (nedjoi ombiamekualane). foresta
strada, sentiero
foresta négbámú nédjó per dormire altri édjo
Schema stilizzato di un villaggio (nébha) composto dalle varie ébhá.
Ancora una volta la descrizione proposta e le definizioni appaiono troppo rigide rispetto alla realtà, soprattutto per ciò che concerne gli édjo laterali. Infatti nel dialetto medje non esiste un termine corrispondente alla cucina (mafika è termine lingala) e 34
nello spazio domestico non esiste un edificio (nédjó) in cui si preparano i cibi; tutt’al più l’edificio denominato cucina è un magazzino dove si ripongono utensili quali il mortaio e si conservano le poche derrate alimentari (arachidi, riso ecc.). È chiaramente identificabile, tuttavia, uno spazio caratterizzato dalla presenza femminile dove si cuoce il cibo: si tratta della zona del cortile fra il nédjó-némáfíká e il nédjó per il riposo notturno. Quest’area si contrappone al négbámú, spazio domestico occupato prevalentemente dall’uomo e dai figli maschi. Per ciò che concerne l’edificio riservato ai visitatori, esso può essere il nédjó di un figlio o parente adulto, può essere l’abitazione di un’altra moglie (nel caso non raro che si tratti di una famiglia poliginica), oppure può essere effettivamente un’abitazione il cui utilizzo varia notevolmente secondo l’incorporazione temporanea nell’aggregato domestico di individui esterni ad esso. Occorre infine precisare che il numero delle case che circondano il négbámú varia secondo le scelte e la composizione della famiglia. Lo schema sopra riportato rappresenta un villaggio denominato dai locali nébha e solitamente formato da famiglie appartenenti a uno stesso patrilignaggio esogamico. Ogni famiglia occupa grosso modo un settore del villaggio composto da un riparo per gli uomini (négbámú) e da alcune abitazioni disposte intorno ad esso, questo settore viene anch’esso denominato dai locali nébha (parcelle nella traduzione francese). Tenendo conto che pure una singola abitazione può essere denominata nébha, risulta evidente la difficoltà che incontrai nel far coincidere la mia terminologia con quella di Fabien. Benché il concetto di «casa» risulti centrale nei lavori degli storici, i termini che emergono dall’etnografia medje-mangbetu, quali nédjó e nébha, non sono presi in considerazione in tali studi. Vansina e Keim non fanno cenno a un eventuale termine indigeno capace di tradurre ciò che essi intendono per house («casa») e quindi sono facilmente comprensibili le riserve mosse da McKee, convinto che «la house analysis può essere una loro nuova costruzione (analitica) piuttosto che una valida ricostruzione» (1995: 336). Tuttavia, il ricorso nelle analisi storiche di Keim e di Schildkrout alla terminologia indigena emerge nel definire il nucleo centrale di ciò che intendono per Casa Mangbetu-Medje6: 35
La Casa [house] Mangbetu-Medje era formata attorno a un nucleo di membri di un patrilignaggio (nejoti o neikuku nel nord; nebasadjo nel sud) (Schildkrout e Keim 1990: 89).
È l’organizzazione sociale e in particolare il riferimento ai gruppi di discendenza a definire la Casa Mangbetu-Medje, la quale non si limitava a includere i componenti di un patrilignaggio ma incorporava clienti, schiavi, individui appartenenti ad altri lignaggi e addirittura altre intere «case». È opportuno concentrare l’attenzione sul termine nebasadjo (uno dei termini che Schildkrout e Keim traducono come «patrilignaggio») in quanto, oltre a essere diffuso nel territorio in cui ho svolto la ricerca, permette di ribadire la difficoltà – nel contesto etnografico in questione – di tenere chiaramente distinti i concetti connessi alla residenza e quelli connessi alla discendenza, quasi fossero due opzioni di descrizione e di interpretazione fra cui dover scegliere. Il termine nebasadjo è composto da due radicali: basa e djó. Quest’ultimo radicale, come si può constatare dai termini introdotti poco sopra, rimanda all’idea di abitazione, mentre la prima radice, basa, è contenuta nel sostantivo nébasa «luogo di ritrovo riparato»7. A detta di McKee (1995: 345), quest’ultimo termine non viene più utilizzato ed è rintracciabile soltanto in antichi resoconti di inizio secolo. Schubotz (1914: 46) denomina bassa una grande costruzione aperta su tutti i lati, collocata nel centro del villaggio del capo mangbetu Okondo, utilizzata come luogo per assemblee. Considerato che i villaggi dei grandi capi non erano altro che ampi aggregati domestici in cui le differenti abitazioni occupate dalle mogli, dagli schiavi e dai figli si snodavano tutte intorno a un grande négbámú utilizzato dal capo come luogo per le riunioni e per le udienze, il bassa non sarebbe stato altro che un grande négbámú al centro di un ampio aggregato domestico («casa»): nell’insieme il tutto si presentava come una grande nébha. Assente negli studi degli storici, il significato del termine nébha (villaggio, compound, «casa»), emerge dall’analisi semantica del termine nebasadjo; attraverso i radicali dei sostantivi di cui è composto, prende forma ciò che precedentemente si è descritto come nébha, un insieme di abitazioni (édjo) costruite intorno a un riparo aperto ai lati, denominato négbámú. 36
3. Il fluire della storia Prima di chiedersi «in che modo il nebasadjo [clan, lignaggio] mangbetu sorse dall’oscurità nel diciottesimo secolo alla posizione di dominio nel diciannovesimo secolo» (Keim 1979: 21), occorre accennare al popolamento della regione al fine di chiarire come si venne a diffondere nelle alte terre dell’est la particolare organizzazione sociale – assente nel bacino del Congo – definibile a partire dall’espressione di Vansina «one village, one house» (1990a: 173). Inoltre, attraverso la ricostruzione del passato8 sarà possibile porre l’attenzione sugli ipotetici percorsi di alcune pratiche socio-culturali, prima fra tutte la circoncisione. Si è già ricordato nel capitolo precedente che fra il Bomokandi e il Nepoko emigrarono nell’arco di diversi secoli gruppi appartenenti a tre diverse famiglie linguistiche. Popolazioni ubangiane, bantu e sudanesi centrali raggiunsero questa regione al confine fra la foresta e la savana contribuendo a far nascere una nuova tradizione, frutto di un progressivo mescolamento di elementi culturali e pratiche sociali. I gruppi ubangiani (a cui appartengono gli attuali Azande e Mayogo) arrivarono nella regione da nord-ovest. Si presume che queste popolazioni vivessero di caccia e di pesca, che fossero organizzati in aggregati domestici senza riconoscere particolari leader se non in tempo di conflitti e che non avessero riti di iniziazione per ragazzi (Vansina 1990a: 171). I gruppi bantu-buan (a cui appartengono gli attuali Babudu e Balika) arrivarono nell’area da sud-ovest diversificandosi a sud del medio Bomokandi a partire dal 2300 a.C. (McMaster 1988: 19). Dal punto di vista delle pratiche e delle istituzioni sociali, gli antenati dei Babudu e dei gruppi di lingua buan avrebbero vissuto in villaggi governati da big men9 e avrebbero avuto complessi rituali di iniziazione incentrati sulla circoncisione dei ragazzi appartenenti a un villaggio o a un distretto (Vansina 1990b: 76). Le popolazioni appartenenti alla famiglia linguistica sudanese centro-orientale (a cui appartengono gli attuali gruppi mangbetu10 e i Manvu) sarebbero giunti da est e nord-est, avrebbero vissuto in insediamenti dispersi non organizzati in strutture politiche centralizzate e non avrebbero conosciuto la pratica della circoncisione. Gruppi originari della foresta e gruppi originari della savana si 37
trovarono dunque a interagire nei territori fra il Bomokandi e il Nepoko dando origine a una nuova comune tradizione (Vansina 1990a: 172-75). Per ciò che concerne l’organizzazione sociale, la struttura di villaggio – «proveniente» dalla foresta – si mescolò con la struttura dell’aggregato domestico isolato («casa»); in tal modo «la nuova tradizione adottò insediamenti compatti, ma un villaggio era costituito da una sola casa» (Vansina 1990a: 172). Come si cercherà di mostrare nei capitoli successivi, anche nell’ambito dei rituali di pubertà l’incontro fra le eredità ubangiana, sudanese e bantu-buan ha generato una nuova tradizione in cui si assiste alla commistione di antichi valori e nuove strategie intorno a una pratica – quella della circoncisione – che, lungi dall’essere stata travolta dai cambiamenti e dai mescolamenti, si è riadattata e diffusa in modo significativo negli ultimi cento anni. In una regione che per secoli aveva subìto una continua immigrazione senza particolari movimenti di emigrazione, l’aumento della densità demografica incrementò le possibilità di conflitto fra popolazioni confinanti sempre più pressate. In questa situazione di estrema tensione e di forti contrapposizioni si fece urgente l’esigenza, da parte dei gruppi mangbetu, di catalizzare tutta la forza in una sola «casa». Per tale motivo, probabilmente, iniziò (a partire dal 1750 circa) l’ascesa che portò alla nascita del cosiddetto regno mangbetu. Attualmente gli storici sono concordi nel rintracciare il luogo di origine del nebasadjo mangbetu, il punto di partenza delle conquiste di Nabiembali (l’eroe fondatore della dinastia mangbetu), nei territori occupati dai gruppi abelu11 nella zona del basso Nepoko. La rapida ascesa del regno di Nabiembali non fu seguita da uno sviluppo di istituzioni appropriate in grado di garantire la centralizzazione della gestione del potere. In pratica Nabiembali creò un regno, ma continuò a pensare con la logica della «casa» (Vansina 1990a: 176-77); in tal modo nel momento della sua successione il regno – inteso come entità politica centralizzata – entrò in crisi. Iniziò un periodo di guerre civili fra diverse «case» e nel 1873 morì Mbunza12 l’ultimo vero sovrano mangbetu, colui che accolse Georg Schweinfurth (1879), il primo europeo a giungere nella regione. La pressione dei mercanti arabo-sudanesi nubiani (interessati a schiavi e avorio) e dei potenti principati zande frantumò com38
pletamente l’unità politica di ciò che restava del regno e proprio in questa situazione di crisi è probabile che abbia iniziato ad affermarsi l’associazione segreta del nebeli (cap. VI), i cui aderenti si proteggevano vicendevolmente dai nemici esterni e dagli stessi capi. È certo che la rete degli appartenenti al nebeli si ampliò notevolmente durante il periodo coloniale iniziato nel 1891, quando una spedizione dello Stato Indipendente del Congo13 raggiunse per la prima volta i territori mangbetu. Le spedizioni militari nel nord-est della colonia e le modalità di gestione della nuova amministrazione furono giustificate con un’ideologia coloniale di dominio e di servizio incentrata sulla pacificazione e civilizzazione dei gruppi indigeni e sulla lotta contro i commercianti arabi di schiavi e di avorio14. In effetti, la pacificazione fra i gruppi sembra essere stato uno dei risultati ottenuti dal potere coloniale, per altro confermato dai giudizi degli indigeni. Tale pacificazione non è altro che l’effetto di una sistematica riduzione dei vari capi indipendenti (fra cui quelli mangbetu) a semplici autorità delegate, il cui operato veniva controllato dall’amministrazione coloniale. La pacificazione interetnica e lo spostamento della manodopera verso le grandi piantagioni impiantate dai belgi influenzarono le pratiche sociali dei Medje-Mangbetu e dei loro vicini. In seguito, si cercherà di mostrare come la stessa pratica della circoncisione probabilmente mutò in relazione agli stravolgimenti sociali della fine del secolo scorso. La storia della regione è un susseguirsi continuo di movimenti e interazioni, di tradizioni che si fondono e inevitabilmente si rielaborano l’una con l’altra. In un’area in cui ambienti naturali molto diversi sfumano l’uno nell’altro, il villaggio della foresta si incontra con gli aggregati domestici sparsi tipici della savana, la coesione fra lignaggi dei gruppi buan-bantu si combina con le strategie di alleanze dei gruppi di origine sudanese, associazioni segrete e alleanze interetniche emergono e si rafforzano in base a particolari eventi contingenti. Le configurazioni socio-politiche e le pratiche rituali nascono, decadono o si trasformano assumendo forme particolari in momenti particolari della storia di un gruppo umano. Il processo storico mostra l’alternarsi di configurazioni e di processi trasformativi; anzi, questi ultimi sembrano essere costitutivi delle stesse configurazioni sociali. 39
Ancora una volta, l’antropologia dinamista di Georges Balandier pare adatta a descrivere questo intreccio indissolubile della strutturazione e del flusso, della forma e del mutamento: la società è una configurazione che si fa e si definisce continuamente, «è un ordine approssimativo e sempre mutevole» (1973: 4), essa «si rivela come una continua creazione, come dato e progetto insieme» (1973: 67). Pur affermando che il dinamismo è insito in ogni società e periodo storico, Balandier è convinto che nel nostro secolo e in particolare nell’esperienza coloniale occorra intravedere le precarietà, i drammi e le crisi degli ordini sociali. La storia attuale sta diventando un vero e proprio rivelatore della realtà sociale. Essa ci mostra delle configurazioni sociali in movimento, tronca l’illusione di una lunga permanenza delle società, che assumono sempre più l’aspetto di un’opera collettiva mai compiuta e continuamente da rifare (1973: 9).
L’esperienza coloniale creerebbe disordini e ordini nuovi e il lavoro collettivo a cui fa riferimento Balandier seguirebbe percorsi inediti. In effetti, il nebeli (associazione segreta interetnica) esprime «il punto di vista mangbetu sotto la pressione coloniale» (Schildkrout e Keim 1990: 190) e la pratica del noutu (alleanza con la circoncisione fra individui appartenenti a «case», villaggi e gruppi etnici differenti) si afferma probabilmente nei primi decenni di contatto con gli europei, periodo di notevoli stravolgimenti nei ruoli dei capi e nella gestione politica dei territori. Più che indagare sulla specificità delle trasformazioni al tempo della colonia, è rilevante notare che soprattutto nei momenti di crisi o di forti pressioni e tensioni, determinate società (si potrebbe prudentemente generalizzare almeno ai gruppi insediati nelle alte terre del nord-est del bacino congolese) escogitano associazioni, alleanze, raggruppamenti che tagliano trasversalmente le appartenenze lignatiche, claniche, politiche ed etniche, in alcuni casi per superarle, in altri per affiancarle. Questa argomentazione verrà ripresa più diffusamente nei capitoli successivi, quando la riflessione sui progetti di costruzione delle configurazioni sociali si affiancherà alla riflessione sui progetti di costruzione dell’essere umano (progetti generalmente connessi ai rituali della 40
pubertà). Le domande, i dubbi e le risposte che emergono quando si progetta l’essere umano sembrerebbero non lontani da quelli che emergono quando si progettano i gruppi umani (le configurazioni sociali). Nel caso del noutu, un rituale attraverso cui un individuo trasforma (con un’operazione) il suo essere umano e contemporaneamente trasforma e incrementa (attraverso un’alleanza) il proprio reticolo sociale, i due progetti sono inscindibili. 4. L’esigenza di creare ponti Tornando alle riflessioni terminologiche e ai disperati tentativi di traduzione compiuti pedalando attraverso i villaggi della zona, è probabile che quel giorno Fabien abbia utilizzato con una certa frequenza oltre al termine nébha anche il termine némava. Come si è già detto nébha può essere tradotto con «casa», compound e «villaggio», mentre némava significa «famiglia», «lignaggio» e «clan». I significati mutano secondo il contesto, in quanto un villaggio (nébha) è composto da diverse ébhá (compounds) e lo stesso villaggio viene ricondotto a un unico némava (lignaggio esogamico) pur essendo composto da differenti émava (famiglie). L’appartenenza a un determinato compound (nébha) e a una determinata famiglia (némava) rappresenta il punto centrale attorno a cui un individuo medje-mangbetu organizza la propria rete di relazioni sociali15. Robert McKee inserisce l’ipotetico individuo che si trova al centro di questa rete di relazioni (su cui si tornerà in seguito) in un lignaggio esogamico (clan exogamous segment), denominato appunto nella lingua locale némava. Questi segmenti clanici hanno una chiara proiezione spaziale, in quanto i componenti delle ébhá (intese come compounds) che costituiscono un villaggio, appartengono allo stesso lignaggio esogamico. I vari segmenti clanici occupano a loro volta territori adiacenti in modo tale da delineare un’area occupata da un determinato clan. In questo territorio la distanza spaziale fra due individui è direttamente proporzionale alla distanza nella linea di discendenza. McKee propone una classificazione fra i diversi livelli di segmentazione del gruppo di discendenza patrilineare (1995: 108) introducendo quattro categorie: 1) interi gruppi di clan; 2) clan; 3) 41
segmenti clanici primari; 4) segmenti clanici secondari (per questi ultimi è chiara la localizzazione in un determinato villaggio o segmento di villaggio). Questa classificazione, probabilmente frutto più di una preoccupazione ordinatrice dell’antropologia che di una analisi dei significati indigeni, risulterebbe alquanto sterile, se non si recuperasse la terminologia locale connessa ai vari livelli di segmentazione. Fra i Medje-Mangbetu del sud, i livelli più alti (gruppi clanici e clan) vengono generalmente denominati nebasadjo, mentre in realtà soltanto per i segmenti clanici si usa il termine émava (in alcuni casi neikuku). È evidente che questa distinzione connessa ai gruppi di discendenza fornisce ulteriori chiarimenti sulle scelte terminologiche degli storici e degli antropologi, nonché sulla realtà che si sceglie di descrivere. Innanzitutto risulta più chiaro il motivo per cui i dati raccolti dagli storici attraverso la tradizione orale sono incentrati sul termine nebasadjo; infatti la storia (a ritroso nel tempo) riportata dall’informatore è una ricostruzione della propria genealogia (a ritroso lungo la linea di discendenza). Le ricostruzioni genealogiche compiute oggigiorno da un individuo adulto permettono di evidenziare come l’uso del termine nebasadjo sia abbinato ad antenati che indicativamente possono essere collocati nel periodo di formazione del regno mangbetu. Inoltre, la tradizione orale e i racconti storici (a partire da Schweinfurth) prediligono le descrizioni delle corti dei principi mangbetu in cui mogli, schiavi, clienti orbitavano idealmente e spazialmente intorno a un leader e al suo enorme négbámú costituendo un ampio aggregato domestico concettualmente vicino a ciò che si intende per «casa» e strutturalmente lontano dagli attuali villaggi medje-mangbetu. Se l’analisi storica del regno mangbetu porta a prediligere il concetto di nebasadjo, l’analisi etno-antropologica rivolta a ciò che accade nei villaggi odierni della società medje-mangbetu, è incentrata invece sul gruppo di individui appartenenti al patrilignaggio esogamico (némava). Questo è in primo luogo il risultato della discrepanza che emerge fra i modi in cui gli informatori locali «pensano» la storia dei propri gruppi di discendenza e «agiscono» quotidianamente i rapporti di parentela. La discendenza pensata storicamente è quella del nebasadjo, mentre la discendenza agita socialmente e culturalmente è quella del némava o di 42
gruppi di émava (in alcuni villaggi il gruppo di émava fra cui vige la regola esogamica viene denominato neikuku). Dalle parole di Emasiombe Anselme (chef de localité a Mbongyi, nei pressi di Makpulu) concernenti la rete di parenti coinvolti durante un rituale di circoncisione, emerge chiaramente quale sia il gruppo di parentela in cui si agisce socialmente: Il neikuku è un insieme di émava. A Mbongyi ci sono cinque émava che hanno lo stesso antenato, Mbongyi. Fra questi non è possibile prendere moglie, fuori è possibile. Subito fuori, con le ébhá vicine, ci sono buoni rapporti, ma per sposarli bisogna vedere se non hanno il nostro stesso antenato anche se sono fuori. C’è sempre questione di neikuku, c’è sempre stata. C’è anche l’idea di tutti i Mandeya ma non è possibile prenderli tutti quando per esempio c’è una festa. Nel caso della circoncisione bisogna avvertire le famiglie legate a te e non tutto il groupement [Meika Mandeya]. Nel neikuku di Mbongyi ci sono più o meno 450 persone. Il neikuku è lungo una strada, questo è lungo due chilometri, ma ci sono neikuku di diversa lunghezza, per esempio a Badjo [si intende nel groupement Madjoo, nella collectivité Mongomasi] sono molto grandi e numerosi.
L’esistenza di un gruppo di discendenza localizzato, congiuntamente alla regola della residenza patrilocale e a quella esogamica, contribuiscono a fornire le più importanti coordinate in cui un individuo «agisce» la propria parentela consanguinea. Poiché i villaggi si snodano lungo una via di comunicazione (strada o sentiero), sarà quest’ultima a rappresentare l’asse principale lungo il quale un individuo pensa e agisce gran parte delle proprie relazioni di parentela, soprattutto in rapporto alla regola esogamica. Infatti, mentre il luogo simbolico della discendenza patrilineare e delle relazioni che intercorrono fra gli individui appartenenti ad essa è il négbámú (il centro focale intorno a cui si costruisce un aggregato domestico che attraverso parentele e alleanze diventa una configurazione sociale ramificata), il luogo che incorpora simbolicamente la regola esogamica è la strada. La contrapposizione fra il négbámú e la strada si connette alla contrapposizione fra il maschile e il femminile e soprattutto fra la strutturazione e il flusso. Intorno al négbámú si costruisce il proprio aggregato domestico, al fianco di altri aggregati domestici. Ciò che si configura socialmente è un villaggio o un frammento di vil43
laggio strutturato sulla base dell’appartenenza a un gruppo di discendenza. Questa configurazione così strutturata si sviluppa su entrambi i lati di una strada che, come nel caso del fiume, rimanda all’idea di flusso e riguarda maggiormente la vita della donna. È stato Alimasi, un informatore mangele a suggerirmi per primo la connessione fra il fiume, la donna e la strada: Il fiume è più della donna, è lei che pesca di più, è lei che va a prendere l’acqua per lavare e per cucinare, è la donna che fa più pesca dell’uomo. Anche i tamburi d’acqua è una pratica della donna. Per il cadavere, l’uomo quando muore deve guardare il lato del sole che nasce [zebo] e la donna deve guardare il lato dove il sole muore. Zebu è della donna perché è lei che ha la sua vita lungo la strada. La donna dà la sua vita tutta in discesa lungo la strada.
Le donne che appartengono a un determinato némava vengono inviate come spose «lungo la strada», possibilmente in villaggi (ébhá) abbastanza lontani dai gruppi cognatici e strutturati sulla base di una discendenza sufficientemente diversa. In tal modo, la rete di ébhá con cui ogni singola nébha intratterrà rapporti particolari di scambi e alleanze, aumenta sensibilmente. Malgrado un individuo si trovi quindi al centro di una rete di alleanze in quanto appartenente a una particolare nébha (nel duplice senso di villaggio e compound), occorre sottolineare che ogni singola famiglia cerca di creare alleanze al di là dei parenti e degli affini coinvolgendo l’intero villaggio. Ciò succede per esempio quando un individuo decide di circoncidere il proprio figlio insieme al figlio di un altro individuo appartenente a un altro villaggio, il più delle volte completamente esterno al proprio clan. Si tratta dell’alleanza tramite la circoncisione denominata noutu. Stringere alleanze al di là del proprio clan o del proprio gruppo etnico (Medje) è idealmente un modo per riannodare quelle liane spezzate che nella tradizione orale spiegavano il diversificarsi dei gruppi di lingua mangbetu durante le migrazioni (cap. I, § 3), ma è anche un modo per ribadire la tendenza dei popoli che nel corso dei secoli hanno occupato la regione fra il Bomokandi e il Nepoko, a mettere insieme tradizioni, tecniche, espressioni artistiche, strutture sociali, società segrete e, in ultimo, il sangue dei circoncisi.
Capitolo terzo
Allearsi con la circoncisione
Ekpolokazi, ekpolokazi ngbongbo (Dove sono le liane, le liane sono qui) Canto della circoncisione
1. Consanguineità e alleanza Appartenere a una determinata famiglia (némava) significa rientrare in uno specifico gruppo di discendenza patrilineare, alla cui base c’è una comunanza di sangue (nálíkpo). La procreazione, così come ne parlano i Medje-Mangbetu, è strettamente connessa con l’idea della trasmissione del sangue del padre (e di conseguenza degli antenati) nel feto (néiho). La centralità del sangue nel definire la procreazione e la discendenza patrilineare, è evidente nel termine andrálíkpo (lett. «il mio sangue») usato per denominare un individuo della propria parentela patrilineare. Benché la consanguineità necessiti di una procreazione fisica, è possibile fra i Medje-Mangbetu estenderla a individui che non rientrano nel gruppo patrilineare creando una parentela fittizia con lo scambio o l’unione del sangue. La creazione di una fratellanza di sangue (noutu) può avvenire in due modi differenti: a) due individui maschi adulti diventano fratelli di sangue attraverso lo scambio del sangue fuoriuscito da un taglio sulle rispettive braccia: questo procedimento prende il nome di noutu tekpo (tekpo = braccio); b) un gruppo di bambini o adolescenti diventano fratelli di sangue se vengono circoncisi insieme e il loro sangue raccolto in un unico recipiente: in questo caso si parla di noutu eipopoi (néipopó = prepuzio). 45
Il noutu così presentato è indubbiamente una «relazione più o meno assimilabile a quelle della parentela patrilineare» (McKee 1995: 91) realizzabile in due modi differenti a seconda dell’età e delle situazioni. Tuttavia l’analisi delle due forme di fratellanza ha evidenziato in primo luogo forti differenze nei significati, nelle motivazioni, nelle pratiche rituali e nelle conseguenze sociali. Se il noutu ricorda in termini strutturali le relazioni patrilineari (si crea consanguineità fittizia), in termini funzionali ciò che prende forma non è vissuto dagli interessati come un’incorporazione nel gruppo patrilineare ma come un’alleanza, un’importante estensione della propria rete di alleanze (in qualche misura simili alle relazioni cognatiche e matrimoniali). Per tali motivi occorre tenere innanzitutto separati i due casi di noutu e concentrarsi per il momento sulla forma più significativa e importante che – a detta dei Medje-Mangbetu con cui ho dialogato – è il noutu eipopoi. Inoltre, è bene svincolare tale «fratellanza attraverso la circoncisione» dall’idea di consanguineità e condurre l’analisi nella direzione dell’alleanza, anche in ragione del forte accento posto dai locali sul fatto che attraverso il noutu eipopoi si costruiscono nuovi legami al di là della parentela, i quali coinvolgono interi gruppi di persone. Questa «estraneità» dei fratelli di sangue rispetto ai legami di parentela «naturali» viene attentamente preservata e maggiormente sottolineata rispetto all’idea dell’incorporazione fittizia di un fratello di sangue nella propria famiglia. La fratellanza che si viene a creare fra due circoncisi si esprime principalmente attraverso una forte alleanza fra i gruppi di discendenza a cui appartengono. Ad essere coinvolti sono soprattutto gli individui inclusi nei patrilignaggi esogamici dei circoncisi e in particolare coloro che appartengono agli aggregati domestici che costituiscono uno stesso villaggio. Oggigiorno la pratica tradizionale sta lentamente scomparendo, in quanto l’operazione si svolge generalmente negli ospedali e nei dispensari di foresta. Alcune parti della sequenza rituale (la danza iniziale e la festa finale in una forma ormai contratta) sembrano ancora avere luogo nei villaggi più distanti dai presidi medici. Tuttavia, ciò che permane quasi ovunque è il duplice motivo che sta alla base del noutu: fornire al bambino una condizione fisica indispensabile per essere accettato in futuro dalle donne e co46
struire alleanze con altre famiglie genealogicamente e territorialmente lontane. Questa centralità dell’alleanza al di là della parentela attivata con la circoncisione, è una delle caratteristiche fondamentali del noutu e uno dei motivi per cui valga la pena ricostruire le sequenze e analizzare i significati di un rituale che sta scomparendo, e di cui non ho rintracciato alcun resoconto etnografico. In questo capitolo ricostruisco, attraverso le interviste condotte sul campo, il rituale tradizionale del noutu1 così come raccontano di svolgerlo gli abitanti dei villaggi appartenenti alle collectivités Ndei, Mongomasi e Medje-Mango. Sono molte le voci narranti che mi permettono di raccontare le sequenze del noutu e che volutamente ho cercato di mantenere in brevi frammenti di interviste. In effetti nelle pagine seguenti emerge il mio debito più grande nei confronti di tutti coloro che ebbero la bontà di farmi accomodare all’ombra del négbámú, ed è soprattutto in riferimento alla ricostruzione del noutu che il mio pensiero non può non andare a Roberto Mopay (un caro amico e collaboratore) e a suo zio Odianzuda Victor le cui informazioni sono risultate assai preziose. Quando lasciai Neisu, molte persone ebbero la gentilezza di venirmi a salutare non tanto dicendomi addio oppure arrivederci ma semplicemente amekenge! (lett. «fratello di sangue»). Roberto non venne a salutarmi e ciò fu paradossalmente un sollievo considerando il nodo che mi stringeva in gola e il fatto che davvero potevamo quasi chiamarci amekenge. Di Victor mi resta una foto, frammenti di dialoghi, uno scacciamosche come regalo e un grande sentimento di rispetto e di affetto. 2. La scelta A differenza di molti casi etnografici in cui il rituale della circoncisione si svolge a intervalli più o meno regolari e ogni decisione sui tempi e sulle modalità è rimandata al gruppo (villaggio, clan) per tramite dei capi, degli anziani o di specifici ritualisti, fra i Medje-Mangbetu tutto nasce da un’iniziativa di un padre di famiglia il quale reputa che sia giunto il momento di circoncidere uno o più figli. Tradizionalmente l’età più appropriata per subire 47
l’operazione della circoncisione era quella dell’adolescenza; oggi, la progressiva sostituzione della pratica rituale con l’ospedalizzazione ha causato l’abbassamento dell’età dei circoncisi. Prendere l’iniziativa significa organizzare la cerimonia del noutu e necessariamente coinvolgere molti aggregati domestici del proprio villaggio, in quanto la maggior parte delle fasi del rituale si svolgono nella nébha (compound) e non in foresta o in un luogo appartato, così come invece accade in altri contesti etnografici. Non è raro che differenti individui, appartenenti allo stesso lignaggio di colui che ha preso l’iniziativa, decidano di approfittare dell’occasione e quindi di affidare uno o più dei loro bambini non ancora circoncisi all’organizzatore. In ogni caso – come precisa Ongoro Neibese, chef de localité a Magbengi – «è meglio avere i bambini della stessa famiglia o di un gruppo di famiglie dello stesso émava per farli circoncidere con altri». Quando un individuo decide di organizzare il noutu per i suoi figli e di conseguenza per i figli di altri parenti, di solito ha ben chiaro quali saranno gli altri compagni di circoncisione. Lui stesso si sarà preventivamente accordato con un altro individuo appartenente a un’altra famiglia, concorde nel far circoncidere uno o più bambini insieme a quelli dell’organizzatore creando attraverso la fratellanza di sangue fra i figli una forte alleanza fra le due famiglie e più in generale fra i due patrilignaggi. Una caratteristica emersa con chiarezza dalle interviste condotte sul campo è la dualità e la simmetria insita nel noutu: due individui appartenenti a due famiglie differenti mettono insieme in un unico evento rituale un numero quasi uguale di bambini presi dalle rispettive famiglie al fine di circonciderli insieme e farli diventare fratelli di sangue (amekenge2). Noutu fra due fratelli è difficile che ci sia, perché un amekenge può cambiare idea fino all’ultimo momento, i fratelli no perché sono già fratelli. È impossibile che ci sia noutu fra i figli di due fratelli. Si prendono i fratelli e si va a farli circoncidere con altre persone. Bisogna andare fuori [dalla parentela]. Il noutu non è solo fra due bambini. Noi eravamo tanti. Si possono avere a volte quaranta o cinquanta bambini. È sempre però questione di due famiglie. Uno da una parte prenderà i suoi figli e i figli dei suoi fratelli, l’altro farà la stessa cosa. Tutti i bambini saranno circoncisi a nome di colui che li riunisce [nel senso
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che in ogni famiglia c’è un responsabile]. La circoncisione è fra due grandi famiglie che in mangbetu si chiamano émava. Ci sono sempre due émava e non tre (Emalongo).
Le parole di Emalongo, oltre a ribadire il dualismo del noutu, introducono un criterio importante che sta alla base dello stesso: la famiglia che si sceglie come partner nel rituale di fratellanza deve essere preferibilmente fuori dalla parentela, al di là della cerchia di parenti. Spesso le due famiglie che si accordano per il noutu appartengono a due differenti gruppi etnici; anzi, i casi che ho potuto registrare su tutto il territorio dei Medje-Mangbetu del sud (collectivités di Ndei e Mongomasi) suggeriscono una forte tendenza, da parte di questi ultimi, ad allearsi attraverso il noutu con famiglie mayogo, lika, pigmee e budu i cui territori si trovano lungo i confini orientali e meridionali dei domini medje-mangbetu. I Babudu hanno il coraggio della circoncisione, anche i Balika e i Mayogo utilizzano la circoncisione, gli Zande non hanno tendenza alla circoncisione, non si sono dati per fare la circoncisione con i Medje, può darsi fra di loro, laggiù. Ciò è quello che vedo perché gli Yogo, i Budu e i Lika arrivano fin qui da noi e hanno il coraggio di darsi, hanno bisogno della circoncisione. Alcuni Medje possono aver fatto la circoncisione là fra gli Zande ma è raro, sono casi un po’ speciali (Odianzuda Victor).
Fra tutti i gruppi i cui territori confinano con quelli dei MedjeMangbetu, soltanto gli Zande (a nord) non sembrano condividere la pratica dell’alleanza con la circoncisione. Sendebuka, una donna zande della famiglia Avungara, è molto chiara al riguardo: «da noi è meglio fare la circoncisione fra quelli della famiglia senza andare fuori». Esistono tuttavia casi in cui anche il noutu medje-mangbetu si fa all’interno della famiglia. Ciò avviene quando «si ha problemi con un fratello, allora si fa la circoncisione per risolverli» (Makilingbo) o semplicemente per il fatto che si è abbandonata la pratica tradizionale e si portano i propri figli al dispensario per farli circoncidere. Emalongo denomina quest’ultimo caso nébaioutu, letteralmente il noutu degli stranieri (nébaí), cioè «alla maniera dei bianchi». In molti casi, questa connessione fra l’ospedalizzazione della circoncisione e la perdita della tradizionale fratellanza al di 49
là della parentela non viene confermata. Molti infermieri dei dispensari sparsi in foresta e la totalità dei Babudu intervistati nei pressi di Wamba (un grande villaggio collocato in territorio budu in cui è ubicato un importante ospedale) sostengono che la fratellanza di sangue continua a essere una delle condizioni della circoncisione anche fra le mura di un presidio medico. Ecco il racconto di Adobange, un Mubudu di Wamba che ha deciso di fare l’égonye (l’equivalente in kibudu di noutu) fra suo figlio e il figlio di un altro Mubudu residente in un villaggio distante trenta chilometri da Wamba: Oggi i bambini vengono portati all’ospedale ma generalmente non da soli, ci sono famiglie che si uniscono. Per esempio mio figlio con un altro bambino hanno fatto l’égonye qui all’ospedale. Siamo andati all’ospedale, abbiamo avuto i moduli da riempire perché bisogna seguire le norme dell’ospedale. Si sono fatti entrare i bambini nella chirurgia e poi si è iniziato. L’infermiere ha iniziato a circoncidere il primo bambino e poi il secondo. Il sangue è colato nello stesso recipiente così i bambini sono diventati bamoia [è l’equivalente kibudu di amekenge, fratelli di sangue].
Attraverso quali criteri l’individuo che prende l’iniziativa di organizzare la circoncisione sceglie la famiglia con cui allearsi? Dalle testimonianze raccolte i motivi che stanno alla base della scelta sono i più disparati, benché in tutti i casi si cerchi di giustificare l’unione delle due famiglie principalmente per una questione di amicizia e di fratellanza. Volendo suddividere la casistica raccolta sul campo, si possono individuare tre motivi particolarmente ricorrenti che stanno alla base di una alleanza con la circoncisione: 1) la scelta può cadere su una determinata famiglia per riconoscere un servizio o un aiuto ricevuto e formalizzare il proseguimento in futuro di questa cooperazione e dell’amicizia che si è venuta a creare; 2) due famiglie possono avere l’esigenza di scambiarsi beni e prodotti. In questo caso è facile che le famiglie siano molto distanti fra loro e che quindi si differenzino nell’accesso a determinate risorse. Emblematica al riguardo è l’alleanza tramite la circoncisione che i Medje-Mangbetu (così come gli altri gruppi) instaurano con specifiche bande di Pigmei; 3) un terzo caso è rappresentato dall’esigenza di avere un punto di appog50
gio in un’area in cui non è possibile fare affidamento su parenti e che per questioni di lavoro (es. piantagioni, miniere d’oro), di commercio (es. mercati) o di servizi (es. ospedali) bisogna frequentare regolarmente. Le due famiglie, raggiunta un’intesa preliminare, iniziano a farsi visita reciprocamente per sondare la bontà e la generosità dei futuri alleati. Fin tanto che non si sia instaurato un clima di forte fiducia, il noutu potrebbe essere annullato e addirittura si dice che «fino all’ultimo momento gli amekenge possono tornare indietro», cioè l’accordo può saltare. La scelta dei propri amekenge è una questione delicata da affrontare con discernimento e prudenza in quanto la fratellanza implica una teorica comunanza dei beni; ci si può recare dai propri fratelli di circoncisione e «prendere quello che si vuole senza limite». Ambemane Eugène, un Mubudu direttore di una scuola primaria, esprime in modo efficace i motivi e i rischi di un’alleanza con la circoncisione: Noi Babudu la facciamo [la circoncisione] sovente con i Balika oppure fra di noi, basta andare a cercare una famiglia un po’ lontana. Basta andare lontano per fare delle relazioni. Sovente si cercano famiglie nobili. È questione di amicizia ma soprattutto di rapporti economici, politici e sociali. Si cerca di guadagnarci qualcosa. Si fa anche con i Pigmei ma bisogna stare attenti perché quando verranno loro da te porteranno tutto il villaggio e allora c’è il rischio di avere problemi con le proprie famiglie vicine. Qualcuno dei vicini può dire: – io non ho fatto la circoncisione con i Pigmei e perché essi devono venire ad attaccare [a prendere prodotti da] i nostri campi?
Occorre verificare le abitudini e le condizioni economiche della famiglia dei futuri fratelli di sangue: difficilmente si sceglie una famiglia povera. Una volta appurata la reciproca bontà della scelta si stabilisce la data, solitamente durante una stagione di relativa abbondanza di risorse. Il luogo del rituale corrisponde generalmente al compound in cui vive colui che ha avuto l’iniziativa. I componenti dell’aggregato domestico dell’organizzatore e i vicini (come si è visto precedentemente si tratta di famiglie riconducibili allo stesso patrilignaggio) sono coloro che si accollano lo sforzo maggiore: devono predisporre l’accoglienza dei partner di circoncisione, accordarsi con un circoncisore (nesamba) stabilendo51
ne il compenso e preparare l’abitazione in cui i circoncisi trascorreranno il periodo di guarigione (tale edificio viene costruito nelle vicinanze del compound). I membri della famiglia che organizza parteciperanno più numerosi al noutu rispetto alla famiglia ospitata. Quando arrivano gli si va incontro ad accoglierli. Gli viene dato il posto, bevande e cibo. Nel mentre l’infermiere è già stato avvertito. I bambini non vengono circoncisi lo stesso giorno dell’arrivo, bisogna restare lì a danzare un po’ (Makilingbo).
3. Le danze La danza precede la circoncisione. Un tempo il periodo dedicato alle danze poteva prolungarsi per alcune settimane o – come qualcuno ricorda – per due o tre mesi. Non è stato semplice ricostruire attraverso le interviste l’ipotetica sequenza di danze che occupano la scena nei giorni precedenti la circoncisione. La sensazione è che dal vasto repertorio composto da danze popolari e da versioni popolari delle danze di corte si attinga abbastanza liberamente mantenendo costanti due elementi: 1) la danza che precede la circoncisione è essenzialmente quella denominata nebopo, una danza tipica delle donne; 2) nelle ore serali e nelle prime ore della notte la danza nebopo viene sostituita dai ritmi delle danze namuro (una danza per i ragazzi giovani) e mabolo (i cui specialisti sono uomini). La danza nebopo, una delle più popolari e conosciute, viene eseguita dalle donne in onore di persone importanti, mentre gli uomini stanno a guardare. Lo strumento musicale principale connesso al ritmo nebopo è il doppio tamburo conico in pelle denominato nabita e ricavato da un tronco di mango (Demolin 1990: 207). Durante la danza il suono di questo tamburo «chiama» (invita) una alla volta le donne a esibirsi di fronte al percussionista per poi ritornare al proprio posto. Teresa Amanzibandro Sani, una valida informatrice di Neisu, ribadisce l’importanza e la caratterizzazione di genere della danza pur sottolineando il fatto che chiunque può danzare nebopo (così come chiunque danza mabolo, pur essendo tipica degli uomini). 52
Nebopo è una danza riservata a momenti importanti. Si usa per il noutu e per altre occasioni. Non sono solo le donne che la fanno anche se è una danza per le donne. Queste danze possono iniziare anche uno o due mesi prima della circoncisione. Il giorno della circoncisione queste danze si fanno ancora. Dopo la circoncisione non si danza più (Teresa Amanzibandro Sani).
La danza delle donne viene sostituita al calare della sera con una danza aperta a tutti, tipica dei giovani (indipendentemente dal sesso), denominata namuro. Mi sono stati riportati diversi sinonimi (neniongo, nemira, nepalaba) e in ogni caso sembrerebbe una danza di intrattenimento e di divertimento diffusa un po’ ovunque con nomi diversi. Al namuro si affianca nelle ore notturne il mabolo, una tipica danza maschile la cui versione di corte è particolarmente famosa. Quando alla fine del secolo scorso l’esploratore Schweinfurth assistette alla esibizione del re Mbunza in un assolo di danza di fronte alle sue mogli e ai suoi sudditi, si trattava proprio del mabolo, una delle più famose danze alla corte mangbetu. Tale danza, eseguita sulle note di una vera orchestra incentrata sui corni in avorio, era la più evidente manifestazione dell’abilità e intelligenza (nakira) del re (Demolin 1990: 205). La versione popolare del mabolo è caratterizzata da un ritmo più rapido e dall’impiego di un minor numero di strumenti: nella maggior parte dei casi si tratta di un tamburo cilindrico (nabita), di un tamburo a fessura (nekpokpo) e di sonagli (nangbara). La sequenza nebopo-namuro-mabolo è doppiamente significativa. In primo luogo, nella maggior parte delle interviste che ho condotto sulle sequenze del rituale noutu, la danza nebopo è indiscutibilmente posta all’inizio del racconto e considerata il punto di partenza dell’azione rituale. Questo elemento che dà inizio all’intero rito è connesso con il genere femminile e ciò rimanda a numerosi miti e leggende concernenti l’origine e la scoperta della circoncisione solitamente attribuita alle donne (Bettelheim 1996: 111). Fra i Medje-Mangbetu non sembrano esistere miti sull’origine della circoncisione, ma in altri contesti etnografici africani (Turner 1976, Muller 1993) e nei due maggiori resoconti etnologici di pratiche di circoncisione nel Congo nord-orientale (Droogers 1980 fra i Genya, De Mahieu 1985 fra i Komo) si pone l’at53
tenzione su questa costante relazione fra l’inizio, la scoperta, l’origine della circoncisione e il genere femminile. In secondo luogo, la successione delle danze anticipa il tema centrale del noutu inteso come rito di passaggio puberale: il bambino, inizialmente legato all’universo femminile della madre, partecipa a un evento rituale durante il quale vive un periodo di liminarità insieme ad altri compagni per poi diventare un vero uomo. Il passaggio da una danza femminile (nebopo), a una tipica dei ragazzi e sessualmente indistinta (namuro), fino a giungere alla danza tipica degli uomini e connessa con i valori dell’abilità e del talento rispecchia la trasformazione del circonciso e il cambiamento dell’ambiente sociale al quale deve fare riferimento e a cui appartiene. Emasiombe Anselme, chef de localité a Mbongyi, ha fatto circoncidere suo figlio con un ragazzo pigmeo e ricorda chiaramente le fasi iniziali del noutu: Il giorno prima della circoncisione si è danzato nebopo nel pomeriggio, tutti insieme noi e i Pigmei. Verso sera namuro. Verso mezzanotte ci fu la distribuzione di agwa [distillato di vino di palma]. Dopo aver bevuto ogni gruppo si è messo da parte a danzare quello che voleva. I Medje dopo mezzanotte danzavano mabolo, i Pigmei nekpu. Si va avanti così fino alle cinque quando è ora di prendere i bambini per la circoncisione. C’erano due bambini pigmei e tre medje. Una volta era obbligatorio far danzare i bambini e subito dopo l’operazione gli si dava da bere per farli continuare a danzare. Oggi dipende dai casi.
Le danze vengono eseguite principalmente dai componenti delle due famiglie coinvolte nel noutu ma anche dai futuri fratelli di circoncisione. I bambini che di lì a poco dovranno subire l’operazione non sembrano oggigiorno obbligati a danzare, sebbene la partecipazione alla performance collettiva venga auspicata e venga considerata una dimostrazione di coraggio e un aiuto psicologico per superare e dimenticare il dolore a cui stanno andando incontro. Questa lotta contro l’idea del dolore e questa dimostrazione del coraggio richiamano l’analisi compiuta dall’antropologa Suzette Heald sul rituale di circoncisione dei Gisu dell’Uganda denominato imbalu (Heald 1982, 1986), in cui si pone particolarmente l’accento sui risvolti psicologici di alcune fasi rituali, prima 54
fra tutte la danza che precede l’operazione. In questo caso, il coraggio e la forza dei ragazzi da circoncidere vengono valutati in primo luogo dal modo in cui danzano nella fase preparatoria; il vigore che dimostrano nella danza è il segno più evidente della loro determinazione e della loro maturità fisica e psicologica. Fra i Medje-Mangbetu del nord (coloro che risiedono nella collectivité Azanga il cui territorio si trova a nord-est della città di Isiro, a più di 100 chilometri dai domini del sud terreno principale della mia ricerca) i futuri circoncisi non solo devono danzare nelle fasi iniziali del noutu, ma devono dimostrare di saper eseguire alla perfezione una difficile danza denominata appunto noutu totalmente sconosciuta e ignorata nei territori del sud. Nel capitolo successivo si tornerà su questa significativa divergenza e più in generale sul diverso significato che ha assunto il noutu nei vari domini medje-mangbetu. Tuttavia pare rilevante sottolineare fin da ora il fatto che eseguire una specifica danza venga considerato da una parte una conditio sine qua non e dall’altra venga addirittura ignorato. In un caso, diventare uomini implica la conoscenza di ritmi e movenze tipiche di un gruppo e la trasformazione dell’individuo in un vero uomo è necessariamente correlata all’esercitazione del corpo su un codice predeterminato dal proprio gruppo (dalla propria cultura). Nell’altro caso si ignora l’elemento iniziatico della danza e nell’eventualità che ci sia – o ci sia stato storicamente – l’invito o l’obbligo a danzare, sarebbe un’indicazione del tutto generica e per nulla connessa a una specifica danza. È importante riflettere sul fatto che, mentre ai gruppi del sud manca una danza iniziatica considerata indispensabile per diventare un vero uomo, nei territori del nord i Medje-Mangbetu sembrano ignorare tutta l’ideologia dell’alleanza connessa con il noutu e la forte apertura nei confronti dei gruppi vicini. Accettare di diventare uomini con altri implica l’abbandono di un progetto esclusivo e interno a un gruppo culturale specifico, progetto simbolicamente rappresentato da una danza che scaturisce da una tradizione culturale tipica e specifica. Per quale motivo i Pigmei, i Babudu, i Balika dovrebbero imparare una danza medje-mangbetu per diventare uomini pigmei, budu, lika? Fra i vari elementi che si mescolano, le sequenze che si negoziano, le terminologie che si influenzano, sono le danze tipiche di ogni specifico gruppo 55
che paiono resistere maggiormente nella loro diversità. Se i rituali puberali connessi alla circoncisione sono momenti fondamentali nella costruzione dell’essere umano e se si sceglie di con-dividere questi eventi rituali con altri gruppi, allora le diverse umanità che entrano in gioco preservano la loro specificità soprattutto nel momento della danza. Se un Medje va dai Babudu per la circoncisione, saranno sempre uniti come fratelli ma ognuno farà le proprie danze pur essendo legati dalla stessa alleanza. Da una parte fanno un canto e si guarda come danzano fra loro e dall’altra parte fanno i canti secondo loro e si vede come cantano e danzano fra loro. Ognuno danza la propria danza. Si danza insieme nella stessa nébha ma un po’ divisi in modo che i Budu danzano alla loro maniera e i Medje guardano e viceversa (Emalongo).
