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Italian Pages 403 Year 1984
Biblioteca Adelphi 141 ELIAS CANETTI
La coscienza delle parole
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otere senza l'aiuto di quei pochi che hanno contribuito alla sua ascesa e hanno dato buona prova di sé. Con essi è largo di concessioni, fin tanto che gli servono e accolgono senza obiezioni ogni sua decisione. Ha un occhio acuto per le loro svariate debolezze, che giungono fino alla corruzione. Le accetta se ne è messo al corrente, se nulla di esse gli è tenuto nascosto: l'onniscienza anche nei loro confronti è una delle sue capitali esigenze. Si preoccupa di serbare per sé questa onniscienza, e di tenere entro limiti ben precisi il potere degli altri. Egli solo, e nessun altro, dev'essere informato di tutto. Sì considera un maestro in questa separazione degli incarichi che affida a ciascuno dei suoi 262
aiutanti. E bada a non attirarli durevolmente vicino a sé, poiché potrebbero venire a sapere più di quanto sia loro consentito. Dal suo punto di vista, questo istinto è giusto, perché Bormann, l'unico che è sempre rimasto accanto a lui e che, per la natura stessa del suo incarico di segretario è venuto a conoscenza di molte cose, si è in effetti conquistato il potere. Si ha l'impressione che Hitler abbia propriamente bisogno delle debolezze di coloro ai quali delega una parte di potere. Non soltanto, in questo modo, li tiene più saldamente in pugno e quando vuole deporli non deve cercare a lungo dei validi motivi. Ma così, inoltre, conserva su di loro un senso di superiorità morale. È importante per lui potersi dire immune dalle debolezze più consuete, come l'avidità, la concupiscenza, la vanità, tutto ciò che interviene nell'esistenza comune degli uomini « piccoli ». Se controlla i suoi ritratti destinati a essere resi pubblici, esiste per questo una giustificazione politica. Si preoccupa a tal fine di non ingrassare, ma ciò non ha a che fare con la vanità: un Fvihrer con la pancia è impensabile. I suoi enormi edifici devono impressionare gli altri potentati e renderli facilmente arrendevoli. Come egli afferma, però, quegli edifici sono innanzitutto concepiti per l'eternità: devono servire a rafforzare l'autocoscienza del popolo quando egli non ci sarà più. Tutto ciò che egli intraprende, anche le iniziative più smisurate, serve alla sua missione: dotatissimo del tipico talento dei paranoici di scovare motivazioni, non ravvisa nulla in sé che non possa giustificare in modo convincente dinanzi agli altri e a se stesso. Nella sua inoffensiva e ristrettissima cerchia, può esprimersi liberamente riguardo ai suoi complici; non si contiene affatto: ed è divertente, ma anche istruttivo, leggere in Speer quali parole riservi a questa gente. Deride Gòring per la sua passione venatoria: è talmente facile abbattere gli animali da lontano. Ammazzare gli animali è un lavoro da macellaio. Sugli uccisori di uomini, non si pronuncia. Lo ritiene forse pe263
ricoloso in ogni caso? La « filosofìa » di Rosenberg gli riesce incomprensibile. Anche se ne parla pochissimo, si ha l'impressione che gli invidi la diffusione e le enormi tirature del suo libro. Certo, le tirature di Mein Kampf sono di gran lunga superiori, ma egli non tollera nulla che in qualsiasi campo gli si avvicini e che, sia pure da lontano, attenti alla sua unicità. Le smanie di Himmler a proposito dei Germani gli danno sui nervi. Bisogna proprio ricordare al mondo che quelli, al tempo dell'impero romano, abitavano in capanne di fango? Hitler sembra vergognarsi delle condizioni degli antichi Germani, che vivevano senz'arte e senza cultura. Lui, che apprezza Grùtzner e il Ring viennese, si sente molto superiore a loro. A proposito di Himmler si esprime con una certa asprezza, quando questi definisce Carlo Magno massacratore dei Sassoni. Hitler approva il massacro dei Sassoni, giacché l'impero franco ha portato in Germania la civiltà. Il fatto che approvi il massacro dei Sassoni di Germania è già una sorta di segno precorritore della sua futura indifferenza per il destino dei Tedeschi. Comunque non ammette che si sparli di Carlo Magno poiché riconosce in lui un precursore. In fondo, rispetta i Germani solo a partire dal Sacro Romano Impero : è irresistibile la forza di attrazione che sente per gli imperi, in quanto egli stesso è in procinto di fondare il proprio impero universale. Il rapporto di Hitler con Speer è sostanzialmente diverso da quelli con tutti gli altri. Come Speer stesso ha riconosciuto, Hitler vede in lui la propria giovinezza. Non solo, grazie a lui, le ambizioni architettoniche della sua giovinezza saranno pienamente appagate. Nella dimestichezza con Speer, Hitler ritrova un poco dell'entusiasmo di cui lui stesso era pervaso nel tempo della sua solitudine. Forse intuisce anche un poco della relativa purezza di quei primi anni di schizzi ben fatti e impossibili da realizzare, in cui si esprimeva l'ammirazione per qualcosa d'altro, che già esisteva. Probabilmente egli non ammirò mai nulla tanto quan264
to la « grande » architettura. Ma non sarebbe stato in fi^ado di capire che, realizzando quegli schizzi, distruggeva l'unica componente preziosa della sua ammirazione: il suo carattere di onirica venerazione. Ora, ogni « realizzazione » ha acquistato su di lui un rabbioso potere, cui egli sottomette ogni residuo impulso vitale. DISTRUZIONE
Il duplice piacere della durata e della distruzione, che è caratteristico del paranoico, è stato esaminato a fondo a proposito del 'caso Schreber'.* La minaccia contro la propria persona, avvertita acutamente come se fosse sempre incombente, viene contrastata in due modi: da un lato, mediante l'estensione in enormi spazi che sono per cosi dire incorporati nella propria persona, dall'altro mediante il conseguimento di durata «eterna». La formula del « Reich millenario» non sarebbe affatto eccessiva per un caso di paranoia avanzata. Tutto ciò che è diverso dall'io viene eliminato o sottomesso: sottomissione vuol dire soltanto temporanea salvezza, che facilmente si converte in sterminio. Ogni resistenza nell'ambito della propria sfera di potere appare insopportabile: narra Speer che resistere a Hitler significava suscitare tutta la sua furia. Solo là dove non dispone ancora del potere assoluto, egli è capace di accomodamenti: e questo perché si tratta dei processi che gli serviranno ad acquisire il potere. Il Reich in tutta la sua estensione costituisce la persona di Hitler finalmente non più in pericolo, e fin quando egli non sarà giunto ad abbracciare tutta la terra non potrà mai stare tranquillo. L'obiettivo della durata diviene ovvio in questa prospettiva: nelle Memorie di Speer non ne mancano le testimonianze. Alla sommità del « Kuppelberg » hitleriano di Berlino, a 290 metri d'altezza, dev'essere posta un'aquila. • Si vedano sopra, nel saggio Potere e sopravvivenza, le pp. 56
sgg. [N.d.T.].
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Al principio dell'estate del 1939 Hitler ne parla a Speer: «Lassù non dovrà più esserci l'aquila sulla svastica: l'aquila dovrà invece sovrastare il globo del mondo! L'aquila sul globo del mondo dev'essere il coronamento del più grande edificio della terra! ». Già due anni prima, nel 1937, discutendo il progetto del « Grosse Stadion», aveva detto quasi di passata: « Nel 1940 i giochi olimpici avranno ancora luogo a Tokio. Ma dopo si svolgeranno per sempre in Germania». I libri su cui si sofferma più a fondo, quelli che formano le sue letture preferite, trattano di guerra o di architettura. In questi campi sorprende per le sue precise conoscenze anche gli specialisti, e grazie alla sua memoria gli riesce facile sconfìggerli nelle discussioni su tali argomenti. La sua architettura è comprensibile solo quando se ne considera il fine di « eterna » durata; Hitler detesta ciò che non è pietra: il vetro, dietro al quale non ci si può nascondere, e oltretutto è fragile, è da lui aborrito come materiale per grandi edifìci. Da principio egli tiene meglio celato il suo piacere di distruggere, che perciò appare ancor più mostruoso quando finalmente si manifesta. Verso la fine di giugno del 1940, tre giorni dopo l'inizio dell'armistizio con la Francia, Hitler porta con sé Speer e pochi altri in visita a Parigi, ove non era mai stato. In tre ore visita rOpéra, dimostrandosene profondo conoscitore (« Qui potete vedere quanto me ne intendo! »), la Madeleine, gli Champs-Elysées, l'Are de Triomphe, la Tour Eiffel, Les Invalides, ove rende omaggio reverente a Napoleone, il Panthéon, il Louvre, Rue de Rivoli e infine il Sacré-Coeur a Montmartre. Dopo queste tre ore dichiara: « Era il sogno della mia vita poter vedere Parigi. Non posso dire quanto sono felice che si sia realizzato ». La sera stessa, tornato nel suo quartier generale, nella stanzetta di una casa di contadini, incarica Speer di riprendere la costruzione degli edifici di Berlino, e soggiunge: «Non era bella Parigi? Ma Berlino dovrà 266
essere molto più ballai Mi ero chiesto più volte se non fii dovesse distruggere Parigi; ma quando a Berlino .sarà tutto pronto, Parigi non sarà più che un'ombra. I''. allora perché dovremmo distruggerla? ». Speer è sorpreso dalla tranquillità con cui Hitler parla della distruzione di Parigi, « come se si trattasse della cosa più ovvia del mondo ». Qui appare evidente la prossimità fra superare e distruggere. Il superamento equivale alla vittoria, e qualora sia ottenuto in fretta differisce la distruzione. La facile vittoria sulla Francia ha temporaneamente salvato Parigi. Parigi deve ancora durare, in modo da apparire come un'ombra rispetto alla nuova Berlino. Subito dopo, in quello stesso 1940, Speer ha modo di ascoltare Hitler che, durante una cena alla Cancelleria del Reich, « prende a vaneggiare in crescente ebbrezza di distruzione». «Ha mai guardato una carta di Londra? Le case sono così fìtte che un solo focolaio d'incendio basterebbe a distruggere l'intera città, come è accaduto duecento anni fa. GÒring, con innumerevoli bombe incendiarie di nuovissima efficacia, creerà focolai d'incendio nei più diversi quartieri di Londra; ovunque, focolai d'incendio. A migliaia. E poi si uniranno in un immenso mare di fuoco. Questa di Gòring è l'unica idea giusta: le bombe dirompenti non servono, ma con le bombe incendiarie lo si può fare: distruggere totalmente Londra! Cosa potranno mai concludere con i loro servizi antincendio, una volta che sia scatenata questa offensiva? ». Si rivela cosi senza mascherature il piacere di distruggere una città con otto milioni di abitanti, e proprio il numero degli abitanti deve aver contribuito alla crescita di quel piacere. La riunione di migliaia di focolai d'incendio in un immenso mare di fuoco si presenta come una sorta di immagine di massa. Il fuoco serve spesso da simbolo della massa, della massa che distrugge, Hitler non si accontenta del simbolo, lo trasforma nella realtà che esso rappresenta e si serve del fuoco come massa per la distruzione di Londra. 267
Questa « ebbrezza di distruzione » che inizialmente sorge nella mente di Hitler si riverserà in due modi differenti sulla Germania. Ciò che egli ha progettato per Londra, e che non gli riuscirà, è divenuto poi realtà per le città tedesche. È come se Hitler e Gòring avessero indotto e persuaso i loro nemici a usare l'arma che essi stessi inventarono. Ma vi è anche un secondo aspetto, non meno terribile: Hitler aveva una tale familiarità con queste idee di distruzione totale, che esse non potevano più impressionarlo profondamente. Le cose più atroci non lo sorprendevano più: le aveva escogitate lui stesso e a lungo si era beato a quei pensieri. Le distruzioni di intere città erano nate nella sua mente, ed erano ormai divenute una nuova tradizione della guerra quando si volsero seriamente contro la Germania. Bisognava soltanto «passarvi attraverso », come attraverso ogni altra cosa. Egli rifiutava di prenderne conoscenza con i suoi occhi, e né la distruzione di Amburgo né la distruzione di Berlino lo avrebbero indotto a cedere un palmo di terreno russo conquistato. Ne risultò una situazione oggi incredibile: il suo Reich continuava a estendersi territorialmente per buona parte dell'Europa, mentre le grandi città tedesche cadevano una dopo l'altra in macerie. Si erano presi provvedimenti perché la sua persona in senso stretto rimanesse illesa. E la sua più vasta persona era rappresentata dall'estensione del Reich. Non è possibile figurarsi in maniera adeguata la distruzione che si compie nella mente di un paranoico. Il lavorio interno, che mira all'ampliamento e alla durata, si contrappone appunto a questa malattia di voler distruggere. Ma essa è in lui, poiché è una parte di lui, e quando si manifesta d'improvviso nel mondo esterno, dovunque e in qualsiasi modo, non ha più la capacità di ferirlo o sorprenderlo. La violenza dei processi che si svolgono dentro di lui è ciò che egli impone al mondo come visione. La sua intelligenza può essere insignificante come quella di Hitler, egli può 268
