La costanza del vocativo. Lettura della "trilogia" di Andrea Zanzotto: Il Galateo in Bosco, Fosfeni, Idioma


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Italian Pages 144 Year 1992

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La costanza del vocativo. Lettura della "trilogia" di Andrea Zanzotto: Il Galateo in Bosco, Fosfeni, Idioma

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Volumi pubblicati

Giuseppe E. Sansone, I luoghi del tradurre. Capitoli sulla versione poetica

Franco Buffoni, I racconti di Canterbury: un’opera unitaria Franco

Brevini, L'orologio di Noventa. Lingua, dialetto e let-

teratura Lorenzo De Carli, Proust. Dall’avantesto alla traduzione

Gian Mario Villalta, La costanza del vocativo. Lettura della «trilogia» di Andrea Zanzotto: Il Galateo in Bosco, Fosfeni, Idioma.

© 1992 Edizioni Angelo Guerini e Associati s.r.l. Via A. Sciesa 7 — 20135 Milano

Prima edizione: giugno 1992 Copertina di Progetto grafico Printed in Italy

ISBN 88 - 7802 - 331 - 0 Ristampa: VIVIVIIIII

1993 1994 1995 1996 1997 1998

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.



435

Gian Mario Villalta

ATH

G33+

1999

LA COSTANZA DEL VOCATIVO ua; Lettura della «trilogia»

di Andrea Zanzotto: Il Galateo in Bosco, Fosfeni, Idioma

Nota introduttiva di Emilio

Mattioli

GUERINI E ASSOCIATI

INDICE

NOTA

INTRODUTTIVA

di Emilio Mattioli

13

LA COSTANZA

15

PREMESSA CAPITOLO

DEL VOCATIVO

PRIMO

Una mappa del luogo dell’incontro 45

CAPITOLO

SECONDO

Note che fanno testo

53

CAPITOLO TERZO

Il tempo della scrittura 65

CAPITOLO

QUARTO

Un dialogo in una lingua morta? 81

CAPITOLO

QUINTO

La data si sottrae al calendario

97

CAPITOLO SESTO

Sul «taglio» temporale del dire

107

CAPITOLO SETTIMO

Voci nel passato, nel presente 117

CAPITOLO

Silenzio

125

CAPITOLO

OTTAVO

e ammutolimento NONO

Verso il nord, l’inverno

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POR O SI eE

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NOTA INTRODUTTIVA

Gian Mario Villalta muove dalla consapevolezza che la «trilogia» di Zanzotto «obbliga a rinunciare a gran parte degli strumenti critici abituali», per questo la sua lettura è l'esatto contrario di una spiegazione chiarificatrice e omologante: è un tentativo continuo di tenere aperta la polisemia e la plurivocità di questa poesia incomparabilmente nuova. Nel raggiungimento di questo risultato lo hanno aiutato da una parte il dialogo diretto (e indiretto) con Zanzotto, dall’altra una forte tensione teorica e

una scrittura densa e complessa. La scelta di questa via di lettura difficile non porta a risultati riassumibili in una formula o in una definizione,

ma avverte continuamente sulla complessità dei testi e sulle tensioni che li attraversano. L’allusione all’originario pre-espressivo, prodotta da una sistematica fluttuazione

di tutti i livelli della lingua, com-

porta [...] la sorveglianza attenta dell'intelletto organizzatore, disposto ad un massimo di concentrazione per tende-

re al limite i fili che collegano le più diverse configurazioni di significato, e produrre così, quasi per improvvisa neces-

saria rinuncia, quel mancamento da cui prorompe lo sfondo insondabile e indicibile dell’espressione.

Un bell’esempio di questa lettura altra è dato dalle pagine sulle «Note che fanno testo» in cui si mette in rilievo come esse, piuttosto che a svolgere «un ruolo esplicativo nei confronti del lavoro in versi, sono poste a contrastare

una lettura troppo rapidamente risolta, e soprattutto l'assunzione da parte del lettore del discorso in prima persona». Queste note «non si lasciano accantonare come semplice dichiarazione di poetica, rimangono a mantenere diviso un libro dall’altro, a rinviarli l’uno

all’altro confondendone

la cronologia, separando in

10 diverse figure lo stesso autore nello ‘stesso’ tempo, facen-

do emergere sullo sfondo la persona dell’autore delatore e complice, che può farsi presente solo rinviando al gesto che lo nasconde». La felicità della scelta di questo avvicinamento ai testi, che, a prima vista, potrebbe sconcertare, tutto spostato com’è sui margini e sugli interstizi, risulta dagli esiti cui approda. Inficiando l’ordine cronologico di composizione e quindi la impaginazione secondo il vettore della scrittura (elusa dalla moltiplicazione del libro), mettendo

così a nudo e

rendendo in larga misura inoperante la vocazione «genetica» del comprendere,

ci si ritrova in una situazione

nella

quale vengono revocate in dubbio anche le possibilità dell’analisi stilistica e tematica.

La lettura interstiziale diventa il presupposto di una comprensione nuova della poesia di Zanzotto. La frase che dà titolo a un capitolo del saggio di Villalta: «La data si sottrae al calendario», riassume da una parte il risultato dell'indagine sul tempo nella trilogia, ma dall'altra pone Ì presupposti per un esame della ripresa di temi heideggeriani, non, ovviamente, come ricerca di fonti, ma come approfondimento dell’interrogazione sul linguaggio che

in Zanzotto ha affinità, ma anche profonde differenze con quella di Heidegger, e non solo per la specificità del pensiero poetante: Vi è la necessità costante, nella poesia di Zanzotto, di decidere in prima persona per il riscatto della violenza, anche di quella che non si è compiuta in prima persona. Vi è un debito nei confronti degli altri, debito che è anche debito ‘di parola’, per il quale il parlante è impegnato nel linguaggio, senza che mai, nel linguaggio o fuori di esso, possa attingere ad un ordine determinante, ad un destino.

La poesia di Zanzotto viene così a collocarsi all’incrocio fra due linee di forza portanti: da una parte

quella del passato attraverso il quale il soggetto giunge all'interpretazione di sé e al riconoscimento del debito contratto nel suo stesso costituirsi, dall’altra la cancellazione del passato nella sua riscrittura, nell’appiattimento sulle

strutture ideologiche e discorsive del presente. Il riscatto

least

1l del passato, perché non diventi soltanto menzogna ad uso e giustificazione dell’esistente, deve perciò passare attraverso una ‘resa’ al passato di ciò che viene al presente da più lontano, una elaborazione della distanza’ che non pretenda di appropriarsi interamente dell’alterità, ma ne abbia Cura, rispetto, pietas.

Le acquisizioni cui giunge Villalta sono molte e importanti, ma al di là di queste acquisizioni specifiche che

meriterebbero d’essere valutate una per una, ce n’è una d’ordine generale della quale la critica futura non potrà non tenere conto: La costruzione del senso del testo mediante la lettura deve [...] fare a meno di un punto di partenza dato, come anche di un ordine stabilito di successione, confidando nella possibilità di elaborare le stratificazioni e le intersezioni del testo, i suoi margini e le sue ripiegature.

Emilio Mattioli

PREMESSA

Per quanto dei linguaggi e delle lingue, considerati come sistemi di strutture e di funzioni, si possa pervenire a una analisi dettagliata e alla formulazione di modelli euristici soddisfacenti, permane pur sempre qualcosa di inafferrabile, custodito nel rapporto che ci costituisce come soggetti nella parola, tale da rendere inesauribile, oltre che necessaria,

l'interrogazione

che su di essa si rinnova

costantemente nelle diverse forme della ricerca. L'aspetto forse più affascinante dell’esperienza del linguaggio, e il luogo di maggior resistenza al lavoro della formulazione teorica, è la capacità che possiede la parola dell’altro, di un’altra persona, di intersecare e intaccare il

processo interpretativo mediante il quale il soggetto si costituisce, di venire cioè a farne parte in modo attivo e determinante. La parola dell’altro — proprio perché un soggetto non si costituisce mai da se stesso, ma in un incessante rapporto d’interpretazione con i linguaggi che strutturano il suo orizzonte di senso — si caratterizza così in relazione alla sua sempre aperta possibilità di essere «patita», di determinare cioè il versante non interamente appropriabile di un’affezione, e di agire sulla nostra parola (che noi parliamo e che ci parla, che parla di noi) secondo una gamma di modalità, i cui effetti sono inscrivibili in uno spettro che ha come estremi la violenza ammutolente e l’apertura verso un nuovo orizzonte di

affabulazione. L’esperienza dell’affezione della parola, che produce affettività, insegnamento, convinzione, fede, ma anche dubbio, rinuncia, sofferenza, è un tema inesausto del pensiero, antico quanto lo sono le testimonianze della

parola che giungono fino a noi. E proprio nella poesia di Andrea Zanzotto, nel richiamo a un legame co-originario all’esperienza della parola e di sé nel mondo, possiamo

16

riconoscere il luogo di un inconfondibile confronto con l’offrire-soffrire che espone il soggetto nel linguaggio, costituendolo così, in quanto soggetto, nel travaglio di un costante esporsi, nella parola, pro-vocare, e-vocare quel legame medesimo. Ma, prima di affrontare la lettura che ci siamo proposta, si tenterà di approfondire il solco di queste prime indicazioni, così da costruire uno sfondo che si spera sufficientemente articolato ai capitoli che seguiranno. La moderna analisi del linguaggio individua nei commutatori di persona, di spazio e di tempo ciò che permette al discorso di sganciarsi dalla persona che lo proferisce

e di rendersi disponibile all'assunzione da parte di un’altra!. I pronomi personali, che fissano il rapporto tra soggetto e oggetto, o tra soggetto e agente all’interno dell’espressione, e con essi gli indicatori spazio-temporali, possono subire commutazione senza che per questo si alteri sostanzialmente il senso dell'espressione stessa: «Egli pensa che...», può diventare «Io penso che...» senza che venga intaccato in modo rilevante l’assetto semantico di ciò che si presenta come pensato. La modificazione sostanziale concerne

l’«ascrizione»

del discorso, cioè il

legame che àncora, mediante l’atto di parola, il discorso stesso alla persona che lo pronuncia?. Ma l’ascrizione riguarda la possibilità di assumere o rifiutare coscientemente un’espressione come propria, e sì situa, a tutti gli effetti, a uno stadio nel quale l’affezione è già operante e lascia riconoscere il proprio operare; ne è già, per così dire, un effetto. Anche il fatto che ogni

espressione comporti, oltre al designare il «che cosa» di cui parla, l’autodesignazione di «chi» parla mediante l’ascrizione, non fa che spostare l’analisi a un livello ulte-

riore: «Egli pensa che...», una volta che sono «io» a dirlo, si dovrà intendere come «Io dico che [Egli pensa che...]». Di fatto, se da un lato si ottiene di dimostrare quanto sia

labile il legame di «proprietà», come possesso e come appartenenza, del soggetto e del suo discorso, e quanto quest'ultimo sia sempre «appropriabile» da parte di un altro, non sì approfondisce che di poco il problema dell’affezione nella parola, la sua capacità di provocare in noi un effetto determinante per la relazione interpretati va che ci costituisce in quanto soggetti del discorso. Il fatto che ci si possa appropriare della parola altrui non

Ed

comporta in questo caso. alcuna modificazione del «proprio», e potrà forse risultare utile per dare l’avvio a una (neanche troppo sottile) teoria della menzogna. Un approfondimento maggiore, ma anche un minore effetto di evidenza dimostrativa,

si potrà avere soltanto

abbandonando l’idea di comunicazione che informa la maggior parte dei modelli di analisi linguistica correnti. Questi operano infatti a partire da una concezione del processo comunicativo, secondo la quale esso consisterebbe nella «correlazione» tra configurazioni discorsive possedute pariter tanto dall’ «emittente» quanto dal «ricevente»3. All’emittente e al ricevente è concesso di instaurare un rapporto di chiarificazione del procedimento, al fine di entrare in un’area comune

del discorso, cosicché

il senso di una enunciazione giunga a «corrispondere» a quanto viene ricevuto, quasi sì trattasse di un’apparecchiatura elettronica che «esegue» il senso dell’espressione verbale e, nel caso vi fosse necessità, invita l'emittente

a rivedersi il libretto delle istruzioni e a «digitare»in modo corretto. La comunicazione consiste qui nell’avvenuta o mancata correlazione, corrispondenza tipologica, tra il senso inviato e quello ricevuto: una specie di mezzo di trasporto sul quale viene «caricato» un certo numero di segni, con tutto quello che significano o possono voler significare, e che, salvo incidenti di percorso ai quali con la buona volontà si potrebbe rimediare, trasferisce il suo carico da una persona a un’altra. La teoria correlativa offre innegabilmente, oltre che una spiegazione ragionevole, rinforzata dalle analogie con i mezzi di telecomunicazione, in senso lato, dalla let-

tera agli audiovisivi, anche il conforto della sua applicazione pratica nella costruzione di macchine «intelligenti». Essa, inoltre, sembra salvare le apparenze, ovvero conservare la «sostanza» del senso, nella presenza oggettivan-

te del «messaggio». L’esperienza dell’affezione della parola nella comunicazione umana invita però a percorrere altre vie: la parola dell’altro non si incontra nel messaggio come semplice soluzione di un procedimento di ingegneria semantica, né si esaurisce nella reduplicazione del suo significato; ha invece a che fare con l’interpretazione di sé in rapporto ad altri, in un mondo che abbia e che dia senso.

La nostra tradizione di pensiero racchiude un’altra

18

concezione del comunicare, familiare da sempre ai poeti e ai maestri della riflessione sulla parola, che ha in Gor-

gia il suo più lontano antecedente teorico. Questa concezione, messa diffusamente

a tema dalla psicanalisi, viene

resa altrimenti esplicita nella teoria dello «scatenamento» di K. Buhler*. Si può riassumere così: quando una persona parla non «trasporta» alcun significato a (0 în) un’altra; fa invece sì di «scatenare», «provocare» un effetto mediante il quale si ha la creazione nell’altra persona, secondo i suoi propri processi costitutivi, di un fenomeno

di significato. Quest'ultimo può essere ritenuto «identico», dalle due persone che dialogano, per il fatto che è

accompagnato da elementi di coincidenza: sì viene invece a produrre un nuovo significato, che in ogni caso non è lo stesso inviato dall’«emittente». Se le due persone, a partire da segmenti analoghi di esperienza della lingua, hanno un qualche riscontro di intesa, almeno quello bastevole a continuare il dialogo, possono in seguito intervenire quei procedimenti di correlazione che garantiscono la ripresa del discorso da un terreno comune. Il fatto che le strutture culturali operino a intensificare le occasioni di coincidenza, non deve confondere

la realtà

del processo: il significato inviato non coincide, se non per accidente, con quello ricevuto, cioè provocato. Non solo la comunicazione, intesa in questo modo, è sempre esposta al fraintendimento, ma mostra di essere costituita da due diversi processi, da considerarsi separatamente, di un fenomeno

che sembrerebbe il risultato di

un processo unico e senza soluzione di continuità. Vi è dunque un momento retorico, o del parlante, nel quale è all'opera la tensione del «voler-dire», che approda a una configurazione di senso, attraverso l’esperienza della mediazione dei segni linguistici in quanto struttura di rinvio”. E vi è un momento

ermeneutico, che concerne

l'ascoltatore, nel quale avviene la restituzione del senso «provocato»,

la ri-ascrizione

ad altri in quanto

autori

dell'effetto di senso di cui abbiamo fatto esperienza. Anche in questo caso avremo la mediazione da parte del sistema della cultura, nonché,

all’interno dello stesso

sistema, la traccia del rinvio operato dai segni. La complessità del processo di comunicazione, seguendo il modello della causatività 0 «scatenamento»,

se non risolve immediatamente il problema dell’affezio-

19

ne della parola, conduce a una maggiore comprensione del perché troviamo sensato dire che il discorso dell’altro ci «attraversa», «incide» il nostro proprio costituirci come soggetti nel linguaggio. La linea di demarcazione tra il «mio proprio» del discorso — a tutti i livelli, dall’inflessione della voce a certe

ricorrenze frastiche, fino agli enunciati che il soggetto

ritiene ascrivibili a sé — e l’«altrui», ciò che appartiene ad altri, diventa labile, sempre in questione, al punto da

diventare indecidibile. Dire infatti che la produzione del senso del discorso dell’altro avviene per «scatenamento», significa che le sue parole si dispongono nella mia mente «come» mie parole, o parole «quasi» mie, indipendentemente dal grado di consapevolezza riguardante il soggetto dell’ascrizione. Per approdare al senso, anzi, nello stesso processo di produzione del senso, il discorso dell’altro compie i medesimi passaggi che lo costituirebbero «come» mio discorso, «se» fosse il mio. E perciò può introdurre, nel mio sistema di configurazioni discorsive, che fanno di me un soggetto — nel mio costituirmi, in quanto tale, nel linguaggio — degli elementi di lacerazione o riconnessione. Questi possono agire sia negativamente, disturbando o bloccando l’accesso alla ricomposizione di determinate configurazioni di significato, sia, positivamente, imponendovi un’accelerazione, una virata tale da

approdare a un significato nuovo e inatteso, nel quale trovano ricomposizione configurazioni discorsive divise. Questa complessa dinamica, che comporta un'ulteriore ripiegatura della passività e dell’attività nel rapporto tra ermeneutica e retorica, fa sì che, a prescindere dal risultato di

portarci a concordare o discordare con quanto viene detto, la parola dell’altro «agisca» in noi, lasciando una trac-

cia negli stessi reticoli formali che organizzano il senso del nostro discorso più «proprio». Traccia più o meno profonda, che a volte si cancella rapidamente, a volte invece rimane

indelebile,

a seconda

che abbia incontrato

o no

l'aggancio con quelle determinate movenze, quelle intonazioni formali privilegiate, che riguardano il nostro rapporto costitutivo con e nel linguaggio. Al soggetto del dialogo non è difficile cogliere (soprattutto negli altri) il pas-

saggio a modalità espressiva abituale, ma spesso superficia-

le, di certe formule colloquiali, o veri e propri tic linguistici, provenienti dall’altro, persona, gruppo o ceto sociale.

20 Meno facile è invece accedere a quel livello più ampio, e allo stesse tempo più profondo, dove determinate forme di organizzazione sintattica e semantica intaccano le configurazioni mediante le quali avviene l’apprensione e l’affabulazione del mondo e di noi stessi, poiché diventano la struttura stessa del nostro pensiero. Se il legame, che ci mette in relazione alla parola dell’altro nella comunicazione,

risulta così profondo,

allorquando si venga a discutere dell’esperienza della poesia si dovrebbe propendere facilmente per un orientamento che indirizzi verso un’ermeneutica

dell’ascolto,

proponendone forse una versione così radicale da riuscire in una teoria della lettura completamente immanente al testo. A sostegno, vi si potrebbero aggiungere almeno altre due motivazioni: la prima, che ha qualche titolo di nobiltà, invita a non

alterare

il dettato poetico, non

defraudare la poesia del suo senso pieno, non portarla sul terreno della chiacchiera; l’altra viene dalla conside-

razione che, prima di circondarsi di un apparato critico ed esegetico, prima di diventare il referente della riflessione estetica, la poesia è già in cammino, e così come raggiunge i suoi primi lettori, proseguendo tale cammino, potrebbe raggiungere tutti coloro ai quali si offre per un incontro.

Basterebbe,

allora, a compiere

il cammino

della poesia, a confermarla nel suo essere già sempre in cammino, la silenziosa ostensione, l’ingiunzione angelica

che troviamo in Agostino: «Tolle lege, tolle lege». Ma come caratterizzare questa ingiunzione? E non è forse già essa stessa una suggestione ermeneutica, dal momento che invita a una comunanza nella parola, e concepisce questa comunanza come qualcosa che scaturisce dal testo come suo effetto? Sarà l’affezione prodotta dalla parola scritta, violenza e fascinazione,

crisi all’interno

del

nostro proprio prendere la parola come soggetti nel discorso — che diventa inattesa donazione, orizzonte

spa-

lancato su un’altra configurazione di senso — a richiedere un itinerario di ricomposizione tra la parola del testo e quella del lettore. Itinerario che si compie nell’appropriazione dell’effetto del testo, nella parola, facendo pervenire l’effetto al significato; e però comporta, proprio perché l'appropriazione possa dirsi tale, la restituzione al testo stesso di ciò che gli è proprio, della sua irriducibile alterità”.

21

Anche il lettore più partecipe, più conquistato dal testo, al punto da volerlo assumere interamente nel discorso in prima persona, non può ignorare l’alterità e

dell’invio di cui lo scritto reca testimonianza e dello scritto stesso, nella permanenza dei suoi segni, che mai coincide con l’atto della lettura. Il testo non è solo il luogo in cui vengono a fissarsi un certo numero di parole, è anche il complesso sistema mediante il quale le parole diventano scrittura, nel senso più vasto, che non equivale soltanto alla «trascrizione» alfabetica. È cioè una struttura di invio/rinvio che impone determinate modalità di accesso, al fine di ottenere

una permanenza pur nel venir meno della presenza, di una presunta temporalità assoluta nella quale voler-dire, dire e interpretazione costituiscano un’unità. La scrittura, e così il testo inteso come

scrittura, to in cui tario nel oggettiva

risultato di un processo di

presuppone l’assenza del mittente nel momengiunga «a destinazione» e l’assenza del destinamomento in cui viene «destinata». Mentre il messaggio fissando dei segni su un supporto

materiale,

la scrittura sancisce

l’assenza dell’autore,

nasconde l’origine dell’invio. Così come il lettore non adempie mai completamente alla destinazione, pur «possedendo» materialmente il messaggio, poiché quest’ultimo è per sua stessa costituzione inviato all’ «assente». La scrittura ottiene di rinviare la comunicazione nel tempo, di supplire mediante la traccia «grammaticale» al venir meno della presenza, ma lo fa producendo all’interno del proprio sistema delle strutture differenziali che intaccano l’omogeneità della referenza. E dato che proprio la ricostituzione di quest’ultima è quanto viene proposto all’attività della lettura, è necessario prestare la dovuta attenzione a distinguere le diverse forme e le diverse modalità secondo le quali la scrittura diventa testo. L’aspetto «oggettivo» del testo scritto, la sua materialità, mediante la quale noi «abbiamo» il messaggio, non sarà certo inessenziale rispetto alla pura sostanza verbale, nella quale abitualmente si identifica ciò che viene chiamato «testo». E la nozione di «contesto» non coglie il punto: la carta è il testo, lo spazio bianco dei margini e dell’«a capo» èil testo. D'altra parte, però, il foglio, la rivista, il libro, con tutte le parole che contengono, e che costituiscono l’«oggettività» del testo, non corrispondono

22 mai al messaggio realizzato mediante l’atto della lettura?. E un paradosso che emerge con forza dall’esperienza estetica, mentre nelle altre forme di comunicazione viene

imbrigliato, o almeno si tenta'di farlo il più possibile, con maggiore o minore efficacia, mediante diversificate procedure di ridondanza e di controllo, tendenti a ridurre il

più possibile il testo alla sua «pura» sequenza verbale, ovvero all’ «idealità» del significato di quest’ultima. Anche all’interno dell’esperienza estetica della comunicazione vi sono procedure e normative che regolano il rapporto tra scrittura e lettura, ma lo specifico della produzione e della ricezione estetica consiste proprio nel fatto che la tradizione normativa viene continuamente sottoposta a interrogazione, a partire dalla ditficu!tà di identificare l’esatta ampiezza del campo della loro applicazione. Per quanto il lavoro della riflessione sull’arte produca incessantemente la definizione della sua area d’interesse,

ed è impensabile che possa farlo senza il riferimento agli «oggetti» della produzione artistica, ciò che delimita non è mai un campo di attività che trovi correlazione nella

produzione di questo o quell’oggetto, la cui funzione sia specifica e allo stesso tempo sussumibile entro criteri di omogeneità. L'opera d’arte ci costringe ad avvicinarla a partire dalla sua «oggettività», anzi, proprio dal suo aspetto più esteriore, dalla difficoltà a collocarla tra le cose che si hanno in natura, che l’uomo

trova come

date, e

quelle che egli stesso produce per un uso e una funzione specifici. Essa ha l’inquietante capacità di sottrarsi sia all’ordine delle prime che a quello delle seconde, attiran-

doci nell’orbita di un movimento secondo il quale, seguendo la meditazione heideggeriana, più essa assume come propria l’intima essenza del fare umano e più si dà come appartenente al novero di ciò che offre la natura, OVvero, più si sottrae in quanto manufatto, mezzo, prodotto eseguito in vista di un fine specifico. Nel tentativo di definire la distanza dell’opera d’arte (Kunstwerk) dalla «cosa»

(Ding) e dal «mezzo-strumento»

(Zeug), lo stesso Heidegger viene irretito dalla provocazione ermeneutica dell’opera, e, nella produzione del suo significato, viene costretto a esporre le proprie procedure

interpretative. Non prima però di averci suggerito qualcosa che forse conduce verso il proprium di ciò che del fare pertiene all’arte: l’opera d’arte mantiene la distanza tra la

23 «cosa» e il «mezzo», li «lascia essere» quello che sono, nella loro verità di cosa e di mezzo, sottraendoci, come la cosa naturale, la sua origine e la sua finalità, rimanendo,

come il mezzo-prodotto umano, nella sua enigmatica cosalità, irriducibile alla sola specifica funzione. Ma perché è necessario «lasciar essere la cosa e il mezzo quello che essi sono»? Perché si devono. «mantenere» ciò che essi sono? Forse perché rischiano sempre di diventare «altro», di uscire dai limiti entro i quali permangono nel loro senso e nel loro segreto per dar luogo a fantasmi, a presenze aberranti. Perché il nostro rapporto con ciò che è natura, dato da essa o prodotto dall'uomo come suo strumento, non è stabilito una volta per sempre nel suo senso, né disponiamo completamente di essi come se fossero totalmenie riducibili al nostro sapere e al nostro potere. O, in altre parole, perché la possibile apertura dei «contesti» di senso è da riferire a un complesso intreccio di pratiche, che però, per quanto obbedienti a determinati sistemi di procedure interpretative, non dominano assolutamente l’«evento» dell’apertura stessa!0. Il fare dell’arte, attività che assume le più diverse funzioni!!, mantiene la sua specificità nell’elaborazione costante di questa distanza, di questa diversa estraneità tra il dato, che nasconde la sua origine e la sua finalità, e

il prodotto dell’attività umana che si ritrae nella propria datità, poiché essi concrescono insieme al pensiero in un legame di reciproca appartenenza. Per questo motivo, il fare artistico, pur facendo uso di

«oggetti» e pervenendo a fissarsi in testimonianza «oggettiva», mantiene

la sua specificità nella sospensione,

0,

meglio, nell’interrogazione del rapporto tra processo di produzione

e «uso», tra il suo darsi nel mondo

sotto la

specie dell’oggettività e il nascondimento della sua finalità e della sua origine essenziale, da cui si ha come risultato la

difficoltà a individuarne il proprium in termini di «oggetto», poiché, in quanto «oggetto» e in quanto «prodotto», il risultato del fare artistico chiede ragione sempre del suo uso e della sua funzione, anche quando sembrano accertati nelle pratiche vigenti!?. Il fatto che l’oggettività dell’arte, come si può giustamente obiettare, diventi merce e feticcio, come qualsiasi altro prodotto, non è argo-

mento veramente contrastante, dato che, anche se in parte condivide la logica di mercato del prodotto, ne eccede

2 sotto diversi aspetti Il testo poetico, sostanza verbale!3, tura, comprende

le modalità, ne insidia l'economia. dunque, se non è riducibile alla pura ma, all’interno del sistema della scritanche la materialità in cui viene a

oggettivarsi in quanto pagina, pagine, libro, richiede che venga analizzata la consistenza significativa di questa materialità, la sua capacità di produrre senso all’interno di un sistema di cultura. In altre parole, si tratterà di situare il «testo», come si dà attualmente, nell’orizzonte

più proprio della cultura del libro, mettendo in gioco quelle modalità della «scrittura», produttrici di senso, che vengono assunte, e taciute, e rese operanti, senza venire tematizzate nel discorso che si svolge intorno all’esperienza del libro come esperienza estetica. Una teoria della lettura, per quanto rinunci alla pretesa di proporsi come speculare al processo della produzione letteraria, come nell’importante lavoro di Iser!4, dovrebbe prestare maggiore interesse al fatto che, nella comune esperienza del lettore, non si ha solo a che fare con dei testi, ma quasi sempre con dei testi che sono dei libri o che aspirano a diventarlo. È vero che l’uso linguistico tende a confondere testo e libro, ma non si tratta piuttosto del sintomo

di

una equivocità mai veramente affrontata? Il venir meno di un certo culto quasi mistico del «testo» potrebbe risultare compensato da una maggiore prensione sulle pratiche che lo costituiscono. E soprattutto dalla possibilità di riflettere sulle procedure che regolano il rapporto tra il «fuori» e il «dentro» del libro: tra l'assenza del destinatore che inaugura la scrittura e l'assenza del destinatario che, inscritta nella scrittura stessa fa sì che la lettura non esaurisca mai l'invio, vi sono numerose

procedure

di rinvio,

che distanziano ulteriormente l’incontro tra autore e lettore. Eppure leggere ha senso fintantoché vi è qualcuno, un altro, che mediante la scrittura vuole raggiungere qualcuno, qualcun altro. E la condizione dell’appropriazione del senso mediante la lettura è che venga salvata l’alterità di colui che la scrittura maschera nella funzione autodesignativa degli enunciati rappresi sulla carta, permanenti in uno stato di semiverginità per la quale la nostra lettura

può — deve? — sempre ancora iniziare. D'altra parte è vero che «parliamo della poesia»: parliamo della poesia «silenziosamente», per farla approdare a un significato, e ricomporre così la lacerazione prodot-

25 ta dallo «scatenamento» della sua parola, per dare un senso al suo effetto, e sancire così un’appropriazione che avviene solo al patto di riconoscere il debito nei confronti della sua alterità. Ne parliamo, ancora «silenziosamente»,

per ricostruire il percorso lungo il quale l’alterità, l’altro, al fine di pervenire a un incontro, ha dovuto rimettere

alla scrittura il gesto con il quale si è posto in cammino. «Silenziosamente» continuiamo a parlarne per comprenderla nella nostra esperienza, perché diventi un’esperienza di comprensione coerente con le altre forme del comunicare e dell’agire, perché la riteniamo capace di rilevare i luoghi cruciali in cui si disputa per il senso del nostro proprio discorso. Ne parliamo anche «a voce alta», nel semplice invito a leggere che è già apertura di un dialogo. E, soprattutto, ne parliamo per cogliere e rinnovare la portata del suo effetto, quando, dal presupposto di una lettura comune,

entro i limiti nei quali una lettura può essere detta «comune»,

ne poniamo in discussione il significato, inve-

stendoci della responsabilità di quest'ultimo al cospetto sia dell’autore del libro che del nostro interlocutore. Ma «quando» parlare della poesia? Quando una «lettura» può dirsi compiuta? Parlare della poesia proponendone una «lettura» significa non tanto pensare di aver concluso la lettura stessa, quanto saggiarne i limiti, nella speranza di provocare un dialogo mediante il quale guadagnare ancora un po’ del significato dell’opera, restituire all’autore qualcosa di più di quanto, elaborando la traccia di un’affezione, abbiamo dovuto appropriarci per

approdare al significato, qualcosa di più dell’appello alla possibilità di un incontro al quale egli stesso ha dato un luogo esponendosi nella scrittura.