Malgrado ogni gruppo si esprima attraverso i propri ritmi e le proprie figure, traspare – dalle interviste condotte – una certa curiosità nei confronti della performance dell’altro gruppo. Sembrerebbe che durante un noutu interetnico ci sia dopotutto il tentativo di imitare quello che fanno gli altri. Se ci sono due gruppi che fanno la circoncisione insieme, un gruppo resterà da una parte e l’altro dall’altra. Ognuno farà le sue danze e voi non potete cantare i loro canti perché non conoscete la lingua. Quando si fermano allora potete iniziare. Ci si sforza di conoscere le danze e le canzoni dell’altro gruppo, anche se non si riesce a fare i canti si prova, ci si esercita per cercare di raggiungere lo scopo di quello che volevano fare (Guamonzine Jourdain).
Le idee dell’alleanza e dell’apertura pervadono il rituale e la necessità dell’incontro e della mescolanza prevale sul bisogno di conservare e trasmettere un’identità di gruppo. Tutto ciò è particolarmente significativo proprio per il fatto che si tratta di un rito di passaggio alla vita adulta di solito connesso nelle analisi antropologiche a un percorso iniziatico teso a comunicare e a preservare i valori e l’identità di un singolo gruppo. Ciò che si perde è l’esclusività di un progetto dell’uomo sull’uomo e ciò che si acquista è l’apertura verso gli altri e la mescolanza con gli altri. È ovvio che anche questa apertura è un progetto, meno esclusivo e più condiviso, per costruire l’uomo. L’idea del mescolare e del met56
tere insieme sangue, bambini, sequenze rituali, terminologie e quant’altro, congiuntamente alla mancanza di un processo iniziatico ed esclusivo, è soltanto un altro modo per fare e pensare l’umanità. 4. Il giorno della circoncisione Le danze continuano anche il giorno fissato per l’operazione vera e propria. Il nesamba arriva alla nébha il mattino presto e si affretta a nascondere il coltello neiki (utilizzato solo per la circoncisione) sotto un tronco d’albero collocato all’ombra di un banano o di una palma di rafia. I bambini candidati attendono in una abitazione il momento dell’operazione in un crescendo di timore e paura; c’è una canzone che i futuri amekenge devono cantare nell’attesa: «sambee neyko awoda» («nesamba circoncidimi perché il sole sta calando»). Fino a non molto tempo fa, essi venivano abbigliati con vestiti nuovi confezionati in modo tradizionale con la corteccia battuta e sui loro corpi venivano impressi disegni ornamentali con il succo nero ricavato dalla spremitura del frutto di una pianta di foresta (nemokwali). I bambini immediatamente prima della circoncisione venivano spogliati dei propri abiti e invitati a indossare un gonnellino fatto con foglie di banano e denominato emadangba; per tutto il periodo della guarigione non avrebbero potuto utilizzare altri vestiti. Oggigiorno i candidati, una volta spogliati degli abiti nuovi, vengono abbigliati con la stoffa variopinta indossata quotidianamente dalle donne. Nelle vicinanze del tronco su cui opera il nesamba viene scavata una buca in cui sono sistemate con cura foglie di banano in modo che l’acqua in essa versata possa restare pulita e per più tempo. In questa buca d’acqua ogni bambino dopo l’operazione deve immergere il pene ferito al fine di alleviare il dolore e sancire la fratellanza con i suoi amekenge. Se nelle vicinanze del villaggio esiste un corso d’acqua, allora la circoncisione può svolgersi sulla riva del fiume e la fratellanza di sangue sarà suggellata direttamente nelle sue acque. Quando tutto è pronto, un adulto si avvicina danzando all’edificio in cui attendono i candidati, preleva il primo bambino e innalzandolo sulle spalle lo accompagna, sempre danzando, dal ne57
samba. Colui che porta sulle spalle il bambino è di solito un membro della sua famiglia oppure può trattarsi dell’amekenge di suo padre. Il bambino si siede a cavallo del tronco e un aiutante del circoncisore, seduto dietro di lui, fa passare le sue gambe all’interno di quelle del candidato divaricandogliele e, tenendole ferme, prende la testa mettendogli una mano sugli occhi e la fa ruotare un po’ all’insù appoggiandola a una spalla. Dopo che il nesamba ha tagliato il prepuzio (néipopó), il bambino viene portato alla buca d’acqua per il lavaggio della ferita che immediatamente verrà bendata con una foglia di una pianta denominata esongonabi. L’intera sequenza si ripete per ogni bambino con l’accortezza di alternare i candidati secondo l’appartenenza famigliare. Alcuni informatori sostengono che il bambino dopo l’operazione debba intonare un canto per dimostrare il proprio valore. Il risultato di questa prova di coraggio darà adito a uno scontro verbale fra le zie paterne e le zie materne: se il bambino non canta e si limita a piangere allora saranno le prime a recriminare contro la famiglia della madre colpevole di aver dato alla luce un bambino pauroso; se al contrario il circonciso dimostra valore con il canto saranno le zie materne a far pesare il fatto di aver dato a un altro némava un bambino coraggioso che farà la fortuna della sua famiglia d’appartenenza (quella paterna). Questa disputa riecheggia lo scontro tra la famiglia di appartenenza e gli edjadja (parenti matrilineari) successivo alla morte di un individuo, sebbene in quest’ultimo caso i toni e le conseguenze della disputa siano ben più rilevanti e pesanti (McKee 1995). Alla sera e al mattino seguente viene gettata un po’ d’acqua sulle bende indurite per ammorbidirle e poterle togliere allo scopo di effettuare le prime medicazioni: il nesamba si mette in bocca il sale tradizionale (nemunana) per poter sputare saliva salata sulla ferita. Questo provoca forti dolori ed è necessaria l’assistenza della madre del circonciso o di qualche parente. Nei giorni successivi all’operazione occorre quotidianamente medicare il pene con un medicinale appositamente preparato: si prende la polvere che si trova sotto la corteccia dell’albero nekokoroki e si mescola con il succo di una specie di frutto (nebudu), il tutto viene racchiuso nelle foglie denominate nabugabu e messo vicino al fuoco; con il liquido che si forma si medica la ferita. Se il taglio non si cicatrizza velocemente si prende allora la parte marcia del tronco di ba58
nano che si trova sotto il terreno denominata néngámádi 3; dopo averla resa malleabile la si scalda sul fuoco per poi tamponare il pene ferito. La parte del tronco di banano che si trova sottoterra viene utilizzata, nella medicina tradizionale locale, anche nel caso in cui un bambino nei primi anni di vita non riesca a reggersi bene sulle gambe. È evidente come in entrambi i casi il medicamento sia connesso all’idea del recupero della rigidità e dell’erezione. L’abilità del nesamba viene valutata in base alla destrezza e alla rapidità con cui recide il prepuzio. Alcuni anziani circoncisori raccontano che un tempo lo stesso nesamba, al fine di mostrare la sua abilità, lanciava in aria una pietra prima di iniziare l’incisione e concludeva l’operazione prima che essa toccasse terra. Nel contesto della circoncisione medje-mangbetu, il termine nesamba4 viene riferito per estensione a tutti coloro che aiutano il circoncisore e che svolgono un ruolo attivo nella cura dei circoncisi. Gli informatori medje-mangbetu riportano i seguenti significati del termine: amico, circoncisore, qualcuno che ti ha guarito, qualcuno che ti ha tolto dai guai. Per diventare nesamba (nel senso stretto di circoncisore) non occorre appartenere a un gruppo o a una discendenza particolare, ma seguire una carriera professionale con tanto di apprendistato. Per diventare nesamba bisogna restare a fianco di chi già circoncide per fare pratica; quando si possiede qualche nozione allora si può provare e se si riesce allora si migliora e si continua. Così era nel modo tradizionale e così è oggigiorno, basta restare al fianco di un infermiere. Io ho imparato da un infermiere, adesso lavoro qui ma vado a circoncidere anche lontano. Prima della circoncisione si cerca già di avere rapporti con le famiglie dei bambini. L’infermiere circoncide, poi se ne va e torna ogni tanto per medicare le ferite (Guamonzine Jourdain).
Tornando alla sequenza rituale del noutu, un particolare su cui la quasi totalità degli informatori ha voluto fare precisazioni è il destino riservato al prepuzio tagliato. Eccetto che in molti casi di ospedalizzazione dove il personale si occupa della distruzione (interramento), la famiglia del circonciso pretende la restituzione del prepuzio e la gestione della sua distruzione. Per fare ciò occorre negoziare con il nesamba e proporgli uno scambio vantaggioso. Il prezzo da pagare per la restituzione va a sommarsi alla somma sta59
bilita per la prestazione professionale (se non è denaro, si tratterà di un pollo o poco più). Di solito la contropartita è strettamente legata al destino del prepuzio; i casi che vengono elencati dall’anziano circoncisore Abodiambo Baserene sono emblematici ed esemplificativi: Per ogni circonciso il prepuzio viene restituito alla famiglia ma a condizioni precise e tramite pagamento. Se nella nébha della famiglia del circonciso c’è una pianta di kongolo [palma di rafia] allora il prepuzio potrà essere sotterrato ai piedi della pianta e il vino che darà sarà del nesamba. Ai piedi del banano, allora le banane saranno del nesamba. Se viene gettato nell’acqua del nedome [il tratto di fiume riservato a una singola famiglia], il nedome diventa del nesamba.
Per i Babudu e per alcuni informatori medje-mangbetu i cui villaggi si trovano vicino ai territori budu, i prepuzi devono essere bruciati e gettati sotto un banano o una pianta di kongolo e i frutti che verranno apparterranno al fratello di circoncisione e non al circoncisore. Se si tiene conto che è cosa gradita che il nesamba incominci a frequentare la nébha del circonciso ancor prima del noutu e che in futuro il circoncisore continuerà a esigere crediti (in vino, banane ecc.) dalla famiglia, allora si può dedurre che il frammento di rete sociale tessuto durante il noutu include a pieno titolo anche il nesamba. A conferma del ruolo non puramente chirurgico del nesamba si può riportare un’eventualità considerata da Guamonzine Jourdain, un infermiere circoncisore di Mbongo Mboka: Se un padre non trova nessuno [una famiglia a cui associarsi] per fare la circoncisione, allora farà circoncidere suo figlio da solo, che avrà ugualmente il suo fratello di circoncisione che sarà l’infermiere stesso. Anche in questo caso sono in due e l’infermiere sarà trattato come l’amekenge.
5. Il periodo di guarigione In molti resoconti etnografici di rituali di circoncisione il periodo che segue l’operazione viene definito periodo di reclusione. Generalmente si tratta di un lungo lasso di tempo in cui i circoncisi 60
vengono isolati, sottoposti a prove, iniziati ai segreti, istruiti sui valori del gruppo. Fra i Medje-Mangbetu non c’è nulla di tutto ciò e non si ricorda neppure di un tempo in cui esistesse una reclusione iniziatica. I bambini dopo il noutu restano a vivere nel villaggio dell’organizzatore o nei pressi di esso per il periodo necessario alla guarigione delle ferite. Questo lasso di tempo ha normalmente la durata di un paio di settimane, ma può essere prolungato se le due famiglie avessero problemi nel raccogliere i cibi e le bevande per la festa finale. Ai circoncisi viene destinata un’abitazione al cui interno vengono sistemati degli appositi spazi per dormire. Nei pressi di tale edificio deve restare acceso un fuoco per tutto il periodo, senza mai spegnersi in quanto «non si dovrà mai andare a prendere fuori il fuoco per cuocere il cibo perché se succede il fuoco darà solo fumo» (Anyabose). Le prime notti il circonciso dorme su due o quattro tronchi di banano al fine di tenere le gambe divaricate; in un secondo tempo, potendo cambiare posizione, dormirà su un letto particolare (denominato ekpongbolo) costruito con il legno dell’albero nepambala. Questo tipo di letto viene utilizzato in determinati momenti della vita di un uomo: durante il noutu, alla vigilia di una importante battuta di caccia e nel periodo del lutto in caso restasse vedovo. Dormire sull’ekpongbolo è di buon auspicio per superare un momento problematico della vita o semplicemente un compito importante e impegnativo. Per accudire i circoncisi durante tutto il periodo di guarigione veniva scelta una giovane ragazza ancora vergine e non sposata oppure una persona anziana, un vedovo o una vedova: in ogni caso doveva trattarsi di una persona (generalmente una donna) senza doveri coniugali o meglio senza una vita sessuale tale da impedirle di restare in totale astinenza durante tutto il periodo. Per ciò che riguarda il termine con cui viene denominato tale sorvegliante non ho riscontrato omogeneità (mi sono stati riferiti principalmente due termini: nariariombyi e makpega – questo secondo termine sembrerebbe di origine yogo). In molti casi i sorveglianti possono essere due, soprattutto quando le famiglie coinvolte nel noutu appartengono a diversi gruppi etnici e linguistici in modo da permettere a ogni gruppo di lasciare una persona fidata al fianco dei circoncisi. 61
La scelta dei sorveglianti non sembrerebbe una questione di primaria importanza. Questo è dovuto al ruolo discreto che svolgono, un ruolo ben lontano per importanza da quello descritto in molti resoconti etnografici su rituali di pubertà in cui emergono potenti personaggi (eminenti figure del clan o del villaggio) con il compito di «iniziare» i circoncisi. In effetti il ruolo principale dei sorveglianti è quello di preparare il cibo per i bambini, di accudire il fuoco che mai deve spegnersi e di vegliare sulla fragile chiusura che si instaura nei confronti del vicinato; i circoncisi non possono andare ovunque, ma soprattutto non possono «mangiare fuori» in quanto sono soggetti a rigidi divieti alimentari. Nel tentativo di redigere – con l’aiuto delle interviste condotte su tutto il territorio medje-mangbetu del sud – un elenco dei vari cibi considerati tabu per i circoncisi, mi sono imbattuto in un forte disaccordo fra i vari informatori. Malgrado ciò tutti concordano nel considerare come animali tabu (per i circoncisi nel periodo di guarigione) il maiale selvatico (neego), il pollo (naale), un tipo di pesce privo di squame e armato di aculei velenosi (nemundo), una piccola antilope di dimensioni simili a quelle di una capra (nemosuma), e l’elefante (noko). Alle carni di questi animali si unisce il divieto di mangiare le arachidi (netu) e le banane che si trovano all’estremità di una «mano di banane» (ebuguabe). I motivi che stanno alla base di questi divieti possono essere tutti ricondotti all’idea di una «pericolosa connessione analogica»5 che si instaura fra il pene circonciso in fase di guarigione e qualche caratteristica del cibo vietato. Tali peculiarità si ritrovano anche in molti cibi tabu riportati da singoli informatori e non confermati dagli altri; anzi, sono state proprio le divergenze fra gli informatori ad aiutarmi nel rintracciare le caratteristiche comuni ai cibi più disparati e quindi risalire alla connessione analogica in questione. L’analogia più evidente è quella fra il pene ferito e il divieto di mangiare carne di elefante, in quanto la proboscide ricorda il prepuzio appena tagliato: Se si mangia l’elefante il prepuzio che è stato tolto ricrescerà nuovamente. È pericoloso soprattutto per la proboscide, è la proboscide che rende vietata tutta la carne dell’elefante (Odianzuda Victor).
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Si è di fronte evidentemente a una connessione analogica spesso utilizzata per interpretare le azioni magiche basate sull’assunto secondo cui «il simile attrae il simile» e i legami fra cose simili possono essere cause concrete di influenza reciproca (Tambiah 1995: 87-121). Nel noutu certi animali vengono vietati perché la loro carne o la loro pelle rimandano alle manifestazioni esteriori di alcune malattie: così, se si mangia la carne grassa del maiale selvatico può sopraggiungere la lebbra, mentre mangiare la carne del pollo provoca eruzioni cutanee rendendo la pelle simile a quella del pennuto. In base a tale ragionamento analogico è ovvio il divieto nei confronti degli animali forniti di aculei e pungiglioni che idealmente «pungono» la ferita. I circoncisi infatti non possono mangiare i pesci con aculei come il già citato nemundo, il nakukula e il nabundu. Con la stessa logica si esclude il consumo delle termiti-soldato (emangele) e – secondo il parere di Anyabose – una specie di riccio (noulia). Anche il pesce noodimi, pur non avendo aculei, è considerato tabu da alcuni informatori in quanto capace, a suo modo, di «pungere» la ferita del circonciso con scariche elettriche. Al fine di non favorire deprecabili comportamenti, il consumo della carne di alcuni animali può essere vietato ai circoncisi per via della condotta degli stessi animali. Nel periodo di guarigione non si può mangiare la carne della piccola antilope nemosuma, in quanto «dorme sempre e non è un ottimo esempio per i bambini» (Neti); anche la tartaruga (nako) secondo alcuni deve essere evitata in quanto la sua lentezza non deve essere imitata dai circoncisi. Secondo Maimbo e Bala del villaggio di Nyakpu, non possono essere mangiati tutti i cibi bianchi, come per esempio le arachidi e la manioca, in quanto il bianco è il colore delle piaghe; tutti gli animali molto rossi (con molto sangue), in quanto il rosso rimanda alla ferita non ancora cicatrizzata; e tutti gli alimenti di forma ricurva (così si spiegherebbe l’esclusione delle banane esterne alla mano, effettivamente più ricurve), considerati un cattivo auspicio per l’erezione del pene. I cibi consentiti possono giungere dall’esterno del compound ma solo crudi, e la cottura deve avvenire sul fuoco dei circoncisi per opera del sorvegliante. Anche nell’ambito delle proibizioni 63
alimentari il contatto interetnico sembra aver scardinato ogni tentativo di chiusura come testimonia Abodiambo Baserene, uno dei più anziani circoncisori con cui ho avuto la possibilità di dialogare: Durante il periodo non si possono mangiare cibi provenienti da fuori. Le cose sono cambiate all’arrivo [con i contatti] dei Babudu e dei Bayogo che hanno portato le foglie tradizionali da mettere nel netonyo [il pasto comune dei circoncisi]. Con queste foglie è permesso mangiare fuori. Ai miei tempi, quando sono stato circonciso io, non si mangiava fuori, ma poi tramite i Babudu e i Bayogo si venne a conoscere queste foglie. I Medje hanno dovuto pagare per sapere il segreto.
In attesa che le ferite guariscano completamente, i circoncisi del noutu possono occupare la loro giornata andando a caccia con la fionda o con l’arco nei paraggi dell’abitazione a loro destinata. La motivazione che sta alla base della loro attività quotidiana deve essere principalmente quella di procurare cibo per la festa finale, durante la quale tutti gli animali tabu della circoncisione verranno consumati. Quel poco che riescono quindi a cacciare (topi commestibili e uccelli) è messo sopra il fuoco a essiccare per poterlo in seguito consumare nella festa conclusiva. Durante il periodo che va dall’operazione fino al lavaggio nel fiume degli amekenge nelle giornate conclusive del noutu, i circoncisi vengono considerati éigwa, impuri, sporchi. Nella società medje-mangbetu neigwa è sia il bambino nel periodo liminare del noutu sia il vedovo durante il lutto (cap. V, § 3); in entrambi i casi l’igiene personale non deve essere curata, le unghie e i capelli non devono essere tagliati e occorre evitare di lavare accuratamente il proprio corpo. Essere neigwa significa vivere un periodo estremamente precario della propria vita, un periodo in cui il potere decisionale e la libertà di movimento e di scelta (es. i tabu alimentari) sono limitati e condizionati da altri. I giorni che seguono il taglio del prepuzio o la morte del coniuge sono giorni segnati da una forte precarietà, in quanto lo status che si è abbandonato è irrimediabilmente alle spalle e quello successivo non lo si è ancora raggiunto. È una fase di passaggio e di trasformazione, in cui si è particolarmente vulnerabili e deboli nel fisico e nella psiche. 64
6. Le fasi finali Quando le ferite sono ormai guarite e quando le due famiglie sono riuscite a procurarsi cibo e bevande sufficienti per la festa finale, allora si procede al lavaggio dei circoncisi. A un certo punto si dirà: «domani c’è il lavaggio». L’indomani molto presto si parte per andare al fiume e da là si deve tornare. I sorveglianti e gli adulti delle due famiglie sceglieranno un vecchio che dovrà lavarli (Odianzuda Victor).
Ai circoncisi condotti sulla riva del fiume verranno tolti i vestiti (che dovranno essere bruciati sul posto) e prima di essere lavati verrà loro tagliata l’unghia di un mignolo. Subito dopo, indossati nuovi abiti, dovranno tornare correndo singolarmente al villaggio e lungo la strada, nascosto nella vegetazione, un anziano (normalmente un vedovo) ha il compito di frustare le gambe dei circoncisi senza essere visto. Lo scopo è quello di inculcare il coraggio nel giovane in modo che impari ad affrontare i pericoli improvvisi che gli riserverà la vita. Giunti nuovamente nel compound si provvederà al taglio dei capelli e a concludere il taglio delle unghie. Il lavaggio al fiume segna l’abbandono dello status di neigwa, benché il processo di pulizia e «purificazione» duri in realtà l’intera giornata6, la quale deve essere trascorsa senza svolgere alcuna attività e senza eccedere nel cibo (per alcuni si tratta di un vero digiuno spezzato da un po’ di canna da zucchero). La sera, i circoncisi devono lanciare una freccia con la punta infuocata verso zebu (ponente) con l’intento di allontanare da sé la malasorte e le sventure future. Alcuni informatori affermano che la freccia deve essere lanciata verso una stella particolare che appare a ponente poco sopra l’orizzonte. Terminati i lanci, tutti gli archi utilizzati vengono bruciati (come i vestiti al fiume) e i circoncisi, dopo un pasto fugace, devono ritirarsi per la notte ospitati in diversi compounds, rigorosamente collocati a ponente rispetto alla nébha in cui si svolge il noutu. Dormire a zebu è importante «per lasciare ancora durante il sonno la malasorte e le cose malvagie e l’indomani ritornare nella 65
nébha della circoncisione [a zebo, levante] con la buona sorte» (Odianzuda Victor). Come si può constatare, l’intera giornata dedicata all’uscita dallo stato di neigwa è orientata sull’asse zebu-zebo, alla cui importanza si è già accennato precedentemente (cap. I, § 3). L’abbandono di una condizione caratterizzata da debolezza e da vulnerabilità (periodo di guarigione) richiede un’immersione nel flusso di un fiume (lavaggio), così da «portare via» tutti gli aspetti negativi connessi al precedente status (di neigwa). Tuttavia, il circonciso vestito con abiti nuovi non solo abbandona passivamente la condizione precedente (lo lavano, lo rivestono, gli tagliano capelli e unghie, bruciano abiti e archi usati), ma si erge a paladino del proprio processo di fortificazione instaurando una lotta contro le sventure che potranno capitargli in avvenire. Infatti, il lancio della freccia a ponente diventa doppiamente significativo. In primo luogo, rappresenta un ulteriore sforzo al fine di eliminare gli aspetti negativi del periodo appena trascorso; in secondo luogo, contiene una forza propositiva per la vita futura dei circoncisi. Essi non si limitano a «scaricare» passivamente la condizione di éigwa nell’inarrestabile flusso del fiume ma concentrano la malasorte in una freccia e, dandogli fuoco, la lanciano in segno di sfida nella direzione del tempo che non torna più, nella direzione in cui – come viene espresso nel proverbio riportato nel primo capitolo – la piroga (l’uomo) inesorabilmente invecchia. Se il lancio della freccia è una sfida lanciata da un individuo – finalmente in possesso di un progetto di vita, essendo diventato uomo tramite la circoncisione – contro il tempo che passa, ancor più significativa è la notte trascorsa a zebu. Il nemico contro cui si sta combattendo non lo si sfida a distanza, ma lo si affronta direttamente; ci si immerge simbolicamente nel flusso per restarci una notte intera e soprattutto per risalire la corrente il giorno dopo (il ritorno verso zebo nella nébha della circoncisione). Significativamente, quando si va a dormire a zebu si è soli (a ogni circonciso è affidata una casa diversa), così come si viene singolarmente lavati nel fiume. Sebbene la direzione della corrente (del tempo che passa, della vita) venga affrontata in solitudine, in quanto la lotta contro di essa è evidentemente una questione privata, tutto ciò avviene in un contesto (quello del noutu) in cui il «restare soli» non è un valore, anzi, è antitetico a un noutu ben 66
riuscito. In effetti, il fine ultimo del noutu non è certo solo quello di uscire dalla condizione di neigwa, ma soprattutto realizzare un’alleanza che comporti il «mettere insieme» individui; il progetto che sta alla base del noutu è quello di far diventare uomini degli individui e la strada per realizzare questo progetto è quella dell’alleanza, del «mettersi insieme». La giornata conclusiva del noutu è l’immagine più efficace di questo percorso. La mattina dell’ultimo giorno, dopo aver ricevuto regali dalla famiglia ospitante si lascia zebu e si risale verso zebo. Il punto di arrivo è nuovamente la nébha della circoncisione in cui avverrà la consumazione del netonyo, un pasto in cui si afferma con forza lo spirito di comunità e di fratellanza tra gli amekenge. Con il sostantivo netonyo (termine connesso con il cibo, náanyo) si intende il pasto consumato in comune dagli amekenge il giorno conclusivo del noutu. Netonyo in particolare è il cibo, appositamente preparato e consumato per l’occasione, composto da tutti gli alimenti vietati durate il periodo di guarigione, a cui si aggiunge la carne dei topi e degli uccelli cacciati dai circoncisi e in ultimo alcune foglie speciali. Nella sua accezione più ristretta, netonyo è quel particolare tipo di foglia che occorre aggiungere al cibo consumato ritualmente. «Netonyo aiuta a mangiare quelle cose che ti erano state vietate» (Banda Charles). Esiste il netonyo per il nobu, la cerimonia di nascita (cap. V, § 2), quello per il noutu, quello per il lutto e quello per il nebeli (cap. VI). Questo non vuol dire che è lo stesso tipo di foglia. Tutte sono chiamate netonyo ma sono foglie diverse. Per la circoncisione si usa il netonyo nakatotobo [da intendersi come «la foglia chiamata nakatotobo»], per il lutto il netonyo nebelebe (Mopoto Mapabuadi).
La cottura del netonyo avviene al mattino presto. Anche in questo caso emerge il carattere binario del noutu: una famiglia ha l’incarico di mettere il recipiente sul fuoco, mentre l’altra deve toglierla quando il cibo-netonyo è pronto. A questo punto, i circoncisi si siedono di fronte o intorno a un anziano appositamente scelto, il quale prende una banana nébugo (la specie non dolce maggiormente consumata), la taglia in due parti e, dopo averla immersa nel recipiente del netonyo, la porge al primo bambino per poi darla all’ultimo momento all’amekenge seduto a fianco. Tutti 67
i circoncisi a turno devono subire «la finta della banana», interpretata dagli informatori come il segno più evidente della fratellanza e della comunione instaurata fra gli amekenge. L’alleanza sancita attraverso il noutu può essere ribadita con un discorso («le parole della circoncisione») da rivolgere ai circoncisi durante quest’ultima giornata. Gli si dirà di non essere ladri, di comportarsi correttamente soprattutto fra di loro, di non parlare male del proprio amekenge e di riferirgli ogni complotto tramato contro di lui. Ai circoncisi viene ricordato il divieto di avere in un futuro rapporti sessuali con la moglie del proprio amekenge e il dovere di permettere al proprio fratello di circoncisione di prendere qualunque oggetto o prodotto dal proprio compound. Queste parole pronunciate durante il noutu eipopoi non hanno il significato di un vero giuramento ma funzionano da promemoria, mentre durante il noutu tekpo (cap. VI, § 1) acquistano maggiore solennità. Nel modo in cui mi sono state raccontate le fasi conclusive del noutu si esprime l’esigenza di riequilibrare lo sforzo compiuto dalla famiglia organizzatrice. Non mi è stato chiarito esattamente come tale riequilibro si verifichi, ma ci si è limitati a sottolineare il fatto che alcune fasi della festa finale debbano svolgersi nel compound dell’altra famiglia. Per alcuni, l’intera sequenza dal lavaggio alle «parole della circoncisione» si svolge nella nébha dei propri amekenge; per altri (la maggior parte), soltanto il discorso finale diventa il pretesto per trasferirsi nel villaggio dell’altra famiglia i cui componenti devono organizzare una festa e fornire cibi, bevande e regali. In quest’ultimo caso il discorso finale non riguarda direttamente solo i circoncisi (ai quali comunque vengono ricordati i diritti e i doveri della fratellanza dopo il netonyo) ma la totalità delle due famiglie. Il discorso dipenderà dagli altri, dai padroni di casa che dovranno ben prepararsi, procurando cibo e bevande. Della famiglia che si sposta vanno gli uomini, i circoncisi, le sorelle dei padri e le madri dei bambini. Il discorso si fa tra le due famiglie riunite e solo due rappresentanti hanno la parola. Si prendono le foglie del banano nabira e gli si leva il nervo centrale per fare un frustino. Con questo il rappresentante picchia al suolo e dice «quando sentirai parlare male di me e non lo dici, che il noutu vada contro di te», frusta in terra e dice «quando
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tu prenderai mia moglie, che il noutu vada contro di te», frusta nuovamente e dice «quando vi chiederò qualcosa e voi non me lo date, che il noutu vada contro di te». Finito, incomincia l’altra persona nello stesso modo (Odianzuda Victor).
Questi tre fattori – l’amicizia, il divieto sessuale e l’aiuto materiale – ritornano in tutte le interviste condotte e rappresentano i temi centrali intorno a cui orbitano le conseguenze positive e negative del rispetto o meno dell’alleanza. Anche nel momento del discorso finale si ripropone il carattere binario del noutu, in quanto fra i due gruppi che rappresentano le due famiglie si creano delle coppie in modo tale che ogni componente di una famiglia abbia un referente del noutu (una sorta di amekenge) nell’altra. Le coppie vengono formate generalmente in base all’età e al ruolo occupato dai singoli nel proprio aggregato domestico (anziani con anziani, giovani con giovani), mentre le donne sono escluse. 7. La rete di alleanze Nel rituale del noutu entrano in scena determinati attori sociali riconducibili in gran parte a due differenti famiglie appartenenti a due differenti patrilignaggi esogamici e in moltissimi casi a due gruppi etnici diversi. La funzionalità sociale del noutu è connessa all’alleanza che si crea fra individui che non condividono fra loro legami di parentela. Il rituale della circoncisione rappresenta il fulcro attorno a cui viene tessuta una rete di alleanze: due o più bambini mescolano il proprio sangue e diventano come fratelli. Partendo dal presupposto che il legame fra amekenge è il frammento centrale di una rete di alleanze, occorre verificare quanto sia grande questa rete e quali individui coinvolga, in che modo e perché si sviluppi in determinate direzioni e infine quali differenze esistano fra il centro e la periferia di questo reticolo che orbita intorno a due o più fratelli di sangue. Optando per una specie di scomposizione morfologica della rete è possibile identificare alcuni livelli della rete stessa, in quanto non tutti gli attori sociali coinvolti in essa la vivono in modo simile. 69
a) Il primo livello è rappresentato dai veri amekenge, cioè da coloro che hanno condiviso l’operazione durante lo stesso evento rituale. Essi percepiscono l’alleanza del noutu come una reale estensione dei rapporti tra sibling più che una generica estensione dei rapporti patrilineari: non devono avere rapporti sessuali con le sorelle dirette e le future mogli dei propri fratelli di circoncisione; possono liberamente sottrarre beni e prodotti dell’aggregato domestico degli amekenge ai quali fanno visita regolarmente; soggiornano nei loro villaggi per periodi più o meno lunghi. Un individuo deve partecipare attivamente all’organizzazione del matrimonio e del lutto in onore del proprio fratello di circoncisione deceduto. Nel primo caso si tratterà di un contributo finanziario o di un dono particolare, come per esempio una capra o il vestito per la cerimonia. Nel secondo caso, l’amekenge deve partecipare al lutto senza far trasparire il dolore attraverso il pianto e la disperazione: si presenterà al villaggio del defunto con il viso e le caviglie segnate dall’argilla bianca (nekpondoubu) e resterà in disparte durante la disputa fra la famiglia del morto e gli edjadja (zii materni). Non è raro che il fratello di circoncisione contribuisca al pagamento degli edjadja, come può succedere che lui stesso riceva un compenso (per esempio un pollo) per la perdita subita. Nella gestione del lutto la posizione e il ruolo dell’amekenge del morto è significativa in quanto non riconducibile chiaramente a una delle due fazioni in lotta. La fratellanza di sangue è concettualmente in bilico fra la consanguineità e l’affinità (nell’accezione ampia di alleanza fra gruppi di consanguinei) e ciò emerge con evidenza nella partecipazione al lutto del proprio amekenge. Per certi aspetti il fratello di sangue è ovviamente incluso dalla parte della famiglia del morto in quanto è come se fosse suo fratello e quindi rientra nel gruppo famigliare del morto. Tuttavia, l’amekenge subisce una perdita importante e le relazioni e le alleanze fra le famiglie dovrebbero essere ridisegnate o ribadite esattamente come succede nei confronti degli zii materni. b) Il secondo livello coinvolge gli aggregati domestici degli amekenge e in particolare i più stretti famigliari. In questo caso rimane forte il divieto matrimoniale, mentre si indebolisce la possibilità della sottrazione di beni e diventano rare le visite. La funzionalità del noutu di un proprio famigliare si esprime soprattut70
to con la possibilità di avere un punto di appoggio in un territorio «straniero» ed eventualmente accedere a risorse tipiche di quella regione. c) Il terzo livello riguarda l’intero segmento clanico esogamico (di solito un intero villaggio) di ogni singolo amekenge. Generalmente la partecipazione al noutu si limita a individui inclusi in un segmento clanico esogamico, come spiega Emasiombe Anselme raccontando il noutu di suo figlio con i Pigmei: La forza della circoncisione si limita a un neikuku, qui per esempio siamo a Mbongyi e tutti quei Pigmei sono rispettati in questa parte ma al di là, cioè dove ci si può sposare perde un po’ il senso, la circoncisione incomincia a perdere valore. I Pigmei erano in trenta e della mia famiglia eravamo numerosi perché da qui a Makpulu non ci sposiamo fra di noi, allora tutti erano qui a danzare e a guardare. Tutti quelli di Mbongyi sono amekenge di quei Pigmei, come a Mbongo Mboka che si sono circoncisi con i Balika.
L’aspetto più rilevante è che il divieto matrimoniale vigente fra le famiglie coinvolte nel noutu incomincia a venire meno già all’interno del gruppo esogamico. Gli informatori non considerano questi matrimoni fra individui appartenenti ai due gruppi che orbitano intorno a un noutu come casuali eccezioni a una regola, ma come una normale e auspicabile conseguenza dell’alleanza. Le sorelle «un po’ lontane» (nelle linee collaterali della discendenza) di un ragazzo possono sposarsi nella famiglia del suo fratello di circoncisione. «Prendere come sposa la sorella un po’ in là del vostro amekenge è una cosa molto positiva, è una cosa che vi fa onore perché non è un matrimonio come un altro» (Odruepa). Quanto debbano «essere lontane» mi è stato impossibile determinarlo con esattezza (nel senso che a nessun informatore è parsa una questione alla quale è possibile rispondere con precisione). d) Il quarto livello include coloro che vivono vicino al villaggio in questione e che condividono con l’émava degli amekenge una lontana discendenza comune. Anche in questo caso l’alleanza viene vissuta come opportunità di essere bene accolti in territori «stranieri» e come possibilità per organizzare matrimoni. 71
Sempre dal racconto di Emasiombe Anselme si può notare come le varie alleanze con la circoncisione si incrocino fra di loro: oltre al noutu di suo figlio con i Pigmei, è importante anche quello dei vicini abitanti di Mbongo Mboka (un villaggio appartenente allo stesso nebasadjo di Mbongyi) alleati con il noutu ai Balika: Gli abitanti di Mbongo Mboka quando vanno a fare il mercato dell’oro a Bunzunzu [in territorio lika] chiamano tutti i Balika amekenge. Anche noi di Mbongy ci appoggiamo a questo noutu quando andiamo a Bunzunzu. Non siamo veri amekenge ma ne approfittiamo.
Quasi tutti gli individui hanno partecipato a un noutu collettivo, quindi quasi tutti hanno dei propri amekenge; in più si può fare affidamento sugli amekenge dei propri famigliari e più in generale dei propri parenti. L’immagine del bambino portato dal nesamba sulle spalle del fratello di circoncisione del padre è emblematica nell’inquadrare il significato del noutu: così come non ha alcun senso e alcun valore fare noutu in solitudine, analogamente non ha senso che il proprio noutu resti isolato senza inserirsi in una rete di alleanze su cui un aggregato domestico possa fare affidamento. Inoltre la rete di alleanze che si viene a creare non è pensata come esclusiva di una cerchia di parenti, ma coinvolge e si aggroviglia con altri frammenti di reti riconducibili al vicinato. Ad «approfittare» di un noutu possono essere infine individui, non riconducibili alla discendenza e alla vicinanza, che occasionalmente si inseriscono nella rete di alleanza orbitante intorno al noutu in questione. È il caso per esempio di quando, durante un accordo per un matrimonio fra due famiglie con una conoscenza reciproca minima, si cerca di rintracciare nella rete degli amekenge qualcuno in grado di fare da intermediario e da garante. In una visione d’insieme sembra che il noutu «getti un ponte rigido» (la rigidità sarebbe garantita dalla finzione biologica della consanguineità e della fratellanza) su cui avvengono scambi di donne, di ospitalità, di beni ecc. Questo ponte rigido crea una relazione estremamente rassicurante e refrattaria alle dispute sociali (in quanto a differenza del rapporto con gli affini non c’è ovviamente nessun prezzo della sposa e prole che possano essere fonte di recriminazioni) e alle distinzioni di rango (escluse già nel 72
momento della scelta iniziale che inevitabilmente cadrà su una famiglia in ricchezza e potenza analoga o superiore alla propria). Da un punto di vista antropologico, uno degli aspetti più rilevanti dei risvolti sociali del noutu è la vicinanza (la «con-fusione») fra consanguineità e alleanza7 e fra divieto matrimoniale e matrimonio preferenziale (anche se quest’ultimo termine risulta improprio nel caso in questione), vicinanza che rimanda per esempio alle classiche riflessioni sul matrimonio con la cugina incrociata o parallela. Nel noutu si costruisce consanguineità per avere alleanze e parallelamente si impone un divieto matrimoniale per avere matrimoni: non c’è una chiara frattura, ma c’è continuità. Per comprendere il senso di tale continuità nella pratica del noutu è illuminante la precisazione fatta da Claude Lévi-Strauss alla fine de Le strutture elementari della parentela (1984) riguardo agli strumenti utili per ottenere affinità (o alleanza). L’antropologo francese pur riconoscendo la fratellanza di sangue come un modo per ottenere affinità al pari dello scambio di donne (1984: 619) colloca le due pratiche su differenti livelli di interesse antropologico sottolineando la «pregnanza culturale» dell’esogamia in opposizione a una insignificante imitazione della natura (la fratellanza di sangue) che nulla aggiunge ai modelli forniti dalla natura stessa (1984: 620). Alla luce di queste riflessioni, l’importanza etnografica del caso in questione (il noutu) risiede nel fatto che gli informatori non considerano l’alleanza con il sangue e la sua funzionalità sociale come l’imitazione della fratellanza naturale – o come dice Robert McKee «un’estensione dei legami patrilineari» (1995: 71) –, ma paragonano ciò che si fa nel noutu con ciò che si fa nel matrimonio, dove le parti coinvolte «si completano tra loro» accrescendosi. Inoltre, lo scambio di donne e la fratellanza di sangue finiscono per coesistere in un unico legame di relazione fra due famiglie. Infatti la possibilità di organizzare matrimoni fra i membri dei due gruppi coinvolti nel noutu sembra – dalle parole di Victor Maimbo, un anziano informatore di Nyakpu – uno dei fini principali dell’alleanza con il sangue: Non c’è differenza fra noutu mangbolu [circoncisione in solitudine] e noutu eipopoi, solo che nel secondo caso ci sarà molta gente che vi amerà e ci saranno matrimoni fra chi verrà.
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Il centro della rete occupato dai circoncisi, dal divieto matrimoniale, dall’affetto fraterno si oppone alla periferia del reticolato occupato da «approfittatori», possibili matrimoni e lucido calcolo economico. Questa opposizione non crea paradosso, ma attribuisce un significato sociale e un senso alla stessa pratica del noutu attraverso la quale si aumentano in modo considerevole le proprie possibilità (di matrimonio, di accesso alle risorse, di incremento del peso sociale della propria famiglia). È in questa ottica che si chiarisce il significato semantico di noutu connesso con il verbo nóóutwóotu che significa «arricchirsi», «aumentare di numero» (cap. V, § 4). In base a ciò, l’accento che viene di solito posto sul risvolto economico del noutu va inteso in senso lato e cioè non strettamente legato a un bene mobile ma a un potenziale arricchimento che può esplicitarsi nel momento opportuno e nei modi più variegati e che in ogni caso è contenuto nella rete che si costruisce e a cui si partecipa. 8. Il «noutu» e gli altri La descrizione dell’azione rituale ha permesso di focalizzare l’attenzione sui rapporti sociali fra gruppi famigliari estranei. La creazione di tali rapporti sembra essere una condizione necessaria affinché si verifichi un noutu «di valore» e in ogni caso è una conseguenza importante della stessa circoncisione. I dati etnografici sul noutu portano ad analizzare le relazioni fra i gruppi coinvolti: l’azione rituale rimanda all’interazione sociale che in molti casi riguarda famiglie appartenenti a diversi gruppi etnici8. Alla luce di ciò è inevitabile che gli stessi processi di interazione fra gruppi differenti vadano a influenzare l’azione del rito, in quanto si presume che differenti tradizioni si incontrino nello stesso evento rituale. Quando si fa la circoncisione con un’altra tribù, magari con i riti diversi, allora sono le famiglie che si mettono d’accordo prima dell’operazione. Se per esempio io faccio la circoncisione con un Mulika lui mi spiega il suo rito, io gli spiego quello budu. Allora ci si accorda per mettere insieme le parti. Se per esempio si fa la circoncisione con i Babali, loro frustano molto i circoncisi, io posso accettare e quindi mio figlio subirà tutto questo perché diventa membro di quella famiglia (Adobange Benoît).