per così dire non aver nulla da mostrare che possieda un qualche valore a un esame imparziale - ciò nonostante, l'intensità dei suoi interni processi di distruzione lo fa apparire come visionario o profeta, come .salvatore o come Fùhrer. DIVISIONI, SCHIAVI, CAMERE A GAS
Durante la guerra, la gioia suscitata in Hitler dalla massa eccitata intorno a lui si va spegnendo. Egli è ormai avvezzo a ottenere con la radio la più grande massa per lui possibile, cioè tutti i Tedeschi. E non ha più alcuna occasione di parlare dell'incremento pacifico del numero dei Tedeschi. Lo occupa la guerra, che egli considera, insieme con l'architettura, la sua autentica professione. Ora agisce muovendo le divisioni. Sono perfettamente pronte, ai suoi ordini; con esse può far da padrone a sua discrezione assoluta. Il suo scopo principale è adesso tenere in pugno i generali. Sono gli specialisti della guerra quelli che ora deve persuadere. Riesce innanzitutto a renderli docili mediante vittorie facili e sorprendenti. Le vittorie a cui dapprima aveva chiamato le masse, le vittorie che aveva promesso, riuscendo in tal modo a formare la massa, diventano ora realtà: è il primissimo stadio. Niente gl'importa di più che sostenere di aver ragione contro ciò che pensano gli specialisti. Ogni sua previsione avverata diventa un pezzo, solidale con tutti gli altri, della sua coscienza di sé. La paranoia, che ha due volti, abbandona temporaneamente quello della persecuzione e assume esclusivamente quello della grandezza. La sua mente non è mai libera dall'idea delle masse; sono mutate però la loro composizione e la loro funzione. In passato ha acquistato i suoi Tedeschi, ora acquista degli schiavi. Sono utili, e il loro numero sarà molto più grande di quello dei Tedeschi. Ma non appena la conduzione della guerra incontra in Russia delle difficoltà, e non appena le stesse città tedesche 269
sono minacciate dalle bombe, un'altra massa acquista per lui una grande importanza: quella degli Ebrei, da sterminare. Li ha riuniti, ora può annientarli. Già in precedenza aveva detto con sufficiente chiarezza che cosa intendeva fare di loro; ma quando si tratta seriamente di procedere allo sterminio, egli si preoccupa che venga tenuto segreto. Era possibile trovarsi tanto vicini come Speer alla fonte del potere, senza avere direttamente di fronte quello sterminio. Qui la testimonianza di Speer mi sembra specialmente significativa. Non solo egli era consapevole dello stadio della schiavitù, del lavoro forzato, ma anzi se ne occupava nell'ambito delle sue competenze. I suoi progetti erano in parte basati su questo. Ma dello sterminio divenne consapevole solo molto tardi, quando la guerra appariva già perduta. Le vere e proprie rivelazioni circa i campi di sterminio colpirono Speer solo all'ultimo, quando era ormai impegnato nella lotta contro Hitler, e solo a Norimberga, per la prima volta, ebbero su di lui pieno effetto. Tutto ciò è credibile, non foss'altro perché lo indusse a postulare una colpevolezza collettiva della dirigenza tedesca. La fermezza del suo comportamento in circostanze difficili - egli dovette trovarsi di fronte i coimputati che lo consideravano un traditore -, la franchezza delle sue dichiarazioni - egli non maschera nulla -, l'opera principale cui egli attese durante gli anni di carcere, la stesura delle sue memorie che avevano l'intento di rendere impossibile la formazione di una leggenda intorno a Hitler, tutto ciò presuppone lo shock tardivo che egli subì da quelle rivelazioni. Hitler riuscì dunque nel complesso a mantenere la maggioranza dei Tedeschi ignari della sua impresa più orrenda, le camere a gas. Ciò, in compenso, fu tanto più presente nella sua coscienza. In tal modo ogni via per tornare indietro gli fu sbarrata. Per lui non ci fu più alcuna possibilità di concludere la pace. Rimaneva un'unica strada aperta: la vittoria, la quale, quanto più appariva impossibile, tanto più era l'unica. 270
DELIRIO E REALTA
È difficile separare in Hitler delirio e realtà: trapassano incessantemente l'uno nell'altra. Ma in sé e per sé questo fatto distingue ben poco Hitler dagli altri. La vera differenza consiste nella forza della sua illusione, che in lui non s'accontenta di piccole soddisfazioni come nella maggior parte degli uomini. Il delirio di Hitler nella sua compattezza è l'elemento primario e non accetta di sacrificare la minima parte di sé. Tutto ciò che compare nella realtà viene riferito al delirio come globalità. Il suo contenuto è tale che una sola cosa può alimentarlo : i successi. L'insuccesso non può propriamente toccare Hitler; egli ha un'unica funzione: spronare gli altri a trovare nuove ricette per il successo. Nell'imperturbabilità del delirio egli ravvisa l'essenza della propria durezza. Tutto ciò che ha afferrato una volta, rimane e non si sbriciola. Nessuno degli edifìci che egli ha pensato di erigere è fondato cosi solidamente come il suo delirio. Non è un delirio che gli permetta di ritrarsi in se stesso e di vivere a fianco del mondo: è cosi fatto, che egli deve imporlo al mondo circostante. La via che altri percorrono in casi apparentemente affini, siano essi degli inventori o dei creatori particolarmente appassionati, la via che consiste nel convincere singole persone o nel produrre opere cui spetta di operare il convincimento, non è fatta per lui. Sarebbe innanzitutto una strada assai lenta, e inoltre non corrisponde al contenuto del suo delirio. A partire dall'esito catastrofico della Prima guerra mondiale, Hitler è pervaso dalla massa dei soldati tedeschi caduti, per lui non possono essere caduti invano e dunque rimangono in vita in un modo solo a lui peculiare. Egli vuole ritrasformarli nella massa che esisteva al momento dello scoppio della guerra. È questa la massa che costituisce la sua forza, la massa con l'aiuto della quale, poiché a essa si riferisce incessantemente, egli può eccitare e raccogliere intorno a sé nuove masse. Hitler si rende conto pre271 \\
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stissimo della realtà di questa massa, ed esercitandosi costantemente con una crescente intensità riesce a trasformarsi in un vero maestro delle masse. In questo ambito s'accorge che gli è possibilissimo trasformare il suo delirio in realtà. Ha scoperto per così dire il punto debole della realtà, il punto in cui essa è sommamente fluida e dinanzi al quale arretra la maggior parte di coloro che temono la massa. Ciò non accresce il suo rispetto per l'altra realtà, la realtà statica. Il potere che si nutre delle masse, il potere allo stato grezzo, resta a lungo l'unico di cui egli disponga, e sebbene cresca rapidamente non è affatto ciò che egli veramente vuole: il suo delirio esige il potere politico assoluto nello Stato. Non appena lo ha raggiunto, allora sì che si accosta alla realtà. È capacissimo di distinguerla dal suo delirio. Il suo senso della realtà, del quale è molto orgoglioso, consiste nell'esercizio del potere. Ed egli adopera il potere per imporre grado a grado il contenuto del suo delirio al suo ambiente e ai suoi apparati. Finché tutto va bene, è per essi impossibile rendersi conto (né sarebbe da augurarglielo) del carattere delirante della struttura in cui sono inseriti e della quale partecipano. Solo con gli insuccessi, l'irrevocabile rigidità e l'autentica follia della sua impresa cominciano a diventare visibili in modo sorprendentemente chiaro. L'abisso si allarga fra delirio e realtà, e la saldezza della sua fede in se stesso al tempo della sua buona sorte si rivela la sventura della Germania, così come fin dagli esordi era stata la sventura del resto del mondo. Ma egli continua a rivendicare il diritto alla preveggenza. Lui solo e nessun altro può prevedere ciò che accadrà. Più volte s'è dimostrata l'esattezza delle sue previsioni. La realtà del futuro gli appartiene, egli l'ha compresa nella sfera del proprio potere. Egli considera gli avvertimenti altrui come un turbamento del suo futuro. Lo esasperano anche se provengono dai suoi collaboratori più fidati. Li respinge con la massima asprezza, come una sorta di insubordinazione. 272
Per lui ormai le sue previsioni hanno acquistato il carattere di ordini che egli impartisce al futuro. La capacità di intuire i pensieri altrui, tipica del paranoico non meno che del potente, comincia a dimostrare il suo carattere delirante. Gli era stata utile per valutare gli avversari. Riusciva infatti a penetrarne le intenzioni anche quando erano ancora nascoste. A tale capacità e alla esattezza delle sue previsioni egli si riferisce quando parla del suo «sesto senso». Ma ora che è incalzato dalle difficoltà, si comincia a capire quanto possa essere falsa la sua capacità d'intuizione. Hitler crede per parecchio tempo che lo sbarco in Normandia sia una finta: il vero sbarco avverrà nella zona di Calais. Le misure che prende contro il nemico sono dettate da questa falsa intuizione, dalla quale nulla può distoglierlo, alla quale si attiene, irremovibile, fino a quando sarà troppo tardi. Il fallito attentato del 20 luglio ha come conseguenza l'ultima, efficace crescita del suo senso del potere. Hitler è sopravvissuto come per miracolo, è stato dunque davvero un miracolo. Per una volta, Stalin diventa il suo modello. Hitler approva il modo in cui Stalin ha eliminato i generali russi, e sebbene non sappia nulla di concreto circa il loro tradimento, ammette che debbano essere colpevoli poiché lui stesso odia i propri generali. Ordina infatti che siano perseguiti con la massima durezza e li fa uccidere nel modo più infamante. Dalla loro esecuzione ricava la forma più primitiva di potere: quella del sopravvivere ai nemici. Si gode i film di quelle esecuzioni e li fa proiettare nella sua cerchia intima. Qualche vittima però la tiene in serbo per dopo, e predispone di tanto in tanto ulteriori esecuzioni, a seconda delle circostanze e del suo bisogno. Il 12 aprile 1945, diciotto giorni prima della morte di Hitler, Speer viene chiamato d'urgenza da lui. « Mi vide e si lanciò verso di me con una vivacità rara in lui, quasi invasato, con un dispaccio d'agenzia in mano: "Qui, legga qui! Quii Non ci volevano credere! Quii". Le sue parole si accavallavano: "Ecco, qui, il 273
grande miracolo che io ho sempre predetto. Chi ha ragione adesso? La guerra non è perduta. Leggal Roosevelt è morto!". Non riusciva a calmarsi ». Il prolungarsi della guerra fino a quell'istante appare giustificato. Sembrano ripetersi le vicende della fine della Guerra dei Sette Anni, quando Federico fu salvato dal pericolo incombente poiché mori la sua acerrima nemica. Poche cose hanno contribuito in modo così determinante al proseguimento del tutto assurdo della guerra come il pensiero di questa svolta di un destino storico. Federico il Grande fu uno dei primi modelli durevoli di Hitler: alla fine, l'unico. Nel suo bunker, che Speer paragona a una prigione, null'altro che rovine intorno a sé, i Russi alle porte di Berlino, di cui quasi più nulla è rimasto intatto, Hitler è in grado di sperare in una svolta della guerra poiché è morto un suo personale nemico. Per lui, fino all'ultimo, la storia vera e propria è soltanto una lotta fra alcuni, pochissimi, potenti; solo essi contano; quale di essi riesca a sopravvivere agli altri, è ciò che determina il corso del mondo - e nulla rivela più chiaramente la devastazione provocata nella mente di Hitler dall'idea del potere e dalla sua cieca dedizione a essa. Alla scomparsa di Roosevelt, l'uomo che egli irrideva e disprezzava chiamandolo « il paralitico », si aggrappa ora la sua ultima speranza. Se si considera l'efficacia dei modelli storici e la loro pericolosità mai del tutto compresa, sarebbe opportuno riportare in tutti i libri di lettura del mondo la scena del bunker così come Speer l'ha narrata. Per ora non possiamo fare molto di più che addurre immagini di verità assoluta in grado di contrapporsi alla persistente efficacia di quei modelli tanto funesti. La vergogna per questa situazione, l'esame della sua ignominia, l'essenza della visione falsa - tutto questo insieme dovrebbe poter suscitare un'impressione incancellabile. 1971 274
CONFUCIO NEI SUOI DIALOGHI
Traduzione di Furio Jesi
L'avversione di Confucio per l'eloquenza, il peso delle parole scelte con proprietà. Egli teme che l'uso facile e scorrevole le indebolisca. L'esitazione, la riflessione, il momento che precede la parola è tutto; ma anche il momento che la segue. Nel ritmo della domanda e della risposta isolate c'è qualcosa che ne accresce il valore. Confucio odia la parola veloce dei sofisti, il concitato palleggio delle parole. Ciò che conta non è il colpo della risposta immediata, ma l'affondare della parola alla ricerca della sua responsabilità.* Confucio ama attenersi a qualcosa che sia presente, e ama spiegarlo. Dibattiti più lunghi, da parte sua, non ci sono stati tramandati e apparirebbero innaturali. In contrasto con lui, i suoi allievi diventano utili ai principi regnanti più per la loro eloquenza che per il loro sapere. Quelli tra loro che si fanno innanzi nel * Notiamo che in tedesco vi è un legame, che non può essere reso in italiano, tra Antwort (« risposta ») e Verantwortung (« responsabilità >) [AT.d.T.].