Note

1 Shifters

o «commutatori»,

secondo Jakobson,

quegli elementi

del codice che rinviano al messaggio, il cui referente ha determinazione in rapporto agli interlocutori: Saggi di linguistica generale, Feltri

nelli, Milano 1971 (tit. or. Essaîs de linguistique générale, Minuit, Paris 1963), pp. 151 e sgg. E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano 1971 (tit. or. Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966), alle pp. 301-308, nel capitolo «La natura dei pro-

26 nomi», distingue la relazione «io-tu», che ha referente solo interno al

discorso, dagli altri pronomi, che riferiscono a una «realtà» esterna. P. Ricoeur, in Soi méme comme un autre, Seuil, Paris 1990, con riferimento a Benveniste, richiama l’attenzione sul pronome

di terza per-

sona, in un capitolo significativamente intitolato «L'énonciation et le sujet parlant», facendolo portatore dell’esperienza «attraverso l’altro» mediante la narrazione e l’interpretazione di sé, pp. 55-72. ? P. Ricoeur, op. cit. ibidem, distingue tra l’attribuzione (designazione) del discorso, mediante l’impiego dei commutatori linguistici, e l’«ascrizione», il legame mediante il quale un discorso è imputabile a una persona, e di cui questa è responsabile. In ultima analisi, un discorso sarà «ascrivibile» a qualcuno, indipendentemente dalla semantica dei commutatori

linguistici, dal legame che lo àncora a

chi lo proferisce. 3 Il riferimento alla linguistica strutturale giusta lo schema proposto da Jakobson nel poetica» del saggio citato alla nota 1. Si tratta stazione di ascendente positivista largamente

è facilmente intuibile, capitolo «Linguistica e comunquedi un’impooperante nelle contem-

poranee teorie della comunicazione; cfr. E. Melandri,

Contro il simbo-

lico, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, pp. 48 e sgg.; al quale rinvio, p. 54, anche per le necessarie puntualizzazioni bibliografiche. 4 Cfr. E. Melandri, op. cit., Le «Ricerche logiche» di Husserl. Introduzione e commento alla prima ricerca, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 169-

186. La possibilità di arricchire una discussione che, per ovvi motivi di economia, è qui solo proposta, viene dal campo delle neuroscienze nelle ricerche di G.M. Edelman

(in italiano, /l presente ricordato,

Rizzoli, Milano 1991; tit. or. The Remembered Present. A Biological Theory of Consciousness, Basic Books, New York 1989), in particolare negli svi-

luppi del confronto con la teoria linguistica di Chomsky. Si veda, al proposito, per un'ulteriore contestualizzazione dei riferimenti, Silvano Tagliagambe, L'episiemologia contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1991, Capitolo ottavo, soprattutto da p. 304. 5 Scrive E. Lévinas: «La parola ha una Meinung che non è semplicemente una mira. Derrida ha tradotto feticemente e audacemente questo termine con

‘voler-dire’ che riunisce, nel suo riferimento al

volere (che dimora in ogni intenzione) e all’esteriorità della lingua, l’aspetto che si vuole interiore del senso»; Altrimenti che essere o al di là dell'essenza, Jaca Book, Milano 1983, nota a pag. 46 (tit. or. Autrement qu'étre ou au-delà de l'essence, Martinus Nijhoff Publishers B. U., Dor-

drecht 1978). Le parole di Lévinas riassumono con particolare intensità la punta della riflessione sul segno nella fenomenologia di Husserl, condotta da ]. Derrida in La voce e il fenomeno, Jaca Book, Milano 1968 (tit. or. La voîx et lephénomène, P. U. F., Paris 1967). Come risulta sufficientemente comprensibile dalla pagina, il «rinvio» alla «grammatologia» di Derrida non si esaurisce in questa nota. 6 Agostino, Confessiones, VII, 12.29. Qui sembra balenare l’irriduci-

bilità del «leggere» a qualsiasi «citazione» orale del testo, a qualsiasi ripetizione vocale, per quanto garantita da una corretta memoria e dalla fiducia nell’adeguatezza dell’esecuzione. Ù Coglie efficacemente il punto nodale della questione C. Gentili,

laddove, nella prefazione all’edizione italiana (Estetica e interpretazione

27 letteraria, Marietti, Genova 1990) della terza parte di Aestetische Erfahrung und literarische Hermeneutik (Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1982),

mette in luce la diversa pronunzia della teoria estetica di H.R. Jauss rispetto all'’ermeneutica gadameriana di Verità e metodo, Bompiani,

Milano 1983 (tit. or. Wahrheit und Methode, Mohr, Tiibingen 1960):

mentre per H.G. Gadamer la relazione con l’opera sembra compiersi in un processo di autoconoscenza, per Jauss il problema è quello di pervenire alla «conoscenza di sé attraverso l’altro» (pp. xIV e sgg.). Questione, quella dell’alterità dell’»invio», che sembra, del resto,

caratterizzare uno dei principali tratti di comunanza per quella che G. Vattimo ha definito la «koiné ermeneutica» attuale (Etica dell’interpretazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, pp. 38-48). Al proposito, oltre al già citato Soi meme comme un autre di Ricoeur, si veda anche «Restituzioni» di J. Derrida, in La verità in pittura, Newton Compton, Roma 1981 (tit. or. La vérité en peinture, Fiammarion, Paris 1978) pp.

245-357. 8 «La forma completa non esiste mai come un aspetto concreto dell’opera che coincide con una dimensione sensibile o semantica del linguaggio. Essa sì costituisce nella mente dell’interprete via via che l’opera si rivela in risposta alla sua inchiesta. Ma questo dialogo tra l’opera e l’interprete è senza fine» scrive P. De Man in Cecità e visione. Linguaggio letterario e critica contemporanea, Liguori, Napoli 1975, p. 42 (tit. or. Blindness and Insight. Essays in the Rhetoric of Contemporary Criticism, Oxford U. P., New York 1971). Si vedano, in particolare, i capp. II e VII. ° M. Heidegger, «L'origine dell’opera d’arte», in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968 (tit. or. Holzwege, Klostermann, Frankfurt a. M. 1950). Cfr.J.Derrida, «Restituzioni», in La verità in pittura,

cit. 10 Cfr.J.Derrida, Limited Inc., Galilée, Paris 1990: Vers une éthique

de la discussion, pp. 201-285, in 281: «Or le moins qu’on puisse je ne me sers pas fortuitement ratif catégorique dans sa forme dante de tout contexte

particolare le pp. 252-254 e 281. Pag. dire de l’inconditionnalité (mot dont pour rappeler le caractère de l’impekantienne), c'est qu'elle est indépen-

déterminé, de la determination

méme

d’un

contexte en général. Elle ne s'annonce comme telle que dans l’ouverture du contexte». La citazione non rende interamente ragione dell'importanza strategica che il lacerto assume all’interno del saggio, articolato nella scansione delle risposte a una serie di domande sulla «decostruzione» poste da Gerald Graff, da ritenersi di particolare importanza per la comprensione del dibattito in corso sull’argomento. 11 All’affermazione di Th.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977 (2°) (tit. or. Aesthetische Theorie, in Gesammelte Schriften, vol. II, Frankfurt a. M. 1970): «Finché nelle opere d’arte è predicabile una

funzione sociale, questa consiste nella loro mancanza di funzione» (p. 336), può essere contrapposta significativamente la rivendicazione dell’autonomia e della specificità dell'esperienza estetica da parte di H.R. Jauss nell’Apologia dell'esperienza estetica, Einaudi, Torino

1985

(tit. or. Kleine Apologie der Aesthetische Erfahrung, Universitàtsverlag GmbH, Konstanz 1972).

28 Significativo è proprio che non risulti ricomposto il rapporto tra «funzione», di cui Jauss non discute, prendendo come punto di partenza l’esperienza estetica in quanto «fatto», realtà dell'esperienza, e «specificità», richiamata di nuovo in causa nella terza parte dell’opera maggiore (citata alla nota 7). Si tratta — e proprio questo dovrebbe diventare oggetto di un’analisi più attenta — di un rapporto incomponibile, in quanto, pur assumendo diverse «funzioni», anche sociali (e

ciò è innegabile), non è in nessuna di queste «funzioni» che risiede lo specifico dell’arte. 12 E la vicenda dell’arte nella nostra epoca potrebbe indurre a sottolineare questa affermazione, invitando forse un po’ troppo in fretta a segnare l’accento sull’operazione di decontestualizzazione o della sottrazione dell’usabilità come specificità del fare artistico: «Non

fate uso della usabilità», avverte J. Derrida

in La verità in

pittura, cit., pp. 332-333. 13 P. Ricoeur definisce come «testo»: «Tutti i discorsi fissati per mezzo della scrittura»; «Qu’est-ce qu’un texte? Expliquer et comprendre», in Hermeneutik und Dialektik a cura di R. Bubner-K. Cramer-

R. Wiehl, Mohr, Tùbingen 1970. Questa definizione permette però ancora di separare il «discorso» come la cosa, sostanza immutata e permanente, dalla scrittura come è/ mezzo. Non così invece la «scrittura» in ]. Derrida, per il quale la «traccia» non è decidibile mediante l'opposizione di un momento o aspetto formale a uno propriamente materiale. Sul tema della scrittura, inoltre, Walter J. Ong, Interfacce della parola, Il Mulino, Bologna 1989 (tit. or. Interfaces of the Word, Cor-

nell U. P., Ithaca 1977); la Seconda parte di G.R. Cardona, / linguaggi del sapere, Laterza, Roma-Bari 1990; Jesper Svenbro, Storia della lettura nella Grecia antica, Laterza, Roma-Bari 1991 (tit. or. Phrasiklea, anthro-

pologie de la lecture en Gréce ancienne, La Découverte, Paris 1988), dai

quali si possono trarre indicazioni di grande interesse in differenti direzioni di ricerca. 14 W. Iser, L'atto della lettura. Una teoria della risposta estetica, Il Muli-

no, Bologna 1987 (trad. dall’ed. allestita dallo stesso Iser nella versione inglese The Act of Reading. A Theory of Aesthetic Response,j.Hopkins U. P., Baltimore 1978).

CAPITOLO PRIMO

UNA MAPPA DEL LUOGO DELL'INCONTRO

Il principio ermeneutico che predica la differenza tra intentio operis e intentio auctoris può in parte indirizzare verso la considerazione critica di quella fuga lungo i margini della lettura, che caratterizza l’irriperibilità dell’esperienza della poesia nel discorso della comunicazione pubblica. Il voler-dire! dell’autore, che si pone in tensione agonistica con le forme tràdite del dire, non approda mai interamente al testo, e quest’ultimo, formatosi all’interno delle

modalità proprie della scrittura, innestate in quelle dei generi, delle tipologie letterarie e comunicative e della loro trasmissione, acquisisce dai medesimi un margine di

senso in parte autonomo e non interamente dominabile. L'attività della lettura, via via che tenta di tradursi in un discorso sul significato dell’opera, tende, da un lato, a rile-

vare il punto d’incrocio tra intentio auctoris e intentio operis, dall’altro però a distanziare, fino a sfumare indefinitamente, la parola che si offre alla lettura. L’uso corrente

della citazione non fa che sottolineare questo aspetto dell’esperienza: vi è, in fondo, la pretesa che la parte di testo «citata» comprenda quanto la precede e la segue secondo l’ordine vettoriale della scrittura — pretesa che viene contraddetta

dalla stessa citazione, la quale, oltre ai

comprensibili effetti dovuti al mutamento dell’alveo verbale in cui giace, presuppone senz'altro l’iterazione della lettura e un distanziamento che è già il prodotto di una riflessione sulla lettura stessa. Si potrebbe dire che la poesia, compiendosi in uno spazio non del tutto dominato dall'autore e non lasciandosi mai cogliere interamente nel significato prodotto dal lettore?, ha il suo vero luogo in un di là (inscritto nel testo stesso) dalla presenza del testo, nella conferma

dell’invio

di quest’ultimo da parte di qualcuno, conferma del suo «essere in cammino»,

e nel movimento

di avvicinamento

30

del lettore, il quale a sua voltasi mette in cammino verso un incontro che non può avvenire «sulla carta». La poesia, afferma Zanzotto, «non potrebbe sussistere senza un interlocutore, fosse pure lo stesso io che la esprime, fratto in un monologo di autorispecchiamento che prelude all’apertura»5. Ma «ho il sospetto che la poesia non sia affatto scrivere; il poeta non è scrittore nel senso corrente della parola [...] - aggiunge più oltre — Nella poesia — qualcosa è al di fuori e al di là dello scrivere». La poesia non si esaurisce nella somma algebrica della semantica del testo, il suo impegno più importante consiste nel «tenere viva almeno l’allusione a una possibilità di incontro»*, al di là (o al di qua?) del testo, comun-

que «attraverso» di esso. E il testo stesso è «strutturato da mille poînti/lés o incrinature entro cui si apre il percorso delle letture, degli avvicinamenti»,

dichiara sempre

Zanzotto, in un’altra

intervista che avremo modo di riprendere più volte®. Se ci soffermiamo

sulla mossa

correttiva, noteremo

che la

parola «letture» trova precisazione semantica in «avvicinamenti», senza che trascuriamo di rimarcare l’uso del plurale: non «lettura» ma «letture», e quindi, al plurale,

«avvicinamenti». «L’allusione a una possibilità di incontro» può mantenersi «viva» nel testo a patto di sottostare alla sua legge, cioè «morire» nei segni, lasciando una traccia che il lettore dovrà ricostruire per avvicinarsi al «luogo dell’incontro», il quale è, ancora, nella parola. E questo lo statuto paradossale del testo poetico: esso è una «mappa» di parole per raggiungere il «luogo» dell’incontro nelle parole. Per tracciare il percorso che conduce all’incontro, è necessario riportare sulla mappa il territorio da attraversare. Ma senza tracciare anche gli altri percorsi, quelli che portano altrove, sarà impossibile sia disegnare la mappa, sia individuarvi la via che interes sa. Inoltre, come confermano spesso le mappe, si potrebbe forse fare un’altra strada.

E la condizione del presente, della lingua e della sua «cartografia», del territorio linguistico e dei suoi sistemi di riferimento, stratificazioni, intrecci, rimozioni, a richie-

dere particolare attenzione. Vi sono tracciati paralleli, identità spaesanti, indicazioni tuttora sussistenti che riferiscono a realtà trasformate o scomparse. E come ogni mappa, anche questa prende senso da un «salto», un

sl costante ritorno al qui e ora, che sovverte la prospettiva

nella quale si pone lo sguardo, e cancella i segni della mappa via via che diventano il cammino. i Nell'opera di Andrea Zanzotto, e in particolare nella «trilogia» costituita da /l Galateo în Bosco, Fosfeni e Idiomd?, itinerario e mappa si espongono reciprocamente, in conflitto: è l’articolarsi del loro mutuo rinvio che viene a essere posto in discussione, operando una profonda riflessione sul segno linguistico e sulla parola. Riflessione che porta a sospendere e reinscrivere l’itinerario nel lavoro di riconsiderazione della referenza dei segni, e nella critica dei sistemi di riferimento con i quali ci si trova a redigere una possibile mappa dell’essere in cammino. In altre parole, tematizzare ciò che del testo accomuna l’autore e il lettore significa partire sempre da una difficoltà che precede il testo stesso e continua a coesistergli, quella di dare corrispondenza alla configurazione dei segni con il vissuto di cui vorrebbero recare testimonianza, all’interno di un sistema (della scrittura nella cultura

del libro) che si appropria, secondo la sua economia della significazione, di qualsiasi atto di attestazione del legame di coappartenenza del soggetto con la parola. Il rinvio della referenza operato dalla scrittura, e rieffettuato a sua volta dal libro, minaccia in continuazione il

legame della parola e del soggetto che la proferisce, più profondo del riferimento del segno alla cosa, ma anche più labile, spostando e occultando così il «luogo» in cui soggetto e parola vengono a situarsi. La quète del paesaggio che inaugura la poesia zanzottiana (più che un «tema», l’incessante rinvio a una presenza inappaesabile nella parola) comporta la rottura della conti-

nuità, nella coscienza del parlante, tra l’atto di parola e il «luogo», l'alveo geografico e storico, nel quale lo stesso atto di parola «ha luogo». Il soggetto che va «alla ricerca» del paesaggio, rinnegandone la fin troppo chiara evidenza, presuppone la coscienza che il legame con il proprio luogo geografico e storico, con i segni cioè che consignificano il vissuto, non sia un semplice dato, ma una conqui-

sta che viene dall’interrogazione delle modalità con le quali questo luogo perviene al soggetto nel linguaggio. E presuppone che l’appello all’interrogazione provenga da un’esperienza «traumatica» della parola, tale da incrinare

il rapporto di motivazione tra segno e significato e farne

32 emergere l’arbitrarietà. Se il «luogo» del legame tra il soggetto e la sua «situazione» geostorica si dichiara così situato in una diversa dimensione del linguaggio, esso verrà allora cercato proprio a partire da quegli esiti di linguaggio che hanno «rivelato» il soggetto a se stesso, offrendo un accesso al significato capace di affabulare la lacerazione originaria, cioè, in questo caso, nella poesia. «In poesia» viene a emergere però un altro «paesaggio», quello che il significante può produrre in piena autonomia, all’interno dello stesso sforzo di appaesamento del soggetto mediante il lavoro di risignificazione del vissuto, minando così la fiducia nella referenzialità dei segni e facendo della pagina un lussuoso, lussureggiante e ingannevole luogo di espiazione e di remissione, di sottili vendette È. L’«io» che si accampa nel linguaggio «in poesia» sembra provenire da un «di là» 0 «di qua», «dietro» il paesaggio dei segni che, nel ripetuto e vano tentativo di farlo pervenire alla pienezza del significato, producono sempre un ammanco

o un eccesso

di senso, una fuga verso

l’indecidibile?. Questa situazione determina un campo di forze antagoniste: da una parte una parola (proveniente da una matrice di alterità, la «letteratura») che eccede il vissuto, e dà in questo modo l’illusione di pronunziarlo, ma si tratterà sempre di una pronunzia eccentrica, «spaesante»; dall’altra, data l’impossibilità di stabilire un livello «di

partenza» dell’autenticità, quest'ultima può diventare soltanto l’obiettivo di un lavoro di scavo da compiersi a partire «dall’alto», cioè dall’esito

«letterario» in cui l’«io»

trova una sua, pur eccentrica, significazione!°. La cifra sperimentale si dà così connaturata al linguaggio — in quanto ogni tentativo di prensione della realtà diventa experimentum linguistico — che l’urgenza principale viene a consistere nel mantenimento dell'apertura verso la possibilità di ritrovare il vissuto nella dizione poetica, pur sapendo, e denunciando, la falsificazione letteraria mediante la quale esso viene a compiersi, ricomporsi sul-

la pagina. L'operazione, da Dietro il paesaggio a La Beltà, sarà quella di esibire la letterarietà del testo fino al punto in cui giunga ad adombrare, allusivamente e indiziariamente, una diversa pronuncia, in questo dal testo, ma non realizzata nel suo dettato.

modo

evocata

E già dai primi notevoli esiti la figura di una difficile

33 cartografia si impone come il campo metaforico in maggiore consonanza nei confronti di una scrittura del luogo, luogo da situarsi dentro il linguaggio, che sempre più viene proponendosi nei termini di una domanda sul luogo della scrittura, in cui si inscrive la mappa di un possibile incontro. La freccetta che, sulla mappa, cospira all’equivoco accanto alla frase «Voi siete qui», in quale rapporto

sì situa con il «qui» del luogo di cui si parla e în cui si parla, in quale rapporto si situa con il luogo nel quale si è? La stessa freccetta e la stessa frase che continueranno a ripetere «Voi siete qui» anche quando ce ne saremo andati, altrove, e forse per non (poter) ritornare. A chi è affidata? Eppure non si può dire che manchi del tutto di fiducia: è lì per qualcuno, c’è finché ci sarà la possibilità che qualcuno la legga. Una volta accantonato, ma pur sempre accanto, il sogno (o l’incubo, dato che l’idea di poter rappresentare la totalità è un’aberrazione del pensiero) di una borgesia-

na mappa totale capace di rendere conto di tutto l’esistente, chi scrive la mappa come si scrive — s’inscrive — nella mappa? E l’altro, colui per il quale soltanto ha senso che venga scritta, fosse anche l’altro se stesso che un giorno penserà di rifare il cammino? Ma non è caratterizzando sempre di più il medesimo paradosso che può avvenire un incontro. Si dovrà dar fiducia alle mappe o rinunciarvi del tutto; alle mappe, non ai segni che vi sono tracciati, in quanto semplici segni: fondandoci (e forse qui Zanzotto, tra parentesi, metterebbe un punto interrogativo) sul «terreno» equi vocabile con il quale viviamo in reciproca appartenenza, sulla comunanza che questo «terreno» rinnova nella memoria e nell’immaginazione che in ogni momento vi attingono, mentre i segni sono, in quanto tali, ancora più estranei perché appropriabili, permutabili in altri segni e significati nei quali di noi non rimane nulla. Perché il proprium della nostra esistenza, chiamato a convenire nell’atto di parola, e a essa affidato, si dilava nei segni,

nel loro ostinato e disponibile «dire» conformandosi quanto più possibile al detto, mentre con la parola vorremmo rinviare a qualcosa che è essenzialmente rivolto all’altro, proprio perché il dire non

lo esaurisce, tratte-

nendolo presso di noi. Mentre i segni possono fare a meno di noi, e ritrovano la parola solo ritrovando il «ter-

34

reno» di una indicibile comunanza. Grazie a questo «terreno» le mappe non sono solo il documento di un’espropriazione, di un «sempre altrove», non sono solo il luogo

dei segni. Rimanendo ancora dentro questa metafora (e non è

facile «uscirne»), si potrà cercare di capire perché, più ci si avvicina alla «trilogia», più si affacci in Zanzotto l’esigenza di rendere operante in un raggio più vasto quella critica radicale della parola intesa come semplice segno, che già nella Beltà fa implodere dentro il testo (metaforica «mappa») ogni certo referente di un «io» costruito, e fittiziamente garantito, dal solo lavoro di autodesignazione nella scrittura. Un «io» che, nel sistema cartografico (l’attuale sistema della cultura del libro), sembra non

aver più alcun terreno al quale affidare il riferimento. La perdita dell’ancoraggio della persona alla parola, dentro questo orizzonte di occultamento della referenza,

viene a sancire una cesura, che separa la persona dell’invio da ogni possibile «persona» grammaticale autodesignantesi nel testo. Cesura che non è riassumibile nell’applicazione sistematica di un procedimento compositivo dedotto da un assunto teorico generale, né neutralizzabile assumendo in termini finzionali le varie e contrastanti persone dell’autodesignazione, riconducendole cioè a dei «personaggi». Né quindi l’autore diventa l’operatore che pone in atto un procedimento proveniente da una «teoria della composizione», guadagnando così una sorta di impersonalità imputabile alle direttive dell’ ars, come avviene, ad esempio, nella produzione poetica dell'avanguardia e della neoavanguardia, né è separabile dalle assunzioni di identità che il testo configura, mediante l’autodesignazione, in guisa di «quasi personaggi» appena abbozzati o contraddittorî. Una tale situazione comporta, a partire dalla Beltà, la frantumazione della continuità semantica in unità microscopiche, nelle quali avviene il continuo spostamento del-

la relazione

tra chi (o che cosa) viene designato e chi

invece mediante il discorso si autodesigna, con il risultato

di intaccare la coscienza che presiede alla corretta applicazione delle regole di produzione e comunicazione del discorso medesimo. Ne consegue, sul piano verbale, l’istituzione di modelli autoreferenziali di formazione del senso, con l’insistenza, trasgressiva rispetto alla decidibilità

35

del significato, sugli aspetti fonici e grafici, dai quali prendono legalità di autonoma significazione gli elementi sinsemantici della lingua, quali prefissi, suffissi, preposizioni, ecc. Abbiamo

così un dettato che, con le parole di

Montale, «agisce come una droga sull’intelletto giudicante del lettore»!, grazie a una sapiente orchestrazione della pagina, e lo pone di fronte a qualcosa che sembra in grado di rinunciare, in misura eccedente i limiti tracciati dal

«gioco» letterario, a gran parte dei riferimenti che garantiscono la possibilità di attingere alla «forma del contenuto» nella comunicazione, producendosi quasi per partenogenesi e crescendo per autofagocitazione. Insistendo nel rilevare una sintassi fratta, che si avvale di sequenze

iterative, sul piano del rapporto tra lessico e sintassi, assistiamo all’abolizione dei limiti imposti dall’uso di contesti specifici, anzi a un continuo scambio e raccordo interno,

favorito dal gioco delle citazioni più spesso esibite che criptiche, in un costante avvicendarsi di attraversamenti e sovrapposizioni. Il senso, in ultima analisi, ponendo in evidenza l'autonomia del segno, con la trasformazione del cosiddetto «veicolo» del significato in matrice di significazione, mostra la labilità della referenza che dovrebbe

garantirlo, la sua «insensatezza» rispetto ai legami di relazione che strutturano il campo dell’esperienza. La Beltà segna un traguardo a partire dal quale il lavoro di Zanzotto tanto più perviene alla conferma ed eventualmente all’intensificazione sulla pagina delle proprie

direttive formali, quanto più è costretto a confrontarsi, all’interno di quelle stesse movenze del dettato verbale, con un dissidio di fondo, che è loro costitutivo, ma che si

fa maggiormente presente quando, diventando vere e proprie istituzioni espressive, mostrano il limite che sorge dalla eccessiva loro disponibilità alla polisemia. La disintegrazione di ogni vincolo di genere e di contesto espressivo, e la vocazione a produrre senso per via di commistione e cortocircuitazione di registri, permettono infatti di effettuare qualsiasi incursione, anche attraverso temati-

che o aree discorsive inedite o tradizionalmente interdette dalla definizione storica del genere. Dalla mitologia alla psicanalisi, dalla chimica alla pedagogia, investendo e dissestando i più diversi atteggiamenti mentali nelle loro istituzioni sintattico-lessicali e nei relativi codici e subcodici in cui si organizzano, abbiamo, se considerata al livel-

36

lo microstrutturale, la più vasta area di escursione tematica pensabile in poesia. Al prezzo però di subordinare il senso complessivo delle singole operazioni al sospetto di una intenzione

seconda sempre incombente, alla corrosione costante di un’eco ironica, che toglie autorità al risultato puntuale della parola. L’impossibilità di attribuire a una persona (o personaggio), anche in ultima istanza di rinvio, lo spessore affettivo di una sequenza verbale omogeneamente intonata, produce, per mezzo dei continui scambi di registro, la sospensione del contrasto provocato tra ì diversi gradi di coinvolgimento dell’espressione nell’atteggiamento mentale da accogliere come proprio del dettato o come sua intenzione. Là dove il linguaggio,

cioè, viene a identificarsi come fonte in gran parte autonoma e difficilmente coercibile di produzione del significato, si ha la promozione del lavoro metalinguistico a supplente dell’articolazione referenziale, e se così prende consistenza formale la denuncia dell’espropriazione subita dall’autore dell’invio, risulta altresì vietata la possibilità di ricostruire un sistema di valori extratestuale che non sia a sua volta esposto al dubbio. Gli istituti formali dell’allitterazione, della paronoma-

sia e della commistione dei registri lessicali rilevano i percorsi generativi del senso, dissotterrano le prime germinazioni della sostanza linguistica nei processi analogici e nelle connessioni sublessematiche che si realizzano al di sotto del livello di coscienza, avviando però allo stesso tempo un movimento di deriva, di inabissamento del senso lungo la catena dei significanti. Movimento regressivo che comporta l’accoglimento di strati linguistici e configurazioni di sememi situati a livelli inferiori di espressività rispetto a quelli della comunicazione pubblica. Si viene a enfatizzare in questo modo la componente di intransitività dei segni linguistici, la quale, nel suo progressivo sganciarsi dai termini che definiscono la socialità della comunicazione, indica verso l’assenza di un ulterio-

re sostrato o schema di opposizioni, alludendo a un’origine, a uno

stato ancora

indeterminato,

precedente

la

strutturazione del simbolico in sistema. Situazione di «non sapere» che lampeggia a illuminare di una luce riflessa dell’innocenza la condizione inautentica di un sapere nel quale non si ricompone l’orizzonte dell’esi-

SH stenza. L’allusione all’originario pre-espressivo, prodotta da una sistematica fluttuazione di tutti i livelli della lingua, comporta però la sorveglianza attenta dell’intelletto organizzatore, disposto a un massimo di concentrazione per tendere al limite i fili che collegano le più diverse configurazioni di significato, e produrre così, quasi per improvvisa necessaria rinuncia, quel mancamento da cui prorompe lo sfondo insondabile e indicibile dell’espressione. Zanzotto è infatti ben consapevole della inattingibilità dell’origine, del lavoro incessante di copertura che ogni significazione comporta, ma la sua è una provocazione che assume il compito di indicare la possibile dimensione di una diversa coscienza del reale: come trattenere il respiro, o guardare fisso il sole: sospeso ogni automatismo, si è costretti a ricomporre lentamente la dimensione abituale del sistema appercettivo e simbolico, avendone però colto l’alterità che occulta. E proprio al vivo di questa esperienza si delinea, dal dissidio tra la maggiore autonomia e la maggiore estraneità dei segni, un nuovo tracciato che conduce a una crescente attenzione per il presupposto biologico dell’esistenza.

Al minimo

esistenziale,

nella scala dei valori

acquisiti, quello del ciclo che porta dalla fecondazione alla morte, Zanzotto tenta di afferrare il fondamento dell’eticità in quanto «essere-con» ed «essere-rivolti-a»,

individuando, nella struttura elementare di ciò che perviene a esistenza, sufficiente energia e sufficiente ricchezza, inesauribile ricchezza di senso. Nella materia, mater originaria di tutte le forme, nella

generazione di tutti gli organismi viventi, Zanzotto riconosce non solo una vocazione al senso pre-costitutiva del linguaggio inteso come sistema socialmente codificato di segni, ma la vera matrice di ogni modello di significazione??. In questa direzione viene a decantarsi l'opposizione natura/cultura, secondo il concetto che la rende operante, quello che con i nomi di Aypokéimenon, substrato, fon-

damento, predica una permanenza non intaccata dalla caducità delle forme: il reale partecipa di un movimento metamorfico che lo coinvolge interamente. La natura, nel segno della continuità con la meditazione leopardiana, non «appartiene» all'uomo, l’uomo è natura, ma nel

la differenza del pensiero, nel quale l’uomo perviene alla separazione del bene e del male, tale da assumere la

38 negatività, e richiederne la passione. Tale da porlo in una condizione perenne di inquietudine, nella quale la verità del suo agire è traguardata sulla sofferenza, poiché attra-

verso la sofferenza l’uomo paga il debito della separazione del bene e del male, riconoscendo la sua antica matrice. Niente di più lontano da un vago spirito ecologico 0 da una nostalgica rievocazione dei «luoghi incontaminati dell’infanzia»: non solo l’uomo, ma l’intero cosmo è sem-

pre di nuovo infans, come l’intero cosmo matura alla significazione, alla germinazione del senso e alla sua per-

dita. L’operare umano tutto concorda con gli stessi processi di accrescimento e di distruzione, di trasformazione e di adattamento. La cultura, anche, il sapere, se pure decisi sul discrimine del bene e del male, condividono la

stessa matrice di tutte le generazioni e le morti. - Si devono seguire gli intensissimi movimenti delle immagini, saggiarne la composita tessitura, per dar ragione di una concrezione matriciale che non si giustifica sul piano esclusivamente analogico: la mimesis non si rapporta all’atto intenzionale

del vedere, è nel vedere, già pre-

sente come compulsione primitiva nella cellula-uovo, nell’uovo-occhio che «vede» la cecità del suo sguardo abissale, e si espone ai segni sempre già ripiegati nella resistenza e nella violenza di questo conato incoercibile.

Parimenti, non si ha alcuna ricomposizione analogica delle forze semantiche eccedenti né dell’entropia sinsemantica, ma una disseminazione

di microuniversi,

«lin-

gue» delle cellule-uovo sapienti e traumatizzate dal loro inaudito sapere e pre-vedere, fenomeni di attrazione/repulsione, masse in tensione verso l’incremento o l’annichilimento. Da qui la difficoltà a ricondurre a sistema il rapporto tra luogo testuale e procedimento compositivo generale: c'è sempre qualcosa che sfugge, nel particolare o nella generalizzazione, alla possibilità di imbrigliare la semantica del testo in un corrispondente discorsivo di tipo parafrastico o comunque orientato secondo l’ordine vettoriale della scrittura. La domanda sul segno linguistico investe l’articolazione della referenza, suggerendo un legame più profondo - il corpo, la materia — di quanto lo sia la coordinazione mentale tra signans e signatum. Non è, questa, una PIO di ricerca che possa avere un termine, ma l’approfondimento dei confini

39 marcati e rimarcati nella storia della lingua e della scrittura, quegli stessi che obbligano sempre, anche in queste pagine, a un faticoso insistere sui margini del discorso descrittivo

ed esplicativo, poiché materia/forma,

natu-

ra/cultura, corpo/psiche sono opposizioni sedimentate a tal punto da risultare ineluttabili, costitutive delle nostre proprie strutture di pensiero. Sanare il nostro rapporto con i segni, e articolare la referenza su un piano più profondo, nel quale la materialità e la storicità riconosca«no ì tratti, forse non più dei tratti, di una matrice comune, è un orizzonte operativo dai,confini e dagli esiti incerti, ma, nell’invito a insistere sulle figure di separazione, di

occultamento e di fraintendimento della coappartenenza matriciale di materia e senso, lascia intravedere i motivi di una problematica eticità. In un lavoro come Gli sguardi, ifatti e senhal l’insistenza su un atto di violazione, di ferimento, e sul tradimento

sistematico — nuova o diversa violenza — della parola che ne «prende atto» senza potersi esimere dal parteciparvi, non vi è segnale di ironia che ci rimandi a qualche rovesciamento positivo di significato. È la ricostruzione della complessità in cui si inconchiglia il senso nella parola a rivelare quanto grande sia l’indecidibilità del giudizio, di fronte a un atto che non è condannabile in quanto tale, che non è giudicabile in termini etici perché la sua vacuità fa sì da vietargli l’accesso a qualsiasi tribunale morale!3. Il concrescere della materia e del linguaggio, la loro comunanza

matriciale, secondo la costellazione di senso

ricostruibile in questa fase del lavoro di Zanzotto, non prevede la cancellazione del negativo, né esclude il riaffermarsi di altri sistemi in antagonismo, ovvero non cerca

nella cosiddetta «natura» un ordine «naturale» al quale conformare il giudizio di valore. Anzi, la «natura», relegata eventualmente nell’opposizione in cui ci viene consegnata, si presenterebbe davvero «matrigna», regno della violenza, della morte e dell’oblio. Si tratta invece di lavo-

rare dall’interno della comunanza con questo destino di violenza, di morte, e di oblio, ciò che l’opposizione (alla «natura») di un universo della «cultura» non cancella, e dal quale essa stessa non sa e non può liberarsi, ma sol-

tanto nasconde ed espropria, rimuove esponendosi al ritorno del rimosso in termini di solitudine e ossessione. Rievocare il «gesto biologico» in cui si inscrive il linguag-

40

gio è la condizione per appropriarsi della passione dell’agire, della gratuità della parola nella quale possono aver luogo le necessità, oggi sempre più «asociali», della lode e del lutto. ; Ma questo è già un argomento del discorso che seguirà. Quanto abbiamo fin qui tentato di costruire, in relazione al lavoro di Zanzotto antecedente la pubblicazione della «trilogia», non ha carattere di sistematicità, bensì la funzione di rilevare strategie verbali e figure di un possibile intreccio testuale, in parte solidali con la «trilogia» stessa, nella prosecuzione e nei mutamenti di un itinerario di ricerca non intermesso. Il tracciato che abbiamo riconosciuto infatti non si compone, nel corpus al quale il discorso si riferisce, di scansioni così nette e concatenate. E, soprattutto, nel tentativo di cogliere il senso dell’intera

operazione, sfugge il luogo puntuale e illuminante. La mappa, che invenivamo più sopra come il campo metaforico più intonato per inscrivervi il testo zanzottiano, ha ora, alla fine di una prima escursione, una nuova

costellazione di relazioni con quanto dovrebbe rappresentare; soprattutto, suggerisce che «rappresentare» diventa un verbo «fuori luogo». La mappa allude a un luogo che condivide la stessa struttura di differimento che investe la mappa stessa, ma non per questo la mappa e il luogo sono tra loro in un rapporto inequivocabile di riferimento: la mappa inizia veramente soltanto quando ini-

zia l'itinerario, quando cambia il terreno abituale sul quale ci muoviamo, e il «luogo» è qualcosa da trovare sia nella mappa sia «fuori» dalla mappa, dove siamo problematicamente «fuori» e «dentro» la mappa. Il tempo dell’itinerario non può avere «rappresentazione» nella mappa. Anzi, viene occultato nella simultaneità dei segni davanti allo sguardo, e nel linguaggio che ne sottintende l’afferramento nell’espressione «avere una mappa». La critica della parola in quanto semplice segno riguarda anche il rapporto della parola con la temporalità, nella quale, al limite del terreno abituale dove la mappa trova conferma nella nostra esperienza dei segni, fa irruzione il «quì ed ora» nel quale può avvenire l’incontro con la parola dell’altro, il «luogo» che deve essere riconosciuto «in tempo» e raggiunto «nel tempo». Il lavoro di Zanzotto, insistendo sull’opposizione tra signans e signa-

4]

tum, intaccandola fino a far emergere la parola come il proprium dell’itinerario; cioè «mappa» e «luogo» dell’incontro, viene a conflitto con la struttura della temporalità,

che esige un inizio da cui partire, ma differisce ogni partenza nella configurazione della pagina scritta. La ricerca di «uno zero da cui partire»!4, per rinnovare l'orizzonte in cui la persona dell’autore possa esporsi verso il luogo di un possibile incontro, trova i margini della pagina, il taglio compatto del libro. Trova la cornice che riquadra la persona dell’autore nel nome «in copertina», «firma» che è soprattutto marchio di una «produzione d’autore». Autore che, dal riquadro della cornice, dal-

la copertina del libro, invita il lettore a un itinerario che forse porterà all'incontro della persona dell’autore e della persona del lettore nella parola.