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Adobange Benoît, un Mubudu di Wamba, parla espressamente del «mettere insieme» frammenti ed elementi delle sequenze rituali e infatti, mettere insieme uomini attraverso l’alleanza con la circoncisione significa mescolare pratiche e significati culturali. L’azione rituale viene sottoposta a una negoziazione che ovviamente non riguarda soltanto gli aspetti formali ma anche i significati e i contenuti che stanno alla base di tale pratica. La difficoltà e il fascino dell’incontro lo si è già verificato parlando delle danze e dell’ambigua oscillazione fra conservazione e assimilazione nei confronti dei propri e altrui ritmi: le due famiglie sentono l’esigenza di separarsi per danzare, ma inevitabilmente ci si guarda e ci si imita vicendevolmente. L’idea centrale del mettere insieme (riti, uomini, case, beni e prodotti) influenza anche il discorso sugli altri inerente alla pratica della circoncisione. Quando ponevo domande sull’esistenza della circoncisione nelle popolazioni confinanti, inevitabilmente gli informatori elencavano i gruppi con i quali si era soliti stringere alleanze con la circoncisione. Nelle risposte, le forme di umanità confinanti non erano divise fra circoncisi e non-circoncisi, ma fra coloro con cui si faceva la circoncisione e coloro con cui non si condividevano eventi rituali della circoncisione. Lo status ontologico della pratica rituale (l’esistenza della circoncisione) viene determinato su un piano relazionale in modo da identificare alcuni gruppi «con cui si fa» e non quelli «in cui si fa». Generalmente si tratta dei gruppi confinanti, che per i Medje-Mangbetu di Ndei e Mongomasi sono i Babudu, i Balika e i Pigmei. Nei territori occidentali dei domini si includono nell’elenco i Bali, i Makere, i Malele, mentre in quelli orientali (verso Isiro) i Mayogo. Significativa è l’assenza di riferimenti ai gruppi zande e abarambo, benché i loro insediamenti si snodino lungo il confine settentrionale dell’area medje-mangbetu. Sebbene ogni evento rituale contribuisca alla continua negoziazione di un rito estremamente malleabile, occorre rilevare che una sorta di canovaccio rituale viene ormai condiviso nei vari gruppi. Mantenendo come punto di riferimento il noutu fra i Medje-Mangbetu del sud (così come è stato ricostruito nei paragrafi precedenti) occorre mettere in evidenza quali siano gli elementi, i significati e le sequenze comuni a ogni gruppo e quali siano le differenze non soltanto in rapporto al presente ma anche in 75
relazione al passato. Il confronto regionale fra le etnografie inerenti alla circoncisione e i racconti sui mutamenti storici che la pratica rituale ha subìto possono aiutare a rintracciare i motivi per cui si è affermato un determinato stile della circoncisione basato sull’alleanza. L’impiego di una prospettiva storico-comparativa applicata allo studio dei riti di circoncisione si oppone alla concezione classica del rituale inteso – e quindi studiato – come una pratica concettualmente definita e formalmente invariabile di una determinata cultura9. Rare eccezioni – almeno in ambito africanista – alla prospettiva classica sono gli studi comparativi di Win Van Binsbergen (1993) sulla storia dei riti di circoncisione (denominati mukanda) fra diversi gruppi etnici dello Zambia occidentale e il lavoro di Maurice Bloch (1986) sul ruolo degli eventi storici nella pratica della circoncisione fra i Merina del Madagascar. Van Binsbergen giustifica il carattere frammentario e difettoso della sua analisi con il fatto che le fonti consultate non trattano i riti di circoncisione come oggetti storici aventi una propria evoluzione delle forme e dei significati, ma appunto come espressioni immutabili e invariabili di una determinata cultura (1993: 97). Una comparazione regionale attenta ai mutamenti storici rappresenta un metodo estremamente proficuo al fine di rintracciare – per quel che riguarda un’azione rituale – ciò che scompare, ciò che rimane, ciò che si trasforma e ciò che ci si scambia con gli altri. D’altro canto sono le stesse peculiarità del noutu a imporre l’analisi comparativa, in quanto la costruzione di un’alleanza al di là della parentela e del gruppo etnico coinvolge i gruppi vicini, il loro modo di pensare e di agire. L’attenzione posta sull’alleanza e l’assenza di un percorso iniziatico interno al gruppo porta inevitabilmente a prediligere uno sguardo verso l’esterno, piuttosto che un ripiegarsi sui valori interni ed esclusivi10; ciò vale sia per gli attori sociali coinvolti nella cerimonia della circoncisione sia per coloro che vogliono compiere un’analisi antropologica del rito. Fu così che decisi di non limitare le mie peregrinazioni ai soli villaggi dei Medje-Mangbetu, ma di percorrere alcuni tratti della foresta che si distendeva verso sud, quella foresta occupata da Balika, Babudu e Pigmei, quella foresta che oramai immaginavo intrecciata da alleanze di sangue. 76
Capitolo quarto
Somiglianze di famiglia
Al fine di distinguere fra loro tali stili occorre quindi guardare anche caratteristiche di ordine diverso, e soprattutto modi diversi di combinare gli elementi nella ricerca di un effetto nuovo o della soluzione di un problema nuovo. Meyer Shapiro Lo stile
1. Patti di sangue L’analisi comparativa concernente le forme e i significati delle pratiche rituali connesse alla circoncisione, prima di estendersi ai gruppi confinanti, porta a indagare sulle varie forme e significati del noutu medje-mangbetu. Come si è già accennato precedentemente, fra i Medje-Mangbetu esistono due tipi di noutu: l’alleanza attraverso la circoncisione (noutu eipopoi) e il patto di sangue fra due adulti maschi (noutu tekpo). In entrambi i casi si costruisce un’alleanza attraverso lo scambio e la mescolanza del sangue. Fra le due istituzioni la più interessante per ciò che riguarda gli aspetti e le implicazioni sociali, la ricchezza rituale e la diffusione fra i locali è senza dubbio l’alleanza attraverso la circoncisione. Tuttavia, prendendo in esame la letteratura concernente i Medje-Mangbetu pare curioso il fatto che sia il patto di sangue a essere la forma di alleanza maggiormente trattata1. In particolare, nei resoconti dei primi viaggiatori appare più volte la descrizione dello scambio rituale del sangue e non è raro che il racconto si riferisca a un accordo di non belligeranza che lo stesso viaggiatore 77
ha dovuto sancire mescolando il proprio sangue con quello di un importante capo indigeno2. La rotta, ampiamente utilizzata nella seconda metà del secolo scorso, che da Khartum conduce nei territori zande e mangbetu, era percorsa da commercianti musulmani (Keim 1983), avventurieri e militari assoldati nelle file anglo-egiziane. Schweinfurth accenna al patto di sangue che univa il commerciante nubiano Abd-es-Samate con il re mangbetu Munza; Romolo Gessi accetta di scambiare il proprio sangue con un capo lur; Gaetano Casati stringe nello stesso modo alleanza con un capo zande (Pirovano 1988: 65-66); Emin Pasha conclude un patto di sangue con il re dei Baganda (Tegnaeus 1954: 119); lo stesso Stanley sembra essere diventato fratello di sangue del principe nkore Buchunku (Doornbos 1966) e di altre decine di autorità dei territori che ha attraversato. Non solo gli europei scambiarono il loro sangue con quello degli indigeni, ma anche viaggiatori e commercianti musulmani; al riguardo Dennis Cordell (1979) attribuisce all’istituzione del patto di sangue un’importanza notevole per l’espansione politica ed economica delle popolazioni musulmane verso le regioni equatoriali dell’Africa. Il patto di sangue rappresentava un’eccellente arma politica, un lasciapassare che garantiva maggiore sicurezza rispetto a una dichiarazione fatta con le parole. L’utilità politica del noutu tekpo è ancora presente nella memoria dei locali, quando rammentano importanti alleanze sancite in tale modo fra capi mangbetu e zande. I casi di noutu tekpo fra gente comune che mi sono stati riportati non sembrano basarsi su particolari motivi o strategie. Lo scambio di sangue sembra essere dettato dal desiderio di istituzionalizzare un rapporto o un’amicizia che altrimenti rischierebbe di indebolirsi. La scelta di realizzare uno scambio di sangue è per lo più una decisione personale in cui la famiglia non viene necessariamente coinvolta; lo stesso rapporto di alleanza verrà vissuto dai due contraenti come una questione privata diversamente dall’apertura e dal coinvolgimento connessi al noutu eipopoi. Anche l’azione rituale attraverso cui si effettua lo scambio non ha la rilevanza sociale della circoncisione: i due contraenti si siedono l’uno di fronte all’altro e si fanno vicendevolmente un taglio sull’avambraccio; con l’ausilio di due pezzi di canna da zucchero entrambi raccolgono alcune gocce del proprio sangue e dopo 78
averli scambiati li succhiano ingerendo il sangue dell’altro. Successivamente ognuno pronuncia un breve discorso: A partire da oggi se conoscerai [sessualmente] mia moglie che tu possa morire, se vorrò prendere moglie nella tua famiglia e ti rifiuti che tu possa morire, se qualcuno parla male di me e non me lo dici che tu possa morire, se qualcuno vuole avvelenarmi e tu non fai niente per fermarlo che tu possa morire. Se invece non rifiuti di darmi moglie, se mi avverti in caso di pericoli che la tua nébha sia fortunata e protetta (Abodiambo Baserene).
Rispetto all’area considerata in questo lavoro, e cioè la regione inclusa fra il Bomokandi e il Nepoko e in particolare i territori medje-mangbetu, l’istituzione del patto di sangue rimanda soprattutto a gruppi insediati a nord-ovest e a nord-est. Il sangue viene ritualmente scambiato nei territori zande (Evans-Pritchard 1933), nell’Ubangi-Shari e nella savana a nord della foresta equatoriale (Cordell 1979), nel Bahr el Ghazal (De Giorgi 1956) e nelle alte terre dell’Africa interlacustre (Beattie 1958, Bamukoba 1964, Roscoe 1911). Ciò non vuol dire che la pratica sia esclusiva delle popolazioni insediate a nord e a est del bacino del Congo; infatti, come si evince dall’ambizioso lavoro dell’antropologo svedese Tegnaeus (1954), il patto di sangue è diffuso in gran parte dell’Africa sub-sahariana. Tuttavia, procedendo da nord a sud, la rilevanza culturale e sociale dell’istituzione in esame pare diminuire nella foresta equatoriale per poi aumentare di nuovo ai confini meridionali della stessa. Ne sono una testimonianza i lavori di De Sousberghe (1954, 1957, 1960) sui Pende, Lunda, Tshokwe, Suku ecc. Al di là delle variazioni e delle particolarità è possibile generalizzare affermando che il patto di sangue è un’alleanza fra due individui o gruppi non legati genealogicamente per sancire una cooperazione (economica, sociale, militare) ed evitare o risolvere i conflitti attraverso la creazione di una parentela fittizia. Questa pratica risulta provvidenziale soprattutto in società con una debole centralizzazione politica e una forte segmentazione (Tibenderana 1980), con un’elevata dispersione territoriale di aggregati domestici isolati e con esigenze di approvvigionamento che obbligano a estendere la rete di scambi ai gruppi vicini. Emblemati79
co è il caso degli Zande i quali, organizzati in aggregati domestici dispersi su una vasta area di savana a nord dei Mangbetu, si legavano a questi ultimi con lo scambio del sangue per poter accedere alla pianta denominata benge, abbondante nei domini dei nemici Mangbetu e utilizzata per le divinazioni (Evans-Pritchard 1933: 372). La riflessione antropologica ha elaborato differenti interpretazioni sul patto di sangue. Molti studiosi, fra cui William Robertson Smith e Georges Davy, hanno considerato tale pratica semplicemente come un meccanismo per la creazione di nuovi legami di fratellanza reale o fittizia. Per Evans-Pritchard (1933), come per Maurice Hocart (1935), tale istituzione è un contratto sottoscritto con la forza di una sostanza «magica» (il sangue) capace di danneggiare e uccidere in caso di violazioni del patto, mentre da un punto di vista sociale si creerebbe non tanto fratellanza fittizia quanto parentela scherzosa (joking relationship) in cui si sottolineano l’uguaglianza e la propensione all’insulto scherzoso fra i contraenti3. Alcuni antropologi hanno preferito concentrarsi sulla comparazione formale dei rituali in diversi contesti etnografici limitandosi, come nel caso di Tegnaeus, a resoconti descrittivi. Altri hanno invece cercato di fare emergere i significati connessi alla parte del corpo (braccio, pube, testa, mano) da incidere per far fuoriuscire il sangue (White 1994). Infine, esistono studi che mettono in evidenza i risvolti sociali della pratica sia in uno stile puramente funzionalista (Beattie 1958, Mokaka Mwa Bomunga 1979) sia dimostrando un’attenzione particolare a come il rituale si connette all’organizzazione sociale e alla storia locale (Tibenderana 1980, Cordell 1979). Lo studio di Dennis Cordell sul rapporto fra il patto di sangue e l’espansione del potere islamico nel Dar al-Kuti fornisce uno spunto interessante e funzionale al discorso che si sta cercando di sviluppare. Cordell sottolinea lo stretto rapporto fra l’esistenza della pratica dello scambio di sangue fra i Banda dell’UbangiChari e la loro organizzazione socio-politica. Fra gruppi come i Banda, organizzati in insediamenti dispersi e privi di strutture di coesione centralizzate, è facile che istituzioni come il patto di sangue diventino molto importanti per organizzare reti commerciali e alleanze politiche (Cordell 1979: 384). Anche in presenza di 80
strutture centralizzate come nell’antico regno del Bunyoro l’istituzione del patto di sangue crea relazioni fra aggregati domestici territorialmente dispersi e appartenenti a clan differenti (Beattie 1958). L’ipotesi che si vuole avanzare riguarda lo stretto rapporto fra l’esistenza di insediamenti dispersi e strutturati in singoli «case» e la rilevanza sociale dello scambio di sangue. Di contro, dove la popolazione è organizzata in villaggi non riconducibili a un’unica «casa» (da intendersi – si ricorderà – come un ampio aggregato domestico), l’importanza del patto di sangue diminuirebbe a vantaggio di istituzioni finalizzate al mantenimento e al rafforzamento dell’identità e della coesione di gruppo, come per esempio i riti di iniziazione. Ora se si confronta la letteratura etnologica sulla diffusione dei patti di sangue in una vasta area intorno ai domini medje-mangbetu con l’ipotesi concernente la creazione di una nuova tradizione fra il Bomokandi e il Nepoko (cap. II, § 3), risulta fondata la sensazione che il patto di sangue venga valorizzato in relazione a una particolare struttura insediativa. Infatti, la letteratura etnologica sui patti di sangue fa volgere lo sguardo ai territori settentrionali e orientali rispetto ai domini medje-mangbetu e – in relazione alla nuova tradizione definita sinteticamente da Vansina «one village, one house» – l’immagine della «casa» è riconducibile ai gruppi giunti nella regione dalla stessa direzione. Nel mosaico culturale medje-mangbetu si incontrano elementi provenienti dalla foresta ed elementi tipici delle savane sudanesi: la struttura insediativa a singola «casa» e l’istituzione del patto di sangue rimandano alle popolazioni del nord, mentre la struttura a villaggio e – come si mostrerà successivamente – i riti di iniziazione rimandano alle culture della foresta. Quello che Vansina denomina «nuova tradizione» non deve essere ridotto all’incontro fra la struttura a singola «casa» e il villaggio, ma coinvolge differenti aspetti della cultura. Inoltre, benché Vansina si riferisca a una particolare fase dell’evoluzione storica, sarei più propenso a intendere la «nuova tradizione» come qualcosa di mai concluso. Le popolazioni insediate fra il Bomokandi e il Nepoko continuano a essere in bilico fra differenti universi culturali e linguistici, e questa situazione comporta una forte propensione a ripensare e riformulare elementi e tratti cul81
turali. L’incontro e la fusione del villaggio di foresta e della «casa» di savana è un esempio di come solide strutture pensate e agite dagli attori sociali possano essere coinvolte in determinati momenti storici nel vorticoso flusso del mutamento. Qualcosa di analogo ha probabilmente coinvolto l’agire rituale connesso allo scambio del sangue e alla iniziazione-circoncisione, due diversi eventi rituali che in una determinata regione e in una specifica fase storica si sono incontrati subendo una riformulazione il cui risultato è particolarmente evidente in ciò che i Medje-Mangbetu chiamano noutu. Oggigiorno per i Medje-Mangbetu noutu è soprattutto noutu eipopoi: in altre parole, lo scambio di sangue è soprattutto la circoncisione. Tuttavia quest’ultima pratica non rimanda a un percorso iniziatico ma a una alleanza che, a sua volta, ricorda il patto di sangue. Come si vedrà in seguito, l’agire rituale orbitante intorno al concetto di noutu si è imposto nell’area occupata dai Balika, dai Babudu e ovviamente dai Medje-Mangbetu, sostituendo precedenti percorsi iniziatici. Dopo aver descritto il noutu e verificato la stretta connessione con l’istituzione del patto di sangue, la cui importanza sociale sembra maggiore nei territori verso nord e verso est, occorre volgere lo sguardo a sud verso la foresta per verificare la plausibilità dell’ipotesi secondo cui alcuni gruppi bantu (in particolare i Balika e i Babudu) avrebbero optato nel tempo per lo stile di circoncisione sorretta dall’idea di alleanza piuttosto che dall’idea di iniziazione4. 2. I Balika e l’«imuuso» I Balika sono gruppi di lingua bantu-buan migrati dalle regioni del basso Uele verso est. La tradizione orale (Bouccin 1935) e la comparazione linguistica documentano una forte vicinanza dei Balika ai Baboa (attualmente insediati a sud di Buta nel basso Uele) e ai Babali con i quali probabilmente migrarono prima verso est e successivamente verso sud. Attualmente i Bali occupano i territori intorno a Bafwasende e confinano a nord con gli insediamenti lika più consistenti e a sud con i Bakomo e i Lombi. Durante lo spostamento verso sud, i Lika si frammentarono in tre 82
gruppi: il primo rimase nei territori medje-mangbetu (ancora oggi esistono villaggi lika ai confini meridionali della collectivité Mongomasi dove ho potuto soggiornare e raccogliere la maggior parte delle informazioni qui riportate, non essendo stato scritto quasi nulla in proposito); il secondo gruppo risiede nei domini budu e confina con i territori di Medje; il terzo, il più numeroso, occupa i territori intorno a Bafwabaka. In riferimento all’ipotesi avanzata precedentemente, occorre sottolineare che gli informatori lika concordano nel ritenere il patto di sangue estraneo alla loro cultura. Philippe Odio, un Mulika appartenente al clan dei Bavasamba, afferma: «lo scambio di sangue sul braccio non l’ho mai visto fare né sentito dire che si fa fra noi. Ma so che da altre parti si fa». L’estraneità del patto di sangue si evince anche da come i Balika introducono il tema della circoncisione: infatti, pur considerando l’alleanza tra famiglie diverse lo scopo centrale dell’imuuso o simuuso (circoncisione in kilika), non affiancano a tale pratica rituale nessun’altra forma di alleanza (come il noutu tekpo per i Medje-Mangbetu). Il patto di sangue con il braccio non è tipico dei Balika. La vera circoncisione è sul pene, l’altro non è veramente liganza [altro nome con cui i Lika denominano la circoncisione]. Per il semplice mescolamento del sangue non si fanno danze e non c’è il problema del tonyo [il pasto finale della circoncisione denominato netonyo dai Medje-Mangbetu] (Madjombe Aluamba).
Lo svolgimento dell’imuuso (si tratta in realtà dell’operazione, mentre l’alleanza che segue si chiama liganza) è molto simile al noutu, così come è stato descritto nel capitolo precedente. Il carattere binario del rituale (due bambini, due famiglie) viene fortemente sottolineato, come d’altronde l’estraneità genealogica dei due gruppi di partecipanti, i quali dopo la circoncisione diventano «veramente come la gente che abita nello stesso villaggio e non si possono più sposare». L’operazione viene eseguita dal samba e per tutto il periodo di guarigione i circoncisi devono restare in un edificio preparato nel villaggio dell’organizzatore e osservare precisi divieti alimentari. Una volta guariti, vengono portati al fiume per il lavaggio e per prepararli alla festa finale, durante la quale 83
dovranno consumare un ricco pasto chiamato tonyo non senza aver prima lanciato la freccia verso kusili (ponente in kilika). I villaggi lika in cui ho svolto le interviste si trovano fra i domini medje e quelli budu. Tale posizione, oltre ad aver creato forti mescolanze linguistiche e culturali, ha storicamente determinato una notevole pressione sui Balika trattati – soprattutto dai capi mangbetu – come schiavi. La debolezza politica e militare dei Balika traspare anche dai motivi che adducono per esprimere l’importanza del liganza, considerato molto utile per evitare conflitti, concludere guerre e mantenere buoni rapporti con tutti i vicini. Negli stessi dialoghi che ho avuto con loro ho percepito come il denso reticolo di liganza che ogni individuo ostenta (a parole) venga vissuto come uno scudo protettivo o meglio come un bozzolo dalle mille possibilità. Si può fare simuuso da soli, ma i nostri antenati hanno insistito affinché si facesse il liganza. Io Mulika posso fare il liganza con i Toriko, i Bangbetu, i Bayogo, i Babudu, anche con i Bazande, ma non conosco casi di liganza a Bazande. Il mio fratello maggiore ha fatto il liganza al di là di Makpulu con i Bangbetu, laggiù. Si è scelto di fare questo liganza perché laggiù hanno piume di pappagallo, qui è difficile trovarle. Laggiù non possedevano le reti per la caccia così noi abbiamo chiesto piume di uccelli e loro le reti. L’economia è ciò che conta ma anche l’amicizia. Qui è difficile che si scelga una famiglia povera per fare liganza, se si va da loro cosa si mangia? Il mio muganza è dei Badjo [gruppo medje molto potente insediato a ovest di Isiro]. Mio figlio non è ancora circonciso ma io ho proposto di fare liganza a Babudu. Mando già persone a indagare e dall’altra parte vengono qui a vedere. Un mio fratello minore ha fatto l’imuuso con i Pigmei. È sempre questione di intendersi e di ottenere qualcosa. Uno ha tantissimi liganza ma ognuno si dedica al suo. Per esempio, quello con Makpulu è un po’ debole, a me neanche mi conoscono, bisognerebbe rinnovarlo con altri bambini anche se il liganza è eterno quindi è la stessa cosa (Gaga Gabriel).
Non c’è dubbio che la circoncisione lika si connette a quella dei Medje-Mangbetu oltre che per gli aspetti formali anche per l’ideologia dell’alleanza. Tuttavia nelle prime parole di Gaga traspare un elemento nuovo e probabilmente non insignificante: la divisione terminologica fra la circoncisione (imuuso o simuuso) e 84
l’alleanza (liganza). Questa suddivisione (assente nel noutu) è stata sottolineata da altri Balika soprattutto per evidenziare il fatto che l’operazione ha un ruolo indipendente dall’alleanza: «la forza la si ottiene dalla circoncisione, non importa che si faccia soli o insieme ad altri». Nei discorsi l’imuuso viene isolato dalle conseguenze sociali per soffermarsi sull’importanza del dolore al fine di dimostrare di essere diventati uomini. Tutto ciò è raccontato in termini di passaggio epocale nella vita di un individuo: Si fa imuuso perché si è capito che bisogna fare un periodo della vita, un momento della vita in cui si esce dall’infanzia per diventare adulti, è un passaggio. Allora come se fosse un grande avvenimento della vita di qualcuno occorre che quella tappa venga riconosciuta da tutti e soprattutto per il fatto di essere in due allora ci si imprime nello spirito che in quel momento si è passati da essere bambini a essere uomini. Al di là della circoncisione si crea una relazione speciale fra le famiglie, si diventa più che parenti, allora i due [circoncisi] si chiamano muganja (Philippe Odio).
I due livelli vengono tenuti separati; la centralità dell’operazione è tale che il fatto di essere in due viene ricondotto al grande valore dell’evento trasformativo che dovrà essere ricordato vicendevolmente. Il ricordo del passaggio sembra imporsi sulla pratica dell’alleanza e il racconto del rituale si sofferma sugli aspetti iniziatici legati all’esperienza fisica e psichica del singolo circonciso: Dopo averci circoncisi si viveva là in quella casa e non si usciva quasi mai salvo, ricordo, nei giorni di pioggia per avere l’iniziazione alla vita, si verifica la capacità di resistere, di non avere paura di soffrire. Allora sotto la pioggia bisognava uscire vestiti di sole foglie di banano e con un frustino e iniziare a correre sotto la pioggia finché non si incontrava qualcuno da frustare. La gente non reagiva perché sapeva che si trattava dei circoncisi. Questo si faceva per apprendere in qualche modo la guerra, per non avere paura, allora si cercava di resistere (Philippe Odio).
L’intento non è quello di ricostruire l’eventuale evoluzione dell’imuuso lika (non avrei dati sufficienti e le interviste raccolte non sono paragonabili a quelle con informatori medje-mangbetu), ma piuttosto di sottolineare alcune particolarità emerse nei di85
scorsi con i Balika e assenti nei dialoghi sul noutu. La prova di resistenza, la dimostrazione del coraggio, il saper sopportare le sofferenze, l’educazione alla guerra, cioè a un’attività tipica dei maschi adulti, caratterizzano il periodo trasformativo del circonciso, il quale vive questa fase di passaggio come un compito individuale che nessuna rete di alleanze o fratello di circoncisione può risolvere o compiere al suo posto. Philippe Odio ricorda in questi termini la sua circoncisione e così facendo racconta lo sforzo di un bambino nel dimostrare di essere diventato adulto, riportando un frammento sbiadito della costruzione di un uomo. Parlando invece con persone più giovani come Gaga Gabriel, l’attenzione si sposta dalla costruzione di sé, in quanto uomo adulto, alla costruzione di un reticolo di alleanze orbitante intorno a ego; l’idea dell’alleanza si impone su quella dell’iniziazione alla vita adulta. A ben vedere, il passaggio da un’ideologia all’altra non è solo una sfumatura fatta emergere da ciò che mi è stato raccontato, ma viene più volte esplicitato attraverso il ricordo di un precedente stile di circoncisione caratterizzato da un impegnativo periodo di iniziazione in foresta che coinvolgeva bambini appartenenti a uno stesso gruppo. Oggi la circoncisione è sempre questione di due bava [lignaggi, gruppi di discendenza] diversi. Nel modo tradizionale, una volta, la circoncisione era un problema di un mava e si faceva in foresta, dopo si è evoluta verso gli altri, anche quelli non lika (Asobee Bigiabase Thomas). Il liganza fatto in una sola famiglia non esiste più, oggigiorno esiste solo il liganza fra tribù diverse e fra famiglie diverse. Una volta era differente, si faceva di solito in una sola famiglia, oggi sono più i casi in cui si cerca fuori (Madjombe Aluamba).
Mentre i Medje-Mangbetu affiancano due modalità per fare noutu (sul braccio e sul pene) senza mai accennare a precedenti stili rituali, i Balika ricostruiscono una certa evoluzione nella pratica della circoncisione. Tale evoluzione è inequivocabilmente un passaggio dalla centralità dell’iniziazione alla centralità dell’alleanza. Questo va a sostegno dell’ipotesi secondo la quale l’incontro sul piano rituale dei Balika e dei Medje-Mangbetu ha rap86
presentato una rielaborazione che ha coinvolto la pratica della circoncisione. L’incontro ha sicuramente mutato l’imuuso lika, mentre pare più difficile da dimostrare che il noutu abbia subìto una riformulazione, anche se non sarebbe assurdo pensare che la circoncisione – tipica dei gruppi di foresta – sia stata incorporata come variante dello scambio di sangue sul braccio. Per il momento è bene continuare il viaggio fra i gruppi che oggi condividono lo stesso stile di circoncisione. 3. I Babudu e l’«égonye» I Babudu occupano i territori che si estendono su entrambi i lati del medio Nepoko, appartengono al gruppo linguistico budunyali e sono originari dell’est (Moeller 1936: 34-35, Van Geluwe 1960: 13-15). Essi stessi narrano di essere migrati dai territori dei Banyali – che si trovano nell’Ituri a nord-ovest di Mambasa – verso il Uele; soltanto in un secondo tempo, a causa della pressione dei gruppi sudanesi e ubangiani, si spostarono verso sud attraversando le acque del Nepoko. La dinamica della migrazione budu, pur sviluppandosi dalla parte opposta, non è dissimile dal movimento migratorio dei Balika; entrambi i gruppi raggiunsero le alte terre del Bomokandi e del Uele per poi ripiegare verso sud (verso la foresta) spinti dalle pressioni dei gruppi sudanesi e ubangiani. Attualmente i Babudu occupano un’intera unità amministrativa (zone) che si estende a sud di Isiro e di Neisu. La zona – il cui centro è l’ampio villaggio di Wamba – è divisa in varie collectivités corrispondenti grosso modo ai più importanti gruppi di discendenza budu. Per ciò che concerne la pratica della circoncisione (égonye o égone in kibudu), i Babudu con cui ho avuto la possibilità di conversare (principalmente durante i soggiorni a Wamba, Pawa e Isiro) tendono a differenziare le famiglie che occupano i territori della riva destra del Nepoko da quelle insediate sulla riva sinistra. La gente che abita da questa parte [riva sinistra], soprattutto i Bafwakoye, non sono abituati all’égonye. Anche una volta era così, avevano paura perché ci sono delle condizioni dure da rispettare. Per esempio se io prendo la bicicletta del mio fratello di circoncisione lui non può dire nulla. Dall’altra parte [riva destra] ci sono più Balika. So-
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no i Balika che amano molto la circoncisione, sono abituati e fieri di ciò (Ngamaneni-Kakea Gabriel).
In effetti, sulla riva destra del Nepoko i territori budu confinano principalmente con i possedimenti lika e in parte minore con quelli medje-mangbetu; il fatto che tale vicinanza venga messa in relazione alla diffusione della circoncisione è una conferma dell’importanza delle relazioni interetniche nell’affermarsi di un particolare stile rituale della circoncisione. Anche i Babudu infatti adottano oggi le sequenze e i significati rintracciati nella pratica del noutu medje-mangbetu e dell’imuuso balika: organizzazione famigliare, debole reclusione, lavaggio al fiume, consumazione del tonye (il netonyo del noutu), carattere binario, ideologia dell’alleanza e legame fraterno fra i bamoia (gli amekenge del noutu). È interessante che, analogamente ai Balika, i Babudu intervistati affiancano alla circoncisione non tanto un’altra forma di alleanza con il sangue (analoga al noutu tekpo medje-mangbetu), quanto uno stile precedente incentrato sull’iniziazione. Anche in questo caso si percepisce un’evoluzione dell’azione rituale e, ciò che più conta, un mutamento nelle motivazioni e nei significati. Ngamaneni-Kakea Gabriel e Nambeu Mombi Prosper, due giovani insegnanti babudu residenti a Wamba, mi raccontarono con dovizia di particolari l’égonye fra due dei loro figli, circoncisi insieme il 19 novembre del 1995. All’inizio del dialogo tennero a distinguere due tipi di égonye: Possiamo distinguere due tipi di circoncisione. La circoncisione come quella che abbiamo fatto con i nostri figli è già cambiata in rapporto a quella che si faceva tradizionalmente. Una volta c’era una specie di iniziazione, bisognava prendere i bambini e allontanarli dal villaggio, metterli da qualche parte dove venivano iniziati in differenti tappe. Dopo bisognava organizzare un’altra cerimonia per farli tornare al villaggio quando erano già ben preparati.
Secondo la ricostruzione proposta dal religioso mubudu Anzambise Madu Camille (1992), nell’égonye tradizionale viene posto l’accento sul valore iniziatico del rito di circoncisione, inteso come un processo di umanizzazione dell’individuo (1992: 15-16). Nel processo iniziatico «l’intero clan si mobilita per un’unica cau88
sa»: i candidati (baganja) vengono isolati in foresta, e dopo l’operazione devono trascorrere un periodo di reclusione, durante il quale vengono sottoposti a dure prove e a fondamentali insegnamenti. Soltanto alla fine di un impegnativo percorso formativo, i circoncisi possono tornare al villaggio dove consumeranno insieme un ricco pasto (denominato butunye) e ognuno sceglierà un proprio fratello di circoncisione (muganja) fra i suoi compagni di égonye. Anzambise Madu presenta una sequenza rituale in cui convivono i valori connessi all’iniziazione con quelli connessi all’alleanza, quest’ultima riguarda la coesione interna alle famiglie budu e scaturisce da una comune iniziazione ai valori della società budu. Da un punto di vista storico è impossibile determinare quali elementi dell’égonye siano di provenienza straniera, tuttavia alcune considerazioni possono essere fatte: 1) La prima parte del rituale, quella incentrata sull’iniziazione, sulla reclusione in foresta, sulle prove e sull’educazione è completamente estranea al noutu, mentre ricorda l’iniziazione al mambela dei Babali (Bouccin 1935, Moeller 1936), con i quali i Babudu confinano a sud, e al rito di circoncisione dei Bakomo (denominato ganja), anch’essi insediati nella foresta a sud dei territori budu (De Mahieu 1985). Inoltre alcuni informatori budu sostengono che l’égonye sia in effetti di derivazione bali o comunque sia stato influenzato dai Babali. 2) I termini che emergono nella seconda fase, quella dell’alleanza, non sono propriamente budu: butunye deriva dal termine mangbetu netonyo (mangiare in mangbetu è -onyo) e alcuni informatori sostengono che siano stati proprio i gruppi mangbetu a portare la circoncisione fra di loro. Il termine muganja (plur. baganja) è diffuso in una vasta area del bacino del Congo ed è presente soprattutto in diversi gruppi ubangiani e buan (come gli Ngbaka, i Bali, i Bakomo, i Bapere ecc.); tale termine è utilizzato fra i Budu come sinonimo del termine kibudu mumoia (plurale bamoia). Ancora una volta le dinamiche dei contatti non permettono di interpretare le forme rituali in termini di isolamento ed esclusività. La ricostruzione di Anzambise Madu Camille è incentrata su un valore iniziatico assente nei racconti budu che ho ascoltato sul terreno, mentre l’ideologia dell’alleanza che emerge nell’ultima fase 89
dell’égonye pare per un verso molto simile a come oggi Budu, Lika, Medje-Mangbetu e altri gruppi vivono la circoncisione, sebbene rimanga ancorata alla coesione di un gruppo già costituito e non all’ampliamento della rete sociale. Questo legame fra iniziazione e alleanza può essere tanto il segno dell’influenza medje-mangbetu quanto una normale espressione della coesione di gruppo, anche se le testimonianze indigene sulla maggiore dimestichezza dei Babudu della riva destra nei confronti dell’alleanza tramite la circoncisione faccia propendere per un innesto della logica dell’alleanza nell’égonye attraverso i contatti con i Medje-Mangbetu. In ogni caso, quello che emerge dall’égonye budu così come dall’imuuso lika è il ricordo di uno stile ormai tramontato in cui l’iniziazione ai valori del gruppo era centrale per la crescita dell’individuo. Tale valore iniziatico rimanda maggiormente alle espressioni culturali dei gruppi di foresta organizzati in villaggi (il mambela dei Babali, il ganja dei Bakomo, dei Babira e dei Bapere), piuttosto che alle culture riconducibili ai gruppi di lingua sudanese. 4. Il «noutu» con i Pigmei Nella regione occupata dai Medje-Mangbetu del sud, dai Babudu e dai Balika esistono in foresta molti insediamenti di Pigmei Asoa, i quali interagiscono con i neri5 per motivi economici e sociali. L’idea dell’autarchia e dell’isolamento dei gruppi pigmei sembra essere stato soltanto un mito, alla cui costruzione hanno contribuito gli studi dei primi europei che si occuparono di loro; attualmente si è più propensi a considerare i gruppi di cacciatori e raccoglitori della foresta equatoriale africana come strettamente legati ai villaggi dei neri (Grinker 1994). Una delle questioni maggiormente dibattute dagli studiosi riguarda la natura di tale relazione: si tratta di uno sfruttamento dei Pigmei da parte dei neri o prevale la reciprocità negli scambi, nelle prestazioni e nel rispetto? Lo stesso interrogativo si presenta nel momento in cui si cerca di analizzare la diffusa partecipazione dei Pigmei ai rituali di iniziazione e di circoncisione dei neri. Degno di nota è lo scontro fra Colin Turnbull e Paul Schebesta (forse i più famosi studiosi delle bande pigmee) sul significato di tale partecipazione. Secondo l’antropologo britannico, i Pigmei Bambuti partecipano al nkum90
bi (la circoncisione dei Babira, dei Bandaka e dei Bangwana) non tanto per condividerne il valore iniziatico quanto per collocarsi in modo formale e ufficiale nell’universo dei loro villaggi, pur conservando una notevole indipendenza e un forte ancoraggio alla foresta (Turnbull 1957: 209-210; 1965: 63-64). Per Schebesta tale interpretazione attenua fin troppo l’evidente sfruttamento nei confronti dei Pigmei, in rapporto al quale la condivisione del nkumbi è soltanto un modo per i neri di rafforzare la loro superiorità e il loro dominio sui gruppi pigmei (Schebesta 1958). In ogni caso, permane una certa ambiguità nelle relazioni, evidente anche nel contesto del noutu dei Medje-Mangbetu in cui non di rado si «possiedono» amekenge pigmei. Quando mi recai nel villaggio di Mbongyi, nei pressi di Makpulu, un figlio di Emasiombe Anselme (il capo della località) era da molti giorni in foresta con il fratello maggiore a cercare lumache (àhì). Approfittando delle vacanze scolastiche si erano recati dai propri amekenge pigmei accampati a una ventina di chilometri in direzione zebu. Si sono scelti i Pigmei per il noutu non per caso. I Pigmei danno carne e se c’è un lutto nella mia famiglia andranno a caccia per portare carne nei giorni del lutto. È già quattro anni che mio figlio è stato circonciso con i Pigmei. In molti casi loro chiedono abiti, sale, sapone, sigarette, olio ma soprattutto abiti. Anche noi andiamo da loro soprattutto per le lumache perché sono pratici di foresta e non si perdono (Emasiombe Anselme).
Nel caso in cui si scelga un gruppo di Pigmei come partner del noutu, l’operazione e le sequenze rituali successive si svolgono sempre nel villaggio dei neri e mai in foresta. I Medje-Mangbetu sottolineano questo aspetto per evidenziare il grande sforzo economico nel caso di un noutu con i Pigmei: bisogna organizzare la festa, procurarsi cibo e bevande, pagare il circoncisore, comprare i vestiti nuovi sia per i propri figli sia per i bambini pigmei. Tutte le spese sarebbero a carico della famiglia medje-mangbetu, mentre gli Aka (è il nome con cui i locali denominano i Pigmei Asoa) si limiterebbero a procurare carne. Il noutu con i Pigmei viene presentato dai Medje-Mangbetu come costoso e rischioso, in quanto l’alleanza coinvolge un’intera banda i cui componenti, nel 91
nome della fratellanza, possono razziare i campi coltivati e fare incetta di prodotti agricoli. Questa visione sbilanciata del noutu ha una forte componente ideologica, in quanto, se è vero che lo sforzo iniziale (connesso allo svolgimento del rituale) è a carico dei neri, costoro si garantiscono però una fornitura frequente di selvaggina per moltissimo tempo, difficilmente bilanciata da prodotti agricoli o industriali (sigarette). Anche sul piano della fratellanza che dovrebbe caratterizzare i rapporti fra gli amekenge e fra le rispettive famiglie, esistono forti divergenze fra ciò che si afferma e ciò che si fa e si pensa. In tutte le interviste con Medje-Mangbetu che hanno amekenge pigmei, l’amore, la fratellanza e l’uguaglianza nei rapporti vengono puntualmente presentati come i motivi che stanno alla base del noutu; eppure il termine akasibandrane (il mio Pigmeo) ha un’accezione del tutto diversa dal termine nekweibandrane (il mio Medje; nekwe è il termine con cui gli Asoa chiamano i Medje). La reciprocità, quando esiste, si limita agli scambi economici senza influire sulle distinzioni sociali. I Pigmei sono proprietà dei Medje ma un Medje non può essere proprietà privata di un Pigmeo. I Pigmei dipendono molto dai Medje, mentre i Medje non dipendono dai Pigmei. Può succedere che un Medje prenda moglie fra i Pigmei ma non sarà nella famiglia dei propri amekenge, bisogna che ci sia un po’ di distanza per potersi sposare. Non è mai successo che un Pigmeo sposi una donna medje, non andrebbe mai a vivere là (Mopoto Mapabuadi).
Per ciò che concerne la dicotomia alleanza/iniziazione emersa nei paragrafi precedenti, ai Pigmei con cui ho avuto occasione di parlare sembra evidente che il noutu sia esclusivamente un meccanismo per creare alleanze privo di alcun significato iniziatico connesso alla crescita dell’individuo. Come sottolineò Colin Turnbull in relazione ai Bambuti, il rito di circoncisione è considerato dagli Asoa una pratica dei neri ai quali viene delegata l’intera gestione della cerimonia: la stessa circoncisione viene presentata come originaria dei neri. Per noi la circoncisione (kutuii) è importante perché crea fra noi e i neri un clima positivo. Sono i neri che hanno invitato i Pigmei a fare la circoncisione. La circoncisione si può fare anche fra Aka ma è me-
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glio farla in un altro gruppo per avere vantaggi, perché quando ci si unisce con altri ci si scambiano delle cose. Il meglio è farla con i neri perché loro si prendono i bambini [a carico] e gli danno degli abiti e altre cose, sarà un aiuto illimitato (Monsiame).
L’idea che i Pigmei hanno della circoncisione si accorda molto bene con il significato del noutu incentrato sull’alleanza e privo di risvolti iniziatici. Nel caso dei Bambuti studiati da Turnbull, la scelta di intendere la circoncisione come un meccanismo di alleanza sembra ancora più evidente, in quanto contrasta con l’idea dei neri (Babira, Bandaka ecc.) secondo i quali il nkumbi ha un alto valore iniziatico. I Bambuti fanno partecipare i propri bambini al nkumbi, ma denigrano gli aspetti rituali e altamente simbolici considerati di grande importanza per i neri, limitandosi a ufficializzare un’alleanza con gli abitanti dei villaggi. Turnbull sostiene che i Pigmei non considerano il valore iniziatico della circoncisione (nkumbi) perché possiedono un loro esclusivo processo iniziatico: un ragazzo mbuti, dal momento in cui uccide un animale considerato «vera» carne (cioè tanto grande da poter essere diviso fra i membri del gruppo di caccia), può essere chiamato cacciatore e può partecipare alle riunioni dell’assemblea di tutti i cacciatori del gruppo denominata lusumba. Questa «associazione religiosa di uomini» (Turnbull 1957: 206) non contempla nessun rituale di ammissione e nessuna cerimonia particolare incentrata su segreti o elementi esoterici: l’unica condizione per parteciparvi è aver cacciato «vera» carne, essere diventati cacciatori che, nella società bambuti, significa essere diventati veri uomini. All’interno dell’associazione non ci sono gerarchie e distinzioni di status e ruoli, ad eccezione di colui che deve suonare il corno del lusumba intorno al quale orbita l’intera assemblea. Per un ragazzo mbuti sottoporsi alla circoncisione in un villaggio di neri non determina nessun cambiamento del proprio status in relazione agli altri membri del suo gruppo e non è neppure una condizione per accedere al lusumba; l’unica conseguenza pare essere la formalizzazione di un legame con gli abitanti dei villaggi, un legame che sia per gli Asoa sia per i Bambuti sembra essere vissuto come un’alleanza non sempre caratterizzata da reciprocità. Come si può notare, oltre che i Balika e i Babudu, anche i Pig93
mei Asoa interpretano e vivono la pratica della circoncisione come un meccanismo per creare o rafforzare alleanze, mentre, per motivi diversi, il valore iniziatico della circoncisione sembra venir meno. 5. Ai confini dell’alleanza Nei domini meridionali dei Medje-Mangbetu il noutu sembra essere un importante meccanismo sociale e rituale per tessere reti di alleanze che si estendono al di là dei cosiddetti confini etnici; tale estensione coinvolge preferibilmente i Babudu, i Balika e i Pigmei Asoa, i cui territori si sviluppano in direzione sud, verso il bacino interno del Congo. Al di là delle differenze terminologiche e delle lievi particolarità formali, il canovaccio rituale descritto nel capitolo precedente viene condiviso nell’intera area e – ciò che più conta – i vari gruppi condividono oggigiorno i significati, le motivazioni e gli scopi che stanno alla base dell’alleanza tramite la circoncisione. Quando ci si trova sul terreno e l’oggetto di studio – inizialmente pensato come un rituale saldamente ancorato a un rassicurante presente etnografico, a un preciso territorio e all’universo culturale dei suoi abitanti – prende le sembianze di una rete sfilacciata difficile da delimitare, si cerca di seguire le diramazioni più densamente intrecciate del reticolo varcando inevitabilmente i confini linguistici e culturali. Per tale motivo, mi resi presto conto dell’importanza di estendere la ricerca almeno nei villaggi budu e lika, oltre ad avvicinare alcune bande di Pigmei. Il lavoro sul campo seguì la stessa direzione del reticolo, verso sud, verso la foresta, e di conseguenza i confini settentrionali (soprattutto quelli con i domini zande) non essendo oltrepassati dal noutu (dall’égonye e dall’imuuso) non vennero neppure varcati dal sottoscritto. Fra Medje e Zande non c’è ancora noutu. Qualcosa come il noutu c’è anche fra gli Zande ma i Medje e gli Zande non hanno confidenza per farlo insieme. Questo perché durante il periodo delle guerre gli Zande venivano per maltrattare i Medje e per mangiarli (Emalongo).
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Fra i gruppi medje-mangbetu e quelli zande non corre buon sangue; nella seconda metà del secolo scorso ci fu un aspro conflitto fra le due maggiori dinastie della regione (gli Zande-Avungara e i Mangbetu), terminato soltanto con l’arrivo dei bianchi. Questa inimicizia permane ancora oggi e ha le sembianze di una diffidenza reciproca. Con gli Zande una volta c’era sempre la guerra. Venivano qui per distruggere e uccidere, quindi ancora oggi c’è questo ricordo. Se si resta qui [sulla strada principale che da Neisu porta a Isiro] tutto il giorno è difficile vedere uno Zande passare, girare fra di noi. Gli Zande hanno paura dei Medje (Odianzuda Victor).
Pochi chilometri a nord rispetto alla strada che porta da Neisu a Isiro iniziano i territori zande. In realtà si tratta di domini abarambo, un gruppo che fu assimilato nel regno zande-avungara. Infatti, analogamente alla mangbetizzazione di molti gruppi, si è assistito nel secolo scorso a un processo di zandizzazione di altri gruppi a nord del Uele in seguito alla formazione di un’entità politica (orbitante intorno alla dinastia Avungara), la cui debole centralizzazione ricorda l’analoga esperienza del cosiddetto regno mangbetu. Benché gli informatori dell’area in questione facessero raramente riferimento ad alleanze con i gruppi confinanti a nord, non disdegnai di conversare con alcuni Azande e Mayogo e confrontare i loro racconti con la letteratura etnografica esistente. Nel 1921 Adolf De Calonne-Beaufaict scrive che la pratica della circoncisione sta lentamente espandendosi fra gli Zande pur non essendo molto diffusa (1921: 199). Il vescovo Lagae nel 1926 conferma l’introduzione recente della pratica ipotizzando un’origine mangbetu e abarambo della stessa: «la propaganda si svolge da sud verso nord appena da due generazioni» (1926: 180). Secondo Lagae, la diffusione della circoncisione nei territori zande è una conseguenza indiretta dell’arrivo degli europei, in quanto impedirono ai capi avungara – inizialmente contrari alla pratica – di punire coloro che si sottoponevano all’operazione. L’opposizione iniziale dei capi è probabilmente da ricondurre all’origine mangbetu della circoncisione: l’assimilazione di un segno di identità ap95
partenente alla cultura dei nemici non poteva essere valutata positivamente. Sempre secondo Lagae, l’origine straniera e la diffusione recente della pratica sono motivi sufficienti per considerare la circoncisione zande estranea ai valori del gruppo e priva di quel significato iniziatico tipico dei riti di passaggio all’età adulta. Tuttavia – a riprova della variabilità nel tempo dei contenuti e delle forme del rituale – «la circoncisione potrebbe benissimo, con il tempo, avere un significato che non aveva precedentemente» (Lagae 1926: 187). Forse non è il caso della circoncisione zande, ma in relazione all’égonye budu e all’imuuso lika, si è ipotizzato che una tale trasformazione nel significato del rito (dall’iniziazione all’alleanza) sia effettivamente avvenuta. Per ciò che concerne la descrizione della sequenza rituale occorre affidarsi ancora agli studi degli anni Venti. De CalonneBeaufaict in realtà riporta la cerimonia tipica degli Auro-Abarambo, in quanto è a partire da questo gruppo «zandizzato» che la circoncisione si sta in quel periodo diffondendo fra le «nazioni zande». Dal suo breve racconto si può dedurre che l’operazione presenta risvolti simili al patto di sangue, pur avendo conseguenze meno rigorose: Quelli che hanno vissuto insieme questa cerimonia si considerano come uniti da un legame speciale e si chiamano spesso fra loro fratelli [...]. Bisogna notare che fra gli Auro i non-circoncisi che si vogliono legare con un patto simile allo scambio di sangue (comunque meno rigoroso nelle conseguenze) si fanno circoncidere nello stesso momento (1921: 202-203).
La descrizione che riporta Lagae è leggermente diversa soprattutto nelle conseguenze. Più che all’idea della fratellanza si fa riferimento a una generica amicizia fra il circoncisore, i circoncisi e i loro «padrini» (a ogni bambino viene affiancato un adulto esterno alla parentela con il compito di seguirlo nelle fasi della reclusione e di scegliere per lui un nuovo nome). In entrambi i casi appare completamente assente il valore di apertura verso l’esterno e di creazione di nuovi rapporti, in quanto i bambini vengono scelti nel circondario (Lagae 1926: 181) e le famiglie nella maggior parte dei casi hanno già rapporti reciproci. Il minor valore rispet96
to al patto di sangue, la debolezza della fratellanza fra circoncisi e l’assenza del valore dell’apertura verso l’esterno mi sono state confermate sul campo: Da noi è meglio fare la circoncisione in famiglia senza andare fuori. Non c’è un termine zande per dire amekenge, noi utilizziamo il termine aganza fra due uomini che hanno fatto il patto di sangue. Questo patto è molto profondo, molto segreto, non si fa in pubblico. È questione dei due e non delle due famiglie. Il patto di sangue è più forte della circoncisione perché si mangia effettivamente il sangue e quindi è più profondo e ci saranno progetti fra i due, ma fra i bambini circoncisi insieme no, non c’è una vera fratellanza (Sendebuka Marie-José, zande-avungara).