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mondo grazie ai discorsi non sono dunque i veri allievi del suo cuore. Nella vita di Confucio spicca la sua mancanza di successo, specie durante il periodo di peregrinazioni di città in città. Sarebbe difficile prenderlo sul serio se in qualche luogo fosse eflFettivamente divenuto e rimasto ministro. Trascura il potere reale, gli interessano soltanto le sue possibilità. Per lui il potere non è mai fine a se stesso, bensì un compito, la responsabilità per la totalità. Egli diventa così il maestro della negazione e si dimostra perfettamente in grado di preservarsi. Tuttavia non è affatto un asceta, prende parte a ogni aspetto di questa vita e mai si ritrae veramente da essa. Solo nei periodi di lutto per i morti ammette qualcosa di simile all'ascesi: essa serve alla conservazione vivente del morto. La sua felicità, che non ha mai fine, è lo studio. I suoi interessi antiquari si collegano sempre all'umano e servono all'ordinamento dell'esistenza. In lui la propensione all'ordine si spinge molto in là, e la ritualità dell'ordine si incide profondamente in lui. « Non si sedeva su una stuoia che non fosse ben disposta ». Egli ha fiuto per le distanze e le rispetta scrupolosamente. Confucio non permette ad alcun uomo d'essere uno strumento. A ciò si riconnette la sua avversione per gli specialisti: un tratto, questo, particolarmente importante, giacché ancora oggi lo si trova in Cina. Non importa che si sia capaci di far questo o quello, importa che con ogni singola capacità si sia uomini. Con grande vigore Confucio insiste però anche sulla necessità che non si agisca per calcolo; ciò significa, a ben considerare, che non si trattino gli uomini come strumenti. Per quanto si voglia tener conto dell'origine sociale di questo principio, che reca in sé il disprezzo verso l'attività commerciale - il fatto che esso sia espresso chiaramente e che dallo studio dei dia278
loghi di Confucio risulti comunque operante, benché non decisivo, ha una notevole importanza per ciò che si potrebbe definire nel complesso il residuo della civiltà cinese. L'uomo esemplare resta quello che non agisce per calcolo. Confucio è paziente nelle sue fatiche per ottenere udienza da parte di coloro che detengono il potere, i principi regnanti. Non si può dire che li aduli, e quando riconosce la loro autorità lo fa solo perché dall'esercizio di tale autorità pretende moltissimo. In genere egli non rivela d'aver alcuna nozione della natura del potere, di ciò che il potere è intimamente. Nozioni di tal genere le forniranno poi i suoi tardi avversari, i legalisti. È molto significativo che tutti i pensatori della storia dell'umanità i quali comprendono qualcosa del potere effettivo, lo affermino. I pensatori che sono contro il potere ne penetrano difficilmente l'essenza. Provano per il potere un orrore talmente grande che non riescono a occuparsene; temono d'esserne contaminati; il loro atteggiamento ha qualcosa di religioso. Hanno elaborato una scienza del potere solo quei pensatori che lo approvano e sono disposti a farsi suoi consiglieri. Qual è il modo migliore per ottenere e conservare il potere? A cosa bisogna specialmente badare per difenderlo? Quali scrupoli, che ne ostacolano l'esercizio, bisogna metter da parte? Il più interessante fra questi conoscitori del potere che lo valutano positivamente è Han Fei Tzu (vissuto 250 anni dopo Confucio). Studiarlo è indispensabile per gli avversari più incalliti del potere. I Dialoghi di Confucio sono il più antico ritratto spirituale completo di un uomo. Si leggono come un libro moderno; è importante non solo tutto ciò che contengono, ma anche tutto ciò di cui sono carenti. L'uomo che vi si impara a conoscere è un uomo 279
assolutamente completo, ma non un uomo qualsiasi. È un uomo che tiene conto della propria esemplarità e che, grazie a essa, vuole agire sugli altri. Ogni singolo tratto, e moltissimi ne sono delineati, ha un suo significato. Secondo un ordine non rigido, non predisposto in base a norme identificabili, si manifesta nella sua globalità una creatura che agisce in modo credibile, che pensa, respira, parla, ammutolisce, e che, soprattutto, è un modello. Studiando Confucio si può imparare con particolare chiarezza come sorga un modello e come si conservi. Bisogna innanzitutto già essere ricolmi di un modello al quale ci si attiene in ogni circostanza, del quale non si dubita; un modello cui non si rinuncia mai, che si potrebbe raggiungere e che tuttavia non si raggiunge mai del tutto. Anche se lo si fosse raggiunto, non si dovrebbe voler mai ammettere di averlo raggiunto davvero. Giacché il modello raggiunto perde la sua forza. Nutre soltanto chi, di lontano, vi aspira. Il tentativo di superare questa distanza, il tentativo di stringere dappresso il modello, dovrà sempre essere rinnovato, ma non potrà mai riuscire. Finché non riesce, finché dura la tensione della distanza, il salto in direzione del modello può continuamente essere ritentato. Ciò che importa, sia pure in modo apparentemente vano, sono questi tentativi, anch'essi vani in apparenza; nel compierli, infatti, si acquista un'esperienza, una capacità, una qualità riguardo agli altri. Confucio si pone dinanzi a grande distanza il proprio modello: è il duca di Tsu, che visse cinquecento anni prima di lui e al quale veniva attribuita la maggior parte delle istituzioni della dinastia allora nuova. Per capirlo, Confucio si occupa di tutto ciò che allora e da allora era accaduto, e inoltre dei documenti storici, dei canti, dei riti. Esamina queste tradizioni, le vaglia e le ordina; in seguito si suppose che tutto quanto si sapeva di quel periodo fosse stato definito da Confucio. Il suo modello gli appare in sogno; negli anni successivi egli diventa inquieto se queste apparizioni 280
non si ripetono per un certo tratto di tempo. Considera infatti la mancata apparizione un segno di disapprovazione: vuol dire che egli ha fallito troppo, là dove il duca aveva ottenuto successo. Non è però il suo unico modello. Si può dire che Confucio abbia raggruppato intorno a dei modelli l'intera storia cinese, almeno fin là dove credeva di conoscerla: al principio di ciascuna delle tre dinastie tradizionali, ma anche immediatamente prima della prima di esse, egli colloca una o due figure che con il loro valore esemplare improntano a lungo il periodo successivo. Non solo si rende conto dell'enorme importanza dei modelli, ma sa anche che essi si logorano e perciò si preoccupa del loro rinnovamento. Da se stesso e dai suoi allievi apprende l'efficacia degli esempi positivi. Dai principi che cerca di consigliare e che non vogliono ascoltarlo impara a conoscere gli esempi negativi. Per quanto gli siano sgraditi, egli non li sopprime. Li introduce nella storia e li colloca preferibilmente alla fine delle dinastie. Si preoccupa sempre, però, che nella storia gli esempi negativi siano vinti ed eliminati dagli esempi positivi. Occupandosi cosi dei propri modelli, egli stesso diventa uno di questi, ed è degno di nota che egli sia diventato un modello molto più di quelli, e per un arco di tempo di gran lunga maggiore. « Un giovane » dice Confucio « dovrebbe essere trattato con il massimo rispetto. Come fai a sapere che un giorno egli non varrà quanto tu vali oggi? Chi ha raggiunto i quaranta o cinquant'anni senza essersi distinto in qualche modo, quegli non merita alcun rispetto ». Confucio ha applicato questo principio durante la sua lunga consuetudine con gli allievi. Come li osserva! Con quanta prudenza li valuta! Si guarda bene dal nuocere loro con una lode troppo precoce. Si lascia andare ed è felice quando meritano lode incondizionata. Non biasima senza aver tolto al biasimo la sua punta nociva. Si lascia criticare dagli allievi e risponde 281
loro. Nonostante il grande numero di principi da cui egli prende le mosse, la sua valutazione del carattere resta empirica. Quando due allievi si ritrovano insieme, egli li interroga sui loro più intimi desideri e poi rivela i propri. In ciò non si deve ravvisare una critica, piuttosto un confronto fra nature diverse. Egli tuttavia non fa mistero del suo profondo amore per Yen Hui, il Puro e l'Inutile al mondo; e non nasconde la sua disperazione quando l'allievo prediletto muore a trentadue anni. Non conosco alcun saggio che come Confucio abbia preso la morte tanto sul serio. Alle domande intorno alla morte rifiuta una risposta. « Se ancora non si conosce la vita, come si potrebbe conoscere la morte?». Su questo tema non è mai stata detta una frase più appropriata. Confucio sa benissimo che tutte le domande di tal genere riguardano un periodo dopo la morte. Ogni risposta è una scappatoia che non tiene conto della morte, è così che viene elusa la morte e la sua incomprensibilità. Se dopo c'è qualcosa, come qualcosa c'era prima, la morte in quanto tale perde il suo peso. Confucio non si presta a questo, che è il più indegno dei trucchi. Non dice che dopo non c'è nulla, non può saperlo. Ma si ha l'impressione che se anche fosse possibile non gli importerebbe affatto di saperlo. Ogni valore viene cosi spostato sulla vita; alla vita viene restituito quel tanto di serietà e di splendore che gli uomini le avevano sottratto, trasferendo di là dalla morte buona parte, e forse la parte migliore, della loro forza. In tal modo la vita resta interamente ciò che è, e anche la morte rimane intatta; vita e morte non sono permutabili né confrontabili, non si mescolano fra loro, restano diverse. La purezza e l'orgoglio umano di questo principio possono conciliarsi perfettamente con la netta accentuazione del ricordo dei morti che è palese nel Li Chi, il Libro dei Riti dei Cinesi. In questo libro si trova ciò che di più credibile io abbia letto in tutta la mia 282
vita sull'approccio ai morti, e sul significato della loro presenza nei giorni destinati alla loro memoria. A (juesto proposito il contenuto del Libro dei Riti è perfettamente nello spirito di Confucio; sebbene sia stato esposto in tale forma solo in epoca successiva, vi ritroviamo ciò che sempre si avverte quando si leggono i dialoghi di Confucio. Con tenerezza e tenacia, unite in modo che raramente si incontra altrove, Confucio s'adopera ad accrescere il senso di venerazione per certi morti. È stato troppo poco sottolineato che egli si sforza così di diminuire il piacere del sopravvivere, uno dei compiti più ardui, il quale fino a oggi non è stato affatto assolto. Chi piange per tre anni il proprio padre, interrompendo radicalmente e così a lungo il corso della propria attività consueta, non può provare alcuna gioia di sopravvivere; ogni soddisfazione di sopravvivere, quand'anche fosse ancora possibile, verrebbe estirpata alla base dalla pratica degli obblighi del lutto. In questo periodo, infatti, bisogna anche dimostrarsi degni del padre. Ci si carica della sua esistenza in ogni particolare, si diventa lui, mediante un'incessante venerazione. Non soltanto non lo si rimuove, ma anzi si mira al suo ritorno e con determinati riti si ottiene la sensazione di tale ritorno. Il padre morto continua a esistere come figura e modello. Ci si guarda dal non fare il proprio dovere nei suoi confronti: dinanzi a lui bisogna dar buona prova di sé. « Dopo tre giorni si mangia di nuovo, dopo tre mesi ci si lava di nuovo, dopo un anno si indossano di nuovo abiti di seta grezza sotto il costume di lutto. Il tormento di sé non deve spingersi fino all'annientamento dell'essere, affinché la vita non sia danneggiata dalla morte. Il lutto non supera i tre anni ». « I sacrifici non devono essere troppo frequenti, poiché altrimenti divengono gravosi e la loro solennità ne soffre. Ma non devono neppure essere troppo rari, poiché altrimenti si diventa pigri e ci si dimentica dei morti ». 283
« Il giorno del sacrificio, il figlio pensò ai genitori, richiamò alla memoria la loro abitazione, il loro sorriso, il tono della loro voce, il loro modo di sentire; pensò a tutto ciò che li rallegrava e a ciò che mangiavano volentieri. Dopo che in questo modo ebbe digiunato e meditato per tre giorni, vide coloro per i quali digiunava ». « Il giorno del sacrificio, quando entrò nella stanza degli antenati, aspettava con ansia di rivederli sul seggio degli antenati; muovendo intorno, entrando e uscendo, era certo di sentirli muovere o parlare; quando uscì dalla porta, stette con il fiato sospeso ad ascoltare, come se li udisse sospirare ». Per quanto ne so, e considerando tutte le civiltà, questo è l'unico tentativo serio di eliminare la cupidigia di sopravvivere. Almeno sotto questo aspetto, è necessario dunque che il confucianesimo delle origini - nonostante le degenerazioni successive - sia preso in considerazione senza alcun pregiudizio. Con tutto il rispetto che perciò si deve a Confucio, non si potrà negare che un'altra questione era per lui più importante. Si trattava di utilizzare il ricordo dei morti per fissare stabilmente la tradizione. Egli preferì questo mezzo alle sanzioni, alle leggi e alle pene. La trasmissione di padre in figlio gli parve più efficace, ma solo nella misura in cui il padre stesse dinanzi al figlio come persona intera, modello mai sgretolato. Tre anni di lutto gli parvero necessari affinché il figlio divenisse interamente ciò che il padre era stato. Questo implica molta fiducia in ciò che il padre era, e vuole impedire un peggioramento di padre in figlio. Resta però da considerare se in tal modo non si renda anche più difficile un miglioramento. 1971
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TOLSTOJ, L'ULTIMO AVO
Traduzione di Furio Jesi
La mania di autoaccusarsi di Tolstoj, fin dagli anni giovanili, è un'infezione derivante da Rousseau. Le sue autoaccuse, tuttavia, vanno a urtare contro un io compatto. Può rinfacciarsi tutto ciò che vuole, ma non si distrugge. È un'autoaccusa che gli dà importanza, fa di lui il centro del mondo. Sorprendentemente presto, egli scrive la storia della propria giovinezza : di là ha inizio la sua attività di scrittore. Non può sentir parlare di un nuovo argomento senza volerne subito definire le «regole». Le leggi, che egli deve sempre trovare, sono il suo orgoglio; così, tuttavia, va anche alla ricerca di stabilità. Ne ha bisogno a causa della morte, che ha sperimentato presto e in gran quantità. A due anni perde la madre, a nove il padre, e a brevissima distanza la nonna, di cui osserva e bacia il cadavere nella bara. Non è però precoce. Raccoglie a lungo la sua ostinazione. Tutte le sue esperienze si tuffano immutate nei suoi racconti, romanzi, drammi. Sono esperienze forti, e poiché non si sgretolano mai gli conferiscono qualcosa di monumentale. Ogni uomo che si conserva 287