Note ! La disposizione-tensione ad approdare a una configurazione di senso; approdo che allo stesso tempo riunisce il soggetto del discorso

al linguaggio e pone in rilievo l’alterità che riposa nella possibilità che gli è propria di situarsene al di fuori, in una dimensione e-statica. Ma confronta la nota 5) alla Premessa. 2 Il «luogo» della poesia sì situa nell’ipotesi di uno spazio mentale nel quale vengono a convergere i processi di produzione di senso dell’autore e del lettore, non nel testo in quanto tale, né tantomeno

nell’intenzione dell’autore o del lettore. 3 Intervista in G. Nuvoli, Andrea Zanzotto, La Nuova Italia, Firenze

1979, pp. 3-14, p. 3.

© por 5 Ivi, p. 14. 6 «Lalingua, il dio birbante», intervista in Spirali, a. Il, n. 7, 1979.

In uno scritto apparso più recentemente, ma datato 1979, «Poesia e televisione», Ilpiccolo Hans, n. 62, estate 1989, Zanzotto scrive: «...in

presenza di quell’incognita che, mancando un miglior termine, si continua a chiamare ‘testo’ (e su cui tanto si scrive): punto-linea di fuga o fuoco di intersezioni, matericità di fatti fonici e scritturali 0,

apofaticamente

(seguendo cioè le tracce di una ‘tradizione negati-

va’) circoscrizione, semirivelazione di un’indicibilità, di un limite; o,

ancora, figura di un’implosione che si qualifica in stratificati e contappuntati equilibri strutturali, o, al contrario, luogo di una dissemi-

nazione, di un’esplosiva e coinvolgente reattività, trip senza termine e, CSURIN ‘reazione a catena’». La «trilogia» è edita da Mondadori,

Milano; nell’ordine:

1978

Galateo in Bosco; 1983 Fosfeni; 1986 Idioma. Le opere in versi di Zan-

42 zotto sono attualmente reperibili presso la medesima editrice: Dietro il paesaggio 1951; Elegia e altri versi 1954; Vocativo 1957; IX Ecloghe 1962; La Beltà 1968; Pasque 1973. Gli sguardi ifatti e senhal, già Pieve di Soligo 1969, e Filò, già Edizioni del Ruzante, Venezia 1976 e Lato/Side,

Roma 1981, sono stati ristampati da Mondadori rispettivamente nel 1990 e 1988. Nel 1970 Zanzotto ha pubblicato con il titolo A che val se? (Poesie 1938-1942), per Scheiwiller di Milano, una testimonianza della sua attività anteriore a Dietro il paesaggio. La cospicua bibliografia zanzottiana, che comprende una miriade di interventi e più o meno brevi scritti sparsi in quotidiani e riviste, nonché pubblicazioni miscellanee, è stata raccolta, per gli anni dal 1951 al 1984, da Piero

Falchetta, «Saggio di bibliografia per A.Z.», Quaderni veneti, n. 4, 1987. i 8 L’opera «cresce» con le sue interpretazioni. Oltre al tacito accordo che prevede la lettura del testo, da parte del lettore di una ulteriore «lettura» (ma quante opere si incontrano invece attraverso le loro «letture»?), si conviene che a quest’ultima «partecipino», in dialogo, le interpretazioni che l’hanno accompagnata nel suo cammino. Un'occasione di dialogo, più che di sostanziale dissenso, si ha

qui nei confronti di G. Nuvoli, op. cit., quando individua nel paesaggio della prima opera zanzottiana «l’unico a resistere alla trascrizione poetica, e a non mutare per questa [...]; dunque da esso partire per ogni racconto esistenziale, e ad esso tornare per non perdersi nello sfaldamento

continuo del creduto esistente che, al contatto conosci-

tivo, sfugge e si nega» p. 19. Si concorda sulla «resistenza» del paesaggio alla trascrizione poetica, ma poiché esso, insieme con ogni ripresa del voler-dire, si dà come

l’alveo dell’esperienza nel quale il

soggetto si costituisce in discorso, sia pure «inautentico». Anche la sostanza mitica del paesaggio, prolifera di archi-significazioni, è sottoposta alla tensicne tra un linguaggio che si presenta autorevole per la sua compiutezza formale, quello della letteratura, così da mostrare

la composizione di un mondo di senso non minacciato dalla precarietà nella quale si espone l’io della testimonianza di sé, e la coscienza che da questa «altezza» espressiva ha scorto la distanza dalla deiezione del presente. Distanza che promuove l’operazione «metaletteraria», rispetto alla quale il soggetto sembra situarsi quasi «in margine» al dettato verbale, come

abitante, che spesso si riconosce

male

accetto o lascia trasparire una difficile convivenza, di. forme espressi ve con le quali dare parola a un'esigenza profonda di nominare e sentirsi nominato nella coappartenenza del dire. ° Si legga la poesia Prima persona, in Vocativo, nella quale la rinuncia all’io si dichiara necessaria e allo stesso tempo vana: «— Zo — in tre miti continui, — io — disperso/e presente: mai giunge/l’ora tua, /mai suona il cielo del tuo vero nascere. [...] Di te vivrò fin che distratto ecceda/il tuo nume

sul mio/già estinto significato, fin che în altri terrori tu rigermini/in altre vanificazioni» © Nell’«Introduzione»

all'Oscar mondadoriano

A. Zanzotto, Poe-

sie (1938-1972), S. Agosti ha dato scansione critica alle tappe della «discesa» nella lingua attuata dal poeta di Pieve di Soligo, da Dietro il paesaggio a La Beltà, individuando

felicemente

la corrispondenza

tra

l’accentuarsi dell’interrogazione critica nei confronti del linguaggio

43 come sistema di segni — attraverso Saussure — e dominio del simbolico — attraverso Lacan — e l’accentuarsi parallelo della trasformazione della sostanza mitica del paesaggio in minaccia costante, perpetrata nei confronti del soggetto, della falsificazione, nell’offerta di strutture analogiche che portano in sé il marchio della violenza della storia, fino alla loro «snaturazione» in modelli metaforici o euristici del processo (traumatico) dell’elaborazione psichica. 1l Il Corriere della sera, 1-6-1968. Ora in Sulla poesia, Mondadori,

Milano 1976, pp. 337-341.

12 La«Prefazione» di G. Contini al Galateo în Bosco si chiude con l'attribuzione a Zanzotto del titolo di «poeta ctonio». E sarà da intendersi come sicura sintesi, volta a esprimere lo scaturire della poesia zanzottiana dal «sotto» e dal «dentro» della terra, da un’appartenen-

za che gli antichi incarnavano nella simbologia delle divinità infere. 13 L'edizione mondadoriana

è arricchita da due interventi, uno

dell’autore e uno di S. Agosti, risalenti al ‘73, che contribuiscono ad approfondire il dialogo sul poemetto. Un significativo contributo esegetico si deve a L. Conti Bertini, nel primo capitolo del suo A. Zanzotto 0 la sacra menzogna, Marsilio, Venezia 1984.

14 In G. Nuvoli, A. Zanzotto, cit. , p. 14: «Ho l’impressione comunque di non aver ancora detto gran che di quanto mi importava dire, o almeno accennare. Resta quasi tutto ‘là’. Inaccessibile. Bisognerà partire da zero, ancora... 0 quasi da zero. Avere uno zero da cui partire!».

CAPITOLO SECONDO NOTE CHE FANNO TESTO

Questi versi sono stati scritti tra il 1975 e i primi mesi del 1978. La raccolta apre quella che impropriamente si potrebbe dire una trilogia, in buona parte già scritta (72 Galateo in Bosco, p. 111)

Questi componimenti in buona parte si sono formati insieme con quelli de /l Galateo în Bosco tra il 1975 e il 1978, altri

si sono aggiunti negli anni seguenti, fino al 1981. La presente raccolta rappresenterebbe

dunque

la seconda parte

di una assai improbabile trilogia annunciata già con quel libro. Si profila qui come contrapposizione, o residualità, un nord che attraverso altri tipi di movimento collinare sfuma entro lo spazio dolomitico e le sue geometrie, verso neve e astrazioni, attraverso nebbie, geli, gelatine, scarsa o

nulla storia... (Fosfeni, p. 79) La presente raccolta di versi rientra in un gruppo che com-

prende anche // Galateo in Bosco e Fosfeni. Essa è in parte contemporanea a questi libri (1975-1982), alcuni componimenti sono del 1983-1984. Nell’insieme si tratta di una

pseudo-trilogia: momenti

non cronologici di uno stesso

lavoro, che inviano l’uno all’altro a partire da qualunque di essi, anche se in un(a) certa discontinuità, e persino

sconfessione reciproca... (Idioma, p. 113) Si deve presumere che, in questo caso, il testo în versi non

adempia all’intera esigenza di significazione del testo stesso. La persona dell’autore, al quale, come autore di versi nel sistema del libro, spetta il nome in copertina, ha però la possibilità di assumere un altro volto, e lo spazio per un supplemento di testo nel quale, «fuori» dall'opera in versi, parlare dell’opera stessa. Questo tipo di interventi risulta spesso prezioso, poiché può fornire una specie di «guida alla lettura» e, insieme, un campione di quale

sia la relazione che il dettato poetico intrattiene con il

46

discorso mediante il quale si svolge il dialogo pubblico sulla poesia. Inoltre, va aggiunto, se ne potrebbero ricavare informazioni degne di rilievo per quanto riguarda la poetica dell’autore, intesa nel senso di quell’insieme di principi formali e di movenze operative che dirigono il suo fare poesia, in rapporto alla situazione di opere e di eventi con le quali si trova a confrontarsi). Anche questo tipo d’interventi, questa seconda presenza autoriale, così diversa dall’altra, viene però a carat-

terizzarsi secondo certe convenzioni, che ne fanno qualcosa come un sottogenere, o semplicemente un genere a parte, e fintantoché

rimane

decidibile

la sua alterità

rispetto alle modalità di significazione del testo «di cui» parla, fino a quando cioè non ne mette in dubbio lo statuto comunicativo in quanto testo, rinvia il lettore al riconoscimento di qualche elemento essenziale concernente i contesti culturali che lo informano. Nel rapporto che si instaura tra il testo «in versi» e quello «in prosa», data la difficile transitabilità dall’uno all’altro, può accadere che quest’ultimo spazio, nel quale

un altro volto dell’autore presenta un’altra istanza di comunicazione, divenga il luogo in cui l’intero circuito comunicativo

che riferisce al libro, e quindi certe sue

regole e certi suoi passaggi obbligati di solito taciuti, ancorché operanti, vengano sottoposti a una radicale

messa in questione. In questo caso si tratterebbe di rivedere la nozione di testo in relazione alle perplessità che emergono dal rilievo di procedure di rinvio proprie del sistema del libro, e di tentare di pervenire, tematizzando quanto queste ultime comportano sul piano della comunicazione, al riconoscimento di diverse occasioni di produzione di senso. Del testo, inteso come

una sequenza di parole — con-

comitanti al risultato complessivo del senso — fissate per mezzo della scrittura, sono infatti incerti i limiti: il nome

dell'autore, per esempio, fa parte del testo? Chiare, fresche e dolci acque è un testo o «fa parte» del testo che invece è il Canzoniere? La prosa e la poesia del Convivio sono «uno stesso testo»? Il libro invece presenta apparentemente dei confini molto più sicuri, confermati dalla sua materialità, ma

inscrive, nella sua composizione materiale e sociale,

diverse e rilevanti domande su quanto e come da dentro il

47 libro rinvia a un fuori,e viceversa: formato, copertina,

risvolti, frontespizio, spessore, rilegatura, pagine bianche, margini, e via dicendo, compongono un sistema di significazione articolato che Genette ha definito come «soglie»?. Vi è un «di dentro» perché vi è una chiusura rispetto a un «di fuori», ma non è solo un’opposizione, poiché, mentre l’aperto contiene il chiuso, quest’ultimo mette in comune un’apertura: la soglia, che è l’aperto per il quale si accede al chiuso, per il quale si accede dal chiuso all’aperto. Se la soglia faccia parte dell’aperto o del chiuso è indecidibile, poiché siamo sempre o «di dentro» o «di fuori», e quindi in una condizione in cui non

ha senso dire che è parte di entrambi, dato che in quest'ultimo caso dovremmo situarci «al di fuori» della logica | del dentro e del fuori, mentre non è possibile. Ora, seguendo le indicazioni di Genette, dovrebbe

risultare abbastanza facile risolvere il problema dei tre brani di cui si dà notizia a principio di capitolo, avvalendoci della distinzione tra testo vero e proprio, intervento autoriale e intervento extrautoriale. Ma il nostro problema è invece quello di definire in che misura i tre brani siano «semplicemente» un intervento autoriale o invece costituiscano un aspetto rilevante del testo. Una riprova banale potrebbe essere quella di chiederci che cosa comporterebbe escludere le «indicazioni autoriali» dai tre supposti «testi» per il senso che produrrebbero alla lettura. Ma

forse è meglio procedere con un certo ordine. Non sappiamo le ragioni di un intervento extrautoriale, o che almeno crediamo tale, ma lo notiamo ugual mente di passaggio: il formato del Galateo în Bosco è più largo di quello abituale della collana nella quale viene proposto, e a esso si adeguano i volumi successivi della collana medesima,

anche

di altri autori. Sia decisione

indipendente o sia dovuta alla pagina Zanzottiana, è cosa in fondo trascurabile rispetto all'economia del presente discorso. Non trascurabile invece è soffermarsi sulla relazione che le notazioni autoriali instaurano con il testo, per cercare di ricavarne delle indicazioni utili al nostro caso. Possiamo rinviare a Genette per un repertorio completo delle diverse occorrenze in cui si realizza l’intervento dell’autore, tra le quali menzioniamo soltanto l’epigrafe, la dedica,

il ringraziamento e la premessa, anche se quest'ultima ha

48

confini più incerti, per insistere sulla funzione delle note a un testo di poesia. Una nota dell’autore, in relazione a un testo poetico, presuppone che il testo non sia sufficientemente comprensibile, secondo l’idea di comprensione

che l’autore stesso ha, vuoi perché ritenga doveroso precisare l'occasione che ne è all’origine, vuoi per certi debiti

culturali, oppure semplicemente per certi luoghi, nomi oppure espressioni idiomatiche, quando non vi sia presente una lingua diversa da quella dell’ipotetico lettore cui si rivolge. In linea di principio una presentazione generale del lavoro, senza che indugiamo a riflettere sul fatto che comporterebbe,

da parte dell’autore, la convinzione

che

«ce ne sia bisogno», ha il suo spazio nell’ambito di quella che comunemente chiamiamo «premessa» o «prefazione», posta in apertura — oppure, in chiusura, col nome variabile di «avvertenza», «postfazione»,

o anche «nota »,

ma al singolare. Le «note» invece, al plurale, hanno una loro parentela con il genere saggistico, e la loro funzione dovrebbe rientrare nel novero della maggiore intelligibilità dei riferimenti, sia puntuali, come

l’identificazione,

come dicevamo più sopra, di una persona, di un luogo o di una data, sia culturali in senso più generale, quali citazioni, titoli di opere, nomi di autori.

In Zanzotto ben poco di tutto questo, anzi piuttosto uno spiazzamento di questa funzione, con relativo debordamento nel testo o ripresa dello stesso per incrementarne le ambiguità. E non sembra peregrino additare nelle note (parola che ritrova in questo autore la sua polisemia) il versante attivo di un rilancio del senso, di un inabissa-

mento della lettura piuttosto che un mero sussidio a fissarne la leggibilità: basta soltanto scorrerne alcune e notare la retorica, così densa di reticenze, che le informa.

Ci si convince abbastanza presto che, piuttosto di un ruolo esplicativo nei confronti del lavoro in versi, sono poste a contrastare

una lettura troppo rapidamente

risolta, e

soprattutto l'assunzione da parte del lettore del discorso in prima persona: la presenza dell’autore, a contrasto con la pluralità delle autodesignazioni vigenti nel testo, viene reclamata in seconda istanza, in una zona «franca» della lettura, ma inequivocabile nel rimarcare l’invio che

potrebbe rimanere taciuto. Il poeta tenta così una riappropriazione, a un altro livello, diremo sbrigativamente autoermeneutico, di

49

quanto l’opera espone a «chiunque», denunciando così però anche un esautoramento, una perdita di possesso del senso del testo. Proprio la comparsa e la funzione assunta dalle note — o da ciò che, al riparo dietro questo nome, gioca la sua relazione di senso con il lavoro in versi — costituiscono forse un’interessante riprova per qualsiasi discorso sulla poetica e sulla poesia che vengono formandosi a partire dalla Beltà, e che trova le sue prime radici in Dietro il paesaggio. Proprio in Dietro il paesaggio e in Elegia e altri versi, quella dizione poetica, mirata sulla linea

dell’ermetismo e alimentata da certe suggestioni surrealiste, che si presenta improntata a criteri formali di esclusione del tempo storico, mentre l’«ironia» metaletteraria li mina dall’interno della stessa struttura che li predica, trova nella presenza ancora sporadica delle note il mezzo per una situazione più precisa nello spazio e nel tempo. La più consistente presenza in Vocativo, che diventa ineludibile per IX Ecloghe, acuisce il contrasto e conferma quella solidarietà evasiva ed elusiva, intermittente ma prensile con la presenza della storia, e soprattutto della sua «falsificazione», nel testo in versi.

Mentre in Dietro il paesaggio i versi sembrano tollerare le note, sul limite della coerenza formale e verbale, come

conferma di un’intenzione seconda di tipo ironico, il tracciato successivo promuove la loro presenza quasi in antagonismo al testo, come rilancio e inabissamento, con

una sempre maggiore sintonia nei confronti dei sommovimenti formali e delle cesure semantiche in opera nella sequenza in versi. Ma conviene partire da alcuni aspetti puntuali, per riconoscerne, attraverso le ben soppesate reticenze, la funzione.

Ritorniamo dunque alle tre citazioni poste in apertura. Nel luogo e nell’ordine compositivo abituale delle note (il titolo del singolo componimento e l'indicazione della pagina rendono superfluo l’inelegante esponente numeri co), sotto il titolo di Note, abbiamo quella che a prima vista sembrerebbe un’esplicitazione della genesi del testo, di alcuni suoi motivi e delle ragioni del titolo complessivo del lavoro. Prima di continuare su quanto vi sia di «esplicito», notiamo che le prime tra queste sequenze verbali avrebbero forse più propriamente figurato in altra sede, e che così risultano un po’ nascoste, fuori posto, rispetto al

ruolo di «Avviso al lettore» che avrebbero avuto in tempi

50 meno recenti (o in altre opere). La prima osservazione da fare è quella di una distanza retorica dal lettore, ottenuta con l’assunzione di un tono

saggistico di riflessione a posteriori e di separazione dal soggetto dell’operazione. La saggistica è prima che un genere definito (accoglie infatti o si insinua in molti generi) il luogo in cui l’autore si identifica con una

comunità vera o presunta tale — ne sono spia il «noi» 0 l’mpersonale che anche qui adottiamo — a scapito ‘dell’identità personale dell’autore, producendo un suo «esautoramento» come testimone della persona dell’autore, e, d’altra parte, conferendogli l’autorità che proviene dal «far parte» di un discorso al quale si presume partecipino altri. Avviene però, al contempo, che il condizionale, sostenuto da avverbi e aggettivi eloquenti, revoca in dubbio le pretese del tono, soprattutto a riguardo dello statuto di «trilogia» da assegnare alle tre opere: «quella che impropriamente si potrebbe dire trilogia» (G.B.); «la seconda parte di una assai improbabile trilogia» (EF); «Nell’insieme si tratta di una pseudo-trilogia» (Z.). Alla voce trilogia per accertarci del lessico, troviamo:

«Nella Grecia antica, insieme di tre tragedie di uno stesso autore su uno stesso soggetto: ‘L’Orestea è una trilogia di Eschilo’. Per estensione: complesso di tre opere teatrali o poetiche o narrative ben connesse per tematica o stile: ‘la trilogia dantesca’» (Grande dizionario Garzanti).

«1. Complesso di tre tragedie che, unite al dramma satiresco,

componeva

la tetralogia che si presentava

nell'antica Grecia per essere ammessa al concorso drammatico durante le feste dionisiache. 2. Nella letteratura moderna, il termine designa un complesso di tre opere che costituiscono un’unità» (G. Devoto-G. C. Oli, Le Monnier).

Facciamo il punto. Diventa difficile al lettore trovare quelle connotazioni che portano a soddisfare i requisiti di unità (di «soggetto» o «tematica») tali da proporre lo svolgersi di un ciclo unitario mediante l'integrazione reciproca e la continuazione da un volume all’altro — e capaci di isolare le tre opere come «unità» autonoma dalle altre dello stesso autore. Anzi, è lo stesso autore a dirci

che i tre libri «rinviano l’uno all’altro a partire da qualunque di essi, anche se in una certa discontinuità, e persino

sconfessione reciproca», ma dopo che è stato lui stesso a

51

dirci — e quindi presumendo a sua volta che non fosse

facile capirlo — che si tratta di una «trilogia». Non sarebbe

forse troppo azzardato presumere che, se fossero comparse senza le Note di cui stiamo parlando, le tre opere si presenterebbero con il loro semplice legame cronologico. Altre dichiarazioni dell’autore, ma questa volta «fuori» dal libro, confermano quanto risulta dalle note. Nell'intervista che apre il volume di G. Nuvoli, Zanzotto

dichiara: «Ho altri due libri già in buona parte scritti ma che non stanno tra loro in un rapporto di continuità o ciclo, bensì vivono dell’accertamento di una discontinuità. Esiste come uno spostamento metonimico da un libro all’altro. Tali spostamenti, o meglio sbilanciamenti, esistevano già all’inizio, quando queste formazioni si articolarono quasi come tre rami non contigui di uno stesso albero. Rami da tagliare per poterli riconnettere; né si è ben certi della stessa esistenza dell’albero»*. Sembra che sia necessario aggiungere qualcosa al dizionario sotto la voce «trilogia». Oppure si tratta di cercare quale sia la posta messa in gioco dal lavoro di questa acuminata retorica. Per ora teniamo come essenziale una considerazione: mentre confermiamo la solidarietà di quanto viene detto «fuori» dal libro con quanto viene detto nelle Note, ne rileviamo anche una fondamentale differenza di funzione. Queste ultime non si lasciano accantonare come semplice dichiarazione di poetica, rimangono a mantenere diviso un libro dall’altro, a rinviarli l’uno all’altro confon-

dendone la cronologia, separando in diverse figure lo stesso autore nello «stesso» tempo, facendo emergere sullo sfondo la persona dell’autore, delatore e complice, che può farsi presente solo rinviando al gesto che lo nasconde. Rimangono e rimarranno: nessuna operazione editoriale, nessuna logica interna al sistema del libro le potrà occultare. Né un’antologia, né la selezione critica di uno solo dei tre volumi, né la riunione «in trilogia» di tutte e tre le opere in un solo volume. Ognuna terrà separata la sua storia, che è la stessa, ma scissa nelle diverse relazioni

che la persona dell’autore instaura con l’autore dei singoli libri. Che «soggetto» è questa persona dell’autore, quando può posticipare nel tempo una vicenda che «esisteva già all’inizio», e può aggiungervi qualcosa che viene dopo, affermando

che è parte della stessa vicenda? Che

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ruolo gioca, dunque, l’«io» che si accampa nel testo in questo diffrangersi della temporalità? Qui il tempo non fluisce più in una direzione rassicurante, e il «soggetto», al quale soltanto allude una architettura sottilissima, sempre in pericolo, si trova preso .in un gioco di rifrazioni nel quale non vi è mai un solo referente dell’interpretazione di sé, mai un solo volto dell’altro.

Note

l Il riferimento, qui evidente, all’idea di «poetica», secondo l’ela-

borazione proposta da L. Anceschi (in part. Le istituzioni della poesia, Bompiani,

Milano

1968; Le poetiche del Novecento in Italia, Paravia,

Torino 1972; Da Ungaretti a D'Annunzio, Il Saggiatore, Milano 1976), meriterebbe lo spazio per un maggiore approfondimento. ? G. Genette, Soglie, Einaudi, Torino

1989

(tit. or. Seui/s, Seuil,

Paris 1987). * Scriviamo «semplice» tra virgolette, poiché la funzione e la strategia dell’intervento autoriale nei confronti del «testo» semplici non

lo sono mai: oltre al già citato volume di Genette, è d’obbligo rinviare a]. Derrida, La disseminazione, Jaca Book, Milano 1989 (tit. or. La dissémination, Seuil, Paris 1972) pp. 47-99, e al già citato — nota 10,

cap.1- Limited Inc. . 4G. Nuvoli, A. Zanzotto, cit., p. 14.

CAPITOLO TERZO IL TEMPO DELLA SCRITTURA

Vita di un diario è una delle prose raccolte in Sull’altopiano, nella quale un anziano personaggio narra l’incomponibilità tra i due versanti del raccontare sé per mezzo della scrittura e della perpetua fuga del sé, del suo travestirsi nelle formule espressive di cui si avvale: Assurda fatica quella di continuare a trascrivere la mia vita,

pur essendo giunto in età così avanzata, e completamente solo al mondo. Vecchio di migliaia e migliaia di giornate, quando le tocco a caso — pagine minuziose e fedeli — mi coglie un nuovo smarrimento: non per quella muta attestazione di un tempo che non è più da vivere, ma perché sen-

to l'impossibilità di riprendere il mio scritto per leggerlo tutto, ripetendo così da capo a fondo, posto che lo volessi, la mia esistenza [...]. Mi è chiarissimo infatti che in ogni caso il mio lungo lavoro è stato vano, vedo che nonostante lo sforzo aspro e quasi maniaco del diario, la mia vita mi è stata rubata con implacabile meticolosità, mi trovo ormai di fronte, nel diario, la contraffazione più che l’immagine della mia esistenza. Troppo addentro io vedo nel tessuto dei segni del mio diario, troppe cose ho scoperto sulla sua natura; forse è vero che esso vive di una vita propria, che non è mai veramente coincisa con la mia...!.

La persona dell’autore, che, secondo la datazione dello scritto, aveva venticinque anni, denuncia gli inganni della

«verbalizzazione» e della «trascrizione», prefigurando un'esperienza limite del tempo nel tempo della scrittura, offerta in forma iperbolica al proprio personaggio. Una verità che, presentata qui come conquista senile, facendo coincidere il tempo dell’esperienza di sé e dell’esperienza della scrittura con il ciclo biologico, maschera

quanto di

corrosivo vi è in queste righe, e, se dà completezza maggiore al tema, lo falsifica sovrapponendovi un altro schema, nel quale quello stato di smarrimento sembrerebbe

54 risultare solo come conseguenza del consumarsi della «vitalità» biologica. Potrebbe sembrare cioè che sì tratti di una opposizione tra vita e arte, secondo canoni già largamente frequentati. E forse è anche così. Ma qualche tratto della scrittura ci invita a riconoscere qualcosa di sottilmente inquietante: l'equivalenza tra le giornate e le pagine,

l’aberrante totale coincidenza tra il tempo vissuto e la sua trascrizione è dominata dalla presenza delle pagine stesse, che si possono vedere, toccare: ed è questo loro stare nel mondo come un oggetto tangibile, ciecamente tangibile, fonte di spaesamento e sconforto. Eppure vengono dette «fedeli». Non è la loro fedeltà a essere messa in dubbio. Lo smarrimento nasce dal vedere «troppo addentro nel tessuto dei segni», e nel non sapere, non poter rescindere un «allora» da un «ora», poiché i segni sono il luogo di una duplice presenza. Il tempo perduto, per quanto «presente» nella tangibilità fisica delle pagine, è inattingibile. Non si può «riavere» proprio perché comporterebbe

un’altra vita di uguale durata per ripercorrerlo. Sarà più tardi, in una importante recensione a Solmi?,

che Zanzotto preciserà l'intonazione del suo tema, nel trapasso da una realtà nella quale il linguaggio evoca all'uomo, per scarti e lampeggiamenti, per concrezioni di voce-corpo, l’istanza di una verità che traluce nel dire, a

un’altra realtà alla quale il dire non può sottrarsi, che comporta una strutturazione co-originaria, appropriante/espropriante dell’accesso ai significati. La poesia assume il compito di riconnettere il dire al gesto biologico in cui «è la vita stessa che parla di sé (in qualche modo) a un orecchio che la intenda (in qualche modo); parla a

suo modo, forse in modo sbagliato; ma comunque la vita, la realtà ‘crescono’ nella lode, insieme generandola e come aspettandola», come aveva dichiarato nell’ Autoritrattoò. Ed è alla ricerca, la poesia, di fissare l’impronta

formale di questo dire; ma ecco che, nell’atto stesso con il quale ha luogo una forma, la «vita» si separa, viene rias-

sorbita dai segni dentro la loro propria configurazione. Scrive Zanzotto: La cosa poetica costituirebbe dunque la garanzia della riemersione, o ritorno, da una ragione-canone come originarietà di evento, e quasi matericità. Nel tessuto della poesia tralucerebbe qualche segno di un ordine di valori che, se ora è un dio spettralizzato o rimosso, parve comunque aver

55 fornito a se stesso non soltanto le proprie ragioni, ma anche un loro necessario corrispettivo in sede formale.

Questo riconoscimento comporta una violenta ipotesi in favore di una qualche stabilità: che a sua volta è condizione

all’aprirsi di uno sguardo potenzialmente onnicomprensivo, capace in ogni caso di cogliere i più sottili e oscuri movimenti della storia, e della vita-poesia. Ma un'ipotesi di stabilità, anche relativa, si paga. Essa viene

a ricongiungersi al senso di un impoverimento di ciò che è vitale: stabilità è anche, in qualche modo, stasi. É lontanan-

za dal bruciare senza posa della vita, dal brulichio degli esseri — ma anche delle opere che si fanno e corrono a sfarsi. [...] Da una parte dunque sta un elemento platonico, calcinato, cristallino, ambiguo fra totalità e annichilimento,

cioè quello che riguarda la ragione «critica» e la poesia basata sulla necessità del canone; dell’altra sta la poesia che

non si distingue dalla vita, che è in ebollizione di novità in divenire, ma minacciata dal non-senso per il suo divorarsi

divorando (come motivazioni...4.

la

vita)

le

proprie

eventuali

La lunga citazione dalla recensione a Solmi mette in evidenza questa duplice scansione dell’accadere e del divencare segno, in conflitto irrisolvibile: non c’è accesso alla

significazione se non come istanza di un conatus co-origi-

nario del quale la poesia si incarica di cogliere la «forma»; ma ogni forma richiede un canone, ed è tale, a tutti

gli effetti, anche quello in cui si fissa una delle presunte modalità segniche dell’articolazione originaria. Un'’intervista alla quale abbiamo già fatto riferimento, a poca distanza dall’uscita del Galateo în Bosco, e mirata su questo libro, ci aiuta a definire meglio il carattere del rapporto tra l'elemento

«platonico, calcinato, cristallino,

ambiguo fra totalità e annichilimento» e l'elemento invece della «ebollizione di novità in divenire, ma minacciata

dal non-senso per il suo divorarsi divorando». Riportiamo la sequenza: Ogni libro, a sua volta, non è che una riassuntiva, imprecisa icona, o mero indizio, di uno «stare in luogo» nel quale, per quanto il referente possa essere esorcizzato o addirittu-

ra rimosso, si verificano fenomeni omologhi a quelli sopra descritti [Zanzotto parlava del tradursi della storia in «geografia» di segni stratificati e cripto-ossessivi]. E in quella

56 che si dichiara o propone per poesia lo spessore polifonico, 0 polidisfonico o poliequivocante di ogni luogo si riversa nel luogo-lingua, nel suo continuo sbocciare o scoppiare (almeno nelle otto dimensioni «richieste» nella fisica!) e, contemporaneamente, nel suo essere, in quanto testo, potenziale sovrapposizione di ‘tutto su tutto, onnivoro punto. E ciò sembra verificarsi in una mobilità pendolare (non dialettica) piuttosto che in una staticità ossimorica — mal grado l’istantaneità del presentarsi del testo. Il quale però risulta strutturato da mille poîntillés o incrinature entro cui s'apre il percorso delle letture, degli avvicinamenti. Si tratta di pendolarità (molteplici), ma all’interno di un punto, di cui non

si può dire se sia, a sua volta,

«fermo»

o

cos'altro. Si ha rapporto con polifonie o palinsesti che pur si negano come tali entro il campo di gravitazione del luo-

go-punto®.