Gli Azande e gli Abarambo appartengono allo stesso ceppo linguistico (ubangiano) dei Mayogo, un gruppo non molto numeroso insediato nel territorio della città di Isiro e nei suoi dintorni. Considerando che i domini mayogo confinano essenzialmente con potenti gruppi (Zande, Medje-Mangbetu e Babudu) e considerando che Isiro è una città multietnica con quartieri budu, zande, mangbetu, logo, mamvu ecc., ci si aspetta che meccanismi di alleanze come la circoncisione fra gruppi diversi sia tenuta in grande valore (come succede ai Balika circondati da MedjeMangbetu e da Babudu). Invece – come mi venne curiosamente confermato da un amico mulika, Bazanga Itongo – non sembra che oggi i Mayogo facciano particolare affidamento sulle alleanze tramite scambi di sangue. Un giorno Bazanga Itongo venne a Neisu a trovarmi; ricordo di avergli dato la mia pipa per ricambiare un suo precedente regalo, un coltello con il manico lavorato. Parlammo di doni e di scambi e ovviamente si parlò di fratellanze, amicizie e scambi di sangue: «io volevo circoncidere mio figlio con un muyogo – disse Bazanga Itongo – ma suo padre mi ha detto che loro [i Mayogo] non fanno il liganza». In realtà, i MedjeMangbetu includono i Mayogo fra coloro con cui si fa il noutu, benché nessun caso mi sia stato raccontato; neppure gli informatori mayogo hanno fatto riferimenti a casi specifici, a loro effettivi fratelli di circoncisione o a quelli dei loro famigliari o dei loro conoscenti: come per gli Azande sembrerebbe più una faccenda di circondario e quindi di una alleanza ribadita e non creata. 97
Tutt’al più è in relazione ai conflitti storici di un tempo che i Mayogo sottolineano l’importanza dell’alleanza con il sangue senza però distinguere la circoncisione dal semplice patto di sangue. 6. Altri gruppi mangbetu La scelta, maturata durante il lavoro sul campo, di ampliare l’analisi ai gruppi confinanti con i Medje-Mangbetu del sud al fine di comprendere meglio il significato e l’evoluzione di un determinato stile di circoncisione orbitante intorno al concetto di alleanza, mi ha portato a volgere lo sguardo soprattutto verso la grande foresta e verso i gruppi bantu e pigmei che la abitano e che condividono le sequenze e il significato del noutu. Tuttavia, in una prospettiva di comparazione regionale, oltre ad accertare differenze e somiglianze anche con gli stili di circoncisione zande e yogo, occorre soffermarsi su ciò che accade negli altri gruppi di lingua mangbetu insediati nell’area. Per ciò che concerne i Medje Mango, i Malele e i Makere (i cui territori si trovano a ovest rispetto ai domini Ndei e Mongomasi), le informazioni raccolte sul terreno non evidenziano alcuna differenza dal noutu medje-mangbetu descritto nel capitolo precedente. Trattandosi di gruppi non assoggettati dai capi mangbetu, ciò fa supporre che il noutu non sia un’istituzione connessa alla costituzione del regno mangbetu; anzi, l’uguaglianza e la reciprocità dell’alleanza poco si adattano a un progetto di conquista (condotto piuttosto attraverso alleanze matrimoniali) e alla gestione del potere sui sudditi. Riguardo ai Bapopoi (un gruppo di lingua mangbetu insediato su entrambe le rive dell’Aruwimi, nei pressi dell’attuale villaggio di Panga, e confinanti a nord con i Baboa) non essendomi spinto nei loro territori decisamente lontani dalla zona della ricerca, mi limito a riportare l’unica informazione rintracciata sulla circoncisione. Si tratta di poche righe frutto di una ricognizione etnografica compiuta da Delhaise-Arnould, amministratore territoriale in Congo durante i primi anni della colonia: Ancora molto piccoli, i bambini vengono circoncisi. Quando due individui fanno lo scambio di sangue, si approfitta per circoncidere i loro bambini. Sono gli anziani che si occupano di questa operazione.
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Si taglia con un rasoio; il pezzo tagliato viene gettato nel fiume. Si mettono sulla ferita delle erbe con del sale e ben presto il bambino partecipa ai giochi dei suoi compagni (Delhaise-Arnould 1912: 159).
Malgrado si tratti di una osservazione generica e superficiale, è possibile fare emergere alcuni elementi significativi che rimandano al noutu: 1) il legame fra il patto di sangue e la circoncisione; 2) la scarsa solennità del periodo successivo all’operazione in cui il bambino torna al più presto con i compagni di giochi; 3) la conseguente mancanza di una fase iniziatica per altro ribadita dallo stesso autore nelle pagine successive: «non c’è alcuna specie di iniziazione all’età della pubertà. I bambini vengono circoncisi molto piccoli e non si può considerare questa operazione come un punto di partenza di una nuova vita» (Delhaise-Arnould 1912: 162). Questi dati di inizio secolo su una popolazione di lingua mangbetu, la quale ha probabilmente percorso gli stessi tragitti di emigrazione dei Medje, suggeriscono ancora una volta l’estraneità ai gruppi di origine sudanese di processi iniziatici alla vita adulta e confermano la connessione fra la circoncisione e la pratica dello scambio di sangue. Ovviamente dalle poche righe sopra riportate non si possono trarre conclusioni riguardo a un’ipotetica alleanza al di là della parentela legata alla pratica della circoncisione, tanto meno ipotizzare l’evoluzione dell’azione rituale e dei significati connessi. Tuttavia è lecito pensare che l’incontro fra i Bapopoi e i gruppi della foresta abbia riguardato anche la pratica della circoncisione6. Un curioso indizio è lo stesso nome del gruppo etnico, che nella lingua mangbetu significherebbe più o meno «i prepuzi» (prepuzi = éípópo, ba è il prefisso plurale bantu, non di rado usato anche dai Medje-Mangbetu). Secondo Delhaise-Arnould, sono i vicini Baboa (riva destra dell’Aruwimi) che designano il prepuzio con il termine popoie (1912: 86). Alla luce di ciò e considerando che a molti gruppi è attribuito il nome con cui vengono chiamati dai vicini, un’ipotesi appare non del tutto assurda, pur non potendo essere avvalorata in alcun modo: i Bapopoi penetrano nella foresta equatoriale senza conoscere la circoncisione, entrano in contatto con gruppi bantu che praticavano diversamente da loro la circoncisione e vengono appunto chiamati «prepuzi», «coloro che hanno il prepuzio». Attraverso il contatto con i vicini, i cosiddetti Bapopoi 99
incorporano nella loro cultura l’operazione in questione interpretandola non tanto come un rito di iniziazione alla vita adulta quanto come una versione o un corollario di una pratica importante della propria cultura, il patto di sangue7. Questa ipotesi presenta un quadro non dissimile da quello delineato nei paragrafi precedenti concernente le negoziazioni rituali e l’affermarsi di un certo stile di circoncisione fra Medje-Mangbetu, Babudu, Balika, Asoa ecc. La sensazione che la circoncisione sia stata incorporata nei gruppi della famiglia linguistica sudanese-orientale (penetrati nel bacino del Congo) come variante del patto di sangue condivisibile con i vicini gruppi bantu si fa sempre più forte. Per rendere la comparazione regionale il più possibile completa e significativa, occorre ancora considerare la pratica della circoncisione fra i Medje-Mangbetu del nord (collectivité Azanga). Dalle interviste che ho condotto durante il soggiorno al villaggio di Nangazizi (del quale non mi resta un bel ricordo a causa di un attacco di malaria che mi costrinse a restare a letto per gran parte del tempo) sono emerse caratteristiche inaspettate e differenze notevoli nel significato e nell’azione rituale connessi al noutu8. Infatti il rito di circoncisione, così come mi è stato raccontato a Nangazizi non orbita intorno al concetto di alleanza e presenta aspetti del tutto particolari: 1) Manca completamente l’idea di creare un’alleanza mirata (alla cui base c’è una scelta di partnership precisa). Si tratta piuttosto dell’iniziativa di un singolo che indirettamente coinvolge i bambini del circondario e altri che possono giungere da lontano semplicemente perché informati dell’avvenimento e non per una strategia di alleanza attentamente programmata dalle famiglie. Di conseguenza, manca del tutto ciò che si è chiamato il «carattere binario» della circoncisione (due gruppi, due famiglie, pari numero di bambini da una parte e dall’altra). 2) Compare al fianco di ogni bambino che partecipa al noutu una specie di tutore, il cui ruolo è simile a quello del «padrino» nella circoncisione zande descritta da Lagae (cap. IV, § 5). Questi tutori, scelti sovente nella famiglia degli zii materni (edjadja), devono accudire il bambino durante l’operazione e nel periodo di guarigione. 3) L’organizzazione di un noutu non è motivata da amicizie, interessi economici, esigenze di scambi e di punti d’appoggio terri100
toriali, ma dal prestigio che ricade su colui che organizza il rituale (di solito una persona ricca e potente in grado di accollarsi tutte le spese). In tal modo, vengono meno altri due aspetti centrali del noutu dei Medje-Mangbetu del sud: l’uguaglianza e la reciprocità. 4) La parte conclusiva del rito, pur presentando notevoli analogie formali (lavaggio al fiume, fustigazione dei bambini lungo il sentiero del ritorno, lancio della freccia a ponente e consumazione del netonyo), orbita intorno a un elemento del tutto nuovo: l’abbinamento di ogni bambino a una bambina considerata simbolicamente la propria moglie. Questo accoppiamento viene deciso prima della circoncisione e la bambina viene effettivamente scelta in una famiglia in cui sarebbe lecito prendere moglie, quindi fuori dalla cerchia della parentela. Alla fine della circoncisione ai bambini gli si danno delle mogli ed è con loro che mangiano il netonyo. La sera dopo il lavaggio non si va a dormire nella propria casa ma ognuno va in una nébha appositamente scelta a zebu. È là che c’è l’incontro con la giovane ragazza, i due bambini non si siedono sopra le sedie ma su un pezzo di legno che verrà conservato per fare il fuoco del netonyo. Il bambino e la bambina mangiano qualcosa e ciò che avanza lo portano il mattino seguente al nesamba. Netonyo è una specie di bollito, si prendono le banane e si tagliano in due, poi l’organizzatore ne dà alla bambina ma all’ultimo momento lo dà al bambino e viceversa. Fra il bambino e la bambina non ci sono durante la notte rapporti sessuali ma dormono insieme. Dopo si potrà chiedere alla famiglia della bambina se in futuro si potrà concludere il matrimonio fra i due. Se accettano gli si dà la dote (Mayele Amansibandrodjo).
La sequenza è esattamente la stessa del noutu dei domini meridionali, ma ciò che si mette insieme non sono bambini di differenti gruppi, bensì un ragazzo e una ragazza dello stesso gruppo. La circoncisione non segna la nascita di una nuova relazione sociale, ma è simbolicamente connessa con la trasformazione del bambino in un adulto pronto a prendere moglie9. Quest’ultimo aspetto, congiuntamente al fatto che dopo il lancio della freccia venga dato al bambino un nuovo nome e all’importanza della danza denominata noutu – una danza che il candidato all’operazione deve saper eseguire molto bene per potersi sottoporre alla circoncisione (cap. III, § 3) –, fanno presupporre 101
una maggiore propensione nei territori del nord a considerare il noutu un momento di trasformazione dell’individuo tipico dei riti di iniziazione. Come si è già accennato nel capitolo precedente in riferimento alle danze, il confronto fra le diverse concezioni del noutu dei Medje-Mangbetu del sud e del nord evidenzia il diverso significato che lo stesso rito di circoncisione ha assunto in relazione alle vicende storiche e sociali di differenti aree, pur essendo occupate dallo stesso gruppo etnico. I domini del nord erano storicamente caratterizzati dalla forte presenza dei capi mangbetu (Nangazizi era un centro politico importante durante il regno) e dalla forte contrapposizione con gli Zande insediati lungo gran parte del confine del dominio. La pregnanza del potere politico mangbetu e la vicinanza dei nemici zande ha favorito una notevole chiusura nei confronti dei gruppi confinanti e un’attenzione particolare nel mantenere un’identità esclusiva del gruppo di lingua mangbetu. Nel sud la situazione era nettamente diversa: in primo luogo si trattava della periferia di un regno il cui punto debole era la scarsa centralizzazione e quindi si avvertiva una minore esigenza di insistere sulla comune identità mangbetu; in secondo luogo, le frequenti interazioni con i Balika, i Babudu e i Pigmei Asoa portarono a notevoli aperture verso l’esterno rispetto ai confini politici e culturali del dominio medje-mangbetu. Il rito di circoncisione – il quale è pur sempre un rito di passaggio caratterizzato da una specifica progettualità su come debba essere o debba agire un uomo – viene influenzato nell’azione e nei suoi significati dalla forza del potere politico collocato al centro della società, nonché dalla natura delle interazioni e dei contatti con coloro che stanno oltre ai confini del gruppo. Quando il centro è debole e i vicini propensi al contatto, allora il terreno diventa favorevole alle alleanze e all’imporsi di riti incentrati sull’alleanza: le alterità penetrano nei progetti esclusivi di costruzione degli esseri umani (come i riti puberali) scardinandoli e mutandone il senso e la morfologia. 7. La circoncisione e la colonia Viaggiare nella foresta di alleanze ha permesso di verificare come anche il rituale – comportamento ripetitivo e standardizzato in cui 102
la rigidità formale e concettuale sono considerate costitutive del rituale stesso – sia in realtà inserito nel flusso del mutamento, adattandosi e modellandosi nelle forme e nei significati. Nel rito, come più in generale nella cultura, ci sono elementi, azioni, significati che scompaiono, altri che permangono e si impongono, altri ancora che emergono, si mescolano e si trasformano. Da questo punto di vista, il rituale della circoncisione – interpretato di solito come un rito che trasforma l’individuo in un essere adulto – diventa ancora più interessante, in quanto, se è vero che il rituale in questione è un meccanismo relativamente rigido che con il passare delle generazioni viene utilizzato per «formare» e per «trasformare» gli individui secondo una determinata idea di umanità, è altrettanto vero che gli individui trasformano i rituali (di circoncisione) in conseguenza dell’emergere di nuove idee di umanità o dell’impossibilità di preservare e ribadire la propria concezione dell’uomo. È in questi termini che occorre interpretare l’incremento della pratica del noutu (intesa come alleanza tramite la circoncisione) fra i Medje-Mangbetu del sud e l’influenza che ha esercitato sui riti di iniziazione budu e lika. In altre parole, dopo aver visto che un determinato stile di circoncisione incentrato sull’alleanza si è imposto in un’area a causa dei contatti fra gruppi differenti, occorre riflettere sul perché l’incontro fra l’iniziazione di foresta e l’alleanza con il sangue dei gruppi di lingua sudanese abbia portato alla scomparsa dell’iniziazione e all’imporsi dell’alleanza. Gran parte degli informatori sottolineano che con l’arrivo dei bianchi si conclusero i conflitti fra gruppi differenti, e gli scambi e i contatti aumentarono sensibilmente. Lo stesso rituale di circoncisione – sia esso il noutu, l’égonye o l’imuuso – risentì della nuova situazione. Alcune caratteristiche dei percorsi iniziatici inseriti in determinati rituali, fra i quali i riti di passaggio all’età adulta, furono considerate dai nuovi amministratori non conformi al progetto coloniale. In primo luogo, la segretezza con cui veniva insegnato il sapere iniziatico dava adito a dubbi sui contenuti e sugli scopi di tali riti, interpretati se non come atti sovversivi almeno come pratiche inutili e immorali. In secondo luogo, il tentativo di civilizzare anche attraverso il sistema educativo e scolastico occidentale trasformava le «scuole di villaggio» connesse ai riti di iniziazione in istituzioni selvagge finalizzate alla trasmissio103
ne di un sapere spesso neppure considerato come tale. La colonia, piuttosto che opporsi con forza al proseguimento di tali rituali, impose l’obbligo di frequentare le proprie scuole, impedendo in tal modo che i bambini potessero trascorrere il lungo periodo di reclusione in foresta. La mancanza di tempo libero dagli obblighi imposti dalla colonia (il lavoro nelle piantagioni per gli adulti e la frequenza scolastica per i bambini) sono i motivi maggiormente addotti dai Balika e dai Babudu intervistati per spiegare la scomparsa dell’iniziazione tradizionale. Un altro fattore che contribuì a determinare il progressivo abbandono dei riti di iniziazione fu la riorganizzazione territoriale e amministrativa (Ndaywel È Nziem 1997: 369-78), la quale stravolse gli antichi domini indebolendo notevolmente i centri politico-culturali tradizionali (i capi, i clan, le gerarchie fra villaggi ecc.). Nel 1931, il governatore della Provincia Orientale esprime tutti i suoi dubbi sulla capacità delle società indigene di adattarsi ai nuovi raggruppamenti territoriali che i responsabili amministrativi stanno faticosamente ideando. In quegli anni la riorganizzazione del territorio si complica notevolmente e dopo una prima frammentazione in chefferies, attenta a preservare le divisioni tradizionali, si opta per la creazione di ampi «settori» che, pur estendendosi al di là delle unità territoriali indigene, sembrano più appropriati a essere amministrati (Moeller 1931: 54-55). Le identità collettive non avevano più riferimenti territoriali e politici attorno a cui far orbitare e organizzare la formazione dei giovani in conformità ai valori e all’esclusività del gruppo. Oltre alla riorganizzazione territoriale, occorre tenere conto dell’impatto sulla popolazione dei programmi agricoli per lo sviluppo economico e sociale della colonia (Ministère des Colonies 1949), nell’ambito dei quali una grande quantità della popolazione della Provincia Orientale del Congo Belga fu soggetta a spostamenti o assistette passiva alla riorganizzazione dei propri insediamenti rurali. Per favorire la produzione agricola e le estrazioni minerarie, già a partire dai primi anni della colonia fu emanata una legge-ordinanza sul «lavoro di ordine educativo» attraverso cui si obbligavano gli uomini adulti e validi a lavorare per incrementare la produzione e in tal modo familiarizzarsi con l’economia di mercato (Drachossoff et al. 1991: 653). Ci fu una vera propaganda per la massimizzazione della produzione agricola, in par104
ticolare nei territori medje-mangbetu adatti allo sviluppo di piantagioni di caffè, cacao, cotone e palme da olio (Lacomblez 1918), a dispetto degli indigeni da sempre dediti alla caccia e che ancora oggi si considerano coltivatori poco entusiasti. Molti villaggi furono creati ex novo o spostati lungo le vie di comunicazione (strade e fiumi) per esigenze essenzialmente commerciali, mentre una grande quantità di manodopera fu invitata a trasferirsi nei pressi delle nuove piantagioni10. Il rapporto fra i mutamenti sociali connessi alla modernizzazione e il destino dei riti di iniziazione è il tema centrale di un interessante saggio di Shohei Wada sui cambiamenti nella pratica della circoncisione fra gli Iraqw della Tanzania settentrionale (Wada 1992). Pur considerando il fatto che il declino di tali riti iniziò inesorabilmente con l’avvento dell’amministrazione coloniale11, l’analisi si concentra sulle politiche adottate dal governo tanzaniano nei primi anni Settanta. Anche in questo caso, la riorganizzazione della struttura dei villaggi attraverso l’incoraggiamento della coabitazione interetnica e la riforma agricola basata sul sistema denominato Ujamaa portarono inevitabilmente alla scomparsa nel 1974 dei riti iraqw di circoncisione collettiva. L’operazione in quanto tale perdurò attraverso l’ospedalizzazione dei singoli bambini, ma ciò che scomparve fu la collettività del rito e l’iniziazione ai valori di un gruppo invitato a formare le nuove generazioni guardando all’identità nazionale piuttosto che all’identità iraqw. Dinamiche simili possono essere ricondotte alla riorganizzazione del Congo Belga. Le nuove strategie di gestione del territorio e di produzione incisero irrimediabilmente sul senso di appartenenza e quindi sull’identità delle nuove generazioni. In una tale situazione i tradizionali percorsi iniziatici persero il proprio scopo e valore. Quando i bianchi sono arrivati hanno creato le piantagioni e ci furono persone di altri gruppi che arrivarono per lavorare. Ci furono Balika e Babudu che lasciarono le loro terre per venire a lavorare nelle piantagioni e i bianchi volevano che si andasse tutti d’accordo. Si incominciò a dire: – ecco siamo qui che non è casa nostra e dobbiamo vivere in pace, allora facciamo noutu (Maimbo Victor).
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Mentre la logica dell’iniziazione tradizionale crollava sotto la colonia, si andava diffondendo fra la popolazione l’esigenza di creare rapporti fra famiglie che andassero al di là dell’appartenenza clanica o etnica. Il riadattamento della pratica della circoncisione all’interno di una logica di alleanza, che in molti casi diventa urgente e necessaria (si pensi alla riorganizzazione territoriale, allo spostamento di manodopera e al mutuo soccorso nei nuovi campi di lavoro o nei nuovi agglomerati rurali), pare esser stata una ragionevole possibilità per gli abitanti della regione e per la forza lavoro immigrata da altre zone della colonia. Nel periodo delle piantagioni ci furono molti nékutu [noutu in mangbetu] con stranieri. Ricordo di un Muboa che è venuto qui a lavorare e ha fatto nékutu nella piantagione; anche i Lokele [un gruppo etnico i cui territori si trovano nei pressi di Kisangani] sono venuti qui a lavorare nelle piantagioni e hanno fatto nékutu con la gente del posto (Ongoro Neibese, chef de localité a Magbengi).
I Balika e i Babudu con i quali ho conversato sono concordi nel porre in relazione l’arrivo dei bianchi con il passaggio dalla logica dell’iniziazione tradizionale a quella dell’alleanza. Meno dimostrabile è il fatto che i Medje-Mangbetu abbiano «metabolizzato» la circoncisione nell’ambito dello scambio di sangue proprio in seguito ai contatti con i gruppi di foresta; infatti solo alcuni informatori sostengono che, risalendo soltanto di poche generazioni, la circoncisione non era affatto una pratica generalizzata fra i Medje-Mangbetu. Questo può essere spiegato dal fatto che la circoncisione – se fosse una pratica diffusasi fra i Medje-Mangbetu solo dopo la penetrazione nella foresta congolese – sarebbe diventata un’altra forma di patto di sangue, cioè sarebbe appunto stata assorbita in una pratica già esistente e probabilmente già denominata noutu: la circoncisione sarebbe una versione più recente di una pratica tradizionale (di cui non si è tramandata l’eventuale origine straniera). In ogni caso, ciò che si verificò nei primi anni della colonia furono l’ampia diffusione dell’alleanza tramite la circoncisione e il declino di percorsi iniziatici. La situazione coloniale, con gli stravolgimenti psicologici e sociali che creò, non favorì la trasmissione di generazione in generazione delle locali e specifiche idee su 106
cosa e come debba essere l’uomo. Tali idee di umanità contenute e veicolate attraverso elaborati rituali di iniziazione furono travolte da altre idee di umanità che, pur essendo anch’esse locali (figlie della rivoluzione industriale dell’Occidente), venivano esportate con forza e convinzione nel nome di un progresso unilineare e universale. In questa turbolenza sociale, politica e culturale, il noutu – presentandosi come una pratica caratterizzata dalla mancanza di segreti e di saperi iniziatici, che coinvolgeva singole famiglie e non interi villaggi, non poneva questioni di identità «tribali» e bene si adattava alle nuove esigenze di una popolazione sradicata – si impose come meccanismo di alleanza capace di coinvolgere individui appartenenti a gruppi eterogenei. Nel capitolo successivo si cercherà di dimostrare che il passaggio dall’iniziazione all’alleanza o, in altre parole, il diffondersi del noutu come alleanza tramite la circoncisione non è un completo abbandono di ogni idea su cosa e come debba essere l’uomo. Anche il noutu, pur non potendo essere considerato a pieno titolo un rito di iniziazione alla vita adulta in cui l’individuo viene trasformato in base a un determinato progetto di umanità, esprime un disegno antropo-poietico peculiare e particolare di una determinata cultura in una specifica fase storica.
Capitolo quinto
Incidere il corpo e la società
Nanzi kporo kana ebhua ate mbuo (Una sola termite non può produrre olio in una pentola) Proverbio mangbetu
1. La fabbricazione degli uomini I riti di circoncisione sono di solito intesi come riti di passaggio. Il candidato viene inserito in un processo formalmente definito che lo porterà dallo status di bambino a quello di adulto o per lo meno gli «effetti» (fisici e psichici) di tali riti lo rendono in grado di agire successivamente come un vero uomo. Al centro del rituale c’è un’operazione che segna in modo irreversibile il corpo del ragazzo il quale, privato del prepuzio, può lecitamente impegnarsi nella ricerca di una compagna con cui costruire una famiglia. L’individuo viene trasformato nel corpo e nel proprio ruolo sociale, in quanto risulta sempre più chiaro ciò che il gruppo si aspetta dal suo progetto di vita. Questo passaggio è nella maggior parte dei casi un evento di ulteriore specificazione nella crescita di un individuo la cui natura biologica risulta carente nel fornirgli le indicazioni necessarie al fine di diventare adulto. L’idea dell’uomo come essere carente e incompiuto è centrale nell’antropologia filosofica di Arnold Gehlen, il cui punto di partenza è proprio la constatazione dell’insufficienza dell’equipaggiamento biologico. L’uomo, essendo per natura incompiuto, non costituito una volta per tutte, deve in primo luogo interpretare se stesso e «prendere posizione circa se stesso, cosa per la quale è precisamente necessaria un’immagine, una formula interpretativa» (1990: 35). L’essere umano, svincola108
to da un rigido apparato istintivo, dispone della propria esistenza e assume un comportamento nei propri confronti, in quanto, disponendo di se stesso, «dirige la propria vita» (1990: 43). L’argomentazione di Gehlen si incentra, a questo punto, sul concetto di «azione», la categoria fondamentale della sua antropologia. La «non-definitezza» dell’uomo lo sottopone a un «eccesso pulsionale» che, durante la conduzione dell’esistenza, deve essere controllato: ogni individuo diventa in tal modo un essere da disciplinare attraverso una decisa strutturazione per mezzo delle istituzioni. In seguito (cap. VI) si tornerà su questo schema antropologico, che dall’azione con cui si «dirige» la vita conduce alla strutturazione (uno schema che rimanda all’immagine dei percorsi verso il termitaio introdotti nel primo capitolo). Per ora è opportuno concentrarsi sul fatto che la carenza di istinti innati, che differenzia l’uomo dal resto del regno animale, si connette con l’esigenza dell’essere umano di costruire se stesso, di crescere sulla base di indicazioni di ordine culturale. La sua genesi non è racchiusa nell’atto biologico della nascita, ma continua lungo tutto l’arco di vita, in particolare nelle fasi dell’infanzia e dell’adolescenza, cioè nelle fasi in cui i ruoli non sono ancora definiti e il corpo è soggetto alle più evidenti trasformazioni. L’uomo è destinato a «fabbricare» e a «costruire» se stesso seguendo modelli e idee che non sono innate, ma vengono formulate nell’ambiente culturale in cui vive. Esistendo differenti ambienti culturali esistono differenti idee su cosa debba diventare un essere umano e di conseguenza esistono diversi progetti di fabbricazione degli uomini che sottendono diverse idee di umanità. Alla prospettiva secondo la quale ogni individuo nel processo di crescita successivo alla nascita biologica deve rinascere socialmente – e per fare ciò è invitato dal gruppo al quale appartiene a seguire un determinato e specifico percorso di trasformazione fisica, psichica e intellettuale alla cui base c’è una particolare idea di umanità – è stato dato il nome di «antropo-poiesi» (Remotti 1996a). La «formula interpretativa» (l’immagine), di cui parla Gehlen, esprime d’altro canto l’esigenza di un’antropologia, di un’idea di umanità sulla quale basare le proprie azioni e la «direzione» della propria vita. I momenti maggiormente significativi dal punto di vista sociale e culturale di questo processo di costruzione e di trasformazione si manifestano in eventi rituali, che nell’ambito antropologico 109
vengono di solito definiti riti di iniziazione. Affinché si possa parlare di «iniziazione» connessa al passaggio all’età adulta (iniziazione che in molti casi prevede la circoncisione) occorre che la trasformazione dell’individuo avvenga non solo attraverso un’incisione corporea, ma anche attraverso una modificazione del carattere e delle conoscenze dell’iniziato. Occorre che il gruppo trasmetta al ragazzo un nuovo sapere incentrato sui valori esclusivi della cultura a cui appartiene e che il candidato superi determinate prove di solito connesse al coraggio e alla resistenza fisica. Solo a questo punto sarà «diventato» un vero uomo e sarà considerato tale dagli individui che lo circondano. In molti contesti etnografici la trasmissione del sapere iniziatico e lo svolgimento delle prove di resistenza fisica sono associate alla massima segretezza. I candidati non possono raccontare ai non-iniziati ciò che si svolge nel luogo appartato (in foresta, in una abitazione isolata ecc.) e nel caso del rito di iniziazione maschile alla vita adulta nulla deve trapelare alle donne del gruppo. Come si è visto precedentemente (cap. III), il noutu non prevede alcuna fase iniziatica: nessun sapere segreto viene trasmesso ai circoncisi, nessuna prova dolorosa li attende nel periodo di guarigione, nessuna reclusione e isolamento caratterizzano la fase centrale del rito. Pur non subendo alcuna iniziazione, i partecipanti al noutu vivono un passaggio significativo caratterizzato da una effettiva trasformazione (del corpo, dello status e dell’ambiente sociale). Come suggerisce Suzette Heald (1982) analizzando il rituale di iniziazione dei Gisu dell’Uganda denominato imbalu, occorre evitare di considerare i riti di passaggio come esempi di riti di transizione senza afferrare la natura specifica della transizione quale è percepita dalla società stessa. Per tale motivo, occorre non limitarsi a rilevare le modalità attraverso le quali un individuo viene formalmente trasportato da uno status definito a un altro concentrandosi sulle somiglianze funzionali e formali dei riti di passaggio, ma cogliere il carattere trasformazionale dei riti. Anche per ciò che concerne il noutu si vorrebbe dirigere l’attenzione più sugli aspetti trasformativi del rito che su quelli transizionali: il rito di passaggio contenente la circoncisione «trasporta» un ragazzo da uno status a un altro, ma soprattutto lo «trasforma». Ora, non si tratta in tal modo di evidenziare – come nell’analisi dell’imbalu proposta dalla Heald – la trasformazione 110
psicologica del circonciso, quanto la trasformazione dell’ambiente sociale che lo circonda. L’idea che la trasformazione successiva a un rito di circoncisione riguardi più l’ambiente sociale circostante che non il corpo e la psiche individuale sembra alquanto bizzarra; infatti si presume che durante il rito di passaggio all’età adulta vengano manipolati e modellati i corpi e le menti dei ragazzi e non ciò che sta intorno. Tuttavia, come cercherò di mostrare in questo capitolo, se si vuole cogliere la natura della trasformazione successiva al noutu e quindi il senso stesso del rito, occorre «uscire» dal corpo del circonciso e, metaforicamente, verificare gli effetti del «tagliare» non solo sul pene del candidato ma soprattutto sull’ambiente sociale. Ciò che si ipotizza è «un’antropo-poiesi dal giro lungo»: si incide il corpo dei propri bambini per modellare l’ambiente sociale circostante e l’effetto di tutto ciò è la trasformazione dei bambini stessi in quanto «l’uomo si ‘fa’, si ‘costruisce’, nello stesso tempo in cui rimodella i propri ambienti» (Remotti 1996a: 19). Qualcosa di analogo lo sostiene anche Gehlen quando afferma che l’uomo, prendendo posizione verso l’esterno, fa di se stesso qualcosa: L’uomo è l’essere che agisce. [...] Egli non è «definito», è cioè ancora compito a se medesimo; è, come si può anche dire, l’essere che prende posizione. Gli atti del suo prendere posizione verso l’esterno chiamiamo azioni, e proprio perché egli è anche compito a se medesimo, prende posizione verso se stesso e «fa di se stesso qualcosa» (1990: 58).
Ritengo si possa affermare che l’incisione effettuata sul corpo (il taglio del prepuzio) durante il noutu comporti un’incisione metaforica dell’ambiente sociale circostante; il segno impresso sul corpo è un segno impresso sulla società. Qualcosa di simile sembra emergere nel rituale di iniziazione dei Rukuba della Nigeria studiato da Jean-Claude Muller (1989). L’iniziazione dei giovani rukuba si estende su un periodo di circa dieci anni e prevede diversi stadi. Durante la prima fase – vivendo in una società in cui vige la poliandria – al ragazzo viene attribuito un padre attraverso la messa in scena di uno psicodramma in cui il marito preferenziale estende i suoi diritti sui figli di 111
sua moglie per poi svelare e accettare la vera paternità (Muller 1989: 41); l’ambiente indistinto dei mariti della propria madre viene «segnato» in questo primo stadio e così facendo il ragazzo ridisegna i legami di parentela in modo più preciso. La seconda fase dell’iniziazione è incentrata sulla circoncisione (izaru), attraverso la quale il prepuzio viene separato dal pene e contemporaneamente il circonciso viene separato dalla madre e dall’intera parentela materna, i cui componenti maschi protestano vigorosamente inscenando una finta guerra. In tal modo, il proseguimento dell’iniziazione attraverso un taglio sul corpo implica un’ulteriore specificazione dell’ambiente sociale del ragazzo, al quale non solo viene chiarita la paternità, ma gli si impone l’opzione patrilineare nella scelta della linea di discendenza: la circoncisione è «sia in senso letterale sia in senso figurato un taglio» (Muller 1989: 70). Questa progressiva trasformazione e costruzione dell’ambiente sociale circostante continuano nella terza fase dell’iniziazione incentrata sul matrimonio rituale fra l’iniziato e una donna incinta, scelta sulla base delle reali regole matrimoniali. Il ragazzo impara a suddividere in base a tali regole i lignaggi rukuba, i quali si presentano non più indistinti ma differenziati in base a precise norme matrimoniali. Infine, durante l’ultima fase dell’iniziazione i candidati devono coscientemente ed esplicitamente rifiutare di bere nel recipiente sacro del capo: in altre parole devono rifiutarsi di proseguire l’iniziazione in quanto solo il capo è realmente iniziato. La rinuncia a concludere il ciclo iniziatico è una simbolica adesione al patto sociale che consente a un solo individuo di essere capo; così facendo i giovani rukuba rendono l’ambiente sociale circostante ancora meno indistinto, sottoponendosi alle regole politiche della società divisa in governanti e governati. L’intero ciclo iniziatico rukuba si presenta quindi come un progressivo modellamento dell’ambiente sociale che circonda l’iniziato: si sceglie una paternità, una linea di discendenza, una regola matrimoniale, un sistema politico e così facendo si «tagliano via» ipotetici padri, discendenze, possibilità di matrimoni, ipotetici sistemi politici. Ciò che viene plasmato e costruito non è il corpo e neppure la psiche dell’individuo, ma piuttosto la società rukuba la quale «utilizza gli iniziati per concepire e realizzare un discorso ideale su se stessa» (Muller 1989: 209). Questa affermazione è molto significativa in rapporto a ciò che succede durante 112
il noutu: gli adulti utilizzano la circoncisione dei propri figli per costruire nuovi rapporti sociali che esprimono concetti quali la fraternità, l’esogamia, l’alleanza, lo scambio economico, la scelta matrimoniale ecc., tutti elementi centrali nella costruzione della società e nelle aspettative che il gruppo ha nei confronti dei singoli individui. La costruzione dell’uomo (antropo-poiesi) è connessa ed è funzionale alla costruzione della società (koino-poiesi1). Il progetto, inerente a ciò che deve «diventare» l’uomo, messo in atto e in scena da una determinata cultura, presuppone non solo un’idea di umanità ma anche un’idea di società; dopotutto tale progetto – esplicitato nei riti di iniziazione – non coinvolge quasi mai un singolo individuo, ma richiede una partecipazione plurale e coinvolge molto spesso l’intero gruppo. Le due componenti (antropopoiesi e koino-poiesi) sono presenti in tutti i processi rituali di passaggio all’età adulta: in alcuni casi etnografici l’accento viene posto sulla trasformazione e costruzione dell’individuo, in altri (come si presume fra i Rukuba e i Medje-Mangbetu) sulla trasformazione e costruzione della società, cioè sulle scelte e sulle modalità attraverso le quali una pluralità di individui costruisce una particolare rete di relazioni. Jean-Claude Muller sottolinea la peculiarità del ciclo iniziatico rukuba rispetto ai classici riti di iniziazione africani enucleando alcune caratteristiche riscontrabili anche nel noutu: non c’è reclusione in foresta, non ci sono segreti e non ci sono prove fisiche. Malgrado si registri l’assenza dei tipici elementi iniziatici drammaticamente incentrati sull’individuo e sulla scelta che l’iniziando ha di fronte a sé (diventare o meno un uomo corrispondente al modello proposto dal gruppo di appartenenza), è presente un significato particolare: l’iniziazione rukuba non è solo un discorso sull’individuo e sul posto che occupa nella società, è anche una meditazione e un discorso della società su se stessa, sul suo funzionamento e sui suoi presupposti filosofici. È una messa in scena [...] che permette alla società di pensare a se stessa ponendosi delle alternative per l’intera durata dell’iniziazione (Muller 1989: 208).
Durante il processo di costruzione dell’individuo comprendente la circoncisione si mette mano all’uomo ma anche alla so113
cietà, si riflette su come debba essere l’uomo ma anche su come debba essere un gruppo di uomini: le due riflessioni non viaggiano parallele ma si incrociano in continuazione, determinandosi vicendevolmente. In alcuni contesti etnografici, come si è già accennato, la riflessione sul gruppo, sulla pluralità si impone sulla riflessione inerente al singolo, al suo corpo e alla sua psiche. Per tale motivo occorre innanzitutto verificare in che modo nel noutu – che è pur sempre un rito di passaggio – si esprima questa centralità del gruppo, della pluralità rispetto alla solitudine del corpo e della psiche. La transizione del circonciso da uno status all’altro dovrebbe quindi esprimersi attraverso la riflessione sull’ambiente sociale circostante, cioè la pluralità di individui con cui interagisce e in cui è inserito. A ben vedere, fin dai primi giorni di vita – cioè all’inizio del processo antropo-genetico che ovviamente non si riduce al noutu – la crescita dell’individuo viene ritualmente connessa al gruppo di appartenenza. Infatti, dopo essere uscito dal grembo materno, occorre aspettare la caduta del cordone ombelicale per poter mostrare il neonato in pubblico. Dalla porta dell’abitazione non uscirà da solo (come nel momento della nascita biologica) ma insieme a un cospicuo numero di persone appartenenti al suo patrilignaggio. Come si vedrà nel paragrafo successivo, questa seconda uscita inaugura l’esistenza sociale del neonato al quale, con gesti e parole, verranno ricordati i doveri e i significati di una vita in gruppo. 2. La caduta del cordone ombelicale I primi giorni di vita di un neonato sono particolarmente precari: le possibilità che il bambino muoia sono alte; il bambino vive un periodo di reclusione e la madre, oltre a non avere contatti con il mondo esterno, è soggetta a determinati tabu alimentari, primo fra tutti l’obbligo di mangiare solo le banane che si trovano al centro di una «mano di banane»; «soltanto dopo il nóbu si incomincia a essere sicuri della vita del bambino» (Teresa Amanzibandro Sani). Il nóbu è una breve cerimonia che si svolge in occasione della prima uscita del neonato dall’abitazione in cui è avvenuto il parto; per effettuare questo rito occorre che il cordone ombelicale 114
(notunvo) sia caduto e la ferita si sia rimarginata. Anche questo rituale, come il noutu, sta scomparendo e a detta di molti non si organizza più da parecchi anni2. All’alba del giorno prestabilito, la mamma con il neonato in braccio si sedeva all’interno dell’abitazione di fronte alla porta; tutti i bambini della famiglia appartenenti all’aggregato domestico del neonato e a quelli vicini (appartenenti allo stesso patrilignaggio) dovevano entrare nella casa. Nel mentre veniva preparato un fuoco sull’uscio dove si mettevano a bruciare determinate foglie ancora verdi in modo da produrre molto fumo. A questo punto, la più influente e importante fra le sorelle del padre doveva – aiutandosi con un vassoio – fare entrare il fumo dentro l’abitazione per irritare gli occhi dei bambini; allora la madre e il neonato in braccio, seguiti da tutti i bambini, uscivano dalla casa e si disponevano sotto il négbámú. La zia paterna (nédadá) prendeva in braccio il neonato e gli sussurrava all’orecchio: «tu bambino sei venuto qui al mondo, bisogna che tu comprenda tutte le cose che ti verranno dette durante la vita, che tu sia comprensivo e che tu sia rispettoso dei tuoi fratelli che hanno sofferto con te». Dopo il discorso, la madre e tutti i bambini del patrilignaggio si mettevano a mangiare insieme un cibo appositamente preparato con le banane poste all’estremità della «mano» (quelle vietate durante il periodo che trascorre fra la nascita e il nóbu) e – a detta di alcuni informatori – con alcune foglie netonyo. Questa breve cerimonia contiene alcuni elementi che, oltre a connettersi al noutu, rimandano a uno specifico progetto di umanità: 1) In primo luogo, è evidente la centralità del gruppo e della pluralità in relazione all’esistenza del singolo: mentre la nascita biologica è un evento privato che riguarda il neonato e la propria madre, il debutto sociale nel mondo è caratterizzato dall’appartenenza al proprio patrilignaggio. Dalla casa si esce in gruppo: in altre parole, si «partecipa» al mondo insieme ad altri individui. Al riguardo è significativa l’interpretazione del rito proposta da Teresa Amanzibandro Sani: Questa cerimonia si faceva per far comprendere al bambino che è uscito da un luogo felice per venire a vivere in un luogo dove ci sono molte difficoltà. È così che quando il fumo lo infastidisce si metterà a
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piangere e verrà a conoscenza di questa differenza. In tal modo capirà di essere in un mondo dove ci sono molte difficoltà. Quelli della famiglia [i bambini entrati nell’abitazione] hanno sofferto con lui nella casa a causa del fumo e lui dovrà rispettare quelli che hanno sofferto con lui.