cosi è una specie di mostro. Gli altri si indeboliscono scorrendo via da sé. Egli vede troppo la verità come legge e accorda ai propri diari una sorta di onnipotenza. Mediante la lettura dei suoi primi diari, che brulicano di verità su di lui, penose ma sopravvalutate, vuole educare la moglie diciottenne a comportarsi secondo le proprie leggi, ancora vacillanti. Lo shock che in tal modo le provoca avrà conseguenze per cinquant'anni. Egli appartiene a coloro che non smarriscono un'osservazione, un pensiero, un'esperienza di vita. T u t t o in lui rimane singolarmente cosciente. È spontaneo nelle antipatie, nelle ripulse; ingenuo nell'attenersi a costumi e immagini tradizionali. La sua forza consiste nel non lasciarsi convincere: per giungere a nuove convinzioni ha bisogno di violente esperienze personali. I suoi resoconti sul modello di Franklin, cui dà inizio molto presto, sarebbero un po' risibili se tutto ciò che contengono non si fosse ripetuto con spaventosa tenacia. Ci sono però dei brani suoi, affascinanti, che risarciscono di molte cose che compaiono nei diari: cosi, in una lettera alla moglie, egli include totalmente nella propria esistenza la guerra russo-turca del 1877-78: «Finché durerà, non potrò più scrivere. È come se la città ardesse. Non si sa cosa fare. Non si può pensare ad altro ». L'evoluzione religiosa del tardo Tolstoj sta sotto il segno di una coazione inevitabile. Ciò che egli considera libera decisione del suo spirito, è determinato da un'equiparazione mostruosa: con Cristo. Ma la sua gioia, ogni lavoro agricolo, il predominio in lui delle attività manuali, hanno ben poco in comune con Cristo. Più che assomigliare a Cristo, egli è un regressivo possidente, il padrone che torna a essere contadino. Per riparare a tutto ciò che i padroni hanno commesso, si serve del Vangelo. Cristo è la sua stampella. Suo dovere è la propria ritrasformazione, assolutamente 288
personale, in contadino. A lui non importano i diritti del contadino, ma la sua esistenza. Gli importa inoltre di essere riconosciuto come contadino. La sua famiglia, che lo ostacola in questa metamorfosi, gli diviene molesta. Sua moglie ha sposato il conte e lo scrittore, del contadino non vuol saperne. Lo attornia con i loro otto figli viventi, che non sono per nulla figli di un contadino. Le sue proprietà vengono spartite mentre egli è ancora in vita. Vuole esserne libero; e tutte le dispute consuete fra eredi si svolgono tra la moglie e i figli sotto i suoi occhi. È come se egli avesse previsto di far scaturire il peggio dai suoi familiari. La moglie si nomina editrice delle sue opere. E si consulta sulla faccenda con la vedova di Dostoevskij, di cui fa la conoscenza appunto per quella ragione. Ci si immagini: due vedove, due vedove abilissime, riunite insieme. Negli ultimi anni della sua esistenza Tolstoj viene fatto a pezzi da vivo, per opera di due iniziative, si può dire di due imprese d'affari, risultato di ciò che egli veramente fu per decenni. Sua moglie rappresenta l'affare editoriale e vuol ricavare il più possibile dallo smercio delle Opere complete. Certkov, il suo segretario, rappresenta la sua fede, la nuova religione o setta che viene fondata. È abile anche lui, sta attento ad ogni parola di Tolstoj e lo mette sulla buona strada. Diffonde in tutto il mondo a buon mercato pamphlets e trattati. Usurpa ogni riga del fondatore che possa tornare utile alla fede e pretende copie del diario in statu nascendi. Tolstoj è legato al discepolo prediletto e gli permette tutto. Tiene a questa iniziativa, mentre per quella della moglie spesso non prova altro che amaro rancore. Le due imprese, del resto, vivono di vita autonoma e in generale non si danno pensiero di lui. Quando egli subisce un grave attacco e si ha l'impressione che potrebbe morire da un momento all'altro, la moglie grida d'improvviso : « Dove sono le chiavi? », e vuol dire le chiavi dei suoi manoscritti. 289
Ho trascorso tutta la notte, quasi stregato, sulla vita di Tolstoj. Nella vecchiaia, vittima dei parenti e dei seguaci, oggetto di tutto ciò che egli specialmente combatte, la sua vita acquista un significato che nessuna delle sue opere riesce ad attingere. Egli strazia l'osservatore, ogni osservatore, poiché ognuno scopre incarnate in quella vita convinzioni che sono per lui capitali, strette ad altre che egli aborre sopra ogni cosa. Tutte sono articolate, vengono cacciate fuori senza riguardo, non cadono nell'oblio, tornano sempre. In lui appaiono conciliabili cose che altrimenti nell'uomo si combattono aspramente. Le sue contraddizioni lo rendono sommamente credibile. È l'unica figura di uomo anziano dei tempi nostri che si possa prendere sul serio. Poiché egli lascia che tutto si manifesti, non può rinunciare ad alcun biasimo, ad alcuna sentenza, ad alcuna legge, resta aperto da ogni lato, anche là dove traccia i suoi confini con maggiore nettezza. Per me è molto doloroso constatare che un uomo, il quale penetra e rifiuta spietatamente il potere in ogni sua forma, guerra, tribunale, governo, denaro che un uomo di così inaudita e incorruttibile chiarezza, stipuli una sorta di patto con la morte che per lungo tempo ha temuto. Per uno sviante itinerario religioso, egli s'avvicina alla morte e si inganna su di essa tanto a lungo da essere infine capace di adularla. In tal modo riesce a dimenticare gran parte della sua angoscia dinanzi alla morte. La accetta con l'intelletto, come se essa fosse un bene morale. Si esercita a osservarla tranquillamente quando muoiono le persone che gli sono più care. Sua figlia Masa, l'unica tolstoiana adulta della famiglia, muore a trentacinque anni. Egli sta a guardare la sua malattia e la sua morte, partecipa alla sua sepoltura. È soddisfatto di ciò che verifica in quell'occasione: s'è spinto innanzi nel suo allenamento alla morte, ha fatto progressi, approva l'orrore; ciò che doveva estorcere da sé con la violenza qualche anno prima, quando era morta, a sette anni, la figlia 290
prediletta Vanicka, ora non gli riesce più affatto difficile. Egli stesso, così, continua a sopravvivere e diventa sempre più vecchio. Gli manca ogni conoscenza profonda del processo del sopravvivere. Inorridirebbe all'apprendere che la morte di giovani membri della sua famiglia rafforza il suo senso di vita e di fatto prolunga la sua esistenza. Certo, egli si augura, pensando a Cristo, la sorte di un martire; ma i poteri di questo mondo, che egli aborre, si guardano bene dal toccarlo. Tutto ciò che gli capita è d'essere scomunicato dalla Chiesa. I suoi seguaci più fedeli vengono esiliati, ma lui è lasciato nella sua proprietà e può muoversi liberamente ovunque. Continua a scrivere ciò che vuole e, in un modo o nell'altro, a poter pubblicare: non è persona che si possa far tacere. Supera anche le malattie più gravi. Ciò che lo Stato non gli fa, gli giunge dalla sua famiglia. È sua moglie, non il governo, che apertamente sorveglia il suo bene. La lotta per la vita e per la morte che egli deve combattere con lei non riguarda i pamphlets e gli appelli - riguarda bensì la più intima resa dei conti che egli ha quotidianamente con se stesso: il suo diario. È sua moglie, alleata con i figli, che gli dà una caccia mortale. Ella si vendica della guerra che Tolstoj ha combattuto contro il suo sesso e contro il denaro; e bisogna dire che soprattutto le importa il denaro. È lei che in sua vece sviluppa quella mania di persecuzione che propriamente sarebbe dovuta nascere in lui, come conseguenza della battaglia senza compromessi condotta contro nemici potenti. Di lui, il più franco degli uomini, ella fa nell'estrema vecchiaia un congiurato. Fino alla fine egli ama la sua dottrina, grottescamente incarnata nel segretario Certkov. La ama a tal punto che il suo rapporto con Certkov assume carattere omosessuale agli occhi folli della moglie. I diari, che sono collegati al principio del loro matrimonio, rappresentano per lei l'autentico Tolstoj. Si è perciò appropriata dei suoi mano291
scritti, che ha faticosamente ricopiato. La sua paranoia le dice che di Tolstoj non resterà altro che i manoscritti e i diari; quelli devono essere suoi. Ella tuttavia odia la qualità esemplare della sua Vito, l'incessante dibattito con se stesso, in cui lei stessa è coinvolta. E le riesce, con virtù diabolica, di devastare gli ultimi anni di quella vita. Non si può dire che prevalga totalmente, poiché alla fine, dopo tormenti indicibili, Tolstoj fugge. Ma anche negli ultimi. giorni, quando crede di essersene liberato, lei gli è segretamente vicinissima; nei momenti estremi gli mormora all'orecchio che è stata là tutto il tempo. Per dieci giorni mi sono occupato della vita di Tolstoj. Ieri è morto ad Astapovo ed è stato sepolto a Jasnaja Poljana. Una donna entra nella camera in cui giace malato; egli crede che sia la figlia prediletta morta e grida forte: « Masa! Masa! ». Dunque ha provato la gioia di ritrovare uno dei suoi morti; e anche se quella donna non era Masa, l'istante ingannevole di questa gioia fu uno degli ultimi della sua vita. Tolstoj morì faticosamente; come sempre chi ha vissuto con tenacia. Non s'è riconciliato con la Chiesa. Ma era circondato dai discepoli, che l'hanno difeso dagli ultimi emissari della Chiesa. Sua moglie e i suoi figli - i quali, ad eccezione del maggiore, Sergej, erano tutti dei pessimi soggetti s'erano insediati in un vagone di lusso nella stazione di Astapovo, nelle immediate vicinanze del morente. Questi s'avvide che la moglie spiava dalla finestra, e si dovette tirare una tenda. Sei medici, e non erano troppi, stavano intorno a lui: per quanto li avesse disprezzati, li preferiva alle attenzioni di sua moglie. Non conosco nulla di più avvincente e toccante della vita di quest'uomo. Che cosa in essa mi soggioga a tal punto? Che cosa da dieci giorni mi vieta di liberarmene? 292
È una vita completa fino all'ultimo istante; fino alla morte vi è tutto ciò che sta in una vita. Non c'è punto sul quale sia stata decurtata, frodata, falsata. Entro questa vita stanno tutte le contraddizioni di cui un uomo è capace. Ci è dinanzi completa, nota in ogni particolare: tutto, dalla giovinezza agli ultimi giorni, in qualsiasi forma, è stato registrato. Ciò che spesso mi disturba nella sua opera, una certa assennatezza e mancanza di slancio, torna a profitto della sua narrazione autobiografica. H a una sola tonalità, è credibile, la si abbraccia con lo sguardo e si soggiace all'illusione che una vita possa davvero lasciarsi afferrare cosi. Forse nessuna illusione è più importante di questa. Che la vita di un uomo si frammenti in innumerevoli dettagli che non hanno fra loro alcun rapporto è una concezione che si può anche sostenere, ma è stata spinta troppo in là e le sue conseguenze non sono positive. Essa sottrae all'uomo il coraggio di resistere, poiché per avere questo coraggio l'uomo deve sentire che resta uguale a se stesso. Nell'uomo ci deve essere qualcosa di cui egli non si vergogni, qualcosa che ponga dinanzi agli occhi e registri le vergogne che sono necessarie. Questa parte impenetrabile della natura più intima di un essere umano possiede una sua relativa costanza, rintracciabile già nei suoi primi anni se la nostra ricerca è scrupolosa. Quanto più a lungo riusciamo a inseguire le tracce di tale costanza, quanto più ampio è l'arco di tempo in cui si estende l'attività di quest'uomo, tanto più la sua vita acquista peso. Un uomo che per ottant'anni abbia posseduto consapevolmente questo elemento costante offre uno spettacolo tanto terrificante quanto necessario. Egli rende vera la creazione in un modo nuovo, quasi potesse giustificarla col suo discernimento, con la sua resistenza, con la sua pazienza.
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Mi sono qui occupato soltanto della vita di Tolstoj, non delle sue opere.* Così non poteva fuorviarmi ciò che nelle sue opere mi riesce stucchevole. Non lo è mai la sua vita, la sua vita è mostruosa, con questa fine è una vita esemplare. La sua evoluzione religiosa e morale sarebbe priva di valore se non l'avesse condotto alla situazione terribile degli anni tardi ed estremi. Il fatto che Tolstoj sia fuggito ancora una volta e non sia morto nel suo letto ha fatto della sua vita una leggenda. Ma forse ha valore superiore il periodo che precedette la fuga. La resistenza di Tolstoj contro tutto ciò che gli pareva non vero gli rese nemiche le persone più vicine, la moglie, i figli. Se egli avesse subito abbandonato la moglie, se non fosse stato in pensiero per la sua vita, se le avesse voltato le spalle (e ve n'erano ragioni a sufficienza) non appena l'esistenza vicino a lei divenne insopportabile - non sarebbe da prendere sul serio. Ma è rimasto e, vecchissimo, ha affrontato le sue minacce diaboliche. La sua pazienza ha suscitato lo stupore dei contadini intorno a lui, e più d'uno con il quale parlava glielo ha anche detto. Non lo disprezzavano: di tutti gli uomini appariva loro ancor sempre il migliore. Nelle battaglie che dovette patire divenne, come egli stesso scrive, un oggetto; era questa per lui la cosa più insopportabile. Non era del tutto solo. Aveva discepoli fedeli, e uno che specialmente amò poiché volgeva contro lui stesso, contro il maestro, il rigore della sua dottrina. Ebbe anche una figlia ciecamente devota. Ma proprio questo è ciò che rende così evidenti e concreti gli avvenimenti che lo riguardano. Non si svolgono in lui solo. Coinvolgono gli altri. Alla fine, la vita di Tolstoj si svolge come nel mio • Devo molto alla stimolante biografia di Troyat [H. Troyat, Tolstoì, Paris, 1965] che utilizza una quantità di materiali accessibili solo in lingua russa. 294
libro Auto da fé: la battaglia per il testamento, il rovistare fra le carte. Un matrimonio che era iniziato in un clima di venerazione e comprensione, con la moglie che copiava ripetutamente, senza tregua, ogni pagina scritta dal consorte, termina nella guerra più spaventosa a causa di un'assoluta incomprensione. Negli ultimi anni Tolstoj e sua moglie sono lontani tra loro quanto Kien e Therese. Il loro tormento è però più intimo, poiché dopo decenni di convivenza, sanno di più uno dell'altra. Sono nati dei figli da questo matrimonio, il profeta ha dei seguaci, e dunque lo scenario non è cosi spaventosamente vuoto come l'appartamento di Kien. In Auto da fé la rappresentazione del conflitto ha maggiore rilievo e perciò è forse più chiara, ma siccome si avvale di mezzi che Tolstoj respinge, apparirà meno attendibile a persone che posseggano la sua visione della « n a t u r a » . Anche nei peggiori tormenti, egli non si sarebbe riconosciuto in Kien, mentre probabilmente avrebbe riconosciuto sua moglie in Therese. Nell'estrema vecchiaia Tolstoj ricerca nel trattato di psichiatria di Korsakov i sintomi della follia di sua moglie. Dovrebbe già conoscerli tutti con estrema esattezza. Ma non si è mai interessato seriamente alla follia, l'ha sempre schivata, lasciandola con sprezzo a Dostoevskij. Poco prima della sua fuga, egli legge I fratelli Karamazov, e in particolare legge qualcosa sull'odio di Mitja per il padre, o comunque sull'odio. Lo rifiuta, non Io ammette; può darsi che il suo rifiuto morale dell'odio offuschi la sua valutazione dinanzi alla soggiogante narrazione di Dostoevskij? E tuttavia, per la fuga, si procura dalla figlia Sa§a il secondo volume dei Karamazov. 1971
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IL DIARIO DA HIROSHIMA DEL D O T T O R HACHIYA
Traduzione di Furio Jesi
A Hiroshima i volti che si disfanno, la sete dei ciechi. Denti bianchi sporgenti in un volto sparito. Vie bordate di cadaveri. Su una bicicletta un morto. Stagni colmi di morti. Un medico con quaranta ferite. « Siete vivo? Siete vivo? ». Quante volte deve udirlo. Visita illustre: l'Eccellenza. In suo onore, egli si alza a sedere nel letto e pensa, va meglio. Di notte come unica luce i fuochi della città, cadaveri che bruciano. Odore come di sardine che bruciano. Quando accadde, la prima cosa che d'improvviso notò su di sé: era completamente nudo. Il silenzio, tutte le figure si muovono senza rumore, come in un film muto. Le visite ai malati nell'ospedale: primi resoconti di ciò che è stato, l'annientamento di Hiroshima. La città dei quarantasette Ronin è stata scelta per questo? Il diario del medico Michihiko Hachiya comprende 56 giorni a Hiroshima, dal 6 agosto, il giorno della bomba atomica, al 30 settembre 1945. È scritto come un'opera della letteratura giappone299