Come dire diversamente, se non con queste movenze acrobatiche e continuamente autocorrettive, la complessità dei rinvii temporali che coinvolgono permanenza e caducità, referenza a un sistema di codici e sua negazione, all’interno di un movimento che non può essere defi-

nito «dialettico», ma la cui «pendolarità» si svolge all’interno di un solo «punto»? Qualsiasi formulazione espressiva è già essa stessa «dentro» questo movimento di insistenza e fuga dal «punto» temporale in cui il sé perviene a interpretazione, e l’accedere ai canoni socialmente formalizzati in quanto «poesia» implica un ulteriore processo di separazio(ne)/discesa e di regresso/ricomposizione, di «spiazzamento» e «ritorno», che non dà luogo a delle coppie di opposizioni, ma solo ad accostamenti con i quali rimarcare la cesura che qualsiasi riconnessione presuppone. L'’avvertimento che non si tratta di un ossimoro, cioè che non si ha mai convivenza dei contrari, positivo e negativo, senso e nonsenso, contrasta

violentemente con l’istantaneità di un luogo puntuale nel quale positivo e negativo, senso e nonsenso non possono definirsi per opposizione. Vi è qualcosa di controintuitivo e spaesante in tutto questo, ma è difficile pensarlo altrimenti: l’istante che àncora il corpo-pensiero-gesto-parola, l'istante che questo plesso di significanza condivide con tutto il cosmo, è incrinato e minato nel suo stesso «essere pensato» dalla compresenza di diversi e stratificati, concrezionati, ordini segnico-temporali.

DI

L'istante è afferrabile soltanto come con-significazione — non dialettica — di passato e futuro, di movimenti seman-

tici innervati in un dinamica tanto psichica quanto fisica,

che lo tengono presente nell’«esplosione» o «attrito» dentro il «punto» (inafferrabile) della loro articolazione.

Per la stessa persona dell’autore tutto questo si tramuta nell’impossibilità di cogliere il principio del proprio fare poesia, di garantire per il senso che egli stesso ha prodotto, e a maggior ragione di fronte alla impermanenza temporale del sé in uno stesso stato di «coscienza». In uno scritto pubblicato su il Verri dal titolo «Tentativi di esperienza poetica (poetiche-lampo)» Zanzotto precisa questa estromissione del poeta stesso dall’atto della creazione: «Coloro che hanno scritto, diciamo, ‘una poesia’, molto spesso, io credo, hanno avuto la netta sensazione

di una cesura tra il momento in cui pensavano di poterla scrivere, quello in cui l’hanno vista scritta subito dopo, e quello in cui sono diventati veramente lettori dei propri versi o eventualmente elaboratori di articolate poetiche e di teorie sulla poesia»*. Lo scritto porta la «traccia» del sistema di sollecitazioni da cui si organizza un senso, traccia reperibile ma, come tutte le tracce, da interpretare costruendo a posteriori l’immagine di «chi» o «che cosa» l’ha impressa. Ma le ragioni dell’espressione poetica, ragioni che affiorano dalla riflessione sull’esperienza della poesia (e le pagine dalle quali abbiamo tratto quest’ultima citazione sono densissime di suggestioni in proposi to), per lo stesso principio per cui il discorso dell’altro è agente di un’affezione, non possono che ritrovarsi coinvolte ab ovo nel circuito di differimento della comunicazione. E Zanzotto non può certo trascurare i «mille pointillés o incrinature entro cui s’apre il percorso delle letture, degli avvicinamenti». Le stesse che riguardano lui come persona che legge quanto ha scritto, in un momento che è sempre «passato», e che sorvegliano le modalità di una possibile allusione al luogo dell’incontro con

l’altro, il lettore. A questo riguardo si noterà che 1 testi zanzottiani non hanno subìto rifacimenti o correzioni nel tempo,

alla ricerca di ottenere,

come

egli stesso notava

per il lavoro di Ungaretti”, un’impossibile ricomposizione del passato e del presente, di quello che l’autore ora sa che «era» e che è.

Ma se è impossibile ricomporre in un unico ordine

58

temporale i «tempi» della propria esistenza, e ancora

meno quando producono una significazione materiale permanente, è forse possibile «mettere in comune» il senso di questa esperienza, evitando di nasconderla den-

tro la finta neutralità del libro, e accettando la maggior perdita di «autorità» dell'autore, per condividere come persona la stessa necessità di appropriazione della persona del lettore. Il libro infatti, per mezzo della funzione autoriale, che è un’occorrenza del finzionale, sembra in ogni caso salvare la compattezza di un «soggetto cosciente completa-

mente presente a sé», anche quando al suo interno il dettato si mostra fratto e sconvolto, intransitabile nei termini

pubblici della comunicazione. Se confrontiamo la funzione delle note e degli interventi autoriali di Zanzotto con la presenza massiccia di «discorsi sulla poesia» e «dichiarazioni di poetica» a fianco di molti testi proposti come sperimentali e dissacratori dei vincoli sociali e politici del linguaggio, vi troveremo quasi sempre una sostanziale differenza. In questi ultimi, con un gesto che non potrebbe essere meno consono al poeta della «trilogia», la funzione degli interventi autoriali è quella di garantire una leggibilità — del testo o dell’«operazione» linguistica — che si pensa (e il primo a pensarlo, in questo caso, è l’autore) altrimenti difficile o impossibile. Il «linguaggio» che viene messo in discussione è quello che si dà all’interno dello spazio della poesia, presupponendo che vi sia questo spazio, che vi sia una netta separazione di principio tra l’arte e il «mondo della vita». Ciò che non viene sottoposto a critica è allora proprio l’unità e l’integrità del «soggetto» scrivente, il quale, al di fuori del terreno in cui viene confinata la poesia, conserva il suo completo dominio sul linguaggio e sulla storia. Dominio che si estende anche sulla poesia, mediante la signoria condivisa con un discorso che può dettarne in anticipo i motivi, i modi e i risultati. Il «programma» di poesia denuncia una identificazione totale del fare artistico con l'aspetto tecnologico della prassi, per il quale, dati i mezzi di produzione e i procedimenti produttivi, non si può avere che un certo risultato, in questo

caso il rispecchiamento della storia, della quale il «soggetto» scrivente ha il privilegio di comprendere i meccanismi. Lo spazio dell’opera in versi, viene così mantenuto

59 nei confini ereditati, ma depotenziato, poiché in subordine al discorso «teorico», mentre non si attua alcuna radi-

cale critica del sistema di produzione che convoglia ogni «testo» nel libro. Sistema di produzione di senso, da non confondere ingenuamente con il sistema di produzione industriale, col quale intrattiene, è vero, più di un legame, ma non di tal genere da potersi illudere che scrivere ogni copia delle proprie poesie.a mano, o non fare del tutto delle «copie», significhi situarsene al di fuori. Ciò che fa Zanzotto è invece l’insistere sull’alterità del discorso poetico, genus improbabile, sfuggente e mai del tutto circoscrivibile, luogo che modifica i suoi confini

ogni volta che su di esso si voglia imporre il proprio dominio. Ma anche continuo dialogo e confronto con tutti gli alti discorsi dell’esperienza umana, e nel quale l’uomo gioca la scommessa del suo destino, altrimenti ma non meno seriamente. Allora, intaccare gli automatismi di significazione del libro, che comportano l’espropriazione delle persone dell'autore e del lettore per inscriverle dentro la funzione-autore e la funzione-lettore, significa identificare la

linea di resistenza lungo la quale si organizza l’intero sistema: la cronologia. Cronologia della composizione

e dell'edizione, che

sottostà a un principio di sincronismo storico generale, pensato secondo i termini progressivi del calendario. Quell’idea di una corrispondenza «diaristica» che già molto tempo prima Zanzotto aveva attaccato, pur cadendo nel tranello della coincidenza «narrativa» tra la fine della storia di una vita e l'elaborazione del suo significato. Che forse è un’ingenuità e forse è un modo per indicare che la «narrazione

di sé», che costruisce la nostra

identità, è sempre nella prospettiva di un completamento nel futuro. La disposizione del comprendere, soprattutto nell’ambito dell’arte, sembra spesso ignorare la differenza tra temporalità e cronologia. Per sua necessità e per sua sventura è legata al calendario che segna le date di composizione e di edizione, e, in modo ancora più cogente, quelle che situano le diverse opere di uno stesso autore lungo un asse orientato, tale da rendere difficile anche ai più volonterosi il sottrarsi a uno schema evoluzionistico. Per quanto sia vero che il compiere un’opera

60 modifica l’esperienza della persona dell’autore, e quindi date successive di composizione implicano un diverso orientamento del suo fare, come ci si comporterebbe di fronte a due opere composte «contemporaneamente» ed edite a parecchi anni di distanza l’una dall’altra? Due opere, preme sottolinearlo, che sono «la stessa», di cui è

indecidibile quale sequenze facciano «geneticamente» parte dell’una o dell’altra? Ed è pessibile dire che due opere vengono composte «contemporaneamente», è possibile comporre «contemporaneamente» due opere? E se invece di due fossero addirittura tre? C’è un rapporto di dipendenza tra la cronologia e la persona dell’autore. Ma questo rapporto rispecchia la temporalità delle sue esperienze? O, dato che ci deve essere una invariabile e una variante, per non perdere la speranza di «inquadrare» l’opera in un sistema di significati, e che la varianza delle opere è evidente, giocoforza l’invariante è costituita dalla persistenza biologico-fisica della persona lungo l’asse della cronologia? In altre parole, la complessità del riferimento della propria persona a una data, che non è mai solo una, poiché riunisce nella persona stessa il suo passato mediante l’incessante racconto di sé, nella prospettiva di un poter essere e di un poter fare futuri, può instaurare con il sistema del libro un conflitto temporale. La persona dell’autore può infatti pretendere di sottrarsi alla finzione secondo la quale il libro rinvia a un autore la cui immagine si costruisce «in simultaneità» con il tempo dell’opera. Il lavoro della composizione poetica non è infatti il vero tempo

della poesia, ma soltanto uno

dei

suoi momenti, segnato da intervalli e da ritorni, e soprattutto da un «prima» di cui non si può dare cronologia. Quanto

importa «dire, o almeno

accennare»,

afferma

Zanzotto, «resta quasi tutto ‘là’. Inaccessibile. Bisognerà partire da zero, ancora... O quasi da zero. Avere uno zero da cui partire!»8. La sottrazione, la copertura dell’origine,

vieta l’azzeramento dei tempi, il punto di partenza di una «sincronia» che accordi in un unico tempo vissuto e opera, così come esige anche sempre un ritorno, una rammemorazione, che configuri nell'opera un senso che si produce sempre a partire dallo «zero» o «quasi zero» del

suo inizio, della sua prima pagina. La presunta simultaneità dell’essere-vedere, questa

61 parvenza della totalità che si impone alla coniugazione percettiva del sé e del mondo, tema ripercorso senza sosta da Zanzotto, ha nella parola e nell’atto dello scrive-

re, nella permanenza temporale dello scritto nel suo complesso di rinvii, la riprova di una sottrazione di sé, di

una perdita o «divoramento» del sé che accede sempre di nuovo alla significazione e alla comunicazione. L’inabissamento

nell’essere-vedere,

nel mondo-occhio,

«bolla

fenomenica» e conglobazione gelatinosa di tutto nel tutto, è un movimento

che si rovescia nell’inevitabile «con-

gelamento», nel «cristallo» della parola e della scrittura. E questo il «tradimento» della parola, la sua vera menzogna, il suo trasformare ogni «ritorno» in un «poi», ogni recupero in una perdita. Il dispositivo di rinvio costituito dalle note, per il quale i tre libri vengono a costituire «momenti non cronologici di uno stesso lavoro», ci obbliga a rinunciare a gran parte dei procedimenti critici abituali, immettendo la lettura in un movimento che non può essere né garantito da un percorso vettorialmente orientato né risolto nella circolarità dei rinvii interni. Si tratta infatti di «tre» libri, che

costituiscono però «uno stesso lavoro», e dello ro comportano «momenti non cronologici». significhi quest’ultima espressione si può solo comprendere senza risolvere la sua ambiguità:

stesso lavoChe cosa tentare di ci sono dei

referenti temporali (momenti) che non costituiscono una

cronologia, che non sono riportabili al calendario.

Ma tutti questi momenti riferiscono a «uno stesso lavoro». Cosa significa qui «stesso»? Potremo formulare le ipotesi più spericolate, e forse non per questo meno concesse. Oppure possiamo di nuovo citare la dichiarazione che abbiamo già riportato: «Esiste come uno spostamento metonimico da un libro all’altro. Tali spostamenti, o meglio bilanciamenti, esistevano già dall’inizio, quando queste formazioni si articolarono quasi come tre rami non contigui di uno stesso albero. Rami da tagliare per poterli riconnettere; né si è ben certi della stessa esistenza dell’albero». Il lettore viene avvertito che l’ordine proposto dal singolo libro, e dal susseguirsi delle edizioni dei tre libri, non è l’ordine di composizione. E viene avvertito di una relazione di «spostamento metonimico» da un libro all’altro, spostamento pre-esistente, ovvero costitutivo del-

62

lo stesso «articolarsi» in «formazioni» del lavoro. «Rami non contigui di uno stesso albero», «da tagliare per poterli riconnettere», ed essi dovrebbero inverare quell’ «esistenza dell’albero» della quale non si è «ben certi». La tradizione delle immagini ci può forse aiutare? L'albero

della vita è una figura che si presenta abbastanza presto, dalla quale potremo veder rampollare dei-rami distanti tra loro, non esposti allo stesso punto cardinale. E questi rami, che hanno

il tronco in comune,

non

sarebbero

però «al loro posto», dovrebbero essere tagliati e riconnessi, forse con questo dovrebbero dare uno sviluppo più ordinato all’albero: questo lavoro però, la stessa necessità di questo lavoro, nasce da un dubbio sull’esistenza dell’albero, dubbio che esso non sia che una figurazione per poter dare senso a questi tre rami, che forse non sono neanche rami. Il decentramento

costante, l’incessante instabilità del

significato, per il quale dobbiamo ogni volta scommettere esponendoci, questa è forse l’unica traccia rilevante che possiamo seguire. Interminabile lettura del testo, interminabile ricerca di quale sia il volto della persona dell’autore che si sottrae, interminabile

autoanalisi di fronte

ai

segni che il testo ci presenta. Se, per mezzo del supplemento delle Note, si viene a costituire una situazione di conflitto tra il «testo» (0 «i testi») e il libro (e i libri), tale che diviene impossibile ricostruire un assetto stabile della funzione autoriale, dal-

le cui lacerazioni emergono altri e contrastanti rinvii a quella «persona dell’autore» che rimane pur sempre sol-

tanto sul versante più lontano di un’allusione, quale sarà l’ordine della lettura? Da dove cominciare, se non è detto

che la prima pagina del primo libro sia «l’inizio», se dichiaratamente l’inizio è l’articolazione di uno spostamento? E in quale direzione avvenga questo spostamento non è detto. Anzi,sembra improbabile che vi sia una sola direzione. Inficiando l'ordine cronologico di composizione e quindi l’impaginazione secondo il vettore della scrittura (elusa dalla moltiplicazione del libro), mettendo

così a

nudo e rendendo in larga misura inoperante la vocazione «genetica» del comprendere, ci si ritrova in una situazione nella quale vengono revocate in dubbio anche le possibilità dell’analisi stilistica e tematica. Infatti, quale cor-

63

relazione morfologica, quale connessione semantica instaurare tra delle parti così troppo spesso, e però con tratti di inequivocabile diversità, palesemente «gemelle»? Si tratterà di assumere nella lettura il conflitto tra i «testi» e i «libri», di farsene carico, accettando un lavoro

«strutturato da mille pointillés o incrinature entro cui s'apre il percorso delle letture, degli avvicinamenti».

Note 1 Attualmente in A. Zanzotto, Racconti e prose, Mondadori, Milano

1990 (già Sull'’Altopiano, Neri Pozza, Venezia 1964), pp. 114-115. Si legge, sempre a pag. 115: «E il vero giorno di una morte che avesse per me un senso (accenno a quella morte di cui si può scrivere e parlare qui in terra, da esseri umani, non l’altra innominabile tangente al nostro chiuso esistere, al corpo di cui questa è soltanto l’ombra),

il

vero mio giorno fatale sarebbe quello dell’inizio della lettura; e forse

il mio corpo avrebbe imparato a dissolversi insensibilmente nel corso della lettura stessa, estasiato da una progressiva, beata paralisi». 2 A. Zanzotto, «La luna sognata nei versi di Solmi», Corriere della

Sera, 13-1-1975. 3 A. Zanzotto, «Autoritratto», L’Approdo letterario, giugno 1977. 4 A. Zanzotto, «La luna sognata nei versi di Solmi», cit. 5 A. Zanzotto, «La lingua, il dio birbante», cit., cap. I n. 6.

6 A. Zanzotto, «Tentativi di esperienza poetica (poetiche-lampo)», il Verri, 1-2, 1987, p. 10. ? Intervento al congresso di Urbino su Ungaretti del 1979; in Atti del Convegno Internazionale su G. Ungaretti, Ed. 4 Venti, 1981. 8 G. Nuvoli, A. Zanzotto, cit., p. 14.

CAPITOLO QUARTO UN DIALOGO IN UNA LINGUA MORTA?

E possibile che insistere, come abbiamo fatto fin qui, su

aspetti che potrebbero essere definiti «interstiziali» della significazione testuale e para- ed extra-testuale, secondo un movimento pendolare che sembra allontanare, piuttosto che avvicinare, quanto è presente nella verbalità del dettato «in versi», lasci insorgere il dubbio di un risultato contrario rispetto a ciò che avevamo individuato come nucleo originario della tensione operante nell’attività della lettura, quell’esporsi all’incontro con la persona dell’autore nel riconoscimento del possibile luogo che accomuna nell’esistenza, al quale alludono i segni. La presenza dispiegata dei segni stessi sembra infatti di per sé un fatto più cogente di qualsiasi argomento: alla fine è comunque con quelli che dovremo fare i conti. Si parla di «avvicinamento», però, proprio perché questa presenza si sottrae a una immediata com-prensione. Anzi, in maggiore sintonia con quanto era in discussione, si impone l’uso del plurale «avvicinamenti», a sug-

gerire un procedere che si inoltra e ritorna al suo punto di partenza, e sottintende il movimento degli Holwege di Heidegger! — sotto diversi aspetti intersecanti certi tracciati dell’opera zanzottiana — ma che da questi differiscono per un costante «spostamento» («metonimico»?) del «punto di partenza» (e, suggerirebbe probabilmente Zanzotto, dello stesso «bosco»). A una lettura che trascuri di

distinguere le diverse vie di accesso al senso e le diverse configurazioni, sempre al limite della dissolvenza, che esso viene ad assumere

difficile rinunciare a pre, o quasi sempre, Difficile rinunciare a un sistema autonomo

nella tessitura dei rinvii, riuscirà

mettere in gioco i presupposti semtaciuti dell'analisi tematico-stilistica. trarre dal dettato verbale dei «versi» o compatto di motivazioni formali,

come anche rinunciare a derivare dall'ordine «progressi-

66 vo» dei componimenti e dei libri una «storia» delle intenzioni e dei risultati. Con questo non si intende affatto proclamare l’ovvio, scoprendo la fallibilità, del resto comune a ogni pratica interpretativa, dell’analisi stilistica o tematica, né propugnare alcuna facile alternativa. Al contrario, proprio a partire dalla necessità di connettere il dettato verbale a una vicenda del senso, che alla fine

approda sempre a un ordine temporale di sviluppo, si tratta di prestare adeguata attenzione a tutti gli aspetti della retorica della comunicazione, anche a quelli che a

volte rimangono in ombra, con la consapevolezza che qualsiasi riflessione di ordine generale ha validità soltanto nella prospettiva di una maggiore intelligenza del fatto particolare. Se trascuriamo il lavoro di dissimulazione e di ricomposizione riferito dalle Note, soprattutto se trascuriamo di elaborarne il senso, la «trilogia» si presenta alla lettura come un susseguirsi di tappe, ordinate tra loro (e nei confronti delle opere precedenti) secondo un andamento progressivo, per il quale nell’una sì trovano i presupposti dell’immediatamente prossima e in quest’ultima quelli della successiva. Avremmo così non solo, per chi è lettore non occasionale di Zanzotto, considerevoli

difficoltà a

comprendere il senso delle singole operazioni (nelle diverse «sezioni» dei libri), ma soprattutto risultanze latamente difformi e unificabili soltanto per via di semplificazione. Si rischia, in altre parole, di ricorrere agli esiti ultimi (in ordine di presentazione nella successione dei libri) per individuarvi il maturare di un’intenzione via via più presente a se stessa, e, atteggiamento non meno fuorviante, di desumere un senso complessivo dalla campionatura di quegli aspetti che più immediatamente differi-

scono dal dettato verbale delle opere precedenti. Ovvero, da una parte l’instabilità formale, l’elusività referenziale che sembra intaccare anche i risultati già messi al sicuro dalle opere precedenti, l’esibizione di una raffinatissima abilità artigianale, conducono a una definizione della poesia zanzottiana in termini di sganciamento dai problemi «storici» della comunicazione, e suggeriscono categorie quali «orfismo» o «manierismo»?; dall’altra la presenza di microstrutture organizzate secondo moduli più vicini a quelli della comunicazione «normale» nella

disposizione della sintassi, induce a rilevare una specie di

67 «ritorno» alla funzione argomentativa o narrativa, con conseguente opzione sull’intero lavoro per un orientamento

verso l’immediatezza

dell’«affabilità»,

o forse

anche «popolarità» del dire. Dal punto di vista dell’equilibrio qualitativo e quantitativo troviamo nella presenza del dialetto il punto di riferimento più specifico per questo secondo tipo di interpretazioni (sul primo torneremo in Gia seguito). Fosfeni diventa in questo caso il medium comparationis per traguardare l’intero lavoro, data la presenza di un’alta percentuale di passi nei quali è quasi irrilevante il tasso di infrazione della cosiddetta «normalità» della comunicazione, e date le affinità con la «successiva»

sezione in dialetto di /dioma, che sembra rivolgersi al let-

tore sul piano della più immediata colloquialità?. Leggiamo alcuni giudizi: Sembra che Zanzotto abbia riservato a questo momento «finale» — si sta parlando del passaggio Fosfeni/Idioma — i testi di più serena riflessione, di più aperta comunicatività,

di più distesa musicalità, anche se non manca, qua e là, quel lussureggiare incontrollato di immagini che aveva caratterizzato i volumi precedenti. C'è il dialetto, è vero, a

frapporre una barriera fra noi e gran parte di quei versi, ma il dialetto non è in Zanzotto all’insegna di una ricerca filologicamente

«preziosa», e rappresenta piuttosto e vera-

mente il legame con la sua terra e la sua gente, un'origine popolare che gli studi e la letteratura non hanno fatto

dimenticare*. Una spicciola e proficua spigolatura formale sottolinea subito la presenza,

per esempio,

minuziosa dei vincoli

grammaticali — quasi nello stesso grado che in Filò —, senza omissione di snodi ipotattici (si noti soltanto la dirittura sintattica del primo ineccepibile periodo, rifinito di punteggiatura analitica e di incisi). Certe scelte costruttive e verbali assolvono poi il compito di dar resoconti puntuali,

di definire e circostanziare

l’allocuzione

(l’impiego del

«come», l’insistenza di verbi relativizzanti, quali «parere», «sembrare»).

Altro indizio di tale ratio argomentante,

con barlumi

fors’anche «dialettici», rinveniamo appunto nella dialessi temporale sul filo della memoria, e nell’oscillazione dialo-

gica dell’appello iterato agli scomparsi, del legame che con loro si sdipana e si addipana da parte dell’io scrivente?.

68

Il fatto che quest’ultimo stralcio sia un commentoa una poesia in «lingua» di Fosfeni (Verso il 25 aprile) non è sufficiente per depistare l’avvio argomentativo: F/ò si presenta infatti come il referente più qualificato; come anche è comune al dialetto di /dioma «l'appello iterato agli scomparsi», e, a conclusione dell’intervento, sì giungerà a «constatare una tendenza comune» dei testi in «lingua» € in dialetto «le cui motivazioni e origini travalicano la contingenza dei singoli testi isolati». Ci sono alcuni aspetti che forse non andrebbero liquidati così di passaggio. Prima di tutto la consistenza di quella «barriera» del dialetto che Esposito, dopo averla giustamente notata, elimina argomentando che non si tratta di «ricerca filologicamente ‘preziosa’», posto che sia un argomento e posto che sia vero. Il secondo riguar-

da invece la legittimità dell’esemplificazione, sostenendo vicendevolmente «lingua» e dialetto, riferiti al comune denominatore di una medesima operazione di fondo nell’ordine stilistico e, alla fine, tematico.

Sarebbe poco corretto non tenere conto del momento e degli stimoli che hanno informato questi interventi,

come anche del loro collocarsi dichiaratamente in una. situazione di impegno particolare, quella della «rassegna» o «recensione», che per forza di cose costringe l'interprete a pronunciarsi entro tempi.e spazi tali da preformare in misura considerevole quanto sarà detto. Piuttosto conviene ammettere che essi, entro le costrizio-

ni del «genere», e proprio in ragione di queste, riflettono in modo indicativo le perplessità e le ipotesi tentative del lettore «attrezzato» (come si sente talvolta dire) di fronte

alla necessità di definire un itinerario di lettura. Forse è preferibile prima di azzardare una diversa interpretazione, partire proprio da quelle esitazioni della lettura che ci costringono ad aggiungere al testo delle motivazioni non

immediatamente

giustificate dallo stesso, tra le

quali vi sono quelle concernenti, nel caso della «trilogia», la presenza del dialetto e, in particolare, quel registro «evocativo» 0 «popolare» che lo caratterizza in gran parte.

«Partire» può significare allora dover compiere qualche passo indietro e qualche eventuale «spostamento». L’accesso del dialetto veneto

(nelle sue varianti di

veneto urbano e parlata locale del paese nativo) all’interno della poesia di Zanzotto comporta la definizione di

69

una cifra funzionale particolare, anomala rispetto al ruolo storicamente attestato delle lingue diverse dalla tradizione del toscano letterario”. Non è possibile infatti ricon-

durre gli esiti di questa operazione a una funzione espressiva, cioè di arricchimento e vitalizzazione della lin-

gua, né a una funzione «mimetica» finalizzata a certi effetti di realismo, né tantomeno

a quella di alternativa

rispetto alla lingua ufficiale e letteraria. Gli elementi di peculiarità più riconoscibili si presentano alla riflessione al momento stesso del costituirsi di una sede specifica di condensamento — tracce di intenzioni e disseminazioni lessicali o sintattiche non mancano in precedenza — cioè all'altezza di Filo. E noto l’avvio, o almeno l’occasione di avvio — la poesia viene sempre da più lontano — nella richiesta di collaborazione da parte di F. Fellini per il suo film Casanova, e abbiamo «documenti», dai quali è difficile prescindere, che da un lato rendono gustoso il ragionare sul «pretesto», dall’altro lo includono in un movimento di poetica in costituzione e forse anche in via di autocomprensione. Ci riferiamo qui all'edizione romana, dove viene enfatizzato il medesimo

dissidio già presente nella veneziana,

così prodiga di «soglie», di «riquadri» entro i quali poter situare i testi, i gruppi di versi non riconducibili a uno stesso tema o a uno stesso «lavoro», così fitta di note qua-

si a tradire la preoccupazione che tutto quanto possa essere frainteso?. Forse è proprio all'altezza di Filò, e a motivo della difficoltà di dar conto dell’«uso» del dialetto, che diventa operante nella sua complessità l’articolazione del testo e del paratesto entro la dimensione del libro. Non è possibile comprendere il senso del lavoro di Zanzotto se in questo caso si trascurano i margini entro i quali si intesse. Lo ha ben notato S. Agosti, in un intervento di assoluto rilievo, dal quale riesce correttamente impostata e rettificata la vulgata secondo la quale, colpevole in parte Zanzotto stesso (ma felix culpa nel tracciare un indirizzo di lettura non appiattito sulla tradizione dialettale), la funzione del dialetto sia da interpretare come «discesa alle madri» o recupero di uno strato inferiore dell’espressione non intaccato dall’autocoscienza linguistica e dai suoi inganni: una lingua pregrammaticale o materna, capace di rifluire verso uno stato edenico di pura espressività. Chiaro il giudizio di Agosti:

70 Le attribuzioni che, in termini di obiettività, Zanzotto avanza nei riguardi del dialetto, dicono semplicemente le difficoltà del soggetto di assumere in proprio, rovesciata nel

segno positivo, la situazione storicamente ed espressiva-

mente aberrante, di cui il dialetto, ogni dialetto, dà testi-

monianza. In definitiva dicono che quella è la vera, angosciosa difficoltà del soggetto: la difficoltà della sua discesa alle madri?.

Giudizio che è giustificato da un’attenta lettura delle istanze autoriali assunte nelle diverse parti che compongono il libro, dalla quale emerge il dissidio tra l’articolazione del dialetto più nativo e più arcaico (fino al «più profondo» della dissolvenza di ogni «regola», e all’equivalenza di gesto ed espressione) e la sua strutturazione in forme dotte e intellettualmente estranee all’ambito del suo «uso», Il tracciato del senso perviene a un esito antinomico: risulterebbe infatti vietato a quello stesso «soggetto» che lo produce. Ovverosia la lingua «materna», pre-grammaticale, può affacciarsi con diritto di parola nei confronti della storia (e della letteratura) solo qualo-

ra abbia cosciente funzione critica, come appello a un «fuori» e un «oltre» rispetto all’irrigidimento del simbolico, e il suo conformarsi all’utilizzo, in cui sembra consu-

marsi anche il tentativo «in lingua» di approdare a una

attestazione della propria identità. In caso contrario, nel caso cioè che questa fosse l’unico patrimonio linguistico, sarebbe non tanto l’indice di un dimorare nell’autenticità di un presunto «originario», quanto piuttosto il confine dell’esclusione della stessa possibilità di pervenire a una critica dell’inautentico. La «diglossia», nella riflessione zanzottiana, offre al parlante l’intuizione del discrimine tra un'attività (e una passività) della significazione nella quale sono operanti, e celate, le forze del dominio cul-

turale e un’altra condizione nella parola, più fragile e subordinata a condizionamenti, fino al punto di non aver

ben certa la propria definizione, ma dalla quale riverbera un barlume di innocenza. Nel dialetto più arcaico, quello sedimentato nell’infanzia del parlante, e di un parlante «diglossico» quale è Zanzotto stesso, permane ancora non percepibile il contrasto tra immotivazione e motivazione del segno linguistico, nel senso illustrato da Benveniste, ed egli accoglie la parola come un «dono», un «primo mistero» che si sottrae a ulte-

TA

riori analisi, allusione fatta presente a un’espressione in cui dire e detto si identificano. Ma Zanzotto è altresì con-

sapevole che questa vicinanza «mitica» della lingua può darsi solo nella situazione in cui si abbia la presenza autoritaria di una lingua ufficiale e «monumentale», solo cioè in situazione di «diglossia», ed eventualmente più apprezzabile quanto maggiore è il grado di «coscienza» sul fronte della lingua (o lingue) della circolazione della cultura ufficiale!. L’equivoco sarebbe quello di individuare nel dialetto il traguardo raggiunto di una riconquista del dire edenico, l’identificazione di un luogo certo e autonomo nel quale il dire si sottrae alla logica dell’espropriazione del senso nella comunicazione. Il petél della Beltà già indicava una condizione precisa: l’adulto mima l’espressione infantile, nella quale il bimbo invece semplicemente «si trova», e a quella rinvia come canzonatura o desiderio di portarsi nella medesima situazione; situazione però dalla quale, se non come

deformazione

mimetica, e grottesca,

l’adulto è irrimediabilmente escluso. In Filò dunque la presenza di un dettato «elementa-

re», al livello della lingua più lontano dalla storicità della comunicazione, e corrispondente alla situazione «fuori dalla storia» del «soggetto» enunciante, è subordinata a un lavoro di formalizzazione che lo rende operante come riverbero o barlume, come allusione, all’interno di consi-

stenti e non cancellabili virgolette. Solo così, solo «tra virgolette», inabissato dentro un processo formale che non può evitare di rimarcarne l’impraticabilità, il dialetto

assume il compito di evocare e di consegnare alla memoria della scrittura una figura del dire altrimenti deprivata, sul piano storico, del diritto di parola. E allo stesso tempo si ottiene quasi l’icona di una condizione storica nella quale viene a trovarsi virgolettata, in una pluralità stratificata di «dizioni», la stessa comprensione di sé, l’atto di parola che espone il sé agli altri, la proprietà del «soggetto» del proprio discorso. La continuità sintattica del discorso, la sua semantica per lunghi passaggi così esplicita, non è l’istanza prima dell’«io» che in esso si designa: per comprenderne il senso dobbiamo tener conto della distanza che l’autore interpone tra sé come «soggetto» da cui proviene l’intera operazione e il sé che assume il dialetto come lingua, anzi, come una delle lingue in cui questa perviene a compimento.