Il mondo degli uomini, nel quale il neonato sta entrando, si mostra per la prima volta attraverso il sentimento della compassione (soffrire con). Tale con-patire è un modo per esprimere la propria umanità (avere umanità) e infatti – come sostiene il filosofo Fernando Savater – «gli uomini diventano umani nel loro rapporto reciproco, e nessuno può darsi l’umanità da se stesso nella solitudine, o meglio, nell’isolamento» (1990: 75). Nella cerimonia del fumo è implicita un’idea di umanità che si realizza soltanto in una condizione di pluralità. 2) In secondo luogo, il nóbu presenta le caratteristiche di un vero rito di passaggio. Dopo essersi separato dal grembo materno, il neonato vive alcuni giorni in una fase liminare caratterizzata dalla reclusione e dall’insicurezza, per poi entrare ufficialmente nel mondo. Questa seconda uscita (una seconda nascita) lo segna irrimediabilmente come appartenente a uno specifico patrilignaggio, nei confronti del quale deve essere riconoscente «per aver sofferto insieme con i suoi componenti». La connessione con il noutu è tangibile nella simbologia del pasto rituale successivo all’uscita: un pasto da consumarsi insieme agli altri «fratelli» e contenente le banane vietate alla madre durante i primi giorni dopo la nascita del figlio. La fase conclusiva del noutu può essere infatti considerata come una rinascita rituale, che nel classico schema dei riti di passaggio è successiva a una morte simbolica (cap. V, § 3). 3) In terzo luogo, pare evidente come il progetto di costruzione dell’individuo sia connesso al progetto di costruzione di un gruppo. Il neonato entra a far parte di una pluralità di individui; la sua nascita è un contributo alla costruzione di un gruppo che vive sotto lo stesso tetto o meglio in uno stesso villaggio. A rafforzare tale interpretazione è sufficiente soffermarsi sul termine nóbu che, oltre a designare la cerimonia in questione, viene utilizzato per denominare l’atto di costruzione di un edificio. Infatti nóbu significa applicare il fango sull’intelaiatura di canne e di rami della casa; in altre parole, si prende una sostanza molle e gli si dà 116
forma secondo un modello già esistente: lo scheletro di canne dell’abitazione. Così come la periodica aggiunta di fango contribuisce alla costruzione e alla ristrutturazione di una casa, la nascita di un nuovo individuo contribuisce alla costruzione e al perdurare di una famiglia. 4) Un’ultima considerazione è resa possibile ancora una volta da una comparazione regionale. Diversamente dai riti di iniziazione e di circoncisione, la cerimonia dell’uscita del neonato fa volgere lo sguardo a nord, proprio verso quei gruppi zande esclusi dalle reti di relazioni tipiche del noutu. Fra gli Azande esiste una cerimonia del tutto simile al nóbu medje-mangbetu (cerimonia del fumo, pasto in comune ecc.), mentre gli informatori budu e lika sembrano ignorare tale pratica rituale. Inoltre, dalle testimonianze raccolte sul campo e dai resoconti etnografici esistenti (in particolare Lagae 1926: 164-79) si rileva una certa importanza di tale rito nella società zande. In queste pagine non è la prima volta che, analizzando un’azione rituale in termini comparativi, l’attenzione viene posta sui gruppi a nord dei domini medje-mangbetu: infatti, anche l’istituzione del patto di sangue è sembrata maggiormente tipica dei gruppi esterni alla grande foresta congolese (cap. IV, § 1). A questo punto è interessante verificare se la cerimonia dell’uscita del neonato e l’istituzione dello scambio di sangue siano accomunate da qualche elemento pregnante e contemporaneamente assente nei riti di iniziazione e circoncisione tipici delle culture di foresta. Se così fosse, è probabile che si possa fare luce ulteriormente sulle esigenze che sottendono le scelte culturali e rituali di un determinato gruppo, in quanto la ritualizzazione avviene nei confronti di aspetti che si reputano centrali per la società. In effetti, da un punto di vista sociale la cerimonia dell’uscita del neonato e la fratellanza di sangue hanno un elemento di convergenza: in entrambi i casi si incorpora nell’aggregato domestico un nuovo individuo; la famiglia aumenta di numero. Pare oltremodo significativo che siano proprio le società di savana, organizzate in insediamenti sparsi composti da una sola grande famiglia, a ritualizzare (a riflettere su) questi momenti di arricchimento, più che i gruppi di foresta organizzati in villaggi. Questo esercizio connessionistico che lega inizialmente il noutu al nóbu e successivamente – attraverso una prospettiva compa117
rativa – il rito della nascita zande al patto di sangue non ci allontana in realtà dal tema centrale di questo libro (l’alleanza con la circoncisione), ma permette di identificare l’elemento che permane negli eventi rituali di un determinato gruppo. Al riguardo, occorre ricordare che il sostantivo noutu rimanda a un altro termine, nóótwóotu che significa «moltiplicarsi», «accrescersi», «aumentare di numero». Questi concetti si ritrovano nei riti di circoncisione, nei patti di sangue e nei rituali di nascita, mentre non appaiono nei tipici rituali di iniziazione delle culture di foresta, incentrati più che altro sull’esigenza di ribadire un’identità di gruppo, un Noi già esistente. Gli eventi significativi nel processo antropo-genetico di un individuo (nóbu e noutu) sono connessi alla costruzione della società di appartenenza orbitante intorno a un villaggio abitato dai componenti del proprio patrilignaggio. L’idea di appartenere a una pluralità di individui orientata a moltiplicarsi e ad aumentare di numero occupa il centro della riflessione su come deve agire l’uomo e su come deve agire un gruppo di uomini. 3. Essere «neigwa» Le fasi rituali successive alla separazione dal cordone ombelicale e alla separazione dal prepuzio sono accomunate da un pasto comunitario in cui vengono consumati i cibi vietati durante un periodo di attesa caratterizzato da una estrema precarietà. Analizzando il noutu a partire dalla classica tripartizione (separazione, liminarità e aggregazione) proposta da Van Gennep (1981: 11), la fase conclusiva del rituale di circoncisione è segnata da un evento emblematicamente aggregante (il pasto del netonyo), inserito in una più ampia azione rituale comprendente il lavaggio al fiume, il lancio della freccia verso ponente e il pernottamento a zebu (cap. III, § 6). Dopo un lungo periodo di guarigione contraddistinto da una relativa chiusura e da determinati tabu alimentari, il circonciso viene introdotto nuovamente nel mondo ordinario; l’uscita dal periodo di guarigione sembrerebbe in qualche modo interpretabile come una rinascita. Tuttavia, durante il noutu, più che a una vera rinascita si assiste a una plasmazione dell’ambiente sociale; come si è già sottolineato, l’attenzione non è tanto posta sulla tra118
sformazione dell’individuo quanto sulla creazione di una rete di relazioni in cui il neo-circonciso viene inserito. Così come la fase di aggregazione non è una vera rinascita, anche il periodo di guarigione non sembra presentare le peculiarità tipiche della morte rituale che normalmente caratterizzano la fase liminare dei riti di iniziazione. Il classico schema con cui si analizzano i riti di iniziazione (morte e rinascita rituale) non sembra rinvenibile nel noutu medje-mangbetu. Nei giorni che trascorrono fra l’operazione e il lavaggio al fiume, i circoncisi si trovano in uno stato particolare definito dagli informatori con il termine neigwa. Ai circoncisi non vengono tagliati i capelli e le unghie; i loro corpi non devono avere particolari cure, ad eccezione della ferita sul pene soggetta a medicazioni quasi quotidiane; in questa fase i bambini operati devono lavarsi in modo sommario e superficiale. Cercando di spiegarmi il significato del termine neigwa i miei collaboratori hanno utilizzato in particolare i concetti di «sporcizia», «impurità» e «incuria». Tuttavia non basta essere sporco e trascurato per essere neigwa, in quanto occorre vivere un particolare momento della propria vita caratterizzato dalla precarietà, dalla difficoltà e dalla sospensione della normale condizione di un individuo. Sembrerebbe che esistano due momenti nella vita di un uomo contraddistinti dalla precarietà, in cui ci si comporta ed effettivamente si è neigwa: il periodo di guarigione dopo la circoncisione e il periodo di lutto successivo alla morte del proprio coniuge. In effetti il significato letterale del termine neigwa è «vedovo, vedova». Durante la fase di guarigione il circonciso è considerato come se fosse vedovo. Oltre a trattare il proprio corpo nel modo sopra indicato, deve dormire su un letto particolare (denominato ekpongbolo) utilizzato dal vedovo durante il periodo di lutto, in quanto dormire sul letto ekpongbolo – si dice – aiuta a superare un momento problematico della vita. Inoltre, «durante i giorni della guarigione si cantano canzoni simili a quelle del lutto. I bambini [quelli che hanno subìto l’operazione] non sono proprio vedovi, ma bisogna trattarli come vedovi» (Mayele Amansibandrodjo). A prima vista, questa connessione fra il circonciso e il vedovo rimanda alla diffusa interpretazione secondo la quale l’atto della circoncisione esprime l’uccisione simbolica del novizio. Il passag119
gio da uno stadio all’altro della vita presuppone una morte simbolica del bambino e una rinascita come uomo; la morte simbolica avviene proprio nel momento dell’operazione. Per esempio, nel rituale mukanda degli Ndembu è lo stesso circoncisore a essere paragonato a un leone che divora il novizio (Turner 1976: 233); durante l’intero periodo di reclusione, il novizio è «morto al mondo» e si prepara a rinascere trasformato in uomo. Tuttavia, nel caso del noutu medje-mangbetu, essere neigwa non vuol dire essere morti: il circonciso non viene simbolicamente ucciso; tutt’al più subisce simbolicamente una perdita, e in questo senso rimane vedovo. Esiste ovviamente una differenza sostanziale fra l’essere morto e il rimanere vedovo: tale differenza è reperibile nei rituali di iniziazione. Per esempio, fra gli Ngbaka della regione nord-occidentale del Congo i circoncisi (gaza) vengono considerati durante il periodo di reclusione come se fossero morti, mentre è la giovane ragazza scelta per preparare il cibo ai novizi (denominata yakoso) a dover portare il lutto (Katumba Ndadua 1983: 12). In questo caso, è chiaro che i gaza sono morti, mentre la yakoso è vedova. Nel noutu invece, i bambini che hanno subìto la circoncisione sono considerati vedovi – un elemento simbolico non di poco conto, e che aiuta a cogliere il particolare significato che assume il noutu nella vita di un individuo. Fra i Medje-Mangbetu, quando una persona muore, avviene una elaborata compensazione funeraria che nel caso paradigmatico (McKee 1995: 189-229) si esprime attraverso una «guerra» inscenata dagli zii materni del defunto nei confronti della famiglia del padre del defunto. Robert McKee analizza l’intero rituale della compensazione funeraria come un rito di passaggio fra gruppi, in quanto la transizione da uno stadio all’altro non riguarda singole persone ma interi gruppi di discendenza. Il sopraggiungere di un decesso rompe l’alleanza fra i due gruppi di discendenza (quello materno e quello paterno) a cui faceva riferimento il morto. La lunga compensazione funeraria ha lo scopo di ripristinare l’alleanza. McKee accenna a una variante della compensazione funeraria in cui alla morte di una sposa la sua famiglia inscena una guerra con la famiglia del coniuge rimasto vedovo (1995: 234). Il costo per la composizione della disputa è in questo caso molto alto, soprattutto se il prezzo della sposa non era stato pagato interamen120
te. Durante il periodo del lutto il vedovo si trova costretto a sospendere una serie di rapporti di alleanze: la trascuratezza che contraddistingue il suo corpo ha un chiaro riflesso sulle relazioni sociali. In molti casi, la famiglia della moglie defunta considera il vedovo alla stregua di uno schiavo (némodja), facendolo lavorare per un determinato periodo nei propri campi o più spesso obbligandolo a costruire o ristrutturare l’abitazione del padre della sposa. Questo periodo di sfruttamento, di denigrazione e di svilimento serve a ricostruire il legame perduto a causa del decesso, è una fase liminare in cui viene nuovamente tessuta l’alleanza. Il circonciso è portato a vivere il periodo liminare del noutu con lo spirito del vedovo: la genesi dell’alleanza con i nuovi amekenge lo segna nel corpo e anch’egli vive una fase della propria vita in cui i legami sociali vengono sospesi per essere ridisegnati. Probabilmente è in questi termini che occorre interpretare la connessione fra il circonciso e il vedovo. Ancora una volta, il senso e il significato dell’azione rituale è da rintracciare fuori dal corpo della singola persona: la liminarità è una fase di riflessione sugli sconvolgimenti che subisce il reticolo sociale dell’individuo. Come è evidente nel caso dei Rukuba della Nigeria, il «taglio» (della circoncisione) viene praticato sul singolo ma riguarda la società. Durante la fase centrale del noutu il circonciso ha ormai perso lo status di bambino, ma attende la cicatrizzazione di quella ferita che metaforicamente è stata inferta sul proprio ambiente sociale. Guarire dall’operazione vuol dire sancire l’alleanza con i propri amekenge e ciò, come si è visto, significa entrare in un mondo fatto di divieti matrimoniali, reciprocità di scambi e quant’altro. Analizzando il noutu come un rito di passaggio, si è constatato come il simbolismo connesso alle differenti fasi del rituale non rimanda alla nascita e alla morte, ma piuttosto a ciò che succede dopo la nascita (il rito del fumo) e a ciò che succede dopo la morte (lo stato di vedovanza durante il lutto). In altre parole, non si riflette sullo stato del singolo come nascituro e come cadavere, ma sullo stato del reticolo sociale in cui l’individuo è inserito. Durante il noutu, il candidato subisce un taglio che lo isola dal proprio aggregato domestico e lo obbliga a trascorrere un periodo in una abitazione nella quale con altri bambini aspetta la cicatrizzazione della ferita. Solo a questo punto verrà suggellata una nuova al121
leanza intorno alla pentola del netonyo: le proprie reti di relazioni si estendono e nuovi individui vengono coinvolti. 4. La semantica del «noutu» Il processo antropo-poietico rinvenibile nel noutu sembra chiaramente connesso a un più ampio progetto concernente la società medje-mangbetu. Come pare evidente nel nóbu (il rito dell’uscita del neonato) e nell’analogia che si crea fra il circonciso e il vedovo, ogni qual volta i Medje-Mangbetu ritualizzano eventi connessi alla crescita e alla costruzione dell’essere umano vengono sottolineati i valori inerenti al gruppo, alla pluralità, alla tessitura delle relazioni sociali. L’attenzione è posta sull’ambiente sociale circostante, fuori dall’individuo (dal suo corpo, dalla sua psiche, dalle sue conoscenze). Nelle pagine precedenti si è potuto già intravedere intorno a quali valori orbiti la costruzione dell’uomo e della società; mentre la pluralità sembra essere una conditio sine qua non affinché un essere umano possa diventare tale, è l’idea dell’accrescere, dell’aumentare di numero a caratterizzare l’esistenza di un individuo, a segnare la sua crescita. L’essere umano viene presentato al mondo (nella cerimonia del nóbu) come parte integrante e inscindibile di un aggregato domestico, inserito in un villaggio i cui componenti si riconoscono in un segmento clanico esogamico. Con il noutu il bambino diventa adulto e inizia a essere responsabile di un frammento di reticolo sociale attraverso cui la sua nébha (compound, villaggio) si arricchisce, aumenta di numero. Avere fratelli di circoncisione (amekenge) vuol dire estendere al di fuori del proprio gruppo la regola esogamica e contemporaneamente intrattenere rapporti «al di là della parentela» che possono esplicitarsi attraverso lo scambio di beni e di donne. In effetti l’individuo ormai circonciso possiede un requisito corporeo indispensabile per ampliare ulteriormente la rete di relazioni nel cui centro è collocato. Ciò avviene con il matrimonio (o i matrimoni) per mezzo del quale la nébha aggiunge un nuovo frammento nella rete di relazioni legandosi a un gruppo cognatico. L’idea secondo la quale con il noutu ci si accresce e si aumenta di numero traspare dall’analisi semantica del termine. Infatti 122
noutu rimanda al verbo nóótwóotu che significa «moltiplicarsi», «accrescere». Il linguista Tucker nell’analisi comparativa sulle lingue sudanesi orientali identifica un suffisso numerale -tu in alcuni dialetti di tale famiglia (1940: 288), mentre Larochette (1958b: 127) comparando le lingue del gruppo moru-mangbetu riporta le diverse traduzioni del termine «numeroso» che ricordano da vicino il noutu (nékutu nella variante mangbetu): mangbetu medje moru avukaya kaliko lugbara logo ma’di
nékutu nóòtu òto, kotó, kwató otó òto òto kùtwa otó
Per ciò che concerne la lingua dei Logo (un gruppo etnico insediato nel Congo nord-orientale), nel dizionario di Vallaeys (1986) si riporta un termine interessante che rientra pienamente (sia per la forma sia per il significato) nelle somiglianze di famiglia concernenti il termine noutu. Per Vallaeys (1986: 367), kutú, utú, significa in logo «essere diffuso», «essere sparso». Ora, partendo dal presupposto che in tutte le lingue sudanesi la radice della maggior parte delle parole è del tipo CV (consonante + vocale) e che per formare i radicali si utilizza un prefisso vocalico con valore semantico e grammaticale denominato vocale caratteristica (nel dialetto mangbetu preceduta spesso da k-), si riscontra una significativa somiglianza di famiglia fra determinati termini tutti orbitanti intorno all’idea della quantità, dell’accrescimento e dell’estensione. Fin dal lavoro sul campo mi sembrò importante insistere sull’analisi semantica del termine noutu, ma la confusione aumentò sensibilmente quando, domandando se mai qualcuno avesse sentito parlare dello stile di circoncisione denominato gandja alútú – una tradizione rituale che secondo De Mahieu (1985: 3233) fu progressivamente abbandonata dai Bakomo –, alcuni ricordarono di aver udito il termine alútú fra i Kakwa (un gruppo insediato sul confine con l’Uganda). 123
Durante uno dei miei soggiorni nella città multietnica di Isiro cercai precisazioni al riguardo e quando alcuni Kakwa mi dissero che nella loro lingua alútú, o meglio aloto, vuol dire «fratello della moglie» pensai di aver imboccato un vicolo cieco, ma probabilmente non fu così. In primo luogo, occorre precisare che in altre lingue sudanesi i gruppi cognatici vengono denominati a partire dal radicale -utu. Fra i Bari, per esempio, il termine lutu designa – secondo Spagnolo (1942) – il fratello o la sorella della propria moglie, la moglie del fratello della propria moglie, il marito della sorella della propria moglie. Secondo Huntingford (1953: 31), esso designa invece il marito della sorella, il marito della figlia del fratello del padre, il marito della figlia della sorella della madre e il fratello e la sorella della moglie; in altre parole: il marito della sorella, il marito delle cugine parallele e i siblings della moglie. Benché non ci sia concordanza fra le due fonti rintracciate, in entrambi i casi il termine lutu designa gli affini incorporati nel gruppo di parentela patrilineare e appartenenti alla stessa generazione, cioè individui originariamente fuori dalla parentela con i quali si sono instaurati rapporti di alleanza (matrimoniale)3. A ben vedere, sia il termine medje noutu (con la variante mangbetu nékutu) sia il termine lutu definiscono un’incorporazione all’interno del gruppo famigliare di individui non parenti, ovvero un’estensione della rete di alleanze (con la circoncisione o con i matrimoni) al di là della parentela. A conferma che la vicinanza semantica può essere connessa alla funzionalità sociale, ecco come Gaga Gabriel, un amico mulika, mi spiegò con sue parole il significato dell’alleanza con la circoncisione: Il rapporto fra le due famiglie è che una è il cognato, l’altra è la sorella, questo è un paragone. La famiglia-cognato va a cercare delle cose per l’altra famiglia e la famiglia-sorella va a cercare delle cose per la dote. Oggi [la circoncisione] è così, un’imitazione del matrimonio.
Volendo ampliare ulteriormente le connessioni semantiche, è possibile estendere «l’aria di famiglia» al termine lese4 atu, con cui le donne lese chiamano i mariti delle sorelle e gli uomini lese chiamano le mogli dei fratelli. In aggiunta a questi significati del tutto simili a quelli rintracciati nel termine dei Bari lutu, i Balese chiamano atu il proprio omonimo. Ciò succede quando un Lese attri124
buisce un nome lese a un individuo del clan del suo partner pigmeo efe5. Anche in questo caso, come per i cognati e le cognate, la relazione coinvolge potenziali partner sessuali fra i quali, proprio per il fatto di essere atu, è proibito ogni rapporto6. I tre termini noutu, lutu e atu descrivono relazioni in cui sono evidenti: 1) l’incorporazione di individui nella rete di relazioni orbitante intorno a una singola persona; 2) l’estensione della rete di relazioni a gruppi che si trovano al di là della parentela; 3) l’ampliamento del gruppo in cui vige la regola esogamica e in ogni caso il divieto di intrattenere rapporti sessuali; 4) la consapevolezza che sono proprio determinate alleanze matrimoniali a essere la premessa oppure la conseguenza di tali rapporti. Se con il noutu un individuo acquista un fratello di sangue, le cui sorelle «un po’ in là nella parentela» possono essere date in sposa a lui stesso o meglio a un suo famigliare, allora il risultato è simile al lutu, benché il meccanismo risulti capovolto in quanto si dà in sposa una propria sorella e quindi il marito viene incorporato non tanto nel gruppo di discendenza quanto nella rete di relazioni esattamente come un fratello di sangue. 5. Costruire al di là della parentela Lo scopo del noutu è aumentare e incrementare. L’arricchimento che ne consegue è particolarmente evidente nell’estensione del reticolo sociale in cui avvengono gran parte delle interazioni. Il noutu è una fase di un’elaborata e meditata tessitura che a partire dal nóbu – cioè dal momento in cui l’individuo è presentato al mondo come facente parte di un gruppo – porta ogni singola persona e l’aggregato domestico di appartenenza ad aprirsi verso l’esterno. Questa apertura orientata strategicamente verso determinati villaggi e famiglie esprime l’idea dell’incremento e dell’estensione. Ora, da un punto di vista sociale, tale apertura rappresenta l’esigenza di una capillare diffusione (come si è visto sopra, nella lingua logo kutú, utú, significa «essere diffuso», «essere sparso») al di fuori dei confini territoriali entro cui si ritrovano i componenti di uno stesso patrilignaggio esogamico. Gli scambi, il commercio, i matrimoni, l’amicizia sembrano essere le ragioni maggiormente sostenute dai locali per giustificare l’alleanza con la cir125
concisione. Oltre che evidenziare tali motivazioni, occorre riflettere sul ruolo dell’apertura all’interno di un particolare e significativo percorso antropo-poietico. Infatti, se bene si comprende l’esigenza di rivolgersi fuori dal gruppo per instaurare alleanze matrimoniali, pare curioso il fatto di prediligere l’apertura al di là della parentela nell’ambito di un rituale di passaggio all’età adulta incentrato sulla circoncisione. È vero che il noutu è più un’alleanza che un’iniziazione, ma qual è il senso della correlazione fra l’alleanza, il moltiplicarsi, l’incrementarsi e la crescita e costruzione di un individuo? Quando l’anziano notabile di Egbunda, Banda Charles (che il lettore incontrerà nuovamente nel sesto capitolo in qualità di esperto di società segrete), afferma che «il noutu è iniziato per riempire delle lacune che si hanno sul posto», tali lacune hanno a che fare solo con esigenze socio-economiche o coinvolgono la costruzione del singolo uomo in base a un progetto di umanità? Quando i locali sostengono che attraverso il noutu ci si arricchisce, si riferiscono soltanto al disporre dei beni immobili dei propri amekenge o il ricorso agli altri contribuisce all’arricchimento del progetto antropo-poietico messo in atto? A questi interrogativi, che reputo cruciali, ho cercato già di rispondere nelle pagine precedenti constatando lo stretto legame tra la riflessione sulla natura dell’uomo e la riflessione sulla natura delle configurazioni sociali. Questo legame è risultato non tanto una premessa quanto il vero senso e significato del noutu, e alla luce di ciò le idee della pluralità e dell’incremento sono apparse centrali non solo nel pensare un gruppo di uomini ma l’essere umano in sé. Rispetto all’immagine precedentemente introdotta del compound (nébha) centrato intorno al négbámú (il riparo degli uomini) e rivolto verso una strada o un sentiero, sono le donne della famiglia a doversene andare lungo la via per collocarsi come spose in un altro villaggio. Gli uomini hanno il dovere di preservare la propria famiglia, incrementare la propria nébha garantendole fortuna; sembra che il noutu esprima proprio queste intenzioni. Il valore della vita di un uomo è inversamente proporzionale alla chiusura nei confini della propria parcelle e del proprio villaggio. Il percorso che conduce dal nóbu al noutu è un passaggio dalla consapevolezza dell’appartenere a un gruppo ben circoscritto (la famiglia, il villaggio) alla consapevolezza dell’insufficienza di 126
tale appartenenza. Questo passaggio sembra simbolicamente rappresentato nel compound attraverso la contrapposizione fra la casa per il riposo notturno (il nédjó da cui esce il neonato dopo la caduta del cordone ombelicale) e il négbámú (il riparo degli uomini aperto ai lati e collocato al centro del compound). Infatti – come è già stato detto (cap. V, § 2) – nóbu non è solo il nome di una cerimonia ma significa collocare il terriccio sull’intelaiatura di una abitazione (nédjó), dare consistenza e chiudere ai lati la casa. Il rituale del noutu invece sembra maggiormente connesso al négbámú, in quanto per mezzo della circoncisione il bambino acquista quella virilità contenuta nei significati dei termini négbama (desiderio sessuale maschile) e négbàmà (giovane uomo), appartenenti allo stesso campo semantico di négbámú la cui caratteristica principale è l’assenza di pareti. Mentre gli édjo si trovano lontani dalla strada e preservano la vita privata della famiglia, il négbámú, collocato nella parte anteriore del compound, è il luogo pubblico per eccellenza, lo spazio idealmente riservato agli uomini nel quale intrattengono i rapporti sociali. Il négbámú è aperto non soltanto in termini architettonici ma soprattutto in termini sociali; è lo spazio dell’incontro e del dialogo; è un luogo ideale da dove si diramano i fili della rete di relazioni la quale non coinvolge soltanto i componenti del patrilignaggio ma si propaga al di là della parentela. Nell’evento rituale del noutu il candidato alla circoncisione prende coscienza della necessità di creare relazioni al di là del gruppo esogamico a partire dagli interessi della sua nébha. La natura di tali relazioni è idealmente rappresentata dalla fratellanza attraverso la circoncisione: l’amicizia, la lealtà verso i consanguinei, l’interesse economico, lo scambio di beni, la possibilità di contrarre matrimoni e più in generale la scelta delle alleanze orbitano intorno a una finzione di fratellanza che è collocata nell’alterità. In quest’ottica l’unione matrimoniale con l’alterità (l’esogamia) è soltanto un aspetto del ricorso all’alterità contenuto anch’esso nei significati e molte volte nelle conseguenze del noutu. L’interpretazione del noutu come evento poietico dell’uomo si arricchisce di un terzo concetto in aggiunta alla pluralità e all’incremento, quello dell’alterità. La pluralità è la condizione necessaria per costruire l’uomo; l’incremento è il fine che accomuna il progetto sull’uomo e il progetto sulla configurazione sociale (la 127
rete di relazioni) in cui l’uomo vive; l’alterità è il mezzo attraverso il quale diventa possibile costruire l’uomo e la configurazione sociale. Non si può diventare uomini chiudendosi nel proprio gruppo, così come non si può incrementare il reticolo sociale senza rispettare le esigenze del proprio patrilignaggio. Per tali ragioni occorre orientare strategicamente il ricorso agli altri; e in effetti la scelta che inaugura l’azione rituale del noutu (cap. III, § 2) è uno dei momenti cruciali nel processo antropo-poietico di un individuo. Attraverso tale scelta si attinge all’alterità (spesso un’alterità «etnica»: budu, lika, asoa ecc.) per costruire se stessi e così facendo si rende meno indistinto l’ambiente sociale che sta al di là del patrilignaggio esogamico. Il noutu non esprime soltanto la necessità della circoncisione per poter un giorno aprirsi al di fuori del patrilignaggio esogamico e instaurare alleanze matrimoniali, ma permette di riflettere in termini più generali sull’esigenza di tale apertura (il ricorso all’alterità) per diventare veri uomini. La riflessione sulla costruzione dell’uomo è irrimediabilmente intrecciata alla riflessione sulla società. L’uomo è la sua rete di relazioni; esso si specchia nella tessitura che a partire dal patrilignaggio esogamico si estende nell’alterità. Pertanto, il fatto che il noutu sia «iniziato per riempire delle lacune che si hanno sul posto» – come sostiene Banda Charles – non è probabilmente interpretabile soltanto come una riflessione sulle risorse di un territorio, ma riguarda il ruolo dell’alterità nella costruzione dell’individuo e della società medje-mangbetu. 6. Una rigida finzione L’alleanza mediante circoncisione dei Medje-Mangbetu porta inevitabilmente ad adottare una prospettiva di analisi incentrata sull’apertura. In tal modo sono emersi confronti comparativi con altri gruppi della regione e riflessioni su concetti quali la pluralità, l’incremento e l’alterità. Si è visto come intorno alla pratica del noutu prenda forma un complesso reticolo vissuto dai locali non certo come qualcosa di accessorio ma come qualcosa di essenziale per il proprio progetto di vita. Dopo aver perlustrato le diramazioni della rete che ha origine 128
dall’alleanza con la circoncisione occorre soffermarsi sul centro di tale reticolo – la stessa fratellanza di sangue – e verificare quale sia il rapporto fra tale centro (la coppia di amekenge) e la «periferia» (l’alleanza agita dagli attori sociali delle due famiglie coinvolte). A ben vedere, se il noutu rappresenta un momento cruciale nella costruzione dell’individuo e della propria rete di relazioni, questi processi poietici orbitano intorno a una fratellanza di sangue che si presenta come una finzione di parentela. Il termine «finzione» è da intendersi qui in un duplice senso. In primo luogo, si «finge» un rapporto naturale (l’essere fratelli), come sottolinea efficacemente Tegnaeus: «l’essenziale della relazione tra fratelli di sangue consiste piuttosto, come si è detto, in una finzione: ‘come se’ fossero fratelli» (1954: 11). In secondo luogo, ciò che risulta è qualcosa di artificioso: la fratellanza di sangue è una costruzione dell’uomo, è un artificio attorno a cui si cerca di realizzare una certa forma di koiné (in questo caso la finzione è da intendersi nel significato vicino all’etimo latino fingo, «foggiare», «modellare», «costruire»). È bene precisare che il primo significato (l’idea del fingere di essere fratelli) non si presenta in tutti i contesti etnografici nello stesso modo. Evans-Pritchard (1933) sostiene, per esempio, che fra gli Zande la fratellanza di sangue non è tanto una questione di parentela (fittizia) quanto di forza magica del sangue; Maurice Hocart imposta interamente il suo contributo sullo studio dello scambio rituale del sangue (1935) proprio sulla non fratellanza dei fratelli di sangue. Anche in questo libro si è preferito non insistere particolarmente su una visione del noutu come ampliamento dei legami patrilineari (un ampliamento della consanguineità); infatti fra i Medje-Mangbetu, benché si utilizzi il linguaggio della parentela, ciò che si realizza è un’alleanza al di là della parentela stessa: è un modo per attingere nell’alterità al fine di costruire se stessi e la propria rete di relazioni. Nell’ambito del noutu, l’intera rete di relazioni vissuta attraverso l’ospitalità, lo scambio di beni, di prestazioni e di donne, orbita intorno a un rapporto espresso con il linguaggio della parentela e della consanguineità. Inoltre, alla dinamicità formale del reticolo (il quale, come si è visto precedentemente, si presenta sfilacciato e mutevole nella sua struttura) si contrappone la rigidità della fratellanza di sangue, in conseguenza della quale si diventa 129
amekenge per tutta la vita, e il tradimento della fratellanza comporta spiacevoli conseguenze, compresa la morte stessa dei contraenti e dei loro famigliari. Il quadro che emerge è formato da relazioni dinamiche tessute attorno a una rigida finzione; la base su cui poggia la rete di relazioni presenta caratteristiche (finzione e rigidità) opposte a quelle della rete stessa (scambi reali e dinamicità). Se con il termine koino-poiesi si intende la generica strutturazione di un gruppo (comunità, Stato, rete di relazioni), allora è possibile rintracciare altre «rigide finzioni» collocate nel centro di una koiné allo scopo di attribuire un senso e una legittimazione alla specifica modalità con cui si stanno «tenendo insieme» esseri umani. Per esempio, nell’antico regno del Burundi, al centro dell’organizzazione politica si trovava un vecchio tamburo (Allovio 1997). Karyenda (questo è il nome del tamburo) era il simbolo dell’intero regno e la morte dei singoli sovrani non metteva fine al suo potere. Karyenda era una invenzione, una finzione (nel senso di costruzione) degli uomini, e la sua esistenza poteva addirittura essere messa in dubbio, in quanto restava sempre occultato in uno specifico capanno avvolto in stuoie, uscendo soltanto durante la festa annuale della semina del sorgo. Karyenda si trovava al centro di una raffinata organizzazione politica e rappresentava la fonte di legittimazione per governare il paese, pur essendo un vecchio tamburo costruito dagli uomini di cui si potrebbe dubitare persino l’esistenza. Karyenda era una reificazione (si potrebbe dire «sacralizzazione») che esprimeva l’appartenenza a un determinato gruppo. Il Noi dei Barundi veniva costruito a partire da un vecchio tamburo trattato «come se» fosse un vero individuo con il suo capanno, una sua vestale ecc. La costruzione della realtà sociale in questione (il regno del Burundi) poggia sulla costruzione e sulla reificazione di un tamburo emblema dell’intero regno. Attraverso un altro esempio che ci giunge dalla Nuova Britannia Occidentale, è possibile nuovamente intrecciare i processi antropo-poietici con quelli koino-poietici incentrati ancora una volta su una rigida finzione. Nell’area della boscaglia Kaliai, il rito di iniziazione all’età adulta prevede che un mostro (il tambaran Varku) ingurgiti gli iniziati, i quali rinascono dalla bocca del mostro solo dopo averlo saziato con un maiale (Lattas 1989). Quando i ragazzi giungono nel recinto dell’iniziazione non viene pre130
sentato loro nulla di misterioso, di sacro e di segreto, e neppure vengono loro impartiti speciali insegnamenti. Gli uomini adulti si limitano a spiegare che Varku è in realtà una menzogna, un trucco: «noi uomini siamo il vero tambaran» essi dicono, eppure il trucco serve per costruire una certa realtà sociale in cui le donne terrorizzate restino obbedienti e disciplinate7. Così come la forza di Varku risiede nella sua finzione (è un trucco per mezzo del quale gli uomini si impongono sulle donne), anche la fratellanza di sangue diventa un rapporto inviolabile proprio perché finto (costruito) e gli stessi informatori sottolineano quanto sia più forte il legame fra amekenge rispetto al legame tra fratelli naturali. L’incremento della propria rete di relazioni al di là della parentela (del patrilignaggio esogamico) è ambiguamente sospeso fra la naturalizzazione e l’artificiosità. Da una parte si getta un ponte verso l’alterità utilizzando il linguaggio della «consanguineità», dall’altra si sottolinea la maggiore rigidità e forza di un rapporto di fratellanza «finto». La forza del rapporto fra amekenge risiede proprio nel fatto di non essere una fratellanza «naturale», ma un legame artificiale costruito dagli uomini. In questo senso l’idea dell’artificio rimanda alla scelta che sta alla base di ogni evento rituale denominato noutu: a differenza dei legami di filiazione e di siblingship, nell’alleanza mediante circoncisione si scelgono, in un ventaglio di possibilità teoricamente illimitate, i propri fratelli e si costruisce con essi e con i loro gruppi di appartenenza una relazione ben più salda e inviolabile rispetto ai legami della parentela biologica. Questo primato che l’artificio, la possibilità e la scelta hanno su ciò che si presenta come naturale e necessario esprime in fondo il primato della cultura sulla natura nei processi di costruzione dell’uomo (antropo-poiesi) e della propria rete di relazioni (koino-poiesi), processi di costruzione che – a causa della carenza istintiva (naturale) dell’uomo – si realizzano solo con trucchi, artifici, finzioni culturali. Questa argomentazione rimanda al racconto, riportato nel primo capitolo, in cui si escogitava un trucco per raggiungere il termitaio, simbolo dell’unità e della strutturazione, la cui perfezione veniva irrimediabilmente relegata fuori dal mondo degli uomini. È mediante un trucco che si riesce a possedere un termitaio. In altre parole, l’essere umano manchevole dell’istinto delle termiti riesce a costruire, a strutturare una koiné per mezzo di un artificio. 131
7. Costruire contro corrente Sempre nel primo capitolo, in contrapposizione all’immagine del termitaio (connessa all’idea della strutturazione) si è introdotta l’immagine del fiume (connessa all’idea del flusso). L’importanza del fiume nella cultura medje-mangbetu è dovuta innanzitutto al fatto che la percezione del territorio si basa sulle coordinate spaziali zebu e zebo, che significano rispettivamente «a valle» e «a monte» di un fiume. Considerando che tutti i più importanti fiumi della regione scorrono da est a ovest, tali coordinate diventano ancora più pregnanti, in quanto anche il «cammino» del sole procede come le acque da zebo a zebu. Dialogando con i locali non è raro che l’immagine del flusso dell’acqua venga utilizzata per descrivere il fluire della vita umana; come testimonia il proverbio Nekoko ogwea a mezebo ogwea sia mezebu, «la piroga non invecchia (non marcisce) a levante, invecchia verso ponente». Il tempo passa così come l’acqua scorre via e il sole tramonta; zebu non è più soltanto una direzione ma diventa il luogo dell’oblio, della vecchiaia e della morte, un luogo carico di valenze negative con il quale inesorabilmente ogni essere umano deve confrontarsi. Se la corrente del fiume porta via «la piroga della vita», è anche vero che nel corso della propria esistenza si cerca di resistere alla corrente e quanto meno «gettare» a zebu la malasorte e tutto ciò che è considerato svantaggioso. Il lavaggio al fiume viene spesso associato all’abbandono di uno stato di disagio: ci si lava le mani al fiume per suggellare la composizione di una disputa; ci si immerge per guarire da certe malattie o per porre fine al lutto o al periodo di guarigione dopo la circoncisione. Durante le fasi conclusive del noutu si ricorre più volte alla simbologia associata a zebu. La sera successiva al lavaggio al fiume i circoncisi devono lanciare la freccia verso ponente e subito dopo recarsi in una nébha a zebu per trascorrervi la notte. La freccia secondo l’interpretazione dei locali trasporta la malasorte verso valle, mentre durante la notte trascorsa a ponente il circonciso completa la sua «purificazione» abbandonando a zebu i residui della sfortuna che «esce durante il sonno». Quello che vorrei sottolineare è che la simbologia connessa a questi gesti rituali non riguarda soltanto un’auspicabile buona sorte capace di segnare la vita dei singoli circoncisi, ma esprime 132
valori riconducibili all’antropo-poiesi e alla koino-poiesi. A ben vedere, non si tratta soltanto di «gettare via» la malasorte e contemporaneamente resistere alla corrente, ma di riprodurre – o meglio di inscrivere – nello spazio rituale orientato lungo l’asse zebuzebo il progetto di umanità e di società contenuto nel noutu e riassumibile nei concetti di pluralità, incremento e alterità. L’intera sequenza rituale può essere interpretata come un alternarsi di fasi vissute dai circoncisi in solitudine con fasi vissute dai circoncisi come gruppo. 1) I candidati vengono trasportati dal circoncisore uno alla volta e l’operazione deve essere affrontata in solitudine; avere coraggio e resistere al dolore è una questione personale difficilmente condivisibile con i propri compagni di circoncisione. 2) Il periodo di guarigione viceversa è vissuto in gruppo: i circoncisi dormono nella stessa nébha, consumano lo stesso cibo, sono soggetti alle stesse regole e divieti, eseguono le stesse azioni quotidiane. Pur rappresentando una pluralità di individui, non sono ancora realmente amekenge (fratelli di sangue) e quindi permangono nella loro alterità reciproca. Uno degli scopi principali perseguiti dai circoncisi durante il periodo di guarigione è quello di catturare nella boscaglia intorno alla nébha piccoli animali da consumare insieme al netonyo nel giorno della festa finale. La caccia si svolge singolarmente, ma le prede catturate contribuiscono ad aumentare un pasto comune che sancisce l’unione e il patto di fratellanza fra gli amekenge. La lenta guarigione delle ferite è abbinata a una prima presa di coscienza di ciò che vuol dire essere fratelli: si caccia per il gruppo e non per se stessi, o meglio, si caccia per costruire il gruppo incrementando il contenuto del pasto del netonyo. Se il noutu è un rito di passaggio interpretabile come rito trasformazionale, ciò che subisce una trasformazione non è tanto il singolo circonciso quanto la pluralità dei bambini, i quali attraverso la caccia si comportano per la prima volta come se fossero un gruppo di amekenge. 3) La terza fase del rituale è nuovamente incentrata sul singolo. I circoncisi si recano uno alla volta al fiume dove vengono immersi nell’acqua, vestiti e singolarmente frustati lungo la via del ritorno. In questa fase il circonciso affronta zebu in solitudine, lancia la freccia in cui è infilzata la propria malasorte e si reca in una nébha (a lui assegnata) situata a valle rispetto al luogo della cir133
concisione per trascorrervi la notte. L’abbandono dello stato di neigwa è nuovamente una questione personale; ciò che viene trasformato non è il gruppo ma il singolo. 4) L’ultima fase ha inizio la mattina seguente, quando i circoncisi abbandonano le ébhá situate a zebu dove erano stati inviati per trascorrere la notte. La risalita verso zebo (verso levante) è un passaggio dalla solitudine della «purificazione» alla piena realizzazione del gruppo di amekenge. Se la direzione della risalita è zebo, il punto conclusivo del tragitto è la pentola del netonyo intorno alla quale si ritrovano i compagni di circoncisione che sanciscono la nascita di una unione particolare (quella fra amekenge). La direzione zebu si connette alla vita del singolo individuo, presenta le caratteristiche dell’ineluttabilità e simboleggia il naturale corso della vita; la direzione zebo si connette invece ai tentativi di mettere insieme gli uomini, presenta le caratteristiche della costruzione (della finzione) e simboleggia il percorso di creazione di una koiné. Verso zebu si inscrive la vita biologica dell’uomo: ogni uomo ha un suo proprio personale «decorso» biologico; verso zebo si inscrive la vita culturale e sociale dell’uomo, la quale è irrimediabilmente legata alla pluralità di individui con cui si interagisce (e con cui si sceglie di interagire). L’ineluttabilità della discesa biologica verso zebu è indubbiamente un ostacolo temporale ai tentativi di costruzione simbolicamente connessi alla direzione opposta. La canzone con cui i bambini durante le prime ore del mattino esortano il circoncisore a effettuare l’operazione («sambee neyko awoda»: «nesamba circoncidimi perché il sole sta calando») esprime il senso della lotta fra l’inarrestabile flusso del tempo e il desiderio di costruire (un gruppo di amekenge, relazioni sociali, rapporti matrimoniali), prima che la parabola della vita brevis si concluda. L’azione rituale del noutu mette in scena un percorso antropopoietico che significativamente prende le sembianze di un progetto koino-poietico. L’uscita dal fiume e il successivo tragitto che conduce i circoncisi da zebu a zebo è un tragitto di strutturazione lungo il quale si propone un modello per mettere insieme una pluralità di individui. Per dirla con Gehlen, l’uomo dirige la propria vita verso un tentativo di strutturazione il quale, nel caso in questione, prende le sembianze di un gruppo di amekenge seduti intorno a un cibo da condividere. A ben vedere, il punto iniziale di 134
questo capitolo (l’uomo come essere carente) e quello finale (la strutturazione in una koiné) coincidono con la premessa principale e la conclusione dell’intera argomentazione gehleniana sintetizzata efficacemente da Karl-Siegbert Rehberg: Lo «schema antropologico» che Gehlen delinea muove dal concetto di azione e definisce l’uomo come «essere da disciplinare» (Wesen der Zucht), che appunto a causa della sua incompiutezza è costretto a strutturarsi (1990: 10).
Lungi dal voler riesumare la teoria sociale fondata sui principi dell’ordine, della disciplina e dei «sistemi guida superiori» in cui sfocia la riflessione gehleniana in perfetto accordo con i valori del nazionalsocialismo tedesco, mi pare tuttavia interessante l’intuizione di Gehlen concernente il nesso fra la plasticità, l’apertura e la non-definitezza dell’uomo con l’esigenza di una qualche forma di strutturazione sociale (mettere insieme, unire, una pluralità di individui). In considerazione del fatto che i tentativi di strutturazione non si limitano soltanto alla sfera politica, ma possono presentarsi nei più disparati ambiti della vita sociale, e che quindi il potere non è l’unico dominio in cui possono emergere istituzioni strutturanti, sembra opportuno riflettere sul tipo e il grado di strutturazione che emerge in conseguenza del noutu. L’immagine che ho maggiormente utilizzato per rappresentare l’alleanza tramite la circoncisione è stata quella della rete di relazione, la quale, benché orbiti intorno a una rigida finzione, assume le sembianze di un reticolo sfilacciato che si annoda con altri reticoli. Ciò che prende forma non è certo l’ordinato mondo del termitaio abitato da esseri perfettamente disciplinati (l’immagine in cui ci si è imbattuti all’inizio del libro) ma una rete di alleanze caratterizzata da un forte dinamismo interno e da una elevata apertura e variabilità. Attraverso il noutu avviene un tentativo di strutturazione per nulla riconducibile all’immagine del termitaio contrassegnata dalla compattezza, dalla rigidità e dalla netta delimitazione. Nella società medje-mangbetu l’immagine del termitaio si connette maggiormente al tentativo di strutturazione per mezzo della società segreta nebeli, un modo per creare un gruppo di individui che si presenta del tutto diverso dalla rete di relazioni che sca135
turisce dal noutu. Il capitolo successivo sarà appunto dedicato all’analisi del nebeli, un’associazione di persone anch’essa basata su un progetto di costruzione dell’uomo in cui l’antropo-poiesi sfocia in una koino-poiesi.
Capitolo sesto
Allearsi con i segreti
Gli uomini subiscono l’eredità del passato e [...] l’adattano in un progetto per il futuro. Così Poma percepisce il mondo coloniale attraverso le tradizionali categorie indigene e legittima il ritorno a un ordine primordiale. Nathan Wachtel La visione dei vinti
1. Società segrete in Congo Non di rado mi sono chiesto perché mai a partire da un certo momento del mio soggiorno sul campo iniziai insistentemente a fare domande sul nebeli, la società segreta della regione. Per tranquillizzare il lettore sull’attendibilità e validità delle mie connessioni e dei miei percorsi di ricerca dovrei fornire una risposta chiara, logica e razionale, tuttavia, mi capita – soprattutto nelle vesti di antropologo – di maneggiare i pensieri e le riflessioni come fossero fili e corde: li stendo, li tiro, li annodo, li raggomitolo, li raccolgo e spesso, molto spesso, li aggroviglio. Poi succede che davanti a incredibili grovigli, prima di innervosirmi, rimango meravigliato e mi chiedo appunto in che modo si siano velocemente creati nodi così complessi e inestricabili. La ricerca sul campo vuol dire anche fare i conti con i grovigli e con la meraviglia, e nei giorni in cui si è entusiasti e fiduciosi i grovigli diventano reticoli e la meraviglia la si intende nel senso fornito da Platone nel Teeteto: l’atto che suscita l’amor di sapienza. 137
Tornando alle società segrete e considerato che per gli antropologi i dialoghi con gli indigeni sono più importanti dei dialoghi platonici sono convinto che furono i miei collaboratori e gli informatori, durante le nostre chiacchierate sulla foresta, sui termitai e sulle alleanze, a condurmi lentamente e più o meno involontariamente verso le società segrete. Come si vedrà in questo capitolo è in foresta che si radunano i membri del nebeli, è verso un termitaio che l’adepto alla società segreta deve strisciare durante l’iniziazione ed è proprio un’alleanza al di là della parentela ciò che si crea. Quando Banda Charles, un informatore del villaggio di Egbunda, incominciò a parlarmi di società segrete e di circoncisioni, la meraviglia nei confronti di quel nodo inestricabile aumentò sensibilmente: Il nebeli è una specie di alleanza come il noutu. Se c’è uno Zande o un Budu del nebeli che viene qui deve necessariamente avere contatti con colui che qui è del nebeli. Trascorrerà la notte nella casa di chi come lui fa parte del nebeli. È un’alleanza che non tiene conto delle tribù.
Ancora una volta, l’idea dell’alleanza «al di là della parentela» si impone nella descrizione delle relazioni sociali medje-mangbetu. Infatti, prima ancora di apparire come un’unità sociale chiusa, il nebeli viene presentato dagli stessi indigeni come un meccanismo di apertura al di là dei confini della parentela, come un modo particolare per «mettere insieme» individui non parenti. Alla luce di ciò pare importante connettere il noutu al nebeli evidenziando le analogie e le differenze, consapevoli di ampliare ulteriormente gli orizzonti di una riflessione indigena sul concetto di alleanza, in cui i processi antropo-poietici si intrecciano a tentativi koino-poietici. La connessione fra riti di circoncisione e società segrete risulta evidente proprio in relazione ai processi antropo-poietici messi in atto in determinate culture. Infatti in alcuni contesti etnografici dopo essere diventati uomini attraverso i riti di iniziazione alla vita adulta è possibile diventare uomini perfetti o comunque rientrare in una categoria di individui dotata di poteri, capacità e prestigio particolari come è il caso dei membri delle società segrete1. 138
L’appartenenza a una associazione segreta può essere interpretata come il raggiungimento di un ulteriore stadio del proprio processo antropo-genetico. Un caso emblematico è l’adesione alla società koro fra i Minyanka dell’Africa occidentale (Colleyn 1975): appartenere a tale «confraternita» vuol dire raggiungere il limite ultimo della perfettibilità umana e l’iniziazione al koro è inseparabile dall’accesso allo status di maschio adulto: infatti solo i circoncisi possono farne parte e nei villaggi dove esiste il koro tutti i maschi adulti non iniziati sono considerati donne. Come giustamente sottolinea Edouard De Jonghe, «le società segrete indigene [dell’Africa] sono società chiuse, piuttosto che società realmente segrete. I profani conoscono gli adepti; sanno dove e quando questi si radunano, ma ignorano ciò che si dicono e ciò che fanno durante le riunioni» (De Jonghe 1923: 388). Di solito queste associazioni si presentano come unità sociali all’interno di gruppi umani più ampi; anzi, l’esistenza e la forza di una società segreta dipende dal fatto che molti membri della popolazione in cui è inserita non vi aderiscono. Nei primi decenni dell’occupazione belga in Congo, le cosiddette società segrete (molte di esse costituite da poco o addirittura in concomitanza all’arrivo dei bianchi) furono oggetto di interesse per molti amministratori coloniali e studiosi, in quanto apparivano e non di rado agivano come associazioni sovversive e xenofobe oppure come movimenti profetici ispirati da interpretazioni fantasiose dell’Antico Testamento e incentrati sulla rivincita dei neri oppressi (De Jonghe 1936, Comhaire 1955). Fin dai primi resoconti etnografici apparve estremamente difficile racchiudere le differenti società segrete del Congo in un’unica tipologia; tali istituzioni infatti si differenziavano per struttura, scopi e funzioni. Alcune associazioni potevano essere assimilate a sette religiose: è il caso delle società segrete kimba e kimpasi, la prima diffusa nella regione del Mayombe, la seconda originaria dell’Angola settentrionale e diffusasi soprattutto fra i Bakongo (Duysters 1924). La società segreta dei Lega e dei Bembe, denominata bwami, e l’associazione degli uomini leopardo (aniota) dei Babali (Bouccin 1936) avevano uno scopo prettamente politico2, mentre appartenere alla società segreta di origine zande denominata mani (Evans-Pritchard 1931, Windels 1940) significava incrementare la propria forza e ricchezza. Quando gli europei arrivarono nel 139
bacino del Congo, alcune associazioni segrete erano in pieno declino – come la società babende presso i Bakuba (De Jonghe 1923: 395) – mentre altre stavano emergendo e imponendosi su ampi territori (è il caso della società indongo della regione dell’Equatore). Rispetto alla prospettiva adottata in queste pagine, tendente a evidenziare congiuntamente l’antropo-poiesi e la koino-poiesi, risulta particolarmente interessante suddividere le associazioni segrete o chiuse in due categorie: a) esistono società segrete che si connettono ai rituali di iniziazione alla vita adulta, in quanto rappresentano un’ulteriore specificazione nel processo antropo-genetico di ogni singolo individuo. L’appartenenza a una società segreta è riservata a coloro che sono già stati iniziati come uomini e che desiderano – attraverso un’iniziazione supplementare – specificare ulteriormente una personale ed esclusiva identità. In tali società è facile che siano ammessi soltanto individui con particolari caratteristiche (es. maschi adulti e circoncisi) e che la società stessa si diffonda solo su un territorio circoscritto e abitato da un unico gruppo etnico o da più gruppi aventi forti analogie culturali. Rientrerebbero in questo raggruppamento la già citata società koro dei Minyanka e in un certo senso l’associazione degli uomini leopardo (aniota) probabilmente connessa al mambela (il rito di iniziazione dei Babali); b) altre società segrete sembrano invece svincolate dai riti di iniziazione alla vita adulta e l’appartenenza ad esse non è il raggiungimento di un’ulteriore tappa nel processo antropo-genetico. Le associazioni che rientrano in questo raggruppamento non sono solitamente riservate a una categoria specifica di persone determinata dal sesso, dall’età o dallo status sociale. Inoltre è raro che tali società segrete si diffondano soltanto entro i confini etnici di un gruppo. In questa categoria si possono annoverare la società di origine zande denominata mani, la società butwa diffusa in tutto il Katanga e nello Zambia settentrionale (Anon 1948, Musambachime 1994) e il nebeli, l’associazione segreta diffusasi nei domini mangbetu. Le società mani, butwa e nebeli, oltre a essersi diffuse ovunque a partire dalle alte terre dell’est (rispetto al bacino interno del fiume Congo), sono accomunate dal fatto di avere adepti di entrambi i sessi e di tutte le età, di essere svincolate da ogni altra forma di iniziazione «tribale», di orbitare intorno ai valori della forza e 140
della ricchezza personale, di intrattenere rapporti di mutuo soccorso che trascendono la famiglia, i vincoli clanici e i confini etnici, favorendo così un’ampia diffusione della stessa istituzione. Nei territori occupati dai Medje-Mangbetu del sud sembrerebbe che la società segreta nebeli sia ancora diffusa fra la popolazione indigena, la quale – in considerazione delle caratteristiche sopra espresse – considera tale istituzione una forma particolare di alleanza per alcuni aspetti simile al noutu. 2. Origine e diffusione del «nebeli» Le interviste che ho svolto sotto il négbámú con i locali non erano tutte uguali; quando le domande passavano dal noutu al nebeli era palpabile la paura e l’attenzione nel rispondere in modo appropriato. La prima volta che mi recai da Banda Charles, un notabile del villaggio di Egbunda e grande conoscitore del nebeli, rischiai quasi di essere cacciato in malo modo; non era facile parlare del nebeli, molti informatori, nel farlo esigevano la massima discrezione e l’anonimato. In tale situazione è inevitabile che i dati raccolti direttamente sul campo risultino parziali, frammentari e particolarmente «filtrati» e contribuiscano solo in parte a ricostruire un fragile mosaico. Malgrado ciò, diversamente dalle tematiche concernenti il noutu, è stato possibile arricchire il mosaico con preziose informazioni inerenti il nebeli contenute in alcune fonti scritte e basate su dati raccolti in differenti aree in un arco di tempo abbastanza ampio. Il fatto di disporre di informazioni raccolte in territori distanti fra loro e occupati da differenti gruppi etnici e di poter confrontare tali notizie con i dati raccolti sul terreno permette di evidenziare alcuni elementi che significativamente ritornano nelle varie ricostruzioni e nelle interviste effettuate durante i miei soggiorni, in modo tale da fornire un quadro il più possibile corrispondente a ciò che presumibilmente avveniva e ancora avviene nelle riunioni segrete degli appartenenti al nebeli. La maggior parte delle società segrete del Congo (fra le quali il nebeli) nascono attorno a un potente ritrovato capace di soddisfare i desideri dei membri dell’associazione conferendo salute, fortuna, potere, vendetta ecc. 141
Uno stregone pretende di avere scoperto un rimedio nuovo, molto più potente di tutti gli altri [...]. Questo si propaga con una rapidità straordinaria. Tutti i villaggi che l’adottano pagando, cercano di passarlo al villaggio vicino facendosi pagare (De Jonghe 1936: 56).