se: precisione, delicatezza e responsabilità sono i suoi tratti essenziali. Un medico moderno, che è tanto giapponese da credere irremovibilmente nell'imperatore, anche quando questi annuncia la capitolazione. In questo diario quasi ogni pagina è degna di riflessione. Se ne impara più che da ogni altra descrizione successiva, poiché si è coinvolti nell'inesplicabilità dell'accaduto fin dal principio: tutto è assolutamente inesplicabile. Fra le sue sofferenze, in mezzo ai morti e ai feriti, l'autore va raccogliendo pezzo per pezzo la situazione di fatto; i suoi sospetti cambiano a mano a mano che egli ne sa di più, e si trasformano in teorie che esigono esperimenti. Non c'è una riga falsa in questo diario; e nessuna vanità che non si fondi sul pudore. Se avesse un senso riflettere su quale forma di letteratura sia oggi indispensabile, indispensabile a un uomo che sa e non chiude gli occhi, si dovrebbe dire: eccola, è questa. T u t t o si svolge in un ospedale, e perciò l'osservazione è interamente vincolata agli uomini: a quelli che lo cercano e a quelli che lo gestiscono. Vengono menzionate delle persone, e quelle entro pochi giorni sono morte. Altre persone giungono da luoghi e città diversi a visitare Hiroshima. È sconvolgente ritrovare in vita amici creduti morti. L'ospedale è il migliore della città, una sorta di paradiso in confronto agli altri, ognuno cerca di arrivarvi e molti ci riescono. Di notte le uniche luci sono i fuochi nella città; i morti che vengono cremati elargiscono quella luce. Più tardi si forma intorno a un'unica candela un gruppo di tre, che parlano del pikadon, ciò che è accaduto. Ognuno cerca di integrare quanto sa con il resoconto d'un altro, come se si dovesse ricomporre un film con fotogrammi frammentari e casuali, e di tanto in tanto se ne aggiungesse un pezzo. Si va nella città, ci si apre il passo fra le rovine o si scava alla ricerca 300
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di tesori, si ritorna nella nuova comunità dei moribondi e si spera. Mai come in questo diario sono riuscito a conoscere un giapponese. Per quanto abbia letto, già prima, su di loro. Solo ora, per la prima volta, sento di conoscerli realmente. È vero che possiamo capire intimamente gli uomini solo nella loro massima sventura? È soprattutto la sventura ciò che accomuna gli uomini? Può darsi che a ciò si connetta la mia profonda avversione per ogni idillio, il fatto che mi sia insopportabile la letteratura idillica. Nel caso di Hiroshima si tratta della più concentrata catastrofe che mai sia piombata sugli uomini. In una pagina del suo diario il dottor Hachiya pensa a Pompei. Ma anche Pompei non vale affatto come termine di confronto. Su Hiroshima è piombata una catastrofe provocata dagli uomini che l'hanno calcolata. La « natura » non c'entra. L'aspetto della catastrofe è diverso a seconda che la si sia osservata dall'interno della città, dove si vede tutto ma non si ode nulla, e allora la si chiama pika, oppure dall'esterno, ove si può anche udire, e allora si dice pikadon. Molto avanti nel diario si trova la descrizione di un uomo che ha visto la « nube » senza esserle immediatamente esposto. È sbalordito dalla sua bellezza; lo splendore colorato della nube, i contorni netti, le linee rette che da essa si espandono nel cielo. Che cosa significa sopravvivere in una catastrofe di tali proporzioni? Come ho già detto, le annotazioni di questo diario sono di un medico, di un medico moderno e particolarmente scrupoloso, che è abituato a pensare in modo scientifico e che, dinanzi a questo fenomeno totalmente nuovo, non riesce a rendersi conto della cosa con cui ha a che fare. Solo il settimo giorno, ricevendo una visita dall'esterno, apprende che era una bomba atomica ciò che è caduto su Hiroshima. 301
Un capitano amico gli porta in dono un cestino di pesche : « È un miracolo che lei sia sopravvissuto, » dice al dottor Hachiya « in fin dei conti l'esplosione di una bomba atomica è una faccenda orribile ». « "Una bomba atomica!" gridai, e mi alzai sul letto "ma allora è la bomba di cui ho sentito dire che potrebbe far saltare in aria Formosa con non piìi di dieci grammi di idrogeno!"». E giungono ben presto visitatori che si congratulano con Hachiya poiché è ancora vivo. È un uomo stimato e amato, ci sono pazienti riconoscenti, compagni di studi, colleghi, parenti. La loro gioia per la sua sopravvivenza è senza limiti, sono stupefatti e felici, non c'è forse felicità più pura. Gli sono affezionati, ma in lui inoltre ammirano stupiti una sorta di miracolo. È una delle situazioni del diario che si ripetono più spesso. Cosi come amici e conoscenti si rallegrano di trovarlo in vita, allo stesso modo egli si rallegra quando viene a sapere che altri sono sopravvissuti. Questa esperienza ha alcune varianti: egli apprende, per esempio, che lui stesso e sua moglie erano creduti morti. Un ricoverato nell'ospedale, che era fuggito dalla sua casa in fiamme senza riuscire a salvare la moglie, la considera morta. Appena può, ritorna nella casa distrutta e cerca i resti di lei. Nel punto in cui l'aveva sentita gridare aiuto per l'ultima volta, trova delle ossa; le porta all'ospedale e con grande pietà le posa dinanzi all'altare domestico. Dieci giorni dopo, quando si reca in campagna per consegnare le ossa alla famiglia della moglie, la ritrova là salva, e incolume. Era riuscita in qualche modo a fuggire dalla casa incendiata e un autocarro militare che passava l'aveva portata in salvo. Qui vi è già più che una sopravvivenza: è un ritorno dai morti, l'esfierienza più intensa e meravigliosa che sia data agli uomini. Nell'ospedale di cui il dottor Hachiya era direttore e nel quale ora egli giace in una condizione ibrida
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tra medico e paziente, uno dei fenomeni più singolari è l'irregolarità della morte. Ci si aspetta che le persone giunte ustionate o segnate nell'ospedale muoiano o guariscano. È molto duro assistere ai loro continui peggioramenti; ma alcuni sembrano resistere, gradualmente si sentono meglio. Vengono già dati per salvi, quando inaspettatamente si aggravano e d'improvviso sono in imminente pericolo. Altri, e tra questi infermiere e medici, da principio appaiono illesi. Lavorano giorno e notte con tutte le loro forze, poi d'improvviso mostrano i segni del male, peggiorano di giorno in giorno, muoiono. Non si è mai certi che uno sia sfuggito al pericolo; gli effetti ritardati della bomba eludono qualsiasi normale prognosi clinica. Il medico si rende conto molto presto di andare a tastoni nel buio più completo. Egli si adopera in tutti i modi possibili, ma finché resta all'oscuro dell'effettiva natura del male si trova ad agire come ai tempi che precedettero la medicina scientifica, e deve accontentarsi di confortare anziché di curare. Mentre affronta l'enigma delle manifestazioni del male negli altri, il dottor Hachiya è egli stesso un paziente. Ogni sintomo che scopre negli altri lo preoccupa anche per se stesso, e segretamente ne va in cerca sul proprio corpo. La sopravvivenza è precaria e non ancora certa per lungo tempo. Non perde mai il rispetto per i morti e inorridisce al vederlo scemare negli altri. Quando si reca nella capanna di legno in cui un collega venuto da fuori esegue le autopsie, non tralascia di inchinarsi dinanzi al cadavere. Ogni sera i morti vengono cremati di fronte alle finestre della sua camera d'ospedale. Proprio di fianco al luogo delle cremazioni si trova una vasca per il bagno. La prima volta che egli assiste dall'alto a una cremazione, sente qualcuno chiedere forte dal bagno: « Quanti ne hai bruciati oggi?». L'irriverenza di questa situazione, qui un uomo che poco prima era ancora vivo e ora viene cremato, e là, proprio di fianco, un altro nudo nel bagno, lo rivolta profondamente. 303
Ma dopo poche settimane egli consuma la cena insieme con un amico, su nella sua camera d'ospedale, durante una cremazione. Osserva che l'odore è « come di sardine bruciate », e continua a mangiare. La buona fede e la sincerità di questo diario sono al di sopra d'ogni dubbio. Chi scrive è un uomo di alta civiltà morale. Come chiunque, è soggetto alle tradizioni della sua origine : di esse non dubita. I suoi interrogativi e i suoi dubbi restano compresi all'interno della sfera della medicina, ove sono permessi e necessari. Ha creduto nella guerra, ha accettato la politica militaristica del suo paese, e sebbene abbia osservato nel comportamento della casta degli ufficiali parecchie cose che non gli piacciono, ha considerato suo dovere patriottico tacere. Ma proprio questo stato di fatto rende tanto più interessante il suo diario. Il quale non si limita a informarci della distruzione di Hiroshima sotto la bomba atomica - si è testimoni dell'effetto che provocò su di lui il divenir consapevole della sconfìtta del Giappone. In questa città assolutamente distrutta, le persone a cui si sopravvive non sono i nemici, ma la propria famiglia, i colleghi, i concittadini. La guerra dura ancora e i nemici a cui si augura la morte sono altrove. Da essi ci si sente minacciati, la scomparsa della propria gente accresce la minaccia. Con la caduta della bomba la morte giunge dall'alto, si può soltanto respingerla lontano, e bisognerebbe venirlo a sapere. Il desiderio che ciò accada è fortissimo, e infine sembra trovare adempimento. Dopo pochi giorni giunge da un'altra località uno che riferisce come cosa certa l'ha saputo da fonte sicurissima - che i Giapponesi hanno colpito a loro volta con la medesima arma, devastando nello stesso modo non una sola ma parecchie grandi città americane. Nell'ospedale lo stato d'animo si capovolge di colpo, l'euforia s'impadronisce perfino dei feriti gravi. Ci si sente di nuovo massa; poiché la morte è stata 304
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deviata su altri, ci si crede salvi da essa. È probabile che molti, finché dura questa euforia, siano persuasi che ormai non moriranno più. T a n t o più dura s'abbatte poi, dieci giorni dopo la bomba, la notizia della capitolazione. L'imperatore non aveva mai parlato per radio, prima. Certo anche ora il suo discorso rimane incomprensibile, egli lo pronuncia nel linguaggio arcaicizzante della corte. Ma i superiori, che devono conoscerla, riconoscono quella voce per sua; il contenuto del proclama viene tradotto. Quando viene menzionato il nome dell'imperatore, la gente radunata nell'ospedale si inchina. Nessuno finora è mai riuscito a udire la voce dell'imperatore, non è quella voce che ha proclamato la guerra. Ma è quella voce che ora la revoca. A essa si crede quando dichiara la sconfitta, che altrimenti verrebbe messa in dubbio. I ricoverati nell'ospedale ne sono colpiti più duramente che non dalla distruzione della loro città, dalla loro malattia, dalla morte dolorosissima che molti di essi hanno dinanzi agli occhi. Ora non è più pensabile alcuna diversione, la ferita e la morte vanno sofferte in tutto il loro peso. T u t t o è incerto, ma senza speranza. Molti si ribellano contro questa disperazione che è passiva e preferiscono combattere ancora. Si formano due partiti, uno a favore e l'altro contro la cessazione dei combattimenti. La massa degli sconfitti, prima di sciogliersi del tutto, si suddivide in una massa doppia. Ma la parte favorevole al proseguimento della guerra ha questo punto decisivo di debolezza: si pone contro l'ordine dell'imperatore. È interessante osservare, nel corso dei giorni seguenti, che nella coscienza del dottor Hachiya il potere, già supremamente centralizzato durante la guerra, si divide in due parti: da un lato il potere cattivo, i militari, che hanno condotto il paese alla sventura; dall'altro il potere buono, l'imperatore, che vuole il bene del paese. In tal modo sussiste ancora per Hachiya un'istanza di potere, e la vera e propria struttura della sua esistenza non viene lesa. I suoi pensieri girano con305
tinuamente intorno all'imperatore. Egli, cosi come il paese, è stato vittima dei militari. Va profondamente compianto; la sua vita è divenuta ancor più preziosa. È stato umiliato per qualcosa che non voleva affatto, la guerra. Ciò permette a ogni leale suddito d'andare alla ricerca anche nel proprio io di qualcosa che non volle la guerra. Le osservazioni che s'erano sempre fatte a proposito dei militari, senza che si osasse manifestarle : la loro arroganza, la loro stupidità, il disprezzo verso chiunque non appartenesse alla loro casta, diventano improvvisamente potenti. In luogo del nemico, contro il quale non si può più combattere, sono essi che divengono il nemico. Ma l'imperatore esisteva sempre, la continuità della vita dipende da quella di lui: anche durante la catastrofe che colpì la città, il suo ritratto viene salvato. Verso la fine del diario - al trentanovesimo giorno, poiché solo allora il dottor Hachiya è venuto a saperla - è narrata la storia del salvataggio del ritratto dell'imperatore. È dipinta in ogni particolare. In mezzo alla folla degli agonizzanti e dei feriti gravi della città, poche ore dopo l'esplosione della bomba atomica, il ritratto dell'imperatore viene portato al fiume. I moribondi fanno posto: « I l ritratto dell'imperatore 1 II ritratto dell'imperatore! ». Bruciano ancora a migliaia dopo che il ritratto è stato tratto in salvo e portato via da un battello. Questa prima narrazione del salvataggio del ritratto non basta a saziare il dottor Hachiya. La cosa non dà requie, egli va in cerca di ulteriori testimoni, in particolare di quelli che presero parte all'alta impresa. Nel suo diario inserisce un altro resoconto. Durante quei giorni a Hiroshima sono accadute molte cose degne di lode. Hachiya è giusto e non sminuisce alcun merito. Elargisce la sua lode con sollecitudine e scrupolo. Ma con entusiasmo senza limiti parla del salvataggio dell'effigie imperiale. Si avverte che, di tutto quanto è successo, questo è per lui il fatto più ricco di speranza: equivale alla sopravvivenza dell'imperatore. 306
Continuano a giungere persone che si meravigliano di trovarlo in vita e si congratulano con lui. La loro gioia si avverte ancora nei suoi appunti e si trasmette al lettore. A lungo si continuano a cremare dinanzi alle finestre dell'ospedale pazienti defunti, la morte prosegue. È come un'epidemia nuova, sconosciuta. La sua origine e il suo decorso non sono stati ancora indagati con precisione. Solo con le autopsie si comincia gradualmente a capire con che cosa si ha a che fare. Hachiya non perderà neppure per un istante la sua avidità di ricerca nei confronti della nuova malattia. Così come dura intatta in lui la struttura del suo paese, che culmina nell'imperatore, del pari egli non è minimamente leso nella sua indole di studioso moderno della medicina. H o qui compreso appieno per la prima volta come questi due elementi possano combaciare naturalmente, quanto poco l'uno sia disturbato dall'altro. Soprattutto intangibile è però in quest'uomo il rispetto per i morti. S'è detto quanto poco egli tolleri che ci si abitui alla morte: la morte resta sempre per lui qualcosa di molto serio. Non si ha l'impressione che per lui i morti si amalgamino in una massa entro la quale i singoli non contano più. Egli pensa ai morti come a persone. Non si deve dimenticare che Hachiya è un medico, dunque esposto a una sorta di smussamento professionale nei confronti della morte. Ma in qualsiasi circostanza si sente che ai suoi occhi è importante ogni persona che ha vissuto, ogni persona cosi com'era realmente, così come gli si è manifestata nella sua unicità. Il quarantanovesimo giorno dopo la sventura ha luogo una giornata di commemorazione dei morti. In bicicletta egli si reca in città e visita ogni luogo che è consacrato dai morti, dai suoi morti e anche da quelli di cui ha sentito parlare. Chiude gli occhi per vedere una vicina che è perita, ed ella gli appare. Non appena riapre gli occhi l'immagine svanisce; li richiude, e riappare. Egli si 307
