Là dove finisce la città. Riflessioni sull'opera di J. G. Ballard 8866331287, 9788866331285

Dopo aver esplorato gli spazi siderali e i mondi postapocalittici della fantascienza classica, James Graham Ballard deci

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Italian Pages 190 [217] Year 2013

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Là dove finisce la città. Riflessioni sull'opera di J. G. Ballard
 8866331287, 9788866331285

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5350-cop-Chiurato_a4 29/07/2013 11:05 Page 1

CORIANDOLI

Riflessioni sull’opera di J. G. Ballard Prefazione di Stefano Calabrese

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Andrea Chiurato Là dove finisce la città

Andrea Chiurato è ricercatore presso l’Università IULM di Milano. I suoi interessi si rivolgono per lo più alla rappresentazione della metropoli nell’immaginario occidentale e alla teoria del romanzo, con particolare attenzione alle avanguardie italiane e francesi del Novecento. Ha recentemente pubblicato: La retroguardia dell’avanguardia (Mimesis, 2011).

Andrea Chiurato Là dove finisce la città

ISBN 978-88-6633-128-5

€ 22,00 AB 5350

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210 mm

Dopo aver esplorato gli spazi siderali e i mondi postapocalittici della fantascienza classica, James Graham Ballard decise di spingersi in una terra incognita più prossima, ma non per questo meno ricca d’avventure: lo «spazio interiore». Erano gli anni Settanta e, da allora, l’autore britannico non avrebbe mai smesso di attraversare le immense periferie delle metropoli postmoderne, in un viaggio allucinato tra nonluoghi, eterotopie, gated communities. Un viaggio destinato a rivelare gli aspetti meno edificanti della globalizzazione e l’inesausto risorgere di una mai sopita voglia di comunità. Ancora oggi la sua opera è una guida indispensabile per avventurarsi “là dove finisce la città”, alla ricerca dei frammenti di un futuro scomparso prima ancora di realizzarsi. Perché quel mondo è, in fondo, anche il nostro mondo.

145 mm

12 mm

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Pagina I

Coriandoli

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Pagina II

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Pagina III

Andrea Chiurato

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Là dove finisce la città Riflessioni sull’opera di J. G. Ballard Prefazione di Stefano Calabrese

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Pagina IV

© 2013 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna

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Copertina e progetto grafico: Avenida (Modena)

ISBN 978-88-6633-128-5

ArchetipoLibri 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.archetipolibri.it / www.clueb.com ArchetipoLibri è un marchio Clueb

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Prefazione di Stefano Calabrese

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Introduzione

XI XVI XX XXIII

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Pagina V

1. «Fino a qui tutto bene…» 2. La crisi della forma-metropoli 3. Il grado zero dello spazio metropolitano 4. Questioni di metodo

Indice

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1. Chiusi dentro: l’isola e il condominio

3 18

1. Concrete Island 2. High Rise

45

2. Visioni d’Europa

50 71

1. Cocaine Nights 2. Super-Cannes

105

3. Il sole senza ombre del nuovo millennio

107 131

1. Millennium People 2. Kingdom Come

161

Conclusioni

161 166 168 173

1. Connessi globalmente, disconnessi localmente 2. Estensione del dominio del conflitto 3. Lo spazio tra i generi 4. Il sublime tecnologico

179

Bibliografia

179 179

1. Bibliografia primaria su J. G. Ballard 2. Bibliografia secondaria

185

Indice dei nomi

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Legenda

Le traduzioni sono a mia cura. Nella maggior parte dei casi ho preferito riportare anche l’originale, per permettere di cogliere meglio le ragioni di alcune scelte traduttive. Per ragioni di sintesi e di semplificazione delle note a piè di pagina le opere di James Graham Ballard sono indicate con gli acronimi elencati di seguito. L’isola di cemento

Concrete Island

CI

Il condominio

High Rise

HR

Un gioco da bambini

Running Wild

RW

Cocaine Nights

Cocaine Nights

CN

Super-Cannes

Super-Cannes

SC

Millennium People

Millennium People

MP

Regno a venire

Kingdom Come

KC

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Pagina VII

Prefazione

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Stefano Calabrese

Uno scrittore straordinario per sagacia tematica e spirito di innovazione morfologica, talmente elegante da scrivere una delle migliori autobiografie intellettuali del terzo millennio, Miracles of Life, che inizia con il racconto di un racconto – «Sono nato al General Hospital di Shangai il 15 novembre 1930, dopo un parto difficile che mia madre, che era di complessione esile e bacino stretto, amava raccontarmi negli anni seguenti come se ciò gettasse una qualche luce sull’insensatezza del mondo» – avrebbe meritato un destino diverso e una collocazione nel comparto alto della sartoria letteraria. Al contrario, il brand di James Graham Ballard, il suo contrassegno totemico è rimasto per molti la science fiction, l’orientamento techno-cyborg, testimoniato innanzitutto da Crash, e la sua teoria generale della rappresentazione nota con il nome di inner space, in base alla quale i testi narrativi dovrebbero porre l’individuo e il suo habitat, l’interiorità psichica e lo spazio geografico, l’organico e l’inorganico in un rapporto di biunivoca relazione, tale da trasformare il soggetto in oggetto e l’oggetto in soggetto. Uno dei meriti del complesso, articolato studio di Andrea Chiurato è segnatamente quello di riportare Ballard ai livelli di eccellenza che gli pertengono evidenziando la complessità tematica delle sue narrazioni romanzesche, da Concrete Island (1974) a Kingdom Come (2006), ma soprattutto di mostrare persuasivamente la sensibilità di Ballard nel rappresentare gli spazi della contemporaneità e rispondere alla crisi dei luoghi, territori forniti di un’identità storica e relazionale. Stiamo parlando dei nonluoghi di Marc Augé? Chiurato va ben oltre, nella convinzione che per Ballard ciascun sistema culturale finisca per adottare un metodo di produzione degli spazi tale da condizionare la trasmissione della memoria culturale. Se i ricordi

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VIII

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Là dove finisce la città

si coagulano negli spazi, cosa accade dunque nella cultura contemporanea? Per Ballard sembra che il postmoderno generi una tipologia di spazi che potremmo definire “attrattori” e sintetici – per cui ciò che prima si trovava isolato e indipendente, ora ha una collocazione comune, ad esempio nei malls –, e che questo contamini la nostra possibilità di ricordare il tempo “versandolo” in appositi contenitori spaziali. La generazione attuale degli spazi favorisce dunque l’amnesia culturale, mentre prima avvantaggiava il ricordo e la ritenzione storica: la lenticolare analisi enunciazionale e tematica dei testi ballardiani condotta di capitolo in capitolo da Andrea Chiurato estrapola appunto lo stile visivo dello scrittore inglese, il modo polinucleare e amorfo di produzione dei nuovi centri urbani, la fine dell’identità visiva dei luoghi storici così come della forma radiocentrica delle città e di ogni processo di gerarchizzazione spaziale, poiché le nuove mega-conurbazioni tanto diminuiscono il grado di coesione interna quanto incrementano la coesione esterna, connettendosi con reti globali e altri segmenti territoriali. In particolare, se scrutata con l’occhio attento di un giovane studioso come Chiurato, l’opera di Ballard testimonia le conseguenze sulla percezione degli individui del fatto che il Novecento abbia per sempre rimpiazzato il traffico pedestre con la metafora della circolazione (del sangue, delle merci, degli individui) e vinto la tirannia della distanza con l’arma della velocità, trasformando così il rapporto esistente tra visione e movimento fisico. Come ha scritto di recente l’antropologo sociale Paul Connerton, l’incessante invenzione di macchine che producono movimento ha infatti avuto un’incidenza soprattutto sulla capacità inglobante dello sguardo. Ebbene: è per questo che la visione ballardiana si sposa sempre con il movimento, mentre per secoli l’atto del dipingere – cioè una visione accentuata e volontaria delle cose – aveva coinciso con una stanzialità assoluta, di cui si può assumere il “cavalletto” del pittore come il simbolo totemico. Nelle narrazioni ballardiane la velocità sembra offrire allo sguardo una nuova prerogativa che dà luogo a un’inedita morfologia: la visione panoramica e sintetica consentita dagli assetti autostradali. Non è un caso che Chiurato insista su queste location delle narrazioni ballardiane: nascendo come conduttrici spaziali per dare regolarità e fluency al traffico, le strade a rapido scorrimento sono da un lato l’icona spaziale che condensa il fascino visivo della

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Prefazione

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velocità, dall’altro istituiscono un modello simil-pastorale e pittoresco, come se tutto fosse percepito da distanze siderali. Se per secoli i due elementi essenziali del paesaggio culturale sono stati gli insediamenti e le strade che li collegavano, cioè gli scopi e gli strumenti che consentivano di fruirne la topografia, la postmodernità segna il definitivo prevalere delle strade sugli insediamenti, della mobilità sulla stanzialità; meglio ancora: esse hanno reso obsoleta la divisione tra abitazione e viaggio, al punto che gli snodi di passaggio, la rete – il web – hanno lentamente prevalso sui luoghi statici, a cominciare da quei monumenti urbani di cui già Robert Musil diceva che fossero fatti per non essere visti. Nella narrativa di Ballard non solo gli spazi saturi di movimento e i punti di transito prevalgono su qualsiasi altra forma di locus, ma ogni topografia tende a configurarsi come una rete di dislocamenti continui, con masse ingenti di individui, oggetti, desideri e identità che continuamente traslocano da un punto all’altro del territorio. Ma tutto ciò – il fatto ad esempio che i temi ballardiani dell’isola e del condominio incapsulino la crisi della forma-metropoli – nel libro di Chiurato si mescola ad accurate analisi dei meccanismi di focalizzazione ed enunciazione narrative, per il semplice fatto che il prevalere nella postmodernità delle connessioni sui luoghi da connettere ha prodotto una modalità percettiva che ci mostra lo spazio in una versione “ridotta” e bidimensionale, dove il volume cede il passo alla superficie e la libertà di sguardo a prospettive vincolate – focalizzazioni interne multiple o variabili – a una serie di segnaletiche disseminate su traiettorie fisse e già mappate. Vedere, in questo caso, rappresenta addirittura una spettacolare forma di amnesia, dove la velocità non lascia tracce di ciò che abbiamo visto, o peggio ancora non esiste alcuno spazio se esso non consente viabilità e liberta di movimento, se non altro perché a cambiare nella postmodernità ballardiana è anche il metabolismo degli spazi. Il lifetime, la durata dei luoghi e degli oggetti che li abitano, la sintassi dei gesti di coloro che vi si muovono cambiano infatti a una velocità che ha inferto un duro colpo alla memorabilità. Tutto ciò comporta una domanda, che Chiurato si pone alla fine del libro: la fine degli Stati Nazione si traduce in una prospettiva transnazionale o non è vero piuttosto – come dimostra Kingdom Come – che è aumentata l’ossessione per l’omogeneità socio-culturale, per

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Là dove finisce la città

i contrassegni di appartenenza e per il gesto che traccia confini e compartimenta gli spazi? In questo le riflessioni del comparatista Chiurato sono simili a quelle di un ricercatore urbanista del Politecnico di Milano, Alessandro Coppola, autore di un pregevole Apocalypse Town. Cronache della fine della civiltà urbana (Laterza, 2012), scritto dopo avere vissuto qualche anno nelle città di medie e grandi dimensioni della Rust Belt statunitense (da Detroit a Baltimore), raccontandone “le cronache” di degrado, abbandono, diminuzione della popolazione in seguito al tramonto forse definitivo della grande industria manifatturiera americana. Sembra di leggere Ballard, come sempre prolettico nella sua fervida immaginazione: ad esempio nella descrizione di Buffalo, museo a cielo aperto dell’architettura 100% American con cui la civiltà industriale celebrava il tentativo di proporsi come urbana e oggi sede fiorente delle imprese di decostruzione, dove accanto alle demolizioni comincia a prendere piede lo scrapping, la spoliazione illegale, e dove Buffalo Reuse, la prima azienda a scopo di lucro che dal 2005 pratica la decostruzione pianificata dell’ambiente urbano, ha dato luogo a ReSource, grande magazzino di oggetti in vendita che consente di recuperare fino all’85% del materiale originario. Ebbene: questo “anacronistico artigianato dei decostruttori” che potrebbe dare prospettive di crescita alla città senza futuro non è forse anch’esso nel mood ballardiano, così a proprio agio nello sposare ironia, degradazione e sublime?

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Introduzione

People are strange when you’re a stranger. The Doors - People Are Strange (1967)

1. «Fino a qui tutto bene…»

Una molotov volteggia nello spazio vuoto. La miccia accesa, rotea lentamente sino a colpire il bersaglio: la Terra. Fiamme. Una voce fuori campo ripete: «Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro il tizio, per farsi coraggio, si ripete: “Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene…”». Cambio scena. Le sei di mattina di una giornata uggiosa, come tante nel Nord della Francia. Vinz, Hubert e Saïd, tre ragazzi della banlieue parigina stanno tornando a casa dopo una lunga notte. Il loro amico Abdel è appena morto in seguito alle ferite riportate in uno scontro con le forze dell’ordine. Ennesima vittima del clima d’odio e tensione perenne che si respira nelle cosiddette ZUP, “zone d’urbanizzazione prioritaria” (zone d’urbanisation prioritaire): una miscela esplosiva di miseria, razzismo, violenza. Una volante della polizia si ferma al bordo del marciapiede. Hanno già avuto degli screzi con i ragazzi e, cercando di intimidirli, uno di loro sbatte Vinz contro la portiera, lo minaccia sventolandogli la pistola sotto il naso. Parte un colpo, per caso. Vinz crolla a terra, morto. Hubert è ad un passo, si avvicina, punta la sua arma contro lo sbirro, lo sbirro su di lui. Saïd, dall’altro lato dell’auto, non può che assistere impotente. Dissolvenza in nero. Risuona uno sparo, anche se non sapremo mai chi ha colpito. Una voce fuori campo riprende il discorso iniziale.

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XII

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Là dove finisce la città

Non è più un «uomo» a cadere dalla finestra, ma un’intera «società»: «… per farsi coraggio si ripete:“Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”»1. Qualche anno dopo, dall’altra parte del globo. Città del Messico, quasi nove milioni di abitanti, uno dei tassi di criminalità più alti del Sud America. Un suv nuovo fiammante scivola lentamente per le vie di un quartiere residenziale. La carrozzeria grigia e i vetri opacizzati riflettono un mondo fatto da immacolate villette a schiera, giardini ben curati, dissuasori di velocità per proteggere i bambini che attraversano la strada o qualche jogger mattiniero. L’obiettivo si allontana, abbandona il suv e segue in piano-sequenza una farfalla.Vola leggera sino a raggiungere un muro sormontato da filo spinato. L’occhio implacabile di una telecamera scruta verso l’interno, volgendo le spalle al panorama di desolate favelas che si staglia all’orizzonte, a perdita d’occhio. La notte stessa un violento temporale abbatterà un cartellone pubblicitario destinato a spezzare le inviolabili difese di questa isola di perfezione, conosciuta semplicemente come «La Zona». Tre ragazzi s’intrufoleranno attraverso il varco ferendo a morte, in un maldestro tentativo di rapina, un’innocua vecchietta. Quanto basta per scatenare la furia degli abitanti del quartiere. Due di loro verranno catturati subito e fatti sparire altrettanto in fretta dalla sorveglianza privata. Il terzo, Miguel, troverà rifugio grazie alla complicità di Alejandro, un suo coetaneo, un abitante della Zona. Ma la solidarietà tra i due non salverà Miguel, una volta scoperto, dal linciaggio furioso di questi buoni borghesi. L’occhio delle telecamere registra imperturbabile il pestaggio. Nessuno interviene. Cosa unisce un film francese degli anni Novanta (La haine, 1996, Mathieu Kassovitz), con la folgorante opera d’esordio di un regista uruguaiano (La Zona, 2007, Rodrigo Plà)? Quale filo rosso collega queste due immagini? Alla fine della nostra analisi tenteremo di dare una risposta a tale domanda, prima però dovremo avventurarci in una terra incognita che può sembrare apparentemente lontana, irriconoscibile, poco familiare. Ma è, appunto, solo un’impressione. Basta guardare alla sto-

1 Non molti sanno che l’agghiacciante storiella ripetuta dalla voce fuori campo è una citazione piuttosto fedele di un aneddoto narrato dal personaggio interpretato da Steve Mc Queen in The Magnificent Seven (John Sturges, 1960).

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Introduzione

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ria recente per accorgersi quanto il rapporto tra finzione e realtà sia diventato problematico. Il luogo comune per cui la prima tende, a volte, a superare la seconda ha lasciato spazio a una più sfumata, continua sovrapposizione, dove tracciare una separazione netta si dimostra un compito sempre più arduo. Quando Slavoj Zizek, in un saggio dal titolo quanto mai suggestivo2, riconosceva nello spettacolare attentato alle Torri Gemelle un punto di non ritorno, ossia la definitiva dimostrazione di quanto «la realtà [sia ormai] la miglior apparenza di se stessa», alcuni intellettuali non esitarono a tacciare la sua ipotesi di quell’eccessiva semplificazione che si accompagna solitamente ad ogni azzardo teorico. La cautela è una merce rara ai nostri tempi, a differenza dello scetticismo. Se, infatti, alcuni tra i suoi accusatori di allora avessero atteso più a lungo prima di formulare i loro giudizi, sarebbe stata la cronaca e non un’analisi dell’immaginario (a cui la finzione si richiama inevitabilmente), a confermare le fosche previsioni del sociologo sloveno. I segni premonitori abbondavano; occorreva solo guardarsi intorno. Nell’autunno del 2005 sulle prime pagine dei più grandi quotidiani di Francia iniziarono a campeggiare titoli a lettere cubitali: «Parigi brucia». Attraverso la lunga notte delle periferie dell’Île de France, gli incendi si rincorrevano come lucciole impazzite. Incendi scatenati dalla morte di due giovani: Zyed Benna (17 anni) e Buona Traoré (15 anni).Avranno avuto all’incirca la stessa età di Vinz, dei suoi due amici, e le loro vicende si assomigliano in maniera impressionante. Cercando di sfuggire ad un controllo della gendarmerie, Zyed e Buona cercano rifugio in una cabina di trasformazione elettrica, uno di quegli orribili prefabbricati grigi che costellano i terrain vagues delle nostre periferie. Sono appena scoccate le 18.12 del 27 ottobre. Un improvviso blackout spegne le luci di Clichy-sous-Bois. I due giovani hanno appena perso la vita. “Elettrocuzione” la causa ufficiale di morte, ma per molti dei loro compagni il vero colpevole è un altro. In poche ore si accendono i primi i focolai di un rancore covato 2 «Quando abbiamo visto per l’ennesima volta le immagini della gente terrorizzata che correva in direzione della telecamera di fronte alla nube gigantesca di polvere che si sollevava dal crollo delle torri, quella scena ci ha ricordato le scene spettacolari dei film catastrofici, un effetto speciale che ha superato tutti gli altri, dato che – come sapeva già Jeremy Bentham – la realtà è la miglior apparenza di se stessa». S. Zizek, Benvenuti nel deserto del reale, Roma, Meltemi, 2003, p. 16.

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Là dove finisce la città

sotto la cenere per anni. Tre settimane di follia collettiva passate alla storia come L’Émeute, la Rivolta per eccellenza3. Non basteranno le sprezzanti parole dell’allora Ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy, pronto a liquidare i partecipanti alle rivolte come «feccia» (racaille), a rassicurare una nazione sconvolta dal crollo di una politica integrazione portata avanti dalla fine dell’impero coloniale sino alle soglie del nuovo millennio. Al di là delle devastazioni materiali la Francia era stata scossa da qualcosa di più profondo. Un trauma culturale prodotto dall’inaspettata manifestazione dell’effettiva distanza tra le promesse del multiculturalismo e la loro effettiva realizzazione. Uno scarto, una ferita aperta in cui il germe della violenza si era annidato per anni, senza che nessuno se ne accorgesse. La portata dello shock fu tale da spingere le emittenti televisive ad imporsi volontariamente l’autocensura, per evitare di alimentare il cosiddetto «effetto contagio». L’inaspettata rivelazione sembrava infatti suscitare più che un legittimo stupore, una sorta di perversa fascinazione. Due sentimenti con cui si sarebbero trovati a fare i conti anche gli abitanti dell’idilliaca cittadina di Celebration quando, nel Giorno del Ringraziamento del 2010, scoprirono il primo omicidio nel loro piccolo paradiso in terra. Patrik Giovanditto, 58 anni, insegnante, originario del Massachusetts. Gli uomini dello sceriffo lo trovarono steso sul pavimento di casa, il cadavere nascosto da una coperta. Un omicidio come tanti nella sonnacchiosa provincia americana. Un episodio che probabilmente avrebbe fatto notizia solo in qualche piccolo quotidiano locale, se non fosse per l’insolita location della scena del crimine: Celebration, appunto. Una graziosa cittadina fondata a metà degli anni Novanta, nella ricca provincia di Osceola County (Florida, Stati Uniti), grazie ai cospicui investimenti della Disney Development Company. Villette zuccherose dai toni pastello, costruite in classico stile vittoriano. Giardini ben curati con posto auto e immancabile cassetta della posta a bordo strada4. Nelle giornate più limpide basta gettare 3

Per darne un’idea basta ricordare il bilancio della notte tra il 6 e il 7 novembre quando, all’apice delle violenze, 395 persone vengono arrestate, 34 poliziotti feriti, 1400 vetture distrutte. Cfr.V. Sassu, Là bas la banlieue. Rivolte, media e immigrazione nel contesto francese, Milano-Roma, Bevivino Editore, 2011. 4 Così si esprimeva una delle intervistate nel reportage realizzato dal New York Times dopo l’omicidio: «Io la chiamo la comunità delle Stepford Wives. Appena entrati mette

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Introduzione

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uno sguardo fuori dalla finestra per ammirare, stagliate nel cielo, le torri di uno dei più grandi parchi di divertimenti del mondo – il Walt Disney World Resort – situato a una decina di chilometri di distanza. Tutt’intorno corre una recinzione immacolata. Una tenue sottolineatura in un paesaggio del tutto artificiale, messa lì per ricordarci che la perfezione è un privilegio. Con un prezzo medio degli immobili che si aggira intorno a 700.000 $, qui il “biglietto d’ingresso” non è d’altronde alla portata di tutti. Perché Celebration vuole essere qualcosa di più di una semplice città. Nel proprio sito web si autodefinisce come una comunità «nel senso più nobile del termine» (in every positive sense of the word), la sua stessa immagine è fondata sulla condivisione di un «forte spirito di comunità» (strong community spirit) e dal «desiderio di fare amicizia con i propri vicini» (a desire for a friendship with their neighbors)5. Altri crimini potrebbero essere tollerati più facilmente, ma non l’omicidio che infrange il “sacro” vincolo del vicinato. Lo stesso, potente legame spinge gli abitanti della Zona a ricorrere ad una giustizia fai-da-te, pur di difendere un’illusione di sicurezza pagata a peso d’oro. In quel caso però il secondo crimine (il linciaggio di Manuel) vendicava il primo (l’uccisione dell’anziana signora), nella logica tribale del capro espiatorio. Qui invece manca una compensazione sul piano simbolico ed è in atto una strategia diversa, una strategia di rimozione. La gente ad esempio si dimostra preoccupata da un’eventuale svalutazione immobiliare dovuta al danno d’immagine, piuttosto che dal crimine in sé. Non è tanto la compromissione della solidarietà (il fondamento di ogni comunità secondo Max Weber) a turbare il sonno dei buoni borghesi bensì, ancora una volta, le conseguenze materiali di un trauma immateriale.

i brividi addosso. Penso che sia il posto adatto per coloro che pensano che qui non possa accadere nulla di brutto». [«“I call it the Stepford Wives community. As soon as you drive in, it’s creepy”, she said.“I think it’s for people who don’t think anything bad is ever going to happen to them”»]. Brown Robbie, A Killing (a First) in a Town Produced by Disney, in «New York Times», 2 dicembre 2010. Il riferimento a The Stepford Wives, romanzo di Ira Levin (1972), è quanto mai illuminante. Nel romanzo (e nei due adattamenti cinematografici uno nel 1975, l’altro nel 2004) viene descritta una cittadina molto simile dove un club di facoltosi mariti decide di rimpiazzare le proprie mogli con degli obbedienti cyborg. 5 Cfr. Sito ufficiale della cittadina di Celebration: [http://www.celebration.fl.us/].

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XVI

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Là dove finisce la città

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Storie così diverse offrono lo spunto ideale per la nostra analisi perché condensano in sé, in maniera emblematica, alcuni degli argomenti che andremo a sviluppare nelle prossime pagine: la ridefinizione dei confini della metropoli e la percezione della sicurezza, il crescente divario che segna l’accesso al consumo e le sue conseguenze, la fluttuante nozione di comunità e la percezione dell’Altro. Tutti fenomeni che trovano un comune orizzonte di riferimento nella rappresentazione dello spazio urbano e delle sue metamorfosi a ridosso delle soglie del nuovo millennio. 2. La crisi della forma-metropoli

La città è sicuramente uno dei temi privilegati dell’immaginario occidentale. È da un lato un tema di lungo periodo, presente sin dagli albori della civiltà greco-romana, dall’altro una «metafora archetipica» che presenta «le categorie della realtà nelle forme che l’uomo più desidera, quali sono suggerite dalle forme che tali categorie assumono per opera della civiltà»6. L’immagine della città è quindi una «forma» attraverso la quale si dispiega un processo di significazione che definisce la nostra percezione dello spazio, del vivere associato, delle modalità dell’abitare. Non è un caso che, in molte delle lingue indoeuropeee, il termine «senso» possieda la doppia accezione di «direzione» e di «significato»; quasi a sottolineare l’indissolubile compresenza riassunta mirabilmente nei versi di Friedrich Hölderlin, secondo cui, «poeticamente abita l’uomo». La permanenza di tale immagine rischia però di sottrarla al divenire storico, di relegarla in un iperuranio di idee assolute sempre uguali a se stesse, quando invece è proprio nel continuo mutamento, nell’attualizzazione in contesti storico-geografici tra i più disparati, ed ancora, nel perpetuo slittamento dei campi semantici che attorno a tale immagine si ridispongono in un’infinita combinatoria, ad assicurarne la sopravvivenza. Una constatazione apparentemente ovvia che ci spinge a ripercorrere, attraverso gli ultimi quattro decenni, una delle fasi salienti della ridefinizione di questa «forma» con un’attenzione del tutto particolare. 6

N. Frye, Anatomia della critica, Torino, Einaudi, 2000, p. 184.

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Ben prima di varcare le soglie del nuovo millennio la rappresentazione dello spazio è infatti entrata in crisi. Una crisi paragonabile a quella verificatasi a cavallo tra Otto e Novecento, quando l’azione congiunta delle avanguardie storiche e del modernismo aveva fatto deflagrare la visione olistica cara ai due maggiori cantori dell’epopea urbana del realismo, Charles Dickens e Honoré de Balzac. Ieri come oggi l’immagine della città è letteralmente esplosa, disseminando i suoi frammenti su una serie di superfici difficili da ricondurre entro un’unica prospettiva. Agli inizi del Novecento questa transizione aveva sancito il definitivo tramonto del progetto umanista della città proveniente «dalla polis greca e dalla città italiana rinascimentale»7, seguito dall’apogeo di un agglomerato più esteso e diffuso: la metropoli. Per questo, ieri come oggi, l’esperienza dello spazio urbano si configura come un frantumarsi di prospettive, uno sprofondare in reticolati inestricabili, una dispersione e una deriva senza fine. A dispetto delle affinità, dovute alla crisi della «forma» stessa, tale «forma» si presenta, o meglio viene rappresentata oggi, in maniera diversa. Non è più la metropoli caotica e ipercinetica di Futuristi, né cangiante caleidoscopio di stimoli e sollecitazioni sensoriali, croce e delizia di sociologici quali Georg Simmel o di romanzieri del calibro di James Joyce. Secondo alcuni non è più neanche una metropoli ma una «post-metropoli»8. C’è insomma un problema di definizione antecedente alle questioni inerenti la rappresentazione. L’oggetto verso cui rivolgiamo il nostro sguardo non solo si trasforma velocemente sotto i nostri occhi, ma non siamo più sicuri che si tratti del medesimo oggetto. Uno stato di confusione o, per lo meno, di smarrimento cognitivo testimoniato dall’incredibile fioritura di etichette critiche coniate, a partire dagli anni Settanta, cercando di descrivere tale realtà. Nel giro di pochi lustri siamo passati dalle «eterotopie» di Michel Foucault ai «nonluoghi» di Marc Augé, dalla «città infinita» di Aldo Bonomi alle «edge cities» di Joel Garreau… E non è affatto detto che una

7 M. Ilardi, Il senso della posizione: romanzo, media e metropoli da Balzac a Ballard, Roma, Meltemi, 2005, p. 175. 8 Cfr. E. Soja, Dopo la metropoli: per una critica della geografia urbana e regionale, Bologna, Pàtron, 2007.

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simile abbondanza terminologica ci aiuti in qualche modo a chiarirci le idee. Di certo testimonia la volontà e la pressante esigenza di fornire nuove definizioni, nuovi strumenti di analisi quando ormai altre categorie sembrano aver perso il loro valore euristico. Una delle più rilevanti conseguenze della trasformazione della città in metropoli, e della successiva saturazione di questa «forma», è infatti l’implosione dei «campi semantici» tradizionalmente impiegati per definirne i confini e la natura stessa: centro/periferia, città/campagna, comunità/società… A dimostrazione che le coppie antinomiche, la costante tensione tra polarità opposte su cui si fondavano i paradigmi della modernità abbiano ceduto il passo a configurazioni alternative, le cui mappe concettuali sono tutt’ora in fase di elaborazione. Anche solo limitandoci al romanzo, genere tra i più sensibili alle sollecitazioni dell’attualità, appare impossibile, se non controproducente, ricondurre la varietà di tecniche ed impressioni condensate nello scorcio finale del «secolo breve» ad un minimo comune denominatore. Lo spazio urbano postmoderno non può essere ridotto ad un unico topos, o anche solo ad un’unica metafora strutturale, dato che è proprio nel conflitto, nella simultaneità e nella compresenza che trova la sua ragione d’essere. Questa diversità non deve essere considerata come un ostacolo, bensì come un dato costitutivo della realtà che ci accingiamo ad indagare e come uno stimolo essenziale per la nostra analisi. Un cammino certo non facile, che ci costringerà nei prossimi capitoli ad adottare un approccio traversale, ad avventurarci su sentieri poco battuti, a procedere spesso per paradossi. Prendiamo ad esempio una delle contraddizioni più lampanti della «forma-metropoli» così come la conosciamo oggi. Da un lato la città contemporanea sembra in procinto di dissolversi nel pulviscolo sottile delle reti informatiche e dei flussi comunicazionali. I tratti salienti della sua fisionomia non coincidono più con il profilo discontinuo dello skyline, quanto piuttosto con i nodi e le geometrie frattali delle sue infrastrutture. Dall’altro abbiamo tutto ciò che si oppone a tale smaterializzazione: la resistenza pervicace delle ragioni e delle idiosincrasie del territorio, l’ossessione per la sicurezza e il controllo, la moltiplicazione delle soglie e degli sbarramenti all’accesso che oppongono un freno alla libera circolazione delle merci e delle persone favorita dalla globalizzazione. C’è insomma un’insanabile contraddizione alla radice della crisi sinora de-

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scritta. Una contraddizione grazie alla quale possiamo individuare le due modalità secondo cui la città contemporanea si presenta ai nostri occhi: l’interconnessione e la compartimentazione. Il primo punto è stato oggetto, specie durante gli anni Novanta, di una serie di studi dedicati al superamento del cosiddetto «luogo» antropologico quale espressione di un antico genus locii, depositario della cultura e dell’identità di una comunità. Le analisi di Augé, con la sua «antropologia del quotidiano», hanno aperto prospettive di ricerca estremamente interessanti in questo senso. Ciononostante bisogna riconosce come la definzione di «nonluogo» si sia trasformata presto in un feticcio, una sorta di categoria-ombrello al di sotto della quale sono state ricondotte le realtà più disparate, per poi evincere da tale eterogeneità un non meglio definito Zeitgeist. Non vogliamo qui mettere in discussione la validità di un simile modello esplicativo, quanto sottolineare gli abusi a cui, durante la fase più euforica delle retoriche del libero mercato, è stato sottoposto. Per contrasto oggi assistiamo invece ad un ripiegamento, ad una sorta di riflusso di quell’onda lunga che sembrava aver sommerso nel suo impeto ogni differenza locale al di sotto di una patina di omogeneità. Il prepotente risorgere di nozioni quali “territorio” e “comunità”, la loro esasperazione in nuove forme quali le «comunità fortificate» (gated communities), testimonia la presenza di una trama di affetti e di situazioni “locali” irriducibili allo spazio anodino dei flussi. Ripetiamolo ancora, la rappresentazione della metropoli postmoderna non ci pone di fronte ad un’alternativa esclusiva, bensì alla compresenza di due modalità, a due connotazioni apparentemente inconciliabili. Le riassumeremo, per comodità, in due etichette sintetiche: la prima – la network society di Manuel Castells – pone l’accento sull’interconnessione; la seconda – il carceral archipelago di Edward Soja – sulla compartimentazione. Lo spazio urbano vive di questa felice (?) schizofrenia, nel crescente scarto tra queste due tendenze, configurandosi, nel contempo, sia come una giustapposizione di monadi o microcosmi, sia come una rete di interdipendenze e correlazioni.

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3. Il grado zero dello spazio metropolitano

Guardando alla disordinata espansione dei maggiori insediamenti urbani occidentali, al dilagare della cosiddetta «schiuma metropolitana»9 in cui si cancellano le specificità e le differenze, sorge spontanea una domanda: ci troviamo di fronte ad una «città infinita» oppure ad una «città indefinita»? Il primo termine insiste sulla dilatazione di una «forma», all’inclusione bulimica e onnicomprensiva che, alla lunga, porta a negarne la specificità. La «forma-metropoli» è infatti giunta al punto di saturazione, ormai pronta a collassare su se stessa sotto il peso degli elementi eterogenei accolti all’interno del proprio grembo. Il secondo aggettivo – «indefinita» – dimostra quanto tale impressione di estensione senza limiti sia frutto di un effetto di distorsione percettiva. Una mera illusione la cui inconsistenza ci appare evidente quanto ci rendiamo conto che il «mito dell’accessibilità totale», su cui si fondava la città moderna oggi si riduce tutt’al più ai «pochi chilometri quadrati di un centro commerciale, di un parco tematico, di un nonluogo aeroportuale o di una Silicon Valley, gli unici dove in fondo può funzionare»10. La città è dovunque: dunque non vi è più città. Non abitiamo più città, ma territori. La possibilità stessa di fissare confini alla città appare oggi inconcepibile o, meglio, si è ridotta ad un affare puramente tecnico-amministrativo. Chiamiamo quest’area “città” per ragioni assolutamente occasionali. I suoi confini sono un mero artificio. […] Il limite dello spazio post-metropolitano non è dato dal “confine” cui è giunta la rete delle comunicazioni; man mano che la rete si dirada possiamo dire di “uscire” dalla post-metropoli, ma è evidente che si tratta di un “confine” sui generis: esso esiste per essere superato. Esso è in perenne crisi11.

L’osservazione di Massimo Cacciari coglie nel segno e ci permette di focalizzare meglio uno degli aspetti cruciali della nostra analisi: il

9 La città infinita, a cura di A. Abruzzese, A. Bonomi, Milano, Mondadori, 2004, pp. 94100. 10 Ilardi, Il senso della posizione, cit., p. 172. 11 Abruzzese, Bonomi, Op. cit., p. 52.

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precario statuto del confine. Molti autori postmoderni, registi e romanzieri in primis, hanno esplorato le possibilità derivanti da questa precarietà restituendoci un quadro forse non rassicurante ma certamente fedele della realtà che ora ci accingiamo ad indagare: «I guerrieri della notte, 1997 Fuga da New York, L’odio, i film di Singleton, Spike Lee, Van Pleebes, Kassowitz, i romanzi di Welsh, di King, di Philip Roth, di DeLillo, i noir di Ellroy, Slim, Pelecanos, De Cataldo e Bunker»12. A questi potremmo aggiungere, volendo aggiornare un elenco già ben nutrito: la New York onirica di Paul Auster (The New York Trilogy, 1987); la Los Angeles rizomatica di Bret Easton Ellis (Less than zero, 1985); e ancora, per evitare un eccessivo sbilanciamento verso il Nord America, la scrittrice argentina Claudia Piñeiro (Las viudas de los jueves, 2005); o, sul versante italiano, autori quali Paola Capriolo (Il sogno dell’agnello, 1999), o Luigi Carletti (Prigione con piscina, 2012). I numerosi riferimenti individuati testimoniano l’importanza di quello che si può considerare a pieno titolo un «tema» emergente nell’immaginario occidentale o, per essere più precisi, un «insieme sovranazionale»13. In sintonia con il discorso della globalizzazione questo insieme è costituito da una serie di motivi (ossia elementi figurativi quali: il muro e la soglia, la prigione e il labirinto…) e di schemi narrativi ricorrenti (l’indagine, l’evasione…) che risuonano all’interno di una fitta rete intertestuale. La dispersione e la varietà degli esiti creativi ad esso riconducibili impedisce però di considerare tali autori alla stregua di un “gruppo”, o anche solo di un meno organico “movimento”. Un impedimento che ci spinge a non andare oltre l’abbozzo di una panoramica generale per concentrarci, d’ora in avanti, su un caso più specifico. A dispetto dell’indiscutibile fortuna di cui gode tale «tema», testimoniata dalla sua notevole diffusione, pochi artisti l’hanno sviluppato e ripreso costantemente nelle loro opere. Costoro rappresentano dei casi isolati, spesso considerati marginali, ma non per questo meno rilevanti. Da qui deriva la nostra scelta di porre al centro della nostra analisi l’opera di un irriducibile outsider come James Graham

12 13

Ilardi, Il senso della posizione, cit., p. 172. C. Guillén, L’uno e il molteplice, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 11.

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Ballard (Shanghai, 1930; Shepperton, 2009), una delle figure più eclettiche nel panorama della letteratura anglossassone del secondo dopoguerra. La varietà dei generi esplorati durante la sua lunga carriera – fantascienza, romanzo sperimentale, autobiografia, detective story metafisica – è impressionante e riflette la sua multiforme vena creativa, pur non adattandosi facilmente ad una rigida tassomia. Vizio spesso considerato imperdonabile da molti critici, dentro e fuori l’accademia. Richiamandoci alle parole di Roger Luckhurst potremmo dire che Ballard svolge la funzione del «cardine, il dispositivo che, allo stesso tempo, unisce e separa due piani o due superfici»14; è ciò è vero tanto sul piano dell’enunciazione quanto su quello dell’enunciato. Dall’inizio degli anni Settanta l’autore britannico mostra infatti una spiccata predilezione per tutti quegli ambienti che si pongono al di fuori di un’ormai anacronistica opposizione tra centro e periferia: «atrii aeroportuali, parchi tecnologici, complessi residenziali suburbani, terreni incolti e abbandonati, gated communities, pueblos per pensionati»15. Attraverso questo prisma sfaccettato cercherò di ripercorrere le metamorfosi dello spazio urbano negli ultimi decenni, soffermandomi in particolare su sei romanzi che, a mio avviso, costituiscono altrettante tessere nel composito mosaico della metropoli postmoderna: Concrete Island (1974); High Rise (1975); Cocaine Nights (1996); Super-Cannes (2000); Millenium People (2003); Kingdom Come (2006). Un simile corpus testimonia la rielaborazione costante, quasi maniacale, di un ridotto numero di «metafore ossessive»16. Di questa rielaborazione ho voluto proporre solo un breve scorcio, limitandomi ad alcuni momenti, ad alcune “soglie” cruciali – la metà Settanta, gli anni Novanta, l’inizio del nuovo millennio – senza pretendere di rendere conto in maniera esaustiva della vasta produzione ballardina.

14 «Ballard, it might be said, is in the place of the hinge, the device which at once joins together and separates two planes or surfaces». R. Luckhurst, The Angle Between Two Walls: The Fiction of J. G. Ballard, New York, St. Martin’s, 1997, p. XIII. 15 A. Gasiorek, J. G. Ballard, New York, Manchester University Press, 2005, p. 206. 16 Cfr. C. Mauron, Dalle metafore ossessive al mito personale, Milano, Garzanti, 1976.

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4. Questioni di metodo

Quando si tratta di definire un metodo, specie di fronte ad un oggetto tanto complesso e sfuggente, una delle questioni più pressanti da affrontare è sicuramente l’adeguatezza e la flessibilità degli strumenti ermeneutici messi in campo. Come ho già accennato il presente studio non intende affatto fornire una descrizione, per quanto sommaria e incompleta, dell’evoluzione della «forma-metropoli» nelle sue differenti implicazioni economiche e sociologiche, anche se a simili aspetti, nel corso dell’analisi, si dovrà necessariamente accennare. L’intenzione è piuttosto quella di valutare in che misura questa serie di trasformazioni si costituiscano come discorso sociale, quali categorie semantiche di tale discorso arrivino a permeare la rappresentazione letteraria, con una specifica attenzione alla costruzione dello spazio narrativo. L’utilizzo del termine «discorso» richiede un ulteriore chiarimento e mi permette di introdurre alcune considerazioni inerenti al primo, fondamentale schema metodologico che intendo adottare. Gli episodi citati in apertura dimostrano come la metropoli possa essere narrata secondo modi e prospettive diverse ma, soprattutto, pongono in evidenza il fatto che lo spazio urbano non sia semplicemente un «racconto» (o un insieme, per quanto grande, di racconti) bensì tenda a costituirsi in quanto «discorso». Per chiarire meglio la differenza occorre precisare che il «racconto» (récit) è una sequenza di eventi, personaggi e azioni organizzata temporalmente, mentre il «discorso» (discourse) è qualcosa di diverso. È, in un certo senso, lo sfondo su cui prendono corpo le figure, l’insieme di categorie concettuali secondo cui vengono ordinati gli eventi17. Nel discorso si definiscono e si raccolgono schemi cognitivi, si delineano gerarchie di valori, si definiscono posizioni da cui si emettono giudizi. È, insomma, un sistema complesso e a più strati, attraverso cui si regola la produzione e la condivisione del significato. Una volta compresa la differenza tra «racconto» e «discorso», appare chiaro come il presente saggio si sviluppi a partire dal primo termine

17

Secondo la definizione di Gerard Genette il “racconto” è «la successione degli avvenimenti, reali o fittizi, che formano l’oggetto [del] discorso, e le loro varie relazioni, di concatenamento, opposizione, e ripetizione, ecc., ecc.». G. Genette, Figure III, Einaudi, Torino, 1976, p. 73.

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per illustrare e comprendere meglio il secondo. L’analisi prenderà dunque le mosse da un’approfondita lettura di alcuni testi con lo scopo di far emergere sia le tematiche privilegiate, sia le peculiari strategie narrative adottate. In un secondo momento, procedendo dal concreto all’astratto, metterò in relazione i due piani appena individuati, tentando di evincere da questa relazione le «strutture», ossia dei sistemi di modelli e di motivi ricorrenti al loro interno. Le due fasi, di «smontaggio» e «rimontaggio» del testo letterario, sono complementari e la loro successione ricalca in parte la metodologia delineata da Roman Jakobson e Claude Lévi Strauss in un memorabile saggio dedicato a Baudelaire18. Si tratta dunque di uno studio di stampo narratologico e molti degli strumenti e delle categorie qui impiegate derivano da questo approccio al testo letterario. Innazitutto la distinzione tra «piano dell’enunciato» e «piano dell’enunciazione», essenziale, a mio avviso, per tenersi alla larga sia dall’antico vizio del contenutismo sia, all’estremo opposto, dalle derive di uno sterile formalismo. Limitandosi a stilare un elenco di «temi» e «motivi» si rischierebbe di intaccare solo la superficie del problema. Simili dettagli, considerati di per sé, possono aiutarci a ritrovare un certo grado di affinità tra diversi autori o diverse opere, ma ci restituirebbero solo una lettura parziale, un catalogo fatalmente aperto e incompleto. Ben più interessante è vedere in che modo questi elementi dialoghino e si combinino tra loro, disponendosi come nuclei o satelliti di un’articolata «rete tematica». Lo stesso dicasi per il «piano dell’enunciazione».Anche in tal caso cercherò di far emergere alcuni schemi costitutivi, richiamandomi in numerose occasioni al pattern dell’«indagine», derivato dal fortunato genere della detective story. Mi servirò inoltre di alcune nozioni prese a prestito dalle riflessioni di Vladimir Propp, uno dei massimi esponenti del formalismo russo. La detective story, al pari delle fiabe analizzate da Propp, si serve di un limitato numero di “posizioni” invarianti (l’«eroe», l’«antagonista», l’«aiutante»…) riproposte, di volta in volta, in diverse configurazioni.Tali componenti possono essere definiti come «ruoli attanziali» e di volta in volta illustrerò come la lo-

18

Poetica e poesia, a cura di R. Jakobson, Torino, Einaudi, 1984, pp. 149-169.

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ro combinatoria modifichi in maniera sostanziale i rapporti all’interno del sistema dei personaggi. Infine, alla fine di ogni capitolo, cercherò di ricomporre i singoli elementi in un quadro generale. Come ho già accennato il presente studio mira ad evidenziare alcune correlazioni tra dimensioni distinte ma complementari, insistere esclusivamente su una delle due ci impedirebbe di coglierne le reciproche interconnessioni. Volendo trovare una diversa definizione di «codice» si potrebbe infatti affermare che si tratta dell’“l’interfaccia” che regola le interazioni tra enunciato ed enunciazione. Accanto a questo primo, solido fondamento metodologico non sarà privo di utilità richiamarsi a diverse suggestioni provenienti dal campo di studi della letteratura comparata. Una disciplina relativamente giovane nel campo degli studi umanistici e poco praticata negli ambienti universitari nostrani, ma capace di focalizzare meglio di molte altre uno dei nodi cruciali del nostro studio: la rappresentazione dell’Alterità e dell’Altro. La raffigurazione dello spazio urbano insiste in particolare sulla ridefinizione, o meglio, sulla risemantizzazione, di queste due astratte nozioni: ridisegnando l’immaginario della prossimità e, di conseguenza, incidendo profondamente sui processi di formazione dell’identità del singolo e della collettività. La ricorrenza della nozione di «comunità» nei romanzi ballardiani è estremamente significativa ed evidenzia un disperato tentativo di ricomporre la frattura prodottasi nella modernità tra comunità (Gemeinschaft) e società (Gesellschaft)19. Ciò spiega in parte la metafora ricorrente del «villaggio», reinterpretato nel corso della postmodernità quale surrogato della «forma-metropoli», che cerca di porsi spazialmente ai suoi margini e temporalmente alla sua origine. Un interessante ritorno al passato in un’epoca dove lo statuto del futuro si fa sempre più indefinito e precario. Ballard non era certo un nostalgico e la sua ripresa di un simile motivo si presta spesso alla caricatura e alla satira sociale, ciononostante dobbiamo riconoscere quanto tale nozione costituisca qualcosa di più di una semplice ossessione personale:

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Cfr. F. Tönnies, Comunità e società, Roma-Bari, Laterza, 2011.

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L’idea di comunità appartiene alla vita concreta degli uomini molto più di quanto non appartenga al repertorio di strumenti e di concetti delle scienze sociali. Riguarda […] da vicino il mondo dei desideri e delle aspirazioni soggettive che non l’analisi del presente, un futuro da desiderare più che un presente da capire. Non per questo ci troviamo di fronte ad un concetto da consegnare nelle sole mani di poeti e astrologi. Perché la voglia di comunità come tutti i desideri e le aspirazioni soggettive, è anche un potente motore di conoscenza, la condizione per mobilitare curiosità e risorse cognitive, per generare nuovi concetti e contenuti. In questo senso la proliferazione dei significati di comunità starebbe a indicare una permanente vitalità del concetto, non già la sua estinzione: se il desiderio di quanto evocato da un concetto è in grado di mobilitare conoscenza e produrre nuovi significati, significa che quel concetto conserva ancora capacità di spiegazione che meritano di essere tutelate e coltivate20.

Non è mia intenzione dimostrare qui la teoria secondo la quale il romanzo ha assunto storicamente una funzione di problem solving nella tradizione letteraria occidentale, sicuramente però tale genere ha rielaborato dei conflitti irrisolti nell’immaginario collettivo. Sarebbe dunque più appropriato parlare di «problem posing» piuttosto che di «problem solving». L’intenzione di fondo è quella di porre delle domande al lettore e, a partire dai romanzi di Ballard, abbozzare alcune, possibili interpretazioni. Il romanzo, secondo Roland Barthes, è un motore di desiderio più che un sillogismo in forma poetica. Senza pretendere di trovare una soluzione agli spinosi dilemmi sinora abbozzati, potremo almeno definire insieme le modalità secondo le quali sono posti.

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Abruzzese, Bonomi, Op. cit., p. 15.

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Chiusi dentro: l’isola e il condominio

Alla metà degli anni Settanta, quando furono pubblicati, in un breve lasso di tempo, Concrete Island (1974) e High Rise (1975) la carriera di J. G. Ballard era giunta ad un punto di svolta. Il romanzo precedente, Crash (1973), aveva rappresentato il primo vero successo, anche se più che per la critica che per le vendite. Sino ad allora il giovane scrittore britannico si era cimentato principalmente nel campo della short story, collaborando con diverse riviste (prima tra tutte New Worlds)1 e distinguendosi in una nicchia relativamente ristretta quale quella della science fiction. Un genere sino ad allora snobbato da gran parte della critica accademica e non. Nel medesimo ambito si inscrivevano i primi tentativi romanzeschi. La sua quadrilogia apocalittica (The Wind From Nowhere, 1961; The Drowned World, 1962; The Burning World, 1964; The Crystal World, 1966) lo aveva confermato come una giovane promessa a cui mancava ancora la consacrazione sulla scena letteraria. Crash rappresentava un nuovo inizio, qualcosa di radicalmente diverso anche dai precedenti tentativi in direzione dello sperimentalismo quali, ad esempio, The Atrocity Exhibition (1969) e Vermilion Sands (1971). Il primo in particolare, dedicato ad un’allucinata ricomposizione dell’immaginario americano degli anni Sessanta, attraverso la tecnica del cut-up, era stato sotto diversi aspetti un clamoroso fallimento. La novità del “montaggio”, la rinuncia alla progressione narrativa in favore di una giustapposizione quasi onirica, avevano sconcertato anche i suoi lettori più fedeli; per non parlare del-

1 Avamposto della cosiddetta New Wave, specie durante gli anni della direzione di un caro amico di Ballard: Michael Moorcock.

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la spregiudicatezza con cui Ballard si prendeva la libertà di manipolare e reinterpretare alcune icone sacre dell’american way of life, dalla morte di Marlyn Monroe all’assassinio del presidente Kennedy. Non che Crash fosse meno scandaloso per quanto riguarda i contenuti (destinati a provocare qualche fastidio alla censura anglosassone), eppure sul piano dell’enunciazione, della “forma”, si presentava in maniera più rassicurante rispetto all’«orizzonte delle aspettative». «Con la stessa facilità con cui aveva rifiutato la tirannia della storia, [Ballard] la riabbraccia di nuovo con rinnovato fervore. La schietta narrativa in prima persona è perfettamente appropriata a ciò che [lui stesso] definisce “il primo romanzo pornografico basato sulla tecnologia”»2. La spregiudicata commistione di Eros e tecnologia appare ancora oggi come una delle mosse più riuscite di Ballard, nel tentativo di promuovere un rinnovamento dall’interno della nicchia della science fiction. Un genere che, secondo le sue intenzioni, dopo il lento crepuscolo della “corsa allo spazio”, doveva arrendersi all’evidenza. Il mondo di domani, così come l’avevano immaginato, Herbert George Wells o Isaac Asimov poteva essere ormai considerato alla stregua di una metafisica consolatoria. Citando le parole di Wyndham Lewis, Ballard amava ripetere come ormai il futuro si fosse esaurito, ancora prima di materializzarsi. Occorreva dunque abbandonare gli spazi siderali per rivolgere lo sguardo all’hinc et nunc. Una rivoluzione copernicana a tutti gli effetti, per la science fiction e non solo. Un prezioso alleato in questa battaglia, oltre ai rari amici conosciuti attraverso l’esperienza di New Worlds, sarà, almeno in un primo momento, Kingsley Amis, influente critico e docente di letteratura a Cambrige. Entrambi concordavano su un punto: gli scrittori di fantascienza avrebbero dovuto abbandonare il più in fretta possibile i loro paramenti tradizionali e tutti i loro amati gadgets: «la nave spaziale, il satellite, il computer e tutta quella robaccia cibernetica»3. Al

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«As firmly as he had rejected the tyranny of story; he re-embraces it with prodigal’s fervour.The straightforward first-person narrative is entirely appropriate to what he called the “first pornographic novel based on technology”». J. Baxter, The inner man. The life of J. G. Ballard, Weidenfeld & Nicolson, Londra, 2011. 3 «[All] their cherished gadgets: the rocket ship, the satellite, the computer, the cybernetic stuff». Ivi, p. 124.

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contrario, per quanto riguardava le conseguenze di tale svolta, da bravi rivoluzionari, avevano idee piuttosto diverse. Il vecchio Amis riteneva che la fantascienza dovesse confluire nel mainstream, Ballard, pensava invece che dovesse accadere l’esatto opposto. Un dissidio che alla lunga costerà alla giovane promessa i favori dell’autorevole protettore ma, alla fine del quale, si ritroverà ancora più persuaso della bontà dell’intuizione iniziale. Specie negli anni Sessanta quando si apre l’interregno tra la fine del progetto progressista del “vecchio Labour” e l’era della Lady di Ferro, nel 1979. Un periodo in cui predomina un diffuso senso di fallimento, disperazione e rabbia, un clima di stagnazione dove le vicende dei suoi protagonisti, intrappolati in gabbie claustrofobiche, drammatizzano i problemi sociali più attuali, senza pero indicare apparentemente una soluzione4. 1. Concrete Island

1.1 Fuori strada Londra, 1973. Nella luce accecante di un tiepido pomeriggio primaverile, Robert Maitland (quarantenne, marito fedifrago e socio di uno studio di architetti) spinge a fondo l’acceleratore della sua Jaguar, in direzione dello svincolo di Westway. Tutt’intorno si diramano le linee sinuose della M25, l’inestricabile incrocio di autostrade, cavalcavia e viadotti che avvolge la capitale britannica tra le sue spire d’asfalto e cemento. Lo scoppio della ruota anteriore sinistra sbalza l’auto fuori dalla carreggiata. Infrangendo uno steccato di cavalletti la Jaguar prosegue lungo una discesa brulla sino a quando, improvvisamente, l’impatto con un rottame arrugginito ne arresta la corsa. Maitland, frastornato dall’incidente, riemerge a fatica dall’abitacolo e getta la prima occhiata al nuovo mondo che ribattezzerà, da buon esploratore, con un nome semplice: “l’isola”. Schermandosi dal sole Maitland vide che si era arrestato in una piccola isola spartitraffico triangolare, lunga meno di duecento metri, che si stendeva in una zona incolta fra autostrade convergenti. L’apice del-

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Gasiorek, Op. cit., p. 107.

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l’isola puntava a ovest, verso il sole calante, la cui tiepida luce sovrastava i lontani studi televisivi di White City. La base era costituita dal cavalcavia diretto a sud, sopraelevato di oltre cinque metri dal suolo, e sorretto da monumentali piloni di calcestruzzo. La vista delle sei corsie di traffico era preclusa da schermi paraspruzzi di metallo ondulato, installati per proteggere i veicoli sotto. Dietro Maitland si ergeva il muro settentrionale dell’isola, cioè il terrapieno alto dieci metri dell’autostrada ovest da cui era balzato; di fronte a mo’ di confine sud la ripida scarpata del raccordo a tre corsie che girava formando un circuito nordoccidentale sotto il cavalcavia per collegarsi all’autostrada all’apice dell’isola. Pur non distando più di cento metri, la scarpata, da poco ricoperta d’erba restava nascosta dietro la luce surriscaldata dell’isola per le erbacce, le carcasse d’auto e il materiale del cantiere. Il traffico passava sulle tre corsie del raccordo diretto a ovest, ma i guardrail metallici separavano l’isola dagli automobilisti. Gli alti montanti di tre segnali stradali uscivano dai cassoni di calcestruzzo costruiti nel ciglio della strada. […] Sotto il cavalcavia, al limite sud dell’isola, una rete metallica separava il triangolo incolto dall’area successiva, trasformata in una discarica abusiva. […] L’isola era tagliata fuori dal mondo circostante dagli alti terrapieni su due lati e dalla rete metallica sul terzo. La prevista architettura di paesaggio doveva ancora essere completata, e il contenuto preesistente di quell’angolo spelacchiato, cioè le erbacce e le carcasse di automobili era rimasto intatto. [CI 53]

Il traffico in direzione dell’aeroporto di Heathrow rimbomba sotto le campate. Nessuno sembra essersi accorto dell’accaduto, nessuno giungerà in suo aiuto dall’esterno. Il seguito della trama si può riassumere in breve. Nella prima parte del romanzo il protagonista tenterà in ogni modo di evadere – cercando di risalire le scarpate, di forzare la rete metallica, di attirare l’attenzione degli automobilisti di passaggio – senza successo. Allo stremo delle forze giungeranno in suo soccorso gli inaspettati “abitanti” dell’isola. Il primo, Proctor, è una sorta di riproposizione del Calibano di shakespeariana memoria. Ex trapezista del circo, menomato nel fisico e nella mente da un’acrobazia finita male, possiede una smisurata forza fisica ma è incapace di articolare i suoi pensieri più delle sue parole. Il secondo non si dimostra altrettanto amichevole: Jane Sheppard, una ragazza dal passato misterioso, un incrocio tra i disinibiti

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costumi di una passeggiatrice e «la classica ribelle di buona famiglia, con la testa piena di ideali mal digeriti», rappresenta il personaggio dalla psicologia più complessa. I due “aiutanti” gli offrono riparo e cibo, niente più. Pur salvandogli la vita non sembrano minimamente intenzionati ad agevolare il suo piano di fuga, per motivi più o meno ovvi. Proctor teme il mondo esterno, fonte perpetua di terribili umiliazioni. Rimangono invece oscure le ragioni di Jane, che la spingono a non coinvolgere la polizia e a non cercare aiuto all’esterno, nonostante le sue abitudini notturne convincano Maitland dell’esistenza di una via d’uscita. Basteranno cinque giorni prima che il protagonista riesca ad imporsi come la nuova figura dominante all’interno dell’insolito triangolo, facendo leva sull’ingenuità di Proctor e sulle debolezze nascoste di Jane. L’ultimo tentativo di fuga comporterà il sacrificio del vagabondo acrobata, garrotizzato dai cavi di un veicolo della manutenzione mentre cerca di oltrepassare la recinzione metallica sul lato meridionale dell’isola. Uno spettacolo di morte che richiama alla mente del naufrago la terribile premonizione che aveva segnato l’inizio della sua avventura. La trasfigurazione di un motociclista appiedato in un terribile vecchio che trascina un orrendo strumento di tortura «alle ruote del quale, collegate a catena, il [suo] corpo già provato sarebbe stato legato per un macabro giudizio di Dio». [CI 11, 13] Dopo l’addio di Jane Maitland rimane solo. Ora non ha più nessuna fretta di andarsene: Un’auto della polizia avanzava lentamente sull’autostrada; il passeggero scrutava l’erba alta. Al sicuro nel suo padiglione, Maitland aspettò che fossero passati. Quando l’auto si fu allontanata si alzò in piedi e abbracciò l’isola con uno sguardo pieno di fiducia. La fame gli faceva girare la testa, ma era calmo e padrone di sé. Avrebbe raccolto il cibo attraverso la rete metallica... e forse, in omaggio al vecchio acrobata, ne avrebbe lasciata una porzione simbolica sulla sua tomba. Fra poche ore sarebbe sceso il crepuscolo. Maitland pensò a Catherine e a suo figlio. Presto li avrebbe rivisti: dopo mangiato ci sarebbe stato tutto il tempo di riposare e pianificare la fuga. [CI 155]

La sua mente, ormai sgombra, si aggira per i meandri di un’era più antica e più violenta. E non è il giudizio di Dio ad attenderlo, bensì quello dell’isola.