La società segreta sembrerebbe nascere soltanto in un secondo momento, quando gli adepti, sempre più numerosi, sentono l’esigenza di organizzarsi. Il nebeli appare inizialmente connesso ai ritrovati «magici» dei pescatori che vivono lungo il Uele e in particolare alla lotta di tali popolazioni contro gli spiriti che abitano i corsi d’acqua; il legame fra il nebeli e i fiumi è confermato da una breve ed esplicita allusione al «nebeli delle acque» contenuta nel racconto di viaggio dell’esploratore italiano Gaetano Casati (1891: 96). I primi riferimenti al nebeli riportati dalla tradizione orale sono legati alle vicende che videro il re mangbetu Nabiembali fronteggiare la rivolta di schiavi capeggiati da Dakpala, uno schiavo matchaga che riuscì a imporsi nei territori settentrionali del regno mangbetu fondando una propria dinastia (Denis 1961). I Matchaga sconfissero i Mangbetu con l’aiuto del ritrovato magico denominato nenzula (il più importante del nebeli) che una donna bangba-baya riuscì a somministrare a Nabiembali riducendone la forza (Schildkrout e Keim 1990: 190). Anche Yangala (figlio dello schiavo fondatore della dinastia matchaga) utilizzò il nebeli contro il re Munza nel 1873 e per difendersi dai primi soldati inviati dal sovrano Leopoldo nel 1890. I successi militari dei Matchaga spinsero i capi mangbetu a introdurre nelle loro corti la pratica del nebeli; soltanto in un secondo tempo – durante gli anni della conquista coloniale – tale istituzione si diffuse in modo capillare fra la popolazione. Gli studiosi che si sono occupati del nebeli sono concordi nell’identificarne la zona di origine nei territori settentrionali rispetto agli insediamenti medje-mangbetu: per Delhaise-Arnould (1919: 284) sono stati i capi abarambo, mangbetu e baboa ad aver creato la società segreta per opporsi all’invasione zande; secondo Lagae (1926: 123), il nebeli è apparso inizialmente fra i Mayogo per poi diffondersi fra gli Abarambo e gli Amadi, mentre è fra i domini di questi ultimi che sarebbe sorto secondo Philippe (1962: 98). Le interviste condotte direttamente sul terreno hanno con142
fermato l’origine nei territori settentrionali e la lenta diffusione verso sud. Un aspetto che accomuna l’evoluzione storica di molte società segrete è che la loro diffusione fra la popolazione avviene di pari passo con l’affermarsi del sistema coloniale. Infatti, indipendentemente dalla reale ricostruzione della diffusione del nebeli (e dei ritrovati magici abbinati ad esso), è particolarmente interessante notare che il diffondersi capillare della società segreta coincide con l’arrivo degli europei. Se il punto di partenza è la credenza nella forza di una determinata sostanza dotata di poteri particolari, il punto di arrivo è un’organizzazione chiusa e diffusa in modo capillare sul territorio (in alcuni casi affiancata dai capi indigeni, in altri contrapposta al potere politico), la quale si trasforma in associazione «segreta» nel momento in cui viene osteggiata dai nuovi amministratori coloniali e vista come una risposta sovversiva al nuovo sistema imposto. L’ipotesi di questa evoluzione – comune a molte delle cosiddette società segrete – che conduce dal ritrovato magico all’associazione chiusa e in ultimo alla società segreta in risposta al potere coloniale è condivisa, oltre che da Edouard De Jonghe (1936), anche da Evans-Pritchard, il quale considera l’affermarsi della società segreta mani fra gli Azande una reazione al colonialismo che ha origine nella «detribalizzazione dei nativi» (1931: 107). Le dinastie che regnavano nella regione, prime fra tutte quelle degli Avungara e dei Mangbetu, furono inizialmente contrarie all’affermarsi di associazioni chiuse e presunte potenti, in quanto si inserivano nel tessuto sociale come possibili forme di contropotere. Con l’affermarsi dell’amministrazione coloniale i capi riabilitarono e utilizzarono le società segrete per mantenere e perpetuare il loro potere irrimediabilmente compromesso e reso sterile dai nuovi dominatori; ciò sembra essere accaduto in particolare nei domini dei Medje-Mangbetu del sud (Schildkrout e Keim 1990: 191). Riguardo al rapporto fra potere politico e società segrete, Lanciné Sylla (1980: 95) sostiene che, in assenza di veri e autorevoli capi politici capaci di mantenere l’ordine sociale attraverso una struttura centralizzata del potere, possono essere le stesse società segrete a colmare il vuoto politico, a mantenere la pace e comporre le dispute. Probabilmente anche durante gli stravolgimenti del periodo coloniale i capi e le popolazioni indigene han143
no percepito il nuovo assetto politico-amministrativo come un annullamento del tradizionale ordine politico e in tal modo si spiegherebbe il massiccio ricorso a nuovi meccanismi di controllo sociale autoctoni come le società segrete. Le strutture socio-politiche tradizionali (il potere dei clan, i tentativi di centralizzazione delle singole Case) e la contrapposizione più o meno conflittuale fra differenti domini inibivano alternative koino-poietiche, mentre la nuova pax belgica e l’imposizione dall’alto di un nuovo ordine sociale favoriva lo sviluppo di forme associative indigene interetniche, che diventavano segrete nel momento in cui assumevano un atteggiamento xenofobo e anti-coloniale. La forza politica del nebeli come nuova forma di alleanza traspare chiaramente dalle parole di De Calonne-Beaufaict: [il nebeli] ingloba non soltanto tutti i guaritori e i capi delle popolazioni del distretto del Uele, dell’alto Ituri e di una parte dell’Aruwimi, ma interessa già attualmente i distretti dei Bangala e dell’Ubangi. La maggioranza del personale indigeno in servizio nelle postazioni degli Europei di questa regione è iniziata. Tutto ciò spiega come alcuni capi Baboa siano in relazione continua con certi capi Abarambo, Mangbetu e Azande, a distanze sovente superiori ai seicento chilometri e che un tempo consideravano nemici, o ignoravano completamente (1909: 395).
Quello che preme sottolineare è che – analogamente all’evoluzione del noutu, in cui si assiste alla «metabolizzazione» dell’iniziazione in una forma di alleanza i cui confini trascendono le appartenenze claniche ed etniche svuotate e rese sterili dal nuovo ordine coloniale – anche nell’evoluzione del nebeli si osserva l’affermarsi di un meccanismo di alleanza, un nuovo modello per mettere insieme e tenere uniti una pluralità di individui. Il noutu e il nebeli sono risposte collettive, plurali, che emergono da uno scenario in cui le antiche appartenenze sono svuotate di ogni senso e di ogni effettiva pregnanza. 3. I segreti della foresta I racconti sul nebeli conducono in foresta, lontano dagli insediamenti e da sguardi indiscreti. Nascosto nella vegetazione c’è il re144
cinto, denominato nébasa, dove si radunano gli adepti della società. Secondo Banda Charles, ogni groupement ha il suo nébasa e in ogni zona della regione i nebelisti3 hanno un proprio luogo per le riunioni. L’abbinamento di ogni unità amministrativa (il groupement) con un nébasa – benché non mi sia stato confermato da altri – appare un’informazione interessante al fine di comprendere come il nebeli venga percepito alla stregua di una società parallela all’interno dell’organizzazione socio-politica ufficiale. Dai dati raccolti non esisterebbe una gerarchia o una sorta di coordinamento fra le varie ébasa, e i contatti fra gli aderenti al nebeli di zone diverse sarebbero lasciati alle iniziative dei singoli, mentre esisterebbe una gerarchia interna a ogni singolo nébasa. De Calonne-Beaufaict (1909: 394) suddivide gli appartenenti al nebeli fra i Baboa in due categorie: i capi «completamente iniziati» (amenzia) e il resto degli adepti (madzogo), mentre tutti coloro che si trovano fuori dalla società sarebbero denominati mambambu. Delhaise-Arnould (1919: 285) riporta una suddivisione più articolata comprendente cinque categorie di nebelisti fra cui i capi (lubasa), i soli che possono costruire un nuovo nébasa, che possono accendere il fuoco sacro, indire riunioni, dirigere i rituali. Abule Abuotubodio (1994: 32), riporta la gerarchia del nebeli secondo Mazambula Toto, Chef de groupement Ambuma, intervistato a Mopina nel 1993: i responsabili del nébasa e delle cerimonie sono chiamati lubasa, i neofiti djakangbele e i finalisti dimando. Ad eccezione del termine lubasa, connesso in quasi tutte le fonti ai capi e ai più alti dignitari del nebeli, non c’è accordo fra le diverse fonti per ciò che concerne il resto della gerarchia, la quale sembrerebbe – escludendo la ricostruzione di Delhaise-Arnould, per altro non confermata in altre fonti e interviste – una diversificazione fra i differenti gradi di iniziazione alla società più che una vera gerarchia. L’idea della società chiusa incentrata su un potente ritrovato (denominato di solito nzula) viaggia nel tempo e nello spazio adattandosi alle differenti società in cui trova fortuna. In modo analogo, l’organizzazione interna al nébasa e tutto il percorso iniziatico al nebeli non si presenta uguale nei vari gruppi: tutt’al più – come si è già visto analizzando il noutu – emergono elementi ricorrenti e una sorta di canovaccio rituale comune. Consapevoli del limite di un procedere comparativo teso a definire esclusivamente il 145
«nocciolo strutturale» (Scarduelli 1992: 83-92) senza valorizzare le differenze, si ritiene comunque opportuno ricostruire un quadro (forse più ideale che reale) di ciò che avveniva nelle varie ébasa nascoste in foresta al fine di permettere un successivo confronto con il noutu. In altre parole, se la scarsità di informazioni non consente di valorizzare le differenze regionali del nebeli, si ritiene proficuo introdurre una sufficiente quantità di elementi in modo da fare emergere successivamente somiglianze e differenze fra le due forme di alleanza (noutu e nebeli). In un volume di inizio secolo della rivista «Onze Kongo» è riportata una foto che ritrae parzialmente un luogo di riunione del nebeli (Bauwens 1913-14); ciò che si vede è soltanto una parte del recinto che separa lo spiazzo per le danze dalla foresta circostante. Nel centro del recinto si dovrebbe trovare un grande edificio rettangolare nel quale, durante le riunioni prendono posto, in posizione elevata, i più alti dignitari del nebeli denominati in molte fonti lubasa o semplicemente «costruttori» e gli altri membri della società (De Calonne-Beaufaict 1909: 394; Philippe 1962: 98). Nell’edificio è collocato un fuoco sacro mantenuto sempre acceso dalla sola coppia che vive stabilmente nel nébasa. I due addetti al fuoco (diriane) restano in carica per alcuni anni prima di venire sostituiti da altri (Lagae 1926: 124). Delhaise-Arnould sostiene che il nebeli in realtà è il fuoco sacro situato nel mezzo del nébasa: Il nebeli è un fuoco sacro. Non può avere origine da un fuoco profano, ma solo da un altro. Si può ottenere solo sfregando due bastoni di nakase, a meno di prenderlo da un altro fuoco sacro. Non può mai spegnersi, se succede il costruttore del tempio morirà. Non lo si può utilizzare per alcuno scopo profano (1919: 289).
Nei pressi della grande costruzione è riservato uno spazio ai musicisti e ai limiti del recinto vengono costruiti dei ripari destinati ai novizi. In alcune fonti si parla di una piccola capanna collocata nei pressi del grande edificio, secondo Delhaise-Arnould (1919: 287) contenente non precisati feticci, secondo Abule Abuotubodio (1994: 32) e un informatore di Egbunda che desidera mantenere l’anonimato, un corpo umano mummificato. In una zona non precisata del recinto – probabilmente in corrispon146
denza di una apertura verso la foresta – si trova una breve galleria costruita con materiale vegetale e utilizzata per l’iniziazione dei nuovi adepti. Non è dato sapere la cadenza con cui si tenevano le riunioni, sicuramente ogni qual volta venivano iniziati al nebeli nuovi individui. Al di fuori di tutte le cerimonie di ammissione, gli adepti si riuniscono frequentemente alla basa per danzare. Nell’occasione delle danze che si fanno sempre di notte, c’è solitamente una distribuzione di birra. Durante le danze non si percuote il gong come nelle danze ordinarie, ma ci si serve di cinque tamburi di diverse dimensioni (Lagae 1926: 124-25).
Tutte le fonti, comprese le interviste condotte sul campo, concordano nell’affermare che il reclutamento nella società nebeli avviene il più delle volte con la forza. Il candidato viene condotto in foresta nei pressi del recinto segreto e introdotto nella bassa galleria di frasche dove è lasciato solo per un po’ di tempo. Al momento opportuno viene immesso del fumo nella galleria e gli adepti incominciano a percuotere e a frustare il novizio costringendolo a percorrere la galleria fino al lato opposto ostruito da un grande termitaio appositamente bucato (Philippe 1962: 98, e fra gli informatori Amekote Evangéliste). Solo a questo punto il candidato può entrare nel grande edificio, dove il capo del nébasa lo attende attorno al fuoco sacro insieme agli altri adepti. Là il capo stregone lo prende per la nuca e lo avvicina al fuoco, nel quale si è gettato del peperoncino indigeno e la radice nzuda. Dopo averlo stordito, soffocato e accecato, gli si spalma la medicina o dawa del negbo [sinonimo di nebeli], «medicina della forza» composta di sperma, di ngula e di nzuda (De Calonne-Beaufaict 1909: 394-95).
Prima di uscire dal nébasa, «i lubasa esortano il novizio a considerare i membri del nebeli come suoi propri fratelli» (DelhaiseArnould 1919: 288-89); il capo dei lubasa «gli annuncia i doveri che dovrà mantenere nei confronti dei suoi fratelli, i castighi che lo attendono in caso di tradimento» (De Calonne-Beaufaict 1909: 394-95). La permanenza nel grande edificio può essere considerata la fase centrale dell’iniziazione, durante la quale l’adepto entra in contatto con gli elementi fondamentali della società del ne147
beli: 1) il fuoco sacro, 2) il ritrovato più importante, la «medicina della forza», 3) i suoi nuovi «fratelli». Come spiega chiaramente Amekote Evangéliste, «l’adepto esce trasformato dall’incontro con il capo del nebeli». Il novizio, dopo esser stato condotto presso un corso d’acqua per «purificarsi» (Philippe 1962: 98), deve mangiare il cuore crudo di un pollo infilzato su un piccolo bastone conficcato nel terreno (Lagae 1926: 126). In base alle testimonianze disponibili è lecito supporre che i nuovi adepti siano sottoposti – durante le settimane di permanenza al nébasa – a ulteriori prove che variano secondo la regione. In base a ciò che scrive De Calonne-Beaufaict, l’iniziazione si conclude con la danza denominata liando, durante la quale il nuovo adepto deve partecipare a un coito rituale per procurarsi lo sperma necessario al confezionamento della medicina della forza. Malgrado non ci sia un accordo generale fra le fonti e gli informatori su quando avvenga il coito rituale nell’arco della sequenza dell’iniziazione, tutti sottolineano il carattere incestuoso di tale rapporto sessuale4. Prima di lasciare il luogo dell’iniziazione e tornare alla propria abitazione, il nuovo aderente alla società del nebeli abbandona il suo vecchio nome per assumerne uno nuovo scelto dai lubasa; questi ultimi forniscono inoltre al nuovo adepto gli strumenti tipici del nebelista: il fischietto e un sacchetto contenente una determinata quantità di nenzula (sinonimi: nzula, nendura), la «medicina della forza». 4. I nebelisti all’opera Il fischietto e la medicina nenzula sembrano essere le «armi» più importanti dei nebelisti, benché non siano le uniche. In base a ciò che scrive Delhaise-Arnould (1919: 286), per diventare lubasa – la carica più alta all’interno dell’associazione – occorre conoscere le proprietà di tutte le piante della foresta, e in effetti molte medicine confezionate dagli uomini del nebeli conterrebbero una base vegetale. Tuttavia il fischietto e la strana sostanza rinchiusa in un sacchetto assicurato alla cintola rimangono gli strumenti principali. Il fischietto, «confezionato con il legno di un albero abitato dalle grandi termiti» (Philippe 1962: 98), verrebbe utilizzato per 148
esercitare una vendetta e uccidere chiunque rechi offesa o danno al proprietario: è sufficiente fischiare tre volte e colpire l’avversario sulle braccia per assistere alla sua morte nell’arco di pochi mesi. L’utilizzo del fischietto all’interno del nébasa ne aumenterebbe l’efficacia, e la sola possibilità di salvarsi per la vittima sarebbe quella di entrare a far parte dell’associazione (Lagae 1926: 128). La medicina nenzula – confezionata non solo durante il rituale di iniziazione ma in qualunque riunione dell’associazione – viene preparata con una serie di piante mescolate con sperma (o sangue mestruale) e olio di palma. La sostanza viene generalmente spalmata sul corpo della persona interessata o su determinati oggetti appartenenti o semplicemente utilizzati da tale individuo. Mentre il fischietto sembra essere un’arma esclusivamente offensiva, la medicina nenzula può essere usata sia contro qualcuno, sia per immunizzarsi e difendersi dai nemici. All’interno dei villaggi e nelle famiglie si conoscono coloro che appartengono al nebeli e ci si rivolge ad essi per chiedere aiuto o per realizzare una vendetta. Il timore nei confronti degli adepti, e in particolare nei confronti dei ritrovati magici (primo fra tutti il nenzula) che vengono maneggiati e applicati su corpi e oggetti, emerge chiaramente quando un nebelista muore: Se uno di loro muore è difficile che qualcuno non membro dell’associazione osi lavare il cadavere. Se nella zona non ci sono nebelisti allora verrà sepolto con tutti i suoi beni: pentole, abiti, utensili, sedie e altre cose. Nessuno esterno al nebeli vorrà utilizzare o toccare queste cose, se succede si avranno strane ripercussioni sulla propria vita fino a rischiare di morire. Nel villaggio c’era un vecchio del nebeli; quando è morto tutti i suoi beni sono stati messi sulla tomba e ancora oggi la sua parcelle non viene utilizzata (Anonimo).
Alla morte di un nebeliombie, la famiglia non ha alcun diritto di eredità, a patto che qualcuno nella cerchia dei parenti sostituisca il defunto all’interno del nebeli. In caso contrario, oltre alla mancata eredità occorre pagare un adepto dell’associazione affinché venga a eliminare dalla nébha del defunto tutto ciò che ha un rapporto con il nebeli. Come si può notare, anche dal modo in cui viene gestita la morte di un affiliato, l’appartenenza all’associazione non è un segreto; in ogni villaggio è probabile che i nebeli149
sti siano conosciuti e utilizzino i propri poteri non solo per se stessi ma anche per soddisfare i desideri e le richieste di una vera e propria clientela solitamente alla ricerca di ricchezza, forza, salute e protezione contro i nemici. Il nebeli è come un ospedale. Quando si hanno dei problemi si può andare da uno del nebeli e lui ti fa certe cose, così si ottiene quello che si vuole. Se sei militare e vuoi dei gradi in più, se sei malato, se non riesci in qualcosa, allora si può andare dagli uomini del nebeli. Mio padre aveva solo delle figlie ma qualche anno dopo essere entrato nel nebeli dalle parti degli Abarambo sono nato io, il primo figlio maschio. Una volta non era tanto diffuso perché non si conoscevano ancora bene i vantaggi e l’importanza del nebeli (Banda Charles).
Banda Charles è famoso nella zona come qualcuno che «conosce le cose del nebeli». Durante gli incontri che ho avuto con lui non ha mai affermato esplicitamente di essere un nebeliombie, ma non ha neppure mai detto nulla che potesse farmi pensare il contrario; anzi, in più di una occasione si è presentato come un grande conoscitore delle piante che utilizzano i nebelisti e inoltre – a differenza di quasi tutti gli altri informatori – non ha mai speso una parola di condanna o di disapprovazione nei confronti dell’associazione, sempre elogiata per gli intenti e l’importanza. Completamente diversi sono i giudizi contenuti nelle fonti scritte consultate, in cui l’immoralità, la violenza e la cupidigia dei nebelisti vengono sottolineate con forza. Sicuramente l’intento di amministratori coloniali come Delhaise-Arnould e di uomini di culto come il vescovo Lagae è quello di sminuire il valore morale e assistenziale dei nebelisti dipingendoli come un’associazione a scopo di lucro. Delhaise-Arnould (1919: 285-86) sostiene che la stessa carriera all’interno del nebeli sia determinata soltanto sulla base delle elargizioni in denaro o altri beni: le cariche verrebbero vendute, tranne che per i lubasa scelti sulla base della loro conoscenza delle piante di foresta. Dalle parole di Lagae parrebbe che anche la durata dell’iniziazione dei nuovi adepti, e quindi la loro permanenza al nébasa, siano determinate sulla base della quantità di denaro donato dagli iniziati ai lubasa, e sarebbe proprio la sete di denaro di questi ultimi a incentivare la ricerca di nuovi aderenti; «ecco, in effetti, uno dei principali scopi dei nebelisti: estor150
cere più denaro possibile. Se l’adepto non paga, non può lasciare il nébasa» (1926: 128). La forza del nebeli non si manifesta soltanto attraverso l’uso offensivo e difensivo del fischietto, del nenzula e di altre «medicine», ma anche attraverso il ruolo svolto dall’associazione nella gestione del potere politico e giudiziario. Innanzitutto, chiunque venga sorpreso a divulgare i segreti del nebeli ai non iniziati verrà sottoposto a pene corporali e in alcuni casi, sembrerebbe, alla pena capitale. Secondo Lagae (1926: 129-30), le dispute che coinvolgono due appartenenti al nebeli vengono composte dai lubasa e non dalle autorità territoriali «laiche». Se la disputa coinvolge un nebeliombie e un non adepto, allora il caso rientra nella giurisdizione del capo territoriale; tuttavia, se tale autorità teme notevolmente i nebelisti, può rimandare la decisione ai lubasa, facendo sì che il non adepto venga rappresentato al nébasa da un nebeliombie della propria parentela. Per ciò che concerne il rapporto fra nebeli e potere politico, dalle interviste fatte ai capi che ancora oggi rimandano a un’autorità tradizionale (in particolare gli Chefs de collectivité), pare che permanga una certa complicità con il nebeli. In effetti, i domini meridionali dei Medje-Mangbetu sono esemplificativi dello stretto legame fra capi e nebelisti (Schildkroud e Keim 1990: 191), a differenza di altre zone nelle quali il potere politico è o era ostile all’associazione. I capi locali utilizzarono infatti i ritrovati del nebeli per indebolire i nemici e sconfiggerli militarmente; «il nebeli è utile per risolvere i problemi degli uomini e per la guerra, anzi, è specifico della guerra affinché le proprie forze siano superiori a quelle dell’avversario» (Banda Charles). Quando a inizio secolo, in concomitanza con il radicarsi del nuovo sistema politico-amministrativo della colonia, l’associazione chiusa si diffuse ampiamente (si ipotizza che circa la metà della popolazione abbia aderito), i capi fecero ampio affidamento sulla forza del nebeli per conservare un effettivo potere e, in qualche misura, opporsi al dominio dei belgi. All’epoca coloniale, il nebeli veniva utilizzato contro gli amministratori severi e dispotici attraverso una capra o un pollo che essi potevano mangiare o una bella donna che potevano sposare. Le sedie venivano sovente unte con il nebeli [si intende il nenzula]. Gli ammini-
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stratori che mangiavano un tale animale, sposavano una tale donna o si sedevano su una di quelle sedie perdevano la loro potenza. Per questo motivo gli amministratori hanno fatto di tutto per distruggere il nebeli e per arrestare gli adepti (Abule Abuotubodio 1994: 33).
Gli appartenenti al nebeli venivano processati pubblicamente, e la stessa sorte toccava alle autorità indigene che non si dimostravano ferme nella lotta contro l’associazione. Il capo Magwongasa della collectivité Azanga (i Medje-Mangbetu insediati a nord di Isiro) fu destituito e sostituito con Danga nel 1952 per «inattitudine e deficienze gravi ai suoi doveri principalmente perché favoriva e proteggeva il nebeli»5. La maggior parte delle fonti scritte e degli informatori sostengono che tutti i locali che lavoravano negli insediamenti coloniali a stretto contatto con i bianchi venivano appositamente scelti dai capi indigeni fra gli appartenenti al nebeli. Ora, al di là dell’efficacia dei vari ritrovati magici, ciò che preoccupava maggiormente i colonizzatori era questa rete sommersa che si infiltrava fra gli ingranaggi del sistema amministrativo. La forza del nebeli probabilmente non era contenuta in un sacchetto o in un fischietto, ma in questo reticolo le cui ramificazioni penetravano nelle corti dei capi indigeni e nelle residenze degli europei. Come viene più volte ricordato, uno degli scopi fondamentali dell’associazione è ed era il mutuo soccorso e la tessitura di rapporti di alleanza al di là delle appartenenze lignatiche o etniche. 5. Iniziazione e alleanza È evidente che nel nebeli, analogamente a ciò che accade nel noutu, si mettono insieme individui appartenenti a gruppi differenti. Tuttavia – malgrado questa rilevante similitudine – le due istituzioni si differenziano in molti aspetti. L’appartenenza al nebeli prevede infatti un percorso iniziatico in cui è possibile evidenziare numerosi tratti che rimandano ai classici rituali di iniziazione alla vita adulta. In primo luogo, il rito di ammissione e le riunioni si svolgono in foresta lontano dai villaggi. Si esce dagli spazi della vita quotidiana per risiedere in un luogo «altro» (il nébasa in foresta), in cui le normali regole della vita sociale vengono sospese analogamen152
te ai contatti con gli individui inseriti nelle abituali reti di relazioni. Il soggiorno in foresta, durante il quale il nuovo adepto viene iniziato, si protrae per parecchie settimane – per Lagae (1926: 128) diversi mesi – e ricorda i lunghi periodi di reclusione previsti in molti riti di passaggio alla vita adulta. In secondo luogo, il nuovo adepto viene sottoposto a una serie di prove dolorose che segnano duramente il fisico. Tali prove mutano secondo la regione, pur presentando due caratteristiche ricorrenti: il corpo viene percosso in più occasioni e negli occhi degli iniziati vengono introdotte sostanze che provocano bruciore e temporanea cecità. L’aspetto trasformativo dell’iniziazione è incentrato sull’individuo e non, come nel noutu, sull’ambiente sociale circostante; non si tratta di rendere meno indistinta la moltitudine di individui che si trovano al di là della parentela (cap. V), ma di trasformare il corpo dell’adepto (percosse e unzioni) e di mutare la sua visione del mondo e delle cose (interventi sugli occhi). Come sottolinea esplicitamente Amekote Evangéliste: «il candidato resta dal capo dei lubasa per il trattamento e dopo esce trasformato anche nell’aspetto esteriore, abbellito con dell’olio. Anche l’abito è diverso». A completamento di una siffatta trasformazione, al nuovo adepto viene assegnato un nome nuovo. In terzo luogo, non solo nel nebeli tutto si svolge nella più ferrea segretezza, ma l’intera associazione orbita intorno alla formula segreta per confezionare la medicina nenzula e alle modalità con cui si deve utilizzare il fischietto, le piante della foresta e quant’altro appartiene al sapere esclusivo degli adepti. Ancora una volta sono evidenti la connessione con i riti di circoncisione dei popoli di foresta e la lontananza dal carattere pubblico del noutu. Non soltanto alcuni aspetti dell’iniziazione al nebeli (la foresta, gli interventi sul corpo, la segretezza) rimandano ai classici riti di passaggio all’età adulta, ma tale legame emerge anche dalle fonti e dalle interviste condotte sul campo. Lagae (1926: 124), descrivendo il luogo di riunione dei nebelisti denominato nébasa, fa esplicito riferimento a non precisate cerimonie di circoncisione che si svolgono in un luogo denominato anch’esso basa. Inoltre, nel racconto che fornisce sull’iniziazione al nebeli, riporta alcuni elementi che non trovano riscontro nelle altre fonti e nelle interviste, ma che tuttavia sono presenti nella ricostruzione del rito di circoncisione zande (cap. IV, § 5) che lo stesso autore propone al153
cune pagine dopo. In particolare, nella fase successiva all’uscita dal nébasa, il nuovo adepto non ritorna alla propria abitazione, ma deve trascorrere un periodo presso il suo samba, colui che lo ha introdotto nell’associazione chiusa (Lagae utilizza il termine «padrino» per tradurre samba). Dopo aver lavorato nei campi del suo samba per quattro mesi, continuando a osservare alcuni divieti alimentari, gli viene preparato un pasto speciale contenente tutti gli alimenti che non poteva mangiare in precedenza. Quest’ultima sequenza è sorprendentemente simile a ciò che accade nella fase finale del noutu. Asobee Bigiabase Thomas (un informatore mulika) parlando del nebeli, oltre a confermare alcuni dati emersi in altre fonti e interviste (in particolare l’uso del fischietto e di sostanze capaci di fare vincere le guerre e di guarire determinate malattie), pone in relazione la circoncisione con l’associazione chiusa: Il termine nebeli che avete trovato dai Mangbetu esiste anche fra i Balika. Belia è un gruppo segreto che funzionava soprattutto nella circoncisione di una volta. Sono gli anziani che contribuiscono alla circoncisione e preservano il segreto. Anche quando ritornano dalla foresta non possono dire nulla dei segreti. Il gruppo del belia è formato solo da uomini adulti, dei saggi. I circoncisi non entrano automaticamente nel belia, non ne hanno diritto. In origine il belia non c’era. Si diffuse a partire dalla circoncisione perché nella circoncisione non ci sono limiti e si svelano gratuitamente i segreti. Il belia è lika ma la parola belia non è proprio lika e la circoncisione cambia molto le cose, io penso che il belia sia di origine mangbetu, così come può diffondersi dai Balika adesso verso i Babudu, gli Zande, i Logo a causa della circoncisione. È a causa della circoncisione che il belia esiste fra di noi [balika].
Il belia sembrerebbe essere un gruppo di uomini saggi che gestisce i segreti inerenti alla circoncisione tradizionale lika, la quale – come si è visto precedentemente (cap. IV, § 2) – si svolgeva in foresta e prevedeva un particolare percorso iniziatico. Malgrado la connessione fra il belia e la circoncisione non sia stata confermata in altre interviste, è necessario ancora una volta valorizzare il dato che fornisce l’informatore al di là della veridicità (difficilmente dimostrabile) di ciò che viene affermato. Infatti, dalle parole di Asobee Bigiabase Thomas, il belia viene visto come qualcosa che fonda la circoncisione (un gruppo di saggi che gestisce i 154
segreti del rito) e successivamente come un’istituzione che giunge dall’esterno insieme alla diffusione dell’operazione. In effetti, il nebeli presenta sia gli aspetti iniziatici della circoncisione tradizionale che i gruppi di foresta (fra i quali i Balika) praticavano lontano dai villaggi, sia la peculiarità di funzionare come un’alleanza che trascende i confini etnici e che avrebbe potuto «viaggiare» parallelamente al noutu, l’alleanza con la circoncisione. In considerazione del fatto che il nebeli è quasi sicuramente di origine abarambo-bangba e che si diffuse dalle regioni settentrionali (rispetto ai domini medje e lika) verso la foresta, si potrebbe ipotizzare che l’associazione chiusa sia andata a sovrapporsi ai tradizionali riti di circoncisione, o meglio, sia andata a occupare i luoghi (la foresta nascosta) e a ereditare un’ideologia (l’iniziazione ai segreti) e forse alcuni tratti dell’azione rituale appartenenti alle cosiddette «scuole di foresta», quei riti di passaggio alla vita adulta che stavano scomparendo investiti dalle nuove idee della colonia (cap. IV, § 7). Qualcosa di analogo sembra emergere nell’evoluzione dell’iniziazione libeli dei Foma, studiata da Robert Bakanga (1991). Il libeli (o lilwa) era in origine una vera scuola di formazione per i giovani, in seguito si sarebbe trasformata in una associazione chiusa ed esclusiva (Bakanga 1991: 99)6. Ciò che si riesce a trarre da queste brevi considerazioni è un’immagine sbiadita in cui il movimento e le mescolanze non sono soltanto i motivi della mancata nitidezza, ma rappresentano – analogamente a ciò che accade nel noutu – l’essenza delle azioni rituali. Tuttavia, a differenza del noutu attraverso il quale si manipola la società incrementando la rete di relazioni a partire dalle esigenze che emergono in ogni singola nébha, con il nebeli si crea in foresta una società parallela, fisicamente decentrata rispetto alle ébhá e fondata su valori opposti a quelli del villaggio (basti pensare alla pratica dell’incesto). Inoltre, se il noutu favorisce la tessitura della rete sociale a partire dal basso, da ogni singola famiglia, sostenendosi su un’ideologia dell’uguaglianza e della fratellanza che non prevede alcuna gerarchia, il nebeli si presenta altamente gerarchizzato e interagisce con il mondo «profano» soprattutto dall’alto, creando un reticolo in cui i capi hanno un ruolo determinante. Nonostante queste differenze, le due istituzioni hanno determinati tratti in comune e in particolare entrambe perseguono una 155
forma di mutuo soccorso, creando reti di relazioni che trascendono le appartenenze lignatiche ed etniche: «sia il nebeli sia il noutu non sono altro che mezzi per creare rapporti tra famiglie» (Banda Charles). È opportuno ricordare che le istituzioni del noutu e del nebeli sarebbero emerse – o per lo meno si sarebbero imposte e diffuse – proprio negli anni in cui il potere coloniale stava riorganizzando amministrativamente e politicamente il territorio congolese, e in un certo senso – benché le due istituzioni agiscano su livelli differenti – entrambe rappresentano risposte alla crisi delle identità e dei valori tradizionali. Questa ipotesi interpretativa emerge e acquista credito soltanto se si adotta uno sguardo comparativo attento alle dinamiche regionali e alle variazioni temporali e che tale sguardo possa condurre l’analisi al di là del nesso che esiste fra una pratica sociale e la specifica cultura che l’ha prodotta. L’affermazione di Enid Schildkrout e Curtis Keim (1990: 190), secondo la quale il nebeli rappresenterebbe la visione del mondo dei Mangbetu sotto le tensioni e le pressioni coloniali, è condivisibile con l’aggiunta di due considerazioni: la prima è che tale visione del mondo non è esclusiva dei Mangbetu, ma attraversa una vasta area occupata da differenti gruppi etnici; la seconda riguarda il fatto che tale visione del mondo orbita intorno all’idea e alla necessità dell’alleanza e del «mettersi insieme» in risposta al disgregamento delle identità e alla dissoluzione dei tradizionali punti di riferimento. In quest’ottica anche il noutu contribuisce a fare in modo che i gruppi locali possano ridisegnare il mondo in cui vivono e la visione che essi hanno di questo mondo. Tuttavia, se l’alleanza con la circoncisione porta a ridisegnare il mondo «aprendosi» verso l’esterno (al di là della parentela), il nebeli costruisce il proprio reticolo sotterraneo a partire da una evidente chiusura. Con il noutu si «incrementa» la propria rete di relazioni attingendo dall’alterità, con il nebeli si «costruisce» una nuova rete segreta e sotterranea (che corre nella fitta e oscura foresta) chiudendosi nel recinto del nébasa. La forza del noutu è nella mescolanza del sangue; la forza del nebeli è contenuta in gran parte nel nenzula preparato per mezzo di un atto incestuoso, un evidente segno di chiusura.
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6. Al di là della cultura Il nebeli – essendo contemporaneamente un’associazione chiusa (società segreta) e una rete di relazioni sociali che trascende i lignaggi e i gruppi etnici – viene raccontato e può essere effettivamente pensato a partire da due opposte categorie: la chiusura e l’apertura. Prima di verificare attraverso i dati raccolti sul campo questa ambiguità, occorre sottolineare che probabilmente il meccanismo stesso dell’intervista (domanda-risposta) accentua notevolmente la segretezza e l’inviolabilità del nebeli. La sensazione è che «le cose del nebeli» non si possono raccontare, ma non per questo non si possono sapere. In altre parole, molte persone esterne all’associazione sanno cosa succede al nébasa, quali sono i poteri e chi partecipa alle riunioni, ma nessuno osa raccontarle soprattutto nella forma più esplicita e sfacciata dell’intervista. Inoltre, le motivazioni anti-coloniali del nebeli e l’illegalità e l’immoralità sancita dai bianchi non possono facilitare il lavoro di uno strano individuo europeo armato di bloc-notes e registratore. Nonostante questa precisazione, la contrapposizione fra la chiusura e l’apertura è evidente nei dialoghi avuti con Banda Charles sotto il suo négbámú a Egbunda: Se non si appartiene ai gruppi [di nebelisti] è impossibile partecipare agli incontri. Loro non possono raccontare nulla. Tu non sei nel nebeli e quindi non posso dire altro. Se hai bisogno di qualche medicina posso dartela ma non sperate di sapere di più! Con il nebeli si creano rapporti fra famiglie, è come il noutu, ma il nebeli è diffuso ovunque, se da qualche parte non c’è il motivo è che ormai sono tutti morti e nessuno ha ereditato i segreti. Nebeli è estesa in tutta l’Africa, tutti conoscono il nebeli, il nome può essere diverso ma nel Uele [si intendono le terre nord-orientali del Congo] è lo stesso nome [...]. Il nebeli si trova ovunque, anche fra gli Zande che per forza devono avere qualcosa di simile. Qualcuno da fuori può venire qui per diventare nebeliombie.
L’ampia rete del nebeli unisce gruppi di individui che si radunano segretamente e hanno l’obbligo di non svelare all’esterno l’ubicazione del nébasa, i riti che si svolgono di notte dentro il recinto, la composizione delle medicine che confezionano e i pote157
ri nascosti in determinati oggetti. Tutto ciò esprime l’inviolabile segretezza dell’associazione, la quale tuttavia – come si è accennato all’inizio del capitolo – dovrebbe essere considerata non tanto una società segreta quanto un’associazione chiusa. Ora, al di là della chiusura effettiva del gruppo, uno dei segni simbolicamente più importanti di tale chiusura è la pratica dell’incesto: nelle fasi finali dell’iniziazione al nebeli l’adepto deve praticare un atto sessuale incestuoso per procurarsi il seme necessario a confezionare la «medicina della forza», il nenzula, l’arma più potente del nebeliombie. La pratica dell’incesto si contrappone all’universale regola sociale dell’esogamia (dopo Lévi-Strauss si potrebbe dire «la regola culturale per eccellenza»), che prevede lo scambio di donne con altri gruppi. Malgrado l’universalità di tale regola e la preferenza degli studiosi a riflettere sulla proibizione dell’incesto più che sulla pratica dello stesso, si riportano solitamente un paio di contesti sociali in cui l’incesto rappresentava la regola: l’antico Egitto e l’impero andino degli Incas. In questi casi, erano le dinastie regnanti che si perpetuavano nel tempo senza mescolarsi con il resto della popolazione in segno di superiorità. Come sottolinea efficacemente Leslie White (1978: 283), basti pensare alla figura di Cleopatra (bella, forte, intelligente e prolifica) per verificare non soltanto il desiderio di chiusura di tali dinastie, ma anche la perfezione del frutto delle unioni incestuose. L’ideologia dell’incesto si baserebbe appunto sulla volontà di delimitare inequivocabilmente un’esclusiva identità umana e raggiungere in tal modo la perfezione. Non si tratterebbe ovviamente di un ritorno alla natura, ma di una precisa e consapevole scelta culturale. Nella letteratura etnografica un caso ben documentato di scelta di praticare (sebbene in modo simbolico) l’incesto concerne l’iniziazione maschile presso i Senufo Nafara della Costa d’Avorio (Zempléni 1993). Presso i Nafara, matrilineari e matrilocali, il rito centrale (tyologo) dell’iniziazione prevede l’accoppiamento dei neofiti con la loro madre simbolica (Kafolo). I Nafara che non fanno il proprio tyologo non sono considerati tali: per essere Nafara occorre essere contemporaneamente figli e partner sessuali di Kafolo. Secondo András Zempléni, la riproduzione incestuosa è il migliore se non il solo mezzo per realizzare la chiusura biologica di un gruppo umano [...]. L’incesto risul-
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terebbe «buono per pensare» la delimitazione delle società umane [...]. La prescrizione dell’incesto simbolico chiude il campo d’alleanza aperto tramite la proibizione dell’incesto reale (1993: 367).
Anche nel nebeli l’incesto è «buono per pensare» la chiusura del gruppo e soprattutto la forza che scaturisce da tale chiusura. Per confezionare l’intruglio capace di far vincere le guerre e in particolare di indebolire, se non sconfiggere, i nuovi dominatori arrivati da «fuori», occorre ripiegare su se stessi, trovare la forza «dentro», fra sé. A ben vedere, mentre fra i Senufo Nafara la chiusura auspicata è una delimitazione «etnica», nel nebeli la chiusura si limita a coloro che si radunano in foresta nel recinto di un determinato nébasa, i quali mantengono una forte separazione verso la vita dei villaggi (il mondo «profano», i non iniziati), ma condividono fraternamente un’identità collettiva (di tutti i nebelisti) che taglia trasversalmente molti gruppi etnici (secondo Banda Charles l’intera Africa). Il nebeli si presenta come una società parallela che «sta fuori» (nascosta in foresta) dal mondo dei villaggi abitati dalle differenti società e culture (zande, mangbetu, barambo, bangba, yogo, lika, budu ecc.). L’intruglio nenzula, il potente suono del fischietto, l’istituzione dei lubasa e altri elementi del nebeli trascendono le varie culture e, viaggiando idealmente in foresta da nébasa a nébasa, mettono in comunicazione individui appartenenti a diverse società. Pare assodato che il nebeli (come altre associazioni chiuse o segrete) abbia svolto un ruolo importante nella diffusione di stili artistici e oggetti d’arte, «tagliando confini culturali, linguistici e politici» (Schildkrout e Keim 1990: 239). È significativo notare che gli oggetti d’arte in stile mangbetu tipici del nebeli (statuette e maschere) non appartengono alla cultura dei villaggi mangbetu, come a rimarcare l’estraneità, «l’essere fuori» dell’associazione segreta. A questo punto si potrebbe affermare che il nebeli non solo «taglia le culture», ma si pone in un certo senso «fuori dalle singole culture». È al di là delle singole culture che trova espressione «il bisogno di solidarietà fra i differenti popoli nativi di fronte alla conquista europea» (Evans-Pritchard 1965: 1), la cui forza – si rammenta – sgretola e frantuma le società autoctone. Dal punto di vista spaziale questo «porsi fuori» viene emblematicamente 159
espresso dalla foresta contrapposta agli spiazzi dei villaggi ritagliati fra il fitto della vegetazione. Dal punto di vista sociale, il nebeli contempla la presenza al nébasa di capi, i lubasa, i quali non sono altro che gli organizzatori dei riti, ma attenua le distinzioni di genere e di età (tutti possono entrare con pari dignità) centrali nella vita dei villaggi. Dal punto di vista simbolico si ritiene particolarmente significativa l’ultima fase dell’iniziazione al nebeli, in cui il nuovo adepto, dopo esser stato trasformato e trasfigurato nel corpo (percosse, violenze agli occhi, contatto con il fuoco e unzioni), deve compiere due atti specifici: mangiare della carne cruda (l’esempio più ricorrente è il cuore crudo di un pollo) e praticare l’atto incestuoso. Il crudo e l’incesto ancor prima di rappresentare un ritorno alla natura, stanno a simbolizzare l’uscita dalla cultura, il porsi fuori dalle regole e dalle consuetudini vigenti al villaggio. Questa uscita dalle singole culture crea un luogo di incontro e di comunicazione fra individui appartenenti a società diverse fra loro. È in questo «porsi fuori» che occorre rintracciare l’apertura connessa al nebeli, il quale viene visto dagli aderenti come un tentativo molto forte di riscatto nei confronti delle malattie, degli insuccessi e dei bianchi attraverso l’utilizzo di strumenti più potenti di tutti quelli conosciuti. Fra le tensioni e le pressioni del nuovo ordine coloniale, i gruppi indigeni si affidarono a un’istituzione capace di risollevare le sorti del loro mondo e di elargire felicità ai singoli sconfiggendo i problemi. La forza necessaria bisogna generarla fra sé anche attraverso un atto incestuoso, o per lo meno immaginare che così possa essere, analogamente a ciò che racconta quel mito andamano riportato alla fine de Le strutture elementari della parentela in cui la beatitudine della vita futura viene descritta «come un cielo in cui le donne non saranno più scambiate; e cioè respingendo in un futuro [...] la dolcezza, in eterno negata all’uomo sociale, di un mondo in cui si potrebbe vivere tra sé» (Lévi-Strauss 1984: 636). 7. La corsa verso il termitaio A ben vedere la pratica dell’incesto durante l’iniziazione al nebeli non è propriamente il frutto di una scelta, ma – si potrebbe so160
stenere – il frutto possibile di una casualità. Mentre i sovrani dell’antico Egitto o gli Incas dell’America meridionale optarono coscientemente per l’incesto sulla base di una specifica scelta culturale, i nuovi adepti del nebeli vengono invitati a intrattenere rapporti sessuali con chiunque si trovi al proprio fianco durante la riunione al nébasa. Nel nébasa gli uomini hanno rapporti sessuali con le donne, così a caso. Se un uomo prende sua sorella fa il rapporto con lei, è un caso non è obbligatorio. Bisogna abituarsi ad avere rapporti sessuali con chiunque capiti (Amekote Evangéliste).