apre la via fra i resti della città e non si può dire che girovaghi a caso, poiché sa bene quel che cerca, e lo trova: i luoghi dei morti. Non si risparmia nulla. Si figura tutto. Dice d'aver pregato per ognuno. Mi chiedo se nelle città d'Europa ci furono uomini che andarono frugando tra le rovine alla ricerca dei luoghi dei morti, e in questo modo, avendo negli occhi le sembianze nitide dei defunti, pregando per loro, non solo per la propria famiglia, ma per i vicini, gli amici, i conoscenti, e perfino per i morti mai incontrati, di cui soltanto era stata narrata loro la morte. H o esitato prima di usare la parola «pregare» a proposito di ciò che fece Hachiya quel giorno, ma questa parola la usa egli stesso e non solo in questa circostanza si definisce un buddhista. 1971
SOS
GEORG BÙCHNER Discorso pronunciato per il conferimento del Premio Georg Buchner
Traduzione di Renata Celomi
Signore e Signori, mi sembra un'impresa folle e temeraria ringraziare per una onorificenza che viene conferita nel nome di Buchner. È a parole, infatti, che si ringrazia, e a chi, sentendo pronunciare il nome di Buchner, non verrebbero subito in mente le sue parole, e chi potrebbe mai, in un paese qualsiasi del mondo, arrogarsi il diritto di accostare le proprie alle sue parole! Vorrei dunque dirvi soltanto una cosa semplicissima: per me non esiste al mondo un solo premio per il quale potrei sentirmi più onorato, e dunque sono felice di essere qui a riceverlo. Ringrazio r « Accademia Tedesca della Lingua e della Letteratura », ringrazio la regione dell'Assia e la città di Darmstadt, nei confronti delle quali, come si può constatare, man mano che passano gli anni cresce il nostro debito per aver esse dato i natali a due tra gli spiriti più liberi e illuminati dell'umanità, Lichtenberg e Buchner. Io non sono un conoscitore della letteratura critica su Buchner e dubito fortemente di avere il diritto di esprimermi su di lui davanti a voi, che certo invece la conoscete tutti molto bene. C'è una cosa però che par311
la in mio favore e che qui potrei addurre a mia discolpa: Bùchner ha cambiato la mia vita più di qualsiasi altro scrittore. La vera sostanza di uno scrittore, ciò che in lui appare inconfondibile, si forma a mio avviso in pochissime notti che per la loro intensità e capacità di illuminazione si distinguono da tutte le altre. Sono notti rarissime in cui lo scrittore si sente angustiato, eppure a tal punto è presente a se stesso che può calarsi fino in fondo nella propria totalità. L'oscuro universo di cui egli è fatto e per il quale sente di possedere uno spazio, pur senza comprendere ancora che cosa esso contenga, si fa largo in lui tutt'a un tratto recandogli un mondo nuovo, articolato, e l'urto è talmente forte che tutto il materiale sparso e abbandonato a se stesso che urgeva in lui rifulge all'improvviso in un solo e medesimo istante. È l'attimo in cui, superando atroci incertezze, le sue stelle più intime si riconoscono a vicenda. Ora che sanno di esistere, tutto diventa possibile. E la lingua finalmente lancia i suoi segnali. Una simile notte io l'ho vissuta nell'agosto 1931 quando ho letto per la prima volta il Woyzeck. Avevo passato tutto l'anno precedente immerso in Auto da fé. Era stata, la mia, una vita ritiratissima, una sorta di servitù, nient'altro contava per me, tutto ciò che in quell'anno era accaduto lo avevo scartato e respinto. Ma ora Kien si era dato fuoco insieme ai suoi libri e io percepivo in maniera indistinta che in questo destino venivano coinvolti anche i miei libri; forse per colpa del fatto che avevo permesso a Kien di fare violenza ai libri; forse perché era giusto che sacrificassi i miei libri per i suoi; quale che fosse la ragione di tutto questo, i libri mi vennero meno e cosi mi ritrovai cieco e solo nella terra bruciata che io stesso mi ero creato intorno. Accadde dunque una notte che prendendo in mano un volume di Bùchner esso mi si apri nel punto in cui Woyzeck si reca dal dottore. Rimasi come fulminato, e anzi questa espressione mi sembra deplore312
volmente fiacca. Lessi tutte le scene contenute in quel volume di quest'opera cosiddetta « frammentaria », e poiché non riuscivo a capacitarmi e anzi semplicemente non credevo che potesse esistere una cosa simile, le lessi tutte da capo a fondo cinque o sei volte. Nella mia vita, che pure non era stata povera di impressioni, non saprei indicare nient'altro che mi avesse colpito così fortemente. Quando si fece giorno non mi riuscì più di star da solo con quel testo, e cosi mi recai di buon mattino nel centro di Vienna, da lei, la donna che per me era più di una moglie : in seguito l'ho sposata; e oggi che non è più in vita vorrei saperla qui. Era molto più colta di me, lei Bùchner l'aveva letto a vent'anni. Subito la rimproverai aspramente perché davanti a me non aveva nominato il Woyzeck nemmeno una volta, eppure non c'era quasi nulla di cui non avessimo parlato insieme. « Devi essere contento di non averlo mai conosciuto, » disse lei « come avresti potuto altrimenti scrivere qualche cosa di tuo! Ma ormai l'hai fatto, e sarebbe ora che tu leggessi anche Lenzl ». È ciò che feci in casa sua quella stessa mattina e a causa della novella Lenz si incrinò tremendamente l'immagine che avevo di Auto da fé, di cui pure ero molto orgoglioso; compresi inoltre che lei con me si era comportata benissimo. Non ho altra giustificazione per il fatto che oggi mi azzardo a parlare di Bùchner dinanzi a voi. Pensando alle tappe della vita di Bùchner (Darmstadt, Strasburgo, Giessen, Darmstadt, Strasburgo, Zurigo) mi colpisce che si tratti di città così vicine una all'altra. Anche per allora erano veramente distanze brevi. E dall'ultima lettera che Bùchner ricevette da sua madre, la quale si trovava a Darmstadt, si capisce che da lì la cosa era molto sentita, almeno in relazione a Strasburgo. Benché sia sollevata da quando il figlio è giunto a Zurigo, lei gli scrive così : « Mi sembra che tu sia all'estero solo da quando hai lasciato Strasburgo, finché eri a Strasburgo mi sembrava di averti sempre 313
vicino». Soltanto Zurigo, che pure non è lontana, le sembra una città straniera. A questa vicinanza non si pensa mai, e ciò sta a indicare certamente il grande slancio dell'opera di Buchner. Se per altri scrittori, che pure non si sono allontanati più di lui, la cosa ci appare appropriata, in Buchner invece ci stupisce. In ogni caso bisogna considerare tutto ciò che Strasburgo rappresentava a quell'epoca: l'incubatrice della nuova letteratura tedesca, la città nella quale avevano dimorato in gioventù Herder e Goethe, e anche Lenz, che in quegli anni era un autore non meno incisivo, ciò che con tardiva giustizia gli va riconosciuto. Per Buchner si trattava di ricordi che risalivano a non più di sessant'anni addietro, come se uno di noi volesse fare riferimento all'epoca che ha preceduto la Prima guerra mondiale. Ma in quel lasso di tempo c'era stata la Rivoluzione francese, l'evento più significativo e ricco di conseguenze della storia moderna, che solo nell'epoca della nostra generazione è stato sostituito da altri eventi più significativi. A Strasburgo, gli effetti di questa rivoluzione ancora non si erano esauriti come invece era accaduto nella Germania di allora. Buchner arriva in Francia nell'epoca del trionfo della borghesia, proprio quando comincia a dispiegarsi in varie direzioni una vita intellettuale interamente permeata dalla politica e fecondissima di nuove concezioni sui problemi della collettività, una vita talmente vivace e moderna che sotto certi aspetti rappresenta tuttora il nostro alimento. A Strasburgo Biichner ha la sua prima esperienza della massa: poche settimane dopo il suo arrivo, Ramorino, reduce dall'insurrezione liberale in Polonia, viene ricevuto dagli studenti e dalla cittadinanza. T r e o quattrocento studenti che inalberano una bandiera nera guidano un enorme corteo di popolo che attraversa la città cantando La Marsigliese e La Carmagnola. Ovunque risuona il grido: « Vive la liberté! Vive Ramorinol À bas les ministres! A bas le juste milieu! ». Nella cattedrale di Strasburgo Buchner incontra un 314
giovane sansimonista con barba e capelli molto lunghi, che nonostante il costume variopinto lo impressiona non poco. Sempre a Strasburgo vede la polizia che attacca un folto gruppo di dimostranti, i quali protestano vivacemente. Per ben due anni Biichner rimase in questo mondo così libero e aperto. Ciò che in esso aveva portato da casa sua aveva un grandissimo, inestimabile valore. Era arrivato a Strasburgo non come un piagnucoloso adolescente, anzi gli antenati medici da più generazioni e le impressioni ricevute nella casa paterna gli avevano trasmesso un interesse preciso per la corporeità, per il singolo, per il concreto. C'è, nella giovinezza di Biichner, che pure non è un insensibile, una forte inclinazione al rigore e alla solidità: non c'è traccia di progetti o tentativi letterari, non un'ombra di narcisismo, né le pose presuntuose delle persone deboli. È il figlio maggiore di un padre robusto e avveduto che morirà a settantacinque anni, né mi sembra inutile rammentare l'età cui giungeranno i suoi tre fratelli: settantasei, settantacinque, settantasette anni. Anche la madre e le sorelle non moriranno giovani. Egli è l'unico di questa grande famiglia destinato a morire in giovane età a seguito di una fatale infezione. A Strasburgo impara a muoversi nel francese con assoluta libertà, il francese diventa una lingua che il tedesco non respinge. Egli si fa degli amici, conosce a fondo l'Alsazia e la Catena dei Vosgi. La nuova città e il nuovo paesaggio non sono tali da sommergerlo. Se fosse stato per due anni a Parigi, le cose si sarebbero svolte certamente in maniera diversa. Ciò che colpisce, nella vita di Biichner, è che nulla in essa va sprecato. La sua è una natura che custodisce gelosamente i propri oggetti ed è in grado di distinguerli come persone, come organi di un essere umano, nulla per lui, neanche il gioco e lo scherzo, è fine a se stesso, e perfino il sogno e la levità hanno una certa asprezza. Una natura libera, la sua, benché intricata e complessa, per la quale però nulla è irresolvibile : in que315
sto, ma solo in questo, è diversissimo da Lenz e casomai pivi simile a Goethe. Cosi come accade per le persone e le cose, anche gli impulsi che Biichner ha avvertito non vanno perduti: tutto si estrinseca, mai egli si chiude in se stesso per molto tempo. È stupefacente la rapidità e l'energia con cui reagisce alle situazioni nuove. Da Strasburgo ritorna a Darmstadt e poi a Giessen, ma l'angustia del nuovo tipo di esistenza lo tormenta come una grave malattia. Riesce comunque a liberarsi da quella gretta oppressione nell'unica maniera possibile, cioè propagando le spinte rivoluzionarie che ha assimilato, e lo fa senza riguardo alla persona, con la massima genuinità, rivolgendosi a tutti quelli che per loro natura non sono inclini a ritirarsi in un superbo isolamento. Fonda la « Società dei diritti umani » e con questo comincia l'epoca della cospirazione, cioè della sua doppia vita. Si può mostrare in quale forma questa sua doppia vita prosegue anche dopo il fallimento dell'azione, come diventa feconda, perché ad essa si devono le opere letterarie, come sfocia nella novella Lenz e poi addirittura nel Woyzeck. Come Biichner ha portato nella sua patria, piccola e angusta, la vastità dei rapporti vissuti a Strasburgo, così quando fugge da Darmstadt per ritornare a Strasburgo egli reca in sé l'angustia più grande da cui lì si era sentito minacciato, il carcere, l'angoscia del quale rimarrà desta in lui anche quando riuscirà a raggiungere il paradiso zurighese. È questa un'angoscia che non lo lascerà mai piìi, e la sua peculiarità deriva dal fatto che si tratta dell'angoscia di un uomo che ha contrastato attivamente il pericolo. La sfrontatezza di Biichner davanti al giudice istruttore, i suoi sforzi di liberare dalla prigione l'amico Minnigerode, il suo mandare avanti il fratello Wilhelm quando egli stesso è chiamato a deporre in istruttoria, la sua lettera a Gutzkow e infine la fuga tutto questo testimonia un carattere assai energico, 316
che si rende perfettamente conto della propria situazione e ad essa non si rassegna. Ma ci si rende il compito troppo facile se si trascura La morte di Danton, che Biichner scrisse di getto nel mese in cui preparava la fuga. Anche Danton è in grado di vedere con chiarezza la propria situazione : quando parla con Robespierre fa anzi del suo meglio per peggiorarla. La vuole irreparabile, la vuole scottante, ma quando si tratta di prendere una decisione per la propria salvezza o per la propria fuga, egli si paralizza con una frase che poi ritorna sovente: « Non oseranno». È la frase più ossessiva di tutto il dramma; già la prima volta desta nel lettore un certo disagio, e poi, dopo varie ripetizioni, si ha il senso che possa essere considerata una specie di motto della rivoluzione con il segno cambiato. In essa si rivela il tema fondamentale del dramma: bisogna salvarsi? Danton vuole restare: la sua voglia di perseverare è più forte del pericolo. «Veramente dovrei ridere di tutta questa faccenda » sostiene Danton. « C'è in me un sentimento di continuità che mi dice: domani sarà come oggi e dopodomani e così di seguito, tutto come sempre. Tanto rumore per niente, vogliono spaventarmi, ma non oserannol ».* Per potersi salvare Biichner ha dovuto creare la figura di quest'uomo che non si vuole salvare. Nel dramma si tratta del pericolo che corre egli stesso, la Conciergerie e la prigione di Darmstadt sono tutt'uno. Egli scrive in preda alla febbre, non ha altra scelta, non riesce a darsi pace fino a quando Danton non viene ghigliottinato. Questo dice a Wilhelm, il fratello più giovane che in quelle settimane gli è più vicino di chiunque altro, e gli dice anche che sa di dover fuggire. Ma varie cose lo trattengono ancora: il pensiero * Si veda La morte di Danton, in Georg Biichner, Opere, a cura di Giorgio Delfini, Adelphi, Milano, 1963, p. 39. Da questo stesso volume sono tratte le altre citazioni di Biichner che compaiono in questo saggio [N.d.T.]. 317