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1.2 L’isola come palinsesto Volendo ora ripercorrere la costruzione dello spazio sul piano dell’enunciato prenderò spunto da un’osservazione di Gérard Genette secondo cui le pause descrittive rallentano il ritmo narrativo, azzerando lo sviluppo dell’azione in favore in un approfondimento del contesto entro cui si svolge. Una simile ipotesi si rivela esatta se consideriamo la prima apparizione dell’isola, rappresentata come una realtà statica, a sé stante, colta insomma grazie ad una netta separazione tra soggetto ed oggetto. Basta scorrere poche pagine per accorgersi che le cose non stanno esattamente in questi termini. Già nel quinto capitolo il protagonista inizia a notare qualcosa al di sotto della superficie irregolare del terreno, su cui non è ancora intervenuta l’azione uniformante dell’«architettura del paesaggio». L’isola, porzione di realtà ritagliata in negativo dall’espansione delle vie di comunicazione circostanti, nasconde le tra sue pieghe le tracce della storia recente: Confrontandola con il sistema di autostrade, rilevò che era molto più vecchia dei terreni circostanti, come se quella zona triangolare di incolto fosse sopravvissuta per un esercizio unico di scaltrezza e perseveranza, e avrebbe continuato a sopravvivere, sconosciuta e negletta, per molto tempo ancora dopo che le autostrade si fossero ridotte in polvere. [CI 61-62]

Ad un occhio più attento, scrutando sotto le erbacce, si delineano così «i profili delle fondamenta di case terrazzate» appartenenti al periodo edoardiano; un rifugio antiaereo della Seconda Guerra Mondiale, «semisepolto sotto il terriccio e la ghiaia trasportati per alzare i terrapieni dell’autostrada», le lapidi abbandonate di un vecchio cimitero (cap. 5). E ancora: le rovine di una stamperia (cap. 8); un rifugio della «Protezione Civile risalente a poco più di quindici anni prima»; «il pianterreno di un cinema postbellico»; lo spiazzo di uno sfasciacarrozze dove, nell’incipit, il rottame di un’auto ha frenato la sua folle corsa (cap. 9). Lungi dal rappresentare la conformazione anodina dei nonluoghi teorizzati da Marc Augé, la fisionomia dell’isola riflette due principi basilari: accumulo e sovrapposizione. Una conformazione molto particolare, che si rivela per gradi allo sguardo dell’esploratore e invita l’osservatore a leggerla come un “palinsesto”. Definizione quanto mai

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appropriata, a patto di intendere tale termine nella sua accezione originaria, cioè come un manoscritto il cui testo originario sia stato cancellato e sostituito con un altro. In questa prospettiva gli spostamenti di Maitland rappresentano qualcosa di più di una semplice ricognizione del territorio. Sommando le diverse impressioni, per poi organizzarle in una prospettiva olistica, il protagonista crea una mappa cognitiva. Un’operazione che va ben oltre un semplice arricchimento delle sue competenze, o volendo esprimersi nella terminologia genettiana, del suo “sapere narrativo”. Il valore aggiunto di simili descrizioni appare evidente appena riusciamo a cogliere l’inedito legame istituito dal nostro novello Robinson tra lo spazio fisico e quello interiore, tra percezione e memoria: «la sua mappatura spaziale dell’isola è pertanto una mappatura temporale: lo spostamento attraverso lo spazio è, nello stesso tempo, un viaggio attraverso il tempo dell’isola»5. L’acuta osservazione di Andrej Gasiorek ci suggerisce una riflessione più profonda a riguardo. Qui è infatti possibile ritrovare uno dei fondamenti costitutivi della produzione di Ballard nei decenni a venire: la correlazione tra spazio e tempo e la perfetta reversibilità di queste due dimensioni. Un’intuizione certo precoce – ricordiamo al lettore che siamo ancora a metà degli anni Settanta – ma già perfettamente in sintonia con lo spirito del postmoderno. Il riferimento al postmodern offre inoltre la possibilità di comprendere meglio le modalità attraverso cui Maitland allestisce una fitta rete di corrispondenze tra il proprio passato e quello dell’isola. Da un lato infatti la tecnica utilizzata è quella del cut-up, l’assemblaggio di frammenti preesistenti finalizzato a ricostruire una totalità, per quanto effimera e provvisoria. Dall’altro la riemersione del rimosso fornisce lo schema unificante, lo sfondo ideale su cui si proietta un simile “approccio archeologico”. Quasi a significare che solo facendo i conti con i propri ricordi, riconquistando porzioni di Sé ormai dimenticate, il protagonista possa accettarle per poi lasciarle definitivamente alle spalle, in vista di una rinascita, della riconquista di un’autenticità perduta. In quest’ottica possiamo comprendere perché

5 «His spatial mapping of the island is thus a temporal mapping: the journey across physical space is at the same time a journey over the time of the island». Gasiorek, Op. cit., p. 113.

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alcuni luoghi, alcuni oggetti assumano un valore simbolico, disegnando un nuovo sistema di coordinate affettive e compensando la dispersione dovuta a una continua dislocazione. Alcune scene sono particolarmente significative. Nell’ottavo capitolo Maitland raccoglie un cliché di rame dal polveroso pavimento della stamperia. La matrice è danneggiata, ma si riescono ancora a distinguere le «vaghe immagini di un uomo in abito scuro e di una donna coi capelli bianchi» che gli riportano alla mente il divorzio dei genitori. Poche pagine più in là le locandine appese nel botteghino del cinema rievocano nebulose immagini dell’infanzia e, insieme a queste, le pellicole dell’orrore di cui era appassionato da bambino. L’introspezione, vezzo solitamente precluso agli eroi ballardiani, viene così esercitata in maniera indiretta, grazie ad una serie di correlativi oggettivi, sino a rivelare la metafora che racchiude in sé il motivo generatore di tutto l’intreccio, il «nocciolo originario dell’identità» (original kernel of identity) di Maitland: «l’immagine mentale di un ragazzetto che gioca da solo all’infinito in un lungo giardino suburbano circondato da un alto steccato» (cap. 3). La predilezione per l’isolamento del protagonista, il desiderio inconfessato di «rendere il Sé un’entità inviolabile»6 costituiscono la meta di un simile cammino di autoconoscenza e, paradossalmente, il suo maggior limite. Nonostante il valore euforico storicamente attribuito alla regressione dagli alfieri del primitivismo (dal «fanciullino» di Pascoli alle successive riprese in campo antropologico), Ballard sottolinea quanto tale prospettiva trascuri un meccanismo tipico della psiche umana: la coazione a ripetere. Il nostro “naufrago” tende infatti a replicare nel nuovo mondo attitudini ideologiche tipiche dei suoi esimi predecessori (dominio e sfruttamento) e, alla fine, si spingerà ben oltre, preferendo alle sirene del ritorno la reclusione in un isolamento volontario. Portata alla sua logica conclusione la ricerca di una relazione contrattuale sfocia in una solitudine così assoluta che la realtà esterna si dissolve nel Sé. Il desiderio di libertà dal contatto con gli altri comporta un tale grado di alienazione che anche una concezione

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Ivi, p. 119.

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strumentale delle relazioni umane è ritenuta essere un sovrappiù rispetto al necessario7.

Insomma il «ritorno all’infanzia» potrebbe rappresentare una via per ristabilire un legame con le proprie origini, per ritrovare un’autenticità perduta, se non fosse per il fatto che, non potendo sanare in alcun modo il trauma originario, il nostro eroe si trova costretto a riviverlo continuamente nella forma dell’ossessione. L’unica via di salvezza percorribile porta in un’altra direzione, non più verso l’intimità bensì verso l’esterno, verso l’identificazione simpatetica con l’isola. Questo secondo movimento ci introduce a una delle più fertili intuizioni di Ballard: il disvelamento completo del cosiddetto «spazio interiore» (inner space). 1.3 Lo «spazio interiore» Un buon modo di proporre una prima, provvisoria definizione di inner space è analizzare un’inversione dei registri caratteristica della prosa ballardiana. Un’inversione che ridefinisce le relazioni tra due campi semantici: quelli dell’organico e dell’inorganico o, volendo usare un’espressione cara al Nouveau Roman francese, quella tra le “le parole e le cose”. Consideriamo ad esempio il profilo dell’isola fornito all’inizio del romanzo. Maitland ne descrive l’aspetto, la topografia, ne delimita i confini. L’isola appare dunque come una realtà esterna da conoscere ed, eventualmente, sfruttare. Presto però a comincia ad assumere tratti antropomorfi. Tra l’ambiente e l’occupante si instaura un rapporto non più razionale, bensì affettivo. Già nel capitolo 6 la crescita incontrollata dell’erba e delle sterpaglie inizia ad apparire come «un tentativo quasi cosciente di sommergerlo». All’inizio predominano le connotazioni negative, attribuite sempre alla Natura8, che resiste ai

7 «Taken to its logical conclusion, the search for contractual relationship results in a solitude so complete that external reality is dissolved into the self. This desire for freedom from contact with others signifies an alienation so extreme that even an instrumental conception of human relation is eventually deemed surplus to requirements». Ivi, p. 116. 8 In Ballard raramente la Natura è originaria o incontaminata. Alcuni suoi racconti e la quadrilogia apocalittica ci permettono di evidenziare i due poli opposti attraverso cui l’autore britannico reinquadra questo concetto. Da un lato pianeti-città (The Concen-

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ripetuti tentativi di fuga opponendosi da ogni lato come «una folla ostile». Solo progressivamente il nostro “naufrago” riesce a familiarizzare con le sue manifestazioni, con la sua “voce”: «L’erba tremò tutta eccitata, suddividendosi in onde circolari, protendendosi in spirali che lo ghermivano. Affascinato Maitland ne seguì i movimenti sinuosi, ritrovando in quelle sagome la voce benigna di una smisurata creatura verde, ansiosa di proteggerlo e di guidarlo». Il passo è breve prima che l’isola si trasformi in «un’esatta riproduzione della sua mente». I suoi spostamenti su un terreno ignoto diventano non solo un viaggio nel passato dell’isola, ma anche nel suo. Ed ecco la svolta, poco prima di essere soccorso da Proctor e Jane, al culmine di un delirio febbricitante il protagonista arriva ad esclamare, senza ancora rendersi conto pienamente del reale significato delle proprie parole: «Io sono l’isola». Il processo di esternalizzazione della coscienza (da intendersi non come un processo di passiva oggettivazione di essa, quanto piuttosto come proiezione o identificazione rivolta verso l’esterno) rappresenta però solo un aspetto di una relazione biunivoca. Si può cogliere l’altra faccia della medaglia osservando attraverso quali peculiari metafore la coscienza di Maitland venga non solo descritta, ma in senso letterale, spazializzata. La debilitazione psico-fisica successiva all’incidente contribuisce ad assottigliare le barriere tra percezione, ricordo, fantasia, ma anche tra “esterno” ed “interno”. Sono in particolare le transizioni dal sonno alla veglia, dalla coscienza alla semincoscienza ad agevolare la transizione in senso inverso:

tration City, 1957), metropoli stratificate dalle dimensioni globali che sembrano voler colmare un horror vacui intollerabile (Billennium, 1961). Dall’altro le tracce lasciate dal collasso di queste avanzatissime civilizzazioni: profili sbiaditi sotto la sabbia (The Wind From Nowhere, 1961), piloni arrugginiti in mezzo alla vegetazione lussureggiante, finestre a specchio che riflettono lagune infestate di mangrovie (The Drowned World, 1962). Le figure iperboliche tipiche della tradizione fantascientifica anni Trenta, che strizza l’occhio a Fritz Lang, in vivido contrasto con un immaginario catastrofico tipico del dopoguerra. Il lento processo di lenta disgregazione che dalle prime porta alle seconde, questo è sostanzialmente la Natura per Ballard. Mai un ritorno alle origini, a uno stadio edenico, tutto il contrario: una deriva entropica, un impulso di dissipazione irriducibile a ogni logica economica, il germe del disordine che cova all’interno delle rigide forme di organizzazione dettate dalla ragione.

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Guardò disperato l’isola, con le sue deserte scarpate autostradali. Era ancora intrappolato nella sua macchina per caso? Forse l’isola non era che una dilatazione della Jaguar, era stato il suo delirio a trasformare il parabrezza e i finestrini in quei terrapieni… Forse mentre lui giaceva contro il volante le spazzole del tergicristallo si erano guastate e andavano avanti e indietro all’infinito, reiterando sul vetro fumante qualche loro messaggio senza senso… [CI 60]

Una simile, progressiva confusione tra dimensioni diverse potrebbe sfociare presto nella follia. Questo Maitland lo sa bene, si rende conto di come «parte della sua mente [sia] in procinto di staccarsi dal centro della coscienza», ma come opporsi all’inesorabile declino? La soluzione arriva inaspettata, ennesima tappa di un percorso prevalentemente inconscio, lo stesso percorso che regge lo sviluppo intreccio, sin dall’incipit segnato significativamente dal gesto irrazionale di “desiderare” l’incidente. Maitland realizza passo dopo passo la reale natura di ciò che è accaduto, comprende come lui stesso abbia agevolato (distratto alla guida, procedendo a velocità elevata pur non avendo avuto nessuna fretta…) l’incidente, una forma di una contorta «razionalizzazione» del suo disagio nei confronti della moglie, dell’amante, del lavoro, di tutto ciò che sino a quel momento ha definito le coordinate affettive e sociali della sua vita. L’isola gli permette di spostarsi su un piano diverso da quello della quotidianità. Una dimensione in cui è ancora possibile reincantare il mondo e reinventare la propria collocazione all’interno di esso. Gli spostamenti quotidiani, sempre più brevi e faticosi, entrano così a far parte di una «piccola liturgia [che significa] un passaggio di impegno da verso se stesso a verso l’isola», nel tentativo di «compiere un circuito […] che gli [permetta] di lasciare i vari pezzi di sé al posto giusto». [CI 63] Mentre le luci lontane di Londra si affievoliscono il protagonista ridefinisce l’immaginario della prossimità: stabilisce relazioni sociali con i due abitanti dell’isola (Proctor e Jane) e soprattutto una nuova concezione del “familiare”: «Abbracciò con lo sguardo il triangolo verde che da cinque giorni era la sua casa, con le buche e le cunette, i dossi e i piccoli rilievi che conosceva ormai come se stesso. Nell’attraversarlo gli sembrava di seguire le proprie circonvoluzioni cerebrali». [CI 114]

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L’identificazione è ormai completa. Una relazione biunivoca, come abbiamo detto, che, nella sua continua reversibilità, si configura come una fusione. Si potrebbe chiosare a lungo sull’esito di tale processo e porne in evidenza gli aspetti positivi o liberatori. Una simile interpretazione però rischierebbe di focalizzarsi esclusivamente sugli effetti, trascurando i mezzi attraverso cui si realizza. A scanso di equivoci è meglio chiarire subito che Ballard è ben lontano dal proporre una qualche ingenua filosofia dell’autoliberazione. Al contrario, il successo, l’affermazione, la rinascita di Maitland tendono a dissimulare (privilegiando sul piano dell’enunciazione la focalizzazione esclusiva sul personaggio principale) un aspetto tutt’altro che edificante del mito di Robinson Crusoe, ossia la spietata competizione che fonda, sin dagli albori della modernità (dal marxismo al darwinismo), i rapporti di sfruttamento dell’Uomo nei confronti della Natura e di dominazione dell’Uomo sull’Uomo. 1.4 Dominazione e sfruttamento La mentalità dell’eroe di Daniel Defoe incarna alla perfezione la razionalità economica di cui Max Weber parlerà quasi due secoli dopo, ripercorrendone la storia in parallelo con l’evoluzione dell’etica protestante. Una mentalità a partita doppia in cui tutto, dall’interazione con l’ambiente circostante al rapporto con l’Altro da sé, è registrato, calcolato e contabilizzato in vista di qualcosa che va ben oltre la mera sopravvivenza. Robert Maitland non assomiglia per nulla all’intraprendente naufrago di Defoe, eppure le loro vicende seguono il medesimo sviluppo. Dopo il trauma iniziale tentano innanzitutto di soddisfare i bisogni primari: acqua, cibo, un rifugio… Tale sforzo li porta ad esplorare il nuovo mondo che, solo in un secondo momento, sarà “nominato” e quindi conosciuto. La terza fase è costituita infine dall’incontro con l’Altro. In ciascuno di questi momenti il soggetto non si limita all’adattamento, ma tende a collocarsi idealmente all’interno di un progetto in cui la meta finale è la salvezza, il ritorno a casa. Ogni azione, ogni pensiero è orientato al raggiungimento di questo fine o, almeno in teoria, dovrebbe esserlo. L’opera ballardiana si allontana decisamente dal suo illustre ipotesto, specie da quest’ultimo punto di vista. Ma procediamo con ordine.

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Il primo, evidente, ostacolo da superare è l’ambiente circostante. Nel caso di Maitland la sfida si gioca nello stesso tempo sul piano fisico (l’incidente gli ha provocato una profonda lesione all’anca che gli impedisce di camminare senza un appoggio), e mentale: Ormai ignorava le ortiche che gli pungevano le gambe attraverso il tessuto sdrucito dei pantaloni, come ignorava la stanchezza. Scoprì che in quel modo poteva concentrarsi sulle difficoltà che gli si proponevano: il prossimo, doloroso passaggio di un cespuglio di ortiche, il difficile superamento di un lastrone inclinato. In un certo senso quell’esercizio di concentrazione dimostrava che era in grado di dominare l’isola. [CI 55]

Dopo aver realizzato di essere troppo debole per salvarsi da solo e in seguito al fallimento dei ripetuti tentativi di richiamare l’attenzione di qualche automobilista di passaggio, il nostro cocciuto architetto è costretto a riconsiderare l’ordine delle proprie priorità. Non arrendersi, affrontare un problema per volta: ecco il suo piano. La determinazione «a non cedere, a dominare l’isola sfruttando le sue limitate risorse» diventa «ancora più importante della fuga». [CI 58] Uno slittamento interessante, almeno quanto la scelta dei verbi “dominare” (dominate) e “sfruttare” (harness). Una scelta rivelatrice di ciò che interessa davvero al nostro Robinson postmoderno: l’esercizio del potere. La riconquista degli affetti e dei beni perduti si pone su un livello troppo astratto rispetto alle sue necessità immediate e alla sua filosofia necessariamente pragmatica. L’esplorazione dell’isola, la lotta per la sopravvivenza costituiscono solo il primo passo in quello che potremmo considerare come una graduale affermazione del soggetto. L’incontro con Jane e Proctor, nel nono capitolo, non modifica sostanzialmente tale prospettiva. È sempre Mailtand ad essere collocato al centro, al centro dell’isola, al centro delle attenzioni dei suoi due abitanti: Si accorse che cominciava a dimenticare sua moglie e suo figlio, Helen Fairfax e i soci di lavoro: erano ripiegati tutti insieme in una zona meno illuminata, nel retro del suo cervello, e il loro posto era stato preso dal bisogno di cibo e di riparo, dalla ferita e, sopra ogni altra cosa, dalla necessità di dominare il territorio immediatamente attiguo. Il suo orizzonte reale si era ridotto a un raggio di poco più di tre metri,

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e anche se nel giro di un’ora sarebbe evaso – seppur riluttanti, la ragazza e Proctor lo avrebbero aiutato a scalare il terrapieno – quell’esigenza lo ossessionava come una ricerca perseguita da decenni. [CI 81]

L’odio di Proctor per le parole e per il linguaggio, le promesse menzognere di Jane non gli impediscono di imporre la sua volontà attraverso una manipolazione sottile. Privo dell’ottimismo dell’eroe di Defoe, Maitland ne eredità però tutti i vizi, esplorando consapevolmente gli aspetti narcisistici e meno edificanti del prototipo del colonialista. Una volta scoperti i punti deboli degli “autoctoni” non esita a servirsene a proprio vantaggio. Li mette uno contro l’altro, divide et impera, usa i loro segreti per umiliarli e guadagnarsi la loro sottomissione. Alla fine scopre una verità sorprendente: non solo «la vena spietata» che ritrova dentro di sé è ben più produttiva del «disprezzo e dell’autocommiserazione» di cui si era nutrito sino ad allora; la cosa incredibile è che i maltrattamenti inflitti a Jane e Proctor sembrano corrispondere alle loro segrete aspettative, rendendoli vittime consenzienti in una sorta di gioco sadomasochistico9. Quando finalmente può disporre di loro a suo piacimento, quando davvero potrebbero aiutarlo ad uscire dall’isola Maitland rinuncia. Fuggire non gli interessa più dopo aver realizzato di essere fuggito per tutta la vita. L’incidente? Nient’altro che l’ennesimo, irrazionale tentativo di evadere dalla routine determinato dalla «necessità di liberarsi del proprio passato, della propria infanzia, di sua moglie e dei suoi amici, con tutti i loro sentimenti e le loro pretese, per poi vagare all’infinito nella vuota città della sua mente». Alla fine, dopo la tragica morte di Proctor e il definitivo allontanamento di Jane, il suo desiderio è in procinto di realizzarsi. Manca poco ormai. Malgrado lo sfinimento e la denutrizione, Maitland sentiva la forza fisica raccogliersi dentro di lui, come se i poteri invisibili del suo cor-

9 «L’aggressività di Maitland corrispondeva alle loro aspettative, all’idea che più o meno inconsciamente si erano fatti di se stessi; e pur insospettito dal gusto che provava a commettere quelle piccole crudeltà, Maitland aveva deciso di andare fino in fondo. Deciso a sopravvivere a tutto ciò che lo circondava, avrebbe sfruttato la vena spietata che aveva scoperto dentro di sé proprio come in passato aveva sfruttato il disprezzo e l’autocommiserazione. Ciò che ora importava era dominare il vagabondo rimbambito e la ragazza di strada». [CI 122]

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po avessero cominciato a scaricare energie accumulate da tempo. La ferita della gamba non era affatto grave come aveva creduto; gli riusciva anche di muovere leggermente l’articolazione dell’anca, e fra poco sarebbe stato in grado di camminare senza stampella. Era contento che Proctor e la ragazza se ne fossero andati: la loro presenza aveva insinuato nel suo carattere tensioni deleterie e sentimenti fuorvianti rispetto al fine ultimo di chiudere il conto con l’isola. Insieme a questa nuova sicurezza fisica, Maitland constatò che lo pervadeva una quieta esultanza.Tranquillamente disteso sulla soglia del suo padiglione, assaporava il piacere di trovarsi finalmente solo sull’isola. Sarebbe rimasto finché fosse stato in grado di fuggire con le proprie forze. Maitland si strappò gli ultimi brandelli di camicia e si sdraiò a ricevere il tepore sul petto nudo. Il sole splendeva pizzicandogli le costole ormai ben visibili. In un certo senso, lo scopo che si era prefisso era privo di significato. Cominciava a non sentire più alcun vero bisogno di abbandonare l’isola, e tanto bastava a confermargli il suo dominio su di essa. [CI 154]

Il gesto finale del protagonista sovverte alla base la logica razionale del mito robinsoniano e va dunque compreso secondo un’altra logica. «Al posto di imporre i valori di una presunta e benefica società (come nella coppia Robinson-Venerdì), [l’eroe] assume i valori del suo sottomesso e regredisce ad uno stato primordiale, in accordo con rifiuti che costellano il terreno dell’isola»10. Ballard suggerisce qui un’altra delle idee fondanti della sua poetica, ossia che solo attraverso un gesto estremo, votandosi ad uno «scopo senza significato», il “naufrago” possa affermare un dominio non sulla Natura, o tantomeno sull’Uomo, bensì su se stesso. Senza più la bussola della Ragione a guidare i suoi passi Maitland volge le spalle al mondo civile, per avventurarsi in un cammino interiore. Il magnifico tono di sospensione, di possibilità a cui Ballard affida gli ultimi pensieri del proprio protagonista ricorda molto le ultime parole di Aspettando Godot. «“Andiamo?”.“Sì, andiamo”». Eppure sul palcoscenico nessuno si muove. Non lasciamoci inganna-

10 «Instead of imposing the values of an allegedly superior and beneficiet society (as in the Crusoe-Friday couple), has taken on key aspects of the superseded figure character and has regressed in sympathy with the island’s detritus-ridden terrain». Gasiorek, Op. cit., p. 118.

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re, l’immobilità è solo un riflesso, il vero spostamento è accaduto “dentro”. 1.5 L’orologio di Faust L’inversione dei registri e il mutamento dei rapporti di dominazione costituiscono le chiavi interpretative privilegiate nel ricostruire la vicenda di Concrete Island e il suo sviluppo sul piano dell’enunciato. Se non prendessimo in considerazione un altro aspetto cruciale, l’enunciazione, ossia l’organizzazione narrativa del racconto, rischieremmo però di fornire un’analisi parziale e fatalmente incompleta. Questa organizzazione, infatti, riflette in modo del tutto particolare il particolare legame che si instaura tra il protagonista e l’ambiente circostante. Si prenda ad esempio la collocazione spazio-temporale dell’incidente. L’incipit marca il punto zero del racconto: sono appena passate le 15.00 del 22 aprile 1973 e ci troviamo a circa 600 metri dallo svincolo di Westway, quando la Jaguar salta oltre al ciglio della carreggiata. Dopo l’iniziale momento di smarrimento le azioni di Maitland, i suoi spostamenti sono ricostruiti nel dettaglio, in una cronologia dalla precisione quasi maniacale. Merito certo dei rumori del traffico grazie a cui il protagonista rimane sintonizzato con il pulsare della vita della metropoli, ma soprattutto del suo prezioso orologio da polso. Questi sono i principali indicatori di un tempo oggettivo, le vestigia residue del passato del protagonista, capaci di ancorarlo alla sua vita precedente. A partire dal nono capitolo tali legami iniziano ad indebolirsi11. In seguito al salvataggio da parte di Jane l’orologio scompare (lo ritroveremo qualche pagina più in là al polso di Proctor) e la timeline si fa sempre più precaria. L’immersione nell’inner space genera una forma di temporalità diversa, una temporalità soggettiva. L’esplorazione dell’isola permette a Maitland di rientrare in contatto con le

11

«Il collasso della soggettività di Maitland è rappresentanto soprattutto attraverso la disgregazione, all’interno della sua mente, dei codici semiotici attraverso cui egli dà senso alla propria esperienza». [«The collapse of Maitland’s subjectivity is figured above all through the breakdown in his mind of semiotics codes by means of which he has made sense of his own experience»]. Ivi, p. 117.

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numerose zone d’ombra del proprio passato (l’infanzia, il rapporto con i genitori), mentre l’interazione con i due precedenti occupanti gli rivela inediti, anche se non proprio edificanti, aspetti della propria personalità. Gli effetti di simili epifanie non tardano a manifestarsi. A cinque giorni dall’incidente l’idea della fuga scivola in secondo piano. Il mero desiderio di sopravvivenza cede il passo ad un’ambivalente fascinazione per il potere. Ed è proprio a questo punto che il protagonista si rende conto «di aver dimenticato che giorno fosse: mercoledì, forse venerdì». Da qui in avanti la rinuncia a sfidare gli invalicabili confini della terra di nessuno (ripide scarpate, terrapieni, reti metalliche), il continuo differimento del progetto di fuga riflettono chiaramente il riposizionamento di Maitland al suo interno. L’apparente noncuranza con cui registra questo distacco non lo rende meno profondo e definitivo. L’ideale coincidenza prodottasi tra la sua mente e l’isola rivela a pieno le sue conseguenze. I ricordi degli affetti e l’abbandono delle responsabilità (la famiglia, il lavoro) avvicinano Maitland alla figura di Wakefield, eroe eponimo di una novella di Nathaniel Hawthorne, anche se alla fine la sorte gli riserva un destino diverso da quello di questo «reietto dell’universo» (outcast of the universe) di ottocentesca memoria. Dopo aver abbandonato moglie, casa e lavoro per quasi vent’anni, dopo aver passeggiato «lungo i bordi del suo originario sistema di appartenenza»12, Wakefield ritorna senza apparente motivo, così come era partito. Il nostro protagonista no. La scelta di Maitland segna dunque una discontinuità rispetto ad uno schema narrativo ben consolidato nell’immaginario occidentale sin dai tempi di Omero: il nostos. La discendenza che univa Odisseo a Robinson Crusoe sembra così essersi spezzata alle soglie della postmodernità. E il nostro eroe, che non è né un “pellegrino” né un “turista”, appartiene ad una stirpe quanto mai fortunata in questi tempi di socialità liquida: l’outsider. L’assunto secondo il quale l’erranza nell’Altrove, nume tutelare dell’ignoto e dell’esotico, è funzionale a promuovere un processo di formazione, di scoperta di sé e, infine, il reinserimento nella società d’ori-

12

A. Abruzzese, Lo splendore della TV. Origini e destino del linguaggio audiovisivo, Milano, Costa & Nolan, 1995, p. 68.

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gine viene qui rovesciato radicalmente. L’atto finale di Maitland non sancisce una rinuncia, come si potrebbe pensare, bensì un radicale atto di auto-affermazione. Se, come Wakefield, si pone ai margini del «sistema di appartenenza» compiendo un gesto apparentemente immotivato, la decisione di rimanere reinserisce e riscatta l’apparente casualità all’interno di una graduale riemersione del rimosso. Un processo al termine del quale nulla potrà tornare come prima. In Hawthorne la dimenticanza del «sistema di appartenenza» originario non ne pregiudicava l’integrità permettendo, a tempo debito, il ritorno. Ballard propende per una soluzione diversa e, se si vuole, più radicale. L’atteggiamento quasi faustiano con cui Maitland scruta alla fine del romanzo l’estensione del suo nuovo regno incarna alla perfezione il piglio del creatore per eccellenza, di colui che sulle rovine del mondo precedente è deciso a fondarne uno nuovo. Una figura di cui potremmo ritrovare senza troppa fatica numerosi antecedenti nella produzione dello scrittore anglosassone, specie nella quadrilogia apocalittica. Con una differenza degna di nota: mentre nella quadrilogia è un disastro naturale a fornire immancabilmente la tabula rasa ideale per i nostri ambiziosi demiurghi, in Concrete Island è invece una catastrofe tutta interiore. Il finale aperto concede al lettore la libertà di immaginare il seguito di quello che è stato considerato il romanzo più intimista di Ballard, non risolvendo e anzi lasciando volontariamente in sospeso molte delle questioni analizzate sinora: il rapporto dentro/fuori, le dinamiche di dominazione, l’insostenibile peso del quotidiano e la disperata ricerca dell’autenticità. Impulsi e fantasmi che non tarderanno a riproporsi, trasmettendosi dall’individuo alla collettività, nel romanzo successivo: High Rise. 2. High Rise

2.1 Lo spazio indifendibile Durante la stesura di Crash Ballard rimase vittima di un incidente stradale. L’evento, pur non modificando le sue opinioni circa il consumo di alcool alla guida (invero piuttosto liberali), ebbe un impatto significativo sulle abitudini di tutti i giorni. La sospensione della patente lo costrinse, suo malgrado, ad entrare in contattato con Shep-

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perton da una prospettiva inedita. Grazie alle lunghe passeggiate per le strade della piccola cittadina di provincia, dove si era trasferito negli anni Sessanta in seguito alla nascita del primo figlio, il romanziere britannico poteva finalmente osservare da vicino la recente evoluzione del paesaggio intorno a Londra: «il paesaggio rurale e bucolico […] invaso da carreggiate a doppio senso, centri commerciali e dalla speculazione edilizia; senza dimenticare, infine, l’espansione dell’areoporto di Heathrow»13. L’impressione di una mutazione radicale, verificatasi quasi all’improvviso, era rafforzata dalla velocità del cambiamento. Eppure le sue radici affondavano in profondità, risalendo sino alla metà degli anni Cinquanta, quando Londra non era ancora la Swinging London dei Beatles. La vecchia capitale dell’Impero britannico aveva ereditato da un secolo e mezzo di urbanizzazione selvaggia i problemi tipici di una moderna metropoli. Problemi che affliggevano l’intera nazione: sovrappopolazione, traffico, inquinamento. Di fronte ad una situazione simile non stupisce che all’interno dell’agenda del partito laburista, salito al governo dopo la clamorosa sconfitta di Wintson Churchill nell’immediato dopoguerra, la promessa di alloggi a basso costo fosse tra le priorità, insieme ai programmi d’istruzione e sanità nazionale. Da molti anni il Labour cercava di aggiungere quest’ultimo tassello strategico nel suo più ampio progetto di welfare state e, con l’Housing Act14, sperava infine di esserci riuscito. Si dice che l’arte e la politica procedano con passo diverso. Non sempre verrebbe da dire guardando a ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Nella prima metà del decennio il cosiddetto Movimento Brutalista, costituito da uno sparuto gruppo di architetti, non aveva ancora dato grandi prove di sé. La Huntstanton School di Norfolk progettata da Reyner Banham (1954) fu il primo vero successo. Ispirati da un’ideale di purezza architettonica, i seguaci del Brutalismo videro nella scuola di Banhman, con le sue linee squadrate e le sue forme austere, un segno, un modello, un esempio da seguire. Fu allora che

13 «Since [the Sixties the rural and bucolic fields have] been overrun by dual carriageways, shopping centers and housing development, not to mention the spread of Heawthrow Airport». Baxter, The inner man, cit., p. 227. 14 Il decreto, approvato nel 1956, prevedeva una serie di incentivi economici per la costruzione di immobili di altezza superiore ai cinque piani.

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i loro occhi si rivolsero all’edilizia residenziale, in cerca di nuove, ambiziose sfide. In seguito all’accordo tra ragione politica e non troppo disinteressate sperimentazioni estetiche numerose città britanniche si trovarono così ad assimilare, nel corso dei due decenni successivi, un elemento sino ad allora poco diffuso: il grattacielo. Al di là delle migliori intenzioni, i risultati a lungo termine furono a dir poco disastrosi: edifici fatiscenti, dai costi di manutenzione insostenibili, progettati male e realizzati peggio. Le pagine di cronaca della stampa nazionale non lesinavano commenti sarcastici di fronte ad un simile fallimento, senza mai affrontare direttamente il nocciolo della questione: se la teoria era giusta allora cosa era andato storto? Per trovare una risposta sarebbe forse bastato rivolgere l’attenzione appena fuori dal cortile di casa, gettando uno sguardo al di là dell’oceano, verso gli Stati Uniti. Là dove qualcuno, in quegli stessi anni, si poneva la medesima domanda. Correva l’anno 1972. Oscar Newman aveva appena pubblicato Defensible Space, un volume che sarebbe diventato l’insostituibile guida per i futuri sostenitori della teoria di “prevenzione del crimine attraverso la pianificazione urbana”. E da dove prendevano spunto le osservazioni di Newman? Dalla disastrosa esperienza di Pruitt-Igoe. Un nome che suona familiare ai musicofili appassionati di Philip Glass15, come ad ogni studente di ingegneria civile. Monumentale complesso residenziale nella città di Saint-Louis, destinato ad ospitare le fasce più povere della popolazione: 33 palazzine di undici piani su una superficie di 57 acri, per un totale di 2870 appartamenti. Costruito nel 1954, abbattuto alla metà degli anni Settanta. La breve esistenza di questo edificio condensa in sé i peggiori incubi di ogni amministratore: guasti, vandalismo, degrado e molto altro ancora. Problemi che la progettazione, con la marcata separazione tra “aree pubbliche” e “spazi privati”, sembrava aver agevolato al posto di ridurli: Dato che gli spazi in comune erano dissociati dal corpo degli edifici principali, i residenti non riuscivano a identificarsi con essi. Queste aree si dimostrarono insicure. Il fiume circondato di alberi si trasfor-

15 Mi riferisco alla colonna sonora del film Koyaanisqatsi (Godfrey Reggio, 1982), realizzata appunto da Philip Glass.

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mò presto un canale di scarico pieno di spazzatura e bottiglie. Le caselle della posta al piano terra vennero vandalizzate. I corridoi, gli atrii, gli ascensori e le scale erano coperti di rifiuti. Gli ascensori, la lavanderia e le aree condivise furono allo stesso modo oggetto di vandalismo, mentre la spazzatura si accumulava sempre più in alto, in prossimità degli scivoli ostruiti16.

La spietata diagnosi di Newman può essere riassunta in una semplice equazione: più l’ambiente abitativo è complesso e anonimo, più è difficile per i residenti stabilire un codice di condotta adeguato alle più elementari norme sociali17. La netta separazione tra spazi privati e pubblici tendeva insomma a deresponsabilizzare gli abitanti dal controllo sull’ambiente circostante. La loro sfera di sorveglianza, rispetto agli altri condomini o a eventuali estranei, non si spingeva oltre la porta, arrivando appena a lambire la soglia fisica e mentale del pianerottolo. Solo grazie ad una drastica riduzione della densità abitativa, coadiuvata da un riequilibrio tra le porzioni di spazio “privato”, “pubblico” e “semi-pubblico”, sarebbe stato possibile correggere un simile errore, o perlomeno evitare di ripeterlo. Una conclusione certo poco gradita a chi aveva interessi nella speculazione edilizia. I successivi sviluppi del pensiero di Newman sono estremamente interessanti, ma occorre qui sottolineare un altro punto chiave della sua riflessione: ossia il rovesciamento di prospettiva che, all’astrazione del progetto architettonico imposto dall’alto di un razionalismo disincarnato, contrappone le pratiche sociali che reinterpretano tale progetto dal basso, a volte in maniera molto diversa dal previsto. Spostando l’attenzione dal rarefatto cielo della teoria al brulicante abisso del quotidiano, là dove si moltiplicano le diverse “pratiche”, 16 «Because all the grounds were common and disassociated from the units, residents could not identify with them. The areas proved unsafe. The river of trees soon became a sewer of glass and garbage. The mail-boxes on the ground floor were vandalized. The corridors, lobbies, elevators, and stairs were dangerous places to walk.They became covered with graffiti and littered with garbage and human waste. The elevators, laundry, and community rooms were vandalized, and garbage was stacked high around the choked garbage chutes». O. Newman, Creating Defensible Space: Crime Prevention Through Urban Design, Washington D.C, U.S. Dept. of Housing and Urban Development - Office of Policy Development and Research, 1996, p. 10. 17 «The more complex and anonymous the housing environment, the more difficult it is for a code of behavior following societal norms to become established among residents». Ivi, p. 26.

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Newman coglie un passaggio essenziale nella definizione dello spazio oltre i confini della modernità. Dello spazio o, per meglio dire, del territorio? Effettivamente è proprio nella riscoperta di questa dimensione che si dispiega la sensibilità postmoderna. Eppure il grattacielo appartiene più alla prima che alla seconda. È l’incarnazione definitiva delle sue promesse, l’ultimo cavaliere della sua lunga crociata volta a migliorare le condizioni di vita attraverso la pianificazione urbana. Gli epigoni di Banham e il complesso di Pruitt-Igoe, ispirati dal motto di Le Corbusier secondo il quale «i grandi problemi della costruzione moderna [dovevano] essere risolti attraverso una soluzione geometrica», in fondo, ambivano al medesimo scopo. Si potrebbe dunque ritenere che High Rise, in quanto parodia, sia ispirato dal fragoroso crollo dell’utopia modernista. Ballard conosceva l’opera di Newman, ne era rimasto affascinato, ma le sue conclusioni lo interessavano per altri motivi. Decise quindi di modificare alcuni elementi essenziali dell’equazione proposta da Defensible Space. L’edificio è altrettanto imponente (un complesso di cinque palazzi per 2000 abitanti) ma decisamente più lussuoso; la separazione a compartimenti stagni tra “pubblico” e “privato” viene ammorbidita da alcuni spazi-cuscinetto “semipubblici”; i residenti non sono più indigenti proletari ma agitati borghesi. Il condominio non appartiene affatto alla tradizione di alveari umani inaugurata dall’Assommoir di Émile Zola (1877), i suoi antenati sono piuttosto le «fantasmagorie» parigine di Walter Benjamin, la cui ambizione non era quella di collocarsi all’interno dei confini della metropoli bensì di porsi come un «sostituto», o un «rimpiazzo», dell’intera città. Abolendo la distinzione tra «interno» ed «esterno», in una brillante anticipazione dell’«iperspazio postmoderno»18, il grattacielo ipertecnologico di Ballard pone una sfida cognitiva ai suoi abitanti e all’idea stessa di «spa-

18 «Ritengo che il postmodernismo sia andato oltre, abolendo qualcosa di ancora più fondamentale, cioè la distinzione tra interno ed esterno (tutti i modernisti hanno sempre detto che l’uno doveva esprimere l’altro, il che lascia intendere, in primo luogo, che nessuno aveva lontanamente dubitato che i due termini fossero entrambi necessari). Le vecchie strade diventano dunque corsie di un grande magazzino, il quale, se lo si pensa alla maniera giapponese, passa a essere il modello e l’emblema, la segreta struttura interna e il concetto della “città” postmoderna, già abbastanza realizzata in certe aree di Tokyo». F. Jameson, Postmodernismo ovvero La logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi, 2007, p. 112.

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zio difendibile». Come difendere uno spazio di cui non riusciamo a delimitare i confini? [L’]ultima mutazione dello spazio – dell’iperspazio postmoderno – è riuscita infine a trascendere le capacità di orientarsi del singolo corpo umano, di organizzare percettivamente l’ambiente circostante e, cognitivamente, di tracciare una mappa della propria posizione in un mondo esterno cartografabile. […] Si può dire che questo allarmante punto di separazione tra il corpo e l’ambiente edificato […] possa a sua volta configurarsi quale simbolo e analogo di quel dilemma ancora più spinoso che è l’incapacità delle nostre menti, almeno al presente, di tracciare una mappa della grande rete comunicazionale, globale, multinazionale e decentrata, nella quale ci troviamo impigliati in quanto soggetti individuali19.

L’«iperspazio» problematizza la dicotomia soggetto-oggetto. L’essenziale distinzione posta da Immanuel Kant alla base della prima delle tre critiche, quella dedicata alla «ragion pura» (il set di attrezzi o di categorie che organizza la nostra percezione sensoriale), viene minata alla radice. Oltre al comprensibile smarrimento cognitivo Jameson porta però la nostra attenzione sugli effetti prodotti da questa rivoluzione in un altro dominio, quello della «ragion pratica». Se, come suggeriva Foucault, l’organizzazione dello spazio “rifrange” tutta una serie di rapporti di potere, allora quali sono i principi della logica culturale che ha plasmato la fisionomia di questi iperluoghi? Osservando il Westin Bonaventura Hotel di Los Angeles (John Portman Jr., 1974-1976), il critico americano ne individua alcuni: chiusura, separazione, isolamento. Sin dall’entrata l’hotel, un rigido blocco sopraelevato su dei piloni, vuole distinguersi come un’entità autonoma rispetto all’ambiente circostante. I vetri a specchio disposti sulle facciate rafforzano questa prima impressione, dissociando l’edificio dalla sua immagine che, letteralmente, non è altro che «il distorto riflesso di ciò che lo circonda». Idealmente, ironizza Jameson, il Westin-Bonaventura non «dovrebbe avere nessuna entrata».Affinché l’inganno ottico riesca alla perfezione ogni collegamento tra la realtà e il simulacro viene dunque reciso, occultato, dissimulato.

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Ivi, p. 60.

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Una simile concezione non può che promuovere e rafforzare un senso di alienazione, anzi una forma ancora più sottile e pervasiva di alienazione rispetto a quella teorizzata da Marx: l’indebolimento della solidarietà sociale, l’inaridirsi dei rapporti interpersonali, la «curializzazione dell’esistenza» secondo un’azzeccata formula del già citato Foucault. Jameson riassume questi diversi aspetti parlando di un progressivo «affievolimento del sentimento» (waning of affect). Ballard, nel suo The Atrocity Exhibition (1969), propendeva una posizione ben più netta. C’era poco da lamentarsi al capezzale di un paziente senza speranze. Nella nuova società dei consumi e dello spettacolo il “sentimento” non era solo agonizzante, ma ormai già morto e sepolto (death of affect). Cosa avrebbe dunque dettato le regole del nuovo agire sociale nella schiera di grattacieli pronti a «colonizzare il cielo», di cui High Rise rappresenta il prototipo sperimentale? [HR 21] La risposta non mancherà di stupirci. 2.2 La città verticale Rispetto all’isola il condominio si colloca all’estremo opposto del paradigma urbano. Mentre la prima appare, per la sua fisionomia e il suo contenuto, come un residuo rispetto al processo di omogenizzazione del paesaggio circostante, tendendo paradossalmente al campo semantico della Natura; il secondo è uno spazio che si è appena formato, uno spazio che rivendica, con la sua articolazione ispirata da un principio di estrema funzionalità, lo statuto della Ragione, del progetto umano o, più in generale, della Cultura. Diversi elementi concorrono a confermare tale interpretazione. Il primo è sicuramente il rapporto con il contesto. Un rapporto, come già suggerito da Jameson, fondato su un principio di separazione e distanziamento. Il condominio di cui seguiremo le vicende fa parte di un complesso residenziale di «cinque unità identiche, facenti parte di un unico progetto immobilare»: Nell’insieme occupavano un’area di un chilometro quadrato e mezzo, in una zona di bacini portuali e depositi abbandonati, lungo l’argine settentrionale del fiume. I cinque grattacieli sorgevano sul limite orientale dell’area, e guardavano su un laghetto ornamentale che, al momento, era solo un catino vuoto in cemento, circondato da parcheggi e macchinari edilizi. Sulla riva opposta sorgeva l’auditorium, appena completato, con la Facoltà di Medicina da un lato e i nuovi studi

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televisivi dall’altro. Le imponenti proporzioni delle strutture architettoniche, in vetro e cemento, insieme alla sensazionale posizione, separavano nettamente quell’area residenziale dalle zone circostanti in via di disfacimento, piene di cadenti ville con terrazza dell’Ottocento e fabbriche vuote, già pronte per la ristrutturazione e il recupero. Nonostante la vicinanza alla City, circa tre chilometri a ovest lungo il fiume, i palazzi e gli uffici del centro di Londra appartenevano a un altro mondo, nel tempo e nello spazio. [HR 8-9]

Le scarne indicazioni fornite dal narratore collocano la vicenda nei pressi della vecchia area portuale dei Docks, oggetto nei decenni di numerosi interventi di riqualificazione urbana. Una serie di interventi mirati a ridefinire l’identità della capitale britannica e la sua eredità storica di metropoli industriale. Un retaggio che ci riporta indietro nel tempo, almeno sino al terrificante incipit di Bleak House (18521853), immergendoci ancora una volta nella tetra atmosfera della Londra dickensiana con le sue nubi grevi di smog e i suoi effluvi pestilenziali. Immagine forse non del tutto adeguata a descrivere la realtà del dopoguerra, benché profondamente radicata nella memoria dei suoi abitanti.Tanto da spingere i progettisti a tracciare una netta demarcazione, una linea di confine tra i simboli di una modernità agli sgoccioli e il suo definitivo superamento. Le ciminiere delle fabbriche, i moli e i magazzini: insomma, tutto ciò che incarnava agli occhi di Jean Starobinski «l’ordine tecnico della produzione, dello sfruttamento e della trasformazione delle risorse naturali»20 viene liquidato in quanto espressione di un’epoca ormai tramontata. Circondato da ampi parcheggi e cumuli di macerie edili in attesa di essere smaltite il nostro complesso residenziale non rappresenta solo un’isola di sicurezza e tranquillità, ma vuole essere qualcosa di più: un inno al design funzionalista, un segno dei tempi a venire, la traduzione di una separazione apparentemente inscritta nello spazio in un subitaneo dislocamento sull’asse temporale. Basta gettare un’occhiata fuori dalla finestra per accorgersene: «Sei mesi prima, quando si […] era trasferito […] era corso avanti nel tempo di cinquant’anni».

20 J. Starobinski, Les cheminées et les clochers, in «Magazine littéraire», n° 280, settembre 1990, pp. 26-27.

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Nella medesima ottica il condominio offre ai suoi futuri abitanti la possibilità di allontanarsi dai principali disagi dei grandi agglomerati urbani, eliminando il caleidoscopio d’impressioni alla base dell’«intensificazione della vita nervosa»21 tipica della metropoli. Lontano dalle «strade affollate», «dagli ingorghi nel traffico», «dai viaggi in metropolitana nelle ore di punta», crea una dimensione asettica, indipendente e autonoma. In sintonia con i prerequisiti del progetto, la gestione dell’edificio si ispira ad una filosofia affine22. Un simile isolamento rischierebbe di dimostrarsi soffocante se ogni comodità non fosse a portata di mano. In un singolo edificio viene così concentrata un’ampia gamma di servizi, disposti in due gallerie al decimo e al trentacinquesimo piano: un supermarket, un fornitissimo spaccio di liquori, un parrucchiere, una banca, due piscine, una sauna, un ristorante, una scuola materna e, per non farsi mancare proprio nulla, anche un parco giochi con sculture-giocattolo sul tetto. Dalle attività commerciali alle aree ricreative l’edificio offre teoricamente la possibilità di vivere senza spingersi al di fuori dei propri confini. Tentazione quanto mai pericolosa, specie se si considera un elemento critico evidenziato dalla fallimentare gestione del complesso di Pruitt-Igoe: la progressiva erosione del senso di comunità e la conseguente tendenza all’isolamento individuale. Ben consapevole dei difetti congeniti delle torri dell’edilizia popolare Anthony Royal, l’ambiziosa archistar di turno, non sembra volerne correggerne alcuno, spingendo al contrario le premesse di tale modello al loro estremo. Il risultato, seppur più confortevole dal punto di vista abitativo, sovverte la logica di prossimità tipica del villaggio rurale premoderno. La comunità organica viene sostituita da «un’immensa macchina, progettata per servire non la collettività degli inquilini ma il residente isolato». [HR 11] Le metafore utilizzate dai residenti per descrivere il loro nuovo habitat – il palazzo come «macchina», «capsula spaziale» o «prigione» –

21

Cfr. G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, Roma, Armando Editore, 1995. «Ciò che giocava nettamente a favore degli inquilini era la natura marcatamente autosufficiente del grattacielo, un’enclave auto-amministrata entro il più vasto dominio privato dell’area residenziale. L’amministratore e i suoi collaboratori, il personale che gestiva il supermarket, la banca e il salone del parrucchiere abitavano tutti nel condominio». [HR 84-85] 22

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declinano in maniera analoga il medesimo senso di alienazione. Su questo sfondo «emotivamente neutrale», capace di garantire nel contempo «continuità e lontananza», si delinea pertanto la natura paradossale del grattacielo: un architettura scarna e post-umana che, nella sua affascinante miscellanea di geometrie, sembra riflettere «il diagramma inconscio di un misterioso accadimento psichico». Un simile ambiente può assicurare la preservazione della parvenza di una struttura sociale ma, d’altro canto, produce un inaridimento delle relazioni interpersonali, promuovendo un’esistenza priva di affettività. L’illusorio senso di sicurezza dai pericoli provenienti dall’esterno finisce così per spalancare le porte a ben più incontrollabili demoni interiori: Al sicuro nella conchiglia del grattacielo, come i passeggeri di un aereo con il pilota automatico, erano liberi di comportarsi in qualsiasi modo volessero, di esplorare le pieghe più oscure della propria personalità. Per molti versi, il grattacielo era il perfetto modello di tutto ciò che la tecnologia aveva fatto per rendere possibile l’espressione di una psicopatologia autenticamente “libera”. [HR 40-41]

Proseguendo lungo la direzione d’indagine inaugurata da Crash, High Rise ribadisce la stretta connessione tra avanzamento tecnologico e mutamenti psicologici. Seppur su scala diversa il campo d’indagine rimane lo stesso. Ritorcendo il motivo del grattacielo contro la mitologia della città moderna, di cui dovrebbe costituire l’emblema privilegiato, Ballard ci introduce in un paesaggio all’insegna dell’ulteriorità: post-industriale, post-urbano, post-umano. Un’ambientazione quanto mai adeguata nel cercare di descrivere una collettività che non ha nulla a che spartire con la tradizionale nozione sociologica di comunità. 2.3 «Il mio nome è Legione perché noi siamo in molti» L’analisi di Concrete Island ha messo in luce come l’inversione dei registri lessicali sia caratteristica della prosa di Ballard. Nel romanzo precedente questo procedimento era funzionale a diminuire (sino all’annullamento) la distanza fisica e psicologica tra il protagonista e il contesto. L’esclusiva focalizzazione su Maitland, la successiva scomparsa dei comprimari sulla scena agevolavano tale progressivo avvicinamento, culminando nell’explicit in una fusione panica attra-

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verso la quale il soggetto disperde letteralmente i segni della propria identità, rinuncia al principio di individuazione e raggiunge una sorta di comunione primitiva con il proprio habitat. Per questo, alla fine, l’idea di fuggire appare tanto assurda quanto potrebbe essere il tentativo della mente di scindersi dal proprio corpo. In High Rise si verifica un’inversione molto simile, anche se con risultati piuttosto diversi. I due campi semantici coinvolti rimangono inalterati: il soggetto (o meglio i soggetti) e il mondo inanimato degli oggetti. Il primo movimento volto a perturbare tale separazione si verifica e si amplifica in coincidenza con le crescenti disfunzioni dell’edificio. Ecco allora il grattacielo assumere le connotazioni tradizionalmente assegnate ad un organismo vivente o, per essere più precisi, al corpo umano: complessità, connessione e interdipendenza degli elementi costitutivi. Parlava del grattacielo come di una specie di immensa presenza animata che incombeva su di loro e teneva lo sguardo autoritario fisso sugli avvenimenti. C’era qualcosa di vero in quella sensazione… Gli ascensori che pompavano su e giù per le lunghe colonne assomigliavano agli stantuffi nella cavità di un cuore. Gli inquilini che si spostavano per i corridoi erano le cellule in un sistema di arterie, le luci dei loro appartamenti i neuroni di un cervello. [HR 44]

Tale connotazione permette di trasferire ulteriori significazioni al condominio, prima tra tutte il paradigma biologico della vita, scandito da tre momenti fondamentali: la nascita, lo sviluppo e la morte. Un paradigma quanto mai adeguato nel descrivere la decadenza, la degradazione inesorabile di questo insieme altamente tecnologico e organizzato causata dalle insostenibili pressioni sociali che si producono all’interno23. L’antropomorfismo fornisce inoltre il prerequisito necessario ad un secondo transfert simbolico: se infatti il condominio possiede un corpo perché non dovrebbe possedere anche un’anima? La supposizione trova più di qualche conferma nel corso della vicenda.