72 Non solo vi sono «lingue» diverse sorvegliatamente poste in configurazioni di discorso, con vera e propria attenzione e «invenzione» filologica, ma spesso queste si muovono entro universi discorsivi a loro estranei: un parlante il solo dialetto (quelli che ci sono ancora) troverebbe incomprensibile quanto è detto nella «sua» lingua, e, al limite conseguente, un vero utente del solo dialetto, e non in qualche misura comunque «diglossico» (se ce ne fossero) non avrebbe accesso neppure alla soglia di alfabetizzazione necessaria per l’atto stesso del leggere. Ma c’è un altro elemento componente l’assetto funzionale del testo, del quale fino a questo momento non abbiamo volutamente parlato: la traduzione in «lingua». Traduzione

che ha altre «traduzioni»

nelle note, dove

non solo si passa dal dialetto alla «lingua» ma con un movimento magistrale si ritorna dalla «lingua» a un dialetto risignificato e fatto materia del significare, allo stesso tempo «stretto» e «ponte», «istmo» che raggiunge quasi l’altra sponda, tra due terre che si dividono,

diventano

visibili da un crinale che ormai non appartiene interamente a nessuna delle due. Il dialetto allora è la guida di un movimento «sentito come venente di là dove non è scrittura (quella che ha solo migliaia di anni) né ‘grammatica’: luogo, allora, di un logos che resta sempre ‘erchòmenos’, che mai si raggela in un taglio di evento, che rimane ‘quasi’ infante pur nel suo dirsi, che è lontano da ogni trono»?!. Ma che non può operare da solo questo movimento, anzi significherebbe metterlo in una «riserva»!?, presidiato da una lingua che sempre più si irrigidisce in forme depauperate, banali gettoni dell’in-formazione

che non

è comunicazione.

Dunque,

perché il

dialetto sia veramente una risorsa, bisogna che entri in collisione con la «lingua», in un rapporto di interrogazione reciproca, così da riaprire la ferita cauterizzata del dire «bocca a bocca» con la ferita sempre aperta dell’esistere. Non c’è traduzione «da una lingua all’altra» ma l’ininterrotto esplorare i punti di sovrapposizione e lacerazione del «soggetto» nel richiamo antinomico di due universi del dire che non si separano mai veramente, né mai definiscono veramente, lungo l’asse diacronico e nelle

stratificazioni del sociale e della cultura, un versante comune. Piuttosto mettono in crisi l’identità di «lingua» delle espressioni con le quali quotidianamente comuni-

13 chiamo, costringendoci a chiedere seriamente a noi stessi quale lingua sia la «nostra», cosa sia, nell’attualità presente, condividere una «lingua». A questo punto però, e con ragione, un lettore della «trilogia» potrebbe obiettare che, in /dioma, se pure dentro una struttura sempre complessa d’impaginazione del testo, troviamo

una tonalità diversa, una costruzione

grammaticale e un lessico perfettamente intonati all’uni-

verso di senso che esprimono. Il dialetto qui sembra ottemperare a istanze diverse, calato dentro una disposizione mentale differente da quella che avevamo finora rilevato, alla quale partecipa invece il Galateo in Bosco con le sue commistioni

lessicali, citazioni, vere o artefatte,

incomplete e «tagliate», riscritte dentro la cornice di altre citazioni, così che nessun

«io» del discorso risulti esente

da contaminazione, né possa dire «sua propria» alcuna lingua, ma senza per questo cessare di rivendicare la sua unica certezza: un’appartenenza al linguaggio indicibile

nei termini dell’opposizione tra segno e significato. Nel dialetto di /dioma sembra che l’«io» enunciante sia pervenuto a un «tu» non insidiato da altre presenze, a un dialogo fraterno che scorre fluente, adagiato

nell’inflessione «materna» di una lingua che è sicuro possesso, e possa finalmente «dire» senza trovarsi espropriato nel «detto». /dioma però non è così distante dal Galateo in Bosco come potrebbero suggerire i tempi di edizione e la divisione dei testi in «trilogia»: è un argomento sul quale abbiamo insistito. Della Casa apre il suo Galateo istituendo la figura di un narratore che presenta «sotto la persona d’un vecchio idiota ammaestrante un suo giovanetto»!3. E il «lemma

‘idiozia’» compare nelle Note a commento del titolo del terzo volume della «trilogia» come «polo opposto della chiusura nella particolarità» rispetto alla «pienezza del parlare nascente e incoercibile come singolarissima fioritura»!4. C'è un legame che va interrogato tra la funzionegalateo, tentativo di elaborare i codici di un agire e di un significare violati dalla storia — e tentativo quindi di «riparazione»,

e di riscatto delle vite risucchiate

dalla storia

senza che le norme dell’agire e del significare attuali ne conservino testimonianza — e il ricorrente balenare di figure umane che trovano la loro storicità più propria nell’appartenenza a un comune dialetto. Il condividere

TA un «idioma», e quindi la possibilità di un dialogo più intimo, anche se insidiato dal pericolo di un eccesso di «particolarità», ricompone un mondo di senso nel quale il passato trova una collocazione non falsata dalle interpretazioni che lo guadagnano al presente, un presente vissuto sempre di più come estraneità nei confronti della storia. Il prezzo di questo «idioma», di questa «lingua comune», è però dover riconoscere l'impossibilità di recuperare nel presente la sostanza affettiva ed etica del dialogo con il passato. L’età che trascorre non porta a un consolidamento di confini entro i quali possa dimorare un «io» pervenuto al senso della propria identità, non c’è sosta alla «fioritura» della lingua come non c’è ricomposizione della ferita dell’esistenza, solo il cristallizzarsi di certe

schegge espressive, solo l’irregolare presenza di alcune cicatrizzazioni o mal eseguiti punti di sutura. Si rende prefigurabile così un settentrione, piuttosto che un occaso, nel quale «sfuma» il significare verso luoghi indistinti, confusi con i limiti estremi del paesaggio, dove il visibilevivibile approda a una sorta di perdita di futuro, a una vicinanza al congelamento che si presenta però ancora allo stato gelatinoso, a una assenza del tramonto nel proprio orizzonte esistenziale. Il trascorrere dell’età non dà luce a quelle zone d’ombra dell’esistenza che potevano in precedenza giustificarsi come la fase di passaggio a una maggiore conoscenza di sé, la metafora naturalistica che stringe l’analogia tra la vita e il giorno non è praticabile, non giunge alcuna luce del tramonto ad avvolgere in una

tonalità diffusa il riappaesamento dell’«io» accecato dal troppo c troppo poco vedere, c’è soltanto l’agglutinarsi della luce in una maggiore densità, c'è un prossimo farsi

vetro della luce che non avviene ancora. Il configurarsi di questa assenza di tramonto, della privazione di una verità «romanzesca» coincidente con la conoscenza dell’«intreccio» nel quale è intessuta la propria vita, poiché l’intreccio deve sempre ancora giungere al punto in cui è certo l’intero senso del «racconto di sé», mantiene

l’«io» in uno

stato di ignoranza

che, se lo

costringe a continuare il «racconto di sé», a rinnovare sempre da capo l’affabulazione-fabulazione nella quale

perviene a una identità, gli consegna il «sapere» della propria esistenza come «particolarità», «idiozia», significazione che rimane salva soltanto nel passato, nell'alveo

75 del suo dire non traducibile in attuale comunicazione. «Idiozia» che è quindi un sapere che rimane

chiuso, e

così non contaminato, nella sua «fioritura» originaria di parola, la quale è a sua volta però particolarità estrema, e

di conseguenza un non-sapere. In Idiomail dialetto che svolge la tematica dell’ubi sunt presenta, a chi lo legga accortamente, delle caratteristiche non familiari al frequentatore dei testi zanzottiani. Può dare addirittura l’impressione di una improvvisa e ingiustificata «conversione» a quel lavoro di recupero della parlata «di una volta» in un’atmosfera tutta buoni sentimenti e trepidazioni e allusioni a.«come si stava bene quando si stava peggio», frequente nella poesia dialettale, e condannata da Zanzotto stesso come istituzione di una «riserva» dove confinare le lingue minori, escludendole

ancora di più dalla comunicazione nella quale già hanno difficile sopravvivenza. Impressione che verrebbe confermata e dalla sintonia di quell’universo di senso con le figure designate nel discorso, nei confronti delle quali un vero e proprio «io narrante» si impegna come testimone, e ancora di più dalla omogeneità medio-arcaica del dettato. Vengono infatti sorvegliati, ed estromessi, quegli elementi di instabilità propri del dialetto operante nelle sfera della diglossia, secondo le ragioni e le modalità che avevamo già analizzato, sia nella verticale arcaicità che in altra sede veniva a incistarsi nell’etimo vero o suggestivamente inverato, sia nella fagocitazione di strutture sintattiche e di formazioni lessicali appartenenti ad altri contesti linguistici e culturali. C'è però, a difenderci dal trarre frettolose conseguenze da queste osservazioni, l’intera tessitura dei rinvii della

«trilogia», che assegna a questi versi un senso nell’incontro, per vie che travalicano i confini della pagina, di «ogni diffrazione etimologica e oltre» della parola «idioma»: questo discorso, l’atto di parola di questo «io narrante»,

si svolge fuori dal circuito della comunicazione

attuale, non avviene in una lingua che possa essere «usata». Chiuso dentro la sua «idiozia», la sua particolarità ed estraneità dal presente, evoca un dialogo che «fiorisce» nella loro lingua, nella lingua degli scomparsi, nel loro tempo, in quello stesso tempo che era anche il tempo dell’ «io narrante», che può essere salvato, come un fiore

secco tra le pagine di un libro, ma non mai diventare un

76 fiore presente. Nessuno può riconoscersi in questa lingua come

«parlante», bensì come

chi «ha parlato», in dialo-

go, in perfetta, perfetta cioè passata, comunanza nell’alveo esistenziale in cui quella/questa lingua «fioriva». Solo così ci può essere un comunicare non profanato e non profanabile, un luogo sacer della parola in cui riconoscersi, se non come parlante, come appartenente a una terra della parola in cui incontrare gli altri. Altri che hanno e danno senso, che possono offrire un’identità della parola, anche se non rispondono, ormai «comunicanti» in un tempo assoluto, in quei luoghi incavernati della memoria, o forse, meglio, dell’oblio, dove si invera il presuppo-

sto fondamentale di ogni ricerca del significato della parola «idioma»: non si comunica con la lingua, ma nella

lingua!5.

Per questo motivo, con tutto antinomico rispetto che avevano caratterizzato dialetto, una riga laconica

un gesto apparentemente del alle traduzioni e ritraduzioni il rapporto di Zanzotto con il conclude la Nota ortografica per

i testi dialettali, una riga che inizia un altro discorso, e non

ha nulla a che fare con l’ortografia: I testi dialettali sono soltanto approssimativamente

trascrit-

ti in italiano!9,

Nelle figure di tanti «vecchi idioti», nel senso incontrato nel Galateo dellacasiano, in Fosfeni, appaesati in «propizi ma inaccessibili ‘là’», in una particolarità che estromette dalla storia e incapsula nel freddo-vetro, nel gel-gelo di un balbettante coappartenersi nel taglio di quell’infinito cristallo in che/ novembre osa sempre divaricarsi e poi dopo embri-

carsi/avido cristallo/assassinante cristallo!?, al quale essi però sì sottraggono in grazia di un non-sapere, di un mezzosogno da nulla congiunti, che non dà loro profilo, non accoglie la loro immagine e non la imprigiona; in questi non-personaggi, casuali e «asignificanti» abitatori del tempo ai quali non si può dare nome o volto certo, si

delinea la possibilità di un parlare che proprio nel suo «dire niente», nel suo rinunciare a ridurre il dire al solo

significato del detto, sì situa in un luogo «impossibile», sfuggente l’autofagia del «soggetto del discorso», che cresce su se stesso o si innalza accumulando neve-pagine. Il parlare è infatti «taglio» nel silenzio dell’accadere,

er taglio segreto, che diventa visibile, pensabile, e diventa «discorso» congelandosi, rapprendendosi in una scrittura di vetro, la quale produce infinite rifrazioni e diffrazioni della «luce» che la parola porta nel discorso. Il «fiorire» della parola è quindi sempre sottrazione alla «vista», alla coscienza del parlante come

«soggetto del discorso», di

quel «fiore» nato e strappato alla gola, che per un istante «impensabile» è «tutt'uno» con la più muta presenza, e la accoglie, la «dice» in una consonanza che è anche violenza immediata e cieca nella separazione dall’alveo della pronuncia e nel tesaurizzarsi nel vetro del «detto». L’oro, che non è né sfondo né fondamento, ma oro di

icona al quale il viola-violenza della parola ritorna come a un nido troppo lontano per essere nostro (eppure nulla è più nido) si tesaurizza ai margini del silenzio Dove si forma l’intorno e s'acclima/ad altri sottili doveri e diritti, formando

un greto cui vitreocupo s'avvena quanto v'è d’acqua - ed è tanto

Orientata da folli fierezze e deficienze e cupi idiomi precipitata entro l’idioma

a moltiplicarne le spine e i ghiaccioli 8.

Così non vi è idioma presente che si possa esimere dallo spossessamento e dalla risignificazione del «soggetto del discorso», come il passato non è recuperabile nell’intimo della sua «fioritura» per mezzo di alcun discorso «comunicabile», il suo «là» non è qualcosa che si possa riavere senza «dissezionarlo», e il banchetto con il quale si celebra il rimpatrio in una data, nel segreto di una data, si può raccontare solo all’imperfetto indicativo, tempo dell’affabulazione e dell’invenzione della fabula, per dire addio alla nostrezza/nostra solo perché passata". Il dono della parola, «la pienezza del parlare nascente», è qualcosa che noi non

«possediamo»,

anche

se è

però qualcosa di cui «facciamo parte» interamente, in un senso così ampio da accogliere lo stesso pensiero che vorrebbe comprendere questa appartenenza. L'errore sarebbe allora confondere qualsiasi momento, qualsiasi atto che «taglia» il tempo e in esso si «congela», con il luogo in cui il fiorire della parola si dà interamente. La gola, il

78 corpo, l’«idioma» non sono questo luogo, non più di quanto lo sia il «gelo» ispessito dalla più meditata scrittu-

ra. DIFFIDARE GOLA, CORPO, MOVIMENTI,

TEATRO?

ancora una volta, indefinite volte, per impennate e sprofondamenti, insiste sull’intransitabilità del versante verticale in cui la persona che parla sì espone come soggetto del discorso, corpo significato, in diffrazione nella vocalità, la quale è pur sempre «scrittura». Uno stesso albero e tre alberi, un tri-albero, della cui crescita non si

può dare disegno, sul quale non si può costruire alcuna

teoria, neppure della tri-alberità. Neppure una vera e propria trilogia. Sono sempre troppe le lontananze da cui proviene ciò che è vicino, fosse anche il mio-proprio di cui ho maggiore certezza: il mio corpo. C'è però forse un gesto, una figura dell’agire che può celebrare la lontananza. Nell’ «idioma», a patto di accettare la sua presenza tra le pagine del libro non come uno sbocciare, ma come un fiore secco, nel dia-

letto nel quale parlando e nulla o quasi nulla significando avrebbero capito la loro reciproca appartenenza, i personaggi del passato convengono, non qui né là, in un luogo inabissato dentro la scrittura, a colloquio. Colloquio nel quale essi non parlano, né si parla una lingua presente, ma, estremo omaggio, si costruisce il monumento, la lapide, il sigillo tardivo, si istituisce quel lutto non ancora celebrato in un presente nel quale non sembra esserci più posto per il lutto.

Note

Mi Heidegger, Sentieri interrotti, cit. ? Forse contribuisce a questa lettura un certo effetto ipnotico che proviene dal gioco di mise en abîme nell’architettura dei libri: la parte in dialetto che appare la più orientata a un'immediata comunicazione è, in Idioma, incassata centralmente rispetto alle sezioni che dividono il

libro, posizioni che Fosfeni assume rispetto all’intera trilogia. Potremo dire che, nel «trittico» che compone la trilogia, Fosfenî sta agli altri tre libri come la sezione dialettale sta alle tre suddivisioni di Idioma. È in questo gioco di inabissamento, di ri-inscrizione, che Fosfeni (e Andar a cucire) vanno letti, come ciò che non si situa su uno stesso piano di discorso ma vi è inscritto, incorniciato centralmente: una specie di «volta» rovesciata che sorregge (ma anche il verbo andrebbe «rovesciato») un fondo di comunanza non immediatamente attingibile.

79 3 Cfr. P. V. Mengaldo, «Appunti tipologici», Sigma, 2-3, 1983, piola

4 E. Esposito, «La musica perduta», Belfagor, a. xLII, 31-1-1987, Pal12:

«Funzioni» del dialetto nella tradizione italiana individuate da S. Agosti, «Diglossia e poesia. L'esperimento di ‘Filò’ di A. Zanzotto»,

Il piccolo Hans, 15, luglio-settembre 1977. 8 Le tre edizioni di Filò sono menzionate nelle note al cap. II. ° S. Agosti, «Diglossia e poesia...», cit. p. 62. 10 Cfr. la Nota aî testi proposta a Filò, cit. Per il petd, uno dei primi «esperimenti» zanzottiani legati al dialetto, giusta la considerazione di S. Agosti, «Diglossia e poesia...», cit., p. 63, risulta essenziale individuarne esattamente la funzione nel testo, che è quella di indicare verso una realtà della lingua, non di incarnarla. Si legge — da notare il condizionale — in nota a La Beltà, p. 112: «Nello stesso dialetto si dice ‘petél’ la lingua vezzeggiativa con cui le mamme si rivolgono ai bambini piccoli, e che vorrebbe coincidere con quella in cui si esprimono gli stessi (è l'‘Ammensprache’ dei linguisti). Il vocabolo copre appunto tutti e due i significati ed ha anche un certo valore dispregiativo». 1l Nota ai testi, in Filò, cit.

3° I08, cevCit: 18 «... si ragiona de’ modi che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione...». Nella prefazione all’edizione Einaudi (Torino 1975), R. Romano colloca precisamente l’«educazione», che è il fine del Galateo, sotto il segno della «dissimulazione onesta»,

citando il fortunato sintagma che intitola un’opera composta sulla medesima linea, ovvero dell’«ipocrisia» e del controllo dei comportamenti per mezzo della colpevolizzazione sociale. 14 Idioma, cit., p. 113. 15 W. Benjamin ha scritto in proposito pagine significative: «Il compito del traduttore» e «Sulla lingua», in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, pp. 39-52 e 53-70 (tit. or. Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1955). 16 Idioma, cit., p. 119. E, ulteriore rilancio per la riflessione, la

sezione Mistieròi, di quei testi «solo approssimativamente trascritti in italiano», trova nella finissima traduzione in friulano di A. Giacomini

una non occasionale possibilità di incontro «nella lingua». A. Zanzotto/A. Giacomini,

Mistierdi/Mistirùs, Scheiwiller, Milano

1984, con

postfazione di D. M. Turoldo. 17 SOPRAMMOBILIE GEL, in Fosfeni, p. 51; e, più oltre, TAVOLI,

GIORNALI, ALBA PRATALIA. 18 (ANTICICLONI, INVERNI), in Fosfeni, p. 61. 19 (Carillons), in Fosfeni, p. 32. 20 In Fosfeni, p. 37 e sgg. Ch M. eJ. M. L., menzionati a p. 38, sono Ch. Matz e J. MacLow: «... in questi anni si è avuta una radicalizzazione del còté fonico della poesia, ridotta quasi a modulazioni, vocalizzazioni, per non dire mugolii (ma in certi casi, specialmente quelli degli americani Ch. Matz e J. MacLow, con risultati di sconcer-

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CAPITOLO QUINTO

LA DATA SI SOTTRAE AL CALENDARIO

Nel ricostruire una lettura che ci ha portato a situare in un orizzonte di senso, a nostro avviso più consono alla complessità della «trilogia», i testi in dialetto di Idioma, e

a suggerire una loro funzione intimamente contraddittoria rispetto all’apparente «comunicatività» del dettato, abbiamo attraversato alcuni luoghi tematici ricchi di echi e di risonanze. Ognuno di questi interseca il problema della parola e della lingua, a vari livelli e secondo diverse occorrenze, ritornando incessantemente, e ogni volta spostando il punto di partenza, al movimento che allude alla comunanza e all’estraneità dell’appartenenza alla parola. Analisi e autoanalisi, dissacrazione e salto «in vetta»,

esposizione sul limite dell’espressività, reinscrivono il «soggetto del discorso» sempre di nuovo in un sistema, magari in neoformazione, dal quale la pronuncia della propria identità risulta fratta, corrosa, falsificata, secondo la linea del Galateo in Bosco, anche quando il lavoro di

mettere a nudo e crudo giunge a compimento. Rimane un corpiciattolo strano e durissimo/con miliardi di acuzie/di ogni guisa penetranza sadizie divizia, una statuina miliardaria,

pronta a far saltare il bisturi, a distruggere ogni strumento di analisi e autocoscienza, pronta a trasformarsi da inerte

e orribilmente immobile e morta in qualcosa che deve fare da mordacchia: Lei, mordacchia signora di tutta la realtà... Non si tratta di un esito «storico» nella lingua, non almeno nei termini di una sua possibile risoluzione nella storia, è un dato, cosa mia, mia deprecata scelta/scoperta, orrido vanto!, «mia» che equivale a «di tutti», mordacchia

perché si sente in bocca, perché disturba un «altro» parlare che è presentito, ma che non può essere «parlato», non può confluire nel «detto», poiché con questa mordacchia inesorabilmente si è costretti a parlare «tutta la

82 realtà». Mordacchia che Nessuna chimica nessuna logica nessuna pentecoste la dissolverà?. 1 Eppure il presentire un’altra lingua, un parlare nativo e più proprio, il «mio-proprio» del parlare segretamente «tutt'uno» con la data, la ferita aperta dal «taglio» temporale, non permette di sottrarsi al compito di cogliere quei «punti roventi», quei luoghi in cui lo scatenamento di una forza, sotterranea rispetto al livello semantico analiz-

zabile della lingua, produce un senso più vasto del proprio particolare enunciato, un senso al quale è impossibile accedere?, ma che ci porta su un orlo, una cuspide o angolo, proprio «quasi» dove il dire e l’essere si rivelano/nascondono. Ben sapendo però che questa «vista» si ritrae nel cuore insondabile del dire, e che nessun «detto» potrà ripetere l’evento,

sarà solo testimonianza

cristallizzata

dell’inafferrabile ripetizione che produce indefinito «spostamento». . Zanzotto ha accettato di confrontare la propria esperienza della poesia con i momenti più ardui della meditazione heideggeriana, che invita a cogliere un nesso più profondo tra essere e linguaggio, e a pensare la parola in termini diversi da quelli del segno e del significato. Va detto preventivamente, per quanto riguarda il rapporto di Zanzotto con gli eventuali antecedenti filosofici, che non gli avviene mai di concepire il testo poetico come il luogo di esecuzione di schemi operativi conformi ai dettami di questa o quella scuola di pensiero. Piuttosto assistiamo a una discussione, nella quale il dettato poetico si apre a quegli orizzonti semantici che trovano nello svolgimento filosofico una configurazione tale da offrire la possibilità di una ripresa di senso nei confronti di temi già presentiti o abbozzati, emersi dal vivo dell’esperienza del fare poesia. Si può dire che è dall’interno dell’esperienza poetica, considerata come primum assoluto, unico vero punto di partenza e di arrivo, che Zanzotto traguarda quegli esiti del lavoro filosofico più esposti a incontrare i travagliati movimenti di quello che si potrebbe chiamare il (o un) pensiero della poesia. Pensiero che mantiene nei confronti del discorso filosofico - per quanto non sempre e non del tutto rigorosamente delimitabile — una sua irriducibile alterità. Si tratta di corrispondenze a distanza tra ambiti che permettono una certa circolazione interna, da non af-

83 frontare mai in termini rigidi, considerando che non si possono compiere dei semplici «trasporti» dal discorso filosofico a quello poetico, e quindi, anche nel caso in cui diventi esplicito, l’antecedente va rielaborato all’interno dei testi in cui si trova inscritto. È il caso di alcuni «temi» lacaniani (Zanzotto rifiuta per sé di assumerli come «nozioni» o tantomeno «concetti») quali lalingua o il significante‘. Temi che troviamo ‘operanti nella «trilogia» come continuo insorgere e sfuggire del significato nei segni, insorgere e sfuggire che al contempo produce senso, offrendo per concrezioni e paronomasie, per slogamenti e fratture della sintassi, l’appuntarsi sulla pagina di illuminanti equivoci. Ma che, parimenti, con i frequenti effetti di autoironia, accantona la pretesa di dominio del senso propria del testo lacaniano. E superfluo raccogliere le prove della presenza di riferimenti heideggeriani nella poesia di Zanzotto, cosa che del resto è già stata fatta, anche se forse con eccessiva fiducia nella corrispondenza diretta tra gli esiti filosofici e quelli poetici. E nello svolgersi dell’attività poetica nel corso degli anni e dei libri non mancano tracce consistenti della vicinanza di altri autori, da menzionare almeno Husserl e Bataille, sui quali,si innesta, a dare un orien-

tamento più vasto e coerente, il numeroso avvicendarsi delle attente letture®. Se qui si fa il nome di Heidegger, quindi, non è per contribuire

a una ricerca delle fonti, in Zanzotto

tanto

numerose e palesi quanto programmaticamente espropriate ai loro luoghi contestuali e risemantizzate, ma perché ci sembra di cogliere nella «trilogia» un gioco più serrato, una ripresa di senso più ampia e una posizione sufficientemente delineata nei confronti di alcuni temi heideggeriani, ben oltre l’eventuale presenza di locali suggestioni. C’è forse una frase che può venire proposta come exergo della «trilogia», una frase che ricostruiamo a posteriori, come inizio di un ulteriore avvicinamento e di un nuovo rinvio: la data si sottrae al calendario. La data,

l'ombelico temporale del linguaggio in quanto es gibt («singolarissima fioritura» scrive Zanzotto) chiama il tem-

po e il linguaggio a raccogliersi in un «istante» che sboccia dentro la coscienza abituale del tempo. Il calendarioè

questa coscienza abituale, nella quale si ha la «numerabi-

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lità» del tempo, e tutti gli istanti si equivalgono nel trapasso «calcolabile» del futuro nel passato. Il presente è infatti un «numero»

del calendario, e «presente» nel

calendario alla stessa stregua di tutto il passato e di tutto il futuro, come

«numero» immemore

dell’accadere della

parola. Fa parte di un modo di cogliere il rapporto con il mondo come «compresenza oppositiva» secondo una relazione oggettivante per la quale l’uomo «pone il mondo innanzi a sé come

l’‘oggettivo’ nel suo insieme,

e

pone se stesso dinanzi al mondo»®. Lo sbocciare della parola precisa il significato dell’es gibt: non si tratta di un atto volontaristico, niente di «soggettivo» che intenda il volere nei termini «dell’autoimposizione deliberata dell’oggettivazione del mondo» o «universalizzazione astratta del volere psicologicamente inteso»”, come neppure vi si può intendere una causalità che possa giungere a evidenza. Si tratta dell’apertura/irruzione (Durchbruch)

di un’altra

dimensione temporale, di un volgersi verso una «regione interiore» nella quale il darsi dell’essere custodisce il suo segreto, secondo la lettura heideggeriana della parola di Rilke in Holzwege: Ma il «dentro» della coscienza disabituale costituisce quella

regione interiore in cui per noi ogni cosa si colloca al di là del numerabile e del calcolabile, e in cui ogni cosa, affiorante così da questo limite, può traboccare nell’illimitato

tutto, nell’Aperto. Questa innumerabilità trabocchevole scaturisce, quanto alla sua presenza, dall’interiore e dall’invisibile del cuore. L’ultima espressione della Nona

Elegia, che canta l’umana appartenenza all’Aperto, dice: «Un esserci (Dasein) innumerabile mi sgorga dal cuore»8.

Questo «traboccare», questo «sgorgare» si precisa più oltre come il canto (Gesang). Ma non dobbiamo confon-

dere il canto con ciò che comunemente ha questo nome, poiché «il canto è l’esserci (Dasein)», «cantare»

è «dire

espressamente l’esserci del mondo, dire sulla scorta della salvezza dell’intero puro Bezug, e dire null’altro che questo, significa: rientrare nella regione dell’ente stesso. Questa regione, essendo l’essenza del linguaggio, è l’essere stesso. Cantare il canto significa: esser-presente nell’essente presente stesso; significa: esserci» 9. In Unterwegs zur Sprache il «canto» è il «parlare» che

«non finisce ciò che è stato detto», che «in ciò che è stato

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detto resta custodito». È vero però che «per lo più e troppo spesso ciò che è stato detto noi lo incontriamo soltanto come il passato di un parlare»!9, Quale sarà la parola in cui ciò che è stato detto non si presenta solo e semplicemente come il passato del parlare? E la «parola pura». «Parola pura è quella in cui la pienezza del dire, che è carattere costitutivo della parola detta, si configura come pienezza iniziante. Parola pura è la

poesia»!!. Torneremo tra breve sul «luogo» di questa parola pura. Per ora passiamo soltanto dallo scritto che si intitola Il linguaggio (e forse andrebbe scritto «Linguaggio», con la maiuscola), posto in apertura alla raccolta di saggi citata, a un altro dal titolo L'essenza del linguaggio (e anche qui forse ci vorrebbe qualche maiuscola in più) per riprendere il filo che lega la «parola pura» al «traboccare» e «sgorgare» che ci veniva indicato da Perché îpoeti? in Holzwege. Qui l’ «essenza del dire», il «dire originario» (die Sage) viene posto in stretto legame con la fonazione, con il «soffio» che genera la parola. L’interrogazione giunge

al punto nel quale il suono, nella sua corporeità e nel suo essere presenza manifestantesi del corporeo, non può più essere pensato in semplice opposizione «a ciò che si suole chiamare il contenuto significante e si suole apprezzare come

lo spirituale,

come

lo spirito della lingua»!?.