di un dissidio col padre, la preoccupazione per gli amici che si trovano in prigione, la persuasione che non potranno prenderlo e la mancanza di denaro. In bocca a Danton « la persuasione che non potranno prenderlo » si esprime nella frase : « Non oseranno! ». Con questa frase di Danton Biichner cerca di liberarsi dalla propria paralisi, è un pungolo che deve indurlo a reagire in maniera opposta. A me sembra indubitabile che per sottrarsi al proprio destino Biichner accetti il destino di Danton e sia spinto irresistibilmente a portarlo a compimento. Dalle azioni che ha compiuto, Biichner si sente soffocare, e dopo molto tempo ripensa ad esse come se fossero fatte ma anche, contemporaneamente, non fatte. La fuga, che è l'evento centrale della sua esistenza,^ esteriormente è riuscita, ma il terrore del carcere non lo ha mai abbandonato. Egli si scarica del senso di colpa per gli amici che ha lasciato a Darmstadt in quanta si mette al loro posto. Le lettere che da Strasburgo indirizza ai suoi familiari con l'intento di tranquillizzarli, lettere in cui racconta del suo lavoro e delle sue prospettive, traboccano in realtà di una persistente inquietudine. Da altri fuoriusciti viene a sapere di nuovi arresti avvenuti in patria e tutte queste notizie le comunica ai familiari in ogni dettaglio. E benché accada spesso che lui sia più informato di loro, si aspetta dai suoi ulteriori informazioni sull'argomento. Non c'è niente che lo tocchi più da vicino, niente che lo interessi di più. Proprio lui che conosce cosi bene il valore della libertà e che tanto si adopera per non perderla con le sue attività e la grande vigilanza che gli permette di valutare lucidamente ogni pericolo, proprio lui, nello stesso tempo, continua a sentirsi accanto agli amici in prigione. Egli fa propri i timori dei suoi amici, di questo ci si accorge quando scrive di esecuzioni che in realtà non hanno avuto luogo. Da quando arriva a Strasburgo per la seconda volta, si può parlare, a proposito di Bùchner, di una nuova doppia vita, che continua in una forma diversa la precedente esistenza 318
cospirativa da lui condotta in patria. Una di queste vite, quella esteriore e fattiva, egli la porta avanti tra gli altri fuoriusciti, ed è tutta protesa a evitare ogni pretesto di estradizione. Nello stesso tempo però egli conduce un'altra esistenza, emotivamente e spiritualmente si trova ancora in patria, accanto ai suoi amici più sfortunati. La necessità della fuga è ancora ininterrottamente davanti ai suoi occhi, non si è mai concluso per lui il mese passato a Darmstadt per prepararla. Fa parte del destino del fuoriuscito voler credere di essere salvo. Ma egli non potrà mai essere salvo, perché tutto ciò che si è lasciato alle spalle - gli altri - non è salvo. Due mesi dopo l'arrivo di Bùchner a Strasburgo, Gutzkow gli scrive una lettera in cui nomina « la Sua novella Lenz». Biichner gli aveva dunque parlato, probabilmente poco dopo il suo arrivo, del progetto di una simile novella. Ci sarebbero un'infinità di cose da dire sul significato di questo racconto e su ciò che lega Biichner a Lenz. Qui voglio solo far notare una cosa, che certo è insignificante se si considera tutto quello che ci sarebbe da dire: quanto questo racconto sia intriso e alimentato dal tema della fuga. I Vosgi, che Bùchner conosceva perfettamente per esserci stato più volte in gita con i suoi amici e che due anni prima aveva anche descritto in una lettera ai suoi genitori, si trasformarono il 20 gennaio, quando Lenz traversò la montagna, in un paesaggio d'angoscia. Lo stato d'animo di Lenz, ammesso che lo si possa compendiare in un termine solo, è uno stato di fuga, che però si scinde in numerose piccole fughe particolari in apparenza prive di senso. La minaccia che incombe su Lenz non è la prigione, ma anche Lenz è un reietto, un uomo che la patria ha messo al bando. La sua patria, l'unica plaga nella quale gli era dato di respirare liberamente, era Goethe, e Goethe lo ha cacciato via. Allora egli cerca rifugio in località più o meno lontane, che però 319
sono in rapporto con Goethe; arriva in un posto, stabilisce dei rapporti, tenta di rimanere. Ma la messa al bando che egli ha subito e i cui effetti persistono nel suo animo lo spinge di nuovo a distruggere tutto. Con piccoli reiterati movimenti ripetuti di continuo in una specie di stordimento, Lenz cerca riparo nell'acqua, o affacciandosi alla finestra, o nel villaggio vicino, nella chiesa, in una casa di contadini, fino a quando giunge da una bambina morta. Se si fosse creduto salvo, quella bambina sarebbe riuscito a risuscitarla. Biichner ha ritrovato in Lenz la propria irrequietezza, l'angoscia per la fuga che sempre lo assaliva ogni volta che metteva piede in una prigione per visitarvi i suoi amici. Un tratto del suo impervio cammino Biichner lo ha percorso con Lenz, si è identificato con lui e, nello stesso tempo, si è posto come suo accompagnatore e lo ha guardato dall'esterno con l'occhio imperturbabile di chi guarda un altro. Perciò la messa al bando non finiva, e neppure la fuga, tutto seguitava come prima. « Così continuò a vivere... » scrisse Biichner, e dopo quest'ultima frase abbandonò Lenz. Ma l'altro Biichner, quello che nell'ambiente in cui visse in quel periodo tutti conoscevano bene, si conquistò con un lavoro scientifico tenace e rigoroso sul sistema nervoso del barbo il rispetto degli scienziati di Strasburgo e di Zurigo. E, dopo aver ottenuto il titolo di dottore, si recò a Zurigo per tenervi la sua prima lezione. Durante il periodo zurighese, che dura non più di quattro mesi, Biichner riesce ad affermarsi e a farsi valere. Subito gli viene affidato un corso universitario, e tra coloro che lo seguono figurano personalità di un certo rilievo. Il padre gli manda una lunga lettera nella quale gli concede il suo perdono. A Biichner la Svizzera piace, in essa vede « dovunque villaggi accoglienti con belle case » e loda il suo « popolo sano e forte », nonché il « governo semplice, buono e veramente repubblicano ». Subito dopo, nella stessa lettera del 20 novembre 320
1836, l'ultima alla sua famiglia che ci è stata conservata, vien fuori ad un tratto la notizia per lui più tremenda : « Minnigerode è morto, come mi scrivono, vale a dire che egli è stato torturato a morte per tre anni. T r e anni! ». Così vicine sono in questa lettera la salvezza nel paradiso zurighese e la tortura mortale subita dall'amico rimasto in patria. Ritengo che fu questa notizia a scatenare in Biichner l'impulso per la stesura definitiva del Woyzeck. La dedizione per l'umanità è di casa in questo dramma come in nessun'altra delle sue opere. È probabile che egli non abbia mai saputo che la notizia era errata. In ogni caso essa ha prodotto in lui notevoli effetti. Sono passati due anni e quattro mesi dall'arresto di Minnigerode, e non c'è da stupirsi che il periodo della sua prigionia si sia esteso per Bùchner, che pure in quel tempo si trovava a Darmstadt, a tre anni. Quell'enfatico « tre » ricorda in effetti il periodo passato in prigione da un altro uomo, il Woyzeck storicamente esistito. Più di tre anni erano infatti trascorsi dall'assassinio della sua amante fino alla sua esecuzione in pubblico. Bùchner naturalmente conosceva questo caso per aver letto la perizia del consigliere aulico Clarus sull'assassino Woyzeck. Oltre alla notizia della morte del suo amico in prigione, oltre al cocente ricordo delle depressioni, ma anche delle esaltazioni di coloro che erano rimasti in patria, è confluito qualcosa nella concezione del Woyzeck a cui normalmente non vien fatto di pensare : nel Woyzeck è entrata la filosofia. Per comprendere Bùchner nella sua interezza, bisogna tener conto che verso la filosofia il suo atteggiamento era di grande insofferenza. Eppure aveva per essa una innata disposizione : Lùning, che quando era studente lo incontrò a Zurigo, notò in lui «una speciale ed estrema risolutezza di tipo assertivo ». Ma dal linguaggio dei filosofi Bùchner si sente respinto. Già tempo addietro, in una lettera all'amico alsaziano August Stòber, si era espresso così: « Mi sono buttato con 321
tutte le mie energie sulla filosofia. Il linguaggio specialistico è detestabile; a me pare che per le questioni umane si dovrebbero trovare anche espressioni umane ». E a Gutzkow due anni dopo, quando ormai quel linguaggio lo possedeva a fondo : « Io mi istupidisco completamente nello studio della filosofia, imparo a conoscere ancora una volta, da un nuovo lato, la meschinità dello spirito umano ». Pur occupandosi di filosofia, egli non ne è soggiogato e ad essa non sacrifica un solo grano di realtà. La prende sul serio quando opera nel più misero degli uomini, cioè in Woyzeck, e invece la sbeffeggia nei personaggi che si sentono superiori a lui. Il soldato Woyzeck, come la scimmia di cui parla l'imbonitore, è « il grado più basso della razza umana », continuamente braccato da ordini e voci, un prigioniero in libertà predestinato a essere catturato e nutrito con il vitto dei carcerati, piselli, sempre e solo piselli, nient'altro che piselli, degradato dal dottore al rango di una bestia, quel dottore che ha il coraggio di dirgli: «Woyzeck, l'uomo è libero, nell'uomo l'individualità si trasfigura nella libertà». Ma con queste parole non intende niente di più se non che lui, Woyzeck, dovrebbe essere capace di trattenere l'urina parla insomma della libertà di indulgere a ogni tipo di abuso della sua umana natura, la libertà di farsi schiavo per ricevere i tre soldi che gli servono per quel suo vitto di piselli e nient'altro. E quando con stupore sentiamo che il dottore gli dice : « Woyzeck, adesso vi mettete ancora a filosofare », espressione di omaggio simile a quella che il padrone della baracca ha testé rivolto a un cavallo ammaestrato, già alla frase successiva vediamo che questo ossequio si riduce a una «aberratio», che nella frase ancora dopo viene ulteriormente precisata scientificamente come «aberratio mentalis partialis», per la quale, dice, gli darà un «supplemento». Il capitano, invece, che è convinto di essere u n buon uomo perché si sente a posto, quello che si spa322
venta a veder correre Woyzeck « come un rasoio aperto », e a vedere che tutti si precipitano benché abbiano davanti a sé un tempo smisurato, quello che ha paura per questo mondo se pensa all'eternità, il capitano rivolge a Woyzeck il seguente rimprovero: « Ma pensi troppo, e questo consuma; hai sempre quell'aria di bestia inseguita». La dimestichezza di Biichner con alcune dottrine filosofiche ha influenzato la genesi del Woyzeck anche in un'altra maniera, sia pure meno scoperta. Mi riferisco alla presentazione frontale dei personaggi importanti del dramma, quello che potremmo chiamare il loro autostigmatizzarsi. La sicurezza con cui essi escludono tutto ciò che non sono, l'aggressivo arroccarsi in se stessi financo nella scelta delle parole, la sprezzante rinuncia al mondo reale su cui pure infieriscono con astio impetuoso, tutto questo assomiglia in qualche modo all'arroganza offensiva dei filosofi. Ognuno di questi personaggi si presenta nella propria interezza già dalle prime frasi. Il capitano, il dottore, e più di tutti il tamburmaggiore appaiono i banditori del proprio personaggio. Con scherno, o vanagloria, o invidia, tracciano essi stessi le proprie barriere, e si pongono tutti contro l'unico essere che disprezzano, la creatura che vedono sotto di sé e che si trova in quel luogo solamente per servirli, in quanto loro subalterno. Woyzeck è la vittima di tutti e tre. Alle imparaticce filosofie del dottore egli è in grado di contrapporre pensieri che corrispondono a qualcosa di vero. La sua è una filosofia concreta, legata all'angoscia, al dolore, alla sua visione delle cose. Ogni volta che pensa il terrore lo assale, e le voci da cui è inseguito sono assai più vere sia della commozione del capitano per la sua giubba appesa alla parete sia dei perpetui esperimenti del dottore con quei suoi piselli. Al contrario di costoro, Woyzeck non viene presentato frontalmente, dall'inizio alla fine le sue reazioni sono vivaci e inattese. Essendo sempre alla mercé degli altri, non cessa 323
mai la sua vigilanza e le parole che in essa riesce a trovare le pronuncia in uno stato di totale innocenza. Non sono parole logore, e neanche abusate, non sono moneta spicciola, o armi tenute in serbo, sono parole istantanee, nate al momento. E anche quando egli le accoglie con noncuranza, si fanno strada autonomamente : i framassoni hanno scavato la terra per lui : « Il vuoto, lo senti? Tutto è vuoto qua sotto! I framassoni! ». In quanti diversi esseri umani è frammentato il mondo nel Woyzeck! I personaggi della Morte di Danton hanno ancora troppe cose in comune, sono tutti pervasi da una trascinante eloquenza, e certo non si può dire che lo spirito alberghi solamente in Danton. Una possibile spiegazione è che l'epoca stessa è intrisa di retorica, in fin dei conti i portavoce della Rivoluzione, che sono i protagonisti del dramma, si sono conquistati fama e rispetto proprio mediante l'uso delle parole. Ma poi, rammentando la storia di Marion * che pure perora la propria causa come meglio non potrebbe - accettiamo, sia pure a malincuore, la tesi seguente: La morte di Danton è un dramma che appartiene a una scuola retorica, sia pure la più straordinaria che ci sia, la scuola di Shakespeare. Dalle altre opere di scuola, questo dramma si differenzia per la sua veemenza, per la sua rapidità, ma anche per la sua particolare sostanza, costituita in parti uguali di fuoco e di ghiaccio, della quale non c'è altro esempio nella letteratura tedesca. È un fuoco che costringe a correre, e un ghiaccio che rende trasparente ogni cosa, e cosi corriamo per tenerci al passo col fuoco, e ci fermiamo per guardare nel ghiaccio. A meno di due anni di distanza, Bùchner è riuscito, con il Woyzeck, a operare un totale capovolgimento nella letteratura: sua è infatti la scoperta del misero. Questa scoperta presuppone la pietà, ma solo se la * Il riferimento è a Marion Delorme, dramma storico in cinque atti di Victor Hugo, rappresentato nel 1831 [AT.d.T.]. 824
pietà viene tenuta nascosta, se è una pietà muta e non proclamata, solo allora il misero è intatto. Lo scrittore che fa sfoggio dei suoi sentimenti, che enfatizza pubblicamente la figura del misero ostentando pietà nei suoi confronti, in realtà lo contamina e lo distrugge. Woyzeck, invece, che pure è braccato dalle voci e dalle parole degli altri, è lasciato intatto dallo scrittore. In questo pudore di fronte alla miseria, non c'è a tutt'oggi un solo scrittore che possa essere messo alla pari con Biichner. Negli ultimi giorni della sua vita, Biichner fu scosso da fantasie febbrili sulla cui natura e sul cui contenuto disponiamo di pochi e approssimativi elementi. Quel poco lo si desume dalle parole che Caroline Schulz annotò al riguardo in un quaderno di appunti. Vi si legge: « 14 (febbraio)... Verso le otto riprese a delirare e, cosa strana, parlò varie volte delle sue fantasie riprovandole lui stesso, una volta persuaso che erano tali. Una fantasia ricorrente era questa: si immaginava di essere estradato... « 15... Quando era in sé parlava con una certa difficoltà, ma non appena cominciò a delirare si mise a parlare spedito. Mi raccontò una lunga storia, sensata e coerente: come già ieri lo avessero condotto alle porte della città, e che poco prima aveva tenuto un discorso nella Piazza del Mercato, e così via... « 16... L'ammalato tentò più volte di andare via, perché immaginava che lo stessero imprigionando o pensava di essere già in un carcere dal quale voleva evadere ». Io credo che se conoscessimo l'esatto enunciato di questi deliri di Biichner, ci troveremmo assai vicini a Woyzeck; qualcosa di Woyzeck è rimasto perfino in questo resoconto, che pure l'amore e il dolore hanno certo mitigato e attenuato, e dove manca il terrore di chi si sente braccato. Quando Biichner morì, il 19 febbraio, Woyzeck lo aveva ancora dentro. Non è ozioso almanaccare sulla vita di Buchner 325