23 «Cinque piani erano privi di elettricità. Di notte le cinque strisce buie attraversavano la facciata del grattacielo come strati già morti di un cervello che se ne andava». [HR 83]

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È in particolare il personaggio di Wilder, uno dei tre protagonisti, a insistere su tale interpretazione animista. Proprio colui che finirà per incanalare gli impulsi più aggressivi nella sua prometeica ascesa verso la vetta dell’edificio, vede nella sua impresa qualcosa che va oltre la semplice sfida alla figura del padre-padrone – Royal, l’architetto rintanato nell’elegante attico – configurandosi piuttosto come un lotta corpo a corpo contro un avversario tanto invisibile quanto potente. Una sfida che affronta con lo spirito di un «rocciatore finalmente giunto ai piedi della montagna che da tutta la vita attendeva di scalare» [HR 54], passando da un iniziale stato di fobia e soggezione ad un’affermazione di sé misurata dal grado di dominazione esercitato sull’avversario. Anche per Maitland il confronto con l’isola tendeva a definirsi, almeno all’inizio, in termini agonistici se non apertamente conflittuali. Eppure in High Rise manca la risoluzione del conflitto, la pacificazione finale. Non esiste nessuna tregua o possibilità di intesa. Solo uno dei due contendenti può sperare di sopravvivere. La prima transizione tra campi sematici ne chiama in causa una seconda, opposta ed in qualche modo speculare. Se infatti il “corpo” del grattacielo è descritto in termini biologici, organici e relazionali, i condomini, una volta varcata la sua soglia, vengono spogliati di ogni “umanità” e delle tradizionali connotazioni ad essa collegate. Il condominio, al pari dell’isola, si presenta alla coscienza dei suoi abitanti nei termini di una realtà autonoma, sempre più astratta e avulsa dal contesto24. Il grattacielo insomma funziona come un segno privo di un referente esterno, il che non è privo di conseguenze sul piano ontologico: «il breve periodo passato lontano da casa era irreale quasi come un sogno. […] gli unici fatti reali della sua vita erano quelli che avevano luogo nel grattacielo». [HR 65] Una volta sovvertiti i rapporti tra la coscienza e la realtà, questo microcosmo diventa l’unico frame disponibile per riorganizzare i dati sensoriali, per dare un senso e una direzione all’esperienza di chi lo abita. L’identificazione (l’unica alternativa all’atteggiamento conflittuale di Wilder) è tale da creare un curioso conflitto di attribuzio-

24

«La sua attenzione si era già concentrata su quanto stava accadendo nel grattacielo, come se quell’immensa costruzione esistesse unicamente nel suo cervello e potesse svanire se lui smetteva di pensarci». [HR 39]

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ne: «Alle feste le persone discutevano della loro insonnia come se fosse un’altra delle magagne progettuali dell’edificio». [HR 14] E questo è solo l’inizio. Il crescente isolamento produce alla lunga una peculiare strategia di adattamento. Per sopravvivere in un ambiente progettato non per l’uomo «ma per l’assenza dell’uomo»25, i residenti abbandonano ogni forma di empatia o di solidarietà. Venute meno le manifestazioni elementari dell’affettività, nulla sembra riuscire a turbare il loro stato di trance, neppure la più alta e significativa infrazione dell’ordine sociale: l’irrompere incontrollato della morte. In seguito alla scomparsa del primo inquilino (il suicidio di un gioielliere invero molto sospetto) la loro vita prosegue lungo binari prestabiliti, «tutti accettavano il possibile omicidio allo stesso modo in cui chi andava a nuotare in piscina accettava le bottiglie di vino e le lattine di birra vuote che gli rotolavano tra i piedi sul pavimento piastrellato». [HR 62] Il sesso diventa poco più di un’attività meccanica e, nonostante il clima sovraeccitato ed euforico, scompare qualsiasi traccia di una delle caratteristiche più spiccatamente umane: l’umorismo. Le azioni dei condomini finiscono per assomigliare sempre più alle reazioni controllate di un gruppo di automi: Il grattacielo aveva creato una nuova tipologia sociale, una personalità fredda e antiemozionale, insensibile alle pressioni psicologiche della vita di condominio, con esigenze minimali in fatto di privacy e capace di prosperare, come una macchina di nuova generazione, nell’atmosfera neutra. […] Non provavano nessuna particolare avversione per quel paesaggio in acciaio e cemento, nessun conato di vomito per l’invasione della loro privacy da parte di organizzazioni statali e uffici statistici e, anzi, vedevano di buon occhio quelle intrusioni, le usavano a loro vantaggio. Erano le prime persone che riuscivano a dominare il nuovo modello di vita di fine secolo. [HR 40]

In seguito alla «morte del sentimento» emerge così un nuovo codice di comportamento: «acquiescente, controllato, forse anche un po’ folle». [HR 58] «Qui uno psicotico si troverebbe benissimo»; nota, in

25

«Quell’ambiente non era stato costruito per l’uomo ma per l’assenza dell’uomo». [HR 28]

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netto anticipo sui tempi, il personaggio di Wilder. In fondo il ruolo della tecnologia è proprio questo per Ballard: fornire una condizione favorevole affinché gli istinti più profondi possano trovare finalmente una valvola di sfogo. Nell’ottica di Royal, convinto sostenitore del funzionalismo razionalista, tale liberazione non può che rappresentare uno smacco, una ribellione. Ed è degno di nota il fatto che paragoni i residenti ad «animali che hanno imparato ad aprire le gabbie del suo zoo verticale» [HR 147], senza rendersi conto di avere consegnato nelle loro mani il grimaldello per forzare le sbarre. L’inversione descritta sinora si configura dunque come una costante “trasgressione”, un’ibridazione tra paradigmi solitamente esclusivi che produce una particolare forma di straniamento. 2.4 Della rivolta, ossia il gusto agrodolce di un’“arancia meccanica” Secondo la sociologia classica uno dei passi fondamentali nella nascita dello stato moderno è la rivendicazione da parte del potere esecutivo del monopolio sull’esercizio della violenza, non più legato ai capricci del nobile di turno o all’arbitrio del signore locale. Dando per scontata la validità di tale teoria bisogna pur riconoscere in quale misura una simile impostazione trascuri la dimensione più concreta del vivere sociale, cioè il quotidiano, in favore di approccio astratto al cui centro si pone il rapporto tra il cittadino e l’apparato burocratico che ne regola, con i suoi codici e le sue leggi, la condotta. High Rise ribalta questo ordine di priorità, spostando il focus della nostra attenzione dal secondo aspetto al primo. Per riuscire in tale impresa Ballard insiste sulla particolare correlazione tra l’organizzazione dello spazio e la distribuzione del potere che si viene a creare all’interno del condominio. Si tratta di un rapporto determinato in maniera non univoca, in cui coesistono, sin dall’inizio della vicenda, diversi punti di vista, diversi interessi e differenti schemi concettuali. Prendiamo ad esempio la filosofia di A. Royal. La sua idea del palazzo si ispira ai principi dell’architettura modernista: efficienza, semplicità, funzionalità. A guidarlo sono considerazioni di ordine economico (la soluzione abitativa del grattacielo garantisce un alto margine di profitto sul mercato dell’edilizia privata) ed estetico (riassu-

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mibili nell’accattivante slogan lanciato da Mies van der Rohe: «Less is more»); le reali esigenze degli inquilini sembrano invece avere un’incidenza minima, se non del tutto marginale, nel progetto. La dinamica e lo sviluppo delle relazioni sociali all’interno del suo «zoo privato» mostreranno in maniera evidente il crescente divario tra questi due livelli e, alla fine, lo squilibrio porterà al collasso fisico e morale di questo utopico microcosmo. Si potrebbe pensare che l’errore di Royal sia frutto della sua hýbris più che di un semplice errore di prospettiva, eppure non è così. Certo la formazione culturale, il background teorico della nostra archistar tendono a rinforzare tale tratto caratteriale ma, fatto ben più grave, gli restituiscono un’immagine deformata della comunità che si trova di fronte. A dire il vero non è l’unico a commettere un simile sbaglio. Anche Richard Laing, l’inquilino maggiormente in sintonia con lo spirito del condominio, all’inizio della sua avventura viene tratto in inganno dall’apparente omogeneità culturale dei suoi nuovi vicini: I duemila abitanti del condominio formavano una collezione sostanzialmente omogenea di ricchi professionisti. […] Secondo il metro consueto del livello finanziario e del grado d’istruzione erano probabilmente più simili gli uni agli altri dei membri di qualsiasi altro agglomerato sociale immaginabile; avevano gli stessi gusti e gli stessi atteggiamenti, gli stessi pallini e lo stesso stile, che si rifletteva chiaramente nella scelta delle automobili, nella maniera elegante e in qualche modo standardizzata di arredare gli appartamenti, […] nel tono delle loro voci sicure. [HR 11]

Campioni dell’etica puritana del lavoro, «inscatolati in quegli appartamenti carissimi con i loro arredamenti eleganti, le loro intelligenti sensibilità e nessuna possibilità di fuga» [HR 89], i residenti del palazzo rappresentano, in quanto collettività, la migliore incarnazione dell’alienazione moderna così come teorizzata da Marx. Un esercito di automi egocentrici, omologati anche nelle scelte di consumo, l’unica attività attraverso cui all’individuo è concesso di distinguersi all’interno della società borghese. Sembra quasi di assistere ad una riedizione della marcia dei proletari di Metropolis, se non fosse per la loro tenuta elegante. Il completo gessato e l’immancabile ventiquattrore hanno ormai preso il posto della tuta da lavoro.

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Si sono dunque avverate le fosche previsioni della Scuola di Francoforte, secondo le quali la versione neocapitalistica dell’ideologia avrebbe vinto le sue battaglie e si sarebbe diffusa sul piano culturale ancora prima che su quello politico? Non proprio. Per Ballard le cose non stanno esattamente in questi termini. L’omologazione sociale è solo una facciata dietro a cui si agitano impulsi ancestrali. Pulsioni libidiche e aggressive, represse ma non esorcizzate sino in fondo dagli apparati di controllo dello stato moderno. Forze che hanno poco a che vedere con il conflitto di classe. Inoltre la stratificazione gerarchica presupposta dalla teoria marxiana appare superata, specie se applicata alla lettera ad un mondo come quello del condominio, dove le mansioni tradizionalmente attribuite al proletariato vengono delegate ad «un invisibile esercito di termostati, igrometri, commutatori di direzione computerizzati negli ascensori, che [recitano] la loro parte in una versione infinitamente più raffinata della relazione servo-padrone». [HR 79] L’uniformità di gusti e abitudini descritta da Laing è comprensibile solo alla luce dell’appartenenza alla medesima “classe”. Per quanto la definizione di “borghese” non assuma qui il significato originario, gli indicatori culturali ed economici utilizzati per indicare tale status sociale rimangono inalterati. Il problema secondo Ballard non riguarda dunque l’oggetto osservato o rappresentato, quanto gli strumenti, i parametri tradizionali che tendono a fornire un’immagine parziale della realtà, ignorando quanto i cambiamenti intervenuti nel dopoguerra abbiano modificato profondamente la fisionomia interna della middle class. Differenze misconosciute che il «naturale ordinamento sociale dell’edificio, con il suo sistema di precedenze interamente fondato sull’altezza del piano» [HR 15], non fa altro che esacerbare. Il conflitto di classe non scompare, anzi viene dislocato all’interno del medesimo campo sociale: Di fatto, il grattacielo si era già diviso nei tre gruppi sociali classici, la classe inferiore, la classe media, la classe superiore. Il centro commerciale del decimo piano costituiva un chiaro confine fra i nove piani più bassi, con il loro “proletariato” di tecnici cinematografici, hostess e gente simile, e il settore mediano del grattacielo che andava dal decimo piano alla piscina e alla terrazza-ristorante del trentacinquesimo. I due terzi centrali del condominio formavano la sua bor-

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ghesia, costituita da membri delle professioni, egocentrici ma sostanzialmente docili: medici e avvocati, contabili e fiscalisti che lavoravano non per conto proprio ma per istituzioni sanitarie e grandi società. Puritani in grado di disciplinarsi da sé, avevano l’alto grado di coesione di coloro che desiderano ardentemente piazzarsi secondi. Sopra di loro, ai cinque ultimi piani del grattacielo, c’era la classe superiore, la prudente oligarchia di piccoli magnati e imprenditori, attrici televisive e accademici arrivisti, con i loro ascensori ad alta velocità e servizi di qualità superiore, con la passatoia sulle scale. Erano loro che stabilivano il ritmo dell’edificio. Erano i loro reclami a venire accolti per primi ed erano sempre loro che, sottilmente, dominavano la vita del grattacielo […]. Ma, soprattutto, erano loro a gestire il delicato rapporto di patronato che teneva in riga il livello medio, con la carota perennemente penzolante dell’amicizia e dell’approvazione. [HR 58-59]

Le conseguenze di questa polarizzazione dell’edificio non tardano a manifestarsi. Prendendo spunto dai piccoli screzi tipici delle assemblee condominiali – lamentele sul rumore e sull’abuso dei servizi, dissapori riguardo agli appartamenti meglio situati – la rivalità tra i vari piani dell’edificio mette in moto, attraverso una serie di aggressioni e ritorsioni, il meccanismo sopito della disgregazione e dell’ostilità. Il passo verso il conflitto aperto è breve e, alla fine del secondo capitolo, le scaramucce verbali sfociano in un insensato atto di violenza: durante un improvviso blackout un cane viene annegato nella piscina del secondo piano. È uno snodo essenziale dell’intreccio di High Rise. La «condotta formale tipica del grattacielo» si incrina ed inizia ad aleggiare una «piacevole atmosfera carnevalesca». «Per la prima volta, da un po’ di tempo, le persone lasciavano spalancate le porte d’ingresso e entravano e uscivano, con la massima naturalezza dagli appartamenti loro e dei vicini. In ogni caso, questa intimità non superava mai il limite del proprio piano». [HR 33] La gerarchia verticale (40°-35° piano, classe superiore; 35°-10°, classe media; 10°-0, classe inferiore) si dissolve, sostituita da una serie di segmenti orizzontali che iniziano a configurarsi come unità autonome. Comunità fondate su un principio di prossimità e di riconoscimento (le porte sempre aperte e l’indebolimento delle demarcazioni tra spazio pubblico e privato): piccoli «villaggi», o, come suggerisce un vicino di Laing, piccoli «clan». Un’annotazione interessante, per due motivi. Sia perché mostra come gli inquilini stiano ormai

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per cedere ad una logica più forte della razionalità. Sia per la scelta oculata del termine: «clan» e non «villaggio». Quasi a sottolineare una forma di solidarietà preesistente alla storia degli insediamenti urbani. A rimandare allo stretto vincoli di legami e tradizioni che delimita il territorio della tribù, ponendolo in netto contrasto con le fazioni rivali. Ballard propone qui una visione che ha un certo grado di affinità con le riflessioni di Michel Maffesoli, uno studioso particolarmente attento alle recenti metamorfosi del legame sociale. Una visione in cui il declino dell’individualismo coincide con il ritorno del tribalismo: Si tratta […] dello slittamento dall’individuo, dall’identità stabile che esercita la sua funzione in insiemi contrattuali, alla persona che recita dei ruoli nelle tribù affettive. Ecco la partecipazione magica a qualcosa di preindividuale, o ancora, il fatto che non c’è esistenza se non nel quadro di un inconscio collettivo26.

L’autore britannico propone una versione pessimista di questa rinascente barbarie, o in una formulazione più suggestiva, del ritorno dell’«ombra di Dioniso», condividendo solo in parte l’opinione del sociologo francese secondo cui, in linea generale, la violenza sta a significare il rifiuto dell’atomizzazione. Nel suo romanzo, infatti, neanche il breve intervallo carnevalesco serve rinsaldare i legami sociali o a sfogare l’aggressività. Il frenetico periodo delle feste non fa altro che rimandare l’imminente catastrofe. 2.5 La morte del gioielliere volante Non sapremo mai se nella sua vertiginosa caduta il gioielliere del quarantesimo piano abbia continuato a ripetersi che il problema non è il volo ma l’atterraggio. Quello che è certo è che la sua morte interrompe ogni celebrazione. Ogni voce nel condominio si azzittisce. Il terzo capitolo si chiude sul primo momento di quiete assoluta. In pochi giorni dalle provocazioni si passa alla guerriglia. Le posizioni s’irrigidiscono e vengono meno i contatti tra i tre campi armati. Nello stesso tempo si attenuano i contatti con l’esterno. I residenti non escono più di casa per andare al lavoro, lasciano accumulare la po26

M. Maffesoli, Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne, Milano, Guerini Studio, 2004, p. 23.

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sta nell’atrio ormai deserto e, ovviamente, non si preoccupano di avvisare la polizia di un suicidio quantomeno sospetto. Entriamo così in una terza fase. Di fronte al dilagare dell’anarchia i condomini adottando una tattica di resistenza estrema, restringendo ulteriormente i confini dello «spazio difendibile». Il sistema dei clan, che una volta aveva garantito una certa sicurezza agli inquilini, si era in gran parte dissolto e alcuni gruppi scivolavano verso l’apatia e la paranoia. Dovunque la gente comune cominciava a ritirarsi nei propri appartamenti, anche in una sola stanza, e ci si barricava dentro. […] Gli scontri aperti tra le tribù […] erano chiaramente cessati. Con il disfacimento della struttura del clan, le linee di confine e le demarcazioni ufficiali delle aree di tregua si erano dissolte, dando luogo alla formazione di una serie di piccole enclave, costituite dall’unione di tre o quattro appartamenti isolati. Ma penetrarvi e sottometterle era molto più difficile. [HR 130, 138]

La vicenda di High Rise mostra in maniera esemplare come in seguito alla «saturazione di un ciclo imperniato sull’individuazione, sul lavoro, sulla salvezza personale» cominci ad emergere ciò che era stato rimosso, ovvero «il sociale, il simbolico, la comunità organica». Una serie di valori estranei alla famigerata «dialettica dell’Illuminismo», che manifestano «una socialità fondata sul desiderio e non sulla repressione». La violenza gioca insomma il ruolo di «fondatrice o rigeneratrice della comunità»27, ma lo strumento attraverso cui questo processo prende corpo finisce per rappresentare anche il principale ostacolo alla sua realizzazione. Mentre si disgrega la struttura delle tribù, gli inquilini tendono ad aggregarsi intorno a figure carismatiche, sempre più radicali e combattive, ripercorrendo in un inquietante parallelo la fortuna storica di movimenti quali il nazismo e il fascismo28.

27 La violenza e la città. Derive della violenza, a cura di G. Balandier, G. Durand, M. Maffesoli, vol. 3, Bologna, Cappelli Editore, 1979, pp. 10-11. 28 «Porre un legame tra l’Aufklärung e i campi di concentramento, tra l’umanesimo e i massacri mondiali, non significa affatto compiere un corto circuito teorico e fallace, poiché tale legame costituisce effettivamente lo sbocco logico di un processo di destrutturazione simbolica che lascia contrapposti, l’uno contro l’altro, un individuo isolato e un apparato onnipotente, entrambi dominati, ciascuno al proprio livello, da una ten-

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Maffesoli d’altronde non esita a riconoscere il prezzo altissimo che una simile ricomposizione della comunità richiede. Il tentativo di evadere da una gabbia di perfetta securizzazione, dalla profondissima noia di una vita asettica, riesce in un primo momento a ricostituire una comunità organica per quanto conflittuale, ma proprio tale conflittualità logora a lungo anche il nuovo ordine. L’ultima forma di coesione, di solidarietà tra gli inquilini resiste solo in ragione del soddisfacimento dei bisogni primari: sicurezza, cibo e sesso. L’unico codice di comportamento che regola il conflitto per le risorse obbedisce alla medesima logica primitiva, ogni contesa va risolta attraverso lo scontro fisico: Un’ultima, declinante sembianza di ordine sociale sopravviveva solo agli ultimi tre piani, che costituivano l’unica unità tribale rimasta nel grattacielo. Il solo errore di Royal […] era stato appunto quello di presumere che sotto di loro sarebbe sempre sopravvissuta una qualche forma di organizzazione della società, da sfruttare e dominare. I clan si erano dissolti, dando luogo a piccoli gruppi di assassini e ai cacciatori solitari che costruivano trappole antiuomo negli appartamenti abbandonati, o depredavano gli incauti che si facevano trovare negli atri davanti agli ascensori. [HR 145]

Siamo giunti al punto di non ritorno. Lo zoo si è ribellato al proprio guardiano e Royal non può che assistere impotente alla disgregazione: «Che vincano gli psicotici. Solo loro capivano cosa stava accadendo». [HR 157] L’escalation finale si consuma con velocità impressionante. Negli ultimi due capitoli Wilder, giunto alla conclusione della sua faticosa ascesa verso la sommità del grattacielo, uccide l’architetto. Un atto che potrebbe rappresentare la rivincita dell’aggressivo “servo della gleba” del secondo piano sull’aristocratico signore del castello, se interpretato secondo la teoria delle élite di Vilfredo Pareto. In High Rise manca però il passo successivo, l’effettivo ricambio della classe dominante. Lasciandosi alle spalle il cadavere del padre-padrone Wilder si avventura nel parco giochi sul tetto accorgendosi, appena

denza paranoica priva del meccanismo regolatore rappresentato dalla socialità; diventa perciò inevitabile trovarsi minacciati e sovrastati dagli eventi così sanguinosi che sono proprio l’effetto di tale processo». Ivi, p. 35.

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in tempo, che le sculture sono ricoperte di sangue. In un angolo un bambino rigira tra le mani, con lo sguardo perso nel vuoto, un osso. Presto viene circondato da figure femminili. Coloro che un tempo erano le eleganti mogli di ginecologi e ricchi mercanti si sono trasformate in un feroce matriarcato. L’ultimo maschio-alfa del condominio abbraccia così, non senza un certo sollievo, il suo tragico destino: «Nelle mani insanguinate ora avevano dei coltelli dalle lame sottili. Sempre timido, ma finalmente felice […] si diresse barcollando verso le sue nuove madri». [HR 183] Una scena d’indubbia intensità, in cui Ballard associa una coppia motivi antropologici (il matriarcato e il cannibalismo) del tutto alieni alla tradizione giudaico-cristiana, la prospettiva teleologica su cui la civiltà occidentale ha fondato la variegata mitologia dell’emancipazione del Soggetto. Gli «universali astratti» della modernità – la Chiesa, lo Stato hegeliano, la tecnostruttura capitalista o socialista – sembrano aver esaurito la loro funzione «di regolazione, di controllo, di repressione»29 in questo «scenario post-tecnologico, dove ogni cosa [è] in abbandono o, più ambiguamente, rivista secondo modalità inaspettate». [HR 160] In seguito alla morte di Wilder e di Royal il tasso di violenza, avendo ormai raggiunto il culmine, subisce un improvviso crollo. L’explicit ci riporta, in un perfetto movimento circolare, alla scena d’apertura: Laing, acquattato sul suo balcone, arrostisce un cosciotto di pastore alsaziano. Mentre prepara la sua spartana colazione continua a ripetersi che tutto sta procedendo per il meglio, che presto la vita nel condominio tornerà alla normalità. Forse l’ipotesi del “penultimo” sopravvissuto di questo nuovo mondo non è troppo lontana dal vero. Di fronte alla deriva contagiosa della psicosi ogni tentativo ribellione è non solo futile ma del tutto inutile. Non esiste più un apparato contro cui rivoltarsi; anzi, la credenza nel presunto potere liberatorio del comportamento trasgressivo, non è altro che l’ultimo lascito di una tradizione ideologica giunta al punto di saturazione: I personaggi del romanzo sono esemplari rappresentanti della produzione di massa della modernità tecnologica – tutti i loro gusti, le loro attitudini e i loro valori, sino ad arrivare alla credenza nel potere li-

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Maffesoli, Op. cit., p. 16.

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beratorio del comportamento trasgressivo – sono stati “programmati” all’interno delle loro menti. Pervasi dalla convinzione che rifiutando i valori della civiltà si possano scoprire l’autenticità dell’esistenza e il vero senso della propria identità, [i protagonisti ballardiani] non fanno che altro che esternalizzare le logiche inconsce che li spingono all’azione30.

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La solitudine assoluta, la perfetta atomizzazione da cui Laing era stato affascinato trasferendosi nel condominio una volta attuata non rappresenta che una liberazione illusoria. In fondo all’abisso della follia risorge senza posa il fantasma angosciante dell’Altro. Sarebbe diventato, di lì a poco, l’unico sopravvissuto del grattacielo? Si immaginò solo nell’enorme edificio, libero di vagare per i piani e le colonne degli ascensori, di sedere su ciascuno dei mille balconi. Quel sogno, tanto desiderato al suo arrivo nel grattacielo, all’improvviso ora lo turbava come se, una volta solo, temesse di sentire dei passi nella stanza accanto e di trovarsi faccia a faccia con se stesso. [HR 167]

Ancora una volta, come in Concrete Island il “naufrago”, il “penultimo” superstite, rimanda la fuga e attende pazientemente il confronto finale, pronto a varcare l’ultima soglia dello «spazio interiore». 2.6 Il conflitto nello sguardo Buona parte dell’intreccio di High Rise gioca sul fascino della rovina, della dissoluzione dell’ordine, caratteristico della letteratura gotica. La sua struttura narrativa invece obbedisce ad uno schema formale ben definito. Dopo aver mostrato come l’azione dei personaggi principali venga organizzata sul piano dell’enunciato – grazie al parallelismo tra il collasso morale degli inquilini e quello, fisico, del condominio stesso – il passo successivo è cercare di comprendere in quale modo tale rapporto si traduca sul piano dell’enunciazione. Bisogna insomma distinguere tra le relazioni dinamiche all’interno della rete dei personaggi (agenti sul piano della “storia”) e le strategie 30

«The novel’s characters are the mass-produced exemplars of tecnological modernity – all their tastes, attitudes and values, right down to the belief in the liberatory power of trasgressive behaviour, have been programmed into them. […] Imbued with the belief that rejecting civilised values they are uncovering an authentic mode of existence and a true sense of identity, they merely externalise the logics that impel them into action». Gasiorek, Op. cit., pp. 128, 127.

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adottate dal narratore (agente sul piano del “racconto”) nel restituire la complessità di tali interazioni. Per descrivere efficacemente la stratificazione del condominio Ballard si trova ad adottare soluzioni per lui inusuali. Prima di tutto un’inedita focalizzazione interna multipla. Il narratore non compare come personaggio sulla scena. Il tono della voce narrante rimane sempre freddo e distaccato (narratore extradiegetico-eterodiegetico) e gli eventi vengono filtrati attraverso i dialoghi e i pensieri di tre personaggi: Robert Laing (trent’anni, medico, da poco divorziato), Richard Wilder (operatore televisivo, con moglie e due bambini piccoli), Anthony Royal (architetto, sposato ma niente figli). Ognuno di loro è collocato in una diversa sezione della gerarchia iniziale del condominio: Royal nell’attico; Laing al ventisettesimo piano, a metà dello stato cuscinetto tra la classe superiore e quella inferiore; Wilder, al secondo piano, disposto a tutto pur di risalire la cima della scala sociale. I pezzi sono sulla scacchiera, disposti come sensori a diverse altezze per misurare la temperatura emotiva dell’edificio. Il punto di vista prevalente è sicuramente quello di Laing: a lui è dato il privilegio di inaugurare la narrazione e di concluderla. L’intera vicenda, un prolungato flashback che ci riporta a tre mesi prima, è incorniciato dalle sue riflessioni. Lo scarto il tempo della “narrazione” (Laing sul balcone, all’inizio del primo e nel diciannovesimo capitolo) e il tempo della “storia” (gli eventi dal primo a diciottesimo capitolo) viene così ricomposto in uno schema circolare. L’altra peculiarità di High Rise è l’alternanza dei punti di vista o, in termini narratologici, la successione delle focalizzazioni. La distribuzione è semplice, matematica: diciannove capitoli divisi per tre personaggi fanno sei capitoli a testa, con il resto di uno. Resto che spetta di diritto a Laing, l’unico rimasto in vita. Una struttura tripartita anche se non perfettamente simmetrica. L’aggiunta dell’ultimo capitolo spezza l’equilibrio. La ripartizione è altrettanto scrupolosa: nella prima parte della vicenda (capitoli 1-9) a ogni membro della triade iniziale corrispondono tre capitoli. Nella seconda (10-15), due. Nella terza ed ultima (16-18), uno solo, con l’eccezione già segnalata. Un ritmo narrativo in perenne accelerazione, che solo dopo aver raggiunto il climax (la scomparsa di Wilder e Royal), rallenta improvvisamente nel pianissimo del finale, chiudendo sulla soggettiva statica di Laing. Dalle ve-

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dute di ampio respiro si passa a scorci sempre più frammentati e in veloce successione. Un ottimo esempio in questo senso è l’irresistibile ascesa del mobilissimo Wilder: capitolo 12, dal secondo piano al decimo; 13°, dal sedicesimo al ventiseiesimo; 17°, dal trentacinquesimo al trentasettesimo; 18°, dal trentasettesimo al tetto. Per quanto irregolare è un percorso chiaramente orientato verso una direzione, l’unico capace di assicurare una coesione all’anarchica dispersione delle varie scene nell’ultima parte. Tre attori sulla scena, tre punti di vista e uno spazio simbolicamente tripartito. Non occorre uno sguardo particolarmente acuto per notare la curiosa coincidenza dei tre elementi. Meno evidente appare invece la loro sinergia e la ragione del loro funzionamento, almeno se li si affronta separatamente e non all’interno di un quadro sincronico. Ogni ingranaggio svolge un ruolo essenziale e, come in un complicato meccanismo d’orologeria, la sua posizione relativa non basta a spiegarne l’importanza. Partiamo dal punto di vista e chiediamoci: perché Ballard adotta una soluzione per lui insolita, ossia la focalizzazione multipla? La prima ipotesi da scartare è che tale frammentazione del regime di visione rispecchi e ponga in evidenza una corrispettiva frammentazione del “sapere narrativo”. Non c’è, come nel Rashomon di Akira Kurosawa, una successione di visioni sincroniche (tutti osservano la stessa scena nello stesso momento) volta, almeno idealmente, a far emergere una verità condivisa (tre testimoni oculari di un crimine raccontano, uno dopo l’altro, la loro versione dei fatti), non c’è un vero e proprio mistero da risolvere né una figura delegata a risolverlo. Il condominio rappresenta un esperimento più che un enigma. La descrizione del suo svolgimento passa in secondo piano rispetto all’interpretazione. Alla fine Laing cerca di cucire insieme i frammenti del mosaico. Si reca prima nella suite dell’architetto poi sul tetto, dove scopre i cadaveri degli altri due personaggi principali, dopodiché più nulla. Ritorna nel proprio appartamento e aspetta. L’attesa, ancora una volta, come in Concrete Island. Mentre Wilder e Royal agiscono per modificare o conservare lo status quo, il focalizzatore a cui è concesso il privilegio di chiudere il racconto ama porsi come osservatore distaccato.

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Secondo punto. La vicenda è condensata in un arco spazio-temporale ristretto, ciononostante l’uso oculato e diffuso dell’ellissi apre numerosi vuoti nel racconto, rendendo lo sviluppo dell’intreccio singhiozzante e discontinuo, così come è discontinuo il regime di visione. I principi di organizzazione formale del piano dell’enunciazione vanno dunque ricercati altrove. Innanzitutto nella costruzione del romanzo, una costruzione a cornice, che gioca sullo scarto tra tempo della storia e tempo del racconto. Mantenendo la medesima focalizzazione il narratore dissimula l’anacronia iniziale e, nell’arco di un paragrafo, riporta le lancette dell’orologio indietro di tre mesi: «Mentre si preparava la colazione poco dopo le undici di un sabato mattina […], il dottor Laing…». In una prolungata analessi completiva si ripercorrono gli eventi che hanno portato il condominio alla rovina, per ritornare di nuovo al punto di partenza. Seguendo uno schema circolare il racconto analettico colma a posteriori le lacune del racconto primo, ricongiungendosi ad esso, «senza soluzione di continuità tra i due segmenti della storia»31. Gli spostamenti dei personaggi, l’alternanza regolata delle focalizzazioni non fanno altro che rinforzare questa continuità. Ma se ci spostiamo da piano dell’enunciazione a quello del discorso le cose appaiono diverse. La scena finale e la rivolta del condomino appartengono alla medesima catena di cause ed effetti, ma non allo stesso ordine temporale: basta guardare all’ampiezza dei due segmenti narrativi. Il primo è un istante immobile, un attimo privo di estensione, di qualsiasi ulteriore sviluppo: «Era trascorso qualche tempo e, seduto sul balcone a mangiare il cane, il dottor Robert Laing rifletteva sui singolari avvenimenti». [HR 7] Il secondo procede per accumulo, per sovrapposizione e alternanza di punti di vista. Alla linearità del racconto analettico, si contrappone la ricorsività del racconto primo. Particolamente importante, da quest’ultimo punto di vista, la figura di Wilder. La risalita verso la vetta permette di definire una serie temporale alternativa. Una serie che introduce un principio dinamico nella circolarità della narrazione. Il che fa risaltare in maniera ancora più vivida il fallimento di questo movimento ascendente. La scena finale, come in Concrete Island, propone invece uno stato di provvisoria riconciliazione tra l’unico personaggio rimasto 31

Genette, Op. cit., p. 110.

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sulla scena e l’ambiente circostante. Robert Maitland si identificava con l’isola, Laing è il condominio. Una volta raggiunta la perfetta sovrapposizione tra soggetto focalizzatore e oggetto focalizzato non occorre proseguire oltre. In High Rise Ballard si dimostra, per l’ennesima volta, restio a sottomettersi alla “tirannia della storia”. Un conflitto irrisolto che, in seguito, lo porterà ad attingere risorse da generi diversi e apparentemente molto lontani dalla fantascienza, tra cui la detective fiction. Già Isaac Asimov aveva esplorato questa possibilità di commistione nei suoi Mysteries32. La differenza rispetto all’autore britannico è però macroscopica. Asimov si limita ad un aggiornamento dell’ambientazione, lasciando pressoché inalterato il modello enunciativo di riferimento. Anche se la vicenda si svolge su un pianeta sconosciuto o su un lontano asteroide i suoi investigatori conservano modi di agire, di pensare e addirittura lo stesso gergo dei loro “parenti” terrestri. Ballard al contrario reinterpreta a fondo lo schema narrativo. La ripresa di alcuni motivi (il crimine, l’indizio) e di numerosi procedimenti (l’indagine, la confessione) assume così una doppia valenza: strutturale e intertestuale. Da un lato fornisce finalmente un’impalcatura solida, un orientamento preciso (per quanto ingannevole) all’intreccio; dall’altro svuota le premesse implicite del genere di riferimento, strizza l’occhio al lettore e lo invita a considerarne criticamente le convenzioni. Il suo nome potrebbe dunque essere incluso, insieme ad autori del calibro di Paul Auster e Thomas Pynchon, nel novero della cosiddetta detective fiction metafisica: «dove l’intreccio manipola le relazioni temporali e causali senza stabilire una base a partire dalla quale si possano organizzare i segmenti narrativi in un insieme coerente; tale forma parodizza la soluzione intesa come chiusura narrativa, sia fornendo soluzioni che non concludono, sia rifiutando di fornirne, e in questo modo chiama il lettore ad agire come co-creatore del testo»33. Il tratto distintivo che accomuna personalità tanto diverse può essere individuato nella rinuncia al cosiddetto «senso della fine» e, come 32

I. Asimov, Asimov’s mysteries, Garden City, New York, Doubleday, 1968. S. Calabrese, La comunicazione narrativa. Dalla letteratura alla quotidianità, Milano, Mondadori, 2010, p. 195. 33

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conseguenza, nella problematizzazione della modalità epistemica prevalente nel giallo classico. Una questione da cui Ballard, nello sviscerare le contraddizioni della sensibilità postmoderna, non poteva che rimanere affascinato. Senza ombra di manierismo o di eccessivo compiacimento il suo interesse in tale direzione si spiega in ragione di un’esigenza di natura tecnica. La fantascienza aveva costituito agli esordi lo strumento ideale, il grimaldello con cui scalzare una troppo limitata visione del “reale” e del “realismo”. Da qui la spinta ad abbandonare alcuni motivi “liberi” (i famigerati gadgets: la nave spaziale, il satellite, il computer, ecc. ecc.)34, senza però rinunciare ad altri elementi per lui particolarmente stimolanti, prima fra tutte l’ambientazione post-apocalittica. In seguito alla svolta degli anni Settanta, passiamo da un mondo in cui è già stata scritta la parola “fine” ad un mondo, più prossimo, dove il futuro si è esaurito ancora prima di materializzarsi. E se l’angosciosa scomparsa del domani porta inevitabilmente con sé una dissoluzione del passato, quale figura può reinventare i legami ormai recisi tra le tre dimensioni canoniche della temporalità se non il detective, vero professionista della memoria? In apparenza conservativa, la scelta dell’autore britannico di propone dunque una strategia nuova nell’esplorazione dello «spazio interiore» e ci permette di riconoscere un certo grado di parentela tra alcuni romanzi successivi. O almeno questa è la somiglianza che è possibile delineare accostando opere quali Cocaine Nights e SuperCannes, Millennim People e Kingdom Come. Per quanto sia difficile ridurre la sua scrittura ad un principio di unità è indubbio che alcune «metafore ossessive»35 si ripropongano a distanza di anni. La mia ipotesi è che si possa dire lo stesso per alcune soluzioni enunciative. È vero, Concrete Island e High Rise non sono ancora particolarmente omogenei sotto quest’ultimo aspetto. Ognuno risolve in maniera efficace l’equilibrio tra le ragioni della fabula e le dinamiche del racconto, ma si tratta di soluzioni provvisorie, difficilmente replicabili. Prima di trovare una formula adatta a ciò che stava cercando Ballard dovrà aspettare almeno un decennio.

34 35

Cfr. I formalisti russi, a cura di T. Todorov, Torino, Einaudi, 1968. Cfr. Mauron, Op. cit.

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Non è facile restituire un quadro esaustivo della carriera di J. G. Ballard partendo da High Rise, per arrivare sino alla seconda metà degli anni Novanta. Impossibile ridurre le evoluzioni della sua prosa a un unico comune denominatore; specie di fronte ad un ventaglio di possibilità, di direzioni di ricerca incredibilmente diversificate. L’allontanamento dal genere della science fiction, ambiente in cui viene considerato sempre più come persona non grata, è palpabile in opere quali The Unlimited Dream Company (1979) e Hello America (1981). Il secondo caso, ad esempio, propone la ripresa caricaturale di un’ambientazione postapocalittica – gli Stati Uniti messi in ginocchio dalla crisi energetica e dalla desertificazione, ridotti a un conglomerato di tribù capeggiato da un improbabile Presidente, Charles Manson – seppur con risultati meno convincenti. L’immaginario americano di Ballard è chiaramente di seconda mano, rielaborato a partire dai magazines e dalla pubblicità, e finisce per produrre immagini prive di quel tocco d’ironia che non può mancare ad ogni riuscita satira sociale. The Unlimited Dream Company si rivolge ad una realtà più prossima, Shepperton, eppure il processo di trasfigurazione rimane identico. La tipica, tranquilla cittadina di provincia diventa così lo scenario per le avventure di un nuovo messia urbano: Blake. Personaggio proteiforme – ex studente di medicina, ex novizio gesuita e scrittore pornografico – a cui uno sfortunato incidente aereo dona incredibili poteri soprannaturali. L’intreccio pullula di eventi fuori dall’ordinario (rinascite, metamorfosi, trasmutazioni) e, grazie a simili elementi di “realismo magico”, l’autore britannico spinge ancora più a fondo la vena di Surrealismo già presente in Vermilion Sands (1961). Un esperimento interessante, specie se si considera la commistione

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del fantastico con una sensibilità inedita, quasi misticheggiante. Il nome stesso del protagonista suggerisce un parallelo con William Blake, il visionario poeta dell’Ottocento inglese e, in particolare, con una delle sue opere più cripitiche: un poema epico intitolato Milton. John Baxter, biografo di Ballard, individua numerose analogie con l’ipotesto ma queste corrispondenze non bastano a puntellare l’impalcatura tutt’altro che solida del romanzo. L’autore britannico sembra peccare qui di eccessivo compiacimento. Ed è proprio tale mancanza di controllo, l’allentamento di una definita logica strutturale che tenga insieme gli ingranaggi dell’intreccio, a costituire il maggior difetto di progettazione di questo curioso ibrido letterario. Che dire poi del filone “ecologista” portato avanti con poca convinzione in opere quali The Day of Creation (1986) e Rushing to Paradise (1994)? La cronaca di quegli anni fornisce certo numerosi spunti, dalle clamorose proteste di Greenpeace agli esperimenti nucleari portati avanti dalla Francia nelle acque dell’Oceano Pacifico. Come per High Rise Ballard prende spunto dall’emergenza di un nuovo tema nel dibattito pubblico solo nella misura in cui è funzionale a riattivare alcune mitologie a lui care. Primo tra tutti il mito della creazione ex novo. Le zone desertiche dell’Africa e gli esotici atolli della Polinesia francese permettono di inscenare ancora una volta il contrasto faustiano tra Natura e Cultura, l’utopia della rifondazione della civiltà con esiti tutt’altro che ottimisti. In entrambi i casi il tentativo di riportare il mondo ad uno stato di perfezione edenico produrrà solo morte e distruzione. Di fronte a tali esiti catastrofici il richiamo al Lord of the Flies di William Golding (1954), per quanto obbligato, non coglie nel segno. In Ballard manca qualsiasi forma di morale della favola o di intenzione pedagogica: rispetto all’autorevole predecessore, o ad un contemporaneo come Paul Theroux, autore del fortunato The Mosquito’s Coast (1981), la rinuncia ad un giudizio morale, anche solo implicito, rappresenta il maggior pregio e il maggior limite di questi romanzi riusciti solo a metà. Ben più convincenti si dimostrano invece i tentativi nel campo dell’autobiografia. Ci riferiamo a Empire of the Sun (1984) e The Kindness of Women (1991). Sfruttando con una certa elasticità le convenzioni della scrittura memorialistica l’autore britannico affronta un periodo cruciale della sua formazione: l’adolescenza a Shanghai, Pearl Harbour e l’invasione giapponese, i lunghi mesi di prigionia

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nel campo di Lunghua... Sarà un successo oltre ogni aspettativa. Le 15.000 copie della prima edizione di Empire of the Sun andranno a ruba, lanciandolo al quarto posto della classifica dei bestseller del Sunday Times. Candidato tra i finalisti del prestigioso Booker Prize, mancherà il traguardo per un soffio, battuto dal non proprio irresistibile Hotel du Lac di Anita Brookner. L’ennesimo smacco da parte dell’establishment della letteratura anglosassone. Non è dunque alla critica, accademica o meno, che si deve il definitivo sdoganamento di Ballard nel mainstream e la successiva fortuna delle sue opere, bensì ad un regista: Steven Spielberg. Certo la trasposizione cinematografica di Empire of the Sun (1986) non raggiungerà mai numeri da blockbuster, ciononostante la qualità della pellicola le varrà un Oscar e aprirà nuovi orizzonti di ricezione. Soprattutto in America, un mercato importante dove sino ad allora l’autore britannico aveva trovato ben pochi sostenitori1. Il nome e la carriera di Ballard rimarranno sempre legati per il grande pubblico all’immagine di un giovanissimo Christian Bale mentre si aggira smarrito nella Parigi d’Oriente, al contrasto tra le sue atmosfere decadenti e retrò e la brutalità della guerra. Un’impressione certo limitata e limitante rispetto alla varietà delle sue sperimentazioni, a cui però va riconosciuta una sicura efficacia e una perfetta adeguatezza rispetto agli imperativi del marketing editoriale. Prima di passare oltre bisogna infine prendere in considerazione alcuni motivi squisitamente economici. Dopo anni di vendite modeste e altrettanto modesti introiti l’acquisizione dei diritti di Empire of the Sun frutterà a Ballard 250.000 $, una cifra superiore alla somma di tutti i guadagni realizzati sino ad allora. Alla soglia dei cinquant’anni l’irriducibile outsider della letteratura inglese raggiunge così la sicurezza economica a lungo agognata e inizia il travagliato cammino che lo porterà nel decennio successivo ad occupare un posto d’onore sulla scena letteraria, tributandogli addirittura una menzione d’onore (alla voce “ballardian”) nel celebre Collins Dictonary.

1 A metà degli anni Novanta verrà poi il turno di Crash (1996), per la regia di David Cronenberg, insignito del premio speciale al Festival di Cannes. Un riconoscimento più di nicchia, se si tiene conto della natura cerebrale e decisamente poco commerciale dell’adattamento.

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Nella breve panoramica ricostruita finora manca un ultimo tassello, indispensabile per cogliere gli sviluppi successivi, si tratta di Running Wild, pubblicato nel 1988. A differenza dei testi citati in precedenza ci troviamo di fronte ad un corpo apparentemente estraneo. Niente “realismo magico”, suggestioni autobiografiche praticamente assenti. La spiegazione è semplice: qui infatti Ballard riprende il discorso interrotto a metà degli anni Settanta. La prima, evidente, affinità la ritroviamo sul piano tematico. Il Pangbourne Village, «un incrocio tra il villaggio rurale inglese e le gated community statunitensi»2, al pari dell’isola e del condominio rappresenta l’ennesimo mondo chiuso ed autosufficiente, in attesa della prossima, dirompente esplosione di violenza. Un mondo in cui la vita dei ragazzi viene controllata in ogni aspetto dai genitori attraverso la pianificazione minuziosa delle loro giornate, il monitoraggio continuo delle loro attività, l’eliminazione del tempo libero in favore di un precoce inquadramento nell’ottica della massima produttività. Un mondo che, in un’umida mattinata di giugno, viene spazzato via in meno di mezz’ora. Trentadue vittime, tra madri e padri. I loro figli, tredici in tutto, scompaiono nel nulla. Il collegamento tra i due eventi non sfugge a Richard Greville, consulente psichiatrico inviato da Londra per risolvere il mistero. Le sue indagini ricostruiscono la dinamica del crimine nei minimi dettagli. Le sue competenze lo aiutano a penetrare nella mentalità “illuminata” e claustrofobica di questa nuova tribù suburbana. La sua relazione è esaustiva, tranne che su un punto: il movente. Troppo audace per le autorità l’ipotesi che i pargoli abbiano pianificato, preparato e freddamente eseguito lo sterminio: «Le indagini sul massacro di Pangbourne si sono concluse con un nulla di fatto, per l’accertata impossibilità di rintracciarne gli autori, ma il ministero degli Interni è tutt’ora convinto che i ragazzi siano stati rapiti dagli assassini dei loro genitori». I bambini di Pangbourne potranno così continuare il loro gioco terribilmente serio, trasformandosi in una sorta di banda di terroristi senza ideologia:

2

«A mating of English rural village with US gated community». Baxter, The inner man, cit., p. 292.

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I ragazzi colpiranno ancora? A parer mio da questo momento tutti i personaggi pubblici e le figure parentali sono diventati un loro possibile bersaglio. Il regime indulgente e protettivo instaurato con le miglior intenzioni al Pangbourne Village ed entusiasticamente imitato nei lussuosi complessi residenziali dell’Inghilterra meridionale, nonché nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti ha generato una stirpe di vendicatori, e li ha mandati a sfidare il mondo che li amava. [RW 92]

Running Wild apre una prospettiva di ricerca feconda nella scrittura ballardiana. Una prospettiva globale, in cui la familiare realtà dei sobborghi londinesi diventa segno di qualcos’altro: di una concezione urbana, di un «regime» (im)morale imitato «nei lussuosi complessi residenziali dell’Inghilterra meridionale, nonché nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti». Un elenco a cui si aggiungeranno presto altre nazioni: Brasile, Messico, Sud Africa, Cina e molte altre ancora. Nel decennio successivo l’espansione del fenomeno «comunità fortificate» sarà così rapida da indurre l’autore britannico ad esplorare ambientazioni per lui inedite – le rive dell’Europa meridionale dall’Andalusia alla Costa Azzurra – e soprattutto a riscoprire i trucchi del mestiere di un genere molto british: la detective story. L’altra novità introdotta in Running Wild è, infatti, lo schema narrativo dell’indagine. Il protagonista-narratore, R. Greville, adotta un protocollo quanto mai definito nella stesura del suo rapporto. Collega date, orari, testimonianze, elabora ipotesi, procede a ritroso cercando di fornire un quadro coerente degli indizi raccolti. E se alla fine manca una spiegazione razionale degli eventi, ciò non dipende dall’incapacità dell’investigatore bensì dalla natura “irragionevole” del crimine. Un caso imbarazzante per i canoni del giallo alla Agatha Christie, la cui soluzione si ritrova nel contrasto tra la forma adottata e la resistenza del materiale narrativo. Si tratta, in effetti, di una tensione irrisolta. Una tensione tra una «fiction esistenziale» e uno «stampo classico» (existential fiction in a classic mould)3 che, in Cocaine Nights (1996) e Super-Cannes (2001), porterà a soluzioni ben più raffinate sul piano dell’enunciazione, ma altrettanto ambigue su quello dell’enunciato.

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Ivi, p. 293.

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1. Cocaine Nights

1.1 Definire la gated community ll fenomeno delle gated communities ha una lunga tradizione nei paesi anglosassoni e la sua origine si ritrova nell’opera e nel pensiero di Ebenezer Howard. Il progetto di «città giardino» (garden city) avanzato nel 1902 e ispirato dal romanzo fantascientifico Looking Backward di un caro amico di Howard, Edward Bellamy, avrà infatti un’influenza determinante e duratura nella riflessione urbanistica del XX secolo su entrambe le sponde dell’Atlantico. L’idea, in seguito realizzata nelle due cittadine di Welwyn e Letchworth, era invero molto semplice: combinare, grazie ad una pianificazione rigorosa, i vantaggi della metropoli con i pregi della vita campestre. Un progetto naif se si vuole, fortemente condizionato dalla fiducia positivista nel progresso parallelo della tecnica e della moralità, in cui ritroviamo tutte le caratteristiche peculiari delle future «comunità fortificate»: la collocazione suburbana e la netta separazione dal contesto circostante, l’autosufficienza, la gestione razionalistica di beni e servizi affidata non a politici ma a tecnici competenti. Ewan McKenzie4 nota giustamente quanto tale modello etico-architettonico assomigliasse più a quello di una grande corporazione che a quello dello stato-nazione e, tantomeno, a quello delle principali realtà metropolitane di fine Ottocento. Riponendo una fede incondizionata nella progettazione urbana quale unico mezzo per trasformare la società in maniera non traumatica, ossia senza riforme imposte dall’alto o rivoluzioni dal basso, Howard si poneva insomma come una sorta di illuminato conservatore. Non ci stupisce dunque che l’età dell’oro delle «comunità fortificate» coincida con l’inizio degli anni Ottanta. Un periodo connotato, in America come nel Regno Unito, dal diffondersi di dottrine neoliberiste, sintetizzate emblematicamente nel motto «meno tasse meno stato». I new liberals condividevano alcuni aspetti dell’impostazione di Howard (la minima ingerenza da parte dello stato, la libertà d’iniziativa privata), ma si trovavano meno d’accordo riguardo alle finalità del progetto. Per loro l’obiettivo finale non era l’utopia di 4 Cfr. E. McKenzie, Privatopia. Homehowner Associations and the Rise of Residential Private Government, New Haven-London, Yale University Press, 1994.

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una «nuova civiltà basata sul servizio alla comunità e non sull’interesse personale», bensì la costruzione di «un nuovo tipo di comunità che servisse come monumento al culto del privato»5. Negli anni ruggenti di Ronald Regan e Margaret Thatcher la «città giardino» si trasforma così in «privatopia» e iniziano a diffondersi le gated communities come le conosciamo oggi. Per oltre un decennio numerosi critici continueranno ad interrogarsi sulla portata di tale svolta e solo nel nuovo millennio Setha Low, ex presidentessa dell’American Anthropological Association, riuscirà a definirne la fisionomia in maniera chiara: «La “comunità fortificata” […] è un insediamento residenziale circondato da muri, palizzate o terrapieni coperti di cespugli e siepi, il cui ingresso è sottoposto ad una rigida sorveglianza»6. Una simile descrizione, per quanto essenziale e molto legata al contesto statunitense, risponde a due esigenze: pone in evidenza le dominanti e i concetti-chiave; assicura il massimo grado di astrazione e generalità. Sin qui nulla da obiettare. A patto di non sottovalutare quanto, una volta tradotta nella pratica, tale schematizzazione tenda a uniformare la diversificazione dei fenomeni ricondotti al suo interno. Per evitare ogni impropria semplificazione la Low si affretta ad aggiungere un’ulteriore precisazione, richiamandosi alla tassonomia delineata da altri due studiosi, Edward Blakeley e Mary Gail Snyder7. Numerosi fattori concorrono a determinare la specificità della singola comunità – il grado di privatizzazione, la percezione dell’insicurezza, le modalità di gestione di beni e servizi – e, in base al loro peso specifico, è possibile delineare almeno tre classi, tre macro-categorie. Alla prima, la «zona di sicurezza» (security zone), appartengono Running Wild e, naturalmente, La Zona, la pellicola di R. Plà già ricordata nell’incipit. In entrambi si cerca di creare un ambiente iper5

Ivi, p. 8. «A “gated community” […] is a residential development surrounded by walls, fences or earth banks covered with bushes and shrubs, with a secured entrance». S. Low, Towards a Theory of Urban Fragmentation: A Cross-Cultural Analysis of Fear, Privatization, and the State, in «Cybergeo: European Journal of Geography», 2 ottobre 2006, p. 3. 7 Cfr. Fortress America, a cura di E. Blakeley, M. Snyder, Washington D. C., Brooking Institute, 1997. 6

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protetto, di ottenere una drastica riduzione del tasso di criminalità attraverso l’esclusione e la separazione dal resto della società. L’elemento dominante, la chiusura, viene declinato nella contrapposizione tra due motivi, il “muro” e l’“entrata”. La seconda categoria, la «comunità d’élite» (elite community), la ritroveremo invece poco più avanti, in Super-Cannes. Enclaves per ricchi (enclaves for the whealty) e comunità di manager e professionisti d’alto livello (executive community) in cui l’omogeneità sociale viene assicurata da una rigorosa selezione dei residenti basata sullo status e sul prestigio. La terza e ultima classe include infine le lifestyle communities. Un’area meno definita rispetto alle altre, che trova il suo unico comun denominatore nell’abbondanza del tempo libero. Ed eccoci finalmente giunti a Cocaine Nights. Estrella de Mar e la Residencia Costasol, le assolate colonie di turisti nordeuropei immaginate da Ballard, sintetizzano alla perfezione la fusione delle «comunità di pensionamento» (retirement communities) con la mentalità esclusiva e un po’ snob del golf club (golf and country club developments). Un «mondo senza eventi», dove l’«architettura [viene] consacrata all’abolizione del tempo, come si conviene alla popolazione anziana di questi rifugi, ma anche [a] un mondo più vasto che attende la sua vecchiaia». [CN 29] Basta una breve panoramica per renderci conto di quanto il modello proposto da High Rise sia ormai superato. In effetti, si potrebbe affermare che le gated communities derivano dalla crisi, dal superamento del paradigma architettonico modernista di cui il grattacielo è l’ultima e tra le più significative espressioni. La loro conformazione mira a risolvere tutta una serie di problematiche poste in evidenza dalle riflessioni di Oscar Newman – la densità abitativa, la separazione tra diverse “sfere di controllo” (pubblica, semi-pubblica, privata), il rapporto con il contesto – e a ricostruire un senso di appartenenza che sembra ormai smarrito. E se le soluzioni adottate per risolvere simili criticità possono apparire radicali ciò può far solo riflettere sulla loro urgenza. Con un decennio di anticipo rispetto alle riflessioni di Marc Augé, Ballard aveva intuito quanto la nozione di “comunità” fosse sottoposta ad incredibili sollecitazioni, specie a partire dagli anni Settanta, cioè da quando il postmoderno aveva iniziato a svuotare la tradizionale

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concezione di luogo antropologico. Se Augé cercherà in seguito di definire tale mutamento in chiave negativa, o comunque “privativa” (ponendo una certa enfasi sul “non” dei nonluoghi), lo scrittore britannico opterà invece per un atteggiamento meno giudicante e più descrittivo. Cocaine Nights non è quindi una parabola morale, non cerca di convincere il lettore di una qualche tesi socio-antropologica, si limita ad immergerlo nel brodo di coltura di una nuova concezione dell’abitare.

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1.2 I turisti del futuro Di recente mi è venuta in mente un’idea per un nuovo gioco a premi, si chiama Il vecchio gioco. In studio ci sono tre signori anziani con la pistola carica. Ripensano alla loro vita. Vedono chi sono stati, cos’hanno concretizzato, quanto sono andati vicini a realizzare i loro sogni. Vince chi non si fa saltare le cervella. Il premio è un frigorifero. George Clooney - Confessioni di una mente pericolosa (2002)

Nonostante il successo e le crescenti disponibilità economiche Ballard non abbandonò mai le sue vecchie abitudini. Viaggiare lo annoiava e, rispetto agli inquieti anni della gioventù, era diventato un tipo sedentario, poco disposto ad abbandonare le comodità domestiche.Anche quando, agli inizi degli anni Novanta, la BCC gli offrì la possibilità di ritornare a Shanghai, per girare un documentario dedicato alla sua vita e in particolare ai luoghi della sua infanzia, si dimostrò piuttosto riluttante. Solo l’insistenza dei produttori lo convinse ad accettare l’invito. Non stupisce dunque che, dovendo trovare un’ambientazione adatta per Cocaine Nights, la sua scelta ricadesse sull’unica parte del continente europeo con cui aveva avuto modo di sviluppare una certa familiarità. Un luogo a cui lo legavano i ricordi della moglie, Mary, sepolta nei pressi di Alicante. Entrambi amavano trascorrere le ferie insieme ai loro tre figli sulle coste della Spagna meridionale e proprio qui, durante una delle loro brevi vacanze, Mary contrasse una grave forma di polmonite. Il rapido decorso della malattia e la sua prematura scomparsa, nel 1964, rappresentano sicuramente uno degli episodi più traumatici nella vita dell’autore britannico.

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Al di là di queste memorie agrodolci le spiagge tra Tarifa e il Capo di Gata, la cosiddetta Costa del Sol, rappresenteranno nell’immaginario ballardiano ben altro: l’emblema dell’atemporale e grecizzante “Mezzogiorno” contrapposto, in una struggente lirica del poeta Wystan Hugh Auden (Goodbye to Mezzogiorno, 1958), alle plumbee e puritane atmosfere del nord del continente. E, nello stesso tempo, una delle mete predilette dal turismo di massa nella versione più deteriore. L’Andalusia, una delle regioni più povere della Spagna, ha conosciuto infatti i benefici e i notevoli costi di una simile economia: l’esplosione degli alberghi-formicaio, l’incontrollata speculazione edilizia, la cannibalizzazione del paesaggio. Ballard appare poco interessato a questi aspetti di critica sociale, se non nella misura in cui possono fare emergere il profilo psicologico di una mentalità, di uno stile di vita. Per lui, come per Zygmunt Bauman, il “turista” è sicuramente una delle figure principali della «modernità liquida». Fedele apostolo della religione del transito, disposto a tutto pur di garantirsi la massima libertà di movimento, anche a «bandire il mendicante e il barbone dalla strada, confinandolo in lontani ghetti dove “non si va”, chiedendone l’esilio o l’incarcerazione, [cercando] disperatamente, ma tutto sommato invano, di cancellare le proprie paure»8. Le due località tra cui si svolge Cocaine Nights, Estrella de Mar e la Residencia Costasol, rappresentano la patria d’elezione ideale per personalità di questo genere. La prima, costruita negli anni Settanta da un consorzio anglo-olandese, è in qualche modo il prototipo della seconda. La loro natura esclusiva le pone ai margini dei flussi del turismo di massa. Oasi di pace per una popolazione di facoltosi emigrati, lontane quanto basta dalle «fungaie di grattacieli che [sorgono] sul bordo del mare a Benalmadena o a Torremolinos». [CN 31] Paradisi artificiali «le cui chiavi sono all’interno». Luoghi di soggiorno destinati ai professionisti del Nord Europa, dove i residenti si ritirano «nelle loro sale in ombra, nei loro bunker con feritoie, e ormai, del mondo esterno necessitano solo di quella parte che le antenne dei satelliti distillano per loro». [CN 198, 191] Ci troviamo dunque di fronte ad una reclusione volontaria, speculare sotto diversi 8

Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 108.

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aspetti a quella a cui il “turista” vorrebbe condannare la sua nemesi storica.

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Notai le caratteristiche di questo mondo silenzioso: l’architettura bianca che cancellava la memoria, il riposo forzato che fossilizzava il sistema nervoso, l’aspetto quasi africanizzato, ma di un Nord Africa inventato da qualcuno che non aveva mai visto il Maghreb, l’apparente assenza di strutture sociali, l’atemporalità di un mondo al di là della noia, senza passato, senza futuro, con un presente ridotto al minimo. A questo assomigliava forse un futuro dominato dal tempo libero? Nulla sarebbe mai accaduto in questo regno senza affetti, dove una deriva entropica teneva tranquilla la superficie di mille piscine. [CN 30]

In questa descrizione si ritrovano condensati i nuclei essenziali e le principali articolazioni della rete tematica di Cocaine Nights. Il primo, l’invecchiamento, emerge sin dall’inizio della citazione, anche se bisogna aggiungere una precisazione. La perdita di memoria, il riposo forzato sono tutti sintomi che esprimono un lento, inesorabile declino. Eppure, ad onor del vero, l’età media dei nuovi coloni della Costa del Sol non è poi così alta. Per comprendere questa discordanza bisogna considerare la particolare curva demografica delle future società del tempo libero, in cui «la gente continuerà a lavorare, o meglio qualcuno continuerà a lavorare, ma solo per dieci, dodici anni della propria vita, con quarant’anni, cinquant’anni di dolce far niente davanti a loro». [CN 162] Una previsione che ci appare oggi, in tempi di crisi economica, sin troppo ottimistica. Bisogna comunque riconoscere a Ballard il merito di aver sottolineato quanto una simile condizione fosse, e rimanga ad essere, ad esclusivo appannaggio di pochi benestanti. La seconda articolazione della rete tematica racchiude in sé vari elementi riconducibili al paradigma della simulazione. È innanzitutto la collocazione del punto d’inizio della vicenda a dover far riflettere: Gibilterra, vero e proprio «relitto della geopolitica», nonché ultimo avamposto dell’ormai dissolto impero britannico, «con la sua vaga aria da Inghilterra di provincia rimasta troppo tempo sotto il sole». Un microcosmo di «ufficiali di frontiera corrotti e contadini ladri», che ricorda le atmosfere dei romanzi di Graham Greene. Il varco ideale per introdurci in una dimensione deterritorializzata, dove le abitazioni degli antichi villaggi di pescatori vengono riammodernate secondo i canoni Ikea. Del paesaggio antropico precedente e del folklore lo-

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cale non rimane nulla se non in forma di citazione. E mentre negli antichi muri si aprono «i fori dell’aria condizionata e dei sistemi di sicurezza», sul tetto spunta l’immancabile antenna parabolica. Tranquille cittadine degli anni Trenta vengono così «riportate in vita e spostate al sud», creando deliziosi «villaggi a tema» [CN 7, 58, 134, 27] per la gioia di «comunità immaginate»9 che preferiscono riconoscersi nel logo di una carta di credito piuttosto che nell’obsoleta bandiera di uno stato-nazione. L’ultimo aspetto la chiusura, o meglio l’isolamento, unisce e rafforza gli altri due. In fondo l’imponente «sistema nervoso difensivo» dispiegato a protezione di queste isole di privilegio – muri di cinta cosparsi di cocci di vetro, allarmi e telecamere di sorveglianza, squadre di sicurezza privata – non è altro che la mera esternalizzazione di una «gabbia psicologica» dalle sbarre ancora più strette. [CN 143, 30] Il risultato finale di un’«intensa migrazione verso l’interno» da intendere almeno in due accezioni. Da un lato un ripiegamento volto ad escludere ogni contatto con l’esterno («la gente qui ha imparato che è un bell’aiuto poter fare a meno degli amici»); dall’altro una realtà dalla duplice apparenza, una facciata dietro cui si nasconde un limbo che non ha nulla a che fare con i viaggi e con il divertimento, «una zona pienamente accessibile a un neuroscienziato, più che a uno scrittore di viaggi». [CN 19, 67] Una serie di caratteristiche che renderà la vita difficile al nostro protagonista: Richard Prentice, reporter free lance e vero professionista nell’attraversamento delle frontiere, costretto suo malgrado a scoprire un microcosmo dove i confini si trasformano in muri e persino i sogni diventano merce di contrabbando.A dispetto dell’ambiente ostile, le sue peculiari competenze si dimostreranno più utili del previsto nell’inaspettata trasferta a Estrella de Mar. Graziosa cittadina situata su una piccola penisola una trentina di chilometri a est di Marbella, a meno di un’ora e mezza di macchina da Gibilterra. Là dove Frank, suo fratello minore, ha gestito per anni il Club Nautico, uno dei complessi sportivi più “in” della costa. Una brillante carriera spezzata all’improvviso da un crimine atroce: l’incendio della villa degli Hollinger, facoltosi e influenti membri della comunità. Cinque vitti9 Cfr. B. Anderson, Comunità immaginate: origini e fortuna dei nazionalismi, Roma, ManifestoLibri, 2000.