I dati raccolti sul campo concordano con ciò che sostiene Lagae: «[il neofita] si ritira con la donna che si trova al suo fianco» (1926: 127), ribadendo la casualità dell’accoppiamento in cui l’incesto sarebbe una possibile eventualità più che una precisa scelta di comportamento. Alla luce di ciò, il fatto che molti informatori sottolineino il carattere incestuoso (avere rapporti con la sorella o la madre) dell’unione sessuale dei neofiti alla fine dell’iniziazione acquista un nuovo significato. La casualità dell’accoppiamento – e quindi del possibile incesto – rappresenta infatti un segno evidente di «uscita dalla cultura», in quanto la casualità è l’annullamento della scelta, la naturalizzazione del comportamento e l’esonero da ogni identità culturale alla cui base c’è una scelta, o meglio, una pluralità di scelte (Remotti 1993: 178). L’assunto, secondo il quale Remotti sostiene che «uno dei meccanismi più efficaci e decisivi per ottenere la naturalizzazione è l’eliminazione o l’occultamento della scelta» (1993: 183), trova la più eclatante realizzazione non tanto nei costumi che risiedono nel villaggio ma nell’istituzione che si pone fuori dal villaggio e dai costumi, il nebeli. Se ci fosse una chiara scelta alla base della pratica dell’incesto, l’uscita dalla cultura non si realizzerebbe, in quanto l’incesto rappresenterebbe una esplicita e ferma scelta culturale; invece nell’associazione chiusa del nebeli si pratica – attraverso l’annullamento della scelta (e quindi la casualità del rapporto) – una chiara uscita dalla cultura. Tutto ciò si contrappone evidentemente all’uscita dalla parentela realizzata attraverso il noutu, un’istituzione che – come si è potuto vedere (cap. III, § 2) – è incentrata 161
su una scelta che viene compiuta all’interno di un ampio ventaglio di possibilità. Sullo sfondo delle riflessioni di Lévi-Strauss circa la distinzione natura-incesto e cultura-esogamia, si comprende la rilevanza etnografica dell’istituzione del nebeli, in cui all’esogamia intesa come luogo della scelta si contrappone l’eventualità casuale dell’incesto (e non semplicemente l’incesto) come luogo della natura, un luogo che in questa sede si preferisce continuare a definire «luogo di uscita dalla cultura». Il tema dell’annullamento della scelta emerge non soltanto alla fine dell’iniziazione al nebeli ma anche nelle fasi iniziali, durante le quali il nuovo adepto viene reclutato con la forza e viene introdotto nel nébasa attraverso una galleria di frasche che conduce a un termitaio. Se nella parte finale dell’iniziazione l’annullamento della scelta si traduce nella «casualità», nelle fasi iniziali si esprime attraverso la «costrizione», una costrizione reale, in quanto si prevede un reclutamento forzato, e una costrizione simbolica nel momento in cui il neofita viene introdotto nella galleria di frasche e costretto a percorrerla velocemente sotto le percosse di altri nebelisti. La costrizione e la casualità hanno in comune l’annullamento della scelta. Tuttavia, mentre la contrapposizione fra scelta e costrizione appare evidente, occorre spendere alcune parole sulla contrapposizione fra scelta e casualità, in quanto concettualmente la scelta si oppone più alla necessità che alla casualità. In termini culturali e sociali, l’uomo – in quanto singolo e in quanto appartenente a un gruppo – organizza la propria vita optando per determinati percorsi all’interno di un ampio ventaglio di possibilità: le differenze culturali nascono proprio dalla divergenza delle scelte compiute dai vari gruppi umani. All’interno di una singola società, l’individuo contribuisce con opzioni specifiche alla conservazione e alla trasformazione della cultura a cui appartiene. Ora, in una società chiusa come il nebeli, «abituarsi ad avere rapporti casuali con chiunque si trovi al proprio fianco» trasforma la scelta casuale in un annullamento di una scelta culturale mirata e dettata in primo luogo dalla libertà del singolo e in secondo luogo dall’assenza di una riflessione su ciò che risulta opportuno all’individuo; in altre parole, la scelta casuale annienta il significa162
to culturale del ventaglio di possibilità eliminando la facoltà di compiere una scelta culturale. Eliminare la scelta vuole significare in ultima analisi reificare e naturalizzare il Noi che scaturisce dall’appartenere al nebeli, il quale potrebbe essere interpretato come un tentativo estremo di strutturazione. Attraverso l’associazione chiusa non si forma un Noi analogo a quello dei villaggi, un Noi che scaturisce da una pluralità di scelte (come dimostra il ruolo svolto dal noutu basato su scelte e opzioni personali e libere), ma un Noi estremamente rigido e compatto in cui l’istituzione esonera l’individuo dal prendere posizione all’interno e all’esterno del gruppo. Lo scopo fortemente strutturante del nebeli è evidente nella simbologia del termitaio posto alla fine della galleria che introduce il neofita nel nébasa. Nel primo capitolo si è visto come il termitaio rappresenti l’idea dell’unità e della perfettibilità dell’«edificio sociale»; una perfezione relegata nell’al di là, intendendo con questo il mondo animale delle termiti7. In contrapposizione al mondo ordinato e strutturato del termitaio c’è il mondo degli uomini e dei villaggi caratterizzato da conflitti, strategie e antagonismi. La galleria stretta e bassa che porta verso il termitaio non lascia scelta al neofita, incanalandolo verso un mondo ideale (il termitaio e il nebeli) dove tutto funziona, gli individui collaborano e soprattutto costruiscono il loro edificio (il termitaio) tra sé. Costruire tra sé è proprio ciò che fanno gli insetti e ciò che cercano di fare gli autoctoni nel periodo dell’occupazione belga. Sotto la guida dei lubasa – che significativamente vengono denominati da Delhaise-Arnould (1919: 285) «i costruttori», coloro che detengono il diritto di erigere il nébasa – individui di entrambi i sessi, di tutte le età e gruppi etnici costruiscono la loro utopia (dal greco ou topos, non luogo) in foresta, fuori dai villaggi; un’utopia che si intravede al fondo della galleria di frasche e che ha le sembianze di «un solo meraviglioso edificio [...] inalterabile in eterno» (Dostoevskij 1988: 34) abitato da uomini potenti e capaci di generare una forza superiore a tutte le altre (il nenzula) prodotta all’interno, tra sé. Mentre Banda Charles racconta di un luogo in foresta dove si pratica l’utopia di un universo ordinato, fatto tra sé, dove le libertà di scelta dell’individuo vengono sospese nel tentativo di un’estrema strutturazione al di là delle culture e del ventaglio di 163
possibilità umane, nel mondo ordinario dei villaggi uomini come Neti e Anyabose (cap. 1) sottolineano l’inevitabile lontananza della perfezione del sociale e dipingono le relazioni umane in termini di conflitti e dispute, ma anche di strategie, come sembrano essere i movimenti del noutu.
Capitolo settimo
Fiumi e termitai
Nulla permane. Costruiamo forse una casa che duri per sempre, stipuliamo forse contratti che valgano per ogni tempo a venire? Epopea di Gilgamesh
1. Un intreccio di connessioni Nel giugno del 1996, dal finestrino di un piccolo aereo, gettai un ultimo sguardo sulla foresta di alleanze. Dall’alto, i villaggi e le strade sembravano ferite inferte allo scuro e compatto manto di vegetazione. In poco tempo l’aereo arrivò a Kisangani per poi proseguire fino a Kinshasa seguendo il fiume Congo, un impressionante serpente d’acqua adagiato su una delle più grandi foreste del pianeta. Così come l’ultimo mio sguardo sui villaggi della regione fu uno sguardo dall’alto, propongo al lettore – che pazientemente mi ha seguito in questo viaggio nella foresta di alleanze – di ripercorrere il tragitto gettando uno sguardo dall’alto sulle connessioni introdotte e sul frammento di rete che si è fatto emergere sottolineando i significati e i concetti ritenuti cruciali. La rete ha origine – o meglio ha un punto di ancoraggio – nel mio «essere stato là», fra i Medje-Mangbetu del sud, in determinati periodi, munito di alcune idee e di una «scatola degli attrezzi concettuali». L’impatto con il campo si intreccia con il desiderio di applicare al terreno scelto la prospettiva antropo-poietica, nei confronti della quale era già stato possibile verificarne la fecondità nell’analisi di alcuni riti di iniziazione (Allovio e Favole 1996). Ricostruire il rituale di circoncisione denominato noutu, 165
descrivendone in primo luogo l’azione rituale, ha rappresentato una ovvia e scontata possibilità di ricerca, utile perlomeno a colmare una lacuna etnografica in quanto non esistono analisi di carattere etno-antropologico (o d’altro tipo) inerenti a tale aspetto della cultura medje-mangbetu. Al di là dell’intento descrittivo, la ricostruzione dell’azione rituale è parsa da subito essere un piccolo tratto di una potenziale rete di connessioni che ho cercato di percorrere raggiungendo probabilmente un numero modesto di nodi e compiendo scelte precarie e revocabili all’interno di una vasta gamma di ramificazioni. L’insieme si presenta come un frammento di una rete che tuttavia non vuole essere il frutto di una mera casualità, in quanto corrisponde a un intreccio di forme e di significati concernenti azioni rituali e interazioni sociali in una particolare regione dell’Africa centrale. Pare opportuno innanzitutto ripresentare i punti di connessione non tanto per affermare la centralità di determinati sistemi perenni o strutture soggiacenti, ma per esibire uno dei percorsi che si è scelto nell’inesauribile varietà delle possibilità descrittive. Si tratta di un’intelaiatura che, pur precaria, permette di annodare tra loro forme e significati nell’ambito di una proposta interpretativa dotata di una trasversalità tipicamente antropologica. Nel corso della ricerca si è ritenuto fecondo stabilire una serie di connessioni che permettessero di attraversare le differenti culture e società (secondo il metodo della comparazione regionale) con una particolare attenzione all’evoluzione e alla contestualizzazione storica (attraverso l’analisi dei mutamenti temporali). Inoltre, benché il senso dell’apertura e della fragilità dei confini culturali fra i gruppi della regione abbia caratterizzato l’intero lavoro, si è ritenuto proficuo connettere il noutu e i significati rintracciati in esso con altri aspetti interni (spesso non esclusivi) della cultura medje-mangbetu. Per maggiore chiarezza si cercherà di riassumere le connessioni proposte sia pure con il rischio di ingabbiarle e di schematizzarle eccessivamente. A) Il «noutu» e gli altri. – Il lavoro sul campo, teso alla raccolta di informazioni utili alla ricostruzione dell’azione rituale, mi portò sin dagli inizi a valutare la necessità di aprire lo spettro dell’analisi sia in senso concettuale sia in senso territoriale. Era evidente che il noutu non poteva essere ricondotto ai classici riti di iniziazione 166
alla vita adulta, in quanto veniva raccontato e spiegato dai locali in termini di alleanza tramite circoncisione. Il noutu non è un meccanismo per ribadire, affermare e trasmettere alle nuove generazioni una specifica identità di gruppo, ma si presenta come una soluzione rituale per creare alleanze al di là della parentela. Il rito di circoncisione medje-mangbetu non invita i partecipanti a chiudersi e a riflettere sui valori interni al gruppo ma a creare alleanze e a ridisegnare le relazioni sociali con altre famiglie molto spesso appartenenti a gruppi etnici diversi. La centralità del concetto di alleanza emerge chiaramente dalla ricostruzione dell’azione rituale e ancor più seguendo le ramificazioni della rete di relazioni creata attraverso la pratica della circoncisione. Anch’io, al pari dei nuovi circoncisi, ho dovuto optare per l’apertura verso gli altri indagando sulla natura relazionale della pratica rituale, in altre parole ho dovuto dirigere la mia analisi e il mio lavoro sul campo fra i gruppi che interagiscono con i Medje-Mangbetu e con i quali condividono l’azione rituale del noutu. Attraverso una prospettiva di comparazione regionale ho cercato di connettere forme e significati inerenti alla pratica dell’alleanza con la circoncisione facendo emergere somiglianze e differenze importanti. B) Il «noutu» e la storia. – Nel capitolo quarto l’apertura verso i gruppi confinanti (in particolare verso quei gruppi che condividono lo stesso canovaccio rituale del noutu) si intreccia inevitabilmente con un’analisi storica dei riti di circoncisione. Infatti, proprio per mezzo della comparazione regionale, appare un dato storico estremamente interessante: l’ideologia dell’alleanza (centrale nel rito medje-mangbetu) emerge nei racconti budu e lika in sostituzione dell’ideologia dell’iniziazione presente negli antichi riti di circoncisione di questi gruppi. Mentre i gruppi bantu di foresta contrappongono all’attuale pratica rituale (del tutto simile al noutu) incentrata sull’alleanza un antico rito di circoncisione incentrato sull’iniziazione, i Medje-Mangbetu di origine sudanese pensano la circoncisione come un altro modo per ottenere fratellanze di sangue. La centralità dell’iniziazione fra i gruppi di foresta e la centralità dello scambio di sangue fra i gruppi di origine sudanese vengono connesse a due modelli di insediamento: il villaggio e la «casa» (cap. II) che proprio fra il Bomokandi e il Ne167
poko si incontrarono durante le fasi del popolamento dando origine ad una nuova tradizione denominata da Vansina «one village, one house». Ciò che si ipotizza è che questa nuova tradizione non si esprima soltanto in un nuovo modello di insediamento ma anche in un nuovo stile di circoncisione, frutto dell’incontro dei riti di iniziazione-circoncisione tipici dei gruppi di foresta con i patti di sangue tipici dei gruppi sudanesi. La storia «imbarca» ciò che viene sovente pensato come un elemento rigido e invariabile della cultura: il rito. Gli eventi storici si intrecciano con le metamorfosi delle azioni e dei significati rituali; infatti, attraverso una contestualizzazione storica, si è potuto verificare come l’ideologia dell’alleanza si sia imposta sull’ideologia dell’iniziazione anche in risposta al nuovo ordine coloniale. Per mezzo di una comparazione regionale attenta ai mutamenti storici è stato possibile quindi connettere alcuni significati inerenti la circoncisione, l’iniziazione e i patti di sangue, mostrando le motivazioni storiche che si presumono essere alla base dell’affermarsi dell’ideologia dell’alleanza (del noutu) su un territorio molto vasto. C) Il «noutu» e il ciclo di vita. – Gli eventi storici relativi alla conquista coloniale determinano la riformulazione delle configurazioni sociali attraverso uno sradicamento della popolazione e un annullamento delle tradizionali appartenenze (lignaggi, domini ecc.). In relazione a ciò il noutu esibisce forme e significati che bene si adattano alle turbolenze dell’epoca della colonia. Ciononostante il noutu non si presenta soltanto come una ragionevole possibilità per gli abitanti della regione di riformulare la pratica della circoncisione nel quadro del nuovo ordine coloniale, ma veicola e contribuisce a realizzare un preciso progetto antropo-poietico che sottende una specifica idea di umanità. Per meglio cogliere tale progetto si sono suggerite connessioni tra l’alleanza tramite circoncisione e altri momenti della vita dell’individuo, in particolare la nascita e la morte. Confrontando ancora una volta i significati dell’alleanza con quelli espressi nei classici riti di iniziazione, si è potuto verificare come il diffuso nesso fra la nascita e la morte simbolica del circonciso si presenti nel noutu in modo del tutto originale. La simbologia che traspare non conduce esatta168
mente alla nascita e alla morte, come nei classici percorsi iniziatici, ma ai momenti in cui, dopo la nascita e dopo la morte, si riflette sul proprio reticolo sociale. Fra i Medje-Mangbetu ciò accade durante la cerimonia che si effettuava per fare uscire il neonato per la prima volta dall’abitazione (il nóbu) e durante lo stato di vedovanza nel periodo del lutto. Nel nóbu, così come nel noutu e nel lutto, la riflessione sull’uomo si intreccia con la riflessione sulla società e cioè sulla pluralità di individui con cui si interagisce; la costruzione dell’individuo è inscritta nella costruzione della configurazione sociale. Il progetto antropo-poietico non può prescindere da un progetto che si è voluto chiamare koino-poietico. D) Il «noutu» e il «nebeli». – L’intreccio fra antropo-poiesi e koino-poiesi si chiarisce attraverso la connessione dei significati che scaturiscono in vari momenti del processo antropo-genetico dell’individuo. L’originalità del caso etnografico in questione non risiede soltanto nella centralità assunta dal concetto di alleanza ma anche nello stretto legame fra la riflessione sull’uomo e la riflessione sulla società. Il noutu «costruisce» individui adulti creando alleanze, cioè «mettendo insieme» una pluralità di esseri umani. Qualcosa di analogo sembra accadere nell’associazione segreta denominata nebeli. Furono gli stessi informatori a condurmi verso l’analisi della connessione fra il noutu e il nebeli, in quanto tale associazione segreta è un altro modo per «creare rapporti tra famiglie», un altro modo per mettere insieme una pluralità di individui in base a un preciso progetto di umanità. Sembra che entrambe le istituzioni si siano affermate nel periodo coloniale e rappresentino risposte «plurali», «collettive» alla crisi dei valori e dei punti di riferimento tradizionali. È oltremodo significativo il fatto che sia il noutu sia il nebeli creino reti di relazioni che si estendono al di là dei confini etnici, riformulando in termini nuovi il senso dell’appartenenza a un gruppo. Analogamente al confronto fra gli stili di circoncisione in un quadro di comparazione regionale, la connessione fra noutu e nebeli permette di riflettere non solo sulle somiglianze ma anche sulle differenze. I progetti di umanità e di società che si delineano nell’alleanza mediante circoncisione e nell’associazione segreta si contrappongono nei loro intenti generali. Con il noutu si incre169
menta strategicamente la rete di relazioni del circonciso e del suo aggregato domestico e si trasmettono i valori che stanno alla base della vita sociale (esogamia, fratellanza, scambi, apertura verso gli altri ecc.). Con il nebeli si compie invece un estremo tentativo di strutturazione che si pone fuori dalla vita dei villaggi e si impone come costruzione ideale della configurazione sociale che si presenta chiusa, potente e compatta. E) Il fiume e il termitaio. – Le prime volte che mi sedetti sotto il négbámú per conversare con i locali avrei potuto domandare un’infinità di cose e forse questa ricerca avrebbe in ogni caso riguardato un’azione rituale denominata noutu. Ciononostante iniziammo a parlare di fiumi e termitai. Non so quanto potessero essere interessanti le mie domande, ma le risposte di Neti, Emalongo, Anyabose e altri ancora mi aiutarono a formulare ulteriori questioni. Dapprima parlarono della caccia, della pesca e dei lavori nei campi, discussero di foreste e di savane, raccontarono di spiriti acquatici e di termiti amanti della musica; ma ciò che più mi affascinò furono le loro riflessioni e i loro ragionamenti sul fiume come immagine della vita dell’uomo e sul termitaio come immagine ideale della società. Soprattutto durante il primo soggiorno sul campo, gran parte dei dialoghi oscillarono fra queste due immagini e la connessione tra fiumi e termitai si impose quasi senza volerlo. Quando iniziai a raccogliere informazioni sul noutu e constatai l’intreccio fra tematiche antropo-poietiche e koino-poietiche – cioè lo stretto legame fra il progettare l’uomo e il progettare le relazioni sociali – mi resi conto che il frammento di antropologia implicita emerso dalla connessione tra fiume e termitaio si dispiegava sullo sfondo delle tematiche analizzate e dell’oggetto di studio prescelto e, in un certo senso, racchiudeva l’intera argomentazione. In particolare, l’immagine del fiume con lo scorrere delle acque lungo l’asse zebo-zebu rimanda all’alleanza con la circoncisione, mentre l’immagine del termitaio si impone nella simbologia dell’associazione segreta del nebeli. È così che fiumi e termitai non solo si collocano all’inizio dell’intreccio, ma attraversano l’intero lavoro con la forza della loro immagine e la pregnanza dei significati simbolici contenuti in essi. 170
2. I tentativi di costruzione Il fiume e il termitaio rappresentano due poli estremi in cui racchiudere le vicende di un essere umano. La saggezza mangbetu rammenta agli uomini che «la piroga marcisce verso valle», così come i versi di Borges (in epigrafe al primo capitolo) ricordano che «il tempo è un altro fiume» in cui le nostre vite si perdono. La lotta contro la vita brevis dell’uomo non si esprime soltanto nel bramare per sé – alla pari del re di Uruk, Gilgamesh – l’immortalità degli dei, ma soprattutto nel dirigere la propria vita verso tentativi di strutturazione (i quali non sono altro che tentativi di costruzione). Ciò che si ottiene tuttavia non saranno mai meravigliosi edifici, inalterabili in eterno alla pari del formicaio di Dostoevskij e del termitaio che i Medje-Mangbetu collocano alla fine della stretta galleria di frasche che conduce al nébasa. «L’uomo è un animale per eccellenza costruttivo, condannato a tendere coscientemente verso la meta e ad esercitare l’arte dell’ingegneria» (Dostoevskij 1988: 34). Così come ci è parso di cogliere nelle foreste del Congo nord-orientale, l’essere umano sviluppa e realizza un progetto poietico relativo a se stesso e all’ambiente sociale in cui è inserito, e mentre costruisce se stesso, costruisce la propria società. Il nebeli e il noutu, pur essendo entrambi tentativi koino-poietici, modalità per «mettere insieme» individui al di là dei lignaggi e dei gruppi etnici, evidenziano due progetti totalmente differenti che coinvolgono non soltanto la costruzione della società ma anche la fabbricazione dell’individuo: il nebeli si presenta come un progetto di estrema strutturazione orbitante intorno all’idea della chiusura e della forza; il noutu si presenta invece come un progetto di debole strutturazione orbitante intorno all’idea dell’incremento e dell’alleanza. In base alla prospettiva antropo-poietica, ogni essere umano si presenta al mondo carente dal punto di vista istintivo e biologico. Nel corso della crescita dell’individuo tale carenza viene colmata in base al progetto di manipolazione e di trasformazione formulato all’interno del gruppo di appartenenza secondo precise indicazioni di ordine culturale. L’incompletezza dell’uomo dal punto di vista biologico non si supera tuttavia attraverso un rigido determinismo culturale, in quanto l’uomo – proprio alla luce della libertà che scaturisce dall’indefinitezza biologica – è condannato 171
a costruire se stesso ripensando e riformulando in continuazione il progetto di partenza, disponendo di modelli possibili e non necessari. La fabbricazione degli esseri umani segue percorsi e modelli particolari secondo le culture cui si appartiene e inevitabilmente si scartano altri percorsi e altri modelli. Alla luce di ciò i progetti attuati per la costruzione degli individui si basano su specifiche idee di umanità che inevitabilmente si presentano come «finzioni», dove il termine finzione è da intendersi nel duplice senso di «costruzione effettiva» e di «messa in scena»; si finge l’inevitabilità e la necessità di uno specifico intervento di manipolazione che è solo una scelta culturale all’interno di un ampio ventaglio di possibilità. Come si è già affermato in precedenza, nel caso del noutu si assiste a un evento antropo-poietico «dal giro lungo»: per fabbricare l’individuo si ridefinisce e si rimodella l’ambiente sociale circostante; il progetto antropo-poietico si sovrappone a un progetto koino-poietico. Il giovane circonciso diventa uomo in quanto va a occupare un ruolo preciso nell’inedito frammento di rete di relazioni in cui è inserito per mezzo di un’alleanza ottenuta con la circoncisione. A differenza dei classici rituali di iniziazione, la trasformazione del neofita non coinvolge principalmente il corpo, la psiche e le conoscenze, ma si inscrive nella società. L’incisione effettuata sul pene è in primo luogo un’incisione inferta sul tessuto sociale che irrimediabilmente si trasforma e si definisce. Davanti agli amekenge (i fratelli di circoncisione) si dischiude una società non più indifferenziata ed esterna al proprio aggregato domestico, ma costituita essenzialmente da potenziali interazioni per mezzo delle quali si preservano gli interessi dei propri consanguinei, si resta fedeli ai propri alleati, si scambiano beni economici, si progettano matrimoni e contemporaneamente se ne vietano altri. La rete di relazioni che scaturisce dalle varie alleanze tramite la circoncisione non si limita a definire le interazioni entro un preciso confine etnico e territoriale, ma spinge le sue ramificazioni nell’alterità, in quanto il fine ultimo del noutu è incrementare le proprie possibilità (di alleanze, di scambi, di matrimoni, di movimento ecc.), arricchire il proprio aggregato domestico, aumentare le relazioni al di là della parentela (il patrilignaggio esogamico localizzato). Il progetto di umanità che sottende all’azione rituale del noutu non si definisce in termini di esclusività e di identità di 172
gruppo, ma attinge esplicitamente nell’alterità decidendo di mescolare il sangue dei circoncisi, così come le sequenze rituali. La necessità di incrementare strategicamente il proprio aggregato domestico fa sì che in un momento particolarmente critico e cruciale della vita di un individuo (la circoncisione) si decida di compiere una scelta in un ventaglio di possibilità praticamente illimitato: si «finge» di diventare fratelli con coloro che hanno fatto scelte culturali diverse, dispongono di risorse diverse, occupano territori diversi. In altre parole, si ridisegna la società imbarcando alterità convinti di incrementare le proprie possibilità, di arricchire il proprio progetto di umanità e – per dirla con Banda Charles – di «colmare delle lacune che si hanno sul posto». Le reti di relazioni che si disegnano attraverso le varie alleanze con la circoncisione, pur orbitando intorno a rigide finzioni (le fratellanze di sangue) si presentano nel reale interagire fluide, dinamiche e dopotutto provvisorie, come testimonia la preoccupazione di Gaga Gabriel vedendo che il liganza (il noutu in kilika) che unisce la sua famiglia con «quelli di Makpulu» «è un po’ debole, a me neanche mi conoscono, bisognerebbe rinnovarlo con altri bambini anche se il liganza è eterno e quindi è la stessa cosa». Se durante il noutu si costruisce l’individuo e la società partendo dal desiderio di colmare le proprie lacune, nel fitto della foresta i nebelisti si chiudono in un recinto e creano tra sé una rigida società costituita da individui potenti che – secondo l’interpretazione proposta nel capitolo sesto – si pongono fuori dalle singole culture, dalle singole possibilità culturali frutto di scelte e inevitabilmente «colme di lacune». Il nebeli tuttavia non è la società, è fuori dalla società, si colloca in foresta lontano dalla quotidianità dei villaggi. È un’utopia (un non-luogo) che si afferma in un periodo di forte tensione e smarrimento dovuto all’imposizione del nuovo ordine coloniale. L’associazione segreta aspira a una forte strutturazione: essa si pone infatti come obiettivo il raggiungimento del termitaio che inevitabilmente si trova fuori dalla società e lontano da quelle intricate reti di relazioni le quali determinano il reale interagire degli individui uniti in pragmatici e provvisori progetti koino-poietici. L’uomo, parafrasando Dostoevskij, è un «animale per eccellenza poietico» e sullo sfondo del suo agire costruttivo (strutturante), caratterizzato da finzioni e reificazioni, da chiusure e aper173
ture, da rigidità e dinamismo, da pragmaticità e utopia, sembrano persistere due aspetti che si spera di aver fatto emergere nel corso di questo libro: il flusso e la pluralità. 3. La persistenza del flusso Numerose leggende mangbetu concernenti la lotta fra la vita e la morte collocano nel centro della narrazione la tartaruga, un animale che riesce in molte occasioni a fuggire la morte imitando, attraverso la strana conformazione del proprio corpo, l’inerzia delle pietre (Denis 1952: 155). La tartaruga, più di ogni altro essere vivente, non deve costruire nessun edificio in quanto il suo corpo è già dotato di una casa resistente e duratura; è sufficiente che ritragga la testa per entrare nella corazza e contemporaneamente «uscire» dal regno degli esseri viventi, eliminare il movimento e apparire come una anonima e imperturbabile pietra. La tartaruga, quale appare nelle leggende mangbetu, non è nient’altro che un’immagine perlopiù illusoria. Essa rende però efficacemente l’idea di ciò che si oppone al destino della vita e all’occorrenza fugge la morte: una costruzione inalterabile e resistente in cui inserirsi, anzi, con la quale convivere nell’intimità del proprio corpo per tutto il corso della vita e, in caso di pericolo, annullare qualsiasi azione e movimento «immortalandosi» come una pietra. La tartaruga delle leggende è un’immagine illusoria, in quanto la rigida corazza che si porta appresso accompagna l’animale lungo il flusso della vita biologica, e tutti gli esseri viventi, pur così bene strutturati, marciscono verso valle, verso il tramonto, esattamente come la piroga. Forse è soltanto più rassicurante affrontare il flusso della vita e del tempo che passa inseriti in qualche sorta di «edificio», protetti da soluzioni strutturanti. Nella società medje-mangbetu è lungo l’asse zebu-zebo (vallemonte) che si inscrive l’ineluttabile destino biologico dell’uomo. Zebu è la direzione delle acque dei fiumi e del sole nel suo percorso quotidiano: lo stesso tragitto è compiuto inesorabilmente dal tempo che passa e dalla vita che fugge via. Nelle pagine di questo libro sono stati riportati alcuni tentativi attraverso i quali l’uomo (medje-mangbetu e non solo) cerca di resistere alla corrente e di risalire verso zebo (cap. I, § 3). Si è visto come il capo mangbetu 174
durante il rito di investitura debba coricarsi in un corso d’acqua e resistere simbolicamente alla corrente, e soprattutto si è voluto insistere sulla simbologia legata alla lotta contro zebu e alla risalita verso zebo dei circoncisi durante le fasi conclusive del noutu. La direzione zebu viene affrontata dai circoncisi in solitudine, in quanto ci si accinge a combattere una lotta personale contro l’oblio, la dissoluzione e la morte. È verso zebu che i circoncisi lanciano la freccia in cui viene simbolicamente conficcata la malasorte, e nella stessa direzione i circoncisi si «immergono» per una notte intera abbandonando durante il sonno le negatività della vita futura. Nel giorno in cui si sancisce attraverso un pasto comune la fratellanza fra i compagni di circoncisione, ogni singolo futuro amekenge lascia la nébha (situata a zebu) scelta il giorno precedente per trascorrervi la notte. La risalita da zebu a zebo esprime simbolicamente l’abbandono della riflessione personale sulla finitudine della propria esistenza e il dirigersi, alleggerito dalla malasorte, verso la vita adulta. Forse sarebbe meglio dire che verso zebo si dirige la vita stessa, e si compie una scelta: ci si sta indirizzando verso la pentola del netonyo dove la propria vita verrà annodata a determinati individui e non ad altri. Se si accetta questa interpretazione, allora il lancio della freccia verso zebu acquista un nuovo significato, in quanto non si esorcizza soltanto la morte (la «discesa» biologica) ma anche gli accidenti della vita intesi come accidenti del destino cioè «quello che potrebbe essere altrimenti e che non è affatto da noi modificabile» (Marquard 1991: 152). Il progetto antropo-poietico e koino-poietico racchiuso nella risalita verso zebo «finge» che l’uomo sia fatto soltanto sulla base delle sue scelte e «finge» che gli accidenti della vita (fra i quali le malattie, le sfortune e il più ineluttabile degli accidenti, la morte) si stiano allontanando verso zebu infilzati nella freccia, fuoriusciti durante il sonno e immersi nelle acque del fiume. La costruzione dell’uomo è nuovamente connessa al tema della finzione, «poiché noi uomini non siamo soltanto le nostre azioni, guidate dall’intenzione [le nostre scelte], bensì anche i nostri accidenti» (Marquard 1991: 143)1. Malgrado ciò ogni circonciso risale sicuro verso la nébha del noutu (collocata a zebo) dove si riunirà ai suoi amekenge intorno al cibo appositamente preparato. Qui sperimenterà il significato della fratellanza e si assumerà le responsabilità di un agire corret175
to nei confronti degli individui inseriti nella rete di relazioni nata dal noutu. A partire da questo momento avrà alleati da rispettare, villaggi da visitare, risorse da sfruttare, scambi da effettuare, donne con cui non potrà assolutamente unirsi e probabili matrimoni all’orizzonte. In altre parole il nuovo circonciso, costruendo se stesso attraverso la riformulazione dell’ambiente sociale che lo circonda, avrà fatto un significativo passo avanti verso la tessitura della propria vita. Precedentemente (cap. IV, § 2) ho affermato che il denso reticolo costituito dalle alleanze con la circoncisione «viene vissuto come uno scudo protettivo o meglio come un bozzolo dalle mille possibilità». Ebbene, questo bozzolo (questo tentativo di costruire e di costruirsi) pur ricordando la corazza della tartaruga, presenta – come d’altra parte qualsiasi tentativo antropo-poietico e koino-poietico – una duplice fragilità. Infatti, se i progetti di fabbricazione dell’uomo e dei reticoli sociali non sono ovviamente immuni dalla dissoluzione verso zebu, dagli accidenti della vita, dall’ineluttabilità della fine (gli uomini muoiono e con essi i legami che avevano tessuto in vita), occorre aggiungere che, al di là del flusso della vita, i tentativi di costruzione e di strutturazione sono investiti dal flusso della storia. I progetti antropo-poietici – che in molti casi sono anche progetti koino-poietici – si trasformano nel tempo: il patto di sangue dei gruppi di lingua mangbetu ha probabilmente «metabolizzato» la circoncisione dei gruppi di foresta; le iniziazioni budu e lika si sono riadattate incorporando l’ideologia dell’alleanza; il rito di circoncisione degli Iraqw della Tanzania settentrionale ha perso il carattere collettivo dopo la riforma denominata Ujamaa (cap. IV, § 7). Inoltre, molte delle cosiddette società segrete del Congo si sono affermate in seguito all’instaurarsi del potere coloniale che ha irrimediabilmente mutato il significato delle appartenenze ai tradizionali domini politici. È importante sottolineare – seguendo le argomentazioni di Georges Balandier – che soprattutto nei periodi di forte crisi la società ci appare come «un’opera collettiva mai compiuta e continuamente da rifare» (Balandier 1973: 9). A ben vedere, ogni società è sempre in corso di costruzione ed è per tale motivo che si reputa estremamente importante: questo rilievo dato alla storia [...]. Questa ricerca delle contingenze che esprimono l’intima vita delle società e i loro drammi, questo rico-
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noscimento dei diversi dinamismi in esse continuamente operanti per farle e disfarle (1973: 2).
Da tutto ciò traspare un’immagine della società molto simile all’immagine dell’uomo che scaturisce dalla prospettiva antropopoietica, cioè come un qualcosa di non definito e di precario. Le domande, i dubbi e le risposte che emergono quando si progetta l’essere umano sembrerebbero non lontane da quelle che emergono quando si progettano i gruppi umani (le configurazioni sociali). I progetti koino-poietici ripropongono le ansie e i dubbi che spesso i gruppi umani esprimono nel momento in cui devono plasmare i giovani individui secondo modelli e idee di umanità che si «fingono» insostituibili e necessari. Per Balandier l’Africa colonizzata rivela in modo eclatante questa componente ineluttabile del «costruire» umano: La società ci appare [...] sempre più condizionata dalla precarietà. Essa [...] è riconosciuta come assetto fragile e problematico dei sistemi di relazioni che regolano l’attività collettiva, e l’ordine, il disordine e l’incertezza vi sono contemporaneamente presenti (1973: 11).
Gli uomini tuttavia di fronte alla persistenza del flusso della storia non dimostrano soltanto fragilità e debolezza, ma in molti casi una capacità di reagire che Friedrich Nietzsche – nella sua seconda considerazione inattuale Sull’utilità e il danno della storia per la vita – definisce mirabilmente la «forza plastica» dell’uomo. Il filosofo tedesco, partendo dalla preoccupazione che la storia affossi e travolga il presente, sottolinea l’importanza della «forza plastica di un uomo, di un popolo o di una civiltà [...] quella forza di crescere a modo proprio su se stessi, di trasformare e incorporare cose passate ed estranee, di sanare ferite, di sostituire parti perdute, di riplasmare in sé forze spezzate» (1990: 8-9). La «plasticità» non agisce soltanto nel particolare rapporto dell’uomo con la storia, ma più in generale definisce l’essere e l’agire dell’uomo considerato dallo stesso Nietzsche una sorta di «animale non consolidato». Tutto ciò riconduce alle riflessioni gehleniane sull’uomo come essere carente e alla prospettiva di Robert Musil dell’uomo delle possibilità «caratterizzata dall’acuta rivelazione dell’ambiguità costitutiva della natura umana, dal fatto 177
che quest’ultima non ha un vero e proprio centro, articolandosi in un ambito vitale fluttuante e indefinibile: l’uomo è portato ad assumere costumi, stili di vita, ‘l’apparato di una organizzazione’» (Fadini 1995: 9). Per Gehlen la plasticità dell’umano è un pericolo al quale si può ovviare attraverso «l’istituzione come messa in forma dell’azione» (Fadini 1995: 20); per Nietzsche è invece una ricchezza dell’uomo. La plasticità non rappresenta soltanto il destino dell’uomo (il quale cerca di camuffarla mostrando e fingendo le proprie scelte necessarie e indispensabili e i propri «edifici» inalterabili), ma – come ha intuito Nietzsche – è una caratteristica insita nell’uomo che gli permette di costruire e di costruirsi immerso, con la sua «inquietante assenza di forma», nel duplice flusso degli accidenti della vita e della storia. Quando l’uomo attribuisce una forma a se stesso e alle configurazioni sociali non applica la sua «forza plastica» soltanto in una dimensione temporale (la vita e la storia), ma anche in una dimensione spaziale abitata da variazioni culturali. L’uomo – per dirla con Nietzsche – trasforma e incorpora sia cose passate sia cose estranee. Ciò è particolarmente evidente sia nell’alleanza mediante circoncisione attraverso la quale si «attinge nell’alterità», sia nel nebeli il cui progetto è condiviso da molti gruppi etnici della regione e – a detta di Banda Charles – è rintracciabile in tutta l’Africa. Ancora una volta, si vuole ribadire l’importanza del nesso della trasversalità e dell’interetnicità con le tensioni e pressioni del nuovo ordine coloniale: i momenti di crisi e di forte mutamento e turbolenza sociale portano al superamento dei raggruppamenti tradizionali (regni, domini, clan, villaggi, lignaggi), alla riformulazione dei confini e a nuovi tentativi strutturanti che tagliano trasversalmente le antiche appartenenze. Ciò che permane al di là dell’inevitabile flusso è il carattere collettivo (plurale) di ogni tentativo di strutturazione (costruzione); non si costruisce e non ci si costruisce nella solitudine. 4. La necessaria pluralità Se è vero che i progetti di costruzione della società incorporano il flusso del tempo – che saremmo più propensi a inscrivere nella vita brevis dell’uomo, piuttosto che nella costruzione degli «edifici» 178
sociali – è altrettanto vero che i progetti di costruzione dell’uomo incorporano l’idea del «mettere insieme» (l’idea della pluralità) – che saremmo propensi invece a considerare maggiormente costitutiva della società piuttosto che dell’essere umano. Dire che la pluralità sembra essere una condizione importante affinché si possa diventare uomini, non è altro che specificare il significato dell’indissolubile legame fra il progetto antropo-poietico e quello koino-poietico. Lo stesso Nietzsche prevede per gli uomini un progetto antropo-poietico (in realtà un superamento dell’uomo stesso). In tale progetto – «rivelato» all’umanità grazie alla scelta di NietzscheZarathustra di scendere la montagna e parlare al genere umano – la componente collettiva e plurale non viene contemplata; anzi, occorre andare oltre alle «greggi» e ai «popoli» e soprattutto frantumare le finestre del nuovo idolo, lo Stato, «il più gelido di tutti i gelidi mostri [...] un artificio infernale [...], un cavallo della morte, con finimenti tintinnanti di onori divini» (Nietzsche 1989: 5455). Questa decisa condanna di ogni forma di koiné si accompagna a un esplicito invito a costruirsi in perfetta solitudine: Amico mio, fuggi nella tua solitudine! Io ti vedo assordato dal fracasso dei grandi uomini e punzecchiato dai pungiglioni degli uomini piccoli. La foresta e il macigno sanno tacere dignitosamente con te. Sii di nuovo simile all’albero che tu ami, dalle ampie fronde: tacito e attento si leva sopra il mare. Là dove la solitudine finisce, comincia il mercato; e dove il mercato comincia, là comincia anche il fracasso dei grandi commedianti e il ronzio di mosche velenose. [...] Amico mio, fuggi nella tua solitudine e là dove spira un’aria forte e inclemente. Non è il tuo destino essere uno scacciamosche (Nietzsche 1989: 54-55).
Nietzsche suggerisce la via affinché ogni singolo individuo possa completarsi e contemporaneamente collocarsi al di là degli uomini. Questo tragitto trasformativo prevede il rifugio nella perfetta solitudine esemplificata dalla maestosità di un albero muto e appartato; si fugge la morte del chiassoso mondo occupato dalla moltitudine degli uomini per innalzarsi alla vita ritornando ad essere simile all’albero. Può essere interessante osservare che in ambito antropologico, la più frequente metafora della vita è in effetti l’albero (Cardona 179
1993: 117): si pensi alla visualizzazione dell’albero genealogico, ai miti di creazione in cui gli uomini hanno origine da un albero o fuoriescono dal tronco; lo stesso schema corporeo dell’uomo viene applicato alle piante che risultano così fornite di braccia, di una chioma e di vene (Cardona 1988: 57). Fra i gruppi delle alte terre dell’est (rispetto al bacino del Congo), è curioso constatare che la stretta vicinanza fra l’albero e l’uomo è riscontrabile nella lingua dei Banande del Kivu in cui la classe -omu è al singolare sia la categoria degli esseri umani (omu-ndu, uomo) sia la categoria degli alberi e delle piante (omu-ti, albero). Soltanto al plurale – ed è questo l’elemento più rilevante – uomini e piante rientrano in categorie linguisticamente distinte (ava-ndu, uomini; emi-ti, alberi)2. La separazione fra l’umanità e il mondo vegetale avverrebbe (almeno a livello linguistico) in relazione alla «pluralità». L’uomo si definirebbe in quanto tale solo nella pluralità: un concetto, quest’ultimo, già rinvenuto al centro del progetto antropo-poietico contenuto nel noutu medje-mangbetu. Con la solitudine auspicata da Nietzsche o ci si allontana dall’idea di umanità rintracciabile in alcuni contesti dell’Africa centrale, oppure si fuoriesce dall’umanità, come lascerebbe intendere in molti passi l’insegnamento di Zarathustra. Restando fra i Banande, l’iniziazione maschile alla vita adulta (olusumba) prevede una fase preliminare (omukumo) in cui emerge chiaramente l’idea di pluralità. L’omukumo prevede l’assembramento dei giovani candidati all’iniziazione, i quali, una volta riuniti, danno forma a una sorta di processione con danze e feste che si conclude in foresta, nel luogo dove avverrà l’iniziazione (Remotti 1996b: 183). Il termine omukumo significa «riunire, raccogliere, mettere insieme», e in effetti è una riunione che mette insieme individui provenienti da diversi villaggi. È significativo sottolineare il fatto che, prima di «mettere mano» all’uomo, prima di riflettere su cosa e come debba diventare un Munande adulto, occorre creare e sancire – attraverso l’azione rituale della processione – una pluralità; si diventa uomini insieme. Sebbene nell’olusumba l’idea del «mettere insieme» sia preliminare e non centrale come nel noutu, sembra nondimeno opportuno fare emergere alcuni elementi che mostrano come l’idea della pluralità (del «mettere insieme») non appaia soltanto come premessa nelle fasi iniziali dell’olusumba. 180
In primo luogo, omukumo è il nome di una società segreta, a cui un tempo si accedeva attraverso l’olusumba. Questo legame fra l’idea del «riunire, raccogliere, mettere insieme» presente nel rito di iniziazione all’età adulta e la società segreta conferma il valore della connessione precedentemente introdotta fra il noutu (la circoncisione medje-mangbetu) e l’associazione segreta denominata nebeli, un rapporto che orbita intorno al concetto di strutturazione e ai diversi tentativi, interni a una società, di «unificare» e quindi «costruire» una koiné. Similmente a ciò che accade nel confronto noutu-nebeli, anche l’omukumo, inteso come società segreta, conduce in foresta. Sarebbero infatti i Bapere (abitanti della foresta che si sviluppa ad occidente rispetto ai domini nande) ad aver trasmesso ai Banande i significati dell’iniziazione denominata olusumba, la quale probabilmente è di derivazione pigmea (sono infatti i Pigmei, come viene ricordato nel cap. IV, § 4, a possedere una propria associazione iniziatica denominata lusumba). In secondo luogo, la circoncisione nande viene considerata indispensabile per accedere a una serie di prove fra cui l’olusaba che significa «preghiera comunitaria, azione o forza comune» (Remotti 1996b: 206). I neofiti, dopo aver predisposto un mucchio di ramoscelli, vengono messi in fila o in modo da formare un cerchio e devono passarsi di bocca in bocca i ramoscelli usando solo le labbra senza aiutarsi con le mani. Questa prova ricorda da vicino ciò che accade nella nébha del noutu durante il pasto finale, nel quale si porge alle labbra di ogni singolo amekenge un pezzo di banana con un po’ di netonyo per poi darlo all’ultimo momento al circonciso seduto a fianco. Questa «finta» con la banana si ripete per tutti i fratelli di circoncisione ed è stata interpretata dagli informatori come il segno più evidente della comunione e della solidarietà instaurata fra gli amekenge. In relazione allo spirito di comunità evocato durante l’olusaba, si può connettere una canzone nande, la quale rappresenta un’efficace contro-proposta al progetto antropo-poietico di NietzscheZarathustra: «La vita è migliore in comunità; la comunità è difficile da vivere; la solitudine è più incresciosa della comunità. Mio nonno non si sarebbe sposato» (Waswandi 1981: 106, citato in Remotti 1996b: 207). Ancora una volta si impone il parallelismo con i significati emersi nel noutu, in quanto per avere una circoncisione «di valore» fra i Medje-Mangbetu non bisogna essere da 181
soli ma in gruppo, così «ci sarà molta gente che vi amerà e ci saranno matrimoni fra chi verrà» (Victor Maimbo). Nel noutu l’idea della pluralità occupa il centro della scena. Infatti, lo scopo ultimo dell’alleanza con la circoncisione non è tanto – come nell’olusumba nande – la trasmissione di un’identità specifica e la trascrizione nel corpo, nella psiche e nelle conoscenze di un progetto esclusivo di un gruppo umano, quanto l’incremento della propria rete di relazioni, un incremento che non si esprime ritualmente e in modo esplicito attraverso i segreti e le chiusure ma piuttosto con l’apertura e il ricorso all’alterità, con il rimodellamento dell’ambiente sociale circostante. L’azione poietica sull’uomo si confonde con l’azione poietica sulla società (koino-poiesi) ed è per questo che diventa necessario dare forma all’uomo partendo da una materia «plurale». L’azione attraverso la quale si costruisce l’uomo coincide con l’azione per mezzo della quale si «mette insieme» una pluralità di individui. L’uomo costruisce se stesso fabbricando (modellando) l’ambiente sociale circostante e tutto ciò lo fa per ampliare e definire la rete di relazioni in cui è chiamato ad agire. Paradossalmente rispetto a ciò che si è affermato in precedenza, l’alleanza con la circoncisione potrebbe essere definita una vera «iniziazione alla vita», a patto che il termine iniziazione acquisti il significato di «cominciamento»: il neo-circonciso costruisce se stesso, inaugura la tessitura dei rapporti sociali fuori dalla cerchia dei parenti e in ultimo inizia ad agire-nel-mondo: gestisce un’alleanza, sottostà a un patto, scambia beni, osserva le regole esogamiche ed escogita strategie matrimoniali. Gli interpreti dell’olusumba nande direbbero forse che il circonciso prova ad «essere-con sulle colline» (Remotti 1996b: 206) e in effetti il progetto antropo-koino-poietico in cui viene inserito il circonciso rappresenta – in base a ciò che si è affermato finora – una prima ossatura e intelaiatura in cui l’individuo agisce con gli altri individui nel mondo. Il nesso fra la pluralità, la condizione umana e l’agire dell’uomo si ritrova nel pensiero di Hannah Arendt. Per l’allieva di Husserl, di Heidegger e di Jaspers il concetto di pluralità rappresenta la più importante premessa antropologica della sua teoria politica: L’azione, la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione
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umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo. Anche se tutti gli aspetti della nostra esistenza sono in qualche modo connessi alla politica, questa pluralità è specificamente la condizione – non solo la conditio sine qua non, ma la conditio per quam – di ogni vita politica (Arendt 1994: 7).