Bisognerebbe prestare attenzione alle implicazioni semantiche di certe parole, quali ad esempio «spirito» e «spirituale», e al loro gioco all’interno della lingua tedesca, ma qui stiamo seguendo un’altra traccia!8. Importante è, per il nostro discorso, individuare la relazione al «dire» nell’invito a riflettere «se [...] l’ele-

mento corporeo del linguaggio, il suono e il segno scrit-

to, sia colto in modo adeguato» secondo la nostra «impalcatura» di pensiero, cioè «se basti riportare il suono al corpo considerato dal punto di vista filosofico e inscriverlo nella sfera del sensibile metafisicamente intesa»!4. Senza dubbio ci troviamo in prossimità di una domanda abissale. C’è però un viraggio dell’argomentazione, un «salto» alla modalità nella quale questa relazione viene colta, che merita di venire riportato per intero: Che il linguaggio abbia voce e suono, vibri, ondeggi e tre-

mi, tutto ciò gli è altrettanto peculiare come l’avere un sen-

86 so. Ma il modo in cui cogliamo questa peculiarità resta

ancora molto sprovveduto, perché sempre si frappone la

spiegazione tecnico-metafisica che ci distoglie da una rifles-

sione adeguata. Basta pensare che non si è fatto — si può,

dire — caso a un fatto pur così immediatamente significativo come quello che chiamiamo Mundarten imodi di parlare delle varie regioni. La differenza che esiste tra i vari dialetti non dipende soltanto,

e nemmeno

primariamente, dal

diverso modo di muovere gli organi vocali. Nei diversi dialetti è la regione, cioè la terra, che diversamente parla. La bocca, del resto, non è soltanto un organo facente parte del corpo inteso come organismo; bocca e corpo rientrano

nel fluire e crescere della terra, nella quale noi, mortali, abbiamo vita; della terra dalla quale riceviamo la solidità del radicamento. Perdendo la terra, noi perdiamo il radica-

mento!5. Quindi, incastonata tra due citazioni h6lderliniane, la fra-

se: «Il linguaggio è il fiore della bocca». E ancora «parole come fiori», così come viene ritrovato nel dire originario (sagen)

dell’elegia Brot und Wein

(Pane e vino)

di

Holderlin. Ma il testo di Hòlderlin ha una virgola significativa: Tragen muss er [der Mensch ], zuvor; nun aber nennt er sein Liebstes, /Nun, nun miissen dafiir Worte, wie Blumen, entstehn ([l’uomo] Deve sopportare, prima. Allora nomina ciò che più ama, /allora devono nascere per questo, come fiori, le parole)!S

Worte, wie Blumen (parole, come fiori), ma fiori legati indissolubilmente a quel Tragen muss er, zuvor. prima deve sopportare. L'uomo prima deve sopportare, ma l’ascolto di Heidegger qui non rileva accento, nessuna Betonung qui, in questo testo, pone in relazione Tragen muss ex zuvor con il fiorire della parola. Forse la giustificazione della mancata accentazione di Tragen muss er, zuvor risiede nell'economia dello scritto, e

anzi sì potrebbe anche ammettere che la relazione è «implicita» nel fatto testuale: l’espressione parole come fiori non viene ripresa senza relazione con il contesto dei versi di Hòlderlin, bensì ritorna dopo una lunga citazione che accoglie l’intero periodo, compresi i due versi precedenti

nei quali è nominato l’uomo, l’uomo che deve sopportare. Ma leggiamo ancora, poco oltre, «‘Parole come fiori’ non

è una frattura nella ‘visione’, ma il destarsi dello

87 sguardo che attinge a lontananze ultime; niente viene qui ‘avvicinato’, bensì la parola viene riportata integra e sicura all’origine della sua essenza»!”. Non è questa la «parola pura» che avevamo incontrato nel saggio dal titolo // linguaggio? La parola che si sottrae al calendario, al suo tempo oggettivato, al pensiero calcolante che intende la volontà come autoimposizione, e che raccoglie in una intimità più propria il segreto della data, il tempo del suo «fiorire», secondo buona tradizione, ohne warum: senza

perché!8, Torniamo indietro di un passo, all’avvio del saggio appena richiamato. Proviamo a rifare il «primo passo» verso la «parola pura»: «La poesia è stata composta da Georg Trakl. Che il poeta sia lui, non ha importanza: qui, come in ogni altro caso di poesia riuscita. La grandezza sta appunto in questo: che può prescindere da persona e nome del poeta»!°. Ma non si tratta che di un «primo passo», il quale richiede ancora un passo indietro, se non si

vuole correre il rischio di ridurre l’avvio heideggeriano

alla premessa a una lettura rapsodica. Si tratta di eròrtern il linguaggio. «‘Eròrtern’ il linguaggio non significa tanto riportare esso, bensì riportare noi, al luogo della sua essenza: convenire nell’Evento»?9; e la seconda parte del medesimo saggio inizia «Eròrtern vuol dire qui per prima cosa: indicare il luogo (Ort). E poi significa: osservare il luogo»?!. E, subito sotto: «Il termine Ort significa originariamente punta della lancia. Tutte le parti della lancia convergono nella punta»? ... e, se non si finisse per citare davvero troppo, bisognerebbe legare per bene il movimento che unisce la «punta della lancia» con lo spirito (Geist) in quanto «ciò che infiamma», con il luogo (Ort)

del poema in quanto luogo di ciò che infiamma?3. Ritorniamo invece al senso dell’espropriazione della «persona e nome del poeta» dal luogo (Ort) della poesia, e

teniamo conto che prima bisogna compiere un passo nella direzione di questo luogo, un passo decisivo, non per riappropriarci del linguaggio ma per «riportare noi al luogo della sua essenza». Assistiamo qui a un duplice movimento: «persona e nome del poeta» non «hanno importanza» perché il poema si sottrae al calendario inabissandosi nel segreto della data, e «noi», coloro che vogliono ascoltare l’essenza del linguaggio, coglierne il «fiorire», devono a loro volta situarsi nel «luogo del poema».

88

Troviamo in questo duplice movimento il senso più urgente di una domanda radicale sul dire, una relazione profonda tra il dire e il detto, che concerne la possibilità di cogliere l’appartenenza (e però anche l’espropriazione) del parlante nel parlare, del parlante al parlante nella parola. La data si sottrae al calendario, il parlare eccede il luogo della sua pronuncia, sembra sempre venire da

più lontano e allo stesso tempo da un’intimità indicibile, da più vicino del «qui e ora» che si può segnare sul prospetto dei minuti delle ore e dei giorni oggettivati secondo gli schemi del pensiero calcolante. Nella «trilogia» di Zanzotto, ciò che abbiamo chiamato il sottrarsi della data al calendario, questa domanda sul . linguaggio che in Heidegger abbiamo visto richiedere una formulazione tale da affrancarla dall’ «impalcatura» del pensiero calcolante, viene assunta dall’interno dell’esperienza del fare poesia. Gli eventi, infatti, non si lasciano confinare nel calendario, così come la lingua nella quale ha pronuncia l’evento di senso non sottostà al dominio della datazione «storica». La data, il vero tempo della pronuncia, conserva il segreto del suo accadere, e l’evento si reinscrive nel gesto del dire, si disperde e prende senso nelle diverse pronunce. Non per questo però viene meno il «passato» dell’evento, il suo appartenere a un ordine di accadimenti che non può confluire interamente

nella pronuncia del singolo. Il soggetto

dell’enunciazione,

pur consapevole

che l’evento accade

nella sua pronuncia, non può ignorare le infinite possibili voci nelle quali il passato si perde, e con esso un proprio presente impronunciabile. In altre parole, se il linguaggio non è una semplice relazione tra segno e significato, ma consegna al parlante «nella» lingua un senso più profondo, che proviene da un «passato» che è ancora qui, che non è rimasto al suo posto nel calendario, quale sarà la pronuncia autentica del dire? Il suggerimento di Heidegger, che induce a pensare il poeta come colui che accetta di perdere «nome e cognome» per inabissarsi in un dire essenziale, e farsi quasi puro tramite del «fiorire» della parola, sembra perdere il nesso con l’alterità del passato, con il suo darsi

nella molteplicità delle pronunce. Sembra in questo modo che si perda la relazione tra la data e il calendario,

e il sottrarsi della data al calendario invece non si può

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intendere in questo senso, ma come il coglimento della relazione in quanto tale; Il poeta che rinunci alla formulazione banale della relazione tra la data e il calendario, cioè a far corrispondere sul calendario le date del passato e l’«io» di un soggetto che le oggettiva nella semplice presenza degli enti, può dire così di aver risolto il problema del luogo, del radicamento con la regione del confluire e concrescere di essere e linguaggio? Non si tratta di «perdere» soltanto una relazione, ma di situarsi in una rela-

zione più autentica con il passato. E per Zanzotto non solo il passato permane, al di là del suo essere passato, nella lingua, ma vi permane come violenza, come impossibilità del dire autentico, «cesura e censura», nella strati-

ficazione dei segni secondo codici diversi, nella polisemia dalla quale scaturiscono significati indominabili. Il poeta in che cosa deve confidare per contrastare la violenza, l'ingiustizia, la negazione che permane nella lingua? Troppo semplice sarebbe, Heidegger è stato esplicito, opporvisi nei termini del «volere autoimpositivo», e sarebbe rimanere all’interno della medesima logica. Assumere il compito di dire la relazione tra la «regione» e il linguaggio, di insistere sul loro «luogo» nel dire, è forse allora porsi sul limite in cui il linguaggio si fa significato, interrogandolo

incessantemente,

cogliendo quelle

«vette e punte roventi»?4 nelle quali sembra convergere, come

verso la «punta della lancia», il passato del parlare

che è ancora un inizio. La data che si presenterà nella forma del calendario, testimonierà del passato del dire «nel dire» in una relazione diversa da quella della «storia», intesa come collocazione «nel passato» dell'evento e del significato, cogliendo piuttosto il passato che giunge alla pronuncia nel tempo autentico del parlare. Però è proprio la possibilità di situarsi «nel tempo autentico del parlare» che Zanzotto indaga criticamente nel confronto con la meditazione heideggeriana. Se da un lato il passo di Heidegger verso la considerazione di un legame più profondo tra l’uomo e il linguaggio è decisivo, come è essenziale che questo legame non venga obliato nel semplice rapporto oppositivo di segno e significato, si tratta però di pensare da dove provenga l’indirizzo all’autenticità. Riassumiamo, ben sapendo i limiti del riassumere, il tracciato che avevamo individuato

in precedenza: l’uomo non si pone nei confronti del lin-

90 guaggio nei termini oppositivi di soggetto/oggetto, anzi è

proprio questo suo modo di porsi di fronte al linguaggio che gli ha fatto obliare la corporeità «del suono e dello scritto» occultandola nell’«impalcatura» metafisica. Nel

parlare dell’uomo vi è qualcosa di diverso dalla dimensione del «volere come autoimposizione» e dalla «universa-

lizzazione del volere psicologicamente inteso»: nel parlare l’uomo fa «sgorgare», «traboccare», «fiorire» il linguaggio dalla sua appartenenza alla terra e al mondo, «nella» sua appartenenza più intima alla terra e al mondo. Da questa appartenenza reciproca della terra, del mondo e dell’uomo nel linguaggio noi cogliamo una relazione più essenziale, anzi cogliamo «la» relazione/percezione (Bezug) della dimensione del tempo in termini diversi da quelli del calcolo calendariale. L’uomo non pro-duce, non oggettiva soltanto la‘ parola: ne è il

«terreno», dal quale essa «fiorisce», e questo fiorire non obbedisce al dominio del tempo della pro-duzione degli oggetti, non si conforma alla logica dell’oggettivazione nella semplice presenza, alla semplice opposizione tra presente e non presente. Per comprendere questo movimento del pensiero dobbiamo disporci all’ascolto del linguaggio, compiendo dapprima un passo indietro rispetto al pensare e parlare abituali, passo che è un «passo doppio», e comporta il «ritorno» sul luogo della parola per «ascoltarne» il dire originario (die Sage). Senza dubbio cogliamo in questo modo di pensare la nostra appartenenza nel linguaggio un profondo motivo di vero. Ma da dove prende indirizzo l’altra relazione,

quella che è dalla sopra indicata, in Heidegger, inseparabile, e conferma il dire che «fiorisce» sulla bocca in quanto dire autentico? Non è forse il linguaggio, proprio in ragione di quanto emerge dalla riflessione heideggeriana, il più esposto alla responsabilità della violenza del passato, il più responsabile dell’inautenticità del parlare

umano? Se il semplice volere non può nulla per deciderne l’autenticità, da dove proviene la certezza di un lega-

me autentico tra il dire e il «confluire e crescere della terra» nel linguaggio? Bisogna dunque che vi sia un invio, un compito, una destinazione che esuli dal semplice volere. Bisogna che qualcosa di diverso dalla determinazione del singolo, nel quale il linguaggio «fiorisce», dia indirizzo al fiorire facendo sì che la sua singolarità non sia

gi

più operante all’interno dell’opposizione del particolare e

dell’universale. Bisogna che questa particolarità appartenga al linguaggio in un rapporto di radicamento tale che diventi impossibile pensarla ancora come particolarità. Si tratta allora di intendere che «il momento

fonico,

terrestre, del linguaggio viene sussunto nella intonazione, la quale mette in accordo, le une

con le altre, le

regioni della compagine del mondo, facendo giungere all’una il suono dell’altra». E si legge in un punto decisivo dell’argomentazione «Basta pensare che non si è fatto

— sì può dire — caso a un fatto pur così immediatamente significativo come quello che chiamiamo Mundarten i modi di parlare delle varie regioni. La differenza che esiste tra i vari dialetti non dipende soltanto, e nemmeno primariamente, dal diverso modo di muovere gli organi vocali. Nei diversi dialetti è la regione, cioè la terra, che

diversamente parla»?. Mundarten sono i dialetti, ma la composizione della parola lascia leggere Mund

(bocca)

e Arten (modi), e

quindi «modi della bocca». I modi della bocca, i diversi modi e i diversi «fiori» del dire, crescerebbero. sul terre-

no, radicati in esso, della loro regione. Di conseguenza, per quanto possa essere rozzo questo «di conseguenza», l'autenticità del dire trova indirizzo nell’intonazione, poiché l’intonazione custodisce il radicamento e in essa «noi avvertiamo la sostanza di ‘terra’ che il suono del linguaggio reca in sé nel suo sorgere»?8, Se però «bocca e corpo rientrano nel fluire e crescere della terra», anche la terra subisce violenza, una violenza

profonda tanto quanto quella che subiscono l’uomo e il linguaggio. Come è possibile allora che dalla terra provenga l’indirizzo dell’autenticità? A meno che non ci sia qualche altra idea che opera a confondere senza volersi dichiarare apertamente. A meno che non ci sia una «terra più autentica», e questa terra più autentica non abbia a che fare con un «destino» più autentico, lo stesso per il quale lo spirito è fiamma: Der Geist ist das Flammende. Ma da questo momento dovremmo accedere a un pensiero che Zanzotto non è più disposto a sottoscrivere: un pensiero che si dà (es gibt) in una lingua, il tedesco, poiché solo in quella lingua vi è un destino, un autentico indirizzo, che può essere pensato «nella lingua» a prescindere da ogni volontà del «soggetto». Vi è un destino

92

della lingua e della terra, un legame autentico, più

profondo, che non viene intaccato dalla storia, la quale

può eventualmente produrne il travisamento e la distorsione, mai però scalfirne l’impenetrabile fondamento??. Zanzotto insiste invece proprio sulla incomprensibilità di questo fondamento, ma per rilevare il dissidio tra l’incomprensibilità del fondamento e la responsabilità dell’agire. Vi è la necessità costante, nella poesia di Zanzotto, di decidere in prima persona per il riscatto della violenza, anche di quella che non si è compiuta in prima persona. Vi è un debito nei confronti degli altri, debito che è anche debito «di parola», per il quale il parlante è impegnato nel linguaggio, senza che mai, nel linguaggio o fuori di esso, possa attingere a un ordine determi nante, a un destino. Non per questo viene meno la destinazione, ma il parlante, che per essa non può decidere, è

impegnato ugualmente in una decisione: essa concerne l’agire, e quindi anche il parlare, in rapporto alla violenza intesa come separazione del bene e del male che ogni agire comporta. La terra, da cui proviene il senso di una possibile autenticità, non sarà mai attingibile al di fuori del gioco in cui il dire diventa il detto, e se è vero che nel detto può permanere la traccia dell’inizio, se è vero che

nel detto il dire non si esaurisce, ogniqualvolta vi è dire vi è però anche l’assumere la violenza del passato nel detto, proprio nella sua corporeità di suono e di segno scritto, proprio perché in questa corporeità trova il corpo lacerato del passato che è ancora presente. Le date del calendario non possono venir cancellate dal dire che custodisce il segreto della data, dal sottrarsi della data al calendario. L’espropriazione/appropriazione nel dire che diventa detto non libera il poeta dalla responsabilità del passato. Poiché anche la terra, anche la terra che risuona nel fiorire della parola, è stata violentata, accoglie e trasforma la morte e il suo significato,

anche la terra ha parte nel male che intacca il dire, poiché è cresciuta con la morte e con la sofferenza, poiché della sofferenza si è nutrita e ha dato frutto. Se vi è fondamento,

è la sofferenza, il sacrificio, ma

è fondamento

che va scritto con un punto interrogativo: «Questi sacrifici non tollerano, proprio in relazione ad una loro infinita ‘distanza dalla storia’, che pure fondano

(?), alcuna for-

ma di avvicinamento o riavvicinamento per semplice via

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di commemorazione» scrive Zanzotto nella Nota a Verso il 25 Aprile?8. E nel titolo, esplicitamente, non si può che rivolgersi «verso» quel 25 Aprile che ritorna e che non accade di nuovo, «verso» un 25 Aprile che ha sottratto il

25 Aprile, tutti i 25 Aprile al calendario. La terra che ha patito violenza, che è cresciuta nutren-

dosi del sacrificio, non può risuonare in un dire innocente. E la lingua, a sua volta, portale mutilazioni e le cicatrici del sacrificio, senza che vi possa essere un suo passato, un «prima» della violenza, una pronuncia che non ne sia stata intaccata. Il dialetto, proprio la Mundart, è la lingua più ferita, separata nel passato, nella cesura della violenza che ha investito la terra, quella violenza del dominio che passa attraverso la cultura e la lingua, come attraverso la cultura e la lingua passa la violenza della guerra e quella della tecnica che nella guerra trova il teatro del suo inve-

ramento. Non si può confidare nel dialetto per cogliere l'autenticità del dire. Tuttalpiù si può ascoltare un’eco lontana di parole fiorite e disseccate nelle pagine della storia, di parole che fioriscono ancora già confezionate per una «corona per i morti». Il fiorire della parola, non più custodito, forse mai

custodito da una Mundart nella quale riposa la sua originaria autenticità, diventa l’estrema proprietà e l’estrema estraneità. L'incontro nella parola è affidato all’esporsi della parola stessa, per la quale un poeta con nome e cognome si impegna nella consapevolezza della sua eccentricità rispetto alle lingue, forse alla definitiva perdita di senso di ciò che Heidegger chiamava lingua (die Sprache). Il poeta parla, e cerca un dire intonato alla terra, ma ritrova in questo dire la stessa violenza, la stessa estraneità del sacrificio

che è maturato nella terra. Il poeta parla nella «sua» lingua, e in questo parlare ciò che gli è proprio, nella lingua, diventa molteplice, in dissidio, negazione dell’affidabilità

della lingua stessa come ciò che gli è proprio. Mundart non potrà diventare, nella lingua di Zanzotto, «dialetto». Mundart diventerà «idioma»:

«Idioma»: è da intendere secondo ogni diffrazione etimologica e oltre, dalla pienezza del parlare nascente e incoer-

cibile come singolarissima fioritura, fino al polo opposto della chiusura nella particolarità per cui si arriva al lemma

«idiozia». Lingua, lingua privata, fatto privato e deprivante; eccesso di privatezza e quindi di chiusura-privazione-depri-

94 vazione. Enfasi di particolarità: ma anche, al contrario,

mezzo linguistico tutto inteso a traboccarne fuori?9.

Nel dialetto, in un tempo che non appartiene al calendario, che non è qui né è allora, l’unica commemorazione

del sacrificio, l’unica intonazione della terra secondo il

suo fiorire senza appartenenza, l’esercizio della pietas che intesse una corona di fiori.

Note

1 STATI MAGGIORI CONTRAPPOSTI, LORO PIANI, in Il Galateo in Bosco, p.31 e p. 32.

? (Da Ghène), in Fosfeni, p. 43. 3 La frequentazione di Heidegger da parte di Zanzotto, soprattutto attraverso il filtro interpretativo del post-strutturalismo francese, è agevolmente rilevabile; per i riferimenti essenziali, cfr. i già citati volumi di G. Nuvoli e L. Conti Bertini nonché l’introduzione di S. Agosti all’«oscar»

mondadoriano,

cit. Decisiva, e fecondamente

intrecciata con la lettura di Holzwege, a nostro avviso, per i mutamenti di prospettiva che comporta, in particolare in rapporto allo statuto da assegnare al dialetto entro il problema della lingua (da tradurre però con 1 significati che questa assume come Lalangue e die Sprache [Sage] in Lacan e Heidegger), è la traduzione italiana della raccolta di saggi /n cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973 (tit. or. Unterwegs zur Sprache, G. Neske, Pfullingen 1959). 4 «Quanto ho sopra accennato a proposito della storia-storiografia quale viene iscritta nel Galateo în Bosco è senza dubbio riferibile a ciò che traspare nel ‘tema’ di lalingua lacaniano (non lo direi nozione). E anche questo un tema che io ho sempre intrasentito e che dovrebbe per altro rifiutare qualunque rapporto con la cosa scritta (o addirittura con qualunque significante chiamato a denotarlo) ...», in Lalangue, il dio birbante, cit. E sì legga, in proposito, A. Zanzotto,

«Nei paraggi di Lacan», in L'effetto Lacan, «La Rivista», n. 4, 1979.

? Di Bataille Zanzotto ha tradotto Sur Nietzsche: Nietzsche. Il culmine e îl possibile (Rizzoli, Milano 1970), e sempre sua è la cura della tradu-

zione di La letteratura e il male, Rizzoli, Milano 1973; cfr. C. Ossola, Figurato e rimosso, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 168-171, per un’acuta

lettura della non occasionalità di questa fatica zanzottiana.

è M. Heidegger, «Perché i poeti?», in Sentieri interrotti, cit., p. 265.

? Ivi, p. 257 e p. 295. 8 Ivi, pp. 282-283. ° Ivi, p. 293.

10 M. Heidegger, «Il linguaggio», in /n cammino verso il linguaggio, cit., pp: 30-31. 1 Ivi, p.31.

95 12 M. Heidegger, «L'essenza del linguaggio», in In cammino verso il linguaggio, Cit.; P_Eok 1 Sull'argomento, J.Derrida, Dello Spirito. H. e la questione, Feltrinelli, Milano.1989 (tit. or. De l ‘esprit. Heidegger et la question,

Galilée, Paris 1987).

3 2 Heidegger, L'essenza del linguaggio, cit., p. 161. vi, p. 161-162. 16 Ivi, pp. 162-163. G. Vigolo, in F. Holderlin, Poesie, Mondadori, Milano 1971, traduce: «Sostenerlo deve dapprima: ma ora, dà un nome a

ciò che più ama/Ora, ora debbon per questo parole come fiori nascere». La traduzione di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, in L'essenza del

linguaggio, cit., è: «Soffrire prima egli deve; allora egli dà îl nome a quel che più ama, /Allora, allora per esso devono nascere parole, come fiori».

17 Ivi, p. 163.

18 Cfr. C. Ossola, Figurato e rimosso, cit., pp. 283-313.

1° M. Heidegger, /l linguaggio, cit., p. 32. 20 Ivi, p. 28. 21 Ivi, p. 45. 22 Ivi, p. 45.

23 Cfr.J.Derrida, Dello spirito..., cit., cap. IX. 24 E il titolo dell'ultimo capitolo della monografia di L. Conti Bertini, cit., qui ripreso a indicare, in sintonia con il riferimento hei-

deggeriano ivi presente, l’estaticità temporale nella quale si situa l’esperienza essenziale del linguaggio: a commento a alcuni versi della Beltà (Retorica su: lo sbandamento, il principio «Resistenza»), Zanzotto scrive: «Questo è un modo di entrare nel ‘templum-tempus’ di una storia finalmente ‘vera’, che tuttavia sotto un certo angolo di visuale può apparire ‘fuori tempo massimo’, nell'ombra di un possibile vanificarsi dell’idea stessa di storia, oggi attuale. In quest'ombra tutto tende a piattificarsi in microstoria (storiella)», p. 112. Rileviamo che il «tema» è proposto in Perché i poeti?, cit., p. 287.

25 M. Heidegger, L'essenza del linguaggio, cit., p. 161. Aut aut, gennaio-febbraio 1990, lo scritto di Heidegger sul poeta in Alemanno ]. P. Hebel, Linguaggio e terra natia, che, per quanto sembri rovesciare

questa prospettiva (non è la terra natìa che produce la creazione, ma è la creazione poetica che produce la terra natìa — come sottolinea la Nota di C. Magris) mantiene per fermi certi elementi che andiamo sottolineando: a p. 22, «Hebel avvertì la potenza poetica del dialetto alemanno,

che per così dire poeta da sé, così che il poeta vero deve

arrestarsi e limitarsi» (nostro il corsivo). 26 Ivi, p.- 163. 27 Nella «memoria»

per Paul Celan, Corriere della Sera, 2/7-5-1990,

il cui titolo «Verrà la morte e avrà le tue parole» si suppone dovuto alla redazione,

viene espresso chiaramente

il senso

della presa di

distanza da Heidegger. Ma ci si ingannerebbe a volervi leggere soltanto una presa di posizione genericamente «politica». Zanzotto ci presenta il colloquio di «un Heidegger chiuso quasi ai limiti dell’autismo e un Celan travolto da un angoscioso smarrimento», a significare quasi che l'impossibilità del dialogo sì fosse dichiarata per mezzo di una situazione che sembrava improvvisamente cambiare il significato a tutte le parole, quelle stesse di una reciproca donazione

96 e attesa di senso, sulla soglia di una domanda che chiedeva alla «teoria» di rendere conto della responsabilità del dire. 28 Idioma, p. 21. Cfr. 1944: FAIER, in Racconti e prose, cit., p. 105: «Ma intanto, che ne è dei morti, degli offesi per sempre? Restano sulle strade, così, e non chiedono nulla, ma nessuna pace, nessun cielo,

nessun riposo li toglie alla nostra mente. Una catena ci lega a tutti loro, essi ci trascinano tutti insieme a bere il tossico del loro ultimo

istante, del punto in cui conobbero quanto noi non possiamo immaginare che di straforo, per oppiate approssimazioni». 29 Nota a /dioma, p. 113.

CAPITOLO SESTO SUL «TAGLIO» TEMPORALE DEL DIRE

La poesia, fatta di parole come strumenti della quotidianità e insieme come concrezioni di tracce sociostoriche, è, in primo luogo, «dentro» una certa lingua, ne è anzi la vera anima idiomatica. Essa rinvia non solo all'estrema partico-

larità di «quella» lingua nel suo essere etimologicamente «idioma», in quanto appartenente ad un solo gruppo etnico. Essa ne esprime (squisitamente) la singolarità, l’îdion,

chiamato ad emergervi come unicità e quindi ad esservi «prescelto», «eletto». La lingua ha in sé l’infinito e necessario autoaccarezzamento e l’inconchigliamento nàrcisistico del gruppo (etnico e non solo): ciò che si ritrova poi come barriera, impossibilità di traduzione senza residuo. Tale accarezzamento narcisistico che è nella idea stessa di idioma, porta, ancora necessariamente, all’immaginare nella lingua, in ogni lingua, da una parte paradisi di tipo autistico, dall’altra allucinazioni di tipo edenico o pentecostale (in fin dei conti reversibili), che sono ugualmente lontani

dalla brutalità fattuale di «questa» lingua, evento-convenzione insormontabile,

irremovibile,

in cui precipita ogni

espressione in lingua «storica» e massimamente l’espressione che è chiamata poesia).

Leggiamo in queste righe una compiuta critica delle

Mundarten, con quanto di «originario» e «spirituale» sì incaricavano di custodire nel testo heideggeriano. L’idioma esprime una «singolarità», è un «fiorire», un essere «chia-

mato a emergere come unicità», ma la «brutalità fattuale» dell’«evento-convenzione»,

la «storicità» della lingua, in

cui «ogni espressione precipita», mostra come «allucinazione», «necessaria allucinazione», l’Eden e la Pentecoste, la

condizione originaria e l’avvento dello spirito, ovvero la redenzione

della «storicità», della «brutalità fattuale» in

canto, pura voce assolutamente significante nella quale il segno si risolve nell’espressione, compiuto divampare, e consumarsi, e non lasciare traccia, del fuoco della parola.

98

In particolare si dovrà prestare attenzione al «precipitare» nell’«evento-convenzione», all’istantanea perdita di proprietà (in quanto appartenenza, non: possesso) di qualsiasi espressione, compresa l’espressione-poesia. Il «fiorire» è l’istante che comporta anche sempre la «caduta» nella «storicità» della lingua, e ciò è «insormontabile» e «irremovibile». D’altra parte «necessariamente» l’idioma porta ad «allucinazioni» che rinviano «oltre» la storicità della lingua, nelle figure — «in fin dei conti reversibili», scrive Zanzotto tra parentesi — edeniche o pentecostali di una «lingua senza segni». Allucinazioni che sono necessarie, va sottolineato, poiché non permettono che la

lingua si riduca a semplice «brutalità fattuale», ma che nondimeno sul piano storico rimangono «allucinazioni», in tutta l'ampiezza semantica della parola. Si legge qui un’antinomia incomponibile tra idioma e storia, e non vi è un luogo nello spazio e nel tempo al quale attingere per pervenire a un punto di partenza possibile, a un sostrato, a un fondamento (non dimentichiamo che qui Zanzotto, tra parentesi, mette il punto di

domanda) dal quale prendere l’indirizzo dell’autenticità. Il «mio proprio» dell’appartenenza «nella» lingua, l’idioma, permetterà di cogliere nell’espressione una relazione diversa da quella dell’«evento-convenzione»,

ma, a causa

dell’immediato precipitare in «evento-convenzione» dell'espressione stessa, vi è istantanea «espropriazione», subito occultamento di questa più intima appartenenza, che lascia una traccia, la coda di un fenomeno luminoso e numinoso, «necessaria allucinazione».

Si può suggerire l'indagine della semantica dei fenomeni luminosi nei testi Zanzottiani, e indicare un tema

che, se pure non si può svolgere in questo spazio, è importante per cogliere il legame che viene costantemente istituito tra la parola e lo sguardo. La disposizione del luogo intorno allo sguardo, l’intensità luminosa nella quale l’occhio incontra il mondo, l’angolazione, la vicinanza, fino al dubbio nell’identificazione di vedente e veduto, comportano sempre l'elaborazione di uno statuto

parallelo della parola. Parola e sguardo, in Zanzotto, con-

dividono al livello più profondo, nel loro essere unico «taglio» dell’ «affacciarsi» al mondo, del percepire-significare, la medesima

intonazione

semantica, il medesimo

con-significare dell’anelito al senso?.

99 Seguendo questa indicazione, potremo ritrovare la traccia che ci permette di riportare al campo dell’esperienza poetica, della scommessa poetica, il senso che assume l’accogliere il richiamo di una «necessaria allucinazione», perché non venga a significare, in totale assenza di sintonia con i presupposti da cui proviene, il semplice

rovesciamento di prospettiva nei confronti della «realtà storica» praticabile. Anzi, la storia, o meglio lo stratificarsi

di eventi-segni, il plasmarsi dell’evento-segno «in quanto luogo», terra, mondo, fa sì che sia posta in parentesi qualsiasi facile risoluzione del senso della storia che pretenda di prendere

avvio dall’idioma.

Del resto, come

accennato più volte, mentre la parola si sottrae al tempo calendariale, e allo stesso «parlante», non permane per questo «fuori dal calendario», vi ritorna in quanto «passato», intendendo per «passato» non ciò che è perduto al presente, ma il presente stesso, l’estraneità, l’inappartenenza dei segni al «mio proprio» del presente. Allucinazione necessaria, allora, sarà quella che ci permette di cogliere il «passato in quanto passato», il perduto del passato, qualcosa che non «è» nel presente, ma che nel presente può essere evocato a partire dalla traccia luminosa della parola. Traccia che permane nell’istante in cui la parola-sguardo, l’inizialità di ogni essere affacciati nella percezione-significazione del mondo, diventa eventosegno del mondo, passato che è presente. Traccia che non proviene da alcun luogo che si possa raggiungere, ma che va seguita, poiché evoca l’inizio, il perduto, il passato in quanto passato, senza però che lo si possa far diventare neppure una dimensione stabile, determinabile, della coscienza. È la luce che perviene a uno sguardo che si richiude, visione che coglie il venir meno del vedere. Visione che separa il permanere della luce «fuori» dalle palpebre richiuse, dalla parola che «precipita» nel tempo dell’evento-convenzione, la traccia lumi-

nosa «dentro» lo sguardo sotto la palpebra, «allucinazione» nella quale si coglie un’«emergente unicità», Fosfeni. In Fosfeni, insistito, il luccicare, l’intermittente e diffe-

rito «far luce» nel differito e intermittente «darsi» della luce, nell’attesa del reciproco illuminarsi delle relazioni

tra «le realtà le fantasie e le parole» in «forza insistente e benigna di raccordo, comunicazione, interlegame», in «Jogos»3. Logos da leggere nel reciproco darsi e negarsi

100

della luce e dello sguardo, rivelazione e nascondimento senza alcuna «logica» regolativa, «logica» piuttosto della precarietà e del disinganno, del «vedere» in ragione e in forza dei punti di oscurità, delle cancellature della visione. Logos-Loghion: ...lucciola, bubola o borboleta fosforica, / che t’industri ad accecarmi con pirotecnie/di faniascienza da quattro soldi-/nelle penombre

che più non valgono un soldo-/per non dire quando ti atteggi a fiamma ossidrica tu/drago che basta il fiato d'un bimbo a estinguere...4

La «logica» dell’iniziale parola-sguardo, dell’«unicità

emergente» è inafferrabile, non per questo però viene meno la possibilità di alludervi, di gettare uno sguardo, una parola, fuori, negli anni sottratti al calendario e alla storia, accumulati, anni, come pietre/tirate a caso, nel passato

in quanto passato: ... preparo il ierreno a liquidi cristalli/vibrantissimi, trascoloranti, irasecolanti/verso tutte le tinte e i limiti: /circostanza da non perdersi, suprema. /Oh purulento di eternità blu/cumulo, allora di entità/Fuoniuscite al sole/per singoli appelli che mi hanno/veramente, anno per anno, /reso incomprensibile questo mio sperato comprendere ®

L’antinomia che contrappone l’idioma alla storia, l’«unicità emergente» all’«evento-convenzione», non è però risolvibile in sistema di opposizioni, né perviene a una dialettica. L’idioma non è «più originario» rispetto alla storia, non è un momento che semplicemente «precede» il «diventare storia». Si leggerebbe in questo modo uno schema di successione nel quale si ha origine/perdita di origine, verità/menzogna, ... del tutto fuorviante. Per comprendere quanto idioma e storia si coappartengano senza pervenire, mai, a una relazione dialettica

stabilizzabile, ad alcuna fissazione temporale che permetta di determinare l’uno rispetto all’altro, bisogna leggere attentamente i due ultimi componimenti di Fosfeni: Righe nello spettro e Futuri semplici — o anteriori ?% La parola, il parlare, l’articolazione fonico-semantica

è atto primario di ogni possibile affacciarsi al mondo, di

ogni possibile «taglio» temporale in cui si dà esistenza. L'evento di parola non intacca il parlare in quanto atto

101

primario, non ne segna né determina in alcun modo l'ulteriore e sempre necessariamente aperta possibilità. L'evento di parola, in quanto segno che perviene all’universo dei segni, e in esso trova luogo, incide invece sul

senso, sulla configurazione semantica che guida la dispo-

sizione a parlare. L'evento di parola modifica non l’atto primario del parlare in quanto tale, che permane nell’istante inafferrabile in cui risuona un legame più profondo di quello del segno e del significato, ma la compagine dei segni che il dire produce. Qualsiasi tentativo di spiegare l’atto primario del parlare a partire dai segni, o, viceversa, tentativo di motivare

i segni a partire dall’atto di parola, spezza la relazione logica nella quale si dà il parlare all’interno di un universo di segni. Ci pone cioè in ùna condizione per la quale si perviene inevitabilmente a voler comprendere una realtà più ricca e complessa per mezzo dell’analisi di una realtà più povera. Zanzotto ha un’altra parola per nominare questa realtà più ricca, o, forse, con espressione più adeguata, la stessa matrice di ogni realtà: logos. Proprio nei due componimenti che abbiamo menzionato però, e conseguentemente, è il logos, «forza benigna e insistente di raccordo, comunicazione, interlegame che attraversa la realtà le fantasie le parole, e tende anche a ‘donarle’, a

mettere in rapporto con un fondamento (?)»”, la condizione, il presupposto di ogni relazione di senso che, in quanto tale, non può venire situato in una struttura temporale, non

può venire

«compreso»

nella dimensione

temporale-causale dispiegata nella forma discorsiva, da ogni forma di discorso. Il logos, questo logos al quale Zanzotto accenna, allude,

rinvia, «il» presupposto di ogni esistenza-significazione, trova il possibile «punto d’incontro» che riunisce il gesto e lo sguardo-parola, nel far centro di un euristico, più che metaforico, gioco delle bocce/là col pallino — far centro però che

non è affidato

alla sola parola, e che riunisce

nell’istante irripetibile tutte le possibilità relative all’ «unicità emergente» di configurarsi come segno nell’ordine degli «eventi-convenzioni». E la riuscita, il centro, oltrepassa il singolo, 0, meglio, assume solo lo statuto dell’altro,

magari con l’iniziale maiuscola: E Lui faceva centro, una volta, quando sbancava/il gioco delle bocce/là col pallino®8.