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me, nessun superstite. Un caso che la polizia, forte della repentina confessione di Frank e delle prove schiaccianti a suo carico, si affretterà ad archiviare con una fretta perlomeno sospetta. L’unico indagato si fa carico di tutte le colpe e sembra addirittura pentito. Cosa si potrebbe volere di più? Richard però non crede alla versione ufficiale. Decide in un lampo di fare le valige e di correre in aiuto del fratello minore: d’altronde lo ha sempre fatto, sin da quando erano piccoli. Così, con un misto di leggerezza e improvvisazione si imbarcherà in un’indagine destinata a rivelare, secondo la più tradizionale epifania edipica, una serie di verità scomode riguardo a se stesso e ai suoi presunti alleati. 1.3 Delitto e castigo L’ispettore Cabrera, giovane ufficiale spagnolo fresco di accademia, nutre scarsa fiducia nelle indagini supplementari del nostro improvvisato detective e cerca di metterlo in guardia sin dall’inizio. Certo la confessione di Frank appare insolita nelle tempistiche e nelle modalità, ma ciò non significa che ci sia un’altra verità da scoprire. Secondo il principio del rasoio di Occam la soluzione più semplice deve essere quella giusta. Ostinarsi a cercare di altre piste e altri moventi sarebbe vano o, peggio, controproducente. Di motivi ce ne sarebbero pure troppi e, se non bastasse, «possono significare tutto quello che si vuole». [CN 88] Meglio attenersi alle prove. Richard la pensa diversamente. Ascolta pazientemente le parole del fratello durante il loro unico incontro, prima che lo trasferiscano nel carcere di Zarzuella, pur non riuscendo a comunicare davvero con lui. L’accusato appare rassegnato, freddo, distaccato e sembra guardare al suo destino quasi fosse quello di un altro. Un po’ come Lo straniero di Albert Camus. Insistere è inutile, lo dice anche il suo avvocato, il señor Danvila. Il nostro eroe però non si arrende facilmente. Ritiene che l’incriminazione sia frutto di una montatura, «un errore ridicolo e madornale», «un remake di Kafka fatto nello stile di Psycho». Pensa che, in fondo, Frank stia giocando ad un altro dei suoi giochi in cui ha deciso di «recitare la parte di Joseph K». L’unica certezza, e ciò gli appare chiaro sin da subito, è che si tratta di un gioco molto serio. Senza lasciarsi scoraggiare dalle prime difficoltà il protagonista si trasferisce così a casa sua, iniziando a bazzicare il Club Nautico e a familiarizzare con Estrella de Mar:

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Quelle prospettive nascoste trasformavano Estrella de Mar in un grande enigma. Corridoi a trompe l’œil attiravano lo sguardo, ma non portavano da nessuna parte. Avrei potuto stare tutto il giorno a tessere scenari che dimostravano l’innocenza di Frank, ma nel momento in cui essi si staccavano dalle mie dita i fili si ingarbugliavano tutti. [CN 136]

Visto che in Cocaine Nights la rete dei personaggi è molto articolata Ballard preferisce presentarla nel suo insieme sin da subito, per poi approfondirla in scorci successivi. Il funerale degli Hollinger, nel quinto capitolo, è l’occasione perfetta. Ci sono proprio tutti. Paula Hamilton, ex amante del fratello, «una tipica dottoressa: all’esterno tutta calma ed efficienza, ma dentro piuttosto agitata», sempre pronta ad aiutare il nostro eroe, seppur per ragioni tutt’altro che trasparenti. Nasconde un segreto, è non è l’unica. Come Irwin Sanger, «un tipo un po’ losco», il solo a tenersi in disparte durante la cerimonia. Sanger è lo psichiatra di Bibi Jansen, accolta in casa Hollinger come protégée, ed è una delle figure più chiacchierate del paese. Gira voce che ami intrattenere relazioni poco professionali con le sue giovani pazienti; una colpa imperdonabile in un luogo dove il rispetto delle apparenze conta più dell’innocenza. In cima alla lista dei suoi avversari spicca Gunnar Andersson, imponente omone svedese e meccanico tuttofare. Andersson accusa Sanger di aver sedotto Bibi, di averla abbandonata, dopo averla messa incinta. Il bambino nel suo grembo, di cui tutti sono a conoscenza e di cui nessuno vuole parlare, è la sesta vittima dell’incendio. C’è poi Elisabeth Shand, «la donna d’affari più in vista di Estrella de Mar», «affascinante, piacevole e corrotta sino al midollo»; seguita dalla sua immancabile ombra, David Hennessy, l’amministratore del Club. Infine il personaggio chiave, uno dei collaboratori più fedeli di Frank, il suo braccio destro si potrebbe dire, anche se in pochi sono a conoscenza delle sue reali mansioni. Figlio di un diacono manesco, ex studente di antropologia e prete mancato, ex militare di stanza a Kowloon riciclatosi come istruttore di tennis: questo e altro ancora è Bobby Crawford, uomo dal passato burrascoso e dalle mille personalità10. Sarà lui ad orchestrare da dietro le quinte il procedere del10

«Non lo sa neanche Bobby Crawford, chi è. Prima di colazione lui è tre persone diverse. Ogni mattina tira fuori dall’armadio le sue personalità e decide quale indosserà quel giorno». [CN 107]

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le indagini di Richard, disseminando indizi e false piste11, solo per introdurlo meglio ai misteri di questa piccola ed energica enclave. Estrella de Mar è infatti una cittadina culturalmente vivace, sin troppo secondo alcuni, simile «alla Chelsea o al Greenwich Village degli anni Sessanta». Una «vera comunità», con le sue scuole, una prospera chiesa anglicana e un consiglio locale che si incontra al Club Nautico. La «monocultura “sole e sangria”» che addormenta i residenti degli altri pueblos sulla Costa non sembra avere cittadinanza entro queste mura. [CN 38, 32, 59] Dappertutto è un fiorire di stagioni di Harold Pinter, cori, corsi di scultura e altro ancora: basta poco però per rendersi conto che si tratta soltanto di una facciata. Dietro questo paravento di rispettabilità qualcun altro si dà da fare su cose più sostanziose: soldi, sesso, droga. In realtà tutto il paese era innervato di crimine, come una rete di cavi per la tv. Il crimine si infilava praticamente in ogni appartamento e in ogni villa, in ogni bar e in ogni nightclub, e chiunque poteva accorgersene guardando il sistema nervoso difensivo, fatto di allarmi e di telecamere di sorveglianza. […] Di notte sentivo le sirene spiegate della pattuglie di volanti che inseguivano un ladro d’auto per le strade ripide. Ogni mattina c’era almeno un proprietario di qualche boutique che trovava i cristalli della vetrina sparpagliati tra i vestiti d’alta moda. Gli spacciatori infestavano i bar e le discoteche, i tacchi a spillo delle prostitute battevano i ciottoli delle strade sopra il porto, e le telecamere dei registi di film pornografici erano in funzione in qualche camera da letto. Crimini ne venivano commessi in abbondanza, eppure Cabrera non ne sapeva niente, dal momento che gli abitanti di Estrella de Mar non li denunciavano mai alla polizia. Per ragioni tutte loro mantenevano il silenzio e continuavano a fortificare le loro case e i loro affari, come se stessero giocando ad un gioco sofisticato e pericoloso. [CN 143]

L’indagine del protagonista getterà luce sui retroscena di tale inusuale tasso di vitalità. Rivelando ad esempio che ad Estrella de Mar, come nella Firenze dei Medici o nella Londra shakespeariana, l’arte e la 11

Ecco alcuni esempi degli stimoli forniti da Crawford: l’“incidente” al campo da tennis, cap. 3; il tentativo di stupro nel parcheggio del Club Nautico, cap. 4; l’aggressione nell’appartamento di Frank, cap. 7; il furto e la distruzione di un motoscafo davanti agli occhi dei turisti, cap. 12; l’incendio della macchina di Richard, cap. 14; l’attacco di un deltaplano in stile Intrigo internazionale, cap. 15.

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violenza sembrano alimentarsi l’un l’altra. Ogni evento, per quanto traumatico, è vissuto in una cornice ludica e persino il delitto viene incluso nel novero delle arti performative. Una discreta «burocrazia del crimine» opera dietro le quinte, affidando la gestione della sicurezza a squadre di vigilanza privata e tenendo alla larga la polizia locale. Considerato lo speciale regime di omertà e di complicità qui vigente sarebbe forse più corretto parlare di “illusione di sicurezza”. Sia perché la percezione dall’esterno di ciò che sta accadendo in questa comunità è del tutto distorta e i primi a essere ingannati sono i tutori dell’ordine, soddisfatti del basso tasso di criminalità. Sia perché questa “sicurezza” per gli abitanti del luogo non è altro che la normalizzazione di un perenne stato di giocosa minaccia. Anche la violenza può diventare una routine, se incanalata lungo i giusti binari. Inutile dunque cercare di penetrare questo intreccio di segreti e complicità dall’esterno: per comprendere a fondo le regole del gioco occorre parteciparvi. Nella seconda parte del romanzo Richard, un po’ come Alice, sarà dunque costretto a passare “al di là dello specchio”. Un radicale mutamento di prospettiva dopo il quale nulla apparirà come prima. Non a caso a partire dal capitolo 14, centro esatto della vicenda, si renderà conto di non aver più nessun fretta di vedere Frank o di risolvere il caso. Non a caso inizierà a comportarsi più da “infiltrato” che da “detective”. Tale rovesciamento di priorità nel rapporto tra l’indagine sull’omicidio e la comprensione del contesto, come si vedrà in seguito, costituisce una delle chiavi interpretative della vicenda. La svolta si chiude sul lungo colloquio con Crawford12, dopo il quale Richard accetterà di dirigere l’equivalente del Club Nautico nel prossimo, ambizioso piano di investimenti di Elisabeth Shand: riportare alla vita, con la stessa ricetta già sperimentata a Estrella de Mar, la Residencia Costasol. Il ruolo di manager generale è ufficioso, niente più di una copertura. Della reale gestione si occuperà l’immancabile Hennessy, a lui basterà tenere d’occhio la situazione e assicurarsi che le provocazioni dello zelante istruttore di tennis non si spin-

12 In cui scopre, tra l’altro, che è lui il padre del figlio di Bibi Jansen. Ci troviamo nel capitolo 18.

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gano troppo oltre. La paga è buona e i generosi benefit non mancano, tra cui una lussuosa villa. Tutto sembra procedere per il meglio quando, improvvisamente, Paula Hamilton si decide a confessare cosa è successo davvero a casa degli Hollinger. Crawford non c’entra nulla. Frank era informato di quello che stava per accadere e, pur avendo giocato un ruolo minore, alla fine si è assunto la colpa, offrendosi come capro espiatorio. Ci sono dentro tutti Betty Shand, Hennessy […] la maggior parte della gente che hai visto al funerale. […] Perché [gli Hollinger] furono uccisi? Per amore di Estrella de Mar e di tutto quello che Crawford aveva fatto per noi. Per impedire che tutto cadesse a pezzi quando lui se ne fosse andato. Senza l’incendio degli Hollinger Estrella de Mar si sarebbe ripiegata su se stessa e sarebbe diventata un’altra di quelle città di decerebrati. […] Ci voleva un grande delitto, qualcosa di tremendo e spettacolare che legasse tutti, li rinchiudesse in un senso di colpa capace di far[li] andare avanti per sempre. [CN 181]

Ora stanno progettando un altro spettacolare sacrificio, un altro rito pagano per inaugurare la nuova vita della Residencia. La vittima predestinata è Sanger. Richard telefona a Cabrera. L’omicidio si consumerà la sera stessa, in coincidenza con il party d’addio organizzato per Bobby Crawford. L’incredibile successo con il nuovo Club non basta infatti a trattenere la sua incontenibile energia e lui è già pronto a esportare il suo prezioso “Verbo” altrove, a colonizzare nuove città. Probabilmente ci riuscirebbe senza problemi, se Richard non lo trovasse, riverso in una pozza di sangue, in mezzo al campo da tennis della sua villa. «Chiunque avesse ucciso Crawford, Paula Hamilton, Sanger o Andersson, aveva previsto che il rumore del lanciapalle avrebbe coperto il rumore della pistola, ed era scivolato via un istante prima del mio arrivo». [CN 292] La polizia si presenta alla porta giusto in tempo. L’incastro è perfetto e a Richard non resta che offrire generosamente i polsi alle manette. 1.4 Il Vangelo secondo Bobby Crawford Il riassunto della trama, delineata per linee generali, ci permette di notare una differenza fondamentale rispetto a Concrete Island e High Rise. Negli anni Settanta la modalità prevalente di esplorazione dell’inner space era il confronto diretto, fisico e mentale, tra l’eroe e un nuovo habitat. Il successo o il fallimento di tale sfida erano de-

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terminati dalla capacità di adattamento del singolo e, in tutto ciò, la razionalità finiva per rappresentare un ostacolo più che uno strumento di una qualche utilità. In Cocaine Nights invece l’introduzione della figura del detective pone in primo piano un’attività squisitamente ermeneutica. La prima parte è ricca di ipotesi e ricostruzioni alternative, la cui proliferazione incontrollata scatena un conflitto all’interno del racconto. Un conflitto in cui singoli agenti si fronteggiano a parole non meno che con le loro azioni concrete. I personaggi principali, insomma, nei dialoghi non si limitano a descrivere gli eventi ma tendono a fornirne un’interpretazione. L’abbondanza di simili scene e il loro ruolo strategico nel regolare il ritmo narrativo mostrano quanto il processo di verbalizzazione rivesta un ruolo di primaria importanza. Una ragione in più per dedicare un’attenzione particolare ai colloqui tra il protagonista e l’improbabile guru del Club Nautico, Bobby Crawford. Il rapporto tra i due si sviluppa lentamente, tra attrazione e repulsione. All’inizio si pongono come avversari, in una sfida non dichiarata. Crawford vuole introdurre Richard ai misteri di Estrella de Mar, prima però deve conquistarne la fiducia. Compito quanto mai ingrato, essendo in cima alla lista dei soliti sospetti. Il rapporto tra i due fratelli, segnato da incomprensioni e sensi di colpa, gli fornisce comunque molto materiale su cui lavorare. La fase preparatoria comporta una serie di azioni spettacolari, di fronte alle quali il protagonista avverte una crescente fascinazione: aggressioni, furti, incendi. Niente di particolarmente cruento, niente omicidi o altre vittime, solo danni alle proprietà. Un dettaglio che rivela la reale natura di questi gesti, il loro significato profondo, un significato “rituale”. Nel rito, come ci insegna l’antropologia, ognuno dei membri della comunità riveste un ruolo: e se tutto a Estrella de Mar finisce per apparire come un gioco o uno spettacolo, l’unico discrimine tra queste due attività è il grado di partecipazione del soggetto che nel primo caso svolge un ruolo attivo, mentre nel secondo si pone nella veste di semplice osservatore. Il passaggio dal ruolo di detective a quello dell’infiltrato insiste proprio su tale alternativa. Una volta catturata l’attenzione di Richard e dopo avergli mostrato un esempio positivo del successo della sua teoria, Crawford si affretta a confrontarlo con il suo opposto. L’occasione ideale è la prima vi-

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sita alla Residencia Costasol. Siamo appena entrati nella seconda parte del romanzo quando, finalmente, il velo di Maya si squarcia per lasciare spazio alla tanto attesa rivelazione:

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Gli appartamenti e le case erano disposti a vari livelli, formando una cascata di patios, terrazze e piscine. […] Eppure non si vedeva nessun abitante. Nessuna finestra si apriva, a catturare il sole, e tutto l’insediamento avrebbe potuto essere vuoto […]. Crawford indicò il muro di cinta merlato. “Guardala […] è una cittadina medievale e fortificata. È lo spazio fortificato di Goldfinger portato a un’intensità quasi planetaria […]. È triste ma stiamo guardando il futuro”. [CN 189]

Un paragone che riassume emblematicamente la differenza tra la Residencia ed Estrella de Mar. La seconda è stata edificata negli anni Sessanta, «accesso libero, festival di strada, turisti benvenuti». La prima invece negli anni Novanta, tutta «villette graziose, con le loro spianate che portavano alle piscine, pozze ovali azzurre di acqua immobile», progettata «all’insegna dell’ossessione per il crimine». [CN 191-192] La diversità sta non solo nella concezione urbanistica ma, soprattutto, nel tasso di vitalità. La Residencia è ciò che sarebbe continuata a essere Estrella de Mar se non fosse arrivato Bobby Crawford. Un mondo in cui nulla accade, dove un centro commerciale è il cuore culturale della comunità, la massima negazione di quella vita culturale un po’ folle che certo non manca alla sua sorella più anziana. A dare l’ultima pennellata di colore a questo quadro abbastanza agghiacciante non può mancare l’ennesimo riferimento alla mitologia dell’automa: famiglie di “robot” senza figli, mogli annoiate che si aggirano tra gli scaffali come le Stepford Wifes del nuovo millennio e mariti altrettanto annoiati sprofondati nel loro divano davanti alla tv, con lo sguardo perso nel vuoto e un «primitivo accenno di attività corticale». Il tour guidato nel diciannovesimo capitolo serve a far comprendere quanto questa non sia un’aberrazione, bensì la normalità. La naturale conseguenza di un processo in atto nell’intera civiltà occidentale, culminato nel superamento definitivo del progetto moderno della “città aperta”, «niente più ramblas, niente più isole pedonali, niente più rive sinistre e quartieri latini». [CN 197] “Ma cos’è successo, che cosa ha prodotto questo risultato?”, si chiede Richard. “Non è successo proprio nulla”, risponde serafico Bobby. In maniera analoga agli abitanti del condominio i profughi della

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Costa del Sol, per decenni, non hanno fatto altro che metter in pratica inconsapevolmente una serie di condizionamenti ideologici. L’evoluzione di Estrella de Mar ha rappresentato invece qualcosa di nuovo. Una svolta, un segno. Qui, come in Running Wild, si è verificata una presa di coscienza. Una forma di reazione, per quanto estrema, a quella «curializzazione dell’esistenza» di cui i pueblos artificiali a sud della Spagna sono solo la prosecuzione, l’ennesimo prodotto di una lunga serie. Certo rispetto ad High Rise sono cambiate le forme dell’abitare. Alla concentrazione in altezza si preferisce la dispersione orizzontale. Niente più città verticali, ora sostituite da ordinati viali di villette a schiera. Diverse realtà accomunate dallo stesso progetto – «dare la possibilità alla gente di una vita migliore» – e dal medesimo risultato: «E cosa hanno ottenuto? Morte cerebrale». [CN 196-197] Nell’era delle griglie di sicurezza e degli spazi difendibili l’iper-securizzazione sfocia dunque in uno stato di prolungato torpore, dove la prigionia finisce per confondersi con il sogno. Crawford è convito di poter ridestare le coscienze di queste indolenti comunità di emigrati, come era già riuscito a fare con i suoi commilitoni a Kowloon. La lezione della ex colonia gli ha insegnato molto, soprattutto riguardo le «piccole cospirazioni [utili] a tenere uniti gli inglesi all’estero». Da questa esperienza derivano i suoi metodi e le parole chiave del suo Verbo13: liberare, risvegliare, riportare alla vita. Stabilire chi abbia pianificato tale inesorabile deriva sociale (gli stati-nazione? i governi? qualche oscura intellighenzia?) non lo interessa. Nelle sue riflessioni estemporanee, da buon pragmatico, preferisce rispondere, allo scettico interlocutore di turno, con un’altra domanda. La stessa che si era posto Lenin, quasi un secolo prima, di fronte al minaccioso dilagare del capitalismo: «Che fare?». Sia chiaro, il nostro guru postmoderno non propone una versione aggiornata dalla rivoluzione del proletariato. Il suo messaggio è ad uso e consumo della middle class. Lontano dalle grandi speranze di emancipazione del materialismo storico, qui predomina il cupo senso di fatalismo conseguente al crollo delle ideologie e delle grandi narrazioni. Inutile pertanto ostinarsi a riciclare vecchie formule. La poli13 «Un’amalgama di best-seller allarmisti, di pillole di pensiero dell’Economist e di intuizioni ossessive». [CN 197]

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tica? Nient’altro che «il passatempo di una casta di professionisti, [incapace di] eccitare il resto della gente». La religione? Richiede «un grande sforzo di immaginazione, un coinvolgimento emotivo, atteggiamenti difficili se si è ancora intontiti per le pillole di sonnifero prese la sera prima». Rimane solo un modo per risvegliare gli zombies del nuovo millennio, per sfidarli e costringerli ad agire insieme: «Il crimine e il comportamento trasgressivo… e con questo termine intendo tutte quelle attività che non sono necessariamente illegali, ma che ci provocano, che soddisfano il nostro bisogno di emozioni forti, ci scuotono il sistema nervoso e fanno saltare le sinapsi indebolite dall’ozio e dall’inattività». [CN 162-163] Basta davvero poco per ottenere un risultato apprezzabile – piccoli furti, vandalismo gratuito – una volta spezzata la routine «tutto ciò che ti circonda, dai quadri all’argenteria, tutto quello che hai sempre dato per scontato, è inserito in un nuovo quadro morale». [CN 219] Lo stimolo però deve avere un’intensità tale da superare una spessa corazza di indifferenza e pigrizia, penetrando nelle profondità di una psiche anestetizzata. Se in Crash si ricorreva alle perversioni dell’Eros, nel nido ovattato delle «comunità fortificate» ci vuole qualcosa di ancora più forte. Là dove ogni cosa è progettata per esorcizzare la casualità e l’imprevisto occorre produrre uno shock destabilizzante. L’insicurezza infatti ci costringe a rivalutare le risorse interiori che abbiamo a disposizione; riattivando il circuito emotivo che connette la rabbia alla rivalutazione di se stessi, la comprensione che il nostro tempo è limitato alla ridefinizione delle nostre priorità. Nella visione euforica di Crawford c’è, se non una dimensione mistica14, sicuramente un’intenzione etica. La violenza, reale o simbolica, rimane sempre e comunque uno strumento («qualcosa che rompa le regole, che superi i tabù sociali» [CN 220]) finalizzato al raggiungimento di un bene morale superiore, per l’individuo e per la comunità. Un atteggiamento di cui il protagonista non manca di denunciare la pericolosa ingenuità. A prescindere da scrupoli perbenisti c’è il rischio concreto che altri si approfittino di tale strategia per finalità meno edificanti, o per profitto personale, come Elisabeth Shand. 14

Il crimine al pari del «cilicio per il cattolico fervente, scortica la pelle e acuisce la sensibilità morale». [CN 218-219]

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Il suo scetticismo viene però temperato dall’indiscutibile efficacia di una simile terapia d’urto. Alla fine anche lui arriverà a condividerne l’idea di fondo: immersi in un flusso di iper-realtà l’unica maniera per liberarci è reincantare il mondo, usando il crimine come accelerante sociale. Una convinzione radicata al punto da spingerlo a consegnarsi alla polizia, accettando la logica del capro espiatorio. Gesto incomprensibile se inquadrato nell’ottica razionalista dell’individualismo, eppure perfettamente adeguato allo spirito della tribù. Richard, come Frank prima di lui, ha assimilato gli insegnamenti del maestro oltre ogni rosea aspettativa, accettando il sacrificio personale, o se si vuole il martirio, per tramandarne il Verbo al di là della scomparsa del “messia”. In conclusione possiamo affermare che l’esplorazione dell’inner space si sviluppa, a partire da Cocaine Nights, in un’accezione diversa rispetto ai romanzi degli anni Settanta. Il focus si sposta dal singolo individuo alle diverse collettività entro cui tenta di integrarsi e, di conseguenza, la comprensione dei codici sociali assume una rilevanza inedita. Il ricorso alle convenzioni della detective story risponde perfettamente a questa esigenza, spostando l’accento dalla frammentazione del regime di “visione” all’ineguale distribuzione del “sapere narrativo”. Ma cosa c’è da “sapere” di tanto importante? Qual è il fulcro, l’oggetto del desiderio verso cui si rivolgono le attenzioni dei diversi attori sulla scena? A questo proposito è interessante sottolineare un radicale mutamento legato alle norme del genere prescelto. Nella detective story tradizionale la posta in palio è la cattura del colpevole, da cui deriva il conseguente ristabilimento dell’ordine sociale. Per dirla con un’efficace metafora, proposta da Michel Butor, l’investigatore, alla fine, “uccide” il colpevole con l’arma più nobile: la verità. Un simile modello risponde perfettamente a una delle grandi ossessioni della civilità occidentale, un’ossessione a cui Michel Foucault dava il nome di «volontà di sapere». Secondo tale modello nell’opera d’arte, come in molti altri aspetti della vita quotidiana, si cerca di raggiungere un’ideale coincidenza tra un ideale ermeneutico (la verità), un’ideale etico (la giustizia) e un ideale estetico (la bellezza). I canoni del giallo classico ripropongono la medesima triade di valori nel loro scioglimento. Nell’explicit di ogni buon giallo abbiamo infatti una conclusione logica, morale ed estetica: si scoprono il col-

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pevole e la reale dinamica degli eventi, si assicura il reo alle procedure della giustizia e, infine, la ricostruzione del detective colma il vuoto da cui prende il via l’intera narrazione. Ballard, invece, sembra procedere risolutamente nella direzione opposta. 1.5 L’Edipo postmoderno Secondo Charles Rzepka15 il genere della detective story è caratterizzato dalla presenza simultanea di tre elementi o motivi essenziali: un investigatore di qualche tipo, un mistero da risolvere (non necessariamente un crimine) e una ricerca volta a risolvere l’enigma, non sempre coronata dal successo. Limitandoci ad un’impressione generale è sicuramente possibile includere Cocaine Nights in quest’ambito. Cominciamo dal primo punto. Il protagonista, Richard Prentice, assume senza ombra di dubbio numerose funzioni delegate di norma alla figura del detective. Interroga i testimoni, vaglia gli indizi, abbozza ipotesi e cerca di verificarle: anche se non riveste questo ruolo in veste ufficiale le procedure impiegate sono identiche, specie per quanto riguarda la prima parte del romanzo. Veniamo poi al “mistero” che, nel nostro caso, assume pienamente lo status di “crimine”. Un mistero duplice, sin dall’inizio. Chi ha ucciso gli Hollinger? La domanda più ovvia che, visto il particolare coinvolgimento del protagonista, ne porta con sé un’altra, ben più spinosa: perché Frank si è assunto la responsabilità dell’orrendo delitto? Infine l’indagine. Sviluppata principalmente nei primi quattordici capitoli è scandita da momenti ben precisi e prevedibili: l’interrogatorio del colpevole, il sopralluogo sulla scena del crimine, la raccolta di indizi e testimonianze. Gli “aiutanti” in quest’impresa sono altrettanto scontati, coinvolti per ragioni affettive (P. Hamilton, legata sentimentalmente a Frank) o professionali (il señor Danvila). Fin qui, tutto bene. Se però si sottopone tale impressione ad un’indagine più approfondita le cose iniziano a complicarsi. L’individuazione del reale colpevole, o meglio, la dimostrazione dell’innocenza di Frank forniscono la motivazione iniziale al nostro eroe. Presto però appare chiaro come un simile obiettivo non sia raggiungibile pri-

15

C. Rezpka, Detective Fiction, Cambridge-Malden, Polity Press, 2010, pp. 9-10.

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ma di aver definito le circostanze in cui il crimine si è verificato, l’ambiente e la mentalità che lo hanno reso possibile, se non addirittura auspicabile. Solo fuoriuscendo dai binari canonici dell’inchiesta Richard può iniziare la vera indagine. Una ricerca le cui possibilità di successo dipendono più dalla comprensione di un meccanismo mentale che da una dimostrazione basata su un certo numero di fatti e indizi. Utilizzando una distinzione tradizionale possiamo dire che si verifica una transizione dal poliziesco investigativo classico (whodunnit: who done [did] it?) ad una categoria di giallo dalle innumerevoli sfumature psicologiche (whydunnit: why done [did] it?). Un mutamento che si riflette in una ridisposizione dei ruoli all’interno della rete attanziale: il detective si trasforma in infiltrato; l’antagonista iniziale (Crawford) diventa il miglior alleato mentre diminuisce l’importanza degli altri “aiutanti”. Ero sicuro che la soluzione dell’assassinio degli Hollinger non stesse nel coinvolgimento di Frank col produttore a riposo, [Mr. Hollinger, n.d.a.], ma piuttosto nella natura esclusiva del luogo di soggiorno in cui quest’ultimo era morto. Dovevo diventare parte di Estrella de Mar, sedermi ai suoi bar e ai suoi ristoranti, frequentare i suoi club e i suoi incontri sociali, sentire l’ombra della villa distrutta, che alla sera scendeva sulle mie spalle. Dovevo vivere nell’appartamento di Frank, dormire nel suo letto, fare la doccia nel suo bagno, insinuarmi nei suoi sogni quando questi aleggiavano sopra il cuscino nell’aria notturna, aspettando pazienti il suo ritorno. […] Sentivo già una certa complicità nel delitto. […] Venti minuti dopo, mentre lasciavo l’autostrada di Malaga e imboccavo la discesa per Estrella de Mar, sentii che stavo tornando alla mia vera casa. [CN 70-71]

L’insistenza su un insieme di dettagli decisamente triviali rende conto del grado di partecipazione (processo che riposa sulla logica dell’identificazione) richiesto dalla natura esclusiva del luogo dell’indagine. Il richiamo alla complicità indebolisce l’aura di distacco e imparzialità del detective di professione. La distinzione stessa tra le figure dell’investigatore e del criminale ne risulta sfumata. Certo idealmente il primo tende a ripercorrere lo stesso percorso del secondo in direzione inversa, procede sulle tracce collegando in precise sequenze persone, luoghi, eventi. Eppure il protagonista, in ragione del suo coinvolgimento personale, opta per una strategia alternativa. E

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qui entrano in gioco la psicologia del personaggio, le sue motivazioni nascoste. Più che responsabile per Frank, Richard si sente in colpa. È infatti questo sentimento ad averli uniti dopo la morte della madre. Il venir meno di tale legame modifica profondamente la loro relazione: non dovendo più affannarsi a proteggere l’esuberante fratello minore, il protagonista può cercare di conoscersi davvero per la prima volta. Un processo di autoconoscenza che passa attraverso un curioso sdoppiamento. Richard vuole immedesimarsi nei panni di Frank al punto da «insinuarsi» nei suoi sogni, nel suo inconscio e in quello della collettività di Estrella de Mar. L’«oggetto di valore», secondo la terminologia proppiana, si rivela dunque essere ben più inafferrabile e sfuggente rispetto ai canoni materialisti del giallo classico. Un rovesciamento psicologico che Ballard prepara accuratamente sul piano dell’enunciazione. Volendo riprendere ancora una volta un paragone con High Rise, dove lo schema di base era la triade (tre focalizzazioni, tripartizione dello spazio), possiamo dire che nella vicenda di Cocaine Nights prevale la dualità. Due fratelli (Richard e Frank), due delitti (gli Hollinger e Crawford), due località sotto diversi aspetti opposte (Estrella de Mar, la Residencia Costasol), due mentalità (quella dei sonnacchiosi pueblos e il “Verbo” rivoluzionario del guru), una vicenda quasi esattamente divisa a metà. È possibile comprendere meglio le ragioni di una simile scelta guardando allo schema generale dell’intreccio. La progressiva sovrapposizione delle due figure (dal capitolo 17 il protagonista comincia «a prendere il posto» di Frank [CN 171]) prepara infatti il rovesciamento finale, dopo il quale non solo il detective rinuncia a catturare il vero colpevole, ma ne eredita il ruolo. Solo a questo punto potrà definitivamente integrarsi nella comunità di Estrella de Mar, occupando il posto lasciato vacante dall’incarcerazione del fratello e dalla morte del guru16. Una visione in cui si delinea un’economia sociale basata sulla colpa. «Un concetto così elastico, una moneta che cambia sempre di mano e ogni volta perde un po’ del suo valore». [CN 101]

16 «Capii che Crawford mi aveva reclutato quando era uscito dall’oscurità e mi aveva afferrato alla gola. Con l’imposizione delle mani lui mi aveva designato a ricoprire il ruolo lasciato vacante da Frank [nel] nuovo ordine sociale sostenuto dal suo regime criminale». [CN 223]

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Una risoluzione paradossalmente adeguata per un giallo. Se infatti l’opera dell’investigatore tende idealmente a ricucire il tessuto sociale, a ristabilire l’“ordine”, in tal senso l’azione del protagonista si dimostra quanto mai adeguata rispetto allo scopo. Questo inaspettato successo si realizza in conformità con l’etica di Estrella de Mar, i cui valori si pongono al di fuori, o meglio al di là, dell’etica borghese. Nel romanzo poliziesco solitamente «la narrazione è una sovrapposizione di due serie temporali: i giorni dell’inchiesta che cominciano dal crimine, e i giorni del dramma, che portano ad esso»17. In Cocaine Nights una simile sovrapposizione non si realizza. Alla risoluzione dell’enigma si oppone uno schema circolare. Un ciclo si chiude solo per aprirne un altro. Possiamo credere alla ricostruzione fornita nel finale da Paula Hamilton? Forse sì, forse è solo l’ennesimo tentativo di depistaggio. La questione essenziale è un’altra e Richard lo sa bene. Alla fine, pur avendo scoperto i veri colpevoli dell’omicidio degli Hollinger, finirà in prigione, tenendo questa rivelazione per sé. Una volta compresa la mentalità di Estrella de Mar, le motivazioni particolari appaiono superflue. Appena risolto il mistero, subito se ne propone un altro: chi ha ucciso Crawford? Non lo sapremo mai. Eppure abbiamo scoperto qualcosa di più importante, ossia, perché? Perché nel nuovo regime etico e temporale offerto dalle gated communities è finalmente possibile realizzare: «il crimine perfetto, il meglio congegnato fra i crimini: [in cui] le vittime o sono consenzienti, o non sono coscienti di essere vittime». [CN 161] Alla luce di tale considerazione i motivi costituitivi dell’intreccio finiscono per assumere un valore ben diverso. Il vero “mistero” da indagare è la natura nascosta, l’inner space delle future Estrella de Mar. Una volta scoperta e accettata questa verità il detective non solo diventa complice della «burocrazia del crimine» che intendeva smantellare, ma arriva a condividerne la filosofia e, con il suo sacrificio, ne assicurerà la futura sopravvivenza.

17

T. Todorov, Teoria della prosa, Roma-Napoli, Theoria, 1989, p. 9.

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2. Super-Cannes

2.1 Lo spazio e la struttura There is progress only when the advantages of a new technology is for all.

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Henry Ford

Ci si potrebbe trovare in imbarazzo cercando di ricondurre i numerosi tratti distintivi di Super-Cannes, opera quanto mai lontana dagli standard della produzione ballardiana, ad un unico denominatore. Si potrebbe cominciare ponendo in evidenza l’insolita lunghezza del romanzo, la trama complessa e l’affollata schiera di personaggi, eppure questi fattori non incidono sulla struttura dell’opera, ne sono in qualche modo le variabili dipendenti. Ma dipendenti da cosa? Ecco il nodo del problema, il nucleo centrale attorno a cui si organizza la rete tematica, ossia la costruzione dello spazio narrativo. Sotto quest’ultimo aspetto Super-Cannes si distingue da tutti i romanzi precedenti. Dall’inizio degli anni Settanta alla fine degli Ottanta Ballard ci propone una serie di incubi claustrofobici. L’isola, il condominio, il Pangbourne Village si inseriscono nella medesima prospettiva: è difficile entrare e, una volta entrati, è praticamente impossibile uscire. Ci si trova di fronte ad una parossistica forma di isolamento, ad una vera e propria monade all’interno del paesaggio urbano. La metafora privilegiata utilizzata per descrivere questa condizione – la prigione – racchiude tutti questi aspetti. In Cocaine Nights abbiamo una configurazione più ampia e diffusa. L’orizzonte su cui si stagliano gli esempi opposti di Estrella de Mar e della Residencia Costasol è l’assolata costa meridionale della Spagna. Qui si sviluppa una prima apertura, una dialettica tra due modelli inseriti nel medesima paradigma: la gated community. Al topos della prigione se ne affianca un altro, che lo rafforza e gli fornisce un’ulteriore valenza: quella del “mondo alla rovescia”. La «comunità fortificata» è infatti lo specchio dei vizi e delle virtù della metropoli e in questo processo di sdoppiamento, di “riflessione” appunto, non si limita a restituire specularmente i tratti salienti dell’oggetto, ma li condensa in forma di caricatura.

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In Super-Cannes, infine, la dualità si trasforma in frammentazione. L’intera vicenda ruota attorno al parco tecnologico di Eden-Olympia e questo nonluogo non è altro che l’ennesimo nodo all’interno di una rete decentrata di enclaves disseminate lungo la costa nei dintorni di Cannes:Théoule,Antibes-les-Pins, Port-la-Galère. Le interconnessioni tra i diversi punti sulla mappa vengono sviluppate “a raggiera” grazie ai continui spostamenti del protagonista, ancora una volta un detective dilettante. L’immagine predominante sino al romanzo precedente evolve così in qualcosa di diverso, assumendo una serie di connotazioni aggiuntive: la “prigione” si trasforma in un vero e proprio “labirinto”. Gli elementi fondamentali dell’intreccio, pur ampliati e rivisti, ricalcano quelli già sperimentati e collaudati: un crimine senza apparente spiegazione; un outsider destinato a risolverlo; uno schema narrativo tendenzialmente circolare fondato sulla duplicità e sulla specularità. Partiamo dal secondo punto, cioè dal protagonista. Paul Sinclair, con una carriera di pilota alle spalle, si sta ancora riprendendo dall’incidente che gli è costato il brevetto e lo ha strappato al cielo per relegarlo dietro la scrivania di un poco entusiasmante lavoro in una casa editrice. La sua giovane moglie, Jane, promettente medico in carriera, ha appena ricevuto un’offerta professionale troppo allettante per essere ignorata. Sarà questo il motivo che li spingerà ad abbandonare i plumbei cieli d’Inghilterra per scoprire, al di là della Manica, la nuova Silicon Valley d’Europa. La loro destinazione è il Sud della Francia, dove li attende una gated community che, sin dal nome, promette ai suoi futuri abitanti una vita in cui la tranquillità si sposa con l’esclusività: Eden-Olympia, appunto. Ballard sfrutta ancora una volta le sue scarse ma preziose esperienze di viaggiatore per allestire il setting del romanzo. A metà degli anni Novanta, infatti, era stato ospite del prestigioso Festival di Cannes in occasione della controversa prima di Crash (1996), trasposto sul grande schermo dal regista David Cronenberg. Un’occasione che gli aveva permesso di familiarizzare con una Costa Azzurra piuttosto lontana dalle anacronistiche fantasie di seconda mano di cui si era nutrito il suo immaginario di turista. Una nuova Europa simboleggiata da realtà come Sophia-Antipolis, immenso parco tecnologico edificato a partire dagli anni Settanta nell’entroterra di Antibes, a pochi chilometri dal tratto di costa che unisce le città di Nizza e Cannes. Si-

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mili conglomerati industriali si sono formati attraverso l’aggregazione dei centri di ricerca e sviluppo delle principali aziende multinazionali, anticipando due delle politiche industriali tipiche della globalizzazione: la delocalizzazione e la concentrazione delle aree di eccellenza. Un modello che permette di esplorare un’altra declinazione del paradigma della «comunità fortificata» proponendo una versione avanzata ed estremamente raffinata delle utopie dell’età moderna, a metà tra il falansterio di Charles Fourier e il Panopticon di Jeremy Bentham. Del primo si eredita la minuziosa pianificazione di ogni aspetto della vita quotidiana, realizzata grazie all’abolizione della distinzione tra sfera pubblica e sfera privata; del secondo una forma di “controllo” discreta e diffusa, in cui la percezione di una sorveglianza invisibile ma sempre presente è sufficiente ad assicurare il rispetto dell’ordine, senza l’impiego di ulteriori tecniche coercitive. Secondo le convenzioni ballardiane un simile scenario futuristico, dove apparentemente regnano l’ordine e l’armonia, può essere esplorato e dunque conosciuto solo in seguito ad un’infrazione dello status quo. L’evento perturbante si verifica pochi mesi prima dell’arrivo della nostra coppia di giovani sposi: in una tranquilla giornata di maggio David Greenwood, ex collega ed ex amante di Jane, uccide in un raptus di follia sette dipendenti di Eden-Olympia e, dopo aver preso tre ostaggi, si barrica in un garage. Nessuno di loro ne uscirà vivo. Sin dall’inizio Paul è incuriosito da questo gesto estremo, in apparente contraddizione con la natura mite e generosa di Greenwood. Troppe inesattezze nella versione ufficiale, troppi dettagli non tornano: l’indagine nasce così, a metà tra il gioco e il passatempo, portata avanti dall’unico personaggio che non vuole e non può essere riassorbito dalla mentalità puritana e iperefficiente del parco tecnologico. L’ozio improduttivo, a cui lo costringe la convalescenza, pone il protagonista in una posizione paradossale, una sorta di limbo esistenziale basato su una doppia esclusione. Da una parte non appartiene più al mondo che si è lasciato alle spalle, dall’altra non riesce ad integrarsi con il nuovo contesto in cui, volente o nolente, si trova proiettato. Una posizione analoga a quella del suo predecessore in Cocaine Nights che ci aiuta a comprendere meglio il primo punto: il rapporto tra il crimine e l’indagine.Anche in questo caso l’estraneità del-

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l’agente principale sul piano dell’enunciato viene mitigata da una serie di mediatori, nella duplice veste di “aiutanti” e di “antagonisti”. In ciascun caso si tratta di figure complesse e ambigue, quali quelle di Frances Baring e del Dott. Penrose. Frances è un agente immobiliare, legata da ragioni sentimentali a Greenwood e piena di risentimento per coloro che lo hanno incastrato. Diventerà la principale collaboratrice di Paul, sarà la chiave per svelare il “mistero” fornendo, dopo lunghe esitazioni, una ricostruzione alternativa degli eventi in cui il carnefice si rivela essere l’ennesima vittima.Vittima delle macchinazioni di Penrose, seducente psichiatra dai metodi poco ortodossi, e della sua rete di collaboratori tra cui ricordiamo: Alain Delage, versione postmoderna dell’Übermensch; Pascal Zander, l’arrogante capo della sicurezza; e, infine, l’agente Halder, uno dei suoi dipendenti più zelanti. Ognuno di loro gioca un ruolo essenziale nel tenere al riparo da occhi indiscreti la doppia vita dell’intellighenzia di Eden-Olympia, insabbiando la verità circa le reali motivazioni della strage. Greenwood, infatti, con il suo gesto estremo intendeva denunciare l’interminabile lista di crimini commessi da gruppi di stressati executive contro la popolazione locale (pestaggi a sfondo razzista, omicidi, stupri, traffico di droga, sfruttamento della prostituzione minorile), sotto la supervisione di Penrose. Il nuovo guru deciso a sfruttare le fantasie represse dei suoi pazienti per alimentare un nuova forma di totalitarismo neocapitalista. Un’«utopia da incubo», secondo la brillante definizione di Jeannette Baxter18. Un’utopia per la cui conservazione sono necessari sempre nuovi sacrifici. Prima Greenwod, impazzito (o forse rinsavito?) per i sensi di colpa; poi Zander stesso, testimone scomodo e sempre più ingestibile, infine Frances. La morte dell’inquieta “aiutante” alla quale il protagonista, nel frattempo, si è legato in una relazione sentimentale, sembra ridestarlo dallo stato di acquiescenza in cui è sprofondato quasi senza rendersene conto. Blandito dalle interminabili prediche di Penrose anche Paul ne è rimasto affascinato, diventando l’ennesimo complice di questo delirante esperimento sociale, o meglio, trasformandosi in una sorta di compiacente voyeur. Un osservatore suggestionato dal

18

J. G. Ballard, a cura di J. Baxter, Londra, Continuum, 2008, pp. 94-106.

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microcosmo intorno a lui al punto da assistere con indifferenza all’autodistruzione della propria compagna, trascinata in un circolo vizioso di dipendenza da farmaci e fantasie sessuali dai loro inquietanti vicini, i già citati Delage. Solo dopo lunghe e ripetute esitazioni il protagonista si deciderà ad agire. Il suo piano è semplice ed esattamente uguale a quello del suo predecessore. Replicare la carneficina, poi denunciare tutto. Il romanzo si chiude su di un suv dai vetri oscurati, mentre attraversa il cancello d’ingresso. Al suo interno Paul, con un fucile a pallettoni sul sedile al suo fianco, è pronto a chiudere i conti con Eden-Olympia. Ed eccoci giunti all’ultimo punto: la circolarità dello schema narrativo. Come si può notare dalla sinossi appena abbozzata ci sono diverse affinità con il romanzo precedente, ma anche alcune significative differenze. Riguardo al primo punto si deve notare ad esempio la duplicità psicologica del protagonista. Duplicità che ritroviamo nella fascinazione per le dinamiche sociali della comunità su cui si trova ad indagare e, ancora più evidente, nel salto di qualità da “infiltrato” a “voyeur”. Alla complicità simulata tipica dall’agente sotto copertura si sostituisce un atteggiamento che svuota e sovverte le prerogative della figura dell’investigatore. Una modificazione essenziale nell’economia dell’intreccio che ne condiziona lo sviluppo e, soprattutto, lo scioglimento. Il detective subisce la seduzione di un’inafferrabile «burocrazia del crimine» ma, mentre in Cocaine Nights diventa volontariamente il capro espiatorio necessario alla sua conservazione, in Super-Cannes alla fine si ribella. Richard Prentice accetta il ruolo di vittima consenziente, come aveva fatto suo fratello prima di lui; Paul imita invece la reazione di Greenwood. In entrambi i romanzi il ruolo attanziale dell’investigatore si rovescia nel suo opposto (il criminale), nel secondo caso però una simile identificazione non è frutto di una riuscita integrazione in un inedito sistema di valori bensì di un disperato atto di contestazione di tale sistema. Uno scarto radicale dietro il quale s’intravede forse una possibilità di riscatto, una soluzione alternativa rispetto ai di solito poco ottimisti finali ballardiani. 2.2 Dentro il labirinto Il rapporto tra Eden-Olympia e il contesto circostante viene declinato attraverso una serie di confronti rivelatori. Si prenda ad esempio un

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passaggio interessante, tra i capitoli 17 (“L’ostello di La Bocca”) e 18 (“Via della notte nera”), quando il protagonista si avventura per i vicoli di La Bocca. Là dove Greenwood gestiva un ricovero dedicato alle orfane e alle «figlie abbandonante di lavoratori immigrati». L’ostello è ubicato in uno squallido sobborgo, «tra il deposito merci delle ferrovie e un ammasso di caseggiati in rovina che forni[scono] alloggio temporaneo a gruppi di operai maghrebini». [SC 149, 147] Un quadro desolante eppure incredibilmente vitale, in cui il degrado urbano viene alimentato in un circolo vizioso dalla povertà e dall’immigrazione. Qui, per la prima volta, Paul si trova violentemente proiettato al di fuori del paradiso artificiale di cui inizia ad avvertire l’ambiguo fascino. Uno scorcio molto simile lo intravederà poche ore dopo, a Cannes, attraversando Rue d’Antibes. Il tutto condito da un dettaglio non casuale: la città viene descritta al crepuscolo. I baretti erano pieni di autisti fuori servizio, spacciatori arabi e camerieri disoccupati. Giocavano a flipper, urtando il biliardino con le cosce scrollando finché non andava in tilt, con un occhio ai nuovi arrivi che scendevano dal treno da Marsiglia: aspiranti operai edili e coppie di giovani donne dall’aria risoluta che si facevano largo a spallate scavalcando quelli che erano in fila per i taxi. I protettori gironzolavano davanti all’imbocco del sottopassaggio, una cloaca che risucchiava i sogni di lussuria e di fortuna della città del Festival. […] Nell’intrico di viuzze oltre il Boulevard d’Alsace si raccoglieva un’altra congrega della notte: puttane malesi con relativi magnaccia, travestiti di Recife e Niteroi, corrieri della droga che aspettavano in macchina nelle traverse dell’Avenue St-Nicolas, matrone agghindate che tornavano sera dopo sera anche se apparentemente non trovavano mai un cliente, ragazzini adolescenti in attesa delle limousines che li avrebbero trasportati nelle ville di Super-Cannes, in quei palazzi di luce che brillavano alti sopra la notte. [SC 155-156]

Nelle due scene precedenti l’osservatore non si stupisce tanto della prossimità tra l’indigenza e sfarzo, quanto piuttosto dell’«intero universo», dell’abisso immateriale che separa questi due mondi dal microcosmo del parco tecnologico. La linea di demarcazione non potrebbe essere più netta. Da una parte la vecchia Francia, con i suoi chiaroscuri, i suoi vizi e la sua strana commistione tra la lingua nazionale e i dialetti del Nord Africa. Dall’altra la punta di diamante della Silicon Valley d’Europa, un’élite deterritorializzata accomunata

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dall’executive english e da una spiccata propensione all’autogoverno. Insomma, se da un lato i confini geografici e linguistici si confondono in una continua ibridazione, dall’altro il volontario isolamento produce una patina di uniformità, al di sotto della quale le singole differenze vengono riassorbite in un caleidoscopio globale di etnorami, mediorami e così via19. Numerosi altre coppie antitetiche rinsaldando e approfondiscono questa fondamentale contrapposizione, delineando gli assi portanti della rete tematica: ricchezza e povertà, vecchio e nuovo, essere e apparire. Lo sfondo rimane però costante. Ed è lo sfondo della Costa Azzurra, che viene “costruita” da Ballard innanzitutto come un luogo dell’immaginario collettivo anglosassone. Una densa costellazione di richiami intertestuali in cui ritroviamo nomi di architetti, pittori (Picasso ad Antibe, Matisse a Nizza, Chagall a Saint-Paul de Vence) e, soprattutto, di romanzieri. Nel loro primo dialogo Paul e Penrose si scambiano citazioni di The Unquiet Grave (Cyril Connolly, 1944): «Divoreremo chilometri al ritmo di Blue Skies, sfrecciare per la Route National Sept, i platani che fanno… Scia-Scia-Scia… Lei con la Michelin accanto a me, un foulard, annodato sui capelli…». [SC 20] Una copia di Tender is the Night, abbandonata sul sedile dell’auto di Halder, rievoca le magiche notti di Francis Scott Fitzgerald e della sua inseparabile compagna Zelda. I dintorni di Antibes invece il buen retiro di Graham Greene, uno degli autori da lui più amati. Infine una citazione quasi obbligata, all’interno di una rete tematica all’insegna della “prigionia”: la sinistra fortezza di Saint Marguerite, dove Alexandre Dumas aveva immaginato la reclusione dell’«uomo dalla maschera di ferro». [CN 138] Nonostante Ballard sia stato considerato a più riprese un autore postmoderno non gli si può certo rimproverare il gusto della citazione gratuita. L’accumulo di richiami è funzionale ad una rievocazione che non ha nulla di nostalgico: serve a far risaltare con maggiore vividezza il contrasto tra “vecchio” e “nuovo”. Tutto questo clima vagamente bohèmienne appartiene ormai al passato e i due protagonisti, da accorti british, se ne accorgono subito, sin dal loro arrivo. Appena varcato il confine li accoglie «una nuova Francia fatta da

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Cfr. A. Appadurai, Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001.