Hannah Arendt ridefinisce l’uomo a partire dalla vita activa – un’espressione utilizzata dai filosofi medievali per tradurre l’aristotelico bios politikos – e sottolinea la necessità della polis come spazio pubblico in cui gli uomini interagiscono e comunicano fra loro. Secondo Arendt, la centralità dell’idea di pluralità riscontrabile nel concetto della polis greca (non meno che nel noutu dei Medje-Mangbetu) sarebbe stata smarrita nel pensiero occidentale nel momento in cui il singolo filosofo Socrate si pone contro l’intera polis e ancor più quando Platone nella Repubblica espone il mito della caverna, «dove il filosofo, liberatosi dalle catene che lo legavano ai suoi simili, lascia la caverna in perfetta ‘singolarità’, cioè né accompagnato né seguito da altri» (Arendt 1994: 16). Il pensiero e la contemplazione acquistarono quindi un valore nettamente superiore all’agire e tale primato venne successivamente condiviso nel cristianesimo; la costruzione e l’iniziazione dell’uomo divennero sempre più una questione individuale, privata e singolare3. L’uscita solitaria dalla caverna è in effetti una delle immagini più emblematiche della «crescita dell’uomo» nella cultura occidentale. Tale immagine, in particolare la solitudine dell’individuo, non trova riscontro nei percorsi poietici (iniziatici e non solo) analizzati in queste pagine e incentrati sull’idea del mettere insieme una pluralità di esseri umani. I progetti antropo-koinopoietici rinvenuti in lontani angoli della foresta equatoriale africana preservano la pluralità come costitutiva dell’idea di uomo, come una conditio per quam nella formulazione di una certa antropologia. Al centro di questa antropologia si pensa possa risiedere quello che la saggezza popolare esprime in un modo molto chiaro: un proverbio nande afferma che «la forza degli uomini è l’unità» e un proverbio mangbetu dice che «una sola termite non fa olio in una pentola». Si è visto come il termitaio rappresenti l’immagine più efficace per esprimere il fine ultimo dei progetti di strutturazione verso i quali tende l’agire degli uomini medjemangbetu. Si è oltremodo verificato come questo destino poieti183
co dell’uomo (un destino mirabilmente dipinto da Dostoevskij) non sfugga al flusso della vita e della storia, un flusso impresso nello scorrere inesorabile delle acque dei fiumi. L’immagine dell’antica e irripetibile esperienza di strutturazione rappresentata dalla polis greca (e riproposta nel pensiero dell’Occidente dalla Arendt) potrebbe assomigliare all’immagine del termitaio contenuta nei racconti di Neti e di Anyabose, così come lo scorrere dei fiumi verso zebu potrebbe contenere le ansie dei mortali in cammino verso l’Ade. In un famoso passo dell’Antigone di Sofocle, conosciuto come «il canto dell’uomo», sono narrati gli sforzi degli uomini (della cultura) per dominare la natura, l’inevitabile flusso verso la morte (appunto l’Ade) e il rifugio di una pluralità di uomini in una configurazione sociale (la polis). Forse, in conclusione, vale la pena riportare le parole pronunciate dal Coro dei vecchi tebani, un altro modo per narrare di fiumi e termitai4: Molti sono i prodigi e nulla è più prodigioso dell’uomo, che varca il mare canuto sospinto dal vento tempestoso del sud fra le ondate penetrando che infuriano d’attorno, e la più eccelsa fra gli dei, la Terra imperitura infaticabile, consuma volgendo l’aratro anno dopo anno e con l’equina prole rivolta. [...] E apprese la parola e l’aereo pensiero e impulsi civili e come fuggire i dardi degli aperti geli e delle piogge. D’ogni risorsa è armato, né inerme mai verso il futuro si avvia: solo dall’Ade scampo non troverà;
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ma rimedi ha escogitato a morbi immedicabili. Scopritore mirabile d’ingegnose risorse, ora al bene ora al male s’incammina: in alto nella città se conserverà le leggi della sua terra con la giustizia che ha giurato; fuori dalla città, se per audacia si macchierà d’infamie. [...]
Note
Capitolo primo 1 A livello politico-amministrativo, il territorio medje-mangbetu – situato per la maggior parte fra i 2° e i 3° di latitudine nord e fra i 27° e i 28° di longitudine est – fa parte della Provincia Orientale della Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire), della sotto regione (sous-région) dell’Haut-Uele e della zona (zone) di Rungu. Quest’ultima è suddivisa in diverse collectivités fra cui quelle di Mongomasi, Ndei e Azanga sono abitate da Medje-Mangbetu, mentre quella di Medje-Mango, non avendo subito la conquista mangbetu, è popolata in prevalenza da Medje. La collectivité è ulteriormente divisa in unità amministrative più piccole denominate groupement. È probabile che i nomi delle divisioni amministrative siano in parte mutati dopo la fine del regime di Mobutu. In queste pagine ho mantenuto le denominazioni ammesse e utilizzate nell’arco di tempo in cui ho svolto la ricerca sul campo (1995-1996) ad eccezione del nuovo nome regionale (Province Orientale al posto di Haut-Zaire). 2 È uno dei molteplici dialetti della lingua mangbetu appartenente – in base alla classificazione di Greenberg (1963) – alla famiglia linguistica sudanese centro-orientale (del grande gruppo delle lingue nilo-sahariane). Il nemedje è parlato dall’intera popolazione e si differenzia dal mangbetu soprattutto per la mancanza del prefisso consonantico «k» (per esempio, l’alleanza con la circoncisione è noutu in medje e nekutu in mangbetu). Oltre al dialetto autoctono, pochi individui parlano il francese mentre tutti conoscono la lingua bangala (una variante regionale del lingala, una delle lingue ufficiali del Congo). Alcuni individui (si tratta soprattutto di coloro che vivono vicino ai villaggi budu) affermano di comprendere il kiswahili; in effetti il confine fra gli insediamenti medjemangbetu e quelli dei Babudu risulta essere anche un confine linguistico fra lingala e kiswahili. Durante il lavoro sul campo ho cercato di compiere le interviste sempre nella lingua autoctona dell’informatore con l’aiuto di collaboratori in grado di fornirmi traduzioni, anche letterali, in francese. 3 Sui cibi e le bevande consumate dai Mangbetu si veda Lelong 1946: 95130. Un dettagliato resoconto sulla raccolta e il consumo delle termiti presso i Badjo (un importante clan assimilato ai Medje e insediato nella collectivité Mongomasi) è contenuto in Bernard 1912. Sul rapporto fra l’uomo e le termiti in Africa, analizzato da differenti punti di vista, si veda Iroko 1996. 4 Pesca eseguita dalle donne nella stagione secca. Nei piccoli fiumi o nelle insenature di quelli un po’ più grandi si creano sbarramenti con la terra e si at-
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tende che tutta l’acqua diminuisca di livello. I pesci si prendono con le mani o con una rete apposita denominata nado o noliandro. 5 La definizione è di Robert McKee (1995: 48). Si rimanda al capitolo successivo per un’analisi dei gruppi e dei lignaggi. 6 È Francesco Remotti ad aver connesso alcuni casi etnografici (Kuba, Lele e Pirá-paraná) parlando del rapporto fra l’immagine del fiume e la categoria del flusso opposta a quella della strutturazione (Remotti 1993: 167-170). 7 Lungi dal voler estendere la comparazione etnografica al di là di un ragionevole ambito regionale, mi pare tuttavia significativo accennare ad alcune culture amazzoniche dove la simbologia connessa all’immagine del fiume si impone nelle rappresentazioni che queste società elaborano su se stesse e sulla loro origine. 8 Nel senso in cui ne parla il filosofo tedesco contemporaneo Odo Marquard, il quale sottolinea come la parola dubbio, Zweifel, contiene il due, Zwei, cioè la molteplicità (Marquard 1991: 156). 9 Ci si procura dei fili «da pesca» (neipelo) ricavati dall’interno del tronco di banano. A una estremità del filo si lega una specie di amo (noki) costituito da una spina della foresta e un piccolo pezzo di ramo di kongolo. Il filo è legato nella parte mediana di quest’ultimo. I noki, a cui vengono infilzati i vermi, vengono inseriti fra le radici sommerse in acqua delle piante che crescono sui margini dei fiumi.
Capitolo secondo 1 Come mostra ironicamente Mary Louise Pratt, la figura dell’osservatore sprovveduto è difficilmente assente dagli scritti etnologici: «Quasi in ogni monografia etnografica, ottuse figure di ‘semplici viaggiatori’ o di ‘osservatori casuali’ compaiono di tanto in tanto per permettere al competente scienziato di correggere, o confermare, le loro superficiali impressioni» (1997: 51). In realtà anche l’antropologo (in qualità di «competente scienziato») dimostra «sprovvedutezza» sul piano della capacità di attraversamento culturale, in quanto non possiede una strumentazione concettuale che si ponga al di fuori della propria cultura e della cultura che ha scelto quale oggetto di studio (Remotti 1990: 162). 2 I lavori di Vansina sono da considerarsi fondamentali per chi si occupa della storia e dell’etnografia dei popoli dell’Africa centrale. Svolgendo le sue ricerche principalmente nel Congo (ex Zaire), in Rwanda e in Burundi, Vansina ha contribuito alla valorizzazione della tradizione orale come fonte storica (1967, 1985) fornendo inoltre importanti opere di sintesi sia per ciò che concerne l’etnografia dei popoli del bacino del Congo (1966), sia per ciò che riguarda il popolamento e l’evoluzione delle istituzioni politiche tradizionali in Africa equatoriale (1990a). 3 Per compound si intende un’unità residenziale composta da più abitazioni avente i confini ben delimitati. 4 Soprattutto nell’ultimo decennio la nozione di house si è inserita nel dibattito sulla ridefinizione delle relazioni di parentela nella salvaguardia delle categorie concettuali indigene (Gudeman 1990, Carsten e Hugh-Jones 1995). 5 Nella scia della revisione concettuale che vede le diverse scuole proporre – a volte in modo antagonistico – alternative e miglioramenti nei confronti di no-
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zioni quali «clan», «lignaggio», «discendenza» e «famiglia», non va dimenticata la letteratura che pone al centro delle proprie descrizioni della società il concetto di household (Yanagisako 1979, Netting et al. 1984), traducibile in italiano con «aggregato domestico» (Barbagli 1977: 9) e utilizzato per definire solitamente un gruppo coresidente, in cui esistono funzioni specifiche e confini precisi. È stato osservato che anche quest’ultimo concetto apparterrebbe a quell’insieme di nozioni che – per dirla con Michel Verdon (1991: 2) – «hanno lasciato intravedere delle fessure» nel distinguere le attività domestiche da quelle esterne, i criteri di residenza e le funzioni economiche, cosicché alcuni studiosi hanno preferito utilizzare i concetti di domestic group, co-residential groups o budget unit (Grinker 1994: 114). 6 L’uso maiuscolo del termine (Casa) viene qui convenzionalmente riservato alle «case» reali come appunto la Casa Mangbetu. 7 Il termine nébasa lo si incontrerà nuovamente nel sesto capitolo in quanto l’edificio costruito in foresta e sede delle riunioni dell’associazione chiusa del nebeli viene denominato appunto nébasa. 8 I dati riportati in questo paragrafo sono desunti dalle ricerche di Mary Allen McMaster (1988) e di Christopher Ehret (il cui manoscritto Proto-CentralSudanic Reconstructions è spesso citato nel lavoro della McMaster), entrambe ampiamente utilizzate da Vansina (1990a, 1990b) nella ricostruzione storica concernente il Congo nord-orientale. Il metodo utilizzato da Ehret e McMaster si basa sulla comparazione dei termini linguistici e degli oggetti di cultura materiale; è inevitabile che i dati riportati non possano essere verificati in altro modo e che quindi occorra valersene con opportuna cautela. 9 Il termine big man (utilizzato soprattutto nell’etnografia della Nuova Guinea) indica nel linguaggio tecnico dell’antropologia una particolare figura di leader il cui potere è fondato sulla ricchezza, sul prestigio e sull’abilità nello stringere alleanze. Lo status di big man, alquanto precario, non dipende da regole di legittimazione e non è neppure ereditario. 10 I gruppi mangbetu si presentarono divisi in parecchi sottogruppi linguistici: i Medje si insediarono fra il Nava e il Nepoko; i Malele, i Makere e i Popoi si spinsero più a ovest, mentre gli Abelu e i Lombi penetrarono notevolmente nella foresta in direzione sud. 11 Gli Abelu e i Lombi sono i gruppi di lingua sudanese centro-orientale insediati più a sud, gli unici di tale gruppo linguistico che sono penetrati in profondità nella foresta e quindi nei territori esclusivamente bantu. La contrapposizione a un mondo completamente altro (la foresta, culture e lingue bantu) viene espressa dagli stessi nomi etnici: infatti nei dialetti mangbetu esistono due termini per denominare genericamente l’essere umano (Larochette 1958a: 162, 173): nabélu (plur. ábélú) e nóómbí (plur. óómbi). Per gli Abelu e i Lombi – circondati da gruppi bantu – bastava definirsi nella loro lingua «uomini» per differenziarsi dagli altri, oppure furono gli altri (come spesso accade) a denominare con tali termini generici i loro vicini. 12 Sulla ricostruzione della cronologia dinastica e delle genealogie dei vari capi mangbetu si vedano Hutereau 1922 e Denis 1961. 13 Lo Stato Indipendente del Congo nacque nel 1885 in seguito al Trattato di Berlino che riconobbe la sovranità del re belga, Leopoldo II, su tali territori. 14 Sulle incursioni degli «Arabi» nelle terre del Uele e del Bomokandi e sugli scontri sia con le popolazioni autoctone sia con le prime spedizioni militari
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belghe (soprattutto la spedizione Vankerckoven) si segnalano le ricerche del missionario domenicano Léon Lotar incentrate sulla storia dell’occupazione del Congo settentrionale (Lotar 1935, 1946). 15 Sulle relazioni famigliari mangbetu si veda lo studio del missionario Luigi Moser sui rapporti di parentela per filiazione e per alleanza fra i Mangbetu della collectivité Azanga (Moser 1983), qui denominati Medje-Mangbetu del nord.
Capitolo terzo 1 D’ora in poi quando si parlerà genericamente di noutu si intenderà il noutu eipopoi. 2 Il termine amekenge non appare in alcuna fonte bibliografica consultata e gli stessi informatori non hanno saputo precisarne il significato semantico. L’unico dato linguistico che ho rintracciato – dal quale tuttavia è difficile trarre ipotesi e supposizioni – è contenuto in un dizionario ngbandi (lingua parlata da gruppi ubangiani del Congo) in cui si riporta il termine kenge tradotto con «circoncisione» (Lekens 1952: 231). 3 Letteralmente «gli escrementi (nedi) del nengama». Il nengama è un animale simile al pangolino che si trova sovente nei pressi dei termitai in quanto si nutre di insetti; i suoi peli, se ingeriti, provocano la morte agli esseri umani e per tale motivo il nengama ha una fama sinistra ed è sovente connesso alla magia. 4 «Nesamba» è termine di origine bantu che si ritrova in molte lingue della parte orientale del bacino del Congo; fra i Bakomo (De Mahieu 1985: 120) il radicale samba è connesso al patto di sangue (konsamba) e alcuni informatori bapere mi hanno riferito che pure in kipere samba è la fratellanza di sangue fra due individui (ciò che fra i Medje-Mangbetu e fra gli altri gruppi di lingua mangbetu prende il nome di noutu tekpo). Per i Babudu, musamba è il circoncisore mentre aluamba è l’infermiere. Per i Banande del Kivu (Remotti 1996b: 184) omusamba è colui che assiste e protegge il ragazzo durante l’intero rito di circoncisione (olusumba). 5 Un’idea non lontana dal concetto di «simbolismo imitativo» rintracciato da Evans-Pritchard nello studio sulla magia zande (1976). 6 Il termine neigwa (il cui significato letterale è «vedovo, vedova») veniva tradotto dai miei collaboratori anche con i termini «sporcizia» e «impurità» per farmi meglio comprendere la condizione in cui versa un individuo denominato neigwa. Pertanto utilizzo il termine «purificazione» nell’accezione di «uscita dallo status di neigwa» in quanto aiuta a rendere l’idea di ciò che sta accadendo. Tuttavia «purificazione» non è la traduzione corretta di alcuna parola locale con il significato contrario a neigwa (si veda anche il cap. V, § 3). 7 Il termine alleanza occorre qui intenderlo nel suo classico uso etno-antropologico e quindi connesso alle norme matrimoniali generate dai principi della reciprocità e dello scambio. 8 L’idea che la ritualizzazione sia essenzialmente una messa in scena di una certa forma relazionale (Severi e Houseman 1994) si muove nella stessa direzione qui proposta, in cui l’azione rituale si connette (rimanda) alle modalità delle interazioni sociali e queste ultime penetrano e si definiscono nel rito. 9 Il rapporto fra il rituale e il mutamento (sociale e storico) è stato oggetto
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di specifiche analisi etno-antropologiche. Sul rituale come pratica sperimentale e azione trasformativa capace di incanalare gli eventi e i mutamenti storici e di rappresentare spesso «un veicolo per la costruzione della storia» si veda la raccolta di saggi curata da Jean e John Comaroff (1993) e per certi aspetti anche il classico studio di Clyde Mitchell sulla danza della Kalela (1956). Nella stessa direzione si muove l’analisi di un rituale funerario giavanese compiuta da Clifford Geertz (1987: 185-218), sebbene in questo caso si metta in evidenza esattamente il contrario e cioè l’inadeguatezza di un determinato rituale di fronte ai mutamenti storici e sociali di un gruppo. Per ciò che concerne la facoltà del rito di esprimere la coscienza storica e di tramandare le dinamiche storiche del gruppo si veda il lavoro di Carlo Severi (1993) incentrato sull’immagine del bianco contenuta nei canti rituali dei Cuna del Panama. 10 L’attuale riflessione antropologica sui rituali di iniziazione sembra più prudente nell’accettare le conclusioni degli studi classici, in base ai quali tali riti confermerebbero le chiusure tribali ribadendo in modo definitivo i confini e l’esclusività dei valori culturali di un gruppo. Questa prudenza è dettata dal fatto che i contesti etnografici hanno subìto notevoli mutamenti e che non sempre la chiusura, la segretezza e la separazione dagli altri risultano centrali nei percorsi iniziatici (Heald 1982, Muller 1986, 1993).
Capitolo quarto 1 Armand Hutereau, nel volume del 1909 che contiene le prime note etnografiche sui gruppi mangbetu, considera il patto di sangue un’istituzione diffusa e importante mentre dedica solo un accenno all’esistenza della circoncisione (1909: 67-68). 2 Si veda la monografia sui Mangbetu di Van Overbergh e De Jonghe (1909) che è in realtà una raccolta di brani tratti dai diari e dai resoconti dei primi viaggiatori: Junker, Casati, Burrows, Christiaens, Emin Pasha, Schweinfurth e altri. 3 Lobho Lwa Djugudjugu, analizzando il patto di sangue (omukago) presso i Bahema e i Walendu del Congo nord-orientale, sostiene che l’istituzione della fratellanza di sangue non è riconducibile neppure alla parentela ma all’affinità. L’omukago sarebbe una forma di alleanza impiegata in sostituzione ai rapporti cognatizi (Djugudjugu 1980: 132). 4 Per ciò che concerne l’Africa sub-sahariana si possono annoverare eccellenti lavori antropologici sui rituali di iniziazione (es. Turner 1976: 187-327; Vidal 1976; Droogers 1980; De Mahieu 1985; Muller 1989). Il libro magistrale di Audrey Richards (1956) sull’iniziazione femminile presso i Bemba «resta, ancora oggi, un modello di genere, malgrado, paradossalmente, si occupi dell’iniziazione femminile in un continente dove si accorda più importanza all’iniziazione dei ragazzi che a quella delle ragazze» (Muller 1989: 9). 5 Sono gli stessi Pigmei a denominare «neri» (nombibari) gli abitanti dei villaggi bantu, sudanesi e ubangiani con cui interagiscono e con i quali spesso condividono determinate aree forestali. 6 Oltre ai Bapopoi, i gruppi di lingua mangbetu (famiglia sudanese centroorientale) che si sono maggiormente spinti all’interno del bacino del Congo sono gli Abelu e i Lombi. Per ciò che concerne i riti di circoncisione, sui primi non sono in possesso di alcun dato, mentre riguardo ai secondi sembra che abbiano
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assimilato i riti di iniziazione dei Bakomo con alcune influenze di origine bali (Van Geluwe 1956: 90-91). 7 Delhaise-Arnould riporta un breve dizionario francese-kipopoi (1912: 177-82) in cui si cita solo il patto di sangue (o-ê) e non il termine «circoncisione». 8 La divergenza fra i Medje-Mangbetu del nord e quelli del sud per ciò che concerne il significato e la pratica del noutu non è l’unico caso in cui gruppi definiti a partire da una presunta uniformità etnica presentano differenze sostanziali nelle proprie istituzioni legate alla circoncisione. Pur restando nella regione delle alte terre del nord-est del bacino congolese, è possibile riportare alcuni casi significativi, come per esempio la differenza fra i Babira della pianura, i quali non praticano la circoncisione, e i Babira della foresta, le cui donne rifiutano di sposare un non-circonciso; oppure il caso dei Bakomo di Kisangani e i Bakomo di Lubutu, i cui rispettivi riti di circoncisione si differenziano notevolmente (Van Geluwe 1956: 82-90). 9 In relazione al rapporto fra noutu e matrimonio, il Padre comboniano Giuseppe Di Gennaro descrive il patto di sangue fra i Mangbetu nella zona di Rungu (villaggio sulle rive del Bomokandi) denominato nékutu (noutu in mangbetu). Si tratterebbe di uno scambio di sangue fra marito e moglie per promettersi fedeltà e per impedire un’ipotetica separazione futura (Di Gennaro 1980: 8083). Questa versione del patto di sangue non è conosciuta fra i Medje-Mangbetu del sud: solo alcuni informatori affermano di averne sentito parlare pur considerandola una pratica inesistente nei loro villaggi. 10 Sulle modalità con cui i colonizzatori imposero fra i nativi una nuova idea di lavoro e di produzione, si vedano Samarin (1989) e Likaka (1995). 11 Il declino dei riti di circoncisione nel periodo coloniale comporta spesso una rielaborazione delle proprie tradizioni e della propria identità. Karen Middleton (1997), per esempio, mostra come fra i Karembola del Madagascar meridionale, l’essere incirconcisi assume importanti significati culturali connessi alla storia del gruppo.
Capitolo quinto 1 Volendo rintracciare un termine da affiancare ad «antropo-poiesi» si è scelto il termine «koino-poiesi», in quanto i significati che orbitano intorno agli etimi greci koiné e koinós risultano i più consoni a ciò che si vuole affermare. koinóv, comunità, società, compagno; koinøv, in comune, insieme; koinóthv, comunanza, partecipazione, assenza di distinzione, uso in comune; koinów, metto in comune, unisco, congiungo, metto insieme; koínwma, unione o relazione intima, giuntura; koinwnéw, mi unisco, mi associo; koinwnía, relazioni, unione, commercio, società; koínwsiv, mescolanza, unione, contaminazione. Il termine ethnos (popolo) e l’etimo latino communitas – utilizzato da Victor Turner (1972) in una accezione anti-strutturale – sono probabilmente meno adatti a esprimere l’idea del «mettere insieme», del costruire una rete di relazioni attraverso il noutu. 2 Mentre per le descrizioni del noutu gli informatori hanno utilizzato quasi sempre il tempo presente, per il nóbu i racconti erano al passato. 3 Anche nella lingua dei Lugbara il termine «cognato» (òtú-pi, òtíi) rimanda ai vocaboli sopra introdotti (Crazzolara 1960: 332).
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I Balese sono un gruppo di lingua sudanese insediati nell’Ituri. I coltivatori Lese e i cacciatori-raccoglitori Efe vivono in stretta correlazione nella foresta dell’Ituri. Fra Lese ed Efe si instaurano rapporti di scambi commerciali per i quali ogni Lese ha un partner efe e più in generale ogni villaggio lese mantiene relazioni con un determinato gruppo efe (Grinker 1990, 1994). 6 In considerazione del fatto che tutti i termini rintracciati finora orbitano intorno all’idea dell’estensione e della tessitura di specifiche reti di relazioni potrebbe risultare interessante il significato del termine àtu nella lingua mamvu tradotto da Anton Vorbichler (1971: 60) con verschlingen (intrecciarsi, legarsi, annodarsi, intorcigliarsi). 7 Una certa correlazione fra l’iniziazione della popolazione del circondario Kaliai e i patti di sangue emerge anche dal confronto delle argomentazioni di Andrew Lattas (1989) (esplicitamente ricondotte ad alcuni spunti dell’antropologia femminista) con la rivisitazione della fratellanza di sangue zande compiuta da Louise White (1994). In entrambi i lavori si sottolinea come nelle due istituzioni (iniziazione e scambio di sangue) ci sia un tentativo di creare o perdurare la natura asimmetrica delle relazioni sociali di genere. Sarebbero gli uomini a escogitare meccanismi rituali per garantirsi il potere e il controllo sulle donne. 4 5
Capitolo sesto 1 Termine utilizzato in ambito antropologico per definire in modo elastico e generico associazioni di solito volontarie, incentrate intorno a conoscenze non accessibili agli estranei. I membri delle società segrete agiscono insieme per il raggiungimento di determinati obiettivi in uno spirito di solidarietà e mutuo soccorso. Per ciò che concerne il continente africano esistono due aree in cui tali istituzioni si sono particolarmente sviluppate: parte dell’Africa occidentale e parte del bacino del Congo. 2 Vansina (1990a: 183) sostiene che l’istituzione del mwami – termine con cui viene designato il sovrano in alcune monarchie dell’Africa dei grandi laghi – è il frutto dell’incontro fra l’idea dell’associazione politica lega e bembe (bwami) con la regalità sacra interlacustre. 3 «Nebelista» è il termine utilizzato dai miei collaboratori per tradurre nebeliombie, lett. «l’uomo del nebeli». 4 Gli informatori parlano di un rapporto sessuale con la sorella senza specificare in realtà se la fratellanza che coinvolge i due partner sia una effettiva consanguineità o semplicemente l’essere entrambi membri del nebeli che, come si è visto, è considerata una specie di fratellanza. 5 Sono parole attribuite a Uytterbroeck, commissario del Distretto del Uele negli anni Cinquanta, pronunciate nel Processo verbale della cerimonia di investitura del capo Danga Modeste a Nangazizi il 9 settembre 1952 e riportate in Abule Abuotubodio (1994: 34). 6 I Foma sono un gruppo etnico (assimilabili agli Mbole) insediato nella regione nord-orientale del Congo, più precisamente nella zona di Isangi a ovest di Kisangani. Considerando che l’origine dei Foma potrebbe essere stata la regione del Uele (Bakanga 1991: 97), è probabile che possano esserci connessioni storiche tra il libeli e il nebeli, la cui vicinanza linguistica è evidente. 7 Il termitaio come luogo misterioso dell’al di là emerge in altri contesti et-
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nografici: nella lingua dei vicini Babudu esombe è il nome sia del termitaio sia della tomba, mentre fra i Barundi il termitaio è il luogo per antonomasia delle forze misteriose (Mworoha 1977: 99).
Capitolo settimo 1 Forse in questo lavoro e in generale nelle analisi etno-antropologiche si è troppo «caritatevoli» – per usare un termine impiegato da Ernest Gellner (1992: 31-61) – nei confronti dei modi in cui gli uomini agiscono e costruiscono se stessi e i loro ambienti sociali, visti dagli antropologi come determinati quasi totalmente da scelte culturali e immuni da accidenti e casualità centrali nelle riflessioni della filosofia scettica (Marquard 1991). 2 Questi dati linguistici concernenti il kinande sono contenuti in un saggio inedito di Francesco Remotti intitolato La foresta di banani. 3 È interessante confrontare il pensiero di Hannah Arendt con ciò che afferma Tzvetan Todorov in un suo recente lavoro (1998). Lo studioso di origine bulgara, pur ammettendo tradizioni occidentali «asociali» ritiene che la condizione umana sia essenzialmente e universalmente caratterizzata dal vivere con gli altri e che l’isolamento sia dopotutto impossibile: «ciò che è universale e costitutivo dell’umanità è che noi entriamo, fin dalla nascita, in una rete di relazioni interumane, dunque in un mondo sociale» (Todorov 1998: 109). 4 Il brano è tratto dall’edizione dell’Antigone di Sofocle della B.U.R. (1987: 83-87), con introduzione, traduzione e note di Franco Ferrari.
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Appendici
Elenco degli informatori principali*
Nome
Luogo dell’intervista
Gruppo di appartenenza
Abesimombe Libaki Abodiambo Baserene Abongondo Cornelius
Egbunda Neisu nei pressi di Makpulu Wamba Bunye Bunye Neisu Isiro Egbita Magbengi Mbanya Isiro nei pressi di Mandiagama Medje Nyakpu Egbunda Mandiagama nei pressi di Isiro Nangazizi Mbongyi-Makpulu Mandiagama Egbunda Isiro Kali
Mangbetu Meika Ogboy Meika Mandeya
Adobange Benoît Agambu Alimasi Amanzibandro Sani Teresa (f) Ambemane Eugène Amekote Evangéliste Angapinga Kodokane (f) Anyabose Jacques Asobee Bigiabase Thomas Awezio Ayakabebe Léonard Bala Victor Banda Charles Bazanga Itongo Bingbi Lilemo Danga M’Bunza Roger Djangalì Michel Dowa Mmadjombe Ekinyome Kaihumbai Ekosi Mondali Fidèle Emalongo
Bafwangada (Babudu) Mabiti Mangele Meika Mabuali Bafwakoye (Babudu) Mapume Ambuma Meika Mandeya Bavamboma (Balika) Bavaka (Balika) Makoda (Babudu) Meika Mandeya Ambuma Bavanzilimba (Balika) Makondaima (Mayogo) Mangbetu Meika Mandeya Bavadoma (Balika) Mangbetu Matangono (Mayogo) Meika Ogboy
* Sono qui riportati i nomi degli informatori con i quali sono state condotte interviste registrate su nastro; quelli seguiti da una f tra parentesi sono informatori di genere femminile. Per i gruppi non riconducibili ai Medje-Mangbetu viene precisata fra parentesi l’appartenenza etnica.
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Emasiombe Anselme Gaga Gabriel Gbalanga Charles Gbele Modiasaa Guamonzine Jourdain Madjombe Aluamba Maimbo Victor Makilingbo Malekema Clément Mayele Amansibandrodjo Mbongo Makasi Achille Metiama Monsiame (f) Mopoto Mapabuadi Mopuamouto Suzanne (f) Mutoba Joseph Nambeu Mombi Prosper Ndima Androdiabota Ndingba Ngamaneni Kakea Gabriel Ngbanyaniende Catherine (f) Nesuba Ariente Neti Nvamarodu Nicolas Nzamaye Bondo Nyambato Mboli Madjogo Odianzuda Victor Odio Philippe Odruepa Ondane Ongoro Neibese Onziamegya Michel Oziatandra Meiko Palata (f) Resuraze Nyakpu Sapola Etienne Sendebuka Marie-José (f) Somala Yanzanza André Zeboresina
Mbongyi-Makpulu Mandiagama Medje Magbengi Mbongo Mboka Mandiagama Nyakpu Bunye nei pressi di Isiro Nangazizi Medje Mabili Mbangi Makere Nangazizi Medje Wamba Egbunda Bongoi Wamba Neisu Makere Neisu Magbengi Nangazizi nei pressi di Egbunda Kopi Wamba Bunye Mbangi Magbengi Medje Meiko Mbangi Neisu Medje Neisu Mabili Neisu Bunye
Meika Mandeya Bavambato (Balika) Mango (Medje) Ambuma Meika Mandeya Bavanzilimba (Balika) Meika Mandeya Mavandombe Makondaima (Mayogo) Azanga Mango (Medje) Meika Makere Masule (Pigmei Asoa) Mango (Medje) Azanga Mango (Medje) Mahaa (Babudu) Mangbetu Madjoo Babeyru (Babudu) Avungara (Azande) Mango (Medje) Mangbetu Ambuma schiavo Mayogo Bangele (Makere) Mangbo Bavasamba (Balika) Mangele Masule (Pigmei Asoa) Ambuma Mango (Medje) Mapume Masule (Pigmei Asoa) Mapume Mango (Medje) Avungara (Azande) Meika Makere Bafwakoye (Babudu) Mangele
Glossario
amekenge baganza bamoia edjadja égonye imuuso liganza lubasa muganja (mugaza) nébasa nebasadjo nebeli nébha, (plur. ébhá) nédadá nédha nédjó (plur. édjo) nedome négbámú
fratelli di circoncisione fratelli di circoncisione (in kilika e mayogo) fratelli di circoncisione (in kibudu) famiglia della madre circoncisione (in kibudu) circoncisione (in kilika) alleanza con la circoncisione (in kilika) capi del nebeli, organizzatori del nebeli circonciso (in diverse lingue bantu) luogo di riunione dei nebelisti patrilignaggio, clan associazione segreta villaggio, compound, casa zia paterna fiume abitazione tratto di fiume iparo per gli uomini collocato al centro del compound neigwa vedovo, vedova neikuku patrilignaggio, famiglia néipopó prepuzio nékutu circoncisione, scambio di sangue (in mangbetu) némava, (plur. émava) famiglia, lignaggio, clan nenzula «medicina» del nebeli nesamba circoncisore, aiutante netonyo cibo per i circoncisi nel giorno finale del noutu nóbu cerimonia per la prima uscita del neonato dall’abitazione noutu circoncisione, scambio di sangue (in medje) tekpo braccio zebo levante, a monte zebu ponente, a valle
211
Cartine
Rep. Dem. del Congo Area della ricerca
Fig. 1. L’area della ricerca.
212
SUDAN
u Bom
AZANDE ABANDIA Uele Bima
Rubi ri
bi
m Iti
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BANGBA
le
U ET Bo GB mo Isiro AN kan M di MAKERE JE MAYOGO MAMVU D a v ME a N ko o p Ne MALELE BUDU LIKA ABELU LESE POPOI
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L. Alberto MBA
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BALI
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Kisangani FOMA
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LOMBI
ENYA M
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PERE
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MBOLE LENGOLA
NANDE L. Edoardo
KOMO wa
NYANGA
Lo
RWANDA
Foresta
Fig. 2. Il Congo nord-orientale e alcuni importanti gruppi etnici della regione.
213
NIANGARA DUNGU
POKO
RUNGU
A
NANGAZIZI
ISIRO
NEISU
EGBUNDA
BUNYE
A - collectivité Azanga (Medje-Mangbetu del nord) B - collectivités Ndei e Mongomasi (Medje-Mangbetu del sud) C - collectivité Medje-Mango (Medje)
B MEDJE
WAMBA
C
Fig. 3. La «zone» di Rungu e le «collectivités» Medje-Mangbetu.
ISIRO
MEIKO BONGOI
EGBUNDA MAGBENGI
NEISU KOPI
MBANYA KALI
MBANGI
va
Na
EGBITA
NANGOSIRA BUNYE MABILI
KPONGODA MANDIAGAMA
NOLUA
MBONGO MBOKA MAKERE MBONGYI Nava
MAKPULU MEDJE
NYAKPU
Fig. 4. I villaggi in cui si sono svolte la maggior parte delle interviste.
214
PAWA
Indici
Indice dei nomi*
Bettelheim, B., 53. Bira (R.D. Congo), 90-91, 93, 192. Bloch, M., 76. Boa (R.D. Congo), 82, 98-99, 144-45. Bobo (Burkina Faso), 33. Borges, J.L., 9, 171. Bouccin, 82, 89, 139. Budu (R.D. Congo), 14, 37, 49-51, 5556, 60, 64, 75-76, 82, 84, 87-90, 9394, 97, 100, 102, 104-106, 138, 154, 187, 190, 194.
Abarambo (R.D. Congo), 96-97, 142, 144. Abelu (R.D. Congo), 189, 191. Abule Abuotubodio, V.C., 145-46, 152, 193. Allovio, S., 130, 165. Amadi (R.D. Congo), 142. Annaert, J., 33. Anon, 140. Anzambise Madu, C., 88-89. Arendt, H., 182-84, 194. Auro (R.D. Congo), 96. Azande (R.D. Congo, Sudan), 13, 37, 49, 80, 94-97, 102, 117, 129, 138, 143-44, 154, 157.
Cardona, G.R., 179-80. Carsten, J., 188. Casati, G., 78, 142, 191. Colleyn, J.-P., 139. Comaroff, Jean, 191. Comaroff, John, 191. Comhaire, J., 139. Cordell, D., 78-80. Crazzolara, J.P., 192. Cuna (Panama), 191.
Bakanga, R., 155, 193. Balandier, G., 22-24, 27-28, 40, 176177. Bali (R.D. Congo), 74-75, 82, 89-90, 139-40. Bamukoba, Y.K., 79. Banda (R.D. Congo), 80. Barbagli, M., 189. Bari (Sudan), 124. Bauwens, J., 146. Beattie, J., 79-81. Bemba (R.D. Congo), 191. Bembe (R.D. Congo), 139. Bernard, G., 187.
Davy, G., 80. De Calonne-Beaufaict, A., 95-96, 144148. De Giorgi, L., 79. De Jonghe, E., 139-40, 142-43, 191. Delhaise-Arnould, C., 98-99, 142, 145-48, 150, 163, 192.
* Le denominazioni dei gruppi etnici sono indicate in corsivo. I nomi dei gruppi bantu, in particolare, vengono riportati senza il prefisso Ba- (es. Babudu, v. Budu, Balika, v. Lika).
217
De Mahieu, W., 16-17, 53, 89, 123, 190-91. Demolin, D., 52-53. Denis, P., 18, 142, 174, 189. Deshayes, P., 19-20. De Sousberghe, S.J., 79. Di Gennaro, J., 192. Djugudjugu, L.L., 191. Dogon (Mali), 26. Doornbos, M., 78. Dostoevskij, F., 26, 163, 171, 173, 184. Douglas, M., 17. Drachossoff, V., 104. Droogers, A., 53, 191. Duysters, L., 139.
Iraqw (Tanzania), 105, 176. Iroko, A.F., 187. Jaspers, K., 182. Kakwa (R.D. Congo), 123-24. Karembola (Madagascar), 192. Katumba Ndadua, M., 120. Keifenheim, B., 19-20. Keim, C., 31-33, 35-37, 40, 78, 142143, 151, 156, 159. Komo (R.D. Congo), 16-17, 20, 53, 82, 89-90, 123, 139, 190, 192. Kuba (R.D. Congo), 16, 18, 20, 139, 188. Lacomblez, M., 105. Lagae, C., 95-96, 100, 117, 142, 146151, 153-54. Larochette, J., 123, 189. Lattas, A., 130, 193. Lega (R.D. Congo), 139. Lekens, P.B., 190. Lele (R.D. Congo), 17, 20, 188. Lelong, M.-H., 187. Lendu (R.D. Congo), 191. Lese (R.D. Congo), 32-33, 124, 193. Lévi-Strauss, C., 73, 158, 160, 162. Lika (R.D. Congo), 37, 49, 51, 55, 7172, 75-76, 82-90, 93-94, 100, 102, 104-106, 154-55. Likaka, O., 192. Logo (R.D. Congo), 123, 154. Lokele (R.D. Congo), 106. Lombi (R.D. Congo), 82, 189, 191. Lotar, L., 190. Lugbara (R.D. Congo), 192. Lunda (R.D. Congo), 79.
Ehret, C., 189. Evans-Pritchard, E.E., 13, 31, 79-80, 129, 139, 143, 159, 190. Fadini, U., 178. Favole, A., 165. Foma (R.D. Congo), 155, 193. Geertz, C., 191. Gehlen, A., 108-109, 111, 134-35, 178. Gellner, E., 194. Genya (R.D. Congo), 53. Gisu (Uganda), 54, 110. Greenberg, J., 187. Griaule, M., 26. Grinker, R.R., 32-33, 90, 189, 193. Gudeman, S., 188. Heald, S., 54, 110, 191. Heidegger, M., 182. Hema (R.D. Congo), 191. Hocart, M., 80, 129. Houseman, M., 190. Hugh-Jones, C., 18-19. Hugh-Jones, S., 188. Huni Kuin (Perù), 19-20. Huntingford, G.W.B., 124. Husserl, E., 182. Hutereau, A., 189, 191.
MacCormack, C.P., 20. Makere (R.D. Congo), 75, 98, 189. Malele (R.D. Congo), 75, 98, 189. Mangbetu (R.D. Congo), 19, 80, 95, 142-44, 154, 156, 187, 190-92. Manvu (R.D. Congo), 37. Marquard, O., 175, 188, 194.
218
Mayogo (R.D. Congo), 14, 37, 49, 64, 75, 84, 95, 97-98, 142. Mbole (R.D. Congo), 193. McKee, R.G., 30-31, 36, 41, 46, 58, 73, 120, 188. McMaster, M., 37, 189. Medje (R.D. Congo), 9-10, 18, 44, 54, 56, 64, 92, 94-95, 98-99, 187, 189. Medje-Mangbetu (R.D. Congo), 10, 12-14, 16-18, 20, 29, 32, 39, 42, 4547, 49-50, 53, 55, 61, 75-77, 82-84, 86, 90-92, 94, 97-103, 106, 113, 120, 122, 128-29, 141, 143, 151-52, 165, 167, 169, 171, 181, 183, 187, 190-91. Merina (Madagascar), 76. Meyer, F., 31. Middleton, K., 192. Minyanka (Mali), 139-40. Mitchell, C., 191. Moeller, M.A., 87, 89, 104. Mokaka Mwa Bomunga, 80. Moser, L., 190. Muller, J.-C., 53, 111-13, 191. Musambachime, M.C., 140. Musil, R., 177. Mworoha, E., 194.
Pigmei-Mbuti (R.D. Congo), 90, 9293. Pirá-paraná (Amazzonia), 18-20, 188. Pirovano, S., 78. Platone, 137, 183. Popoi (R.D. Congo), 98-99, 189, 191. Pratt, M.L., 188. Rehberg, K.-S., 135. Remotti, F., 27, 109, 111, 161, 180-82, 188, 190, 194. Richards, A., 191. Robertson Smith, W., 80. Roscoe, J., 79. Rukuba (Nigeria), 111-13, 121. Samarin, W.J., 192. Saul, M., 33. Savater, F., 116. Scarduelli, P., 146. Schebesta, P., 90-91. Schildkrout, E., 33, 36, 40, 142-43, 151, 156, 159. Schubotz, H., 36. Schweinfurth, G., 38, 42, 78, 191. Senufo (Costa d’Avorio), 158-59. Severi, C., 190-91. Shapiro, M., 77. Sofocle, 184, 194. Spagnolo, L.M., 124. Strathern, M., 20. Suku (R.D. Congo), 79. Sylla, L., 143.
Nande (R.D. Congo), 180-81, 190. Ndaka (R.D. Congo), 91, 93. Ndaywel È Nziem, I., 104. Ndembu (Zambia), 120. Netting, R., 189. Ngbaka (R.D. Congo), 89, 120. Ngwana (R.D. Congo), 90. Nietzsche, F., 177-81. Nyali (R.D. Congo), 87.
Tambiah, S.J., 63. Tegnaeus, H., 78-80, 129. Tibenderana, P.K., 79-80. Todorov, T., 194. Tshokwe (R.D. Congo), 79. Tucker, A.N., 123. Turnbull, C.M., 90-91, 93. Turner, V., 53, 120, 191-92.
Peeters, L., 12. Pende (R.D. Congo), 79. Pere (R.D. Congo), 89-90, 181, 190. Philippe, R., 25, 27, 142, 146-48. Pigmei (R.D. Congo), 51, 54-55, 7172, 75-76, 84, 191. Pigmei-Asoa-Aka (R.D. Congo), 9094, 100, 102. Pigmei-Efe (R.D. Congo), 32-33, 193.
Vallaeys, A., 123. Van Binsbergen, W., 76. Van Der Kerken, G., 19. Van Geluwe, H., 87, 192.
219
Van Gennep, A., 118. Van Overbergh, C., 191. Vansina, J., 12, 16, 30-33, 35, 37-38, 81, 168, 188-89, 193. Verdon, M., 189. Vidal, P., 191. Vorbichler, A., 193.
Waswandi, A., 181. White, L., 80, 193. White, L.A., 158. Windels, A., 139. Wittgenstein, L., 29, 32.
Wachtel, N., 137. Wada, S., 104.
Zande, v. Azande. Zempleni, A., 158.
Yanagisako, S., 189.
Indice del volume
Introduzione di Francesco Remotti
VII
Premessa
3
I.
9
Una strana classificazione indigena 1. L’ingegnere idraulico nella stagione delle termiti, p. 9 2. L’ambiente, la dieta e il lavoro, p. 11 - 3. A monte e a valle, p. 16 - 4. L’immagine della società, p. 21 - 5. La costruzione e il flusso, p. 25
II.
Osservatori sprovveduti
29
1. Un groviglio di concetti, p. 29 - 2. Villaggi nella foresta, p. 33 - 3. Il fluire della storia, p. 37 - 4. L’esigenza di creare ponti, p. 41
III. Allearsi con la circoncisione
45
1. Consanguineità e alleanza, p. 45 - 2. La scelta, p. 47 - 3. Le danze, p. 52 - 4. Il giorno della circoncisione, p. 57 - 5. Il periodo di guarigione, p. 60 - 6. Le fasi finali, p. 65 7. La rete di alleanze, p. 69 - 8. Il «noutu» e gli altri, p. 74
IV. Somiglianze di famiglia
77
1. Patti di sangue, p. 77 - 2. I Balika e l’«imuuso», p. 82 3. I Babudu e l’«égonye», p. 87 - 4. Il «noutu» con i Pigmei, p. 90 - 5. Ai confini dell’alleanza, p. 94 - 6. Altri gruppi mangbetu, p. 98 - 7. La circoncisione e la colonia, p. 102
V.
Incidere il corpo e la società 1. La fabbricazione degli uomini, p. 108 - 2. La caduta del cordone ombelicale, p. 114 - 3. Essere «neigwa», p. 118 4. La semantica del «noutu», p. 122 - 5. Costruire al di là della parentela, p. 125 - 6. Una rigida finzione, p. 128 7. Costruire contro corrente, p. 132
221
108
VI. Allearsi con i segreti
137
1. Società segrete in Congo, p. 137 - 2. Origine e diffusione del «nebeli», p. 141 - 3. I segreti della foresta, p. 144 - 4. I nebelisti all’opera, p. 148 - 5. Iniziazione e alleanza, p. 152 - 6. Al di là della cultura, p. 157 - 7. La corsa verso il termitaio, p. 160
VII. Fiumi e termitai
165
1. Un intreccio di connessioni, p. 165 - 2. I tentativi di costruzione, p. 171 - 3. La persistenza del flusso, p. 174 - 4. La necessaria pluralità, p. 178
Note
187
Bibliografia
195
Appendici Elenco degli informatori principali, p. 209 - Glossario, p. 211 - Cartine, p. 212
Indice dei nomi
217