Il tempo di ogni centro è, diventa, sempre, una volta, è

102 un tempo che perviene al discorso all’imperfetto. Il logos non

riunisce il parlare e l’universo

dei segni,

l’îdion

dell’idioma e la storia a cui perviene in quanto eventoconvenzione, sotto una legge comune, né è la legge che regola la loro relazione. Logos è «il» presupposto, del quale non vi è afferramento poiché: Ogni passo sposta e attenaglia come un giro di vite/ogni voce si

soffoca dolcissima inutile/ogni sguardo si disocchia/ ma per riscuoterti il più del compenso e la/più terribile stellanità, come/di neve sul ciglio della/dell’indicato/movimento/Ma umiliato®.

Non è l’idioma, la Mundart, che garantisce quindi del

«mio proprio» nella relazione etica con l’altro, che pone «mio proprio» e «altro» in un rapporto autentico. L’unico rapporto autentico possibile, per il quale non si può trovare fondamento né nell’idioma né nel «passato» presente nella storia, è quello del comune riscatto dalla violenza della storia attraverso l’agire che espone la relazione tra il parlare in quanto «unicità emergente» e i segni

in quanto «evento-convenzione». Autenticità da intendersi solo nel senso della critica costante a cui va sottoposto il «racconto di sé», e quindi racconto del mondo degli altri, per elaborare il «discorso» nel quale la sofferenza, la

perdita di significato, la violenza assumono le forme individuali e sociali della censura e della dissimulazione. Quella censura e dissimulazione che inevitabilmente, ignorando sempre qualcuno, relegandolo nel silenzio, privando anche il «racconto di sé» della possibilità dell’autocomprensione, pervengono all’istituzione di un idioma (agonistico nei confronti di altri idiomi) che pretende di identificarsi con i segni convenzionali nei quali si dà il discorso pubblico. Quando vi è la pretesa di stabilire una relazione di «proprietà», un legame dato tra l’«unicità emergente» e la convenzionalità dell’eventosegno, si ha la perversione dell’idioma in idiozia, ciò che più appare come il «mio proprio» diventa duplice alienazione dell'essere alienato e del credere di non esserlo. L’idioma come «particolarissima fioritura», il legame di unicità del corpo con il mondo nel «gesto» del dire, è una traccia che si sottrae, uno sguardo che ha appena richiuso le palpebre, e, se permette di sospendere la fissità dello sguardo, fissità che rischia di diventare una forma

di cecità, sui segni-convenzione,

a sua volta deve

103

rinunciare al comodo inganno di assurgere a verità del significare umano, e all’eventuale pretesa di stabilire una correlazione fondante il discorso della significazione e della comunicazione umana. La lettura di Alto, altro lin-

guaggio, fuori idioma®° conferma queste ipotesi; e rinviamo al brano in questione che si dovrebbe altrimenti riportare per intero. Ricordiamo solo alcuni versi:

Ma che m'interessa ormai degli idiomi?/Ma sì, invece, di qualche/piccola poesia, che non vorrebbe saperne/ma pur vive e muore in essi - di ciò m'interessa/e del foglio di carta/per sempre rapinato dall’oscurità/ventosa di una ValPiave/davvero finalmente/canadese o australiana/ 0 al di là.

Versi che richiamano alla responsabilità di un dire che si sa esposto alla caducità e al fraintendimento, alle metamorfosi della mitizzazione e della sottrazione al controllo del parlante!!, La povertà del dire, se accolta solo, se accettata solo nel suo essere esposta agli altri, è un bene da non confon-

dere con il relativismo che sembra provenire dalla pluralità e «idiozia» degli idiomi, né da barattare per un facile scetticismo che trovi rifugio nella fattualità bruta del dato. E la consapevolezza che ogni persona costituisce una importante, insostituibile voce del logos, una sua com-

ponente costitutiva, nella quale si produce il mondo e il suo significato, partecipe sia del mondo che del suo signi-

ficato e impegnata a conquistare un senso per la propria esistenza. E ogni persona ha negli altri gli importanti coartefici del senso della propria esistenza nell’incessante scambio e confronto della parola, nel legame, spesso distorto e perverso, ma irrinunciabile, che la parola man-

tiene con il fare, che può essere anche impossibilità di fare o vero e sofferto subire. «Povertà» della parola è quindi anche, a saperla bene intendere, povertà della violenza e del dominio dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla natura, considerati come semplici mezzi, è anche

povertà di ogni pretesa verità assolutizzante, sia essa della poesia, della filosofia, della storia, della politica o

dell'economia. Una povertà — come viene posto a sigillo di Idioma, ma perché il sigillo venga tolto, per ricominciare un’altra lettura - che non porta con sé alcuna tristezza. Tragicità, forse, la tragicità senza enfasi di ogni esistenza,

104 che deve affrontare la malattia, la morte, una violenza

che non è solo quella della storia. Ma nessuna tristezza: Nessuna tristezza per î me stessi che non vi ho ritrovati né per gli altri, i cari amici, che sempre ho ritrovati,

anche se talvolta più vaghi, più paghi

degli ultimi arboscelli nei fondi o sui crinali Nulla che parli davvero

di cose effimere o finali bensì della pertinenza,

bensì del fatto, della mai mai fattuale presenza, che pur qui si dà giustamente straripando da tutti gh altrove e singolarità alla nostra quasi-indolenza

Quanto quanto si distilla e si distillò quale paradiso

perfino dolorosamente nel suo insistere muto ora è soltanto lieto, e non distrattamente, ma i suoî valori li compie e li ritira e li nacconsente un posto più in là comodi e umili anche se dalle nostre mani alquanto strani e stralontani

E nei grigiori assopiti, appena specchianti con gridii di dipinte piume e sbeccuzzanti silenzi (è) come se noî e î nostri ricordi ma più i nostri presenti sî unissero senza appello, ma non sotto imperio,

ma induzioni di ragionamenti che non lo saranno mai più, per aver raggiunto

pacatamente (e insegnandolo) gli elementi!?.

Note

1 Tentativi di esperienza poetica..., cit., p. 13. 2 Una traccia per questo tema in C. Ossola, Figurato e rimosso, cit.,

alle pp. 168-171, e, condotto più ampiamente, L. Conti Bertini, A. Zanzotto..., cit., cap. II. 3 Nota a Fosfeni, p. 79. 4 (Loghion), in Fosfeni, p. 22.

5 PERISCOPI, in Fosfeni, p. 46. $ Rispettivamente alle pp. 70-73 e 74-75. Logos, questo «nesso

105 inverificabile», è il «resto» e il sorprendentemente «di più» in ogni concrescenza di essere e dire, in ogni pronuncia e sottrarsi alla pronuncia: i due densissimi testi, non si prestano, comunque,ad alcun

breve commento. Si può solo accennare al disporsi di «zone» dell’espressione in una gradazione, spesso molto divaricata, ma proveniente dalla «scomposizione» di una medesima «fonte»: «righe», appunto, nello spettro «luminoso» del dire. 7 Nota a Fosfeni, p. 79.

8 Fosfeni, p. 73. Cfr. C. Ossola, Figurato erimosso, cit., p. 171. 9 Fosfeni, p. 75.1 versi sono quelli conclusivi della raccolta.

10 In /dioma, pp. 100-101. 11 Ripresa del componimento di apertura (Gli articoli di G. M.

O.), ma qui gli spazi «canadesi» o «australiani», mutando la prospettiva dei versi ai quali alludono, indicano verso la perdita dei contorni, lo sfumare indefinito del riferimento al «luogo» della propria vicenda esistenziale. 12 Docile, riluttante, in Idioma, pp-108-109. Per una lettura soltanto

«vettoriale», se fosse possibile e se mai ce ne fossero, questi versi dovrebbero costituire la chiusa dell’intera «trilogia».

CAPITOLO SETTIMO VOCI NEL PASSATO, NEL PRESENTE

La consapevolezza, in Zanzotto esplicita, che non vi è relazione «data» nel discorso che ne garantisca l’ «autenticità», sia essa di carattere ontologico o storico, in grazia di un legame originario privilegiato del segno e del significato di cui qualcuno, gruppo o individuo, si possa fare custode o testimone, produce nel testo una pluralità di voci, una

«plurivocità» di dettato nella quale vi è la costante critica di ogni esito di senso che pretenda di attestarsi come verità esclusiva del molteplice. Difficilmente, se non per sequenze ed emergenze che patiscono al loro interno l’operare di una forza che ne disturba e devia il compimento semantico, si trova in Zanzotto una narrazione tale

da comporre le azioni, coloro cui vengono attribuite e il senso dell’agire nella solidarietà di una trama sorretta dalla univocità stilistica della sostanza verbale!. La relazione tra la voce enunciante e il tenore degli enunciati viene continuamente interrotta da interferenze che rendono problematico ricostruire l’identità di un soggetto garante del legame tra designazione e autodesignazione all’interno del discorso. Avviene così che vi sì riscontri il ricorso frequente all'operazione metalinguistica, orientata alla verifica delle possibilità alternative del senso

all’interno di un determinato

schema

semantico,

verifica che non esclude la possibilità della formazione di tracciati alternativi, proposti in abbozzo o sviluppati in palese contrasto con il tracciato verbale di avvio. Le figure fondamentali di questo procedimento sono l’ironia? e la paronomasia: l’ironia produce un effetto di comico, di «scoronamento» dell’intenzione semantica, destituendo di autorità il registro stilistico, mentre la paronomasia,

saturando e inflazionando l’asse sintagmatico per mezzo dell’insistenza sul paradigma, sospende il procedimento ironico in atto, privandolo del privilegio di dominare

108

quasi dall’ «esterno» la configurazione dei segni, e apre il gioco critico delle possibilità, nel quale avviene la disputa del senso dell’enunciazione al cospetto di altre compossibili e compresenti. Si ritrova così sulla pagina, da un lato, l'accettazione

di movenze verbali di diversissima provenienza storicoculturale, dall’altro la loro ricomposizione in un tessuto che rende improponibile l'accettazione di una qualsiasi di esse, in ragione del continuo richiamo alla forza desta-

bilizzante dell’incessante e incoercibile affabulazione che caratterizza l’affacciarsi sempre di nuovo al mondo.in quanto percepire-significare. Tra le forme storicamente e socialmente istituite del discorso e il «taglio» temporale del percepire-significare vi è infatti un antagonismo che comporta dei processi di rimozione e di censura, delle deterrenze e dei divieti, come anche, comprese nella stessa dinamica, delle facili-

tazioni e delle preformazioni. Ogni «voler dire», costituente l’aspetto primario di ogni rapporto «io-altro» nell'ordine dei segni, è riferibile a un complesso di norme che comprende tanto il linguistico quanto il sociale, e trova iù queste norme allo stesso tempo «facilitazione» e «costrizione», possibilità e necessità. Norme-galatei sempre in formazione e sempre già pronti a codificare ogni emergenza, ogni stortura, ogni trauma. Galatei la cui soli-

darietà in una impalcatura che innerva tutto il reale viene occultata nella diffrazione in molteplici codici e sottocodici, la cui «boschività» vieta di metterne

a nudo

la

struttura gerarchizzata.

La dissimulazione del senso mediante le continue fratture dell’ordine discorsivo in cui si costituisce il tessuto semantico, a sua volta esposto così nella frequente indecidibilità del riferimento che impedisce la «chiusura» del circuito della significazione, lasciano spazio all'emergere della plurivocità di un «io» in esplorazione, e allo stesso tempo caricano la parola del duplice onere di presentarsi là dove la «facilitazione» la impone e di mostrare la «costrizione» che detta facilitazione comporta. Il risultato è spesso, di conseguenza, quello che vede la parola risuo-

nare dell’eco prodotta dalla compresenza denegata di diverse opzioni semantiche, ovvero il dispiegarsi di una polisemia che richiede il costante ritorno all’atto del «voler-dire» come punto di avvio indicibile di ogni evento

109 di significato. Riconosciamo in questo ritorno alla radice del «volerdire» la mossa più propria del discorso zanzottiano, là dove il corso di una narrazione o di una descrizione appena abbozzate si inabissa nell’auscultazione del proprio processo costitutivo. Oppure si proietta fuori dal suo microcosmo in formazione, scardinando il «punto di vista» che in esso si istituisce, per cogliere le interferenze «taciute»

con

altri contesti, la subordinazione

a una

gerarchia data nell’ordine dei domini discorsivi. Si è voluto ricorrere, in cerca di una definizione che —

secondo un procedimento canonico del discorso critico — potesse collocare i testi in esame all’interno di movenze operative già note, all’evocazione di categorie estetiche quali «orfismo» e «manierismo»3. Anche trascurando l’invito a un qualche indugio che ci viene, al proposito, da quella quinta lassa dei Possibili prefazi 0 riprese 0 conclusioni già presente nella Beltà: Orfico non è quel grumo di nomi/in cui una luce si credette rappresa, /la storia di una glissante discesa ascesa, /annuire annutre nel nume... che, a una

lettura per esteso, suggerisce piuttosto che voî e î0 e tutto è un dato/e non ciò che si dà4, ci si dovrà chiedere non tanto

la legittimità di tale etichettatura, del resto coerente se si adotta un certo punto di vista, ma piuttosto quali possano esserne le motivazioni, ed eventualmente cercare tra que-

ste un'occasione di approfondimento. «Orfismo» è termine che può essere inteso in diverse accezioni, riconducibili sostanzialmente a due derivazioni

storicamente attestate: la prima al mito di Orfeo e alle dottrine iniziatiche dell’antichità, la seconda a una codifi-

cazione primonovecentesca dell’arte tendente a scindere quest’ultima da ogni legame referenziale con la realtà storica. Questa formulazione bruta può venir corretta in una categoria più ampia e sfumata, che in un certo senso comprende entrambe le definizioni, e sottintende il con-

ferimento alla parola di un compito più vasto di quello garantito dagli usi che socialmente le sono riconosciuti, situandola al punto di intersezione di ogni accadimento di senso come atto primario di accesso alla realtà. Una volta individuato come «orfico» il punto di partenza, non sarà inconseguente giudicare «manieristico»> il risultato rilevabile sul piano operativo: l'assenza di un principio univoco di correlazione «storica» tra l’«io»

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enunciante e il tenore dell’enunciazione produce un dettato verbale eccedente, in-deciso sulla linea della tradizione, non organico rispetto alle condizioni storico-sociali

dell’attualità della comunicazione, ovvero una scarsa disponibilità a «partecipare un’esperienza»?. Il rilievo della difficoltà di dare un volto, e quindi un ruolo (storico e sociale), al «soggetto» dell’enunciazione verbale (e di farne così un «personaggio»), congiunto a sua volta con l’instabilità e l’indecidibilità dei vari registri stilistici nei quali avviene la comunicazione di un'esperienza «esistenziale», trova nella coniugazione di «orfismo» e «manierismo» la descrizione più consona a una volontà di comprendere il testo nei termini della conformazione alle modalità dell’uso sociale del discorso. In altre parole, si rimprovera alla poesia zanzottiana (dato che «orfismo» e «manierismo» assumono una caratterizzazione, se non del tutto negativa, senz'altro di ridimen-

sionamento del valore) di sottrarsi a una visione organicistica del rapporto tra storia e linguaggio, di sfuggire quindi alla dialettica che vede risolversi le contraddizioni linguistiche (e storiche e sociali) nella formulazione di un

dettato poetico coerente con l’istituzione di un «punto di vista» che coordini il discorso pubblico all'esperienza «esistenziale» secondo criteri omogenei di riconfigurazione semantico-formale. Il rimprovero si situa però lateralmente rispetto ai moventi e alle modalità dell’operare poetico di Zanzotto, proprio in ragione della necessità di riconoscere nella relazione tra «storia» e «poesia» uno dei luoghi della continua censura e rimozione del «voler dire» nelle forme del dire, nelle quali permane, in quanto «costrizione» e

«facilitazione», nel senso illustrato più sopra, il retaggio di un debito da estinguere nei confronti della violenza della storia. Il «voler dire», nell’accedere

al dire, incontra le for-

mule codificate e stratificate della comunicazione letteraria, le modalità espressive gravate dal vincolo di una tradizione strutturata secondo i dettami della «messa in (bel-

la) forma» dell'esperienza: galatei che trasformano nelle «(buone) maniere» del dettato poetico la brutalità e la violenza della storia, eventualmente sotto la minaccia dell’impoeticità. La soluzione di «uscire» dall’ambito del-

la letteratura per accedere con un improbabile «salto» a

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una verità del vissuto sarebbe illusoria: in ogni caso si verrebbe a ignorare il luogo entro il quale il discorso si istituisce, luogo che si situa a tutti gli effetti ancora all’interno di uno stesso sistema, cui è funzionale anche la distin-

zione vita/letteratura. La storia è anche, o soprattutto, interpretazione mediata dall’universo delle narrazioni e delle strategie tràdite di messa in intrigo”, passato nel presente e presente irrecuperabile di un «passato in quanto tale», della sofferenza che non ha avuto voce e di una

voce della sofferenza censurata e rimossa nelle forme della tradizione (anche poetica). Una risposta critica «in poesia» potrà tentare di mettere a nudo il processo di costituzione di un «io» lirico nei confronti dell’ «io» narrativo incapace di mantenere aperta la ferita inferta al dire dalla sofferenza. La narrazione comporta sempre una «messa in intreccio» degli avvenimenti, e delle varie serie di eventi, che permettono alla sofferenza di accedere al linguaggio, di diventare comunicabile. Ma per diventare comunicabile deve accettare le strutture di pensiero e di giudizio — che sono soprattutto strutture di costruzione del senso — del discorso ereditato dalla storia, proprio di quel discorso che ha fatto ammutolire le vittime, i corpi di una sofferen-

za che non ha avuto parola. L’«io lirico», intendendo con questa espressione l’autodesignarsi di un «soggetto del discorso» non mediato dalla narrazione, da una «terza persona» virtuale, viene portato, in Zanzotto, alla tensione

estrema tra il riferimento a un io empirico deprivato della fiducia nella storia come originariamente sua propria e il

senso «dato» che perviene all’io dal discorso che nella storia lo costituisce, recidendo così la continuità della narrazione, e facendo emergere

nella lacerazione della trama

narrativa l’istanza di discorso nella sua nudità. La Storia diventa sempre narrazione, e parlare del passato significa essenzialmente rifarne il racconto; ma si tratterà di un racconto nel quale la sofferenza individuale, la voce di una persona-corpo, viene sempre tradita, soffocata nella «terza persona» virtuale, alla quale è affidato il compito di intessere la sofferenza nello sviluppo del «dramma

storico». Lo spazio dell’ «io lirico» caratterizzato più sopra, che irrompe nella trama narrativa e continuamente ne viene estromesso, è quello della voce senza racconto, voce

che patisce l’ammutolimento della carne che soffre e non

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ne può rendere conto, tantomeno per quegli «altri» in nome dei quali vorrebbe recare testimonianza. La strategia adottata da Zanzotto sembra essere quella di operare sul limite di una discordanza, prodotta all’interno del testo con il conferire un tono saggistico alla voce enunciante —mediante il distanziamento ironico descrittivo — tradita continuamente dalle istanze di un io lirico lacerato nella tensione verso la verità della testimonianza, e così percorrere per intersezioni e sconfessioni formali la duplice via del «parlare» della Storia (sottoponendola alla critica del discorso pubblico) e del «far parlare» la sofferenza. «Far parlare» la sofferenza, proprio nei termini in cui essa parla nella Storia, come dire spezzato, ammutolito sulla soglia del senso, come impossibilità di

accedere all’ordine simbolico socialmente accettato. Ciò comporta però, al livello testuale, il proliferare dei punti di vista, la plurivocità di un dettato complesso cui sembra sfuggire l'ordinamento dei referenti. Il crescere incoerente e l’incoerente soffrire del bosco, con le sue

incoerenti gioie appena accennanti non si sa verso chi o che cosa, si contrappone a una potenza (non estranea al senso bellico della parola), a un potere proprio del discorso di assegnargli, anche coercitivamente, sempre un luogo all’interno del proprio sistema. Ma incoerente non

significa di un altro ordine, di altro genus: bosco e

galateo crescono insieme, in continua reciproca interpretazione, continua violenza e ferimento. Il luogo non è circoscrivibile, è solo «attraversabile». Ma nell’attraversarlo, prima ancora di chiedersi dove porti il cammino, sorgo-

no le domande sull’appartenenza a quanto si incontra, alle quali non si può rispondere nei modi della narrazione, poiché vi sono realtà che non consentono di essere messe in intreccio nella medesima storia. E non si tratta solo dei morti della prima guerra mondiale, la cuì vicenda non corrisponde alla «narrazione» del Bollettino della Vittoria8, ma anche dei morti senza storia, di tutte le morti e di tutto ciò che muore, bosco com-

preso, sacrificato al dominio politico e tecnologico. Anche

della morte dei miti e delle narrazioni popolari,

nonché del dialetto e delle forme differenti della socialità. Tenendo come principio che è «idiozia», cioè chiusura nella particolarità, perdita di senso, anche l’azzeramento delle particolarità, lo spegnimento del diverso e

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molteplice. Il confronto con la Storia, in questa prospettiva, non è confinato al solo Galateo in Bosco, nel quale più palesemente trova spazio il riferimento a un evento epocale, ma viene condotto anche in Fosfeni e Idioma sul terreno del passato prossimo e recentissimo: personaggi, persone, miti, luoghi, lingue, entrati tutti nel passato, dal quale non hanno riscatto se non nell’archivio impersonale ed estraniante della Storia. Ma come non sapere che qualsiasi discorso sul «silenzio dei vinti», sulle zone di ammutolimento

stratificate

nella Storia, può giungere al discorso della cultura che ne ha provocato il silenzio solo attraverso le modalità di costruzione del senso che questa cultura possiede?°. E come si pone questo problema all’interno della formalizzazione poetica e dell’agone delle forme della poesia? La risposta di Zanzotto sembra articolarsi all’incrocio tra due linee di forza portanti: da una parte quella del passato attraverso il quale il soggetto giunge all’interpretazione di sé e al riconoscimento del debito contratto nel suo stesso costituirsi, dall’altra la cancellazione del passato nella sua riscrittura, nell’appiattimento sulle strutture ideologiche e discorsive del presente. Il riscatto del passato, perché non diventi soltanto menzogna a uso e giustificazione dell'esistente, deve perciò passare attraverso una «resa» al passato di ciò che viene al presente da più lontano, un’«elaborazione della distanza» che non pretenda di appropriarsi interamente

dell’alterità, ma ne abbia cura,

rispetto, pietas. Per questo motivo le ignote vittime della guerra, le persone care, i personaggi delle leggende e delle storie popolari, le stesse forme e parole consegnate al presente da un passato remoto, prossimo o recentissimo, sia che riguardino la sfera privata che quella della «Storia ufficiale», non vengono a costituire un unico intreccio, non confluiscono in un’unica «lingua». Per lo stesso motivo per cui anche al baco da seta viene conferito lo spazio enigmatico di una seppur muta affabulazione!°, indizio iperbolico del suo «far parte» a pieno titolo della realtà e di esserne a pieno titolo agente e paziente. La memoria tende a riconoscere ciò che del passato perviene al presente come valore sotto l’aspetto del monumento: ma il

monumento comporta sempre anche una retorica, e con essa una duplice espropriazione della testimonianza nel

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passato e nel presente. Rendere a ciascuno il suo vuol dire allora anche lasciare alle forme la loro alterità, alle

voci il loro silenzio. Le persone, le vicende e le leggende del passato non diventano mai, in Zanzotto, l’oggetto di una testimonianza. Piuttosto i soggetti con i quali il dovere di «rendere testimonianza» deve disputare dialogicamente un senso. Però in un dialogo difficile, nel quale l’altro è voce

sempre

sul limite dell’ammutolire,

e si

ritrae nell’enigmaticità del monumento. Il passato così non solo si trasforma continuamente, e inafferrabilmente, al cospetto del presente sorgivo che rende lettera morta la parola dello stesso soggetto dell’interpretazione, ma si consuma, si dilava, sbiadisce i

propri tratti, e l’«io» che sulla pagina ne rende testimonianza «in poesia» non può che venir meno lungo le sue linee di dissolvenza.

Note 1 «Io non narro quasi mai e non m’importa poi molto del narrare o informare; il mio scrivere, altre cose, è solo un modo di essere, nemmeno secrezione o escrezione, è un cemento (o sì crede un

cemento) che per sisma sbalzi da strati; è un dato che al fondo di tanto stare e muoversi arriverebbe allo spogliarsi lucido e completo di un grumo, di un nodo. O meglio, autofilarsi in bozzolo, ridursi a

realtà filata ma compatta senza più nulla al centro, che tuttavia sarebbe di un nulla ‘infinitamente definito’», in Racconti e prose, cit., pp. 150-151. ? Se l’ironia, nella sua definizione retorica corrente, presuppone che l’interlocutore o il lettore percepiscano lo scarto tra l’aspetto manifesto e quello latente del significato, volto a negare o distorcerne il senso, può anche darsi come difficoltà (e forse impossibilità) di afferrare il significato latente, indice di una distanza dal senso «proprio», patita e criticamente indagata. In questo caso l’ironia non è solo una figura «usata» dall’autore, ma si dà come condizione dalla quale prende avvio il suo scrivere. 3 P. V. Mengaldo, Appunti tipologici, cit., p. 51. * La Beltà, Possibili prefazi o riprese 0 conclusioni, p. 32. 5 In Lalingua, il dio birbante, cit., Zanzotto scrive: «Quello che viene chiamato manierismo, e che del resto ha numerose e contrastanti incarnazioni, dove non sia esibizione di impotenza scaltra, o al con-

trario di dissimulazione-repressione d’inventività (voglia di nascondimento), può essere semplicemente l’allusione ‘rovesciata’ a una specie di pedale stabilizzante all’interno di un movimento che tenderebbe a ogni forma di eccesso».

115 6 P. V. Mengaldo, Appunti tipologici, cit., p. 52. In proposito, il terzo vol. di Tempo e racconto, di P. Ricoeur, Jaca Book, Milano

1988

(tit. or. Temps et récit III. Le temps raconté, Seuil,

Paris 1985). 8 Alcune parole del Bollettino della Vittoria, cavate a forza dal loro «testo», vengono usate come titolo di diversi componimenti. L'opera-

zione, quasi a far equivalere la violenza di una lacerazione del Bollettino stesso a quella della retorizzazione demagogica della sofferenza umana, produce, nelle diverse ripetizioni e variazioni tipografiche, un qualche senso di meccanicità che distanzia il gesto di istintiva — ma facile — dissacrazione. ° Cfr. J. Derrida, «Cogito e storia della follia», in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971 (tit. or. L'écriture et la difference, Seuil,

Paris 1967). 10 Questioni di etichetta o anche cavalleresche, in Il Galateo in Bosco, p=85;

CAPITOLO OTTAVO SILENZIO E AMMUTOLIMENTO

I segni tracciati con una mano che più vorrebbe carezzare, o incidere con un bisturi affilatissimo, oppure semplicemente collocare «al loro posto», se ci fosse un «loro

posto» sulla pagina, quelle perfezioni indovinate nell’equilibrio della resistenza e dell'abbandono «nel» tempo. Segni che così spesso tradiscono l’ombra della mano che vorrebbe ancora correggere, sorreggere, ma incerta se non sia meglio questa precarietà, questo momentaneo bilanciarsi di tutte le parole sulla superficie della pagina, esposte a tutti gli effetti di superficie. Come i vecchietti nelle osterie di Vittorio Veneto o disseminate lungo le strade, come la Nene, come certi luoghi, San Gallo o la contrada di Cal Santa, anche la scrittura man-

tiene la propria identità grazie a una costante, miracolosa resistenza capace di «passare» e di trattenersi nel tempo della lettura, nel differimento da una lettura all’altra. Come una riverniciatura, una finestra nuova, una ruga

del viso non determinano un’altra identità, ma trattengono il tempo nel mutamento dell’identità, trattengono la

traccia del perduto. Così il passato rimane in un là inaccessibile a qualsiasi archeologia, irrecuperabile per qual siasi restauro, poiché il lavoro di riappropriazione sarebbe sempre un lavoro di falsificazione. Nessuna temporalità viene catturata nelle cose in quanto tali. Semplicemente

esso sono il loro invecchiamento, il deperimento e la distruzione — si trasformano, senza però per questo diventare meno se stesse, senza patire alcuna perdita di sé: è la voce che «dice» il tempo a ritrovarsi nell’affezione del mutamento, così che l’imperfetto/del tutto vi si sposta, ma accentuato,

/esaltato oltre ogni assuefazione/al di là di ogni

sicurezza +. Vi è uno «spostamento» che intacca lo stesso tempo verbale con il quale viene espressa la continuità dell’azio-

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ne nel passato — l’imperfetto, appunto — un movimento spaesante, che disloca soggetto e predicato in un quasipresente, dentro il quale si produce una sospensione del flusso temporale, un’estasi che perdura. Ci si può arrestare sull'orlo del tempo, ci si può, quasi, sbilanciare gustan-

do una sottile vertigine, ma non vi si può accedere. L’orlo del tempo non è il confine proustiano tra la memoria

che noi abbiamo e la memoria

che ci ha, e ci

rende a noi stessi per oscuri e sotterranei percorrimenti. Non è un’esperienza che può schiudere una via alla ricerca di un sé più autentico, proprio perché viene a situarsi al limite dell’esperienza stessa, in una regione di assoluta passività. Si tratta invece dell’esperienza comune del tempo, della linea che ogni istante attraversa per entrare nel passato, non provenendo però dal nulla né scomparendo nel nulla. Ma la negazione non basta a fare del nulla un luogo. Parliamo di provenienza e di destinazione del tempo, perché il percepire-percepirsi, o per dir meglio, con le parole di Zanzotto, l’offrire-soffrire non sono mai l’uno trasparente all’altro, non sono mai «uno stesso istante», se

non nella gloria della teologia o nel «silenzio» evocato poeticamente come l’inafferrabile dell’esperienza. Così l’offrire non si compie, il soffrire non esaurisce la sofferenza: provenienza e destinazione, sorgendo sulla linea del presente, ne producono anche la costante cancellazione, caratterizzando l’esperienza come continua esperienza del passato, e di un orlo oltre il quale è impossibile accedere. Gli anni sono sempre laggiù, hanno «svolgimento»

solo nella deriva/della sua ripetitiva unicità?;, sua

di un arregolarsi impronunciabile in prima persona. Anni nei quali un soggetto stomacato di persone verbali, di primepersone sì ritrova assestato nel proprio nello stampo, pur da questo proprio stravedendo per ogni dire di sì, per far dire di sî/al crudelissimo imperversare di/mondani beni fosfeni8. Non si perviene mai a un inizio, non alle cose, alle persone, né a sé, se non per la via indiretta della media-

zione attraverso i segni già intaccati da un’affezione, segnati dall’invio/rinvio dell’offrire-soffrire. Ma l’offrire-soffrire non è solo perdita, consunzione e lascito di un mandato che tende a sbiadirsi. Nel cuore oscuro dell’offrire-soffrire si compie una contrazione, un collasso, un ritrarsi che fa diventare «proprio» il tempo. E questa «proprietà» (appartenenza) assoluta corrisponde

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all’assoluta perdita, poichéè diventata lo stesso soggetto che dovrebbe pensarla, lo ha costituito in quanto soggetto: e perchéin questa cinta amata per la sua tanta/perdita/mi sono aggirato senza mai perdermi/ma pur sono stato perduto da

alcuno da alcuno!. Collasso, contrazione che apre lo spazio doloroso dell’alterità, che veste il tempo di sontuose metafore con le quali significare l’affezione di e per altro e altri. È qui che l’offrire-soffrire ritrova nei segni la resistenza nel tempo, in nome di un permanere in sé che resiste alla cancellazione perché compreso nell’affezione di e per l’altro. È questo collassare che dà un luogo al nulla, allo spazio tra dentro e fuori la «sacertà» di un pomerio, all’intervallo di cui tutti i segni sono il segno, margine di una ferita dalla quale sgorga la parola. C'è infatti un logos, «forza insistente e benigna di rac-

cordo», perché accoglie l’esperienza del tempo come esperienza dell’alterità, come

dono

e debito che viene

trattenuto, e resiste, nella fugacità del tempo, alla logica del «dove, ora, allora» nella quale sì denuda una cristallografia/del tutto, finalmente, indolore, /e poi joni e basta, derive/di mai mai accertabile splendore. Vi resiste, non se ne sottrae. È un qualcosa che pare/compito nello stabilizzante... ma tu devi! tu devi!S. Un qualcosa che non cancella la tragicità del tempo, l’accecamento dell’occhio che vuole «vedere» il tempo, ma pur sempre fa prorompere nell’esclamazione, chiama fuori verso l’altro. La resistenza nel tempo (non: resistenza al tempo), comporta anche l’abbandono nel tempo, l’accettazione dell’impermanenza del sé e della consunzione dei segni. Ma questa resistenza/abbandono serba l’impronta — sbiadita, riscritta —- dell’altro attraverso il

quale il parlante ha costituito la propria identità e la rimette costantemente in questione. Se l’altro, lo stesso sé, non corrispondono mai a una pienezza del senso che possa sospendere l'erosione del tempo, sì può però conservare un legame — quante volte evocato da Zanzotto —

così da trattenersi nel tempo, in un difficile colloquio con l’altro, sempre minacciato dall’ammutolimenta. Le figure dell’appartenenza e dello spossessamento nel tempo, vengono così a delinearsi in rapporto al legame riconfermato o perduto nel colloquio che struttura il sé in relazione con l’altro: lode e lutto, silenzio e ammutoli-

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mento. La lode è celebrazione e insieme accertamento e certificazione di esistenza. Nella lode, il cui archetipo è il vagito dell’infante, si esprime l’affacciarsi al mondo, il

suo col-laudo. Un «‘piacere del principio’ [...] che sta prima, al di qua del principio di piacere»”, e che sgorga sempre di nuovo, che si stupisce di esistere e di poter provocare l’esistenza. La lode prorompe dalla mera passività del corpo, non ancora voler-dire, ma intaccamento della

passività, «taglio» dell’istante. É, nel testo zanzottiano, la costanza del vocativo, nel quale, prima ancora che il chiamare, si ha la vocalità che e-voca verso l’altro nella parola. È l’esclamazione, che chiama fuori di sé, nell’affezione di

e per l’altro. Sul colloquio grava però la minaccia dell’interruzione, non la pausa o la dilazione, ma l’inattingibilità della parola oltre il tempo, il suo definitivo e irreversibile occultamento. Zanzotto distingue due diverse modalità dell’interruzione: l’ammutolimento e il silenzio. L'ammutolire (e il suo correlativo «zittire») è il segno di una violenza, di un’incuria, del mancato riconoscimen-

to dell’alterità dell’altro. Qui un mondo, un soggetto, non pervengono alla parola. Qui la parola viene soppressa, cancellata sulle labbra di chi la pronuncia. L'essere zittiti e l’ammutolire esprime la sottrazione del «legame», dell’identità di sé-altri nel tempo. Mutismo come ostinazione di un sé che non si riconosce nella parola di altri, che permane in sé recidendo però il «legame» con altri. Ma anche mutismo dell’essere zittiti, del vedere disconosciuta

la propria parola, dell’essere «tagliati fuori» dal dialogo. Significato con le parole non tanto della lacerazione, quanto del suo cicatrizzarsi, del farsi coagulo e cancrena,

il mutismo sbarra l’accesso a sé e agli altri, immette l’interpretazione in un circolo vizioso nel quale «salta» sempre il proprium dell’interpretandum. Rimane l’invito, invocazione e ingiunzione, a parlare, poiché il mutismo non viene accolto in nessuna serie di valori, e pertanto interroga i valori da fuori, da dietro il senso-vietato dove si compie un atto di violenza8. In questo senso vi sì riconosce anche l’atteggiamento di una volontaria esclusione, protesta e rifiuto nei confronti di un’alterità, questa volta

sì negativa, recante il senso del disprezzo e della sopraffazione nei confronti della vita come espressione di alterità concorrenti e coappartenentisi. Oppure l’esclusione pro-

121 viene dal timore e dalla consapevolezza dei limiti della vita, della sua finitezza.