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treni monorotaia ad alta velocità e di Mc Donald’s», piuttosto diversa dalle comuni aspettative.Arrivati sulla costa lo shock è ancora maggiore. Dove sono finiti i «casinò e dagli alberghi belle époque dei tempi andati»? Andati, appunto, come la «la Francia anni Sessanta, con le soste ai Routier per pranzare, gli slogan contro la polizia e la Citroën DS». La disillusione, legata ai ricordi e alle loro letture d’infanzia, sarà mitigata solo in parte dallo scoprire le meraviglie del «sistema di parchi scientifici e autostrade che dominano la piana del Var». [SC 5, 11] Un panorama entusiasmante e ricco di prospettive per Jane, meno per la carriera di editore di Paul, pronto a diventare un promettente detective a tempo perso. Altro nodo essenziale della rete tematica, strettamente connesso all’evocazione della Riviera come luogo dell’immaginario, è il contrasto tra “essere” e “apparire”. Non potrebbe essere altrimenti, visto che ci troviamo a due passi dalla mecca del cinema europeo: Cannes, la città del Festival. Il cinema, più di ogni altro media, sembra assumere nei romanzi ballardiani un ruolo predominante nel plasmare le fantasmagorie della società dello spettacolo, sfruttando abilmente i desideri inconsci e repressi dal pubblico. Il che rivela un’omologia con la propaganda di Eden-Olympia, una comunità dal doppio volto e dalla doppia morale e, di conseguenza, il luogo della mistificazione per eccellenza. La profonda affinità di queste due realtà viene ribadita a più riprese attraverso una serie di motivi che richiamano i campi semantici della simulazione (set, attori, comparse, copione) e dell’irrealtà (sogno, fantasia, illusione). Inglobando simili connotazioni il parco tecnologico viene assimiliato, per analogia, ad un costrutto finzionale la cui esplorazione richiede lo sviluppo di una certa “competenza”. La sinergia tra i vari leitmotiv permette quindi di proiettare sullo schema dell’indagine una serie di connotazioni aggiuntive e di rendere conto dell’ambigua natura dell’agente principale sul piano dell’enunciato: investigatore e voyeur, attore e spettatore nello stesso tempo. Mai come in questo caso la crisi dello statuto della realtà spingerà il nostro protagonista a rivedere i codici soggiacenti ad ogni atto di interpretazione, in particolare le norme di comportamento (codice deontico) e le tavole di valori (codice assiologico) condivise. Ancora più interessante è la strategia retorica attraverso la quale Ballard collega paradigmi semantici usualmente incompatibili, effet-

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tuando la sostituzione di un frame discorsivo con un altro. È una tecnica che l’autore britannico conosce bene, avendola già sperimentata con successo nell’inusuale “Assassinio di John Fitzgerald Kennedy considerato come una corsa automobilistica in discesa” (The Atrocity Exhibition, 1970), spudoratamente ispirato a “La crocifissione considerata come una gara automobilistica in salita” di Alfred Jarry. Un brillante esempio di tale procedimento lo possiamo ritrovare nella descrizione della Croisette del capitolo 20: Il glamour attraversava Cannes a dieci chilometri all’ora, troppo in fretta per soddisfare la loro curiosità, troppo lentamente per alimentare i loro sogni. […] Gli elicotteri sorvolavano il promontorio di Palm Beach in attesa di atterrare all’eliporto, come mezzi da combattimento paramilitari pronti a mitragliare la folla sul lungomare. I passeggeri [delle limousines] vestiti di bianco e col viso schermato da enormi occhiali da sole, guardavano giù con l’aria gangsteristica di generali di una repubblica centroamericana, intenti a contemplare un’insurrezione popolare. […] Per due settimane la Croisette e i suoi grandi hotel si trasformavano volontariamente in una facciata, il più grande apparato scenico del mondo. Senza rendersene conto, le orde di gente che sciamavano sotto le palme erano comparse ingaggiate per interpretare i loro ruoli tradizionali. Mentre applaudivano e fischiavano, erano molto più sicuri di sé degli attori che, quando scendevano dalle limousines, sembravano a disagio, come criminali celebri trasportati al Palais per un maxiprocesso, una Norimberga culturale su vasta scala corredata con i filmati delle atrocità di cui erano responsabili. [SC 265-266]

La progressione narrativa in cui culmina l’ultima immagine è inesorabile e ben orchestrata. Bastano poche, essenziali pennellate per delineare lo sfondo (la ressa, gli elicotteri, la sfilata delle celebrità) e subito si produce un’interferenza tra due campi semantici: lo spettacolo e la guerra. Ballard, infatti, non si limita a sovrapporre i due paradigmi, ma cerca piuttosto di stabilire una serie di connessioni inedite tra esperienze almeno in teoria molto lontane tra loro. Ecco allora la sfilata trasformarsi in un’arrogante parata di generali usciti dai peggiori film di genere, la folla di fan in una popolazione di rivoltosi vittima di una sanguinosa repressione. Le persone “reali” diventano comparse perfettamente adeguate al ruolo, mentre le celebrities perdono la loro impeccabile aura di celluloide. Il farsesco tribunale che chiude la lunga catena di metafore fa deflagrare questa

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serie di paradossi in un’inversione delle gerarchie sociali prestabilite. Il popolino dà l’assalto finale a Versailles e decapita i re e le regine del pantheon cinematografico, trasformato per l’occasione in una versione grandguignolesca del processo ai gerarchi nazisti. L’illusione e la realtà si scambiano i ruoli, in un carnevalesco “mondo alla rovescia”. Il contrasto tra queste due modalità ontologiche viene ulteriormente ribadito attraverso una serie di riferimenti ai due capolavori di Lewis Carroll: Alice in Wonderland (1865) e Throught The Looking Glass (1871). L’insistenza di queste citazioni allestisce all’interno della rete tematica un continuo dialogo con l’ipotesto, usato, specie dal protagonista, come schema concettuale e punto di riferimento per comprendere ciò che sta “oltre lo specchio”. Il parallelo si regge ovviamente sull’effetto di straniamento che la progressiva scoperta del lato oscuro del parco tecnologico produce sul protagonista. In quest’ottica Paul si assegna dunque il ruolo di Alice (pedante e iper-razionale come ogni degno investigatore), un’Alice smarrita nella corte un po’ folle della Regina di Cuori. Scoprire il “mistero” che avvolge questa comunità significa comprendere meglio il mondo in cui vive, e comprendere meglio anche se stesso. I tre aspetti sono strettamente connessi, e anche questa è una costante nelle detective novels metafisiche. 2.3 Oltre lo specchio E. Menville: What about the neighbors? You don’t think they… M. Ashton: Neighbors? In 12 years in Los Angeles, have you ever seen a neighbor?? Robert Zemeckis - Death Becomes Her (1997)

Cosa si nasconde dunque, dietro lo specchio? Per rispondere a questa domanda è possibile riprendere la coppia antitetica essere/apparire, considerandola da un’altra angolazione. In tal caso non indagheremo gli effetti di senso prodotti dall’ibridazione di diversi campi semantici, quanto piuttosto la relazione tra lo spazio fisico e lo «spazio interiore». Il punto di partenza sarà un’immagine, nel senso letterale del termine. Un segno rivelatore di come la nostra comu-

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nità si presenta al mondo esterno, attraverso il codice a lei più congeniale, la pubblicità:

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Il lussuoso dépliant mostrava trionfante una visione di vetro e titanio che arrivava dritta dai tavoli da disegno di Richard Neutra e Frank Gehry, addolcita però da una serie di parchi progettati da architetti paesaggisti e da alcuni laghi artificiali, una versione umana della città radiosa di Le Corbusier. [CN 11]

Per l’ennesima volta Ballard dimostra la sua predilezione per spazi geometrizzanti, eredi della tradizione del razionalismo e del funzionalismo, ovvero gli spazi ideali in cui il capitalismo avanzato costruisce le sue cattedrali. Rispetto alla scala, invero modesta, delle ambientazioni precedenti (un’“isola”, un grattacielo, un resort) la cifra dominante in Super-Cannes è senza dubbio quella della monumentalità, in pieno accordo con i gusti delle archistar citate poco sopra. Il futuro era una seconda Eden-Olympia, grande quasi il doppio dell’originale, costruita dalla stessa combinazione di società multinazionali, laboratori di ricerca e società di consulenza finanziaria. La Hyundai, la BP Amoco, la Motorola e la Unilever si erano già assicurate i loro lotti, attraverso contatti di leasing a lungo termine che di fatto finanziavano tutto il progetto. L’impresa d’appalto era già al lavoro, e stava abbattendo i lecci e i pini marittimi che erano lì dal tempo dei romani, e che erano sopravvissuti agli incendi dei boschi e alle invasioni militari. La natura, come prescriveva il nuovo millennio, cedeva per l’ultima volta il passo al paradiso fiscale e al parcheggio aziendale. [CN 340]

A confronto la Metropolis di Fritz Lang (1921) appare uno sbiadito ricordo del passato. Osservazione non priva di acume e tutt’altro che ironica, in cui Ballard misura la notevole distanza che ci separa dal capostipite di molti degli incubi urbani del Novecento. Il parco tecnologico, infatti, non si regge sullo sfruttamento delle masse, della forza-lavoro fisica come nell’era d’oro dell’industrialismo pesante. Cambiano le materie prime e anche la tipologia di lavoratori, cambia la natura dei rapporti di produzione e sfruttamento. Eden-Olympia è quindi apparentemente meno oppressiva della città-macchina di Lang, ma solo perché il controllo dall’esterno è stato sostituito dall’interiorizzazione di una ben più ferrea disciplina. In tale ottica

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quelli che potrebbero apparire come difetti di progettazione – l’indebolimento dei legami sociali e della reciproca solidarietà, lo svuotamento della sfera pubblica – si dimostrano segnali incoraggianti. Diversamente dai “barbari” all’esterno che si trovano ad «improvvisare i loro ruoli, ignari che il set si è spostato da un’altra parte» [SC 94], i civilizzatissimi residenti del nuovo paradiso in terra stanno scrivendo il loro copione, la loro storia e le loro regole. Non stupisce dunque che, rispetto al modello della comunità tradizionale, l’architettura sociale qui venga definita per negazione e sottrazione. «Non ci sono circoli ricreativi né scuole serali. […] Nessuna opera pia, né feste in chiesa. E nemmeno gala di beneficenza. […] Niente polizia e nessun sistema legale. […] Nessuna responsabilità democratica». «Nessuna attività ricreativa, nessuna vita di comunità, nessuna riunione sociale» e, soprattutto, niente bambini. Nonostante l’elevato tasso d’intelligenza creativa e di autocontrollo questi paradisi artificiali si dimostrano praticamente sterili, incapaci di assicurare la continuazione della specie. Mancano «energie da sprecare per la rabbia, la gelosia, il pregiudizio razziale», sono assenti le «tensioni sociali che ci fanno riconoscere la forza o la debolezza degli altri» e non c’è «nessun tipo di interazione, nessuno di quegli scambi emotivi che ci danno il senso di chi siamo». [SC 94, 245] Superato il giro di boa del nuovo millennio siamo insomma andati ben al di là del progetto di Estrella de Mar. Dalle «società del tempo libero» siamo passati alle «società del lavoro». Come osserva Penrose: «Per chi ha talento e ambizione il futuro significa lavoro, non divertimento». «Il sogno di una società del tempo libero è stata la grande illusione del ventesimo secolo. Il vero svago è il lavoro». Un campo semantico che arriva ad includere, a riassorbire tutti gli altri. Si noti, per inciso, come il primo termine non si limiti a sostituire il secondo, ma ne diventi un equivalente: «il lavoro è il massimo del divertimento, e il divertimento è il massimo del lavoro». Una sovrapposizione perfetta, riconfermata sia sul piano temporale sia su quello spaziale: «Prima di tutto, bisogna che in ufficio ci si senta a casa… anzi, che ci si senta a casa solo lì». [SC 23] Rispetto al generoso entusiasmo di Bobby Crawford ci troviamo di fronte a ben più accorti demiurghi sociali. Demiurghi come Penrose, a cui non mancano le credenziali professionali per teorizzare un nuovo stadio dell’evoluzione in cui l’essere umano possa finalmen-

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te emanciparsi dal concetto di moralità e raggiungere la sua piena realizzazione. Come se anche l’uomo non fosse altro che una macchina recalcitrante, un prototipo da perfezionare20. D’altronde non esistono condizioni più favorevoli per raggiungere il traguardo a lungo agognato. Secondo un’inflessibile logica di privatizzazione le responsabilità, che nella modernità venivano delegate allo stato-nazione, passano definitivamente nelle mani delle corporations: Un gigante delle multinazionali come la Fuji o la General Motors stabilisce la propria moralità. La società definisce le regole che decretano il comportamento da tenere con la consorte, le scuole che frequenteranno i figli, i limiti sensati di un investimento azionario. La banca decide la portata del mutuo che un individuo è in grado di pagare, il tipo di assicurazione contro le malattie. Non ci sono più decisioni morali da prendere […] Possiamo fare affidamento su di loro e questo ci lascia liberi di perseguire altri aspetti della nostra vita. Abbiamo finalmente ottenuto la vera libertà perché ci siamo liberati della morale. [SC 96]

È di certo una visione estrema e assolutista, che riduce l’etica ad una pura estensione funzionale, ad una “protesi”, nel senso che Marshall McLuhan attribuiva a questo termine: «L’ordine morale è programmato nella loro vita assieme ai limiti di velocità e ai sistemi di sicurezza». [SC 245] Persino la libertà finisce per rientrare nella sfera economica21. Secondo il nostro guru è giunto il tempo di dedicarsi a cose più interessanti. «Puoi esplorare i tuoi sogni nascosti, gli angoli segreti del tuo cuore. Puoi seguire la tua immaginazione ovunque ti porti». I misteriosi «giochi» a cui alludono quasi tutti, senza mai rivelarne la na-

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Con un certo entusiasmo Jane illustra a Paul il progetto di “sanità totalitaria” a cui sta contribuendo: «“Ogni mattina alzandosi la gente si collegherà alla clinica e inserirà i dati sulla propria salute: frequenza cardiaca, pressione del sangue, peso eccetera. Una pressione del dito su un piccolo scanner e i nostri computer analizzeranno tutto: enzimi epatici, colesterolo, marker della prostata, insomma tutto quanto”. “Anche i livelli di alcool e droga?”.“Tutto. È un’idea così totalitaria che solo Eden-Olympia poteva concepirla senza nemmeno rendersi conto di quel che significa. Ma potrebbe anche funzionare”». [CN 69-70] 21 «Il mercato sostituisce la politica nel conferire senso allo spazio che diventa una variabile dipendente del processo economico». M. Ilardi, Il tramonto dei nonluoghi: fronti e frontiere dello spazio metropolitano, Roma, Meltemi, 2007, p. 101.

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tura («Giochi d’altro genere, […] giochi per notti un po’ speciali»), fanno parte di questa esplorazione. «Il lavoro è così interessante, il divertimento invece è un impegno. Richiede qualità speciali e offre gratificazioni speciali». [SC 97, 114] Il mostro generato dal “sonno” della Ragione non può qui sfuggire al controllo come in High Rise. Nel condominio le tensioni represse erano il risultato di tenui sfumature di status all’interno della middle class, tanto era bastato per risvegliare un conflitto autodistruttivo. Ad Eden-Olympia la rigida selezione all’ingresso neutralizza questo pericolo e realizza uno degli obiettivi più caratteristici dell’utopia: l’autosufficienza. Almeno così vorrebbe Penrose. Greenwood è solo un incidente di percorso, una variabile impazzita. L’unica reazione sensata è minimizzare, negare, dimenticare. In fondo «i ricchi sono perfettamente in grado di gestire il comportamento psicopatico» e, al posto di dissimulare le differenze sociali, queste vanno ribadite dalla separazione rispetto al contesto, dall’esclusività. In altre parole la massima omogeneità dei residenti del parco tecnologico permette loro di concepirsi come l’avanguardia di un nuovo ordine globale. Un ordine tanto forte da consentire il libero sviluppo di comportamenti perversi, una volta ritenuti a torto potenzialmente pericolosi: «Le classi medie hanno governato il mondo a partire dalla Rivoluzione francese, ma adesso sono il nuovo proletariato.Adesso è tempo che sia una nuova élite a stabilire l’ordine del giorno». [SC 97-98] La retorica del guru agisce costantemente su un doppio binario: psicologico e politico. Differenza fondamentale rispetto ai suoi predecessori, in particolare rispetto a Bobby Crawford, meno ferrato in materia, più intuitivo nelle sue scoperte e decisamente propenso a confondere i due piani. Finalmente, dopo architetti ed ex istruttori di tennis, abbiamo un vero e proprio professionista della psiche.22 La sua 22

La ricorrenza di personaggi legati alla professione medica nell’opera di Ballard è quanto mai significativa, almeno quanto il loro ambiguo statuto morale. Si tratta infatti di figure spesso coincidenti con i ruoli dell’“aiutante” e del “guru”, dedite ad iniziare il protagonista ad una condotta sociale trasgressiva, sorretta da una visione del mondo alternativa e perturbante. A tal proposito si può ricordare un dettaglio interessante della sua biografia. A breve distanza dal rientro in Inghilterra, dovendo scegliere verso quale direzione orientare la propria formazione universitaria, l’autore inglese fu spinto dalla famiglia a frequentare la facoltà di Medicina del prestigioso King’s College. Ballard intraprese gli studi con scarsa convinzione, dopo soli due anni di corso (dal 1949 al 1951) abbandonò Medicina in favore di Lettere. Ciononostante questa esperienza sembra aver

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teoria, il suo discorso può dunque svilupparsi scientificamente, entro il quadro prestabilito di una “disciplina” (nel senso foucaultiano del termine) legittimata dalle istituzioni e dalla società. Da qui derivano il fascino e la persuasione ancora maggiore che un simile approccio può esercitare. Il nostro guru ne è perfettamente consapevole e si premura di allestire la sua narrazione secondo una metodologia prestabilita: diagnosi, somministrazione della cura, valutazione degli effetti, implementazione di eventuali correzioni o migliorie. Il primo passo richiede tempo e numerosi tentativi abortiti. Penrose infatti non arriva subito alla soluzione, procede per tentativi ed errori, scartando prima tutti gli approcci tradizionali al problema. Al suo arrivo il parco tecnologico era sull’orlo di una crisi di cui nessuno riusciva a individuare le cause né, tantomeno, una possibile soluzione. Dietro un paravento di apparente normalità i livelli di resistenza psico-fisica erano al minimo. La popolazione era perseguitata da fastidiosi disagi fisici e da un diffuso senso di stress e stanchezza. Isolare un unico fattore, ricondurre la malattia al corpo o alla mente, non portava da nessuna parte perché, in fondo, nessuno riusciva ad avere una visione olistica e a cogliere l’elemento più importante: «Portata all’estremo una comunità senza contatti con l’esterno è un essere umano con la mente chiusa. Stiamo allevando una nuova razza di sradicati, esuli interni senza legami umani ma con un potere enorme». E questa, per di più, è «la nuova classe che controlla il pianeta». [SC 246-247] Le conseguenze vanno dunque valutate non su un piano squisitamente clinico, bensì anche su quello della praxis. La vera intuizione di Penrose in fondo sta tutta qui, nella connessione tra queste due dimensioni. Un salto di qualità a cui contribuisce in maniera non indifferente la legittimazione di questa nuova filosofia all’interno di una duplice prospettiva: biologica23 e storica. lasciato una traccia indelebile nella sua personalità e nella sua immaginazione. Particolarmente rilevanti da questo punto di vista tanto il suo precoce interesse per la psicoanalisi e l’esplorazione dell’inconscio, quanto l’aspetto più “pratico”, ossia le sue memorabili dissezioni presso l’Addenbrooke’s Hospital, più volte ricordate negli scritti autobiografici come una sorta di iniziazione ad una nuova visione del corpo umano. Ballard amava ironizzare su questa esperienza ripetendo che, se mai fosse riuscito a diventare uno psichiatra, avrebbe avuto in cura un unico paziente: se stesso. 23 Sviluppando una visione deformata del processo evolutivo che si vorrebbe regolare, o almeno far procedere, secondo lo stesso “passo” di un altro grande mito ereditato dal XIX secolo: il Progresso.

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Soffermiamoci un attimo sul secondo punto. «Se fai a meno della morale, le decisioni importanti diventano una questione di estetica. Entri in un mondo adolescente, dove ti definisci in base al tipo di scarpe da ginnastica che porti». Il rischio per una società ipersecurizzata, come sosteneva già Crawford, è l’atrofia della sensibilità morale, seguita da un inaridimento delle risorse attivate da potenti leve emotive quali la colpa o la paura. Presto la percezione del male si affievolisce a tal punto da non avvertire le possibili minacce esterne o, al contrario, creandone di nuove e illusorie. Come quando, alla fine di High Rise, Robert Laing immaginava l’imminente confronto con un inafferrabile alter ego, pronto ad accoglierlo una volta rimasto da solo nel condominio: «È sempre un’indicazione di stress interno, l’ossessione di un intruso invisibile nella fortezza… una proiezione di sé, il fratello silenzioso clonato dall’inconscio». [SC 247] Si potrebbe liquidare il tutto nei termini di una banale paranoia, eppure la lungimiranza del nostro guru va ben oltre. Il rischio non è individuale, bensì collettivo. Un gregge spaventato è ancora più docile e, quando i muri e le telecamere non bastano a delimitare uno spazio difendibile, allora si crea il terreno favorevole per il prossimo «messia con qualche risentimento», ansioso di proporre rimedi ancora più estremi. Le gated communities, insomma, sono gli incubatori ideali per i totalitarismi di domani. «Gli Hitler e i Pol Pot del futuro non salteranno fuori dal deserto. Usciranno tranquillamente dai centri commerciali e dai parchi tecnologici delle imprese». [SC 246] Qui l’ambiguità di Penrose raggiunge il culmine dato che, pur riconoscendo il rischio di una deriva politicamente estremista, non ne rinnega i presupposti, primo tra tutti la creazione di una società di volenterosi carnefici e vittime consenzienti, ispirata esplicitamente a regimi «sadiani» quali il nazismo e lo stalinismo. Di questi sembra conservare il fascino insito per la gerarchia, lo stimolo costante di «fantasie piene di desideri di violenza repressi»; scartando però altre implicazioni ideologiche o servendosene in maniera strumentale. Nel nostro caso Penrose non è razzista eppure sa come sfruttare a proprio vantaggio il razzismo inconfessato delle élite. Un approccio freudiano da manuale, almeno nella metodologia. Se infatti la psicanalisi classica inizia dal sogno, dalla «psicologia del profondo», quali demoni interiori sono più appropriati se non la violenza e la rabbia? «Il sadismo e il sogno della sofferenza» non appartene-

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vano d’altronde ai nostri antenati primati? Una logica certo dissennata, ma pur sempre una “logica” costruita grazie ad un sapiente mix di evoluzionismo darwiniano, suggestioni psicanalitiche, letture storiche parziali e devianti. Dopo la scoperta quasi casuale si tratta solo di implementare la terapia, di verificare la teoria sul campo. I risultati appaiono sin da subito estremamente soddisfacenti, sia sul piano strettamente produttivo sia, e questo pare essere il reale obiettivo del nostro «Nietzsche da spiaggia», sul piano dell’ingegneria sociale: Qui a Eden-Olympia stiamo avviando un progetto per una comunità infinitamente più illuminata. Una psicopatia controllata è un modo per risocializzare le persone, tribalizzandole in gruppi di sostegno reciproco. […] La psicopatia è l’unico motore abbastanza potente da accendere la nostra immaginazione, da guidare l’arte, la scienza e l’industria mondiale. [SC 254]

Penrose rifiuta il sogno anarchico di una libertà illimitata. Per lui tale ideale sarebbe irraggiungibile e, in definitiva, privo di senso. La libertà si definisce solo in relazione ad una serie di obblighi, lasciata a se stessa produrrebbe l’autodistruzione di qualsiasi forma di vita associata. Al contrario «una psicopatia sensata e volontaria è l’unica strada per imporre un ordine morale comune». [SC 254] La sua strategia non è dunque quella di rovesciare lo status quo sistema (il vero rivoluzionario sarà il suo ideale successore: Richard Gould) bensì di migliorarlo. La sua azione non si pone al di fuori del sistema, lavora discretamente ai margini, sulle sue avanguardie, progettando le élite del futuro. Una classe destinata a sovvertire alla base la retorica del socialismo, accettando l’alienazione non solo come un dato di fatto ma, addirittura, come una benedizione. Rispetto alla grande narrazione marxista, in cui il futuro serbava la promessa dell’emancipazione del proletariato, qui il domani appare identico all’oggi, solo più tecnologico ed efficiente. Non c’è una scelta tra due ideologie anzi, secondo il fatalismo storico di Penrose, in fondo non esiste più nessuna scelta. Occorre dunque uscire dai binari morali prestabiliti ed assaporare il pericoloso, inebriante gusto della libertà, libertà dalle costrizioni sociali, libertà dall’autorità e dagli altri e, infine, libertà anche da se stessi. L’ultimo passaggio sottolinea chiaramente come nell’epoca moderna i tabù, le regole e le costrizioni sia-

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no state progressivamente interiorizzate, trasformando il Super-Io in un censore ben più severo e implacabile di qualunque Grande Fratello. Un simile progetto per la creazione di un uomo nuovo si realizza emblematicamente nella coppia dei vicini di Paul, i Delage. Alain, il marito, incarna il prototipo del perfetto cittadino di Eden-Olympia: un contabile represso che parla un «inglese senza accento» e sogna «organismi con pneumatici radiali, sogni forniti di air bag». La sua compagna, Simone, appare invece come una maschera che non nasconde più niente, un volto «insondabile come i laghi artificiali». Privi di empatia, senza rimorsi, senza emozioni. Una perfetta coppia di automi che si avvicinano «ai porti franchi del sesso come turisti […] in un bizzarro souk, esplorando ogni vicolo che potesse offrire una cucina allettante». Viaggiatori sofisticati a cui «anche la carne umana non avrebbe ispirato altro che una domanda distratta sulla ricetta». [SC 104, 307] I coniugi Delage, nel loro voyeurismo e nel loro assoluto distacco, mostrano la meta finale, la “sanità” a cui conduce la terapia di Penrose. La violenza a suo avviso, pur essendo un strumento «spettacolare ed esaltante», è troppo destabilizzante, richiede prossimità e coinvolgimento diretto. Si può ricorrere ad essa nelle fasi iniziali del trattamento, solo a patto di considerarla come un utile diversivo. Il vero terreno di caccia della psicopatia è un altro, e lo è sempre stato: il sesso. «Un atto sessuale perverso può liberare l’Io visionario persino dell’anima più ottusa. La società dei consumi è avida di tutto ciò che è deviante ed inaspettato. Cos’altro può indirizzare i bizzarri mutamenti del panorama del divertimento che ci inducono a non smetterla di comprare?»24. La maggior parte dei residenti di Eden-Olympia però non è ancora pronta per questa rivelazione e deve essere inquadrata nei cosiddetti «gruppi terapeutici». Un ironico eufemismo per le squadracce di picchiatori coordinate dal nostro zelante psichiatra. A loro sono assegnati precisi obiettivi e determinate regole, prima fra tutte: la violenza deve essere sempre e comunque rivolta e praticata all’esterno dei

24 Un’osservazione importante, quasi a voler sottolineare una continuità sotterranea con Crash. Una continuità di pensiero che si dipana attraverso vari romanzi e varie riprese, sin dalla scoperta dell’inner space, a metà degli anni Settanta. [SC 254]

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confini del parco tecnologico. Un simile divieto s’inserisce in un processo di normalizzazione della psicopatia che rielabora alcune strategie già impiegate dai principali sistemi totalitari del Novecento. 2.4 I nipotini del Dott. Stranamore In un’interessante analisi comparativa tra Cocaine Nights e SuperCannes Jeannette Baxter evidenzia un elemento inedito nell’impalcatura ideologica fornita dal Dott. Penrose ai suoi volenterosi discepoli: il razzismo. Elemento chiave nella propaganda nazista, lo ritroviamo qui in una versione inedita. L’élite di executive non viene selezionata in base alla provenienza geografica bensì al talento eppure, guardando alla piramide sociale che ne regola i rapporti interni, possiamo notare una rigida separazione tra il capitale intellettuale e la forza-lavoro manuale. Nel primo caso le questioni etniche non hanno nessun peso, mentre nel secondo si manifestano evidenti forme di discriminazione. Lo stesso dicasi per la scelta dei bersagli da parte dei gruppi terapeutici, spesso rivolta verso le zone urbane più degradate e le fasce di popolazione ai margini della povertà e della delinquenza. In questo la Baxter coglie sicuramente un dato interessante, che riflette la speculare separazione tra «ghetti per ricchi» e «ghetti per poveri» evidenziata da Zygmunt Bauman nel suo Homo consumens25. Tale lettura tende però a minimizzare un elemento chiave. Come nota Paul, l’altro obiettivo privilegiato dei famigerati ratissages non sono le fasce di popolazione marginalizzate, e quindi le meno protette dalle autorità locali, bensì un’entità ben più sfuggente e inafferrabile – il denaro – concretizzato in motivi quali: lussuosi yatch dati alle fiamme, eleganti set di moda vandalizzati e saccheggiati. La distruzione di simili status symbol non rientra in nessun modo nel quadro esplicativo fornito dalla studiosa anglosassone. Se davvero gli abitanti di Eden-Olympia si considerano i nuovi «signori del castello», pronti a vessare la «plebe» fuori dalle loro invalicabili mura per puro sfizio, come è possibile rendere conto di questa loro particolare avversione per i simboli del potere e della ricchezza in cui loro stessi dovrebbero riconoscersi? La questione è spinosa e mette 25

Cfr. Z. Bauman, Homo consumes. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Trento, Edizioni Erickson, 2007.

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in crisi la coerenza dell’ideologia a sfondo razzista sfruttata da Penrose per il suo esperimento. Si tratta infatti di un risultato imprevisto, di una nuova, inaspettata scoperta di cui bisogna rendere conto, cercando di reinserirla nel quadro esplicativo proposto. L’analisi della Baxter prende spunto da un saggio di Georges Bataille dedicato a La struttura psicologica del fascismo26, in cui si rileva come «l’omogeneità sociale, [sia] fondata sulle caratteristiche dominanti di dovere, disciplina e obbedienza, e [sia] mantenuta attraverso l’esclusione delle energie violente o eccessive»27. Eden-Olympia è la comunità più omogenea che abbiamo avuto modo di incontrare sinora ed effettivamente il suo equilibrio psicologico dipende da una costante proiezione all’esterno delle pulsioni potenzialmente pericolose o disturbanti per il corpo sociale. I ratissages si svolgono sempre al di fuori dei confini del parco tecnologico e quando gli addetti alla sicurezza vi trovano degli intrusi (come nel settimo capitolo, dove Paul assiste al pestaggio di un venditore ambulante di origine senegalese) li brutalizzano per poi allontanarli immediatamente. Nulla può o deve turbare la calma irreale di questo paradiso artificiale. La presenza dell’Altro, quella della Natura, insomma di ogni elemento potenzialmente portatore di disordine, casualità o imprevedibilità, deve essere isolato, neutralizzato ed espulso28. Ciò permette di preservare le energie necessarie alla produzione, di non disperderle e, anzi, di accrescerle. Il fatto che le loro cameriere e i loro giardinieri possano provenire dall’Africa come dai paesi dell’Est non turba in nessun modo i «signori del castello», solo perché costoro sanno stare «al loro posto»29. Penrose stesso sottolinea come la politica multiculturale nelle assunzioni di manodopera poco qualificata da parte delle risorse umane di Eden-Olympia, abbia portato notevoli benefici economici alla

26

Cfr. G. Bataille, Scritti sul fascismo (1933-1934), Milano, Mimesis, 2010, pp. 65-95. J. G. Ballard, a cura di J. Baxter, cit., p. 103. 28 «Per mantenere l’omogeneità sociale occorre disperdere le energie eterogenee, trattandole come materiali di scarto». [«Heterogeneous waste energies must be dispelled if social omogeneity is to be mantained»]. Ivi, p. 104. 29 «Passavano le giornate a lucidare a specchio i parquet, a togliere gli ultimi cristalli bianchi dalle tovaglie macchiate, a buttare via i preservativi che intasavano i sifoni del water, penetrando ovunque tranne che nei sogni dei loro datori di lavoro». [SC 173] 27

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popolosa comunità di immigrati di Cannes e dintorni30. Quasi fosse una sorta di indennizzo per le continue angherie subite. Nulla sfugge alla contabilità delirante del nostro guru, per cui tutto si riduce ad un principio funzionale ed utilitario: «L’idea è quella del corpo umano come un servo ubbidiente (obedient coolie), da nutrire e abbeverare, e cui concedere quel tanto di libertà sessuale in grado di sedarlo» È quanto mai significativo che il Dott. Penrose adotti il termine “coolie”, che usualmente si riferisce alla manodopera non qualificata e spesso straniera. Questo termine allude a un altro tipo di presenza eterogenea, una presenza allo stesso tempo necessaria e ostile al mondo omogeneo di Eden-Olympia: l’“invisibile” manodopera costituita dalle comunità migranti31.

Allora perché oltre a bersagli inermi e tutto sommato scontati, considerato il razzismo represso che alberga nell’inconscio di questa élite transnazionale, i «gruppi terapeutici» mostrano una spiccata predilezione per altri obiettivi? Per abbozzare un tentativo di risposta dobbiamo appunto allargare il quadro interpretativo di partenza e, sulla scorta delle riflessioni della Baxter, notare come la violenza sia diretta solo in parte verso le società straniere o le classi impoverite. Potremo dunque adottare la correlazione tra nazismo e xenofobia, applicando ad un simile fenomeno un’etichetta storico-politica, solo a patto di considerare l’evoluzione di tale correlazione in un «razzismo abilmente estetizzato»32. La terapia promossa da Penrose si serve dell’alibi della discriminazione razziale pur senza rendere questa discriminazione palese. La sfrutta a livello subliminale ma non la verbalizza mai nella sua propaganda. Nelle sue posizioni ufficiali l’intellighenzia di Eden-Olympia, anzi, tende a minimizzarla se non addirittura a negarla. Il razzismo è dunque solo uno strumento, un’ef-

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«Impiegati di primo livello, personale delle pulizie e giardinieri, gli invisibili di EdenOlympia, tutta gente che non lascia ombre sotto il sole». [SC 169] 31 «“The human body [is] an obedient coolie, to be fed and hosed down, and given just enough sexual freedom to sedate itself”. Interestingly, Penrose use of the term “coolie”, which refers to unskilled and imported labour force, gesture to another kind of heterogeneous presence, one which is simultaneously necessary and hostile to EdenOlympia’s continued homogeneity: the “invisible” immigrant workforce». J. G. Ballard, a cura di J. Baxter, cit., pp. 103-104. 32 Ivi, p. 104.

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ficace leva psicologica e non una finalità inserita in un definito progetto di purezza etnica. Una considerazione che risolve una parte del problema, senza però spiegare ancora la distruzione degli status symbol del capitalismo consumistico e le motivazioni soggiacenti a simili gesti apparentemente gratuiti. Il nocciolo della questione risiede proprio in questo aggettivo “gratuito”33. Ci troviamo di fronte ad una serie di atti fini a se stessi? O anche nel secondo caso dietro la scelta dell’obiettivo rivela qualcosa della psicologia criminale che li ha resi possibili? Se nella «visione puritana di Penrose la diversità razziale è un irritante ricordo della contingenza del mondo»34, lo stesso si può dire dell’esibizione sconsiderata del lusso. Il lusso esprime al massimo, attraverso i suoi segni, una distinzione di accesso al consumo. E, pur essendo «funzionale alla circolazione e alla riproduzione del capitale», rappresenta comunque un eccesso, un «consumo in eccesso» che una società omogenea non può tollerare35. La società omogenea è pertanto una società produttiva, e ciò significa anche una società utile. Così affermava Bataille, ribadendo come la comune misura di tale omogeneità fosse il denaro. Rispetto alle autorevoli posizioni di studiosi da cui deriva il parallelo postulato dalla Baxter tra neocapitalismo e neofascismo, bisogna quindi aggiungere alcune precisazioni conclusive. Precisazioni legate in particolare alla validità del modello qui ripreso e usato quale termine di paragone, ossia il totalitarismo. C’è sicuramente una continuità tra questa forma politica e il parco tecnologico immaginato da Ballard. In entrambi i casi si assiste ad un’omogenizzazione realizzata attraverso l’«esclusione di qualsiasi elemento eterogeneo»36 eppure, rispetto allo sviluppo dei totalitarismi storici, il contesto socio-economico di

33

La teoria surrealista dell’«atto gratuito» sarà ripresa e ampliata ulteriormente nel romanzo successivo, Millennium People (2003), da Richard Gould, l’ennesimo guru ballardiano. 34 «Within Penrose’s puritanical vision, racial diversity is an irritating reminder of the continget world». J. G. Ballard, a cura di J. Baxter, cit., p. 105. 35 «Ciò che conta, invece, è che il lusso, ovvero il consumo in eccesso, si è dimostrato funzionale alla circolazione e riproduzione del capitale». R. Campi, «Divagazioni su temi voltairiani: gusto, stile, lusso, ironia», [http://www.montesquieu.it/biblioteca/Testi/ Divagazioni_volt.pdf] (07 maggio 2013). 36 Bataille, Op. cit., p. 69.

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Super-Cannes appare radicalmente mutato, così come le modalità e i soggetti dell’esclusione. Non bisogna dimenticare infatti come la distinzione marxista tra borghesia e proletariato e, più in generale la concezione classista della società, ceda il passo nell’epoca postmoderna a formazioni identitarie più fluide: le tribù appunto. L’élite di executive non si costituisce in nessun modo in quanto classe. Si pone anzi al di là del quadro di dialettica politica tipica dello stato-nazione di derivazione ottocentesca ed anche al di là dei tradizionali sistemi produttivi dell’era industriale. Piena espressione di quel salto di qualità del capitalismo, verificatosi pienamente solo nella metà degli anni Novanta (uno scarto tra possibilità tecniche ed effettiva implementazione di un nuovo sistema produttivo evidenziato da studiosi quali Manuel Castells), i nuovi «signori del castello» non possono identificarsi con nessuna struttura che non sia fluida e mobile quanto le reti entro cui si trovano ad operare. Per questo il loro razzismo, il loro disprezzo verso la «plebe» viene legittimato solo apparentemente con ragioni etnico-culturali, facendo leva su aspetti emotivi e su sentimenti collettivi inconsci, quando invece non è altro che la manifestazione di differenti livelli di accesso al consumo. Anche in questo caso l’economia diventa l’unico codice, l’unico quadro concettuale operativo, valido, superando così, o inglobando, altri schemi, altri “discorsi” quali la politica e la religione. C’è di più. Uno dei passaggi più interessanti dell’analisi psicologica del fascismo da parte di Bataille sottolinea l’omologazione solo parziale, in qualche modo mancata, del proletariato: «Al di fuori della fabbrica […] un operaio è rispetto alla persona omogenea (padrone, burocrate, ecc.) uno straniero, un uomo d’altra natura, di una natura non ridotta, non asservita»37. Una separazione spaziale (dentro/fuori la fabbrica) che riflette una differenza psicologica (omogeneo/non omogeneo), destinata a scomparire nella versione estrema del postfordismo sperimentata a Eden-Olympia. È abbastanza facile immaginare la portata delle conseguenze psicologiche di una simile rivoluzione ed è proprio per questo che Penrose, ancora prima delle sue discutibili teorie, è costretto ad elabo-

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Ivi, p. 69.

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rare un nuovo codice etico-morale che legittimi l’imposizione di una nuova forma di autoritarismo. Meno anarchico di Bobby Crawford il nostro guru si trova ad organizzare un’executive community, un’élite accomunata dalla produzione e non dal “riposo” (retirement community). Il che inverte i termini del problema rispetto a Cocaine Nights. Pur partendo da una medesima precondizione (alienazione, atomizzazione sociale, indebolimento del senso civico) nel primo caso si trattava di sanare tale deriva nel secondo di assecondarla e correggerla. Se Crawford voleva risvegliare le coscienze addormentate dei nuovi coloni della Costa del Sol, ricreare una vera comunità dalle ceneri di una società malata; Penrose, all’opposto, si occupa di gestire al meglio il materiale umano che gli viene fornito. Non gli importa ricreare legami di solidarietà, richiamarsi a modelli di organizzazione preesistenti, meglio forgiare un modello nuovo di zecca. Nella sua visione la “collettività” non diventa mai una vera “comunità” e il primo reale fondamento non è la famiglia, bensì l’individuofunzione di cui la sterile coppia dei Delage è la perfetta espressione. E se davvero esiste un «flusso affettivo» tra il guru e i suoi seguaci, in «funzione della consapevolezza di poteri ed energie sempre più violenti e sempre più eccessivi che si accumulano nella persona del capo»38, tale flusso non coincide più (come nel fascismo o nello stalinismo) con le forze invisibili e cieche della Natura, della Storia o di un altro «principio trascendente», bensì con l’inesausta trasformazione e riproduzione del capitale. Non a caso gli elementi perturbanti, gli elementi di «eterogeneità» dell’azione fascista (la violenza, l’eccesso, il delirio, la follia) vengono qui normalizzati, inquadrati, istituzionalizzati per preservare la tanto preziosa omogeneità. Al punto da trasformarsi nel loro opposto, da minaccia per l’ordine costituito a fattore chiave nella sua conservazione, veri e propri regolatori della temperatura emotiva del corpo sociale. Uno degli aspetti psicolinguistici più interessanti di questa normalizzazione sono le categorie semantiche attraverso le quali i seguaci di Penrose descrivono ciò che sta accadendo. Rispetto all’omertà tipica di Estrella de Mar qui si produce qualcosa di diverso, qualcosa che potremmo definire una “corruzione del linguaggio”. La dissimu-

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Ivi, p. 75.

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lazione dei ratissages e delle attività criminali sotto l’innocente etichetta di «giochi», la follia e la violenza ridotte al gentile eufemismo «il lato ricreativo delle cose», le morti sospette liquidate come tragici «incidenti». Sono appunto minimi ma fondamentali spostamenti semantici (forse meno evidenti dell’equazione lavoro=divertimento) che rendono conto della peculiare strategia di dissociazione messa in opera dal guru. Non solo i suoi programmi terapeutici forniscono un obiettivo e una giustificazione al comportamento deviante ma, nel lungo periodo, lo stesso comportamento non viene più concepito come tale. Alla normalizzazione della follia concorrono diversi fattori (la ripetizione e la condivisione tribale della violenza, l’impunità) eppure, tra questi, la corruzione del linguaggio è il più importante. Si agevola infatti una pericolosa deriva del senso di cui i numerosi riferimenti intertestuali al nazismo fanno intravedere le tragiche conseguenze. I seguaci di Hitler di fronte all’enormità dei loro crimini si erano affrettati a banalizzare il male, a mascherare le atrocità dei campi di sterminio sotto neutre etichette pseudo-scientifiche quali, ad esempio, la famigerata definizione dell’Olocausto come «soluzione finale». I numerosi dialoghi tra il protagonista e il guru si muovono sulla stessa falsariga: rendere accettabile, se non addirittura auspicabile, l’esercizio della psicopatia, attraverso le categorie concettuali di una logica perversa. Logica, che, come nel nazismo, viene confortata da una serie di “discorsi” e “discipline” a cui, sin dagli albori del XX secolo è stato riconosciuto un ruolo privilegiato nell’elaborazione dell’episteme: filosofia, sociologia, antropologia, psicologia. Nonostante la delirante ideologia di Penrose possa apparire inumana Ballard sottolinea, per contrasto, la sua paradossale adeguatezza rispetto alle necessità del «turbo-capitalismo»39: Per l’impeccabile funzionamento delle macchine di dominazione e di sterminio, le masse di filistei perfettamente allineati [forniscono] in ogni caso un materiale molto migliore e [sono] capaci di crimini maggiori di quelli commessi dai cosiddetti delinquenti di professione, purché tali crimini [siano] organizzati, in maniera ineccepibile e [assumano] l’aspetto di routine40.

39 40

Cfr. N. Klein, Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Milano, Rizzoli, 2010. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Torino, Edizioni di Comunità, 2004, p. 467.

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L’autorità stessa, che nei regimi totalitari tende a costituirsi come «un principio incondizionato, posto al di qua di qualsiasi giudizio utilitaristico», viene qui sminuita e privata della sua aura. Penrose è un guru farsesco, non un Führer o né tanto meno un dittatore. Prepara forse il terreno per gli eredi di queste figure. È l’ideologo di un mondo che pretende di essere andato oltre ogni ideologia. La validità dei suoi insegnamenti viene subordinata alla loro efficacia, lasciando intravedere la possibilità di una sostituzione del guru (come vorrebbe in effetti fare il personaggio di Halder), un ricambio al vertice forse meno traumatico delle epurazioni staliniane. L’autorità non si subordina all’utilità, coincide con essa. In questo, spogliandosi dell’ingombrante sovrastruttura ideologica dei regimi precedenti (adottandone una più estetizzata e dunque più “leggera”), il modello di Eden-Olympia si avvicina ancora di più alla quintessenza del totalitarismo, trasformando l’uomo «in una funzione di prodotti misurabili»41. 2.5 L’indagine, ossia la cavia nel labirinto Sin dal suo arrivo Paul Sinclair viene percepito dai suoi nuovi vicini come un outsider, un elemento estraneo e potenzialmente pericoloso. Persino il suo più fedele “aiutante”, Frances Baring, arriva a scherzarci sopra: «Non appartieni a Eden-Olympia più di quei venditori ambulati africani che pestano di continuo». [SC 273] Tale impressione è determinata da due fattori. Innanzitutto è sprovvisto della qualità considerata più preziosa nel parco tecnologico, il talento. Oltre a ciò con il suo ozio improduttivo, dovuto alla convalescenza, manifesta i segni di un corpo non riconducibile alla rigida etica della produttività. La sua è una collocazione «un po’ losca», che gli permette un margine d’azione più ampio rispetto agli altri residenti. È l’unico tra loro ad avere un sacco di tempo libero, merce rarissima da queste parti, e decide di impiegarlo in un hobby piuttosto particolare: «Il fatto è che stai montando uno strano tipo di crimine, invece di tentare di risolverlo». [SC 166] Il colpevole è morto, le autorità locali hanno ormai chiuso il caso. Il focus dell’attività investigativa del nostro

41

Bataille, Op. cit., p. 68.

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detective non può che spostarsi dal “chi” (whodunnit) al “perché” (whydunnit). Una prima ricostruzione della dinamica degli eventi, la «versione ufficiale fornita dall’ufficio stampa […] ai giornali di tutto il mondo», [SC 72] accettata anche dalle forze dell’ordine, viene confermata e ribadita dal Dott. Penrose nel secondo e nel terzo capitolo. Pochi giorni dopo Richard inizia a cogliere numerose discrepanze tra il suo racconto e le testimonianze di altri frequentatori di Eden-Olympia. Prima tra tutte la señora Morales, l’ex governante di Greewood, ora alle sue dipendenze. Non coincidono alcuni dettagli che si potrebbero considerare di secondaria importanza ma, elemento ben più rilevante, questi dettagli insinuano diversi sospetti circa le reali motivazioni del presunto colpevole. Penrose preferisce non insistere su questo punto, liquidando il gesto dell’ex-collega come «inspiegabile», niente più di un raptus di follia. Resta poco su cui indagare. Pochi indizi. Le tracce del crimine sono state accuratamente cancellate. Il clamore mediatico si è presto esaurito e il caso accuratamente insabbiato. Interrogare i testimoni? Impossibile. Gran parte delle mogli delle vittime è tornata a casa. E porre altre domande ai residenti non servirebbe certo ad allentare la tensione dello shock post-traumatico.Allora la documentazione raccolta dalla sicurezza interna dopo l’incidente, insiste il protagonista. Peccato, ribatte Zander, che non esista un unico rapporto, un’unica versione bensì centinaia, «per il giudice istruttore, per il prefetto di polizia, per il ministro degli Interni, per sei ambasciate straniere e per gli avvocati delle società». [SC 87] Il nostro detective non si trova a lottare con testimoni reticenti e omertosi, al contrario. Secondo la logica caratteristica di questa enclave, al silenzio, sempre e comunque sospetto in tali circostanze, si contrappone l’eccesso, la sovrabbondanza di informazione. In termini cognitivi si produce un information overload: il rumore bianco finisce per offuscare il messaggio. Una perfetta opera di disinformazione, portata avanti con strategie da controspionaggio. Come ultima beffa agli sforzi del nostro volenteroso investigatore si aggiunge il fatto che, visti i notevoli e diversi interessi coinvolti, tali rapporti rimangono del tutto riservati. La vera e propria inchiesta inizierà solo in seguito al colloquio con la señora Morales le cui confidenze rendono, dopo le prime settimane

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di acclimatamento, la presenza di Greenwood di nuovo “reale” e incombente: «Adesso Greenwood era tornato e mi veniva incontro». Lo sdoppiamento prende le mosse, in maniera analoga a Cocaine Nights, da una peculiare forma di sovrapposizione spaziale: «dormivo nel suo letto, mi insaponavo nel suo bagno, bevevo vino nella cucina dove si preparava la colazione». Come ammette in un inaspettato impeto di loquacità la sua vicina, Simone Delage, ogni giorno Paul si muove «letteralmente sulle sue stesse tracce». [SC 54, 57] Se tutto ciò all’inizio sembra metterlo a disagio, nella seconda parte del romanzo questo gioco di specchi da angoscioso diventa quasi rassicurante: «Mi sentivo sorprendentemente a mio agio nei panni del defunto». Per completarsi, alla fine, in una completa identificazione, ben al di là delle più rosee aspettative del Dott. Penrose che non sembra aver valutato sino in fondo i pericolosi effetti collaterali del suo nuovo test: «Guardandomi allo specchio del guardaroba, avevo la sensazione di essere diventato Greenwood e di averne assunto il ruolo». [SC 277] La progressione risulta evidente dalla scansione temporale del romanzo. Composto da tre parti di ineguale estensione Super-Cannes si presenta come una sorta di imbuto rovesciato: la prima parte è la più sostanziosa ed è composta da trenta capitoli (capp. 1-30); la seconda parte da sei (capp. 31-37); la terza da cinque (capp. 38-42). Una simile impalcatura è funzionale ad una differente regolazione del ritmo narrativo. La sezione iniziale è connotata da un “passo” estremamente lento. La notevole estensione permette di articolare il processo investigativo con una profondità inedita, attraverso una serie di successive ricostruzioni del crimine, di interrogatori, di dialoghi altrettanto rivelatori con il guru. È una lunga fase di preparazione ed attesa, destinata a disporre i vari pezzi sulla scacchiera, prima della rapida risoluzione finale. Lo snodo decisivo è il secondo colloquio tra Paul e Penrose, in cui l’antagonista offre un’ultima chance al detective: partecipare in veste di osservatore alle azioni dei gruppi terapeutici, valutare direttamente l’efficacia delle sue teorie prima di denunciare ciò che ha scoperto alle autorità locali. Il protagonista accetta, in un ennesimo ripensamento che manifesta una degli aspetti meno convincenti dell’ambiziosa archiettura del romanzo. Le dinamiche interne della detection, l’ampio respiro entro

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cui si possono finalmente sviluppare in tutta la loro ampiezza, portano Ballard ad approfondire la caratterizzazione e l’evoluzione psicologica dei singoli personaggi. Un aspetto sotto cui, bisogna riconoscerlo, non ha mai avuto molto successo e molto interesse. La soluzione di esternalizzare la psiche, particolarmente efficace in Concrete Island e High Rise, non mostra qui la medesima pervasività nei meccanismi dell’intreccio. Per questo i rapporti tra i vari protagonisti, specie quelli tra Paul e Jane, hanno un che di inautentico, di forzato e poco verosimile42. L’autore britannico d’altro canto sembra maggiormente interessato alla costruzione dello spazio, o meglio, degli spazi. Altrettanto inverosimile appare la confessione finale di Frances Baring. Ennesimo deus ex machina che, nella parte centrale del romanzo, risolve gli ultimi dubbi lasciati in sospeso. Scopriamo così che Greenwood conosceva il progetto di Penrose, lo comprendeva e aveva contribuito ad allestirlo, anche se non era d’accordo a proposito dei «costi umani». Che nutriva una segreta passione per le ragazzine in età puberale, e che la terapia a lui assegnata consisteva in una rete di pedofilia alimentata dalle giovani assistite dell’ostello di La Boca. Un quadro non proprio edificante insomma. Non basteranno queste clamorose rivelazioni a scuotere Paul, a rompere la sua complicità con Penrose. Ci vorranno la morte del suo prezioso “aiutante” e l’intuizione di essere il prossimo capro espiatorio per spingerlo, finalmente, all’azione: «Continuavo ad ammirarlo per il fascino che riusciva ad esercitare su di me, ma gli avrei sparato lo stesso davanti allo specchio infranto, un’altra porta di accesso al mondo di Alice, una porta che ormai si era chiusa per sempre». [SC 372] Le fondamenta dell’ordine perfetto d’altronde hanno già iniziato a vacillare. Nel frattempo, a Eden-Olympia erano apparse le prime scritte, e alcune telecamere erano state danneggiate, ma sembrava una protesta trop42

Si pensi ad esempio agli infiniti ligiti tra moglie e marito riguardo alla possibilità di lasciare Eden-Olympia. Prima vorrebbe andarsene Paul, ma subito ci ripensa; poi è il turno di Jane, e tocca proprio a Paul convincerla a cambiare idea… Il tutto si ripete due, tre volte con una costante, e un po’ ridicola, inversione di ruoli. La meccanicità e la palese inverosimiglianza di questi improvvisi mutamenti riflette l’incapacità dell’autore britannico a maneggiare una materia verso cui aveva, sino ad allora, sempre nutrito una certa avversione, ossia lo spessore caratteriale dei suoi personaggi.

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po debole […]. I segni criptici spruzzati con le bombolette sui parabrezza assomigliavano alle firme di autori adolescenti, ed erano stati rapidamente lavati via da squadre di addetti di manutenzione. Le macchie di ribellione, però, erano rimaste. [SC 345]

Nella terza parte del romanzo le prime crepe si insinuano nel regime totalitario del parco tecnologico. L’inaugurazione di una sua prossima estensione (Eden-Olympia II), interrotta da un’inaspettata contestazione, sembra quasi annunciarne l’imminente crollo. La catastrofe finale si consuma negli ultimi due capitoli, o meglio, non si consuma. Ancora una volta il finale rimane aperto. Paul oltrepassa l’ultima soglia nel suo cammino e possiamo solo immaginare il confronto con l’antagonista. Ballard non lo descrive, forse perché, vista la struttura circolare della narrazione, si tratterebbe di un’imperdonabile ripetizione, uno sbiadito dejà-vu. 2.6 Inner space 2.0 We’re all mad here. I’m mad. You’re mad. Lewis Carrol - Alice Adventure’s in Wonderland (1865)

In analogia con Cocaine Nights anche in Super-Cannes il protagonista si trova a dover penetrare nella mente del colpevole e, allo stesso tempo, nella mentalità del contesto entro cui si è prodotto il suo estremo gesto. Nel primo caso lo scopo viene raggiunto attraverso un processo di identificazione, declinato secondo la modalità dello sdoppiamento. Nel secondo c’è una diversa forma di mediazione, non più riflessiva, bensì proiettiva. Il “mistero” viene ricostruito attraverso una serie di indizi (rapporti, servizi televisivi, testimonianze) e, tra questi, i supporti visivi giocano un ruolo preponderante. Il delitto viene registrato, fotografato, ripreso da innumerevoli posizioni in cui l’investigatore può collocarsi. La sua affinità con la psicologia del criminale gli permette di cogliere dettagli e significati impercettibili ad occhi altrui, come quando gli vengono mostrate le fotografie scattate sulle diverse scene del crimine della carneficina. Quelle foto dimostrano che i delitti sono stati progettati con cura. Greenwood probabilmente presumeva che le vittime sarebbero state fotografate. Ciascuna scena è una specie di affresco. Bachelet con la sua pipa da crack e i gioielli rubati. Berthoud con la sua valigia di eroina.

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Vadim e la pornografia infantile. Nessuna di quelle fotografie mostra la scena del delitto di Greenwood… in realtà quello che ritrae è il crimine commesso dalle vittime. [SC 197]

Ogni scena è un tableaux, un’allegoria morale, una denuncia delle devianti attività ricreative dei gruppi terapeutici. Un messaggio lanciato dal colpevole a chi ne ripercorrerà, letteralmente e figurativamente, i passi. L’indagine potrebbe configurarsi come un’attività ermeneutica volta a decodificare un messaggio criptato, se tale schema non fosse svuotato dall’interno di ogni pregnanza. I progressi di Paul sono infatti regolati da un’accurata distribuzione del sapere narrativo da parte degli “aiutanti”. Il delitto viene messo in scena a suo beneficio e a lui offerto come spettacolo, se non addirittura di «tour guidato» (capp. 20-23), facendo emergere un atteggiamento voyeuristico. In tal senso il protagonista è portato ad atteggiarsi con distacco, in maniera molto simile al guru mentre osserva lo svolgimento delle terapie assegnate ai propri pazienti. In un acceso diverbio Jane lo accusa senza mezzi termini: «In realtà tu mi stai osservando. Sono la tua cavia. A te interessa capire cosa succede alla gente a Eden-Olympia». [SC 261] Il soggetto dell’identificazione è dunque duplice e conflittuale. All’inizio Paul è spinto da Penrose a svelare un “mistero” che i suoi metodi di analisi non sono in grado di spiegare. Alla fine, comprendendo le ragioni di Greenwood, arriva a maturare la decisione di ribellarsi, di opporsi alle manipolazioni del più autorevole tra i diversi mandatari. Il rovesciamento di ruolo è evidente: da cavia guidata pazientemente dentro al cuore del labirinto da un scienziato folle a ennesima variabile impazzita, pronta non solo a fuggire ma a far saltare in aria la gabbia che la intrappolava. Lo spazio policentrico di Super-Cannes riflette in effetti un ampliamento e una revisione del concetto di inner space, così come concepito da Ballard a metà degli anni Settanta. La conclusione di romanzi come Concrete Island e High Rise ci restituivano l’immagine di un uomo isolatosi, volontariamente, in un microcosmo. Paul Sinclair al contrario attraversa una serie di microcosmi senza appartenere pienamente ad alcuno di essi. L’inusuale mobilità del nostro detective permette così di sviluppare lo schema narrativo dell’indagine tanto sul piano psicologico quanto su quello antropologico. Attraverso il suo personaggio Ballard mira ad esplorare non solo la psi-

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che di un individuo bensì quella di un’intera comunità. Il metodo rimane lo stesso, anche se i confini del campo di studi si allargano notevolmente. Il protagonista dunque non è chiamato solo a indagare su un enigma apparentemente già risolto, per portare a compimento il suo scopo gli è richiesto uno sforzo aggiuntivo. Nei ripetuti colloqui tra i due il guru lo convince della necessità di una comprensione più profonda: «Mi resi conto che sperava nella mia approvazione. Aveva un disperato bisogno che che lo capissi, lui e la scommessa coraggiosa che aveva fatto per il bene di Eden-Olympia». [SC 255] Una scommessa dalla posta molto alta, che va ben oltre il possibile successo dell’aggiornamento del totalitarismo nell’era della reti e punta sulla rivelazione di una verità fondamentale sulla natura umana: «il modo sottile in cui la violenza ci affascina. Se vogliamo opporci [a questa fascinazione] con successo, dobbiamo definitivamente ammettere che gli esseri umani non possono essere completamente civilizzati. Spiacevole, ma vero»43. Sulla scorta delle teorie di Norbert Elias John Carter Wood precisa l’affermazione: ciò significa concepire il processo di civilizzazione come perennemente aperto e perfettibile ma anche, nella sua variante alternativa, come un’involuzione, una regressione verso la barbarie. La seconda opzione prevale evidentemente in romanzi come High Rise. In Super-Cannes invece si dimostra quanto l’iper-securizzazione, portata al suo estremo, «produca da sé una cronica insoddisfazione» e debba essere rivitalizzata attraverso una continua «ricerca dell’eccitazione» (quest for excitement)44.

43 «Is the subtle way that violence fascinates us. If we want to successfully work against it, we have to finally admit that human beings are not completely capable of being civilized. Regrettable but true». J. G. Ballard, Gewalt ohne Ende, «Die Zeit», 8 settembre 2005. 44 «Ballard suggerisce (e ciò non è del tutto implausibile) come società altamente controllate possano generare nuove forme di “psicopatologia”. Nonostante la rilevanza di queste differenze possiamo intravedere importanti punti di contatto tra i due autori. Non solo Elias era consapevole del fatto che il processo di civilizzazione, da lui teorizzato, potesse essere completamente invertito, era inoltre fermamente convinto che la civilizzazione producesse spontaneamente i germi della propria cronica insoddisfazione». [«Ballard suggests (not implausibly) how intensely controlled societies might generate new forms of “psychopathology”. While important, these differences do not prevent seeing important connections between the two authors. Elias was not only aware that

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Accanto agli indiscutibili vantaggi portati dall’emancipazione dell’uomo dallo stato di natura se ne mostrano gli insostenibili costi psicologici: i sempre maggiori vincoli imposti all’agire dell’individuo e il rigido controllo della sua condotta e delle sue pulsioni; l’inaridimento di quelle che erano una volta potenti fonti di piacere, l’azione spontanea, le emozioni forti e, soprattutto, gli atti di violenza. Una dialettica squisitamente freudiana quella tra “principio del piacere” e “principio di realtà” che, come nota Wood, non sempre incontra o può incontrare un happy ending, una soluzione felice o moralmente accettabile. Ballard insomma si concentra una volta di più su quello che Zygmunt Baumann definisce «il disagio della postmodernità»45. All’inebriante e apparente senso di liberazione dagli obblighi, al crescente senso di insicurezza e precarietà esistenziale che il sociologo tedesco ritrova nella fase matura delle società neocapitaliste si contrappone in Super-Cannes la soluzione più estrema: l’esercizio controllato della psicopatia in un contesto artificiale adeguato ad una simile necessità. La visione di Penrose «è di certo folle, ma ci affascina perché sollecita le nostre motivazioni profonde»46. Ballard intendere evidenziare in questo modo «la doppia natura della vita moderna» che, con i suoi altissimi «livelli di benessere e sicurezza» non può che può portare a inedite «forme di frustrazione e di insoddisfazione»47. E, se le cose stanno davvero così allora, probabilmente, «in una società perfettamente sana, la pazzia è l’unica libertà rimasta». [SC 253] Spiacevole ma vero.

the civilizing processes he theorized could be reversed in a total fashion, he also believed that civilization bred its own more chronic dissatisfactions»]. J. G. Ballard: Visions and Revisions, a cura di J. Baxter, New York, Palgrave Macmillan, 2011, p. 11. 45 Cfr. Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, Milano, Mondadori, 2002. 46 «It is mad, but it fascinates because it appeals to deep-seated motivations». J. G. Ballard: Visions and Revisions, a cura di J. Baxter, cit., p. 18. 47 «Il doppio volto della vita moderna – il fatto che gli inediti livelli di benessere e sicurezza [raggiunti negli ultimi secoli] possano condurre a nuove forme di frustazione e di disagio». [«The double-edged nature of modern life–that its unprecedented levels of comfort and security may lead to new forms of frustration and discontent»]. Ivi, p. 12.

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Il sole senza ombre del nuovo millennio

Dopo due romanzi ambientati nel sud del continente europeo e diversi anni di lontananza Ballard ritorna alle familiari atmosfere dell’Inghilterra e, come ogni viaggiatore rimasto a lungo lontano dalla madrepatria, gli basta guardarsi velocemente intorno per accorgersi di quanto le cose siano cambiate. Spenti ormai gli ultimi echi dell’era della Lady di Ferro, l’intero Regno Unito sembra attraversare una fase di fibrillazione e rinnovamento, di cui Londra diventa l’epicentro e la vetrina più esposta. La capitale britannica entra in una fase di trasformazione frenetica che ne ridefinirà profondamente l’identità e l’immagine. Per citare solo alcuni dei principali mutamenti si può ricordare innanzitutto la riqualificazione delle Docklands, l’area del vecchio porto. Dopo aver chiuso i battenti tra il 1960 e il 1980 i docks, una volta cuore pulsante del vecchio impero coloniale, vengono riqualificati per usi commerciali e residenziali. A coronamento di tale progetto tra i grattacieli che ora costellano lo skyline dell’East End si staglia il Canary Wharf1, disegnato dall’archistar Norman Foster. Nasce così il secondo distretto finanziario dopo la rinomata City, espressione della sempre più spiccata preponderanza dell’alta finanza nella vita economica del paese e, in particolare, della sua capitale. Alle soglie del nuovo millennio altri simboli vanno ad aggiungersi a questo ambizioso restyling all’insegna della monumentalità: da attrazioni turistiche quali la Ruota del Millennio (detta anche London Eye) al Millennium Dome, arena ed area polifunzionale dalle dimensioni ciclopiche. Una serie di iniziative che non godranno tutte del1

Ribattezzato dai londinesi con il poco lusinghiero nomignolo «the Gherkin», ossia «il Cetriolo».

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lo stesso successo, come dimostrano le alterne fortune del Dome, eppure fortemente orientate nel loro insieme a proporre un rinnovamento urbanistico e culturale insieme. Una spinta al cambiamento che trova la sua principale origine sul versante politico ed amministrativo, con una serie di agevolazioni mirate ad attrarre investimenti e nuovi capitali. Nel 1997, con la nomina di Tony Blair a Primo Ministro, cambia l’assetto di governo. Una vera e propria svolta dato che sin delle sue prime decisioni Blair si pone in diretto antagonismo con la figura che aveva segnato i due decenni precedenti della vita politico-economica del Regno Unito, Margaret Thatcher. Tra gli atti più significativi di questa presa di distanza, la creazione della Greater London Authorithy (GLA): un modello di governance di importazione americana, in cui il sindaco viene eletto direttamente dai cittadini, volto a colmare il vuoto amministrativo lasciato dalla soppressione, nel 1986, del precedente Greater London Council2. Alla GLA vengono infatti assegnate una funzione di coordinamento e diverse competenze sino ad allora disperse e frammentate tra le diverse municipalità: gestione dei trasporti, promozione della crescita economica, pianificazione dello sviluppo urbano e, in misura minore, l’impiego sul territorio delle forze di polizia metropolitana. La Londra di Millennium People e Kingdom Come è tutto questo. L’immagine sfaccettata di un prisma che rifrange e condensa due decenni di tumultoso cambiamento. A dispetto del vento di novità Ballard non intende proporre un’apologia celebrativa, bensì insistere sugli aspetti critici. La sua attenzione viene catturata da eventi mediatici forse meno clamorosi della morte della Principessa Diana ma altrettanto significativi, a suo avviso, dei cambiamenti psicologici in atto nell’intera nazione.Ad esempio la strage di Hungerford, nel 1987: Un giovane spostato di nome Michael Ryan aveva sparato a sua madre, poi era andato in giro per il paese, sparando ai passanti. Aveva ucciso sedici persone, scegliendole a caso, poi aveva incendiato la sua casa e

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Pur modificando con successo il modello di governance Blair non riuscirà ad imporre il proprio candidato. Il primo sindaco eletto, Ken Livingstone, si dimetterà dal partito laburista, ponendosi in netto contrasto con il suo leader, per presentarsi come indipendente. Nel 2008 Livingstone, dopo essere stato confermato per un secondo mandato, è stato sconfitto dal conservatore Boris Johnson.

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Il sole senza ombre del nuovo millennio

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si era sparato. Gli omicidi erano privi di movente, e suscitarono un terremoto d’angoscia in tutto il paese, ridefinendo la parola “vicino di casa”. Non ci si poteva fidare di nessuno, nemmeno di un membro della propria famiglia. Era nato un nuovo tipo di violenza. [MP 246]

Il crimine e la violenza costituiscono motivi ricorrenti nell’ultima fase della produzione ballardiana, ed è significativo il tentativo dell’autore britannico di esplorarne di volta in volta le implicazioni rispetto al contesto sociale. In Millennium People sarà una violenza di stampo terroristico, pronta a risvegliare l’incubo dell’11 settembre, ad aggirarsi all’ombra del Big Ben. In Kingdom Come sarà invece lo spettro del nazionalismo, a risorgere discretamente nei sobborghi germogliati come funghi a ridosso della M4, l’autostrada da cui era iniziata l’avventura di Robert Maitland. Un curioso ritorno alle origini. A più di trent’anni di distanza Ballard ritorna insomma nello stesso punto in cui il suo sguardo si era fissato dopo Crash. Quasi a voler misurare la maturazione di un cambiamento iniziato da lungo tempo e ora giunto a compimento. 1. Millennium People It has to start somewhere. It has to start sometime. What better place than here, what better time than now? Rage Against the Machine - Guerrilla Radio (1999)

1.1 Una rivoluzione da salotto Millennium People racconta la storia di una rivoluzione. «Una piccola rivoluzione, così discreta e perbene», [MP 7] da passare quasi inosservata. In pochi sembrano accorgersi di cosa è davvero successo tra le strade di Chelsea Marina, ad eccezione del nostro protagonista, David Markham. Quando nell’incipit del romanzo si trova a ritornare sul campo di battaglia le ceneri della sommossa appena conclusa sono ancora tiepide: scheletri di case date alle fiamme, carcasse di macchine annerite ai bordi della strada. Un panorama inusuale per chi di solito si trova a passeggiare sulle rive del Tamigi, tra South Kensington e Fulham. Cosa può aver trasformato questa tranquilla enclave residenziale nella trincea di una disperata quanto futile resistenza?

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Per risolvere il “mistero” Ballard sfrutta ancora una volta uno schema di narrazione circolare. Introduce il protagonista in una situazione anomala (cap. 1) per poi procedere a ritroso, colmando attraverso un’analessi completiva (capp. 2-32) lo scarto tra “tempo della storia” e “tempo della narrazione”. Sarà proprio il personaggio di David il “focalizzatore” di questo prolungato flashback, in cui scopriremo i protagonisti della campagna di attentati e disordini che ha tenuto Londra con il fiato sospeso per quattro mesi. Tutto è cominciato all’aeroporto di Heathrow con una bomba sul nastro trasportatore dei bagagli al Terminal 2. Molti feriti e tre vittime, tra cui Laura, la sua ex moglie. Nessun movente evidente. Nessuna rivendicazione credibile. Gli inquirenti brancolano nel buio. L’indagine del protagonista prenderà le mosse da qui. Battendo una pista alternativa che lo porterà molto lontano sia dall’elegante casa che condivide con la nuova compagna Sally, nel quartiere di St John’s Wood; sia dal suo lavoro all’Adler, prestigioso istituto specializzato in rapporti aziendali e psicologia del posto di lavoro. Le sue competenze professionali non saranno comunque sprecate, pur dovendo applicarsi ad un diverso tipo di pazienti. David è infatti convinto che i mandanti della bomba di Heathrow si nascondano nel variegato sottobosco della contestazione: I movimenti di protesta, sani e folli, ragionevoli e assurdi, toccavano praticamente ogni aspetto della vita di Londra, una vasta rete di manifestazioni che segnalavano un bisogno disperato di un mondo più ricco di significato. Non c’era attività umana che non fosse bersaglio di un gruppo impegnato disposto a passare i fine settimana a picchettare i laboratori, le banche commerciali e i depositi di combustibile nucleare, ad arrancare su viottoli fangosi per difendere la tana di un tasso, a sdraiarsi sull’autostrada per fermare il più odiato nemico di tutti i contestatori, il motore a combustione interna. Ben lungi dall’essere marginali, questi gruppi facevano ormai parte delle tradizioni civiche del paese. [MP 39]

Frequentando l’ennesima manifestazione il protagonista incapperà in Kay Churchill e nel piccolo gruppo di agitatori che gravita intorno al suo progetto di rivolta civile. La loro guerriglia intende risvegliare la coscienza della middle class attraverso atti di terrorismo spettacolari. La distruzione dei templi profani della società dei consumi e dello spettacolo: «un Pret a Manger su King’s Road, la Tate

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Gallery, un ristorante Conran collegato al British Museum, i Promenade Concerts, le librerie Waterstone, tutti sfruttatori della credulità del ceto medio. […] Dai panini alle scuole estive erano tutti simboli di asservimento e nemici della libertà». [MP 109-110] Gesti che preparano la vera battaglia, l’insurrezione in cui i residenti di Chelsea Marina tenteranno di difendere il proprio territorio dagli affitti e dalle spese di manutenzione troppo alte, dalle ingerenze della polizia e degli amministratori comunali, da tutti i rappresentanti di quel sistema che li ha trasformati nel «nuovo proletariato». Una protesta infantile quanto futile, legata a motivi sin troppo pragmatici rispetto alla visione apocalittica dell’eminenza grigia che si cela dietro le quinte. Richard Gould, pediatra dal passato travagliato, pronto ad elevare il culto dell’«atto gratuito» quale unica risposta all’assurdità dell’universo. Una rivolta metafisica, che accosta la sua figura al “ribelle” di Camus: Egli si erge su di un mondo in frantumi per rivendicarne l’unità, oppone il principio di giustizia che sta in lui al principio d’ingiustizia che vede all’opera nel mondo. Non vuole dunque nient’altro, primitivamente, che risolvere questa contraddizione, instaurare il regno unitario della giustizia se può, oppure, ove lo si spinga agli estremi, dell’ingiustizia. Intanto denuncia la contraddizione3.

Il fascino esercitato dalla sua integrità morale sul protagonista è forte. Anche quando alla fine scoprirà la verità sulla bomba di Heathrow deciderà di non denunciarlo. L’ex-moglie è stata uccisa per una coincidenza. Il vero bersaglio era lui, l’arrogante psicologo che, in una trasmissione televisiva, aveva denunciato l’anomia delle masse. Un attentato fallito si trasforma così in un messaggio ancora più potente. Un «enorme spazio bianco». Un atto senza movente plausibile, senza scopo. Un gesto inespicabile che si pone al di là di ogni ideologia, di ogni fede o teodicea, al di là di ogni filosofia. Una visione troppo estremistica per gli abitanti di Chelsea Marina che, dopo aver fronteggiato senza successo le forze dell’ordine per l’ultima volta, incendiano le proprie case e abbandonano il quartiere in un esodo collettivo. «Erano l’avanguardia di una borghesia itinerante, una nuova tribù di zingari laureati che conoscevano i loro 3

A. Camus, L’uomo in rivolta, Milano, Bompiani, 1981, p. 32.

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diritti e avrebbero fatto il diavolo a quattro con le amministrazioni locali». [MP 10] I fuochi della rivoluzione, pronti a divampare ai quattro angoli del paese, si spengono in fretta. In definitiva Gould si trova ad essere un profeta inascoltato, se non apertamente frainteso. Incapace di arrendersi al ritorno alla normalità escogita un ultimo, disperato atto di resistenza: ora che i disordini si sono placati le massime autorità intendono fare un sopralluogo per comprendere meglio ciò che accaduto, questo è il momento ideale per uccidere il Primo Ministro e ricominciare tutto da capo. Un piano che non porterà mai a compimento per vari contrattempi ma, soprattutto, per il tardivo tradimento dell’ex discepolo Stephen Dexter. Il risentimento del prete nei suoi confronti è profondo, specie dopo che il guru ha sacrificato per i suoi scopi la sua compagna: Joan Chang. La resa dei conti è inevitabile e, prima di riuscire a dileguarsi per l’ennesima volta, Gould viene freddato al volante di una Saab insieme alla sua più fedele assistente, Vera Blackburn. Una fine in grande stile, degna di Bonnie e Clyde. Nessuno però sembra in grado di raccogliere il testimone lasciato dal maestro. Kay si reinventerà come opinionista di successo, David si assumerà la colpa del duplice omicidio e diventerà un eroe agli occhi dell’opinione pubblica. Persino il travagliato reverendo Dexter ritroverà la fede, fuggendo in Africa. I nomadi del nuovo millennio, infine, ritroveranno presto la strada verso casa. La facilità con cui ognuno di loro rientra nei vecchi panni, o ne sceglie di nuovi per dimenticare ciò che è successo, misura la distanza “eroica” che separa gli infedeli apostoli dal folle messia del nuovo millennio. Della famigerata «rivoluzione da salotto» non restano che il the e i biscottini. 1.2 Confortevoli prigioni residenziali In Millennium People, per la prima volta, lo sguardo dell’autore britannico si rivolge decisamente verso il centro della metropoli, dopo averne frequentato assiduamente i sobborghi. Lo sfondo, il setting narrativo gioca dunque un ruolo predominante. I quartieri di Londra, i suoi monumenti storici (dal British Museum al National Film Theater) e i suoi nuovi simboli (La Routa del Millennio, il Millennium Dome) restituiscono un tocco di concretezza inedito alla pro-

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sa ballardiana. L’attitudine però rimane sempre la stessa. Si tratta infatti di uno sguardo obliquo che si sofferma sulle pieghe del tessuto urbano, sulle sacche in cui il flusso di vitalità e di energia del corpo sociale sembra ristagnare. Sulle zone di confine dove si generano nuovi attriti, nuovi conflitti e nuove forme di esclusione. Per fare ciò Ballard sceglie di calarci all’interno di una cellula terroristica e, dovendo indagare le relazioni interne di una realtà tanto particolare, si trova a rivedere per l’ennesima la sua idea di inner space e le tecniche descrittive a lei connesse. Le modalità della descrizione tendono insomma ad adattarsi al loro oggetto. Particolarmente interessante nello specifico la scelta di introdurre i singoli appartenenti del gruppo attraverso la descrizione delle loro abitazioni. Cominciamo dalla casa-rifugio di Kay Churchill, ex insegnante di studi cinematografici alla South Bank University, pronta a diventare la Giovanna d’Arco di Chelsea Marina. Le prime impressioni del protagonista ci restituiscono un contesto non familiare eppure seducente. L’abitazione è connotata da un netto contrasto tra interno ed esterno. Se dal di fuori può essere facilmente scambiata per una «casa disabitata»; all’interno, invece, nonostante il disordine generale e «il vago odore di marijuana, aglio e profumi invadenti», si rivela stranamente accogliente. «Mi lasciai andare sulla poltrona, esaminando quel che riuscivo a vedere di quella casa […] così diversa dalla nostra piazza d’armi formale a St John’s Wood, arredata dalla figlia di un uomo ricco dotata di eccessivo buon gusto». [MP 50] La casa di Kay rappresenta dunque il primo indice di distanziamento dalla quotidianità di David, dal guscio di responsabilità e sicurezze da cui si sente più intrappolato che protetto. Nel corso della vicenda il suo progressivo coinvolgimento lo spingerà ad abbandonare la gabbia dorata di St John’s Wood, a recidere ogni legame (dal lavoro al matrimonio) con la vita precedente, per trasferirsi proprio qui. Proseguendo in ordine cronologico troviamo poi l’asettico appartamento di Vera Blackburn. «Un tempio eretto ad un narcisismo disperato», perfettamente adeguato alla fabbricatrice di bombe del gruppo. Ex consulente della Difesa, atletica e androgina, dal carattere spigoloso come «le guide ufficiali ai convegni scientifici dell’Europa dell’Est». Altrettanto interessante l’“accampamento” di Stephen Dexter, ex parroco volante nelle Filippine che ha smarrito la fede ma non ha ancora rinunciato all’abito talare. «Il prete viveva […] in

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casa sua, come se la comodità delle poltrone, dei materassi a molle e delle stufe elettriche fosse un’abitudine che aveva deciso di ignorare, quasi in una sorta di ritiro parziale del mondo». [MP 73, 70] Ognuno di questi luoghi è un microcosmo a parte, inserito nel quadro d’insieme del medesimo quartiere. «Ciascuna di quelle case era un allestimento teatrale. Loro non facevano altro che abitare l’apparato scenico». [MP 100] L’unica eccezione di rilievo è rappresentata da Richard Gould, la cui introduzione nella vicenda viene preparata in maniera del tutto diversa. È una presentazione basata sulla sottrazione e sul prolungamento dell’attesa, strategie e soluzioni funzionali alla creazione della suspence, tipiche nel repertorio della detective story. C’è però una differenza aggiuntiva che riguarda la caratterizzazione specifica del personaggio. Mentre negli altri casi si instaura una sorta di esternalizzazione della coscienza, un rapporto biunivoco tra personalità e il decor delle singole abitazioni, il primo, vero incontro tra Gould e il protagonista avviene invece all’esterno, all’ombra del London Eye, la monumentale ruota panoramica eretta sulle rive del Tamigi. Gould è un guru diverso dagli altri.Tendenzialmente asociale, avvolto da un’aura quasi mistica, protetto e venerato dai suoi discepoli. La rivelazione, la definitiva illuminazione a cui sembra pervenire nel corso del romanzo rimane fondamentalmente incomunicabile, proprio perché indicibile. Tra lui e il contesto circostante rimane sempre un’invalicabile linea di separazione e nessun luogo sembra in grado di riflettere in maniera adeguata la sua complessa personalità, tranne uno: il Bedfort Asylum. Là dove lui e David dialogano per la prima volta. Un luogo fittizio, che sembra costruito apposta per condensare in sé i principali nodi della rete tematica. Conta innanzitutto la maniera in cui viene introdotto. Un lungo viaggio in macchina, rievocato in un breve flashback nel capitolo 17, conduce il protagonista e il misterioso guru dal centro della città ai suoi margini. Il «mondo notturno», secondo un topos affermatosi nella narrativa ottocentesca con Charles Dickens e Victor Hugo, è lo specchio delle luci della metropoli e ne costituisce l’immagine rovesciata. Il cuore di Londra era scomparso dietro di noi quando avevamo lasciato il cavalcavia di Hammersmith e la Hogarth House, per imboccare l’autostrada di Heathrow.Venti minuti dopo, entravamo nella zona operativa dell’aeroporto, un’area di trasporto merci e depositi di autono-

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leggi, circondata da uno schieramento di luci di atterraggio simili a campi magnetici, fantasmi di zone commerciali e fabbriche, un mondo notturno popolato da guardiani e cani da attacco. […] Scrutai a lungo gli edifici enormi, immensi cumuli di mattoni con timpani simili a sovrastrutture di corazzate. Era l’architettura delle prigioni, dei cotonifici e delle fonderie dell’acciaio, monumenti alla tenuta del mattone e delle certezze vittoriane. Tre fabbricati erano ancora in piedi, accanto a un terreno incolto dove un tempo i pazienti erano stati spinti su sedie a rotelle da infermiere maniache dell’amido. [MP 117-118]

Un panorama di terrain vagues e rovine che alludono alla decadenza dell’epoca che le ha originate. Curiosamente Michel Foucault insisteva, nel memorabile incipit della sua storia della sessualità, sul medesimo aggettivo: «vittoriane»4. L’epoca d’oro della mentalità borghese di cui Gould e i suoi seguaci si sentono gli ultimi contestatori viene identificata con questo periodo. Un periodo in cui, prosegue Foucault, la middle class elabora nei particolari il suo codice morale, i suoi tabù, primo tra tutti il sesso. Il Bedford Asylum è il segno tangibile delle due principali modalità messe in campo dal discorso della modernità: «sorvegliare» e «punire». Isolamento della diversità attraverso la compartimentazione. Segregazione spaziale e segregazione psicologica. Un’eterotopia al quadrato in cui si sovrappongono i modelli architettonici della “prigione” e del “manicomio”: «C’erano cortili dentro cortili, finestre con le sbarre ai piani più alti». [MP 121] Ogni tentativo di modificare una simile mentalità dall’interno è vano. A Gould è costato la carriera. La sua colpa? Aver difeso una giovane infermiera giamaicana dedita a regalare brevi, clandestini momenti di gratificazione sessuale agli ospiti dell’ospedale, bambini – colpiti da danni celebrali o gravemente handicappati – ignorati dai genitori e dai servizi sociali. In seguito all’inevitabile scandalo l’autorità sanitaria ha chiuso la struttura e abbandonato i suoi assistiti al loro destino. Il nostro guru ha iniziato così la seconda vita, una vita da reietto, dedicando il suo tempo a prendersene cura. Rinunciando tra l’altro alla generosa eredità paterna, costruita sulla spe-

4 «A lungo avremmo sopportato, e subiremmo ancora oggi, un regime vittoriano. La puritana imperiale apparirebbe sul blasone della nostra sessualità, contenuta, muta, ipocrita». M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità, vol. 1, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 9.

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culazione immobiliare. La stessa speculazione che ora si prepara a ridisegnare sotto i suoi occhi il vecchio sito di Bedfort. «Se guardi attentamente puoi vedere il futuro che avanza verso di te. […] Prime case. […] Tane di conigli per aspiranti sposini. Il primo assaggio della vita borghese. Un sogno senza deposito, a basso interesse. […] Un giorno copriranno tutta l’Inghilterra». Le sbarre e i muri sono scomparsi. I metodi di controllo intanto si sono evoluti e non riguardano più i criminali o i malati mentali, riguardano l’intera classe media. «A loro piace. Adorano l’alienazione. […] Non c’è né passato né futuro. Potendo loro scelgono le zone prive di significato: aeroporti, centri commerciali, autostrade, parcheggi. Sono in fuga dal reale»5. Il parallelo storico che assume forma plastica nella contrapposizione tra il sanatorio in rovina e le batterie abitative dell’avanzante suburbia è impietoso e rivelatore. Se infatti nella prima parte del romanzo Ballard ci introduce nelle singole celle, il colloquio con Gould fornisce la mappa ideale del carcere psicologico in cui la borghesia si trova rinchiusa a sua insaputa. L’accento posto sull’isolamento, l’insistenza sugli “interni”, e soprattutto sulle soglie che conducono a tali interni, pone al centro della rete tematica l’immagine della prigione. Di conseguenza il guru nelle sue appassionate prediche rispolvera il repertorio già caro a Bobby Crawford con tutto il suo armamentario retorico, ricco di termini emblematici quali “liberare”,“risvegliare” e simili. Elementi che suggeriscono una linea di continuità con i due romanzi precedenti, pur essendo inseriti in un contesto differente. Chelsea Marina non nasce come «comunità fortificata» al di fuori dei confini urbani. Lo diventa nel corso della narrazione, mentre i suoi abitanti erigono barricate di automobili, sbarrando l’unica via d’accesso al quartiere per poi ritirarsi in casa a preparare micce per bombe molotov con le loro cravatte più eleganti. Paradossalmente per liberarsi dalla loro “gabbia” psicologica i residenti sono obbligati ad isolarsi dal resto della città, a cercare invano di ristabilire i con5

Richard, dopo la difesa di Grovenors Place, rincara ulteriormente la dose: «Sebbene il ministero dell’Interno temesse questo scoppio di malessere sociale, gli imprenditori che dominavano l’economia di Londra sarebbero stati felici di vedere l’intera popolazione di Chelsea Marina esiliata nelle più cupe periferie, le tristi enclavi di mattoni a Heathrow e Gatwick. Avrebbe provveduto l’incessante boato degli aerei a cancellare qualsiasi futura idea di rivoluzione». [MP 181]

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fini di un territorio, di uno «spazio difendibile». Ballard decide dunque di sovvertire il topos della metropoli isolando un microcosmo ai suoi margini. Un microcosmo in cui le dinamiche già presenti nel macrocosmo, come in High Rise, vengono intensificate e portate al loro estremo. 1.3 Le due facce della rivoluzione Dovendo inserire Chelsea Marina all’interno della classificazione proposta da Setha Low, tra le diverse tipologie di gated community quella che le si avvicina di più sembra essere la cosiddetta «enclave per ricchi» (enclave for the whealty). Il panorama osservato dal protagonista fuori dalle finestre della casa di Kay Churchill – con i suoi marciapiedi immacolati dove si rincorrono gruppi di scolarette «di una scuola elementare privata, le cui rette esclusive sarebbero bastate a pagare l’istruzione di un intero bantustan dell’East End» – conferma in parte questa ipotesi di lavoro: Costruita sul sito di un ex officina del gas, Chelsea Marina era destinata ad un ceto di professionisti salariati desideroso di conservare i propri tabù tribali – scuole private, una cultura da dinner-party e un’avversione mai ammessa per le classi “inferiori”, che includevano operatori della City, consulenti finanziari, produttori discografici e la lumpen-intellighenzia dei pubblicitari e dei giornalisti titolari di rubriche. Tutti costoro sarebbero stati bocciati dal comitato d’ammissione, anche se quasi tutti avrebbero trovato Chelsea Marina troppo modesta e perbene per i loro gusti più ariosi. [MP 50]

Bastano due aggettivi – «modesta» e «perbene» – per sintetizzare lo spirito di questo luogo. Un’«enclave di decoro borghese» creata all’interno del più ampio progetto di riqualificazione dei docks; un rifugio elettivo per la middle class, depurato delle stavaganze dell’upper middle class e altrettanto lontano dalla lower class. Questa almeno l’intenzione dietro alla realizzazione di un progetto che inizia a mostrare inequivocabili segni di logoramento. Doppie righe gialle, affitti, costi di manutenzione in continua crescita: l’interno complesso si sta trasformando ormai in «uno slum costosissimo». I miei vicini sono i nuovi poveri. Non sono speculatori della City, o chirurghi con le loro cliniche private e ricchi pazienti arabi che arrivano dal Golfo. […] I salari hanno raggiunto il tetto. C’è la minaccia

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della pensione anticipata. […] Come la vecchia classe operaia nelle sue case di ringhiera. Le professioni basate sulla conoscenza sono l’ennesima industria estrattiva. [MP 73-75]

C’è il concreto rischio di perdere il livello di benessere e di lusso faticosamente conquistato, c’è l’angosciante possibilità di un downgrade sociale dovuto a numerosi fattori concomitanti: «licenziamenti per esubero di personale, impossibili oneri di debito, proprietà gravate da ipoteche superiori al loro valore». La middle class si trova così intrappolata in un guscio di privilegi da cui è impossibile fuggire. I quartieri esclusivi collassano tra costi di gestione insostenibili e una fornitura di beni e servizi sempre più scadente. La speculazione edilizia non ha interesse a investire in queste formule abitative, i suoi interessi si spingono altrove, in un inesausto rinnovamento. «Vogliono abbattere il complesso, darci la buonuscita e raderlo al suolo. Poi chiameranno Foster e Richard Roberts per progettare enormi palazzi di appartamenti di lusso». A trent’anni di distanza l’ombra del “condominio” si allunga così dalle periferie sino a lambire il cuore di Londra. [MP 84, 74] L’apparenza di decoro e benessere si rivela presto una facciata e il protagonista si rende conto di essere entrato, quasi senza accorgersene, in «una zona di intensa povertà spirituale», nel «cuore di un altro tipo di tenebra». [MP 78, 50] L’esplicito richiamo a Heart of Darkness viene rafforzato dal termine “bantustan”, usato dalla minoranza bianca durante l’apartheid per designare uno dei principali espedienti amministrativi attraverso cui si escludeva la popolazione di colore dalla politica nazionale.Tale combinazione aggiunge una connotazione supplementare ad uno spazio di per sé duplice, ambiguo, equivoco. Connotazione che rimanda per associazione alle profonde ineguaglianze sociali della società britannica, declinate all’interno del tessuto urbano nella contrapposizione tra quartieri esclusivi6 e quartieri popolari (l’East End). Contrapposizione i cui termini sembrano essere stati ridistribuiti da un mutamento repentino. La middle class, attore principale dell’epopea metropolitana nell’Ottocento, si trova ora a essere declassata, marginalizzata, esclusa. I re-

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Il West End, la City, e infine St John’s Wood, nato come sobborgo a bassa densità abitativa e, a tutt’oggi, una delle zone più care nel mercato immobiliare londinese.

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sidenti di Chelsea Marina in effetti sono soli contro tutti. Le istituzioni si dimostrano indifferenti o incapaci; nei tribunali la giustizia svilisce se stessa; le forze dell’ordine si limitano ad adottare con i colletti bianchi le misure repressive sperimentate con la classe operaia: Millennium People dipinge una società sull’orlo del collasso: l’erosione del senso civico, la decadenza delle infrastutture e una popolazione insoddisfatta pronta ad allestire “happening” distruttivi mentre, dietro tutto questo, i veri estremisti preparano una loro strategia di terrorismo nichilista. La vecchia aspirazione rivoluzionaria di cambiare il sistema è definitivamente tramontata dietro l’orizzonte.“L’era della politica è ormai finita”7.

L’intera struttura dello stato-nazione su cui si reggevano le sicurezze dei buoni borghesi si sta disgregando. E se la rivolta riesce effettivamente a denunciare l’intreccio di interessi che si nascondono dietro la gestione del loro quartiere – «una coalizione formidabile di banche e società d’amministrazione di stabili, messi comunali e dirigenti della proprietà» – alla fine dovranno scendere a patti con i tanto odiati “avversari”, arrivando all’ennesima soluzione di compromesso. Nel corso della sommossa non mancano comunque episodi incoraggianti, in stridente contrasto con il pessimismo predominante nell’ultima produzione ballardiana. Come nel capitolo 24, quando i vicini della famiglia Turner, privata dei servizi elementari in seguito all’ostinato rifiuto nel pagare le bollette, si prodigano per aiutarli: «gettando prolunghe di cavi elettrici e tubi d’acqua oltre il loro giardino». [MP 174] Un atteggiamento che ridefinisce la netta separazione tra “pubblico” e “privato” tracciata dagli steccati di queste villette unifamiliari. Le risorse sono messe in comune, lo spazio non è più compartimentato e i singoli gruppi familiari collaborano in vista di un obiettivo comune.Tale obiettivo non è del tutto chiaro, eppure orienta il malcontento degli abitanti verso tutti quei portatori di interesse (stakeholdes) che vengono percepiti come parassiti, estranei e sfruttatori del «nuovo proletariato». Per una breve, effime7 «Millennium People portrays a society close to the verge of collapse, its civic sense eroded, its infrastructure falling apart, and its disaffected populace staging destructive “happenings” under cover of which the real extremist prepare a programme of nihilist terror. The old revolutionary aspiration of changing the system in its entirely has long receded from view. […] “Politics is over”». Gasiorek, Op. cit., p. 175.

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ra parentesi nel cuore della metropoli si ricrea la “solidarietà” caratteristica delle forme di insediamento pre-urbane. Ma è, appunto, una parentesi breve, alla fine i borghesi preferiranno il divano alle barricate, e ritorneranno ordinatamente alla vita di prima. «Responsabilmente, smantellammo la modesta barricata in Grosvenor Place, raddrizzammo le macchine e le spingemmo nell’area di parcheggio, spazzammo via i vetri rotti e facemmo il possibile per riordinare la strada. L’unico parchimetro incolume ricevette presto la sua prima moneta». [MP 204] Un fatalismo conformista rispetto a cui Richard Gould ha cercato di opporsi con tutte le sue forze. Andando ben al di là di uno «sciopero dei fitti gonfiato» per portare la rivoluzione su un altro piano, trasformando il risentimento della classe media in una rivolta metafisica. 1.4 Le ceneri del National Film Theatre All’inizio del capitolo 19, passando in taxi davanti alle macerie del National Film Theatre, il giorno dopo aver partecipato all’attentato incendiario che lo ha raso al suolo, David si accorge di percepire l’intera città in maniera diversa. «Il centro di Londra era vestito per una giornata apocalittica. L’incendio di una filmoteca smuoveva chiaramente strati profondi di disagio, mentre le paure inconsce proiettate da migliaia di film hollywoodiani finivano per emergere nella realtà». [MP 128] Nei due capitoli immediatamente precedenti a questa scena il protagonista è fuggito dalla scena del crimine e ha avuto modo di incontrare per la prima volta l’eminenza grigia che sta dietro i disordini di Chelsea Marina, forse anche alla bomba di Heathrow. Siamo ad una svolta costitutiva del suo percorso, in seguito alla quale si troverà a dover ridefinire molte delle certezze acquisite. Ciò a cui ha assistito sinora, la prima fase, la più ingenua e disordinata, della rivolta capeggiata da Kay Churchill, si è appena conclusa. Ora si passa ad un nuovo livello. Il familiare panorama della metropoli diventa all’improvviso «apocalittico». Le macerie annerite, i residui materiali dell’incendio, rievocano infatti un vuoto immateriale. Un vuoto aperto all’improvviso dalla compenetrazione di due piani – finzione e realtà – che le nostre categorie concettuali vorrebbero distinti o, almeno in astratto, distinguibili. L’attentato e la successiva valutazione delle conseguenze producono insomma uno “straniamento” del protagonista rispetto ad un con-

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testo familiare8. Sin dall’iniziale definizione teorica da parte del formalismo russo il procedimento dello straniamento si regge appunto su questo: mostrare la presunta realtà attraverso un diverso punto di vista. Questa dislocazione della focalizzazione permette di evidenziare particolari inediti, di far emergere differenti schemi di percezione e di giudizio, di mettere in crisi i campi semantici attraverso cui si snoda abitualmente la nostra logica. La rivelazione che attende David sulle sponde del Tamigi coinvolge tutti gli aspetti appena enumerati. È una sorta di punto di non ritorno. Dopo il colloquio con Gould deciderà di non confidarsi più con la moglie, già tentata dal denunciarlo alle autorità. Nel corso della vicenda si renderà volontariamente complice di molte altre azioni simili. Arriverà addirittura ad intraprendere una relazione extra-coniugale – naturalmente con Kay – abbattendo così l’ultimo baluardo della rispettabilità borghese, il matrimonio. Il tutto a causa della crescente simpatia che inizia ad avvertire per alcune «idee balzane». Quando, ben prima del falò delle vanità filmiche britanniche, Sally gli aveva rinfacciato di aver intrapreso l’indagine non per svelare il mistero di una morte inspiegabile bensì alla «ricerca di un nuovo io», David aveva reagito sprezzante. Ora arriva a comprendere il suo errore e a valutare le azioni dei suoi complici in modo diverso. [MP 127, 106] Le motivazioni pragmatiche della rivolta sono apparenti, mentre le vere ragioni del disagio giacciono in profondità. Gould stesso lo ammette senza pudori: protestare contro i parcheggi a pagamento, «le rette scolastiche, i costi di manutenzione» non è solo futile, ma «ridicolo». La borghesia non si rende conto di rivoltarsi contro se stessa, contro l’insieme di obblighi e privilegi che la definisce in quanto classe. L’incapacità di assicurarsi privilegi dati per scontati porta ad infrangere platealmente alcuni piccoli obblighi. L’ossessione di un possibile, imminente, declassamento sociale genera delusione e rabbia. Sentimenti pronti ad alimentare contestazioni violente ed effimere. Non è l’annuncio di una prossima una rivoluzione, è la sua versione farsesca, è un insieme disordinato di tentativi abortiti. 8 Ipotesi riconfermata dall’impressione provata da David rientrando in casa dopo una prolungata assenza. «Era tutto al suo posto, ma la prospettiva era cambiata. Avevo avuto un assaggio di libertà, e di colpo la vita a St John’s Wood mi sembrava irreale, assolutamente privilegiata». [MP 170]

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Eppure in questi gesti il guru di Millennium People vede un debole barlume redenzione. Non condivide i metodi dei suoi discepoli, eppure sente che stanno procedendo inconsapevolmente lungo la strada giusta. Il rischio che si smarriscano certo è notevole. L’unica ragione che lo rende accettabile è la posta in gioco: la libertà. «Far saltare in aria un negozio di video, incendiare il National Film Theatre… completamente assurdo. Ma proprio per questo ti ha fatto sentire libero». [MP 126] Un paradosso che si profila sullo sfondo di una serie di altri paradossi, tracciando uno spietato bilancio delle occasioni mancate dell’utopia moderna e del suo fallimento: La gente non si piace al giorno d’oggi. Siamo una classe di redditieri, un retaggio del secolo scorso. Tolleriamo tutto ma sappiamo che i valori liberarli sono fatti apposta per renderci passivi. Pensiamo di credere in Dio, ma siamo terrorizzati dal mistero della vita e della morte. Siamo profondamente egocentrici, ma non riusciamo ad affrontare l’idea del nostro io finito. Crediamo nel progresso e nel potere della ragione, ma siamo assillati dai lati più oscuri della natura umana. Siamo ossessionati dal sesso, ma temiamo l’immaginazione sessuale e dobbiamo essere protetti da enormi tabù. Crediamo nell’eguaglianza, ma detestiamo le classi inferiori. Temiamo i nostri corpi e più di ogni cosa temiamo la morte. Siamo un incidente di natura, ma pensiamo di essere al centro dell’universo. Siamo a pochi passi dall’oblio, ma in qualche modo pensiamo di essere immortali… [MP 126]

Agli inizi del Novecento le avanguardie storiche si erano assunte il compito di épater les bourgeois. Breton, in un famoso passo, suggeriva di uscire in strada con una rivoltella e di sparare a caso sulla folla9. Sarebbe stato l’atto surrealista perfetto. Dare alle fiamme un tempio secolare dedicato alla settima arte ricorda d’altronde un altro noto motto marinettiano. Ora però la middle class sembra prendere alla lettera le provocazioni un tempo rivolte al sovvertimento della propria morale, rivisitando la fascinazione dell’«atto gratuito» quale unica forma di emancipazione da un «nuovo tipo di alienazione», assaporando l’inebriante sensazione di libertà derivante da una consapevole accettazione dell’assurdo10. 9

«Se […] uccidi qualcuno a caso, spari una sventagliata di pallottole in un Mc Donald’s l’universo indietreggia e trattiene il fiato». [MP 158] 10 Esemplare il seguente passaggio in cui Kay e David discutono del significato della bom-

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Durante il primo colloquio con il nuovo adepto Richard Gould si serve di un episodio illuminante per sviluppare alcune considerazioni a riguardo: l’attentato terroristico alle Torri Gemelle. Un esempio su cui insisteva un anno prima Slavoj Zizek, in un famoso saggio sul «ritorno al Reale» (return to the Real)11. Lo straordinario senso di confusione ontologica che il filosofo sloveno delineava tra le pieghe delle testimonianze di un attentato, non solo descritto e rielaborato dai media ma chiaramente ideato dai suoi mandanti secondo i canoni dell’estetica hollywodiana, riemerge nel romanzo ballardiano. Esattamente quando David, di fronte alle ceneri fumanti del National Film Theatre, realizza quanto, in fondo, l’«atto gratuito» e l’intrattenimento di massa attingano le loro risorse dal medesimo serbatoio di paure inconsce. Ciò che cambia è la finalità verso cui vengono indirizzate, il sovvertimento o la riproduzione della nostra visione del mondo. L’infiammata retorica del suo maestro azzarda un giudizio ancora più netto: «L’attentato al World Trade Center è stato un coraggioso tentativo di liberare l’America dal Ventesimo secolo. Le morti sono state tragiche, ma per il resto è stato un gesto insensato». [MP 127] Soffermiamoci un attimo sul termine “insensato”, snodo cruciale nella strategia di persuasione adottata dal nostro guru. Un termine che è possibile interpretare almeno in due accezioni: ciò che appare come privo di senso, ma anche ciò a cui è impossibile attribuire un senso. Il terrorismo suicida e la morte di migliaia di persone sono due fenomeni che si collocano ben al di là dei nostri schemi cognitivi abituali. Costituiscono certo una sfida per la nostra ragione, spingendoci nell’ardua impresa di ritrovare motivazioni plausibili dietro un simile atto. La nostra logica scopre i limiti e questi limiti ne dimostrano certo la fallibilità eppure, in questo caso, non arriviamo a dubitare della validità stessa del metodo. Gould e Zizek, invece, ci invitano a riflettere sulla possibilità di un atto che, semplicemente, si pone al di fuori di qualsiasi spiegazione ba di Heathrow: «D.M.: “[Sally] deve darle un senso.” K.C.: “Un senso? Non c’è nessun senso. È proprio questo il punto.” D.M.: “È difficile farlo capire però. Solo uno psicopatico può comprenderlo”». [MP 148] 11 «L’esplosione spettacolare delle Torri Gemelle non è stata solo un atto simbolico (nel senso di atto il cui scopo fosse quello di trasmettere un messaggio): è stata prima di tutto un’esplosione di letale jouissance, un atto perverso di autotrasformazione in strumento della jouissance del Grande Altro». Zizek, Op. cit., p. 145.

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razionale o simbolica. Un atto radicale, «una scommessa impossibile, un gesto folle che lancia una specie di messaggio» in grado di sovvertire alla base la morale borghese. Uscire con una rivoltella in mano e sparare tra la folla, abbattere le Torri Gemelle, dare fuoco alla memoria materiale del cinema britannico, tutte imprese che fanno baluginare la possibilità di una nuova logica. «Persino un universo privo di significato ha un significato. Se accetti questo tutto ha un nuovo tipo di senso». [MP 126, 124] 1.5 L’araba fenice dell’alienazione Una linea sottile separa il pensiero estremo di Richard Gould dalle appassionate prediche di Kay Churchill. Attraverso queste due figure Ballard delinea una precisa corrispondenza tra i due aspetti della rivolta e i due momenti dell’indagine, separandoli nettamente. All’inizio abbiamo una comunità incapace di articolare le ragioni del dissenso. L’impossibilità di comprendere e, di conseguenza, di esprimere i motivi della rivolta testimonia il grado di confusione e obnubilamento della classe media. Ormai non c’è nessun Grande Fratello, nessuna ingombrante personificazione del “nemico”. «Non c’è nessun Mr. Big. Il sistema è autoregolamentato. Fa affidamento sul nostro senso di responsabilità civica, senza il quale la società andrebbe a catafascio». [MP 9, 96] La presunta rivoluzione finisce così per disperdersi nei mille rivoli di una rivolta diffusa, o meglio, un insieme di rivolte. Una disordinata crescita di movimenti di protesta separati tra loro, privi di un programma condiviso e di un leader riconosciuto, che si manifestano in maniera epidemica. C’è dunque un isomorfismo tra i movimenti e il sistema a cui tentano di opporsi. In entrambi i casi l’idea di struttura gerarchica o verticistica è superata come un’illusione, un residuo del passato12. Nel primo caso viene meno l’idea di un Grande Fratello, o di una ristretta oligarchia a capo di un regime oppressivo, tanto cara alle teorie del complotto fiorite nell’evo moderno. L’assenza di un nemico chiaramente individuabile porta la classe media a ribellarsi contro se stes-

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«Qui il potere è disseminato attraverso numerosi punti d’intersezione, nessuno dei quali ne controlla completamente gli effetti». [«Power is here dispersed across several intersecting points, none of which is in complete control of its effects»]. Gasiorek, Op. cit., p. 181.

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sa, contro i propri status symbol e il proprio stile di vita. «La cosa interessante è che quella gente sta protestando contro se stessa. Non c’è nessun nemico là fuori. Sanno di essere loro il nemico». [MP 100] Per combattere il sistema delle classi in quanto strumento di controllo politico, occorre quindi liberarsi dell’illusoria idea di libertà fatta di «educazione liberale, responsabilità civica, rispetto della legge». Il sistema classista, come teorizzato da Foucault, viene regolato dall’interno, grazie ad una serie di tabù e di convenzioni: «La borghesia deve essere tenuta sotto controllo. […] Loro lo capiscono e mantengono l’ordine nei loro ranghi. Non con le armi o con le purghe, ma con le convenzioni sociali. Il modo giusto di fare sesso, di trattare la propria moglie, di flirtare al circolo di tennis, di iniziare una relazione. Ci sono regole non dette che tutti dobbiamo imparare». [MP 79, 82] L’accento posto su quest’ultimo punto apre prospettive interessanti, specie se accogliamo una riflessione di Zizek a proposito della fase terminale del comunismo nell’ex Unione Sovietica. Un sistema totalitario la cui dissoluzione era preannunciata da una crescente anarchia della vita quotidiana, dovuta all’erosione di questi codici di comportamento impliciti. Ben prima del fragoroso crollo del Muro i germi della dissoluzione si erano annidati per anni, nelle interminabili code per i generi di prima necessità, nella piccola corruzione e in fenomeni analoghi.A dimostrare come la più solida tra le colonne portanti del regime non fosse né il suo apparato né la sua propaganda, bensì l’infiltrazione dell’ideologia negli aspetti più prosaici del quotidiano, nei minimi dettagli, nel non-detto che regola discretamente le interazioni sociali. Una rigida disciplina non basta ad assicurare la perpetuazione dello status quo, se non affiancata da più pervasive forme di autoregolazione e, in questo, il capitalismo avanzato sembra aver superato di gran lunga il successo del totalitarismo. «Lei non crede che [il turismo di massa] sia un tipo di lavaggio del cervello?», domanda la Giovanna d’Arco di Chelsea Marina all’ennesima casalinga disperata. Risposta: «Ma io voglio che mi facciano il lavaggio del cervello». [MP 83] Nemmeno gli zelanti censori del KGB avrebbero mai sognato un tale grado di soddisfazione delle proprie vittime. La contestazione del gruppo di Kay prende atto di tale realtà e agisce di conseguenza, muovendosi su due binari paralleli: da un lato la distruzione spettacolare delle principali icone della società dei con-

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sumi (centri commerciali, agenzie di viaggi, musei); dall’altro un capillare lavoro sul campo volto a instillare il dubbio, a promuovere un esercizio critico di autoconsapevolezza, non attraverso la violenza ma grazie alla persuasione13. A differenza della prima la seconda strategia si sviluppa nel lungo periodo, portando a disimparare norme e convenzioni accettate supinamente. La contro-informazione porta così ad una contro-educazione, il cui fine ultimo sembra coincidere con il ritorno alla barbarie. La debolezza e il maggior limite di una simile critica è nel non lasciare intravedere una soluzione alternativa.Alle pressanti richieste di David si oppone sempre la medesima risposta: una volta distrutti i simboli e i tabù della società borghese cosa prenderà il loro posto? «Staremo a vedere. […] Lo decideremo quando sarà il momento». [MP 80] Il vuoto di progettualità a cui sembra condurre «la rivoluzione da salotto» è invece il presupposto da cui parte Richard Gould. «“Puro nichilismo?” “Esattamente l’opposto. È qui che ci siamo sbagliati tutti quanti – tu, io, l’Adler, l’opinione liberale – Non è una ricerca del nulla. È una ricerca di significato”». [MP 171] Come nota il protagonista nessuno, dalle istituzioni ai media, riesce a comprendere la natura di questa rivolta metafisica. Una rivolta che va al di là di ogni motivazione politica o pragmatica, che cerca di intaccare «il duro zoccolo d’insensatezza», di fronteggiare l’assurdo «al di là di tutte le teorizzazioni, di tutte le catene di causa-effetto». [MP 155] Una posizione che rifiuta la visione strumentale dalla pasionaria di Chelsea Marina, vedendo nella violenza non solo un mezzo per raggiungere un fine, ma un fine in sé. Ecco la sconvolgente verità che attende il nostro detective alla fine del suo cammino. Riprendendo il parallelo con Heart of Darkness anche nel romanzo di Ballard il protagonista fronteggia attraverso il suo doppio l’«orrore», pur dimostrandosi incapace di abbracciarlo sino in fondo. Gli dei sono morti, e noi non ci fidiamo dei nostri sogni. Emergiamo dal vuoto, per un breve momento ci giriamo a guardarlo, e poi ci ripiombiamo dentro. […] Un delitto insensato, ma il mondo si ferma. Restiamo in ascolto, ma l’universo non ha niente da dire. C’è solo silenzio, così siamo costretti a parlare. [MP 229-230] 13

«Smuovere le cose. Fargli capire che sono delle vittime». [MP 86]

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L’unica risposta adeguata secondo Gould al silenzio dell’universo è la violenza immotivata. Questo il legame che unisce la ricerca di un sé autentico da parte del protagonista alla visione del guru, e, nello stesso tempo, il discrimine che li divide da Kay. Certo il protagonista si limita a “rivivere” in maniera vicaria l’omicidio attraverso l’indagine, eppure tale schema fornisce la base necessaria per sviluppare, nella seconda parte del romanzo, il processo di identificazione con Gould. Processo che va a colmare una mancanza, un’incompletezza nella sua personalità. Il maestro non si limita a condividere una rivelazione e arriva ad offrirsi a «come una scatola di montaggio con la quale avrei potuto costruire una figura vitale che mancava alla mia vita». [MP 155] 1.6 Il doppio distanziamento e la triangolazione del desiderio Dopo aver delineato gli elementi essenziali sul piano dell’enunciato è ora possibile ricostruire facilmente un pattern caratteristico dell’ultima produzione ballardiana. Un modello la cui ripetizione nulla toglie all’originalità con cui viene declinato di volta in volta e che, una volta isolate le singole varianti, permette di stabilire numerose analogie a partire da Cocaine Nights sino ad arrivare a Kingdom Come. Un primo indice di omogeneità è rintracciabile nella scelta e nella caratterizzazione del protagonista. Nessuno dei tratti assegnati è casuale. Immancabilmente Ballard predilige un maschio, bianco, in piena crisi di mezza età. La crisi coinvolge almeno tre aspetti della sua esistenza: la situazione sentimentale; il rapporto con la famiglia e, in particolare, con i genitori; la situazione professionale. In nessuno di questi tre campi il nostro “eroe” di turno sembra aver raggiunto una qualche realizzazione o, almeno, un minimo di soddisfazione. Basta la minima scossa per incrinare un equilibrio tanto precario. In Millennium People e in Kingdom Come abbiamo la morte violenta di un componente del nucleo familiare (l’ex moglie; il padre), in Cocaine Nights invece il suo convolgimento in un omicidio. La famiglia, primaria e secondaria, è puntualmente all’origine dei traumi che l’eroe si trova ad elaborare. Particolamente interessante ad esempio l’influenza del suicidio della madre sul rapporto dei fratelli Prentice in Cocaine Nights. Oppure in Millennium People, le dure parole di David, il suo atto di accusa nei confronti di un’educa-

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zione sin troppo permissiva, conclusasi con un reciproco allontanamento: «[Mia madre] È uno spirito libero. […] Mi ha amato intensamente per dieci minuti. Poi è finita». [MP 67] Senza dimenticare infine la totale assenza della figura paterna. In ognuno dei romanzi citati il volto perennemente dimenticato nel ritratto di famiglia è quello del padre. Un’assenza che, secondo l’interpretazione in chiave psicanalitica proposta da Andrzej Gasiorek, può gettare luce sul rapporto di ammirazione conflittuale che si viene ad instaurare tra il protagonista e il guru: Il processo di scoperta di sé raccontato in questi testi implica una forte identificazione con la figura paterna, a cui segue una rivolta edipica che converte i narratori alla “normalità” del regime sociale e permette di plasmare una nuova identità. Ma dobbiamo notare un rovesciamento cruciale: la figura paterna qui non rappresenta l’ordine sociale, bensì la trasgressione nei suoi confronti. In contrasto con la lettura fornita da Lacan dell’intrepretazione freudiana del mito di Edipo, dove il mito funziona come un sistema in cui “il padre, il Nome-delpadre sorregge la struttura del desiderio con la struttura della legge”, questi testi non rappresentano la figura paterna in quanto metafora del Super-Io ma, piuttosto, come simbolo della libertà incondizionata dell’Es. Il che, di conseguenza, propone il rovesciamento di tutti i valori riconosciuti e condivisi14.

L’analisi di Gasiorek è suggestiva per la sua capacità di collegare la ricerca del sé (tra le opposte istanze del Super-Io e dell’Es) ad una «struttura del desiderio», che articola in una successione temporale queste opposizioni in un mito, ossia in una narrazione. La struttura del desiderio chiama in causa due figure che, nella rete dei personaggi, sono definibili come l’“aiutante” (Paula Hamilton, CN; Frances Baring, SC; Kay Churchill, MP) e l’“antagonista” (Bobby Crawford, CN;

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«The journeys of self discovery narrated in these texts involve a powerful identification with the paternal presence, which is then followed by an oedipal revolt that turns the narrators to the “normality” of the social realm and permits a new identity to be forged. But there is a reversal here: the paternal figures do not represent social order, but trangress againts it. In contrast to Lacan’s reading of Freud’s reading of Oedipal myth as a system in which the “father, the Name-of-the-father sustains the structure of desire with the structure of the law”, these texts project the father figure not as the symbol of super-ego, […] but rather as the representative of the untramelled id, which then propose to reverse all received values». Gasiorek, Op. cit., p. 173.

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William Penrose, SC; Richard Gould, MP). Con il primo, puntalmente, il nostro eroe intrattiene una relazione sentimentale; con il secondo invece si cimenta in una sorta di sfida a distanza. Il guru non si concede facilmente al suo inseguitore, viene rivelato per gradi. Ed è proprio tale separazione, tale distanza a richiedere la presenza di un mediatore. Un “aiutante” capace di introdurre il protagonista in una comunità in cui si trova ad essere percepito come un estraneo e, nel contempo, di facilitare «il legame omosociale tra i doppi maschili»15. Documento acquistato da () il 2023/05/03.

Il protagonista, inteso come outsider, viene trascinato verso i meccanismi interni di un particolare senso di confusione e disagio, ritrovandosi, attraverso una violenta uccisione simbolica, in una condizione che Piotr Sztompka ha definito nei termini di “cambiamento sociale traumatico”. Questa condizione può essere determinata in diversi modi, sia da eventi rapidi e improvvisi come le guerre e gli attacchi terroristici, sia da un repentino cambiamento nelle condizioni quotidiane e nei valori dominanti, tale da produrre shock e sorpresa, rimanendo difficile da comprendere e da assimilare per il singolo individuo. D’altra parte questa rivelazione svela e rende evidente una depravazione interiore o una più universale complicità con il “trauma”, che è esattamente ciò che essi desideravano, mettendosi alla ricerca di una concezione più elevata di giustizia. In questo modo si potrebbe descrivere la mentalità degli ultimi protagonisti ballardiani, notando quanto siano meno menefreghisti rispetto ai loro predecessori. Essi riconoscono la dualità della sofferenza comprendendone, allo stesso tempo, il potenziale negativo e positivo. Inoltre, i protagonisti ballardiani condividono quel tipo di “desiderio mimetico” che Girard ritrova nel Totem e tabù di Freud. Un desiderio che si fonda non solo su una “mistica della violenza collettiva”, ma che si dimostra essere un “processo simmetrico e reciproco” proprio in quanto “mimetico”16.

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«The homosocial bond between the original (male) doubles». Ivi, p. 172. «The protagonist as outsider is drawn towards the inner workings of a particular sense of disturbance and unease, encountering, in a localized sense, and through a symbolic violent killing, a social condition which Piotr Sztompka has described as “traumatogenic social change”. This condition can be initiated variously by sudden and rapid occurences such as war and terrorist attack, or radical shifting dominant values and condition so it remains surprising and shocking for an individual to comprehend and assimilite. However, this social revelation the unravels and allows a perception of a inner depravity or an inner universal complicity with the central traumatological act, that 16

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Pur riprendendo la tradizione del doppio la triangolazione utilizzata da Ballard amplia lo schema diadico di base. Il conflitto manicheo tra ego ed alter ego, destinato a risolversi attraverso la sopraffazione o il reciproco annullamento, trova qui una diversa soluzione. La «seducente visione del mondo», le «perverse logiche sociali»17 di cui il protagonista avverte il pericoloso fascino sono infatti lo strumento della sua rinascita interiore, ma non coincidono mai con il suo fine. Lo sdoppiamento, la simpatia e la crescente immedesimazione nei confronti del guru ad un certo punto si spezzano. Raramente arriviamo a una completa conversione del riluttante discepolo. Alla radice di questo dissidio riemerge lo spirito delle filosofie «romantico-espressive» secondo cui «l’autenticità del sé risiede nella via del desiderio» e «la liberazione del sé è il bene che sovrasta ogni altro bene»18. In contrasto con il disinteressato ascetismo di Gould, «il primo di un nuovo genere di uomini che si rifiutano di inchinarsi all’arroganza dell’esistenza e alla tirannia spazio-temporale» [MP 257], il protagonista, alla fine, si dimostra erede più dell’egoismo stirneriano che dell’Übermensch di Nietzsche. La partecipazione vicaria al delitto, la seduzione ipnotica del crimine evidenziano a più riprese il suo ruolo di osservatore, la sua indecidibile posizione morale19. Gli eroi ballardiani sono e rimangono degli outsider, non diventano mai dei ribelli. Il loro processo di autoconoscenza si risolve tutto in una dimensione privata e, pur gettando luce sull’interconnessione

is to the sacrificial moment they have pursued seeking a notion of justice. In this way, one may situate the state of mind of Ballard’s postmillennial protagonists, understanding that they are far less insouciant than their predecessors. They recognize the duality of suffering, both is evil and redemptive possibilities. Moreover, they partake of the kind of “mimetic desire” that Girard sees in Freud’s Totem and Taboo, and which not only draws upon a primeval “mystique of collective violence”, but is a “symmetrical, reciprocal process because it is mimetic». J. G. Ballard, a cura di J. Baxter, cit., p. 117. 17 Ibidem. 18 «Il sé dovrebbe avere la priorità sulla società e […] l’autenticità del sé risiede nella via del desiderio». [«The self should take priority over society, and […] authenticity of self lies along the path of desire»]. Gasiorek, Op. cit., pp. 196-197. 19 «Qui le emozioni sono osservate come se fossero esperite attraverso lo “schermo” di qualcun altro, le “persone” (nell’accezione latina del termine) sono indossate come intercambiabili maschere e le diverse “personalità” equivalgono a facciate teatrali». [«Emotions are observed here as thought they were being experienced by someone else, personae are adepted like intechangable masks, and “personalities” are equated with theatrical facades»]. Ivi, p. 180.

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tra «strutture economiche, sistemi sociali e modalità psicologiche»20, non può fare nulla per modificarle. Un senso di impotenza che permette a Ballard di affiancare allo sdoppiamento del Sé una rivisitazione postmoderna dell’alienazione marxista. Nei suoi romanzi il soggetto è evidentemente alienato da se stesso. Attraverso l’alter ego del guru assistiamo ad una riemersione del rimosso, ad un confronto tra i fantasmi e le pulsioni che si aggirano nell’incoscio non solo individuale ma dell’intera società. Difficile parlare di formazione nel senso classico del termine. Sicuramente tale riemersione contribuisce ad una positiva demistificazione, ad una presa di coscienza critica che prepara il terreno per una ri-generazione del Sé. Il secondo aspetto, l’alienazione dell’uomo rispetto all’uomo, non trova una soluzione altrettanto positiva. I personaggi ballardiani manifestano una visione strumentale dei rapporti interpersonali, sono i perfetti rappresentanti di un’affettività liquida. Carnefici o vittime consenzienti, manipolati o manipolatori, sono intrappolati in una società pirandelliana di maschere, di apparenze e si comportano come attori in cerca del giusto teatro di posa. L’accettazione dell’alienazione come un dato di fatto e la «morte del sentimento» forniscono la precondizione su cui si innesta il terzo, e forse più innovativo, snodo della riflessione ballardiana: la derealizzazione del mondo. Qui l’autore britannico si discosta notevolmente dai presupposti del modello marxista, rovesciando l’ordine di priorità tra struttura e sovrastruttura. Denunciare l’influenza dell’«industria culturale»21, a suo avviso, è limitante. Occorre piuttosto riconoscere schiettamente quanto ormai i media contribuiscano a plasmare la nostra percezione del reale e le nostre categorie concettuali. I processi di significazione attraverso cui i suoi personaggi interpretano la loro esperienza sono spesso derivati dal linguaggio cinematografico, confermando a pieno l’ipotesi di Paul Breines secondo cui: «nella società industriale ognuno è ridotto al ruolo di spettatore di fronte allo spettacolo della propria attività alienata»22. Ballard sugge20

Ivi, p. 175. Cfr. Adorno Theodor Wiesengrund, Horkheimer Max, Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi, 1997. 22 Gasiorek, Op. cit., p. 181. 21

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risce come anche la violenza immotivata, che nelle intenzioni del guru dovrebbe spezzare un simile circolo vizioso, rischi di ridursi ad uno spettacolo o un gioco. In fondo l’intero processo di identificazione mimetica con l’alter ego, non sarebbe possibile se il soggetto non fosse già distaccato in maniera eguale dalla realtà e dalla sua rappresentazione. Un doppio distanziamento che finisce per rivelare il sottile confine tra l’«atto gratuito» e l’estetizzazione della violenza: Affermare che qui si produca una sorta di confusione ontologica, per cui il mondo proiettato sullo schermo si confonde con il mondo reale, non è abbastanza. In una maniera più sottile, si produce un presa di distanza progressiva da entrambi i mondi (realtà e finzione), al punto che nessuno di questi due è, di fatto, “reale”: entrambi sono percepiti come regni della fantasia, atti a sperimentare dei ruoli privi di conseguenze in ciascuno di questi ambiti23.