Sul margine estremo, dove l’alterità assume i caratteri strutturali della tragicità dell’esistenza, cioè la malattia e la morte, si avrà l'’ammutolire di una parte di sé nel processo di elaborazione del lutto. Distinto dal mutismo, il silenzio dispone nel testo un campo retorico che tende alla dissolvenza del significato, caratterizzandosi positivamente come raggiungimento estatico, fuori dalla sofferenza e dalla perdita nel tempo, quiete assoluta, ma anche, negativamente, come perdita secca, come zona irrecuperabile di un sé e di un’alterità che ha cancellato ogni traccia. Tempo assolutamente perduto, là dove non c'è memoria né segno che possa «avere» il tempo né «aversi» nella pienezza del tempo. È il tempo che il tempo diventa, che comporta sempre una «perdita», un occultamento assoluto del tempo. Il silenzio allude a questo assolutamente altro, alla sua perfezione. «Fuori» della vita, della parola, del piacere e della soffe-

renza, limite del pensiero che non può cogliere il suo inizio e la sua fine. Limite oltre il quale l'immaginazione si fa visione. Nel silenzio c’è anche la morte degli altri: non l’inespresso della loro vita, il mutismo, né il loro «far parte di noi», che non viene a mancare. Veniamo a mancare noi, noi in loro, custodi della conferma della nostra identità e

della nostra esistenza. Ci viene sottratta, consegnata al

silenzio, quella parte della nostra vita che in loro trovava testimonianza. L'elaborazione del lutto non giunge che a una riappropriazione parziale della morte degli altri, mentre qualcosa sprofonda irrimediabilmente nel silenzio, e qualcosa si trasforma nel mutismo della cicatrice. «Qualcosa» intorno al quale le parole girano a vuoto, intessono una trama che mai ne ricompone il disegno. Eppure c’è un rituale, un’offerta che proietta nel futuro la conferma di noi sottrattaci dalla morte dell’altro, in un futuro nel quale chi è morto sarà uguale a noi,

dato che ci è impossibile pensare noi, ora o allora, nel futuro della nostra morte, uguali a lui. Per questo «parlare della morte» degli altri, saldando il nostro debito nei loro confronti, ma così risarcendoci della perdita di noi in loro, diventa parlare «dopo la nostra morte», prefigurando la commemorazione,

il rito di commemorazione,

122

che noi manteniamo «vivo» tra le tante pratiche umane che si trasformano

e si perdono, così tramandandolo.

Con la commemorazione —che non è da intendersi nel senso di un «discorso di commemorazione», ma dialogo aperto che continua, con e nella memoria condivisa, spostato al «futuro» della nostra morte — si mantiene il «legame» con altri, lo si rinnova in una pratica, si tiene al mon-

do minor solitudine, si «risparmia» vita!°. Della «trilogia» la commemorazione è l’aspetto forse più sorprendentemente «inattuale», e quello che più sì presta a essere frainteso nella prospettiva della nostalgia di un passato più autentico o della riesumazione di valori «fuori circolazione». La distanza critica dal passato non esclude certo l’evocazione degli affetti, e non va confusa con l'illusione di «non avere» un passato, di non avere alcun dono né alcun debito da commemorare. I piccoli mestieri, le abitudini sociali, le pratiche di affabulazione, i riti e

i divieti di un passato prossimo che sembra così remoto, una volta cancellati del tutto lasciano il posto a un’equivalenza dei valori spaesante e più mortificante di ogni vincolo coercitivo. Zanzotto rileva una cesura che è il carattere più proprio del nostro presente: realizzazione di sé, affermazione nel mondo, libertà da ogni inibizione,

divenute moneta discorsiva corrente e credo socialmente celebrate, sono un obbligo senza indirizzo, una vuotezza

di senso convertibile solo in denaro e simboli di un meschino potere (di acquisto), allorquando venga reciso il dialogo dei padri e dei figli, dei vivi e-dei morti, nel quale commemoriamo anche, con la nostra futura morte, il compimento della nostra vita. Da un lato l’idiozia, il particolarismo autolimitante, l’assoggettamento a un orizzonte dato di valori (remunerato però dal reciproco dar senso alla vita dell’altro), l’«inconsistenza»

storica

della vita della contrada di ieri. Dall'altro lato la «buccinazione americanoide» non meno «idiota» e inconsistente, nella quale non c’è possibilità di riconoscimento,

un

mondo sempre altrove, dove il poter fare e avere si dilata all’infinito, ma su una copertina patinata, una pellicola che scorre cancellando ogni particolarità, ogni proprietà, facendo della particolarità, sottratta al dialogo della commemorazione,

curiosità e moda.

Questo non comporta

che sia pensabile un recupero del passato — verso il quale Zanzotto non smussa mai la punta della critica — né che

123 valga la pena di rifugiarsi nella nostalgia. Tantomeno però significa l’accettazione prona dell’esistente: la commemorazione

rende l’esistente meno

monolitico, senza

teatrali smascheramenti dà consistenza al passato e al futuro mantenendo aperto il dialogo con ciò che non è più, ammonendo che ciò che è non è per sempre. Nell’epoca nostra che sempre più si conferma come epoca della tecnica, realizzata come proiezione dissolvente degli enti nel dominio delle telecomunicazioni, è proprio l’elaborazione del lutto a disperdersi nei simulacri di un’esperienza sempre meno

identificante, laddove crea

l'illusione di un costante ricominciamento e dell’appartenenza rispetto ad «altri» con i quali in realtà non condividiamo nulla se non oggetti. La commemorazione, come pratica di trasmissione

e di conflitto, venendo

meno

in

questo presente, apre alla disponibilità senza vincoli all’autoaffermazione, intesa allora illusoriamente come salto in avanti verso un sé che si possiede interamente, nascita e morte comprese. La solitudine, l’incertezza, la

paura, che derivano da questo salto nel vuoto, riguardano solo i perdenti — gli altri sono tutti felici nella beatitudine di una parodia del paradiso dantesco: folla dolcissima, vero disumano, perfetto aldilà in elisie Tivù, fosfeni a cascate,

acufeni di gloria gloria e gloria per questa bella estate?!

Note

1 (Da Ghéne), in Fosfeni, p. 43. ? PERISCOPI, in Fosfenî, p. 48. 3 Ivi, p. 47.

4 Collassare e pomerio, in Fosfeni, p. 19. 5 Varietà di rosa e joni, in Fosfeni, p. 27. Fu p. 28: ? A. Zanzotto, Tentativi di esperienza poetica..., cit., p. 10.

8 Già-mutismi, in Idioma, p. 90. ° Nella nota a Verso il 25 Aprile, in Idioma, Zanzotto contrappone alla commemorazione «ritualizzata e ciclica», di cui «si proporrebbe l’abolizione», un’altra forma di vicinanza: «Ricordarli stando chinati su libriccini di sbiadite ma non mai annientabili immagini: da svelare

124 all'infinito, con sempre maggior fatica: ethos, pathos, silenzio, in un lutto senza fine, senza fine demolito». È di quest'altra forma di «commemorazione» che tentiamo di ricostruire il senso intessuto nella «trilogia».

10 Nitro, in Fosfeni, p. 54,: No, questo spreco non l'ho mai

accettato/(intendo di unghie capelli/forfore secrezioni fiato/e simili oblazioni//d’armi e congerie varie/dalla loro stessa inerzia/e mucchiosità riarse... .

11 Sfere, in Idioma, p. 31. La «buccinazione americanoide» è, poco più sopra, in Intervista, p. 28.

CAPITOLO NONO VERSO IL NORD, L'INVERNO

Nel rinvio reciproco dei tre libri, nella loro reciproca «sconfessione», ritroviamo le giaciture semantiche che li

accomunano, in una sorta di ripetizione che comporta degli spostamenti, delle derive di senso, seguendo le quali si approda al movimento sotterraneo che le mette a tema. I morti della Grande

Guerra, i custodi di un idio-

ma interdetto, i luoghi geografici, l’attualità del dominio delle telecomunicazioni, la commemorazione del grande passato/quello nostro, con nevi e soli d'antan), l’inesauribile

interrogare dell’io-prima-persona-verbale rivolto a quell'incontro con l’altro, al quale non si può che «alludere» sempre differito, ma attraverso il quale si ha la sola possibilità di pervenire al sé della sofferenza e del riscatto — tutti questi «gangli» di discorso, irradiandi l’uno verso e

dentro l’altro — non diventano «temi» se non nel movimento di una lettura fatta a sua volta di rinvii e ripetizioni. Non si tratta di affrontare sotto diversi «punti di vista» qualcosa che sia riducibile a una scomposizione in determinati «argomenti»: è il plesso delle significazioni che non si lascia sviluppare, che non permette di isolare ed esaurire un tema dal viluppo delle sedimentazioni, intrusioni, ibridazioni e nascenze della lingua e del soggetto che nella lingua si costituisce. Certe topografie del discorso, certi tracciati verbali, finiscono sempre per reincontrarsi, per intersecarsi di nuovo, ma nel differimento, nel

lo spostamento della distanza spazio-temporale in cui differiscono autore e testo, in cui il soggetto differisce da se stesso. I tre libri non seguono un ordine di «compimento» nella sequenza lineare data dalla cronologia dell’edizione, «rinviano»

l’uno all’altro secondo

la scansione

di

«spostamenti» che seguono piuttosto la strategia della mise en abîme, e dispongono centralmente Fosfenz, rispetto a Il Galateo in Bosco e Idioma — così come le sezioni in dia-

126 letto rispetto alle altre che compongono Idioma -- in una distanza non

colmabile,

inabissata nella medesima

«superficie» temporale. Non c’è quindi svolgimento, sviluppo, sdipanamento di uno o più «temi». C'è invece ritorno, ripetizione, ripresa di uno stesso discorso — quello, inesauribile, della coappartenenza

di sé/altri in un

mondo che dia e che abbia senso — discorso che si diffrange nella temporalità, nella scrittura, dando luogo a

diversi e stratificati eventi di senso. Resa così impraticabile la linearità della lettura (dal primo all’ultimo verso, dal primo all’ultimo libro), il processo di costruzione del senso nella relazione tra testo(-i) e lettore viene affidato al riconoscimento di certe oscillazioni, deviazioni, correzio-

ni semantiche che lavorano, a partire da un’assenza, un occultamento dell’invio, il tessuto verbale.

L’accostamento e il confronto tra diversi componimenti nei tre diversi libri — negata la vettorialità temporale — allorquando propongano una medesima «dominante» tematica, incontrano la doppia difficoltà riguardante il ruolo giocato dai singoli componimenti nell'economia del singolo libro e le intersezioni con altre figure o nuclei di discorso «dominanti» in altri luoghi testuali. Le stesse «sezioni» che scandiscono Il Galateo în Bosco e Idioma (Fosfeni non rileva ripartizioni interne)

non si possono

interpretare isolatamente, anche se possono avere autonoma

«descrizione», e, se pur permettono di riconoscere

alcune giustapposizioni, non si risolvono in un sistema di elementi oppositivi. La scomposizione in terne, o gruppi di tre «ante», per cui si potrebbe dire, per esempio, che la sezione Ipersonetto del Galateo sta nella posizione centrale, en abîme, come la sezione dialettale sta a Idioma, non per-

mette di bloccare il movimento della significazione in uno schema: è piuttosto una suggestione a intrecciare un altro itinerario di lettura, a confrontare l’ipotesi di una iperco-

dificazione letteraria con quella di un livello quasi «sotterraneo» rispetto alla soglia della letterarietà. La costruzione del senso del testo mediante la lettura deve quindi fare a meno di un punto di partenza dato, come

anche di un ordine stabilito di successione,

confi-

dando nella possibilità di elaborare le stratificazioni e le

intersezioni del testo, i suoi margini e le sue ripiegature. Questo significa però prendere sul serio il testo della «trilogia», prenderlo cioè alla lettera, muovendosi all’interno

127 della sua retorica e accettando la «perdita» (ma anche il guadagno — in un altro ordine di discorso) di senso che comporta la traduzione della lettura, delle molte e differenti letture, in un resoconto verbale che deve obbedire a

determinati (quali essi siano) criteri di strutturazione. Se la

poesia non è la pagina scritta, ma quel «testo» che ha il suo luogo ultimo della sua scrittura nella memoria?, esso non è mai «assente» né è mai totalmente «presente» a un ideale sguardo che voglia «comprenderlo». Vi sarà però come punto di partenza la traccia di un’affezione, da seguire e da interrogare, da confermare di nuovo «sul» testo. A chiedere conferma testuale viene anche un altro «spostamento», un movimento che, se si lascia individuare abbastanza agevolmente nel corso di una lettura attenta, non si presta altrettanto agevolmente a una univoca ricomposizione di senso. In tutti e tre i libri della «trilogia» rinveniamo una scansione «parallela», per esplicite datazioni o indizi, che conduce dalle prime pagine, in cui

fine dell’inverno e inizio di primavera si contendono giorni incerti — o certificati (2 19, S. Giuseppe)® — di marzo, attraverso l’arco di una transizione effimera, densa di nascite, maturazioni e morti, fino a un inverno che sem-

pre più sprofonda in stagione perenne. E un «parallelismo» da lasciare però tra virgolette, poiché la presenza dell’inverno tende ad assumere diversa consistenza via via che si passa dal Galateo a Fosfeni a Idioma. Se nel Galateo è poco più di una cornice, il passaggio attraverso il ciclo stagionale diventa esplicito in Fosfeni, fortemente segnato dal clima invernale, quasi a serra-

re l'intensa commemorazione del passato tra una primavera non realizzata (Verso il 25 Aprile) e il paesaggio vetroso di /Idioma. Si fa «paesaggio», in quest’ultimo libro, quella fuga prospettica verso un «nord», «verso nevi e astrazioni, attraverso nebbie, geli, gelatine, scarsa o nulla sto-

ria» di cui si parla in nota a Fosfeni!. Si dovrà usare ancora tra virgolette la parola «parallelismo», nel riscontrare solidale a questo un altro movimento, un altro «spostamento», proprio di ogni singolo volume e comune a tutti e tre, in gradazione, ancora dal

Galateo a Idioma, che tende a eccedere il piano della mimesis, verso il microscopico, l’irrappresentabile, l’astratto. Quasi la ricerca, per altro non inedita in Zanzotto, ma perseguita con accresciuta tenacia, di porsi al di sotto

128 (e/o al di sopra) del «punto di vista» dell’occhio umano.

Uno sguardo che nel Galateo ha come auspicato raggiungimento il situarsi all’altezza dell’erba*, all'altezza e alla misura di tutto ciò che vive e muore, perso e mistificato

nel dimensionamento egoistico dello sguardo-parola, se pure capace, quest’ultimo, di offrirsi all’alterità per mezzo di uno «stravedere» poetico. Lo sguardo è però comunque destinato al fallimento, a un inevitabile perdere e perdersi di vista, e ancor più alla sclerotizzazione che acceca l’occhio che vuole vedersi, cogliersi in un unico contemporaneo vedere-vedersi veduto$: Entro prementi cornee

s’incorna il visus ilfigurato.

Cecità, nero autoscatto”, dove il venir meno

dell’istante,

l'impossibilità di cogliere la «relazione» in quanto tale, poiché l’appartenersi dell’evento e del significato subi scono la continua erosione del tempo, lascia un margine iridato, il brulicare e il frangersi, l’irradiarsi sul limite dello sguardo e della visione. Il «bosco», nella figura del bruco appena mimetizzato tubo digerente®, il più ignaro agente di violenza e trasformazione

(e di generazione,

quindi,

oltre che di annichilimento), presenta l’ultimo e il più basso, livello da cui aspirare alla «visibilità» di una sempre rinviata essenza? dell’affacciarsi al mondo di ciò che perviene allo sguardo come organismo, significanza, voltità del volto. Affacciarsi che uncina/e atterrisce, da un giù della

ruina? inaccessibile, che porta con sé una domanda senso e continuamente

di

la rinvia in altra violenza, altro

nascere dalla violenza. Rinvio che provoca un’esclamazione, l'ingiunzione affinché si scrampi da questo nascere da e per l’annichilimento, «qualcosa» fin lassù sui trampoli e sulle liane più eteree del bosco/fino alle sue più alte e ridenti raggiere di piova/alle sue più fini lettere algebriche ed algoritmi/in prova/sempre più sbilanciati în avanti in fuori. E la ricerca

di questo fiù sù del bosco, che è però ancora bosco, verso un «fuori» dallo sguardo-parola, un «fuori idioma» che è ancora nel dire, guida verso spazi rarefatti, costellazioni sbilanciate tra percezione

e silenzio, attraverso

le traspa-

renze tremolanti di Fosfeni, fino al cielo più limpido, lim-

pido sino ad/essere sconosciuto di Idiomi. Zanzotto sembra indicare un «di là», un luogo nel qua-

le l’inaudito della parola, la sua tragicità incommensurabi-

129 le, si acquieta in una forma di accettazione che non è resa né illusorio consentire alle figure naturalistiche di un improbabile «aversi alla fine». A conclusione del Galateo il nero autoscatto, l’accecamento nel taglio” temporale a vivo del farsi «altro» di ogni significanza, si caratterizza come deiscenza e parziale mancamento dello stato di veglia (spore e sopori), al quale si aggiunge la citazione, significati vamente in grafia antiquata e smangiata da una «imperfetta» riproduzione, di versi dialettali in cui — in antitesi con i versi «attuali» — il bosco viene detto luogo di pace vera al confronto dell’odio, l’adulazione e i tradimenti nutriti in

seno a una presupponibile società umana. I secoli che scavano una voragine tra le due diverse sequenze verbali vengono graficamente esibiti, enfatizzati, come a ironizzare

sulla ingenua separazione tra natura e cultura che predicano, e, inoltre, rimarcano la presenza del passato nella

forma della consumazione e dello stravolgimento!3. Quasi figurazione iconica di una «formazione di compromesso» freudiana, la vocazione verso l’acquietamento nell’abbandono alla fuga in avanti della significanza, può aver luogo solo in una produzione sintomatica che conserva il conflitto. Questa via di «risoluzione» del conflitto, che sembra abitare il cuore tragico dello sguardo-parola, approda quindi a qualcosa di diverso dalla semplice interdizione. I limiti dello sguardo,

«in basso» fino al bruco, «in alto»

fino alle ridenti raggiere di piova, non corrispondono a quel li della parola, nella quale «di là», oltre lo sguardo, barbaglia la visione — ma la parola, oltre lo sguardo, diventa puro offrirsi, esporsi a qualcosa di inafferrabile

in un

significato, alla deriva nella sua ineludibile forma grammaticale di participio «passato». L’appropriazione nella deiscenza e nella rinuncia all’io cosciente avviene soltanto al negativo: la parola è «in sé» nel proprio significato, ma nell’accecamento di sé, nel suo completo sbilanciamento în fuori/senza pudori*. Manteneri, trattenersi nella commemorazione,

richiede

che la

parola gettata fuori nell’accecamento accetti di perdersi, di farsi passato, non

per diventare così meno

cieca, ma

per farsi cercante, pur «alla cieca», per offrirsi nella sua povertà, e «farsi carico» della propria inesorabile perdita di senso che comunque è, al limite del silenzio prossima, a-

tu-per-tu col remoto di ciò che viene a esistenza!5. In Fosfeni la perdita dei contorni delle cose, il loro sbiadirsi, diventare

130

sostanza gelatinosa e quasi trasparente, porta a vedere macchie di colore, masse in movimento, detriti e rovine di

oggetti-significati riconoscibili

e comunicabili. La parola,

violenza, turbamento che viene al sé e dal sé, non ha esau-

rito il suo compito nel prendere atto del fallimento dello sguardo. Deve prendere nota, prendere a cuore, a carico questo fallimento, deve «tenerlo a cuore», par coeur, a memoria, deve trattenerne la memoria!”.

Nel farsi gelo di tutta l’albata e variata nudezza dell’esser@”, il perduto, un legame di parola che ci riguarda e ci impegna, rimane estrema contaminazione e chiarore ciliato appena al di qua!8. Finché ci sarà sguardo e parola, il loro violare e assumere il debito di ogni violazione, anche nella più terribile stellarità ci sarà un compenso, qualcosa che viene al senso dalla povertà del senso, anche da dove Ogni passo sposta e attenaglia come un giro di vite/ogni voce si soffoca dolcissima inutile/ogni sguardo si disocchia®. Idioma si inoltra sempre di più verso una «perdita della stagione», una zona di penombra e tracce luminose, di quasi-silenzio, caratterizzata dalla presenza della neve, del

vento, di un paesaggio solo a tratti riconoscibile. L’inverno, verso il quale anche questo libro, a partire dagli accenni primaverili, si incammina,

diventa meno

«inver-

no» di quanto non sia un «nord», un settentrione verso il quale converge

il dissolversi di tutte le evidenze,

e nel

quale visibile e visione si contaminano a vicenda.

Senza nostalgia, la perdita e l'espropriazione, l’irreversibile sottrarsi del presente nel significato, accettati come modalità propria al darsi del senso e struttura del significare, vengono assunti come una diversa possibilità di comprensione dell’esistenza. Ciò non significa infatti che il senso non «sì dà», né che non si «prenda» senso, quanto piuttosto un venir meno della presunzione di possederlo nell’immediatezza del presente, di poter dominare la decisione in quanto tale, colmando così «ora» e «per sempre» la distanza con il presente che viene da più lontano di noi, con il futuro verso il quale l’idea del termine dato

dalla nostra morte non esaurisce la responsabilità. Gli ultimi componimenti di /dioma alludono a questa possibilità di «mantenersi nella distanza», di celebrare il

«passare» (sbiadirsi, trasfigurarsi) del legame che fa coappartenere uomo e mondo in un universo di senso, e il suo

rinnovarsi proprio a partire da questa perdita, che non fa

131

venir meno la domanda di senso, anzi, la fa emergere con maggiore urgenza dal margine di una cancellatura, e la riconduce sempre di nuovo alla parola che «si fa carico» di esporre il soggetto dell’interpretazione di sé all’altro. Seguire imovimenti che abbiamo tentato di riassumere: dalla primavera all’inverno e quindi a uno spazio-tempo fuori dalle stagioni; dall’orizzonte del paesaggio che si offre alla vista, sezionato

«in verticale», secondo il suo

disporsi a righe nello spettro luminoso, verso l’alto e verso il basso fino a confonderne i termini certi, verso un «nord» in cui si ha dissolvenza, rarefazione, occultamento del

paesaggio stesso — seguire questi «spostamenti» e dar loro una figura di progressione dal Galateo a Idioma, significa però porsi degli ulteriori interrogativi. Sarebbe forse troppo ingenuo pensare a una semplice corrispondenza dei tempi di composizione e del periodo stagionale, fenomeni atmosferici compresi. D’altra parte non è facile comprendere questi «spostamenti» in una formula univoca, facendo leva sulla cronologia delle «aggiunte» quantitative dichiarate dall’autore e proponendole arbitrariamente come momenti finali di un processo. Come sarebbe forse troppo comodo pensare a un progetto che preceda la scrittura e che questa semplicemente «realizzi».

Siamo costretti a rimanere all’internodi questi movimenti, a ripeterne e ricostruirne i tracciati. A prenderli alla lettera, seguendo il diffrangersi dei segni nel tempo, arrestandoci di fronte all’impossibilità di disoccultare del tutto il tempo che i segni custodiscono ma anche nascondono, «perdono». Sempre, allo stesso tempo, presi dalla disputa del senso che si spalanca, fin troppo evidente,

rapinoso e vertiginoso, dai segni. Di questo essere carpiti dal senso, anche di questo diverso resistere alla cattura in un universo che esibisce sempre più il rinvio di segno e cosa come essenza, sempre più segni di segni e sempre più enigmatiche le «cose», è intaccata la possibilità di una chiusura della tematizzazione. Là dove, alla dimessa pretesa di afferramento della totalità nella presenza, sembra sostituirsi, non meno espropriante, ancora perversa in un progetto di dominio del differimento temporale, la vertigine della totalità dei rinvii. La mimesis, destituita dalla funzione

di riprodurre

la

mera percezione della «cosa», là dove la percezione stessa

132

si scopre medium del rinvio a un senso per il quale la

«cosa» stessa non è che segno, trova spazio soltanto all’interno dell’«allegoria». Ancora una volta lasciata tra

giudiziose virgolette, l’«allegoria» dell'inverno che sfuma in stagione/non-stagione perenne, situata entro un movimento alla deriva verso settentrione, raccoglie la debordante produzione metaforica che viene dallo slacciamento del rinvio, in cui cosa e segno si incontrano nel moto

di deflusso che non li lascia traguardare da una posizione di centralità. Gioco di quasi-trasparenze che mai perviene a trasparenza né mai incontra il fatto, la pertinenza di cui incessantemente «parla».

Il pervenire al coglimento del rinvio come essenza (rinvio che - ammesso occorra precisarlo - non ha presente l’«invio», è detrascendentalizzato),

se da un lato

libera il soggetto dal passato e lo rende a sé attraverso la

celebrazione del dono e la responsabilità del risarcimento del debito, lo priva però di ogni possibilità di appaesamento nelle presunte verità «naturali» in cui sembra presentarsi disponibile, «dato», il senso dell’esistenza. Lo priva soprattutto dell’illusione, consolatoria e in fondo «ragionevole», secondo uno schema che viene «offerto»

dalla contemplazione della natura, e che vede «compiersi», tornare a sé, tutto ciò che vive: «aversi alla fine». Dalla

gemma al seme, dal sorgere al tramonto, dalla nascita alla morte, il tragitto da un oriente a un occidente che struttura un’impalcatura di pensiero millenaria, e sottintende un compimento, un «riaversi» nel «ritornare al principio», vacilla, si guasta, diventa sempre meno

seriamente

percorribile. Sarà forse l’allegoria di un settentrione che sì perde nella sua stessa sconfinatezza a costituire un’adeguata alternativa? Parlare di alternativa è fin troppo semplicistico. E, comunque,

anche

il settentrione,

come

metafora dell’esistenza, guadagna il suo senso.incrociando la grande «metafora dell’occidente», e condividendone il destino. La parola poetica si offre generosamente e spericolatamente anche oltre i confini che il pensiero pone alla meditazione, e per questo non si illude certo di portare facili risposte, ma può forse contribuire a guadagnare ancora un poco di impensato. A settentrione, quasi «fuori» dal ciclo del sole e delle stagioni, sul limite delle metafore naturali di cui ci servia-

133

mo per riaverci nella pluralità sfuggente degli eventi, ma anche per organizzare il dominio sulla natura, la violenza dell’uomo

sull’uomo. A settentrione, verso un limite

dell’esistenza terrestre dove la terra non è più saldo fondamento né la Storia una proprietà data e inalienabile, qualcuno ancora parla, allude con la parola a un incontro. La parola «parla», e dove vi è parola vi è la possibilità di un incontro, fosse anche soltanto «nella parola», vi è

ancora speranza, finché a questa parola qualcuno potrà ancora dare senso.

Note

1 VORREI SAPERLO, in Idioma, p. 48. =]: Derrida «Che cos'è la poesia?», Poesia, n. 11, nov. 1988, ora ripreso in M. Ferraris, Postille a Derrida, Rosenberg & Sellier, Torino 1990, pp. 238-247, p. 243: «Nasce così in te il desiderio di apprende-

re par coeur. Di lasciarti attraversare il cuore dal dettato...». Più sopra: «Letteralmente: vorresti imparare a memoria [retenir par coeur) una forma assolutamente unica, un evento tanto singolare che non sia più possibile separare in esso l’idealità, ciò che si suo chiamare il senso ideale, dal corpo della lettera...». In Perché i poeti?, cit., Heidegger fa uso dell’espressione par coeur nella stessa pagina in cui scrive del «templum-tempus», p. 287.

3 Nel primo componimento del Galateo în Bosco, a p. 14. Ma altrove la menzione o del mese o di alcune ricorrenze del calendario permette di ricostruire un «arco» temporale che va dalla primavera appena timidamente annunciantesi, o che tarda ad annunciarsi, a un

profondo indefinito inverno «fuori stagione».

4 Nota a Fosfeni, p. 79. 5 CHE SOTTO L'ALTA GUIDA, in Il Galateo in Bosco, p. 100. Cfr. in

Idioma, ASCOLTANDO DAL PRATO, p. 17. 6 INVERNO IN BOSCO - OSTERIE - CIPPI - OSSARI/CASE, in Il Galateo in Bosco, p. 106. ? (Lattiginoso), in Il Galateo in Bosco, p. 109.

8 Ivi, p. 108. 9 Ivi, p. 108.

10 Ivi, p. 108. 11 Ivi, p.109.

12 In /dioma, p. 106. 18 (Lattiginoso), in Il Galateo in Bosco, p. 109. Il «luogo di pace

vera» con tutta probabilità si oppone, nel testo citato, allo «spazio sociale» della vita cortigiana. 1° Tui, p.109, 15 (ANTICICLONI, INVERNI), in Fosfeni, p. 59.

16 Ivi, p. 59. Cfr. la nota 2 al presente capitolo.

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— Stampato nel mese di giugno 1992. dalla Litografica Abbiatense snc

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