David partecipa alla rivolta di Chelsea Marina sentendosi «stranamente estraneo ai fatti». Una controfigura del suo «vero io» che gli permetterà di ritornare alla normalità con la tranquilla calma di Wakefield, dopo aver inseguito il «sogno di violenza» fuggito dalla sua testa «nelle strade circostanti, istigato dalla promessa di cambiamento». [MP 116] Il ritorno alla normalità, forse l’unico elemento discordante rispetto ai due romanzi precedenti, non rappresenta comunque una resa. Celando la verità circa la morte di Gould, Markham vuole preservare il messaggio del guru nella sua originale purezza. Di fronte all’impossibilità di realizzare la rivoluzione nell’immediato, l’unica scelta è quella di proiettarne la possibilità nel futuro: Chelsea Marina era il modello di riferimento per le proteste sociali del futuro, per insurrezioni armate prive di senso e per rivoluzioni condannate, per la violenza immotivata e per manifestazioni dissennate. La violenza, come aveva detto una volta Richard Gould, dovrebbe sempre essere gratuita, e nessuna rivoluzione che si rispetti dovrebbe raggiungere i suoi scopi. [MP 158]

23

«It is not enough to say that a kind of ontological confusion takes places here, the world projected onto the screen being mistaken for the world beyond it. More subtly, a progressive detachment from both worlds takes place so neither is “real”: both are coinceived as fantasy realms for trying out roles that have no consequences in either domain». Ivi, pp. 182-182.

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2. Kingdom Come

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2.1 Il testamento di un provocatore nato Neanche la vecchiaia e l’avvicinarsi della morte, avvenuta nel 2009, riuscirono a togliere a Ballard il gusto della provocazione. Alla vigilia della FIFA World Cup 2006, in una delle ultime interviste rilasciate alla stampa, l’autore britannico non si fece sfuggire la ghiotta occasione di dileggiare uno degli sport più amati dai suoi connazionali, il calcio: Possiamo notare una sorta di inquietante vibrazione che scuote tutte queste bandiere di San Giorgio. Se foste venuti qui una settimana fa, davanti ad ogni dannato negozio di Shepperton sventolava una grande bandiera. Lo stesso dicasi per molte delle case. Per quanto riguarda le macchine, ognuna aveva almeno una bandiera. Sapete, non si può fare a meno di pensare che tutta questa eccitazione intorno alla Coppa del Mondo fosse qualcosa di più di semplice entusiasmo sportivo. Io credo… Io non vorrei dire che questo sia il primo segnale di una prossima ascesa al potere del fascismo, ma…24

La serietà dello scherzo stava tutta in quell’ultimo “ma”, che solo apparentemente alleggeriva il tono profetico dell’annuncio di un’imminente «ascesa fascista» (fascist takeover). Prevedendo la reazione scettica del giornalista l’intervistato si affrettava così a precisare il suo pensiero. Le previsioni azzardate ben si adattavano al temperamento di un ex scrittore di fantascienza, eppure il monito implicito in quelle parole rifletteva una preoccupazione reale: «Le persone si annoiano e sono insoddisfatte delle loro vite, penso che basterebbe solo una piccola spinta e potrebbe accadere qualcosa di inquietate»25. Noia e insoddisfazione, di nuovo. Se volessimo rintracciare il fil rouge che per tre decenni si è dipanato attraverso il composito arcipe24

«We see uneasy, sort of, tremors fluttering all those St George’s flags. I mean, had you come here a week ago, every bloody shop in Shepperton had a large St. George’s flag. Many of the houses here had flags fluttering. Every other car had more than one flag. You know, you can’t help but think the excitement over the World Cup was about more than mere sport, I feel… I don’t say that it’s the first sign of a fascist takeover. But…». J. G Ballard, a cura di J. Baxter, cit., p. 110. 25 «People are obviously bored and they are dissatisfied with their lives, and I think it only would take a small push, and something rather unsettling might begin to happen». Ibidem.

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lago delle gated communities ballardiane non potremmo trovare una sintesi migliore. Questa è la precondizione esistenziale da cui prendono le mosse tutti i testi inseriti nel nostro corpus e Kingdom Come non fa eccezione. Pubblicato nel 2006, vi si ritrovano molte delle suggestioni incontrate sinora: un ritratto impietoso del disagio della postmodernità, un soggetto in crisi pronto a intraprendere per vie inusuali una ricerca di sé e, infine, le derive estremistiche a cui tale sogno di rigenerazione individuale e collettiva può portare. La rivelazione che ci attende a Brooklands, una «cittadina tra Weybridge e Woking sviluppatasi negli anni Trenta attorno ad un circuito automobilistico» sullo sfondo del verde Surrey, [KC 8] riunisce i tre aspetti appena citati, mettendo in evidenza una forte continuità con le opere precedenti. Il dato più interessante e la vera novità stanno però nella scelta dell’ambientazione. Certo è difficile immaginare un teatro più improbabile per una dittatura fascista di una piccola cittadina della provincia inglese, eppure Ballard insiste proprio su questo aspetto. Perché? Forse perché l’incubo di un regime totalitario e oppressivo proiettato sino ad allora nei lontani resort e nei parchi tecnologici della costa meridionale dell’Europa sembra in procinto di realizzarsi appena dietro l’angolo: basta guardare attentamente fuori dalla finestra di casa. Una fragile patina di tranquillità aleggia sopra i quartieri residenziali, «addormentati nelle loro sonnacchiose villette, protetti da benevoli centri commerciali», mentre aspettano con pazienza «l’arrivo di incubi che li facciano risvegliare in un mondo più carico di passione». [KC 7]. Brooklands assomiglia molto a Shepperton, il sobborgo in cui Ballard scelse di rimanere sino alla fine dei suoi giorni. Eppure del modesto paese che lo aveva accolto agli inizi degli anni Sessanta, insieme alla moglie e ai tre figli, rimane poco o nulla. Shepperton è cambiata almeno quanto è cambiato il contesto. Se ne accorge subito anche Richard Pearson, il nostro protagonista, percorrendo in senso inverso la stessa strada ai margini della quale trentatre anni prima Robert Maitland aveva scoperto i misteri e le meraviglie dell’“isola”. 2.2 Il centro mobile dell’Impero Se osserviamo la costruzione del setting narrativo nei capitoli iniziali di Kingdom Come possiamo individuare i tre principali nuclei attorno a cui viene allestita la rete tematica. Il primo asse è costi-

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tuito da un’opposizione spaziale tra centro e periferia. Brooklands dista una quarantina di chilometri da Londra. Per raggiungerla basta prendere l’autostrada M4, lasciarsi alle spalle l’aeroporto di Heathrow, svoltare sulla M25 e proseguire verso sud, in «un’area di antiche cittadine» lungo la Valle del Tamigi, Chertsey, Weybridge, Walton: Stavo attraversando zone cresciute alla rinfusa tra una città e l’altra, una geografia di deprivazione sensoriale, un territorio di strade a doppia carreggiata e stazioni di servizio, aree industriali e segnali stradali per Heathrow, terreni agricoli in disuso pieni di depositi di butano, depositi con esotici rivestimenti di lamiera. Passai accanto a un terreno industriale abbandonato, occupato in gran parte da un enorme cartellone che annunciava l’espansione della zona sud di Heathrow e da uno spazio illimitato destinato a merci da trasportare, sebbene si trattasse di un terreno vuoto dove tutto era già stato spedito a destinazione. Lì nulla aveva senso se non nei termini di una cultura transitoria da aeroporto. Segnali di allarme che si allertavano a vicenda; il paesaggio era un susseguirsi di avvisi di pericolo. Acquattate sui cancelli dei depositi, le telecamere a circuito chiuso e le frecce direzionali che indicavano di tenere la sinistra pulsavano instancabilmente, indicando le oasi protette dei centri di ricerca per l’alta sicurezza. [KC 10]

La crescita incontrollata degli insediamenti ai bordi delle direttrici principali del traffico autostradale intorno a Londra, iniziata negli anni Settanta, sembra ora aver saturato ogni interstizio. Tra la city e il countryside non è più possibile percepire alcuna transizione netta, solo un’immensa cintura urbana in perenne espansione. Una dilagante «schiuma metropolitana»26 in cui si susseguono, senza soluzione di continuità, «un take away cinese, un deposito di mobili all’ingrosso, un allevamento di cani da difesa, un tristissimo complesso residenziale che sembrava un carcere riconvertito». Eliminati i cinema, le chiese, i centri di attività amministrative o ricreative, l’unico indizio della sopravvivenza di una qualche espressione culturale è l’interminabile sfilata dei cartelloni pubblicitari sul bordo della strada. L’advertising permea ogni aspetto della vita quotidiana: «quei posti erano trasfigurati dai prodotti che vendevamo loro, da marchi e loghi che davano senso alla loro esistenza». [KC 10, 8]

26

Abruzzese, Bonomi, Op. cit., p. 94.

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La gente di Londra non riesce a capire che questa è la vera Inghilterra. Il parlamento, il West End, Bloomsbury, Notting Hill, Hampstead – tutte queste cose sono patrimonio storico di Londra, tenute insierme da una cultura mondana e modaiola. Ma è proprio qui attorno alla M25, che c’è la vita vera. Questa è l’Inghilterra di oggi. Il consumismo detta legge, e la gente […] non vede l’ora che succeda qualcosa di enorme e d’insolito. [KC 109]

D’altronde per assicurarsi un simile livello di benessere e sicurezza occorre rinunciare ad alcune distrazioni. Poco importa dunque se è impossibile «prendere in prestito un libro, andare ad un concerto, dire una preghiera, consultare gli archivi dell’anagrafe o fare beneficenza». Nessuno sembra preoccuparsene. Anzi, gli abitanti di queste località sconosciute, che non trovano una collocazione se non nelle mappe mentali dei rappresentati di commercio, camminano tranquilli in un contesto in cui sembrano trovarsi perfettamente a loro agio. D’altro canto non manca loro nessuno di quei benefici che Ebenezer Howard avrebbe incluso nella sua visione ideale della «città giardino», cioè pulizia, sicurezza, lontananza dal caos metropolitano: I passanti erano troppo occupati a correre da un negozio all’altro per accorgersi di me. A guardarli apparivano ricchi e contenti. […] Le strade erano ben illuminate, allegre e pulite. Completamente diverse dalle vie del centro di Londra a cui ero abituato. In quella cittadina, di cui non sapevo il nome, non c’erano giornali svolazzanti, né marciapiedi tempestati di chewing-gum o occupati da eserciti di scatole di cartone. [KC 12]

Ecco delinearsi il secondo asse della rete tematica, ossia il tempo. La frenesia dello shopping sembra aver preso il posto della deriva entropica di sistemi autoregolati come Eden-Olympia ed Estrella de Mar. Non facciamoci ingannare: si tratta di un movimento apparente che si risolve nell’«eterno presente del far compere». Il folle avvicendamento delle merci non fa che nascondere una «noia gigantesca». «La storia e la tradizione, la lenta morte per soffocamento di una Gran Bretagna antichissima non aveva alcun ruolo nell’esistenza di quelle persone, […] le cui decisioni morali più profonde riguardavano l’acquisto di un frigorifero o di una lavatrice». È forse questo il «regno a venire» – un regno senza centro, «privo di tradizioni civiche e valori umani» [KC 70, 12, 109] – che viene suggerito dal titolo del romanzo? L’autore insiste ironicamente sull’esaurimento di

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un orizzonte temporale o ci sta forse suggerendo una possibilità di rinascita? Il dilemma non sarà di facile soluzione. Sicuramente la periferia ballardiana vive nella cancellazione di ogni segno di permanenza in favore di un continuo mutamento. È l’espressione di una cultura all’insegna dei valori del transitorio. Una «cultura aeroportuale» i cui spazi elettivi si trovano in prossimità dei nonluoghi descritti da Marc Augé, Heathrow o le cattedrali profane del consumismo come l’immaginario Metro-Centre: Quella vasta struttura di alluminio a forma di cupola […] ospitava il più grande centro commerciale del territorio della Grande Londra. […] Il tetto argentato si ergeva sugli uffici e gli hotel circostanti come lo scafo di un’enorme astronave. Il suo aspetto riecheggiava visivamente quello del Millennium Dome di Greenwich e rendeva in tutto e per tutto giustizia al suo nome: era il centro di una nuova metropoli che circondava Londra, una città satellite che seguiva il percorso delle grandi autostrade. [KC 19]

La titanica mole dell’edificio domina il paesaggio circostante. Il suo profilo di vetro e acciaio, visibile da molte miglia di distanza, riorganizza la percezione dello spazio dell’osservatore la cui prospettiva si orienta verso un nuovo punto di fuga. Un rovesciamento che sovverte l’equilibrio simbolico tra centro e periferia, segnato nella tradizione urbanistica occidentale dal predominio del primo sulla seconda: «in qualche modo [quegli spazi anonimi] si ribellavano, diventavano eleganti e sicuri, il vero centro della nazione, tenendoci sempre a distanza». [KC 8] Richard Pearson riuscirà a perdersi per ben due volte nel suo primo viaggio di andata e ritorno a Brooklands, scoprendo sulla propria pelle quanto sia difficile per un londinese orientarsi in un simile labirinto. Secondo un ripiegamento tipico delle gated communities, una volta entrati nel loro campo gravitazionale diventa estremamente difficile uscirne. Basti pensare all’intreccio di svincoli e rotonde che ne disegnano la topografia ideale, un complicato incastro tra cerchi concentrici dove «tutti i segnali [indicano] verso l’interno, indirizzando il viaggiatore verso il punto di partenza». [KC 39] Al centro di Brooklands si pone il Metro-Centre, al centro del Metro-Centre la sua cupola. Numerose descrizioni rielaborano questo elemento chiave della sua architettura in una serie di metafore fantascientifiche il cui minimo

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comune denominatore può essere trovato nel paradigma dell’“irradiamento”27. Non più riflesso della metropoli, ennesimo satellite inserito nella sua orbita, il centro commerciale cerca di affermarsi quale unico elemento aggregante in grado di opporsi alla continua dispersione e proliferazione della suburbia. Una sorta di mise en abyme dell’iperspazio postmoderno accostabile alla situazione iniziale di High Rise se non fosse per i mutati rapporti tra contenitore e contenuto. Nel condominio infatti la separazione venutasi a creare tra la metropoli e il microcosmo ai suoi margini rescindeva ogni rapporto tra le due realtà. Nessuno dall’esterno sembrava accorgersi di nulla, nessuno dall’interno chiedeva aiuto. Il tutto si risolveva in una silenziosa implosione. In Kingdom Come al contrario la negoziazione dei confini tra micro e macrocosmo è tanto problematica da fornire uno degli schemi essenziali nello sviluppo dell’intreccio. Se nel primo caso avevamo dunque una faida intestina, una spietata competizione tribale per il controllo delle risorse; qui il conflitto dilaga, trasformandosi da una semplice lotta tra fazioni in una vera e propria guerra di secessione. La ricerca dell’origine di tale conflitto ci porta a soffermarci sul terzo e ultimo asse della rete tematica, ovvero la deriva totalitaria e neofascista del turbo-capitalismo. Un aspetto che l’autore britannico aveva già avuto modo di indagare in Super-Cannes e che qui viene collegato, come si può notare dalla citazione posta in apertura, al nazionalismo risvegliato dalle occasioni sportive: Per l’ennesima volta Ballard dimostrò un certo talento nel prevedere il futuro. Nel 2011 il 48% degli inglesi affermavano che avrebbero sostenuto un partito nazionalista con un programma anti-immigrazione, a patto che questa forza politica non fosse associata alla violenza e all’immaginario fascista. Oltre a ciò gli intervistati avrebbero voluto rendere obbligatoria l’esibizione di una bandiera patriottica su ogni edificio pubblico, una bandiera come quella di San Giorgio28.

27 «Il tetto argentato si ergeva sugli uffici e gli hotel circostanti come lo scafo di un’enorme aeronave»; «Mentre il pomeriggio volgeva al termine una luce fulva illuminava lo specchio della cupola […], come un sole che brillava dall’interno»; «L’interno della cupola brillava come un reattore nucleare». [KC 19, 29, 36] 28 «Not for the first time, Ballard proved to be prescient. By 2011 48 per cent of Britons said they would support an anti-immigration English national party, if it was not

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Il British National Party prende il posto del Front National e gli hooligans razzisti che vedremo scorazzare le le strade di Brooklands non si discostano troppo dalle squadracce degli executive di Eden-Olympia. In entrambi i casi la percezione di un pericolo imminente e diffuso29 si manifesta nell’ossessiva ricerca di un nemico, individuato in base al colore della pelle o alla fede religiosa. Si potrebbe dunque tracciare un parallelo tra il risorgere dello spettro dell’estremismo politico in Francia ed Inghilterra. Due nazioni segnate, negli ultimi decenni, da una serie di attentati e rivolte che mostrano il problematico intrecciarsi degli etnorami30 all’interno del progetto di una società multiculturale. Un progetto il cui fallimento, secondo Ballard, porta all’«insorgenza di un nuovo tipo di odio, silenzioso e disciplinato, un razzismo stemperato da tessere fedeltà e codici pin». Un razzismo «totalmente privo di rabbia o emozioni», disciplinato secondo le regole dello shopping che diventa «il modello di tutti i comportamenti umani». [KC 16] Un razzismo superficiale, estetizzato, ma non per questo meno pericoloso. Non è detto dunque che la transizione verso un fascismo depurato dei suoi aspetti più disturbanti per la coscienza medio borghese debba avvenire nelle aule parlamentari. La politica, o ciò che ne rimane, sembra ormai essersi spostata altrove. In Kingdom Come il pulpito del nuovo predicatore d’odio non saranno i polverosi scranni di Westminster bensì il canale via cavo di un centro commerciale. Sotto la sua guida il nonluogo per eccellenza arriverà addirittura a proclamarsi come “repubblica” indipendente dalle autorità centrali, proponendo un nuovo codice di disciplina e autoritarismo agli annoiati abitanti delle sterminate periferie dell’impero. Una nuova definizione di cittadinanza fondata sul consumismo. Una nuova religione pagana in cui la logica tribale del capro espiatorio sembra essere ancora una volta l’unico strumento capace di restituire coesione al corpo sociale.

associated with violence and fascist imagery, and would approve to make it statutory for all public buildings to fly a patriotic flag – like the red cross of St. George». Baxter, The inner man, cit., p. 336. 29 «Segnali di allarme che si allertavano a vicenda; il paesaggio era un susseguirsi di avvisi di pericolo». [KC 10] 30 Cfr. Appadurai, Op. cit.

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Volendo riassumere quanto detto sinora: il primo punto della rete tematica implica una separazione spaziale; il secondo una separazione temporale; il terzo, infine, chiama in causa la linea di demarcazione tra “noi” e gli “altri”, secondo la celebre definizione di Tzvetan Todorov31. Sono elementi sufficienti per Brooklands all’interno della definizione di gated community proposta da S. Low? Lo schema dell’“assedio” su cui si svilupperà una parte cruciale dell’intreccio, oltre a drammatizzare efficacemente i tre temi appena individuati, sembra confermare in parte questa ipotesi. 2.3 La profezia del penultimo sopravvissuto Come ogni opera ultima Kingdom Come tende a riprendere tematiche già esplorate in precedenza. La scelta degli argomenti non rivela particolare innovazione e anche sul piano dell’enunciato ritroviamo una notevole continuità. Se però si rivolge l’attenzione alla struttura del romanzo, ossia al piano dell’enunciazione, è possibile rilevare alcune anomalie. Partiamo dallo schema dell’investigazione e dalla figura del detective. Da Cocaine Nights in poi, con minime variazioni, Ballard non li abbandona mai. Qui invece la detection, l’indagine vera e propria, occupa solo le prime due parti del romanzo. La terza parte – l’“assedio” – costituisce sostanzialmente un corpo autonomo32. La congiunzione, o meglio, l’ibridazione, tra questi due schemi è la trovata più riuscita e interessante. Da un lato si trova la vicenda di Richard Pearson, arrivato a Brooklands per indagare sulla morte del padre; dall’altra la guerra civile pronta a scatenarsi tra l’establishment della vecchia cittadina di provincia e i rappresentanti del Metro-Centre. Il protagonista giocherà un ruolo preponderante nella risoluzione della disputa, anche se all’inizio ne è del tutto ignaro. Ma chi è davvero Richard Pearson? In accordo con i codici di un mondo permeato dal consumismo i suoi i tratti essenziali vengono presentati in un sarcastico curriculum vitae. Al di là formula adottata, non ci stupisce ritrovarvi un ritratto abbastanza familiare:

31

T. Todorov, Noi e gli altri, Torino, Einaudi, 1996. Una differenza evidente anche sul piano del paratesto. Ballard adotta una scansione “ad imbuto” simile a quella di Super-Cannes: 21 e 11 capitoli rispettivamente per la prima e la seconda parte; 9 per la terza. 32

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Richard Pearson, quarantadue anni, account executive, al momento disoccupato. Uomo gradevole, ma forse un po’ troppo scaltro. Criptofumatore, ex tennista, da ragazzo ha giocato nei campionati juniores di Wimbledon, con uno sperone osseo al gomito. Marito fallito messo nel sacco dalla ex-moglie. Con un discreto senso dell’umorismo e ottimista, ma nel suo intimo abbastanza disperato. Si ritiene una sorta di terrorista, ma in realtà l’unica cosa che riesce a fare è tenere calde le pantofole del tardo capitalismo. Aspira alla posizione di figlio ed erede, pur sapendo poco dei suoi doveri e di ciò che gli spetta di diritto… [KC 13]

Diversamente dai suoi predecessori Pearson non vive la separazione dalla ruotine in modo drammatico. Già nell’incipit si è lasciato la sua vecchia identità alle spalle, come un vestito ormai scomodo e fuori moda. Non saranno dunque gli avvenimenti successivi a rescindere i suoi legami con gli altri perché di legami non ne ha più nessuno. Licenziato dall’agenzia pubblicitaria per cui lavorava a causa del clamoroso fiasco della sua ultima campagna, abbandonato dalla moglie, anche il suo appartamento a Chelsea Harbour33 è in vendita. È insomma l’outsider per eccellenza, un perfetto estraneo inserito in un nuovo contesto, senza nessuna buona ragione per tornare indietro34. Il fallimento della vita precedente e l’uccisione del padre, vittima di una sparatoria avvenuta nel centro commerciale, lo pongono nella condizione ideale per improvvisarsi detective a tempo perso35. Il fatto di non averlo mai realmente conosciuto fornisce la motivazione psicologica dell’indagine, le sue competenze professionali gli assicurano la capacità di interpretare gli usi e costumi della terra incognita che si accinge ad esplorare. Ogni cittadina di provincia è un piccolo mondo a sé, per conoscere il quale bisogno entrare in contatto con le personalità più in vista.

33 Per una curiosa coincidenza l’appartamento di Richard a Londra si trova a Chelsea Harbour, «il quartiere-giocattolo dei milionari». La stessa zona a cui Ballard si è ispirato nel costruire l’ambientazione di Millennium People. 34 Una situazione iniziale di solitudine e privazione che spiega l’assenza di alcuni motivi chiave nella sua avventura: il tradimento, o in altri termini, l’indebolimento del legame matrimoniale; la volontaria rinuncia al lavoro in favore dell’ozio improduttivo. Due prerequisiti essenziali per intraprendere la ricerca di un sé più autentico che Richard possiede sin dall’inizio. 35 «Dovevo a tutti i costi reinventarmi. Forse mio padre poteva essere d’aiuto». [KC 14]

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Così farà Richard, dopo essersi trasferito sul posto, passando in rassegna tutti coloro che sembrano essere coinvolti a diverso titolo nel conflitto a fuoco su cui si trova ad indagare. Una serie di colloqui che, nella prima parte del romanzo (capp. 1-21), introducono i personaggi principali della «vecchia Brooklands», coloro che possono essere definiti come la fazione degli “autoctoni”: i rappresentati della legge (il sergente Mary Falconer, responsabile del caso; Geoffrey Fairfax, l’avvocato del padre) e dell’istruzione (il preside del liceo,William Sangster), a cui si aggiungono due figure di spicco dell’ospedale cittadino, la Dott.ssa Julia Goodwin e il Dott. Tony Maxted. Colloqui apparentemente superflui dato che il colpevole è stato subito arrestato. Si tratta di David Christie, il prototipo del disadattato sociale, «una capsula di Petri piena di disturbi mentali, una coltura di smorfie e tic». [KC 18] La scelta di un capro espiatorio così ovvio non convince affatto il nostro investigatore e quando, dopo qualche giorno, Christie viene scagionato dalle accuse, capirà che le autorità locali stanno cercando di insabbiare il caso.Troppi silenzi, troppe reticenze per una tragedia che si vorrebbe far passare per il gesto isolato di un pazzo. Qualcosa di oscuro e violento si muove infatti nelle notti di Brooklands, dietro un velo di apparente tranquillità. Ad ogni evento sportivo seguono disordini, vandalismi, pestaggi rivolti verso le minoranze etniche, gruppi di tifosi con la divisa della croce di S. Giorgio sciamano per le strade tra l’indifferenza della polizia e la muta complicità degli abitanti. E la fonte di tutto questo non è altro che il Metro-Centre. Gli indizi raccolti riportano sempre al punto di partenza. Alla fine della prima parte Richard incontra finalmente il burattinaio che sembra muovere i fili delle sommosse: David Cruise. Sono le prediche di questo «messia a metà prezzo», dall’aria un po’ viscida, a fomentare i disordini. Ex attore di soap e polizieschi, «gioviale, leggero, per niente autoironico», [KC 101, 148] è il direttore, nonché il principale presentatore del canale televisivo del centro commerciale. Il suo fido assistente Tom Carradine lo segue come un’ombra, reclutando nuovi apostoli nelle file dei tifosi e dei clienti del mall, inquadrandoli nella struttura paramilitare di sceriffi e gruppi di picchiatori pronti ad attuare la loro personale versione di pulizia etnica. Le autorità centrali, il governo, il ministro dell’Interno lasciano correre, e neanche di fronte alla diffusione delle violenze sembrano di-

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sposti ad intervenire. La situazione giunge presto ad un punto critico. Gli “autoctoni” cercano di forzare la mano a Cruise, di spingerlo ad assumere il controllo della ribellione che con tanta noncuranza ha alimentato, ma lui rifiuta. In fondo il suo scopo era di vendere un prodotto; il razzismo nient’altro che una strategia di marketing. Ed è su questo punto che troverà un’inaspettata intesa con il protagonista. Richard salta dall’altra parte della barricata e diventa il ghost writer del pavido telepredicatore: Avevo deciso di condurre un esperimento, il mio ultimo tentativo di uscire da quella rete di intrighi che stava dietro la morte di mio padre. Fino a quel momento, nel ruolo di detective dilettante che inciampa in ogni pericolo, continuamente frastornato da tutte le porte che gli vengono sbattute in faccia, non avevo scoperto quasi niente. Ma c’era un campo in cui ero un vero professionista: quel regno elettrico dove la pubblicità e il gusto popolare si incontravano e si fondevano. Brooklands e le altre cittadine lungo l’autostrada erano l’ultimo test per i consumatori; finalmente lì potevo mettere in pratica quelle idee che mi erano costate la carriera. [KC 153]

Nella seconda parte (capp. 22-32) l’indagine passa momentaneamente in secondo piano, trovando solo nel capitolo 28 una parziale risoluzione con la scoperta del diario del padre. Una dettagliata raccolta di prove finalizzata a rivelare ciò che si stava preparando a Brooklands, cioè la transizione morbida, quasi impercettibile, verso l’instaurazione di un regime autoritario. Richard comprende finalmente il suo piano di infiltrazione nelle fila del “nemico”, quando ormai si trova a servire quel nemico, o meglio, ad essere diventato il nemico. Kingdom Come ci propone in effetti l’unico caso in cui il protagonista assume volontariamente il ruolo di guru. Una confusione di ruoli che prepara l’ennesimo colpo di scena. Due ragazzi bosniaci, vittime della campagna d’odio, sparano a David Cruise in diretta. I suoi seguaci capitanati da Carradine si barricano nel mall, intrappolando circa 3000 persone tra cui 200 bambini. Inizia l’“assedio” (terza parte, capp. 33-41): l’«enorme volta si stava sigillando per escludersi dal mondo esterno», creando «un universo autonomo pieno di tesori e promesse». [KC 227, 228] Seguiranno tre lunghi mesi di resistenza e trattative con le autorità che, solo di fronte all’inevitabile, hanno finalmente deciso di inter-

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venire in forze. Per ironia del destino tutti coloro che hanno avuto un ruolo nella morte del padre di Richard si ritrovano intrappolati qui: la Dott.ssa Goodwin, il Dott. Maxted, W. Sangster. Mentre i primi due cercano disperatamente di tenere in vita il leader moribondo per evitare che la situazioni degeneri ulteriormente, il preside abbandona i vecchi alleati e trasforma, insieme a Carradine, la farsesca “repubblica” in una dittatura su piccola scala. Razionamento delle risorse, intolleranza verso ogni forma di dissenso, tentativo di convertire gli ostaggi alla propria causa. Grazie a questi espedienti il Metro-Centre diventa qualcosa di più di una prigione: una fortezza e un luogo di culto, un folle esperimento sociale ormai fuori controllo. Solo alla fine Maxted e la Goodwin decideranno di rivelare a Richard gli ultimi segreti, svelando le trame segrete tenute celate sinora: la complicità degli “autoctoni” con Christie, le loro inutili richieste d’aiuto al governo centrale, il fallimento del piano di uccidere Cruise e la morte casuale di tre innocenti. Sarà tutto inutile, ormai è troppo tardi. Un violento incendio divampa un attimo prima dell’ultima irruzione della polizia. Ne usciranno vivi solo Richard e Julia. Tutti gli altri personaggi coinvolti nella cospirazione periranno tra le fiamme. Dopo il crollo dei bastioni del «regno» le cittadine lungo l’autostrada torneranno in fretta alla normalità. Il fuoco, invece, continuerà a covare sotto la cenere. A dispetto della risoluzione del “mistero” iniziale il romanzo non si chiude in maniera univoca o definitiva, accade piuttosto il contrario. Il finale rimane aperto e Ballard affida al penultimo sopravvissuto il severo richiamo di un monito suggellato dal tono solenne della profezia. Un giorno ci sarebbe stato un altro Metro-Centre e un altro sogno folle e disperato. Ci sarebbero state altre marce e un altro presentatore della tv via cavo a battere il tempo. E a un certo punto, a meno che le persone sane di mente non si fossero svegliate e organizzate in qualche modo, sarebbe nata una nuova repubblica, ancora più fiera della precedente, che avrebbe aperto le porte e girato i tornelli del suo paradiso sin troppo luminoso. [KC 293]

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2.4 In memoria di Tyler Durden Compri mobili. Dici a te stesso, questo è il divano della mia vita. Compri il divano, poi per un paio d’anni sei soddisfatto al pensiero che, dovesse andare tutto storto, almeno hai risolto il problema divano. Poi il giusto servizio di piatti. Poi il letto perfetto. Le tende. Il tappeto. Poi sei intrappolato nel tuo bel nido e le cose che una volta possedevi, ora possiedono te. Documento acquistato da () il 2023/05/03.

Chuck Palahniuk - Fight Club (1996)

La definizione di gated community utilizzata finora, se applicata a questo testo, rischia di dimostrarsi limitante per quanto utile. Brooklands non è una «comunità fortificata», bensì un intreccio di comunità in conflitto tra loro. Una lotta in cui gli “autoctoni” si oppongono ai rappresentanti del Metro-Centre. Prese in mezzo tra due fronti stanno le minoranze etniche, destinate a pagare il prezzo più alto in questa guerra fratricida. A sua volta Brooklands fa parte di una «seconda Londra», una rete diffusa di cittadine pronte a ribellarsi alle angherie della tirannica matrigna. Attraverso la cassa di risonanza dei media il conflitto locale si diffonde a macchia di leopardo su scala nazionale, come in Millennium People. L’intreccio di piani e livelli, sinora solo abbozzato, è tale da richiedere un ulteriore approfondimento. Ballard prepara lo scontro tra le principali fazioni disponendo accuratamente i pezzi sulla scacchiera. Nella parte iniziale del romanzo ci spinge a condividere le ragioni degli oppositori del Metro-Centre, dopo l’improvviso voltafaccia del protagonista a prendere le parti dei suoi difensori. Dei due schieramenti il primo incarna effettivamente la tradizionale definizione sociologica di comunità definita su base territoriale. La seconda invece assomiglia più ad una “comunità virtuale” che accoglie in sé sia i frequentatori abituali del Metro-Centre, sia gli spettatori del canale via cavo legato al centro commerciale. Il secondo gruppo non ha quindi base territoriale, anche se ne rivendicherà una durante l’“assedio”: erode e vampirizza il capitale sociale della comunità precedente e provoca, a lungo andare, la sua reazione violenta. L’incompatibilità tra i due modelli di vita è evi-

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dente. Di fronte alla «peste» dilagante del consumismo, il «contrattacco», come lo definisce G. Fairfax, è solo una questione di tempo: Lei è di Londra signor Pearson. Londra è un grande mercato delle pulci, lo è sempre stato. Merci a buon mercato e sogni ancora più a buon mercato. Ma qui a Brooklands avevamo una vera comunità, non solo una popolazione di registratori di cassa. E adesso è finita, tutto svanito nel giro di una notte, quando ha aperto la fabbrica di soldi. Siamo stati invasi da intrusi che pensano soltanto a guadagnare. Per loro Brooklands è poco più di un parcheggio. Le nostre scuole sono state colpite da un’epidemia, centinaia di ragazzi saltano le lezioni ogni giorno per andare al Metro-Centre. L’unico ospedale che dovrebbe prendersi cura della gente del luogo è pieno di vittime di incidenti stradali causati da automobilisti di passaggio. […] Un tempo la gente frequentava un sacco di corsi […]. Non ci sono più: la gente preferisce farsi un giro nel centro commerciale. Nessuno va più in chiesa. A che serve? Le persone trovano il proprio appagamento spirituale nel centro New Age, il primo negozio a sinistra dopo il fast food. […] Da tempo non esistono più organizzazioni di beneficenza, partiti politici. Nessuno va alle riunioni. […] Questa è una zona infestata signor Pearson, e la peste si chiama consumismo. [KC 36-37]

Sulla stessa linea di pensiero si pone W. Sangster, la cui professione porta ad elaborare il risentimento verso il Metro-Centre in maniera meno istintiva. Per lui non è solo una questione di crisi della comunità, bensì del fallimento di un intero sistema educativo le cui fondamenta ideologiche hanno iniziato a scricchiolare da tempo. Le vecchie istituzioni sono poco più che relitti di un’epoca in cui tutta l’enfasi era posta sull’individuo – «l’habeas corpus, la libertà del singolo contrapposto alla massa» – mentre oggi «le persone hanno voglia di condividere, di celebrare, di sentirsi unite». Guardando al nuovo tipo di società» che aspetta i suoi giovani allievi ostinarsi a difendere il liberalismo, la libertà, la ragione è controproducente e, in definitiva, inutile. «Che senso ha avere libertà di parola se non si ha nulla da dire?». La lamentatio del preside del liceo di Brooklans demolisce uno per uno i pilastri del progetto della modernità e le illusioni dell’umanesimo, a suo avviso due «grossi freni per la società». [KC 92] La prima non produce altro che nevrosi ed alienazione, mentre il secondo non fa che alimentare paura e senso di colpa. Da qui nasce il

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vuoto al cuore delle società secolari, da qui deriva il bisogno di unità e autorità che il consumismo può riuscire a colmare, trionfando dove gli altri hanno fallito. Perché è un’«ideologia di redenzione», perché quando funziona riesce ad «estetizzare la violenza», perché lo shopping non è altro che l’ultima «cerimonia collettiva di affermazione». [KC 92-93] La televisione è il nuovo cattivo maestro di turno e cercare di fronteggiarne il carisma con gli scarsi mezzi dell’istruzione pubblica appare un’impresa donchisciottesca. La prospettiva di Maxted è affine a quella di Sangster. Entrambi concordano nel tracciare un collegamento diretto tra la situazione delle periferie e il cuore della nazione. Il fallimento delle tre principali istituzioni tradizionali del sistema britannico – la monarchia, il parlamento, la chiesa – è evidente e dietro il loro declino si profila la fine del «grande sogno dell’Illuminismo, cioè che la ragione e l’egoismo razionale avrebbero trionfato». È il tramonto di un’epoca e in questa luce crepuscolare riemerge un pessimismo antropologico ancora prima che politico: «non siamo esseri ragionevoli e razionali». Quale antidoto migliore alla decadenza dunque se non l’«intolleranza pura senza un vero motivo»? Ennesima manifestazione di una follia che «cova dentro di noi, pronta a venire fuori quando ne abbiamo bisogno». «Una pazzia volontaria» o, in termini psichiatrici, «una pazzia “elettiva”»: La gente sente che può fare affidamento sull’irrazionale perché è l’unica garanzia di libertà da tutti i luoghi comuni, da tutte le stronzate e gli spot pubblicitari che i politici, i vescovi e gli accademici ci danno in pasto. La gente ha deliberatamente deciso di ritornare ad uno stadio primitivo. [KC 110-113]

Agevolando la patologia sociale il consumismo chiude così il circuito tra noia, violenza, regressione nel magico e nell’irrazionale36. Vista la gravità della situazione, e con l’assoluta certezza che le autorità centrali non faranno nulla per arginare questa deriva, il piano dello sparuto gruppo di resistenti va ben oltre il semplice conteni-

36 «Dobbiamo continuare a comprare, se no falliamo come cittadini. Il consumismo crea grossi bisogni inconsci che possono essere soddisfatti solo dal fascismo. O almeno il fascismo è la forma che il consumismo prende quando decide di invocare la strada della pazzia elettiva». [KC 114]

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mento del fenomeno. Vogliono distruggere questa cosa sul nascere, prima di essere invasi. Brooklands dunque come ultimo avamposto di resistenza dopo la caduta di Chelsea Marina? Effettivamente la retorica e il pessimismo degli “autoctoni” hanno molto in comune con le infiammate prediche di Kay Churchill. C’è però una differenza fondamentale: se nel romanzo precedente il lettore si immedesima esclusivamente con le ragioni dei ribelli, qui si assiste piuttosto alla spietata competizione tra due visioni del mondo, tra due modi di affrontare lo stato terminale del capitalismo. L’inesorabile avanzata dei nuovi barbari, le schiere dei seguaci di Cruise irreggimentate sotto gli stendardi della croce di San Giorgio si scontrano frontalmente con le comunità dei migranti e, indirettamente, con la «vecchia Brooklands». Nell’impeto dell’assalto i primi finiscono per soccombere, i secondi vengono ridotti all’impotenza. Oltre a ciò dobbiamo considerare la diversa evoluzione del conflitto. In Kingdom Come la debolezza delle motivazioni ideologiche sullo sfondo dei disordini razziali mostra presto la corda. Di fronte al risorgere degli antichi demoni – la noia, l’abitudine – il regime messo in piedi da David Cruise deve innovarsi mantenendo lo stesso tasso di ricambio delle merci che sponsorizza. Il “nemico” stesso è una merce. Stanchi di accanirsi contro le fasce più deboli della popolazione che, sino ad allora, hanno costituito uno stato-cuscinetto tra le due fazioni in lotta, i seguaci del Metro-Centre cominciano ad avventurarsi in zone residenziali di gente più benestante, rivolgendo le armi contro i loro veri avversari di sempre: la classe media tradizionale. Un simile atteggiamento non può essere spiegato solo in base a considerazioni di status, dato che entrambi condividono la stessa estrazione sociale. Per comprenderlo a fondo bisogna piuttosto rivolgersi alla prospettiva in cui i due avversari si trovano ad operare: mentre gli storici residenti di Brooklands cercano di difendere i valori del passato, i neobarbari credono di marciare verso un glorioso futuro. Una divaricazione progressiva e inconciliabile che giustifica il cambio di strategia operato dal nostro fascinoso predicatore nel corso della vicenda. In attesa del confronto risolutivo è necessario infatti tenere alto il morale delle truppe, motivarle con slogan sempre più audaci e aizzarle contro un nemico che, seppure non meglio identi-

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ficato, è là fuori. Occorre insomma «difendere la “repubblica” del Metro-Centre dalla corrotta alleanza tra quegli snob del ceto medio e gli ancora più altezzosi abitanti del centro di Londra che sempre [hanno] disprezzato le cittadine lungo l’autostrada»: Si formarono gruppi di tifosi che si diressero a passo di marcia verso le periferie quasi a difendere le mura di una città sotto assedio. […] Ben presto ci furono roghi e saccheggi delle proprietà della comunità asiatica e degli altri immigrati. Le bande poi non persero tempo a trovare nuovi obiettivi. Stufi delle risse con le disperate famiglie di bangladesi o kosovari ormai sfiniti, attaccarono il liceo nella piazza del centro, con i suoi odiosi cartelli che pubblicizzavano corsi di alta cucina, archeologia e frottage.Anche la biblioteca comunale fu presa d’assedio dalle bande che spazzarono via i pochi libri in mostra sugli scaffali, che lasciarono intatte le vaste collezioni di cd, video e dvd. Altre bande invasero il circolo di cricket di Brooklands, dove defecarono sul campo da gioco, e la scuola di equitazione Gymkhana, una roccaforte del futuro ceto medio, fu rapidamente messa a ferro e fuoco. Il telegiornale mandò in onda immagini di cavalli dallo sguardo impazzito che galoppavano attraverso i parcheggi del Metro-Centre, con le criniere in fiamme. Anche la centrale di polizia e il tribunale erano sotto assedio, ed erano circondati da una sottile linea blu di agenti in tenuta antisommossa. [KC 216-217]

Come insegna la parabola discendente di ogni regime totalitarista bisogna continuamente stimolare l’inerzia della folla verso nuovi obiettivi, riconsiderare continuamente i propri alleati e ancora più i propri antagonisti. Più la specificità dell’ideologia di partenza si illanguidisce più cresce il bisogno di restringere il gruppo dei discepoli fedeli, di serrare i ranghi, anche a costo di espellere violentemente dal corpo sociale fasce di popolazione sempre più numerose. Non c’è quindi nessuna possibilità di mediazione o di pacificazione tra le diverse “comunità”. Alla fine solo l’intervento congiunto dell’esercito e delle forze dell’ordine impedirà una guerra in campo aperto, ribaltando le sorti della battaglia e costringendo i probabili vincitori ad una ritirata strategica che finirà per rivelarsi un vicolo cieco. 2.5 L’adorazione prima della follia L’inizio dell’“assedio” cristallizza la situazione in una momentanea tregua. Con il rilascio degli ostaggi a piccoli gruppi i nuovi “reggenti”

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tengono a bada le autorità. L’interesse dei media va scemando. Intanto, all’interno del Metro-Centre, «la moralità lascia il posto alla volontà e la volontà alla follia». [KC 62] Il degrado fisico dell’edificio, come in High Rise, va di pari passo con la regressione dei suoi occupanti verso uno stadio primordiale, poco importa che siano carnefici o vittime: Sopra di me c’erano i piani superiori del centro commerciale, terrazze con negozi piene di palme ingiallite e piante varie, un orto botanico che correva verso la morte nei cieli. Ora che gli ascensori e le scale mobili non funzionavano più, quasi nessuno si avventurava al settimo piano, dove l’aria satura e caldissima sembrava trasudare una nebbia pesante. […] Carradine ordinò che il sistema di illuminazione sotto il soffitto venisse spento. Molti negozi sembrarono scomparire ingoiati da un buio interno, una trasformazione inquietante. […] Entrando in uno dei negozi di ferramenta più grandi, avanzai tentoni oltre il bancone, circondato da centinaia di coltelli, seghe e bulini le cui lame formavano nel buio una foresta argentata. C’era un mondo primitivo che attendeva il suo momento. [KC 241-238]

Dovendo adattarsi all’ambiente ostile anche il protagonista, ferito e stremato dalle privazioni, attraversa una sorta di metamorfosi. Una trasformazione in cui il corpo reca su di sé la tracce del mutamento interiore in corso: Come sempre evitai di guardarmi allo specchio del lavandino dove avrei visto quella specie di barbone che divideva la stanza con me. Ogni volta che lo scorgevo, con la barba lunga e l’aria spaventosamente tranquilla, mi si avvicinava come un mendicante che aveva individuato un possibile cliente. Poi si allontanava schifato dalla puzza del mio corpo e dall’odore ancora più marcio delle mie pericolose e profonde ossessioni. [KC 257]

Si produce dunque una corrispondenza tra interno ed esterno, ma anche una curiosa dissociazione. La similitudine del «barbone» con cui Richard descrive se stesso come un altro impedisce, nel contempo, ogni confronto con il suo spaventoso doppio. Lo stato di apatia in cui si trova risucchiato insieme agli altri ostaggi lo rende più docile nei confronti del regime che si sta consolidando intorno a loro, proprio perché indebolisce la coscienza di sé. Esempio illuminante di que-

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sta sorta di trance collettiva è il momento in cui Richard marcia inconsapevolmente verso Carradine, durante la cerimonia del giuramento dove alcuni ostaggi entrano a far parte della ribellione. Un gesto del tutto incontrollabile, un po’ come le lacrime di gioia dell’ennesimo, orwelliano “schiavo felice” nel finale di 1984: «Caro mio, lei stava per unirsi a loro. Il Metro-Centre alla fine ha avuto la meglio». [KC 256] Non esiste, insomma, nessuna redenzione in fondo a questa disperata parabola. Ricondurre tale esito al pessimismo predominante nell’ultima fase della produzione ballardiana sarebbe fuorviante. Per quanto la terza parte possa suggerire alcune riflessioni a riguardo, la ricerca di una chiave interpretativa più feconda spinge a guardare in altre direzioni. George Ritzer, in un noto studio dedicato alle «cattedrali dell’iperconsumismo», fornisce lo spunto adatto. Con la metafora della «cattedrale» il sociologo americano descrive la fisionomia dei «nuovi strumenti del consumo», a cui il Metro-Centre appartiene. Strumenti, o meglio, spazi connotati da un lato da una rigida razionalizzazione, dall’altro costretti a ricreare forme di “incanto” per attrarre sempre nuovi visitatori. Un contrasto già esplorato all’interno di sistemi complessi quali il condominio e il parco tecnologico, nei quali si manifestava un evidente sbilanciamento verso il primo aspetto. Il controllo dell’ambiente è un’ossessione tipica delle gated communities e il centro commerciale la incarna alla perfezione, in ogni dettaglio della sua architettura: Il centro commerciale può essere considerato un territorio tecnologicamente controllato da una serie di tecnologie avanzate che regolano ogni aspetto del suo funzionamento: stretto controllo si esercita sulla temperatura, l’illuminazione, gli eventi e la merce; tempo e spazio sono controllati eliminando dai locali le finestre; ci sono poche porte che invitano ad uscire; l’uniformità delle costruzioni significa che potrebbero trovarsi ovunque; […] la manutenzione e le periodiche ristrutturazioni danno l’impressione che siano senza età37.

I vari aspetti della razionalizzazione – «l’efficienza, la prevedibilità, il controllo tramite la sostituzione della tecnologia umana con quella

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G. Ritzer, La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iperconsumismo, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 81, 93.

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delle macchine»38 – vengono integrati in una sinergia ancora più marcata. Sin qui nulla di strano. Nel progettare la sua personale versione del megacentro l’autore britannico, almeno all’inizio, non si discosta troppo da una tradizione ormai consolidata nell’immaginario americano e non solo. Il suo apporto originale si trova piuttosto nel tentativo di prendere la metafora esplicativa proposta da Rizter alla lettera, esplorandone le implicazioni in maniera paradossale. Il motivo dell’“assedio” gli permette infatti di spostare progressivamente l’attenzione dagli ostacoli posti all’ingresso per impedire l’accesso di ospiti indesiderati, alle restrizioni imposte ai “residenti”. Il Metro-Centre, al pari di ogni altra cattedrale profana, si serve di svariati accorgimenti per trattenere il cliente il più a lungo possibile, dandogli l’impressione di essere entrato in una sorta di «opera wagneriana, la cui scena [è] grande quanto il mondo intero». [KC 45] Il primo, e più evidente, è l’incredibile concentrazione di beni e servizi, finalizzata a raggiungere il massimo dell’efficienza. La distinzione tra spazi abitativi e spazi lavorativi, sfumata ma ancora presente in High Rise, sembra definitivamente collassare di fronte alla natura ibrida di questo nonluogo: «migliaia e migliaia di metri quadrati di punti vendita, tre alberghi, sei cinema multisala e quaranta caffè […] una superficie più grande di quella dell’area commerciale dell’aeroporto di Luton». [KC 44] Il senso di indefinita estensione nello spazio non basta però a creare l’atmosfera di un mondo autonomo ed autosufficiente. L’altro prerequisito essenziale è la dilatazione del tempo, ottenuta tramite l’eliminazione di ogni segno tangibile del suo scorrere e la soppressione di ogni strumento di misurazione. Nel megacentro, non a caso, non esistono orologi né mappe. Sotto la sua cupola «il tempo e le stagioni, il passato e il futuro [sono] stati aboliti». [KC 44] Assistiamo insomma ad una «caduta delle barriere tra poli di attrazione tradizionali» (dentro-fuori; prima-dopo), destinata a produrre una crescente indifferenziazione. I «nuovi strumenti del consumo», seguendo una tendenza di lungo periodo analoga a quella del mondo delle telecomunicazioni, stanno im-

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Ivi, p. 81.

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plodendo l’uno nell’altro. Il che porta a «una crescente incapacità a distinguere tra gli oggetti e i luoghi, che si compenetrano tutti». Tra i vari effetti prodotti da tale fenomeno il più rilevante riguarda sicuramente la connessione tra il ripiegamento del continuum spazio-temporale e la più generale «implosione della distinzione tra reale e irreale»39. A questo proposito abbiamo già avuto modo di citare le fantasmagorie benjaminiane, regno dell’illusione e dell’apparenza. Qui si va ben oltre. L’ambiguo statuto del simulacro impedisce di tracciare una netta linea di separazione tra l’autentico e l’inautentico. Il MetroCentre non può essere ricondotto a nessuna delle due, ed è proprio su questo margine di “gioco” tra categorie antitetiche che David Cruise e Richard Pearson costruiranno, nella seconda parte, la loro fortuna: Sapevano che stavano propinando menzogne alla gente, ma se queste erano abbastanza solide potevano essere accettate come una credibile alternativa alla verità. Erano le emozioni a governare ogni cosa e le bugie scaturivano da emozioni familiari e rassicuranti, mentre la verità spesso si presentava con bordi taglienti che facevano male. [KC 216]

La correlazione tra disorientamento percettivo e confusione gnoseologica sfocia dunque nella prepotente riemersione del carattere «religioso di tipo magico, a volte sacro»40 associato alla riproduzione dell’“incanto”. Elementi in teoria assenti nei sistemi razionalizzati ma con cui anche il più inflessibile demiurgo deve confrontarsi, nel tentativo di ricondurre all’ordine l’elemento più indisciplinato e imprevedibile dell’essere umano: l’emozione. È possibile comprendere meglio questo passaggio osservando quanto il regime a cui i seguaci di Carradine sottopongono i loro ostaggi si serva, nella stessa misura, sia di strategie di repressione sia di strategie di seduzione. Il puro esercizio della violenza non sarebbe sufficiente a creare il clima di acquiescenza in cui le vittime vengono costrette a lavorare per i loro carnefici, accettando di buon grado privazioni e angherie, arrivando addirittura a pulire la loro prigione: 39 40

Ritzer, Op. cit., pp. 149, 161. Ivi, p. 18.

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La gente non andava in giro a saccheggiare gli esercizi commerciali. Nessuno dei ristoranti e dei caffé era funzionante, ma la gente che vagava nel centro commerciale nelle ore dopo la chiusura si muoveva in modo ordinato all’interno dei supermercati. I registratori di cassa erano silenziosi, ma i clienti pagavano lo stesso i loro acquisti, lasciando i soldi in cestini dell’onestà che gli sceriffi avevano approntato alle casse. Tutti sapevano che il Metro-Centre era pronto a sostenerli. I reparti dei supermercati, gli atri erano i loro parchi, i loro quartieri e loro li avrebbero mantenuti puliti. […] Spazzando tutti quei templi del consumismo, pulendoli, passando la cera, tirandoli a lucido, volevamo sottolineare che eravamo pronti a servire la disciplina imposta da quegli elettrodomestici e da quei sanitari. Volevamo somigliare a quei beni durevoli, e anche loro volevano che li emulassimo. Perché in realtà noi volevamo essere loro… [KC 237, 248]

Sangster cita a questo proposito la famigerata frase posta all’ingresso dei campi di concentramento nazisti – «Il lavoro rende liberi» – ed, effettivamente, una simile osservazione non è troppo lontana dalla verità. Il Metro-Centre è l’ennesima isola di un «arcipelago carcerario» che è arrivato a comprendere «l’intero corpo sociale»41. Qui però, rispetto ad una situazione preesistente tipica delle «società disciplinari», l’iperconsumismo spinge la reificazione del soggetto ad un livello inedito. Non solo le interazioni tra essersi umani vengono standardizzate ed omologate dall’alto, è l’individuo per primo a desiderare, inconsciamente, l’immedesimazione con le merci. Il che spiega anche il manifestarsi di alcune forme “religiose” di adorazione nei loro confronti. Alla fine quando anche il corpo del leader, mantenuto in stato vegetativo, si riduce a nudo feticcio; l’incondizionata fede dei suoi seguaci si rivolge facilmente agli oggetti, ai simboli di quello stile di vita che hanno cercato di difendere ad ogni costo. Cellulari, tv al plasma, fotocamere digitali: i beni di consumo vengono trasfigurati in altari e santuari pagani in suo onore. Lo spazio omogeneizzato del centro commerciale viene così rimappato dall’interno, grazie ad una serie di pratiche e di percorsi rituali. L’implosione della dimensione spazio-temporale, inizialmente finalizzata all’incremento del mero

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Ivi, p. 97.

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profitto, produce in definitiva una regressione verso l’irrazionale e il magico, sino ad agevolare lo sviluppo di alternative forme di legittimazione dell’autorità. Il consumismo, per riprendere ancora una volta Rizter, diventa una vera e propria «religione».

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2.6 Estremi della politica, politica dell’estremo Nel lanciare la campagna promozionale di Kingdom Come sul mercato britannico il dipartimento pubblicitario della Harper Collins adottò un’inusuale formula di marketing, che sicuramente sarebbe piaciuta molto a Richard Pearson. Realizzarono un sito web dedicato all’immaginario Metro-Centre, corredato con avvisi dei prossimi incontri dei gruppi [riuniti sotto la croce] di San Giorgio e anche da una pubblicità delle t-shirt stampigliate con la croce rossa. Furono realizzate inoltre affissioni fittizie, che evocavano la strategia comunicativa impiegata da Benetton per l’abbigliamento e dal Silk Cut per le sigarette. Tale strategia costringe a soffermarsi a lungo sull’immagine (pubblicitaria) nel suo insieme prima di arrivare a comprendere cosa sia realmente reclamizzato.Tra tutti i poster dedicati al Metro-Centre il più riuscito raffigura, in uno scatto in bianco e nero, un uomo in attesa, apparentemente irresoluto, in mezzo ad un parcheggio vuoto. Nelle vicinanze un cumulo di vegetazione rachitica, isolato nel lago di asfalto, allude alla Natura. Il tutto sovrastato da una scritta a lettere bianche: “L’attesa è quasi finita”42.

La chiave della strategia è nel nascondere ciò che viene promosso. Il prodotto è assente dalla scena. Lo slogan crea un senso di attesa verso qualcosa di indefinito. La relazione tra i tre elementi del quadro rimane un enigma. Non c’è un “messaggio” nel senso tradizionale del termine, ed è proprio questo il punto. Il poster del MetroCentre non vende al consumatore un prodotto, vende al consuma-

42 «[They] designed a website for the fictitious Metro-Centre, complete with news of forthcoming meetings of St George groups and an advertisement for red-crossed T-shirts. Mocked up posters evoked the campaigns then in use around Britain for Benetton clothing and Silk Cut cigarettes, where one had to stare at the image for a while – the whole point – to understand what was beign promoted. Of the Metro-Centre posters, the best is the black and white shot of a young man standing, apparently irresolute, in a empty parking lot. Nearby a clump of stunted greenery, isolated in the lake of asphalt, stands as shorthand for “Nature”. Stark white lettering warns “The Wait is Almost Over”». Baxter, The inner man, cit., p. 337.

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tore la sua stessa alienazione. Non il bisogno di un bene o di un servizio, bensì il desiderio stesso di consumare:

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Il consumismo è qualcosa di molto più complesso del semplice acquisto di merci. È il modo migliore per esprimere i nostri valori tribali per entrare in contatto con le speranze e le ambizioni dei nostri simili. In questo momento è in atto un conflitto tra diversi modi di concepire il tempo libero; è un conflitto tra stili di vita completamente differenti. [KC 85]

Meglio dunque non essere troppo amichevoli, meglio imparare che il pubblico vuole essere amato e punito nello stesso tempo. Usare il masochismo latente nell’inconscio collettivo per imporre autorità e strutturare la violenza. Richard, pur dichiarando un aperto disprezzo verso gli attacchi razzisti e le tattiche intimidatorie che si diffondono in proporzione al crescente successo delle sue idee, guarda al lato positivo: «C’è la rinascita! La gente cammina con più slancio. Sa che adesso la sua vita ha uno scopo. E tutto questo per il bene della comunità». Una curiosa schizofrenia etica in cui il fine giustifica i mezzi. Senza dimenticare come ormai il bene della comunità finisca per coincidere con il bene del centro commerciale, se non addirittura con la possibilità di una «rinascita nazionale». [KC 177, 182] Alle pie illusioni del protagonista si contrappone il giudizio di Maxted che lo accusa di aver creato un modello per gli stati fascisti del futuro. «Una forma di fascismo soft, come tutto nel mondo consumistico del resto. Niente passo dell’oca, né stivaloni, ma lo stesso tipo di emozioni e di aggressività». [KC 180] Il compito di Cruise è di continuare ad alimentare questa fiamma, questa tensione verso un significato assente. Di sollecitare le emozioni collettive e di incanalarne lungo i giusti binari43. L’assoluta mancanza di un nocciolo duro nella personalità del telepredicatore favorisce il suo innato trasformismo e determina inoltre 43 Una strategia simile a quella del Dott. Penrose, funzionale ad indirizzare le pulsioni distruttive sempre e comunque verso l’“esterno”, agitando lo spettro di un minaccioso nemico alle porte, pur di conservare l’ordine interno. L’ordine della produzione a EdenOlympia, l’ordine del consumo a Brooklands. Il parco tecnologico e la rete diffusa della suburbia rappresentano, in definitiva, le due facce della stessa medaglia. L’una non potrebbe esistere senza l’altra.

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una seconda, fondamentale conseguenza44. Il Sé di Cruise è un palcoscenico su cui si avvicendano diversi caratteri, con ognuno di questi il pubblico può stabilire un legame più o meno forte di immedesimazione. L’ampiezza della scelta («tutte queste persone che in realtà sono sempre io») è la fonte del suo successo e sancisce la sua definitiva vuotezza. David Cruise non è nessuno per sé ed è tutto per gli altri: «Sono un venditore di specchi: do al pubblico il tipo di faccia che vorrebbero vedere in bagno quando si alzano la mattina». Per questa qualità camaleontica incarna al meglio la funzione di intermediazione dell’anchorman televisivo e finisce per dimostrarsi, nel contempo, un pessimo leader. Come annota il padre di Richard nel suo diario: «è un ex attore che non sa dove andare senza un copione». [KC 155, 208] È una maschera dotata di grande fascino ma, senza qualcuno che gli scriva le battute, si riduce a vuota affabulazione. Il protagonista colma questo vuoto, spingendosi oltre il limite che nessuno dei suoi predecessori aveva mai oltrepassato: rinuncia ad essere un pessimo detective per diventare un talentuoso guru. C’è dunque un processo di sdoppiamento anche in Kingdom Come, uno sdoppiamento tra la “voce” e la “maschera”; eppure qui i rapporti di potere si sono ribaltati. L’investigatore non è più antagonista o succube di una personalità carismatica bensì si rivela essere il suo più prezioso alleato. Nessun altro personaggio eguaglia il suo talento nel sondare il ventre molle dell’opinione pubblica, i desideri, gli umori che si muovono al suo interno, per poi tradurli in un’espressione efficace. Richard, non bisogna dimenticarlo, è un ex pubblicitario, con una spiccata deformazione professionale «a banalizzare la vita in una serie di cliché da spot televisivo». [KC 21] Non ha bisogno di scoprire la sua complicità con il mondo consumistico a cui guarda con un misto di distacco e disprezzo. Sa benissimo di aver contribuito con il suo lavoro al radicamento di quei valori e, in una certa misura, ne va an44

Cruise stesso lo ammette senza mezzi termini: «All’epoca cercavo ancora di recitare. Un grossissimo errore in questo campo. Bisogna essere se stessi. E per riuscirci bisogna lavorare molto. Tutti noi abbiamo dentro una serie di personaggi. Mi dicevo che ero un regista che stava mettendo in scena una nuova commedia. Si presentano al provino tutte queste persone che in realtà sono sempre io. […] Devo decidere e devo esser spietato. […] Si tratta di scoprire quali sono i ruoli giusti». [KC 150]

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che fiero. Se il suo approccio spregiudicato gli è costato il posto, a Brooklands si può permettere di essere ancora più spregiudicato:

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Non c’è messaggio. I messaggi fanno parte della vecchia politica, […] la politica nuova parla dei sogni e delle necessità delle persone, delle loro speranze e delle loro paure. […] Niente slogan niente messaggi. […] Niente manifesti, niente impegno. Nessuna risposta facile. Sono loro a decidere cosa vogliono. [KC 157]

L’unica cosa che non si aspetta, da disincantato professionista, è che i suoi spot vengano presi alla lettera, che il «movimento politico, privo di un apparato burocratico, senza funzionari e portaborse», ossia la «rivoluzione che parte dal basso» [KC 198, 222] a cui ha preparato il terreno, si tramuti durante l’“assedio” in un regime totalitario. La transizione, a cavallo tra la seconda e la terza parte, può aiutare a comprendere le diverse forme di autorità corrispondenti ai vari attori coinvolti nel conflitto. Secondo la sociologia classica esistono infatti tre tipologie di potere, dipendenti da differenti forme di legittimazione. La prima, è la meno presente in Kingdom Come. Si tratta della legittimazione logico-razionale, fondata «sulla credenza nella legalità di ordinamenti statuiti, e del diritto di comando di coloro che sono chiamati ad esercitare il potere»45. A questa categoria possono essere ricondotte tutte le istituzioni del governo nazionale, il ministero dell’Interno in particolare, riluttanti o incapaci nel gestire la crisi del Metro-Centre. La loro posizione defilata lascia campo libero ad uno scontro che si sviluppa principalmente a livello locale, tra due élites in competizione per il dominio del territorio. Da una parte gli “autoctoni”, schierati in difesa della «vecchia Brooklands». Una connotazione che esprime chiaramente il loro orientamento conservatore, o in termini sociologici, una legittimazione derivante dalla «credenza quotidiana nel carattere sacro delle tradizioni valide da sempre»46. Dall’altra invece i rivoluzionari, i neobarbari, i seguaci devoti di David Cruise. Il termine “rivoluzionario” evidenzia il carattere dirompente con cui questo schieramento si afferma sulla scena. L’essere percepito in 45 46

M. Weber, Economia e società, Milano, Edizioni di Comunità, 1961, p. 210. Ibidem.

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quanto tale da parte degli avversari dipende dal fatto che si trovano davanti ad un’autorità irrazionale, apparentemente priva di regole che possano essere analizzate discorsivamente, nonché dichiaratamente volta a rovesciare le tradizioni del passato. È in ultima analisi un’autorità carismatica, dipendente dal prestigio e dal fascino esercitato dal proprio leader. Con un pizzico di amara ironia l’autore britannico sottolinea sin dall’inizio la pochezza di Cruise, l’assenza delle «proprietà soprannaturali o sovraumane, o almeno eccezionali in modo specifico»47, solitamente attribuite al capo carismatico. In un’era di dibattiti e talk show tale difetto, tale vuotezza si tramuta nel maggior pregio dell’ennesimo dittatore fantoccio, il cui unico talento sta nel porsi come specchio e amplificatore dei desideri del pubblico. Nella società dello spettacolo il telecomando prende insomma il posto della scheda elettorale e la politica stessa finisce per adeguarsi ai codici e ai tempi dello spettacolo48. Una politica «virtuale che non ha nessun legame con la realtà», «impressioni fugaci, l’illusione che ci sia un significato sopra un mare di vaghissime emozioni» [KC 108]: La vita in società non si fa più a partire dall’individuo potente e solitario, fondamento del contratto sociale, della cittadinanza voluta o della democrazia rappresentativa difesa in quanto tale. La vita in società è prima di tutto emozionale, fusionale, gregaria; dove il gregarismo, quantunque in qualche modo scioccante, deve nondimeno invitarci a riflettere. La sovranità dell’ego cogito non si impone più, e neanche il soggetto agente; proprio come il cittadino-attore volontario di un contratto sociale razionalmente regolato. L’universalismo del soggetto e della ragione, incarnazione di un Dio trascendente, lascia il posto a ragioni e ad affetti locali, particolari, situazionali. In breve non è più la verticalità del cervello che prevale, ma il risveglio della persona nella sua interezza, cosa che rimanda […] a un “pensiero del ventre”, un pensiero che sappia considerare i sensi, le passioni e le emozioni comuni49.

47

Ivi, p. 238. Richard, da smaliziato guru, gli fornirà una serie di “travestimenti” ispirandosi al repertorio cinematografico, agli «eroi maledetti dei film di gangster»: «uomini disperati sull’orlo della follia», «lo sguardo affamato, da martire, un aspetto da messia fuggiasco». [KC 188] 49 Maffesoli, Op. cit., pp. 21, 23. 48

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Una deriva pericolosa considerando quanto la psicologia dello «sciame dei consumatori»50 abbia in comune con la «psicologie delle folle». Impulsività, mutevolezza, suggestionabilità, intolleranza, ai seguaci del Metro-Centre non manca nessuna delle deprecabili qualità individuate, sul finire del XIX secolo, da Gustave Le Bon. La legittimazione carismatica è per sua natura instabile e, se la fiducia nel leader viene meno per qualunque causa, il suo potere rischia di essere annientato. Di conseguenza, nel momento in cui l’autorità vacilla, i suoi fedeli discepoli si trovano a dover imporre una più rigida disciplina: Il potere carismatico, nella sua forma genuina, riveste carattere specificamente straordinario, e presenta una rilevazione sociale rigorosamente personale – connessa alla validità carismatica di qualità personali e alla loro prova. Se però questa relazione non resta effimera ma acquista carattere durevole – dando luogo ad una “comunità” di compagni di fede di guerrieri o discepoli, oppure ad un gruppo di partito o ad un gruppo politico o ierocratico – allora il potere carismatico che esisteva nella sua purezza tipico-ideale, per così dire soltanto allo status nascendi, deve mutare in modo essenziale il proprio carattere: esso si trasforma in senso tradizionale o razionale (legale), oppure in entrambe queste direzioni51.

La direzione scelta da Carradine e Sangster unisce in una certa misura i due aspetti individuati da Weber: rifonda la tradizione, eleggendo i valori dei consumismo a nuovi valori assoluti; ed è razionale in quanto si adatta rispetto ad uno scopo, cioè sopravvivere all’assedio. Il momento caldo, lo «stato nascente» della rivolta è ormai passato e i nuovi “reggenti” si trovano a dover istituzionalizzare la violenza, irreggimentandola, disciplinandone l’esercizio. La gerarchia, a metà tra la struttura militare e la setta religiosa, attraverso cui erano in precedenza organizzate le incursioni contro le minoranze etniche, si irrigidisce. Gli ostaggi più deboli, quelli meno preparati a sopportare le numerose privazioni, vengono allontanati; nel frattempo ci si libera discretamente dei dissidenti. Ma un aspetto ancora più significativo è l’obbedienza spontanea dei nuovi “residenti” del

50 51

Cfr. Bauman, Homo consumes, cit. Weber, Op. cit., p. 243.

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centro commerciale. Rispetto alle riottose tribù di High Rise gli ex cittadini di Brooklands accettano senza troppi problemi le regole a loro già familiari. L’utopia di un mondo nuovo finisce così per rovesciarsi in una fantasia apocalittica in cui le vittime sono pronte a sacrificarsi per la causa insieme ai loro carnefici. Ballard evidenzia qui «l’irrazionalità della razionalità», ossia «la possibilità di perdere il controllo del sistema, fino al punto in cui è esso stesso a controllare noi». Il finale di Kingdom Come contiene dunque un’implicita denuncia «dei rischi autoritaristici [che] si celano all’interno del processo di razionalizzazione»52? In parte sì, in parte no. Molti dei cittadini di Brooklands e dintorni accettano di buon grado la transizione morbida verso un regime dittatoriale. Il consenso verso il leader, per quanto volatile, riflette «una dedizione di fede del tutto personale e determinata dall’entusiasmo, dalla necessità e dalla speranza»53. I dominati riconoscono spontaneamente il suo carisma. La religione dei consumi, con le sue cattedrali e i suoi messia a metà prezzo, offre quel mondo carico di passione che la desolata suburbia desidera nei suoi sogni più inconfessabili, ma non solo. Il matrimonio tra fascismo e consumismo, celebrato sotto la volta del Metro-Centre, rappresenta una soluzione inquietante e paradossale al «disagio della postmodernità»: I comportamenti psicopatici e perversi rappresentano allo stesso tempo nuove psicopatologie e nuove terapie che la trasformazione tecnologica e sociale consente di liberare e realizzare per espellere il dolore mentale connesso alle perdite e alle “organizzazioni della colpa” che generano, per infrangere il vissuto di estraneità a se stessi e alla realtà che si esprime nella noia, nella depersonalizzazione, nella frammentazione dell’identità54.

L’antonimia tra «libertà» e «sicurezza» individuata da Z. Bauman si ripropone all’interno del nostro corpus nella disperata ricerca di una “comunità” che sappia conciliare queste due esigenze. In nessun caso tale ricerca sembra comunque incontrare un esito positivo. Né nel-

52

Ritzer, Op. cit., pp. 99-100. Weber, Op. cit., p. 238. 54 La città e la violenza. I mondi urbani e post-urbani di James G. Ballard, a cura di P. Prezzavento, Otium/Paoletti Editori, Ascoli Piceno 2007, p. 57. 53

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l’atto gratuito proposto da R. Gould nella sua «rivolta metafisica», né tantomeno nella visione iper-razionalista di Eden-Olympia. Kingdom Come rappresenta l’unica eccezione e può essere considerato il trait d’union tra questi due opposti. Come dimostra la parabola di David Cruise dietro ogni rivoluzione, per quanto farsesca e destinata a fallimento, si annida lo spettro del totalitarismo. L’unica forma politica in grado di soddisfare la pulsione «emozionale, fusionale, gregaria» frustrata dall’individualismo borghese e, nello stesso tempo, un’«organizzazione della colpa» basata sulla continua riattivazione e ricreazione del desiderio, in perfetta sintonia con i codici della pubblicità e del consumismo. Già qualche anno prima Bobby Crawford aveva annunciato che i profeti del prossimo millennio non sarebbero usciti dal deserto, bensì da un centro commerciale. In fondo aveva ragione, o almeno così vuole suggerire Ballard nel finale del suo ultimo romanzo. I nuovi barbari che si affacciano alle periferie di un impero ormai in declino non aspettano altro.

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Conclusioni

1. Connessi globalmente, disconnessi localmente

Giunta alle soglie del nuovo millennio l’onda lunga della grande rivoluzione spaziale della seconda metà del Novecento, segnata dal dilagare della metropoli, sembra incontrare un ostacolo imprevisto, avviandosi a un lento ripiegamento su se stessa. Un simile fenomeno può essere interpretato in diversi modi. Se la «forma-territorio del Moderno» si è sempre caratterizzata «in relazione ad un fuori (periferia, campagna, natura)»1, allora la “chiusura” – matrice comune alle varie forme di gated communities sorte negli ultimi decenni – può forse rappresentare una sorta di ritorno alle origini? L’ultima, disperata reazione di fronte all’omogeneizzazione dello «spazio infinito, fluido, immateriale, senza luoghi e senza storia, del mercato globalizzato»? Riformulando la domanda in altri termini: siamo giunti davvero alla fine di un ciclo, al limite estremo di un passaggio sancito dalla fine della guerra fredda e dall’avvento di un mondo unipolare? O piuttosto l’esaurirsi di questa prima fase prelude a qualcosa di diverso? Ben consapevole che a «questo punto parlare di crisi della forma metropoli» non avrebbe più senso perché «la metropoli è la forma mondo che ha dissolto ogni forma urbana», Ballard sembra propendere più per la seconda ipotesi: La città senza luoghi, quella definita in assoluto dalle possibilità infinite, dalla mobilità perenne, dagli spazi senza mura né confini, non esiste più; come non esistono più i nonluoghi, quelli della circolazione accelerata delle persone e dei beni […]. Non esistono più nel senso che

1

Ilardi, Il tramonto dei nonluoghi, cit., p. 37.

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non ci sono più le stesse condizioni sociali dentro le quali sono stati teorizzati nel corso degli anni Ottanta e Novanta del Novecento. Comunque se esistessero apparterrebbero oggi a una spazialità opposta e diversa da quella metropolitana, dove la questione della sicurezza e l’esplodere della microconflittualità sono tutt’altro che disposte a favorire una circolazione scorrevole delle persone e delle merci, e la costruzione di un’architettura «liquida». E vivere nell’insicurezza non significa tanto «non poter fare più società con i propri simili» quanto doverla fare non più attraverso lo scambio ma la paura che trasforma la leggerezza dei nonluoghi nella rigidità dei luoghi di controllo2.

Attraverso la scansione temporale proposta sinora si è voluto voluto ripercorrere le fasi cruciali di questo mutamento, partendo dalla sua origine per arrivare agli sviluppi più recenti. Pur senza ritenere che l’adozione di una prospettiva diacronica comporti necessariamente l’individuazione di una presunta evoluzione, riteniamo che gli anni Settanta segnino un punto di svolta e di rottura rispetto agli universi simbolici precedenti e ai campi semantici a loro correlati. Lo spazio urbano era stato raffigurato in diversi modi nel corso della modernità: in quanto luogo di affermazione individuale, nel romanzo realista del XIX (da Dickens a Balzac); in quanto infinita fonte di stimoli psichici e sensoriali nel modernismo (l’Ulysses di Joyce)… eppure, almeno sino al secondo dopoguerra, questa rappresentazione era articolata sempre sullo sfondo di una serie di polarità esclusive. Da questo momento in poi tali distinzioni iniziano a collassare su se stesse3. Le cause concrete di tale mutamento sono numerose e vanno dalla rivoluzione delle reti alla crescente mobilità dei capitali finanziari; una serie di fenomeni che portano sia a un superamento dei limiti temporali (compresenza virtuale di emittente e destinatario), sia di quelli fisici imposti dalla conformazione del territorio (deterritorializzazione). Trasformazioni profonde i cui effetti, seppur maggiormente apprezzabili sul lungo periodo, si manifestano sin da subito, specie sul piano dell’immaginario. Si pensi ad esempio al prepotente riemergere del discorso della “globalizzazione”, un concetto cer2

Ivi, p. 42. Per descrivere tale fenomeno la metafora dell’“implosione”, proposta da Jean Baudrillard e poi ripresa da George Ritzer, si dimostra quanto mai adeguata. 3

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to non nuovo nella storia della sociologia che viene profondamente ridefinito e aggiornato, arrivando ad abbracciare, in breve tempo, un’ampia gamma di questioni. Al di là della varietà di problematiche ricondotte al di sotto di questa categoria-ombrello, non si può negare quanto i fattori economico-tecnologici appena accennati modifichino non solo l’oggetto del discorso, ma innanzitutto le modalità secondo cui un simile discorso si sviluppa.Volendo sintetizzare tale passaggio si potrebbe dire che negli ultimi tre decenni del Novecento la questione ermeneutica ha preso il sopravvento sulla questione ontologica. Non si tratta più infatti di decidere se la globalizzazione esista o meno, in quanto fenomeno complesso e proiettato su vari piani, quanto piuttosto di dare un’interpretazione del fenomeno, e persino di elaborare dei giudizi di valore a riguardo. Diversi attori hanno cercato di influire su questo processo di significazione che nel conflitto di posizioni discordanti trova il suo principale alimento. Gli anni Novanta ci forniscono forse gli episodi più memorabili di questo scontro – dalle contestazioni in occasione del WTO, al successo delle retoriche neoliberiste del libero mercato – ancora attuale e ben lungi dall’essersi risolto. Se è impossibile dunque tracciare un bilancio definitivo a tal riguardo, non sarà comunque privo di valore rilevare un contrasto tra una prima fase di accettazione acritica se non euforica, con una seconda fase, molto più sfumata, in cui iniziamo a delinearsi gli aspetti meno positivi di questo processo: Il capitalismo globale incrementa l’efficienza economica ma genera una serie di mali sociali, solitamente passati sotto silenzio dai suoi apologeti, tra cui: la destabilizzazione degli equilibri regionali, il declino dei valori comunitari, l’erosione del nucleo familiare primario e secondario, la creazione di una sottoclasse di disoccupati cronici, oltre a crescenti livelli di criminalità4.

Il lungo elenco di autori proposti nell’introduzione trova il suo minimo comune denominatore nell’esasperazione di uno o più degli

4

«Global capitalism increases economic efficiency but causes a range of social ills typically ignored by its apologists, such as regional destabilisation, the decline of community values, the erosion of extended and nuclear family life, the creation of a permanently unemployed under-class, and rising levels of crime». Gasiorek, Op. cit., p. 177.

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aspetti appena accennati e l’opera di Ballard, in particolare, li ricomprende tutti. Una volta individuate le dominanti sul piano dell’enunciato è possibile dunque cercare di delineare le tipologie di ambienti tramite le quali simili tematiche privilegiate vengono drammatizzate. Le prime due, l’“isola” e il “condominio”, catturano la fase iniziale della crisi della «forma-metropoli». Poste ai suoi margini, mostrano la precarietà di un confine sempre più labile, l’insuperabile resistenza che alla bulimica inclusività della «città infinita» contrappone l’utopica ricreazione di un microcosmo autonomo. La fioritura delle cosiddette gated communities, nel decennio successivo, segna un passo ulteriore in questa direzione. La separazione tra micro e macrocosmo si radicalizza e i rapporti di potere tra le due dimensioni vengono sovvertiti alla base. Il prepotente risorgere di una voglia di “comunità”, in esplicita contrapposizione ad una “società” massificata e spersonalizzante, è una delle chiavi di lettura più adeguate per descrivere la transizione in atto. Nella terza fase infine Ballard sottolinea quanto il motivo stesso del “muro” appaia sempre più come un palliativo di fronte «alla rivoluzione unificatrice e omologante delle reti, dei flussi transnazionali, della rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni che investe tutti i livelli delle relazioni sociali»5. Certo le «comunità fortificate» propongono uno schema urbanistico radicalmente alternativo a quello della metropoli, il prezzo da pagare è però molto alto, dato che «i cani e le telecamere impediscono di entrare ma anche di uscire». [RW 18-19] La ricorrenza delle immagini della “prigione” e del “labirinto” dimostrano palesemente come l’isolamento e la compartimentazione finiscano per rivelarsi una pericolosa arma a doppio taglio: Uscendo dagli universi variegati e pacificati prodotti dal mercato e dell’ansia di sicurezza ecco come appare la metropoli contemporanea: ha la forma di un’immensa scacchiera in cui alle caselle bianche corrispondono i quartieri ricchi e a quelle nere i quartieri poveri. Una scacchiera […] dove si può giocare solo a dama e non a scacchi dato che il movimento è possibile solo dal bianco al bianco al bianco o da nero al nero e mai dal bianco al nero e mai viceversa. E più che

5

Ilardi, Il tramonto dei nonluoghi, cit., p. 38.

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una scacchiera assomiglia a un’enorme prigione in cui i vari quartieri rappresentano le “celle”6.

Questa breve ricognizione invita a non cercare di ridurre l’immagine della città elaborata negli ultimi decenni a uno solo di questi ambienti, quando invece è nella molteplicità e nella frammentazione che tale immagine trova la sua ragione d’essere. Occorre perciò fornire uno schema più elastico, in grado di riunire questi elementi apparentemente dispersi in un sistema di correlazioni. Cominciamo dal primo nodo, da quella che potrebbe essere considerata la chiave di volta del nostro ragionamento, ossia dal territorio. Abbiamo visto come la fluidità dell’«iperspazio» porti alla nascita di nuove configurazioni: spazi, allo stesso tempo, fisici e virtuali; spazi «fluttuanti» o interstiziali. Da qui derivano le rigide barriere all’ingresso caratteristiche sia dei «nonluoghi» sia delle «comunità fortificate», espressione del pressante bisogno di regolare l’infinità reversibilità dei rapporti tra interno ed esterno. Non è dunque un caso che questi siano due delle ambientazioni predilette da Ballard: microcosmi in cui la creazione di confini artificiali, l’adozione di politiche di discriminazione ed esclusione, mira all’istituzione di una «privatopia» in cui finalmente sia ristabilito l’isomorfismo tra luoghi fisici e luoghi sociali. Un’ideale corrispondenza che trova la sua forma più compiuta nello «spazio difendibile» di O. Newman. L’insistere sulla compartimentazione rischia però di mettere in ombra un secondo, fondamentale topos, l’unico in grado di assicurare una connessione tra i vari punti apparentemente dispersi sulla mappa: la rete o il rizoma.Versioni speculari del medesimo modello concettuale che si collocano al di là della gerarchia centro-periferia, esemplare sintesi dei paradigmi della modernità. Grazie a questi è possibile esplorare ambienti in cui la distinzione funzionale tra luoghi, ben presente nella città ottocentesca, svanisce di fronte all’apoteosi dell’“incanto”, o si realizza nell’“implosione” del continuum spazio-temporale. L’iperspazio postmoderno genera, insomma, degli «iperluoghi», in cui la condensazione e la compresenza non escludono la separazione e l’eterogeneità. Al pari dell’Aleph borgesiano queste singolarità rap6

Ilardi, Il senso della posizione, cit., p. 173.

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presentano «uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti»7, o almeno l’intenzione di includerli tutti: il condominio, il megamall, parchi tematici quali Disneyland o parchi tecnologici come Eden-Olympia. A dispetto della loro claustrofobica “chiusura” sarebbe errato considerare tali realtà come totalmente avulse dal contesto. Anche se l’interazione con gli altri nodi della rete, in particolare con quelli più prossimi, si realizza solo ad alcune condizioni, rispettando alcuni protocolli ben definiti, la proliferazione di limitazioni e barriere manifesta la necessità di regolare l’interazione e non di eliminarla. Se si accetta sino in fondo questo curioso paradosso è possibile comprendere come il funzionamento del sistema dello spazio postmetropolitano dipenda in buona misura dalla riproduzione e dal continuo mantenimento di uno “scarto differenziale”. 2. Estensione del dominio del conflitto

Riprendendo le tre scene descritte nell’incipit e valutandole alla luce di quanto detto finora si può comprendere in che misura ognuna di queste catturi ed esprima un momento del «tramonto dei nonluoghi». La sconfinata periferia in cui ci introduce L’haine focalizza ad esempio la problematica compresenza di diversi «etnorami» al di sotto del modello di integrazione multiculturale promosso da diverse nazioni all’interno della cultura occidentale. Un modello che, pur volendo far tesoro dell’esperienza della decolonizzazione, si scontra con pregiudizi e cliches duri a morire la cui rimozione non ne determina la scomparsa, tutt’altro. L’ossessione del politically correct, ormai imperante nella sfera pubblica, finisce per relegare la differenza ad una questione di reciproco riconoscimento, portando a sottovalutare in che misura tale stereotipi siano profondamente sedimentati nel nostro immaginario. Basta guardare al razzismo “soft” che si vede riemergere in opere quali Super-Cannes e Kingdom Come, per rendersi conto di come lo sgretolamento della solida impalcatura dello stato-nazione non si traduca necessariamente in una mentalità transnazionale o, tantomeno,

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Crf. J. L. Borges, Finzioni, Milano, Mondadori, 1988.

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aperta e cosmopolita. Al contrario le nuove élites deterritorializzate tendono a reagire al vuoto simbolico prodotto dal loro sradicamento rinforzando i confini già presenti, o creandone di nuovi. L’ossessione per l’omogeneità interna, ormai definita dagli stili di vita più che dall’appartenenza etnica, linguistica o culturale, esprime la necessità di riancorare l’identità alla dimensione locale. Un’esigenza la cui soddisfazione dipende in maniera cruciale dalla condivisione di una serie di «autoimmagini», speculari e spesso ritagliate in negativo a partire dalle «eteroimmagini»8, ossia dalle rappresentazioni dell’Altro e dell’Altrove. Questo è sicuramente uno dei tratti salienti del tramonto dei nonluoghi: la contrapposizione di barriere fisiche e simboliche di fronte al dilagare incontrollato e spesso incontrollabile dei flussi. Una costante che si ritrova tematizzata in ognuno dei romanzi del nostro corpus, a dimostrare quanto Ballard considerasse questo processo di “produzione della differenza” come uno dei requisiti essenziali per la sopravvivenza delle comunità di fine millennio e per le loro ideali eredi. La vulgata secondo cui la globalizzazione si traduce automaticamente in un’omologazione (declinata di volta in volta nei termini di una «americanizzazione» o, in alternativa, di una «mcdonaldizzazione») è vivacemente smentita dall’autore britannico. A suo avviso tale processo, pur spingendo verso un’eliminazione dell’eterogeneità, produce una reazione di segno opposto e contrario. Molte delle opere prese in considerazione insistono, non a caso, sulla necessità di ripristinare un senso di appartenenza e di condivisione, anche a costo di tracciare una netta linea demarcazione tra “noi” e gli “altri”. Una contrapposizione che rimanda a tutta una serie di nodi problematici accennati da A. Appadurai nel suo saggio Modernità in polvere: alle già citate questioni etniche (etnorami), ma anche alla produzione e alla distribuzione dell’informazione (mediorami), agli instabili equilibri del mercato globale (finanziorami), alla diffusione dei progressi della scienza e della tecnologia (tecnorami)9. Sono, in fondo, tutte sfaccettature del medesimo prisma. L’autore britannico, al

8 9

P. Proietti, Specchi del letterario: l’imagologia, Palermo, Sellerio, 2008, pp. 23, 207. Cfr. Appadurai, Op. cit.

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pari di molti sociologi e antropologi contemporanei, pone in evidenza come la “libera” circolazione di informazioni, tecnologie, capitali, merci e persone non si realizzi in uno spazio anodino, privo di attriti e resistenze. Espressioni di una visione tribale del vivere associato i suoi microcosmi (il condominio, il villaggio, il quartiere) si fanno portatori della pressante necessità di una nuova etica di portata molto più modesta rispetto agli imperativi categorici di kantiania memoria. Il che spiega la centralità della figura del guru, vero e proprio “catalizzatore” sul piano dell’enunciato grazie al quale esplorare i pericoli e le possibilità aperte dalla crisi dei tradizionali paradigmi di riferimento. La dialettica ordine-disordine, tanto cara alla modernità, viene così riformulata nell’antinomia sicurezza-insicurezza. Poco importa se ci si rivolge a reali fatti di cronaca nera, come nel caso di Celebration, o se ci si sposta sul piano della finzione, come nel caso di La Zona: in entrambi ci troviamo di fronte al medesimo scarto. La metafora ossessiva della “soglia” riflette sul piano spaziale la mancanza di sincronia tra i vari flussi proposta da Appadurai come ipotesi di lavoro: il gap tra un ambiente ipertecnologico, progettato non per l’uomo ma per l’assenza dell’uomo (High Rise, Super-Cannes); lo scollamento empatico prodotto dalla mediatizzazione dell’esperienza e dalla conseguente «morte del sentimento» (Cocaine Nights, SuperCannes); o ancora la smaterializzazione e il senso di precarietà esistenziale derivanti dalle rapide migrazioni dei capitali finanziari (Millennium People; Kingdom Come). Nelle comunità ballardiane l’emergere di diseguaglianze dissimulate da un’apparente omogeneità, volta a ridurre il potenziale disturbante del confronto con l’Altro, genera inevitabilmente pulsioni perverse, violente, distruttive. La disgiunzione tra i flussi è dunque la fonte primaria di un conflitto endemico, spesso dissimulato sotto l’apparenza dell’ordine e della sicurezza, ma che è sempre presente. 3. Lo spazio tra i generi

Volendo ora affrontare le questioni inerenti il piano dell’enunciazione sarà utile riprendere le parole di R. Luckhurst e la sua descrizione della narrativa ballardina attraverso la metafora del strutturale del «car-

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dine». Un «cardine» che si può ritrovare nell’ibridazione tra due generi: la science fiction e la detective story. Della prima l’autore britannico conserva l’attenzione per l’influenza dei mutamenti tecnologici sulla psiche dell’essere umano, pur rifiutando di allontanarsi troppo lungo l’asse temporale o spaziale in improbabili odissee galattiche10. Sul finire degli anni Sessanta, dopo l’apogeo segnato dallo sbarco sulla Luna (1969), la corsa allo spazio cede il passo all’osservazione di un futuro molto più prossimo, anzi, già in procinto di realizzarsi a partire dalle prime avvisaglie della rivoluzione informatica. Con la brillante “scoperta” dell’inner space Ballard trova una via d’uscita da questa impasse, dimostrando quanto i margini delle metropoli potessero essere un luogo ben più interessante e ricco di avventure di qualsiasi pianeta extraterreste. L’esplorazione di nuove zone di confine richiede naturalmente una figura, un agente sul piano dell’enunciato in grado di muoversi liberamente attraverso le diverse soglie e gli innumerevoli ostacoli che lo spazio urbano frappone tra la curiosità dell’esploratore e la sua completa soddisfazione. La scelta di procedimenti derivati dalla detective story costituisce una parte della soluzione ma ci pone, di nuovo, di fronte ad un dilemma terminologico. Non si può negare che la figura dell’investigatore sia qui sminuita e privata della sua aura. Né che la mancanza dello scioglimento di uno o più nodi dell’intreccio impedisca al paradigma dell’indagine (mistero-indagine-soluzione) di realizzarsi compiutamente, frustando le aspettative degli amanti del “mistero”. Per queste ragioni è preferibile ricorrere ad un’etichetta diversa, ossia alla cosiddetta detective story metafisica. Una definizione che merita di essere approfondita ulteriormente. La più accreditata ipotesi di ricostruzione della geneaologia di questa sottoclasse fissa la sua origine negli anni Trenta, in corrispondenza con la fase più matura della detective fiction tradizionale, ritrovandone poi autorevoli esempi in autori quali Jorge Luis Borges (La

10

«Fin dai suoi inizi la fantascienza […] si è distinta per due caratteristiche: la prima è la sua risposta immaginativa alla scienza e alla tecnologia; la seconda è il suo tentativo, in seguito più o meno abbandonato dal romanzo cosiddetto mainstream, di fornire qualche tipo di inquadramento metafisico e filosofico al posto dell’uomo nell’universo». J. G. Ballard, Fine millennio: istruzioni per l’uso, Milano, Baldini&Castoldi, 1999, p. 285.

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muerte e y la brùjula, 1942), Alain Robbe-Grillet (Les gommes, 1953),Thomas Phyncon (The Crying of Lot 49, 1956). La nascita della «anti-detective fiction»11, al pari del noir, manifestava, una crescente insofferenza verso il modello iper-raziocinante di indagine teorizzato da E. A. Poe nel secolo precedente e poi affermatosi in quella che verrà definita come l’«età dell’oro» (1920-1930). L’alto grado di standardizzazione del genere, codificato in una rigida gabbia di norme prestabilite12, non poteva che essere aggirato se non attraverso l’ironia, la parodia, la disillusione delle attese e la costante infrazione del patto di lettura. La predominanza di uno di questi procedimenti piuttosto che di un altro ci permette di individuare tre tipologie, sviluppatesi con alterne fortune storiche. La prima è la detective fiction «innovativa», in cui si cerca di rinnovare la formula originale, sottolineando gli aspetti di critica sociale e proponendo un osservatore meno distaccato, più partecipe a livello affettivo alla vicenda. La seconda tipologia – la detective fiction «decostruttiva» – evidenzia invece la proliferazione degli indizi e delle ricostruzioni possibili, a discapito di una soluzione logicamente plausibile e soddisfacente. Infine, nella terza e ultima categoria – la detective fiction «metafisica» vera e propria – la relazione tra “emittente” e “ricevente” si pone esplicitamente come parodia del rapporto detective-omicida13. Raccogliendo l’implicita sfida ermeneutica lanciata dall’autore il lettore si trova qui a sopperire alle mancanze dell’agente sul piano dell’enunciato, a ricostruire il testo stesso come un puzzle fatalmente incompleto o ingannevole. Le prime due tipologie sono presenti in diversa misura all’interno dei romanzi sinora analizzati: la decostruzione dell’intreccio viene sfruttata in opere maggiormente stratificate e complesse, quali SuperCannes o Kingdom Come; mentre la problematizzazione della distanza tra il detective e il contesto è ben più diffusa. Solo la terza 11

Cfr. S. Tani, The Doomed Detective. The Contribution of the Detective Novel to Postmodern American and Italian Fiction, Carbondale, Souther Illinois University Press, 1984. Anteponendo il prefisso “anti” nella definizione di tale sottoclasse Stefano Tani sottolinea, più che una presunta filiazione tra la detective fiction dell’«età dell’oro» e le sue successive rielaborazioni, una sovversione del modello predominante. 12 Cfr. R. Knox, The Ten Rules of (Golden Age) Detective Fiction, in Best Detective Stories of 1928-29, New York, Liveright, 1929. 13 Tani, Op. cit., pp. 42-44.

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categoria riesce però a focalizzare con precisione i tratti salienti della narrativa ballardiana. La crisi delle certezze metafisiche, esauritesi con le epifanie moderniste, costituiva il presupposto esistenziale da cui nasceva l’anti-detective fiction. Lo stesso dilemma gnoseologico si ripropone anche in epoca postmoderna, seppur in chiave diversa. Borges e affini avvertivano il lato negativo ed inquietante di questa incertezza, Ballard invece predilige il lato ludico. Piuttosto che cercare di «riempire questo vuoto» tenta di «drammatizzarlo», contrapponendo ai «solidi principi metafisici della detective story classica» una metafisica debole e decadente14. A partire da simili premesse si comprendono meglio l’ultima fase della sua produzione e le ragioni soggiacenti all’ibridazione di generi tanto diversi. Se infatti si vuole trovare un punto di contatto tra la science fiction e l’anti-detective fiction occorre guardare all’ampio ambito di problematiche che Kant riconduceva alla «ragion pura»: lo statuto e la possibilità della conoscenza, le categorie ermeneutiche attraverso cui si sviluppa, la distinzione tra realtà e finzione. I romanzi ballardiani affrontano tutte queste tematiche, dissimulandole spesso sotto le ingannevoli vesti di un’inchiesta ben più concreta. Un’inchiesta all’insegna della «ragion pratica», incentrata sulla più alta infrazione dell’ordine morale di una comunità: l’omicidio. Sia chiaro, si tratta di una motivazione apparente. L’indagine poliziesca si tramuta presto in un’inchiesta esistenziale e la ricerca del colpevole in un’autoriflessione15. Un rovesciamento cruciale, uno spostamento di attenzione dell’oggetto al soggetto che si realizza grazie alla cosiddetta «triangolazione del desiderio». Le «organizzazioni della colpa» di cui Ballard ci rivela l’ambigua fascinazione attraverso la figura del guru uniscono i due aspetti della riflessione, il singolo e la collettività, la ragion pura e la ragion pra-

14

M. J. Martinez-Alfaro A Look Into the Abyss. The Unsolvable Enigma of the Self and the Challenges of Metaphysical Detection in Martin Amis’s Night Train, in «Journal of Narrative Theory», vol. 40, n° 1, inverno 2010, p. 109. 15 L’utilizzo delle nozioni di «ragion pura» e «ragion pratica» e la loro applicazione al campo della critica letteraria prende spunto dalle riflessioni di Renato Barilli. Secondo il critico bolognese l’aspetto ideologico di un’opera non può essere valutato esclusivamente nelle sue valenze etico-politiche, ma deve tenere conto anche degli aspetti di ordine percettivo, psicologico e gnoseologico.

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tica, in una prospettiva inedita. Una sintesi che rivela gli aspetti meno edificanti e le possibili derive totalitarie della società dello spettacolo e dei consumi. Un sistema ideologico, sia chiaro, rispetto a cui il detective si scopre complice, senza mai poter godere di una posizione di imparzialità simile a quella dei suoi illustri predecessori16. Il rapporto con l’alter ego sovverte alla base il codice assiologico della detective fiction tradizionale: l’eroe non ha la funzione di restaurare l’ordine costituito, bensì di rimetterlo in discussione. La sua rinascita interiore comporta un’identificazione mimetica con le «perverse logiche sociali» di cui l’antagonista è l’espressione. In diversi casi (Cocaine Nights, Kingdom Come) arriva addirittura ad assumerne il ruolo. Ed è quanto mai significativo che tale rovesciamento coincida con la riemersione delle pulsioni represse dell’inconscio individuale e collettivo. Razzismo e xenofobia, sogni di sadismo e violenza, pratiche sessuali devianti o anormali, non c’è praticamente nessun angolo oscuro della psiche umana che Ballard non abbia esplorato nella sua lunga carriera. In questo senso, tramite l’immedesimazione con il protagonista, l’autore britannico invita ai suoi lettori a raccogliere l’ambiziosa sfida lanciata da Joseph Conrad: «Immergetevi nell’elemento più distruttivo che ci sia, e nuotate!». Una simile, spietata esposizione dei fantasmi dell’immaginario potrà risultare perturbante, e probabilmente non regalerà la tanto agognata catarsi, eppure può forse aiutare a «smantellare la struttura formale dello spazio e del tempo che l’universo ci avvolge addosso nel momento in cui per la prima volta raggiungiamo la coscienza»17. Una corrosiva demistificazione, una riflessione «sulle questioni di protocollo, di confine, di struttura e sui giudizi che ne derivano»18, a cui il bardo di Shepperton è sempre rimasto fedele.

16

«The narrators of these novels refuse to disown their complicity in the structures of desire they uncover and to which they have all along covertly drawn». Gasiorek, Op. cit., p. 174. 17 J. G. Ballard, Fine millennio: istruzioni per l’uso, cit., p. 292. 18 Luckhurst, Op. cit., p. XIII.

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4. Il sublime tecnologico

Avendo individuato le peculiarità della narrativa ballardina è necessario affrontare ora un ultimo, cruciale punto, cercando di collegare le considerazioni sviluppate nelle sezioni precedenti in una prospettiva unificante. Tale prospettiva riporta ad una serie di questioni inerenti il “codice” e spinge a rivolgere l’attenzione verso quelle che Gérard Genette definisce le funzioni extraletterarie del testo narrativo, prima fra tutte la funzione ideologica. La ricorrenza di alcune tematiche, la predilezione per alcune strutture enunciative, se considerate in quest’ottica, assumono un rilievo peculiare nella misura in cui orientano l’attività interpretativa del lettore. Dobbiamo pertanto considerare il racconto non solo come rappresentazione di eventi (reali o fittizi), bensì in quanto proposizione di una serie di “posizioni”, di atteggiamenti, di schemi di giudizio e di valore. Ballard, senza dubbio, è sempre stato un autore propenso a rendere esplicite le ragioni delle sue scelte in sede critica. La strenua difesa della science fiction di fronte allo snobismo accademico, la teorizzazione dell’inner space in memorabili articoli-manifesto – Qual è la via per lo spazio interno (1962), Tempo, memoria e spazio interno (1963) – sono state la “palestra” attraverso cui affinare le premesse teoriche di una linea di ricerca perseguita ostinatamente negli anni successivi. Uno sguardo retrospettivo porta a ridimensionare il tono volutamente provocatorio di alcune affermazioni di allora. Non si deve infatti dimenticare il contesto in cui una simile riflessione andava ad inserirsi. Gli anni Sessanta erano un momento caldo del dibattito culturale segnato, sulla scena europea, da una diffusa emergenza dello sperimentalismo. Un movimento con il quale l’autore britannico condividerà una convinzione profonda, cioè che le potenzialità gnoseologiche di ogni forma letteraria dipendano dal suo costante rinnovamento. Quando anche la fantascienza catastrofica si dimostrerà essere un campo di gioco troppo limitato non esiterà ad abbandonarla, ibridandola con figure e procedimenti provenienti dai generi più disparati. Ma perché proprio questi generi? La risposta risiede forse nel «paesaggio “degradato” di kitsch e scarti» – «di serial televisivi, e cultura

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da Reader’s Digest, di pubblicità e motel, di show televisivi, film hollywoodiani di serie B, e della cosiddetta paraletteratura, con i suoi tascabili da aeroporto divisi nelle categorie della biografia romanzata e del giallo della fantascienza e del fantasy» – in cui l’estetica postmoderna del «ri-uso» trova il suo alimento19. Un ri-uso che, sia chiaro, non si configura più come infrazione del confine tra la cultura alta e la cultura massificata, dato che tale confine, così come lo pensavano gli ideologi del moderno, è ormai cancellato. Ciò permette a Ballard di non limitarsi a citare questi materiali eterogenei «come avrebbero potuto fare un Joyce o un Mahler», e di «incorpora[rli] in tutta la loro sostanza» nella sua opera. D’altronde, ben prima della diffusione di questa ambigua poetica aveva affermato, in contraddizione con Kingsley Amis, che non erano i generi cosiddetti popolari a dover confluire nel mainstream, ma che presto sarebbe accaduto il contrario. Di tutte le sue bizzarre profezie questa si è dimostrata probabilmente la più azzeccata. C’è però una ragione meno evidente dietro questa decisione, una ragione mai del tutto esplicitata. I mondi possibili ballardiani possono essere interpretati come fosche distopie di un futuro in procinto di realizzarsi, e quindi come monito; oppure come visioni deformate del presente. L’importante non è operare una scelta definitiva tra queste due modalità interpretative, che possono benissimo coesistere, bensì focalizzare quello che è il centro mobile della sua riflessione critica e romanzesca, ossia il concetto di «storicità». Se la storicità può essere definita come la «percezione del presente in quanto storia, vale a dire come un rapporto con il presente che in una certa misura lo strania»20, allora si deve riconoscere che l’autore britannico opera esattamente in questo maniera: “strania” l’attualità attraverso la fusione di due schemi enunciativi apparentemente inconciliabili, l’uno rivolto verso il passato (la detective story) l’altro verso il futuro (la science fiction). L’adozione di questa morfologia ibrida risponde ad una precisa tendenza del postmodern, il double coding, cioè la contaminazione reciproca di due o più stili formali. Il risultato è il collasso del binarismo moderno e, di conseguenza, delle categorie – interno/esterno; 19 20

Cfr. H. Lausberg, Elementi di retorica, Bologna, Il Mulino, 1993. Jameson, Op. cit., p. 287.

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essere/apparenza; autentico/inautentico; latente/manifesto – sui cui si fondava la sua implacabile logica dialettica. Dei vari procedimenti finalizzati al raggiungimento di un simile risultato l’«inversione dei registri» è sicuramente uno dei più caratteristici della prosa ballardinana. Segno privilegiato dell’implosione delle antinomie sopracitate e, nello stesso tempo, espressione di una più ampia crisi dei paradigmi di significazione. Non occorre qui ripercorrerla nel dettaglio, basti ricordare le due tendenze principali: da un lato la deteritorrializzazione, «diaspora progressiva dei luoghi da un Sé e dei Sé da un luogo»21 di cui la forma-metropoli rimane, ieri come oggi, un osservatorio privilegiato; dall’altro una detemporalizzazione, nella quale spazio e tempo cominciano a cannibalizzarsi, portando ad uno stallo della storicità, al suo indebolimento e alla sua repressione. Naturalmente questi processi comportano una serie di difficoltà per il romanzo, genere storicamente legato alla restituzione del «senso della posizione»22 del soggetto e, di conseguenza, ad una rimessa in discussione delle sue potenzialità ermeneutiche. Per questo negli ultimi anni la riscoperta delle potenzialità di problem solving della letteratura, insieme all’idea «che i processi testualizzanti precedano e seguano il ricorso ai segni verbali», sono ritornate in auge in ragione della «diminuita accessibilità simbolica del reale»23. Rispetto ai «romanzi cosmografie» del global novel, in cui Stefano Calabrese vede la massima realizzazione di questo nuovo corso, Ballard esibisce intenzioni più modeste. Certo nel suo caso i singoli testi restituiscono un «insieme ordinato, omogeneo», ma tale insieme viene colto nella sua dissoluzione più che nella sua realizzazione compiuta. La catena di cause ed effetti che, una volta scoperta, dovrebbe restituire coerenza al materiale tematico, si dimostra fallace o incompleta. Le cause non corrispondono mai ai fini, come evidenzia esplicitamente il motivo dell’«atto gratuito». Intrappolati tra le opposte tentazioni di una ribellione metafisica o di una volontaria rinuncia al libero arbitrio in favore di reti di con21 S. Calabrese, www.letteratura.global Il romanzo dopo il postmoderno,Torino, Einaudi, 2005, p. 49. 22 Cfr. Ilardi, Il senso della posizione, cit. 23 Calabrese, www.letteratura.global, cit., p. 47.

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trollo anonime e decentralizzate, gli antieroi ballardiani sono i figli di una società incapace di assicurare valori e certezze senza una data di scadenza. La confusione categoriale sul piano della «ragion pura», abbozzata nei paragrafi precedenti, finisce insomma per riflettersi in un vuoto etico-morale, ossia sulla «ragion pratica». Il romanzo nell’era della globalizzazione non può che prendere atto di questa situazione e cercare di porvi rimedio, rispondendo alle principali necessità antropologiche che presiedono, in sede storica, alla sua nascita: «ridurre la complessità del reale riadattandola a sé, prevedere un destino possibile, compensare il venir meno delle certezze»24. L’allentamento dei legami tra individui, ricchezza e territori [altera] le leggi della riproduzione culturale [e fa] sorgere [degli] interrogativi circa l’impatto della deteritorializzazione sulle risorse immaginative correlate a esperienze vissute localmente25.

L’universale si particolarizza e il particolare si universalizza dando vita ad un «concetto di località meno definibile in termini scalari o spaziabili che non come una struttura relazionale»26, un concetto molto lontano dal vicinato delle comunità organiche. L’idea stessa di “comunità”, il suo ricordo e il suo fantasma risorgono oggi senza posa, quasi a voler ricomporre una convergenza, reale e immaginaria, tra il “Sé” e il “luogo”. La metafora stessa del microcosmo, viene così ridefinita dal discorso della globalizzazione, che tende a rivelare la sua impossibile corrispondenza con “il” macrocosmo, quando questo macrocosmo non esiste più. O almeno non esiste più nei termini del perfetto equilibrio secondo cui lo concepiva la cultura umanistica. Secondo Ballard l’unico modo per alludere a questa totalità perduta non risiedeva e non risiede più in un confronto con un’ideale di Natura irrimediabilmente compromesso, bensì nel venire a patti con gli aspetti meno palesi del mutamento tecnologico. Non perché fosse affascinato dai progressi scientifici in sé, quanto per le profonde implicazioni psicologiche e, in senso lato ideologiche, della rappresenta-

24 25 26

Ivi, p. 21. Ivi, p. 49. Ivi, p. 56.

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zione della mutevole relazione tra l’uomo e la macchina. A dispetto della sua dichiarata antipatia per qualsiasi interpretazione neomarxista della letteratura, almeno su quest’ultimo aspetto l’autore britannico avrebbe probabilmente concordato con le teorie di F. Jameson:

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La tecnologia della società contemporanea dispone […] di un fascino ipnotico non tanto di per sé, ma perché sembra fornire uno schema rappresentativo sintetico e privilegiato per comprendere una rete di potere e di controllo più difficile da cogliere per la nostra mente e la nostra immaginazione: tutta la nuova rete globale decentrata del [capitalismo globale]27.

La «paranoia high tech» diffusa in diversi ambiti della fantasy speculativa contemporanea è il segno palese delle crescente difficoltà di abbracciare questa rete nella sua interezza o totalità. Una problematicità che apre prospettive interessanti sulla riproposizione in chiave postmoderna di un’inedita forma di sublime. Sebbene i filosofi e gli esteti che, nel corso del Settecento, diedero forma e corpo a questa categoria del gusto ne ritrovassero l’origine nella contemplazione dei grandi spettacoli della Natura (mari, montagne, deserti), è fuori di dubbio che oggi quella paradossale compresenza di “sgomento” e “meraviglia” vada ricercata altrove, ad esempio nelle anonime architetture di vetro-cemento dei palazzi della finanza internazionale. L’architettura della città postmoderna è infatti un’architettura di riflessi, un interminabile gioco di rimandi che sfianca lo sguardo, ancora prima dell’immaginazione. Dall’impossibilità di coglierla nei termini di un’unità discreta, dai confini netti e definiti, deriva una peculiare forma di «psicastenia», ossia un disturbo nella relazione fra se stessi e l’ambiente circostante, una crescente confusione tra lo spazio definito dalle coordinate sensoriali e la rappresentazione del medesimo spazio. Questa è la premessa del «sublime tecnologico» che, al pari del suo illustre antecedente, è la chiara espressione di uno squilibrio percettivo e gnoseologico potenzialmente disturbante. Uno squilibrio che trova nel processo artistico una compensazione, o meglio, una

27

Jameson, Op. cit., pp. 52-53.

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sublimazione. Precisazione importante se si vuole comprendere la risematizzazione del concetto originario in un contesto radicalmente mutato. Qui il sublime viene assunto soprattutto nelle sue valenze negative, inquietanti, perturbanti e non in quanto positiva espressione estetica del sentimento morale. Il sentimento di dolore e dispiacere, derivante dalla frustrazione delle nostre capacità intellettive e sensibili non si converte, o si converte in minima parte, nell’esaltazione della nostra natura sovrasensibile. L’auspicata ricomposizione tra il dominio della «ragion pura» e quello della «ragion pratica» non può quindi realizzarsi sino in fondo, proprio perché è venuta meno la precondizione necessaria ad assicurare tale accordo: la capacità della ragione di figurarsi una qualche forma di totalità assoluta. In un’epoca segnata dalla fine delle «grandi narrazioni», la presa di coscienza degli antieroi ballardiani non può dunque che prodursi a partire dal basso, cercando con difficoltà di ritrovare il «senso della posizione» prima all’interno di una comunità locale e, solo in seguito, all’interno del sistema-mondo. Le gated communities forniscono un palcoscenico privilegiato per osservare queste complesse dinamiche identitarie, confermando l’ipotesi di M. Foucault secondo cui lo spazio urbano è uno dei discorsi attraverso il quale si articola la rappresentazione dei nostri valori e si “rinfrangono” i rapporti di potere. Grazie alla reversibilità caratteristica dell’inner space è possibile pertanto delineare un’omologia tra i processi di controllo del territorio, i processi di riproduzione culturale e i processi di costruzione della soggettività. Questa è stata sicuramente una delle intuizioni più feconde dell’autore britannico e per tale ragione, ancora oggi, la sua opera rimane una delle migliori guide per coloro che vorranno avventurarsi nella nuova terra incognita che si profila all’orizzonte, là dove finisce la città.

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Bibliografia

1. Bibliografia primaria su J. G. Ballard

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Abruzzese Alberto, Bonomi Aldo (a cura di), La città infinita, Milano, Mondadori, 2004. Abruzzese Alberto, Lo splendore della TV. Origini e destino del linguaggio audiovisivo, Milano, Costa & Nolan, 1995. Adorno Theodor Wiesengrund, Horkheimer Max, Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi, 1997. Anderson Benedict, Comunità immaginate: origini e fortuna dei nazionalismi, Roma, Manifestolibri, 2000. Appadurai Arjun, Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001.

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Là dove finisce la città

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Indice dei nomi

Amis, Kingsley, 2, 3, 174 Appadurai, Arjun, 167 Asimov, Isaac, 2, 43 Auden, Wystan Hugh, 54 Augé, Marc, VII, XVII, XIX, 6, 52, 53, 135 Auster, Paul, XXI, 43 Ballard, James Graham, The Wind From Nowhere 1 The Drowned World 1 The Burning World 1 The Crystal World 1 The Atrocity Exhibition 1, 24, 79 Vermilion Sands 1, 45 Crash VII, 1, 2, 18, 27, 65, 72, 88 Concrete Island VII, XXII, 1, 317, 27, 39, 41, 42, 44, 61, 99, 101 High Rise XXII, 1, 18-44, 45, 46, 52, 61, 64, 69, 84, 86, 99, 101, 102, 113, 136, 148, 150, 159, 168 The Unlimited Dream Company 45 Hello America 45 Empire of the Sun 46, 47 The Day of Creation 46 Running Wild 48, 49, 51, 64 The Kindness of Women 46

Rushing to Paradise 46 Cocaine Nights XXII, 44, 49, 5070, 71, 73, 75, 89, 94, 98, 100, 125, 138, 168, 172 Super-Cannes XXII, 44, 49, 52, 71-104, 136, 166, 168, 170 Millennium People XXII, 44, 106, 107-130, 143 168 Kingdom Come VII, XI, XXII, 44, 106, 107, 125, 131-160, 166, 168, 170, 172 Miracles of Life VII Bale, Christian, 47 Balzac, Honoré de, XVII, 162 Banham, Reyner, 19, 22 Barthes, Roland, XXVI Bataille, Georges, 90, 92, 93 Baudelaire, Charles, XXIV Baudrillard, Jean, 162 Bauman, Zygmunt, 54, 89, 103, 159 Baxter, Jeannette, 74, 89, 91 Baxter, John, 46 Bellamy, Edward, 50 Benjamin, Walter, 22 Bentham, Jeremy, 73 Blair, Tony, 106 Blake, William, 46 Blakeley, Edward, 51 Bonomi, Aldo, XVII Borges, Jorge Luis, 169, 171

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Là dove finisce la città

Breines, Paul, 129 Breton, André, 120 Brookner, Anita, 47 Bunker, Edward, XXI Butor, Michel, 66

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Cacciari, Massimo, XX Calabrese, Stefano, 175 Camus, Albert, 57, 109 Capriolo, Paola, XXI Carletti, Luigi, XXI Carrol, Lewis, 80 Carter Wood, John, 102, 103 Castells, Manuel, XIX, 93 Chagall, Marc, 77 Christie, Agatha, 49 Churchill, Winston, 19 Connerton, Paul, VIII Connolly, Cyril, 77 Conrad, Joseph, 172 Coppola, Alessandro, X Cronenberg, David, 72 De Cataldo, Giancarlo, XXI Defoe, Daniel, 12, 14 Dickens, Charles, XVII, 112, 162 Dumas, Alexandre, 77 Easton Ellis, Bret, XXI Elias, Norbert, 102 Ellroy, James, XXI Fitzgerald, Francis Scott, 77 Foster, Norman, 105, 116 Foucault, Michel, XVII, 23, 66, 113, 123, 178 Fourier, Charles, 73 Garreau, Joel, XVII Gasiorek, Andrej, 7, 126 Gehry, Frank, 81

Genette, Gérard, 6, 173 Glass, Philip, 20 Golding, William, 46 Greene, Graham, 55, 77 Hawthorne, Nathaniel, 17, 18 Hitler, Adolf, 86, 95 Hölderlin, Friedrich, XVI Howard, Ebenezer, 50, 134 Hugo, Victor, 112 Jakobson, Roman, XXIV Jameson, Fredric, 23, 24, 177 Jarry, Alfred, 79 Johnson, Boris, 106 Joyce, James, XVII, 162, 174 Kant, Immanuel, 23, 171 Kassovitz, Mathieu, XII, XIX King, Stephen, XXI Kurosawa, Akira, 41 Lang, Fritz, 81 Le Bon, Gustave, 158 Le Corbusier, 22, 81 Lee, Spike, XXI Lévi Strauss, Claude, XXIV Lewis, Wyndham, 2 Livingstone, Ken, 106 Low, Setha, 51, 115, 138 Luckhurst, Roger, XXII, 168 Maffesoli, Michel, 35, 37 McKenzie, Ewan, 50 McLuhan, Marshall, 83 Manson, Charles, 45 Marx, Karl, 32 Matisse, Henri, 77 Moorcock, Michael, 1 Musil, Robert, IX

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Indice dei nomi

Neutra, Richard, 81 Newman, Oscar, 20, 21, 22, 52, 165 Nietzsche, Friedrich, 87, 128

Roth, Philip, XXI Ryan, Michael, 106 Rzepka, Charles, 67

Pareto, Vilfredo, 37 Pascoli, Giovanni, 8 Peebles, Mario Van, XXI Pelecanos, George, XXI Picasso, Pablo, 77 Piñeiro, Claudia, XXI Plà, Rodrigo, XII, 51 Poe, Edgar Allan, 170 Portman, John Jr., 23 Propp, Vladimir, XXIV Pynchon, Thomas, 43, 170

Simmel, Georg, XVII Singleton, John, XXI Snyder, Mary Gail, 51 Soja, Edward, XIX Starobinski, Jean, 25

Reagan, Ronald, 51 Ritzer, George, 149, 150, 153, 162 Robbe-Grillet, Alain, 170 Roberts, Richard, 116 Rohe, Mies van der, 32

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Thatcher, Margaret, 51, 106 Theroux, Paul, 46 Todorov, Tzvetan, 138 Weber, Max, XV, 12, 158 Wells, Herbert George, 2 Welsh, Irvine, XXI Zizek, Slavoj, XIII, 121, 123 Zola, Émile, 22

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Finito di stampare da Studio Rabbi - Bologna Luglio 2013

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