dopo la sua morte, perché cercare in essa un senso è davvero impossibile. La morte di Biichner è stata insensata come ogni altra morte, ma nel suo caso l'insensatezza della morte si è manifestata con particolare evidenza. Bùchner non si era compiuto, malgrado il peso e la maturità di ognuna delle opere letterarie che ci ha lasciato. Appartiene alla sua natura che le sue opere non siano state portate a termine, e certo non lo sarebbero state nemmeno in seguito. Egli si staglia come puro esempio dell'umana incompiutezza. Le sue molteplici attitudini, che alternandosi si rincorrono a vicenda, testimoniano di una natura che nella sua inesauribilità ha diritto di pretendere la vita eterna. 1972
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I L MIO P R I M O LIBRO: « A U T O DA F É »
Traduzione di Renata Ckìlomi
Il titolo è fuorviarne; infatti, quello che poi diventò il mio primo libro fu concepito come uno degli otto libri da me contemporaneamente abbozzati nel corso di un anno, dall'autunno 1929 all'autunno 1930. Il manoscritto del primo di questi romanzi, sul quale poi mi concentrai lavorando alla sua stesura ancora per un anno, era intitolato « Kant prende fuoco ». Con questo titolo è rimasto presso di me sotto forma di manoscritto per quattro anni, e soltanto quando stava per uscire, nel 1935, gli ho dato il titolo Die Blendung, che da allora gli è rimasto.* Il protagonista di questo libro, oggi noto come Kien, era indicato nei miei primi abbozzi con la sigla B., * Col titolo Die Blendung [Abbagliamento] il libro apparve a Vienna nel 1935 presso l'editore Herbert Reichner. Fu tradotto in inglese nel 1946 per l'editore Jonathan Cape di Londra e in quell'occasione l'autore scelse il titolo Auto da fé. Nel 1947 uscì a New York presso Knopf con il titolo The Tower of Babel. Quando, nel 1967, fu tradotto in italiano per l'editore Garzanti, Canetti stesso espresse il desiderio che il titolo Auto da fé fosse usato anche nell'edizione italiana. Con questo stesso titolo è ora disponibile nella < Biblioteca Adelphi » [N.d.T.]. 329
abbreviazione di « Biichermensch » [Uomo dei libri]. A tal punto, infatti, io me lo figuravo cosi, come l'uomo dei libri, che il suo legame con i libri era di gran lunga più importante della sua stessa persona. Era fatto di libri, era questa, allora, la sua unica caratteristica, per il momento non ne aveva altre. Quando finalmente mi accinsi a scrivere la sua storia in un tutto coerente, il nome che gli diedi fu Brand [Incendio]. Nel nome era contenuta la sua fine : egli, infatti, sarebbe morto in un rogo. Mentre non avevo ancora la minima idea di come il romanzo si sarebbe sviluppato nei particolari, una cosa era certa fin da allora: Brand avrebbe dato fuoco a sé e ai suoi libri e nel rogo da lui stesso appiccato sarebbe perito fra le fiamme con la sua biblioteca. Per questo si chiamava Brand, e così le sue primissime connotazioni, « Uomo dei libri » e « Incendio », erano l'unica cosa di lui stabilita con certezza fin dall'inizio. Ma un altro elemento fu stabilito subito, e si tratta senz'altro dell'elemento decisivo del libro: la figura antagonista della governante Therese, una donna di cortissime vedute. Il suo archetipo era tanto reale quanto era irreale quello dell'Uomo dei libri. Nell'aprile del 1927 avevo preso in affitto una stanza fuori Vienna su una collina oltre Hacking, nella Hagenberggasse. Precedentemente ero stato in varie camere ammobiliate per studenti nel centro di Vienna, e ora, per cambiare, desideravo abitare fuori città. Il Lainzer Tiergarten con i suoi alberi secolari mi attraeva e l'annuncio di una camera libera vicinissima alle mura del giardino zoologico mi saltò agli occhi. Andai subito a vederla, la padrona di casa mi apri e mi portò al secondo piano, che conteneva quell'unica stanza. Lei stessa abitava con la sua famiglia giù al piano terra. Il panorama mi entusiasmò, al di là di un parco giochi si vedevano lungo il pendio gli alberi del grande giardino arcivescovile e, dall'altra parte della valle, sulla cima della collina di fronte, lo sguardo si posava sullo Steinhof, la città dei pazzi cintata da una mura330
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glia. Dopo la prima occhiata la mia decisione f u presa, quella stanza la volevo per me, e subito, davanti alla finestra aperta, presi accordi su tutti i particolari con la padrona di casa. La donna portava una sottana che arrivava a terra e teneva la testa obliqua, gettandola ogni tanto dall'altra parte; il primo discorso che mi fece lo si ritrova parola per parola nel terzo capitolo di Auto da fé: è il discorso sulla gioventù di oggi e sulle patate che ormai costano il doppio. Fu un discorso piuttosto lungo, che mi irritò moltissimo, tant'è che subito mi rimase in mente. È vero che spesso, nel corso degli anni successivi, mi toccò di risentirlo esattamente con le stesse parole, ma sono certo che già dopo quella prima volta non avrei più potuto dimenticarlo. Durante quel primo colloquio chiesi il permesso di ricevere le visite della mia amica. La padrona di casa me lo concesse, ma insistette che fosse sempre e soltanto la stessa « signorina fidanzata ». Il tono di sdegno con cui io protestai che di fidanzate ne avevo una sola la tranquillizzò. Avevo anche molti libri, le dissi. « Non si preoccupi, » mi rispose « coi signori studenti è giusto che sia cosi ». Qualche difficoltà in più la ebbi con la mia ultima richiesta: dovevo assolutamente poter appendere alle pareti le riproduzioni che portavo sempre con me. Lei disse: « Con queste belle tappezzerie. Dovrà usare per forza le puntine? ». Io, spietato, le risposi di sì. Da anni vivevo con alcune grandi riproduzioni degli affreschi della Cappella Sistina, e tale era la mia devozione per i Profeti e le Sibille di Michelangelo che neanche per quella stanza li avrei sacrificati. Lei vide la mia risolutezza e, sia pure a malincuore, acconsentì. A quella stanza, nella quale vissi per sei anni, non devo soltanto la figura di Therese. La vista quotidiana dello Steinhof, dove vivevano seimila pazzi, è stata la spina nella mia carne. Sono assolutamente certo che senza quella stanza non avrei mai scritto Auto da fé. Ma i tempi non erano maturi, a quell'epoca ero an331
Cora uno studente di chimica che andava ogni giorno in laboratorio e soltanto di sera si dedicava allo scrivere. Inoltre non vorrei far credere il falso, e cioè che la figura di Therese, nata soltanto tre anni e mezzo dopo, possa essere accomunata con quella della mia padrona di casa in altro che per il modo di parlare e per una certa rassomiglianza esteriore. La mia padrona di casa era un'impiegata delle Poste in pensione, anche il marito aveva lavorato alle Poste, insieme a loro vivevano in casa due figli già adulti. Soltanto il primo discorso di Therese deriva da un discorso reale, tutto il resto è pura invenzione. A distanza di pochi mesi dal mio trasferimento in quella nuova stanza, accadde un fatto che esercitò un influsso profondissimo sulla mia vita successiva, nonché sulla genesi di Auto da fé. Fu un avvenimento pubblico, uno di quei rari avvenimenti che turbano a tal segno una città intera che essa, da allora in poi, non è più la stessa. La mattina del 15 luglio 1927 ero rimasto a casa, non ero andato come al solito all'Istituto di chimica nella Wàhringerstrasse. Nel caffè di Ober-Sankt-Veit mi misi a leggere i giornali del mattino. Sento ancora l'indignazione che mi travolse quando presi in mano la « Reichspost » e lessi un titolo a caratteri cubitali : « U n a giusta sentenza». Nel Burgenland c'era stata una sparatoria, alcuni operai erano rimasti uccisi. Il tribunale aveva assolto gli assassini. L'organo di stampa del partito al governo dichiarava, o meglio strombazzava, che con quella assoluzione era stata emessa una «giusta sentenza». Più che l'assoluzione in quanto tale fu proprio questo oltraggio a ogni sentimento di giustizia che esasperò enormemente gli operai viennesi. Da tutte le zone della città i lavoratori sfilarono, in cortei compatti, fino al Palazzo di Giustizia, che già per il nome incarnava ai loro occhi l'ingiustizia in sé. La reazione fu assolutamente spontanea, me ne accorsi più che mai dai miei sentimenti. Inforcai la bicicletta, volai in città e mi unii a uno di questi cortei. 332
Gli operai di Vienna, che normalmente erano disciplinati, avevano fiducia nei loro capi del partito socialdemocratico e si dichiaravano soddisfatti del modo esemplare in cui essi amministravano il Comune di Vienna, agirono quel giorno senza consultare i loro capi. Quando appiccarono il fuoco al Palazzo di Giustizia, il borgomastro Seitz, su un automezzo dei pompieri, cercò di tagliar loro la strada alzando la mano destra. Fu un gesto assolutamente inefficace: il Palazzo di Giustizia andò in fiamme. La polizia ebbe l'ordine di sparare, i morti furono novanta. Sono passati quarantasei anni, eppure sento ancora nelle ossa la febbre di quel giorno. È la cosa più vicina a una rivoluzione che io abbia mai vissuto sulla mia pelle. Non basterebbero cento pagine per descrivere ciò che vidi io stesso. Da allora so con assoluta precisione quel che accadde durante l'assalto alla Bastiglia, è un tema sul quale non avrei più bisogno di leggere una parola. Mi trasformai in un elemento della massa, la massa mi assorbì in sé completamente, non avvertivo in me la benché minima resistenza contro ciò che la massa faceva. Mi meraviglio che in una simile disposizione di spirito fossi ancora in grado di percepire in tutti i particolari ogni singola scena che si svolgeva davanti ai miei occhi. Ne voglio raccontare una. In una strada laterale non lontana dal Palazzo di Giustizia che stava bruciando, ma in posizione defilata e comunque ben distanziata rispetto alla massa, un uomo con le braccia alzate e le mani congiunte sopra la testa in un gesto di disperazione, gridava gemendo: «Bruciano i fascicoliI Tutti i fascicoli!». « Meglio i fascicoli che gli uomini! » gli dissi io, ma questo a lui non importava affatto, aveva in testa soltanto i fascicoli, e a me venne in mente che forse in quel palazzo egli stesso aveva a che fare, magari come archivista, con dei fascicoli; l'uomo era inconsolabile, e a me, malgrado la situazione, fece un effetto comico. Al tempo stesso però mi indignava. « Ma non vede che 333
laggiù hanno sparato sulla gente, » dissi iroso « e lei parla di fascicoli! ». Lui mi guardò in faccia come se neanche esistessi e gemette di nuovo: «Bruciano i fascicoli 1 T u t t i i fascicoli! ». Pur essendosi messo in disparte, la situazione non era per lui priva di pericoli, non era possibile non udire il suo lamento, anch'io infatti l'avevo udito. Qualche anno dopo, quando scrissi i primi abbozzi della « Comédie humaine dei folli », chiamai Brand Incendio - il topo di biblioteca B. Che il suo nome e il suo destino avessero tratto origine da quella giornata del 15 luglio allora non lo sapevo, certamente avrei provato un senso di grave imbarazzo se avessi riconosciuto quel nesso, e forse, addirittura, avrei buttato all'aria l'intero progetto. Tuttavia, durante la stesura del romanzo, cominciai a rendermi conto che il nome Brand mi stava troppo stretto. Capitavano moltissime cose nel libro, e la sua conclusione, alla quale non bisognava assolutamente pensare, appariva in quel nome troppo nitidamente indicata. Ribattezzai Brand in Kant, e questo nome gli rimase a lungo, indisturbato. Nell'agosto del 1931, a quattro anni di distanza da quel 15 luglio, Kant diede fuoco alla sua biblioteca e perì nell'incendio dei suoi libri. Questa fu comunque una conseguenza tardiva e assolutamente imprevista del 15 luglio. Se qualcuno allora mi avesse annunciato un simile esito letterario di quella giornata, certamente mi sarei infuriato con lui e lo avrei messo alla porta. Subito dopo, infatti, in quei giorni di profondissimo abbattimento in cui non riuscivamo a pensare ad altro e gli eventi di cui eravamo stati testimoni si ripresentavano continuamente davanti ai nostri occhi perseguitandoci ogni notte fin dentro il sonno, in quei giorni, dicevo, esisteva un unico collegamento legittimo con la letteratura: Karl Kraus. La mia idolatrica venerazione per Kraus raggiunse allora il suo culmine. Provai, questa volta, un sentimento di gratitudine per un'azione pubblica ben precisa, non saprei indicare nessun'altra persona per la 334
quale io abbia mai provato tanta riconoscenza. Sotto l'influsso del massacro di quel giorno, Kraus aveva fatto affiggere dappertutto a Vienna dei grandi manifesti nei quali, rivolgendosi al capo della polizia Johann Schober, responsabile di avere ordinato la sparatoria e responsabile dunque dei novanta morti, gli intimava di « dare le dimissioni ». Fu un atto individuale, Kraus fu l'unica figura pubblica che prese un'iniziativa, e mentre gli altri personaggi celebri - a Vienna non ne mancavano mai - non volevano esporsi o forse non volevano rendersi ridicoli, soltanto in Kraus il coraggio fu pari all'indignazione. I suoi manifesti furono in quei giorni l'unico nostro sostegno. Io passavo da un manifesto all'altro, mi fermavo davanti a ciascuno di essi, e avevo la sensazione che tutta la giustizia di questa terra fosse penetrata nelle lettere dell'alfabeto che componevano il nome di Karl Kraus. L'anno che segui fu totalmente dominato da questo avvenimento. Fino all'estate inoltrata del 1928, i miei pensieri ruotarono intorno ad esso, non mi occupai di nient'altro. Più che mai ero deciso a scoprire cosa sia veramente la massa, quella massa che mi aveva soggiogato dall'esterno e dall'interno. Stando alle apparenze, continuavo i miei studi di chimica e cominciai a lavorare per la tesi di laurea, ma l'argomento che mi avevano assegnato era talmente poco interessante che a stento scalfiva in superficie la mia mente. Appena avevo un momento libero, passavo allo studio delle cose che veramente ritenevo importanti. Per strade tra loro diversissime e in apparenza assai remote dal mio tema, cercavo di accostarmi al fenomeno della massa così come l'avevo vissuto. Cercavo la massa nella storia, ma nella storia di tutte le civiltà. La storia e l'antica filosofia cinese mi affascinavano ogni giorno di più. A occuparmi dei Greci avevo già incominciato molto tempo prima, all'epoca di Francoforte; ora mi immersi nello studio degli storici antichi, Tucidide in primo luogo, e inoltre nella filosofia dei Presocratici. Che studiassi le rivoluzioni era naturale, la rivo335
luzione inglese, quella francese e quella russa, ma ora cominciò anche a balenarmi l'importanza delle masse nei fenomeni religiosi, e quell'avidità di conoscere tutte le religioni, che da allora non mi ha più abbandonato, si manifestò per la prima volta in quel periodo. Lessi le opere di Darwin nella speranza di trovarvi qualcosa sulla formazione delle masse fra gli animali, e lessi anche, già allora con notevole impegno, alcuni libri sulle società degli insetti. In quel periodo devo aver dormito poco, passavo notti intere a leggere. Provai a scrivere qualcosa, mi cimentai in qualche saggio. Erano tutti lavori di sondaggio e di preparazione per il mio libro sulla massa, eppure, ripensandoli adesso dal punto di vista del romanzo, mi rendo conto che quegli studi appassionati e poliedrici hanno lasciato dietro di sé numerose tracce anche in Auto da fé, che fu composto di 11 a qualche anno. Nell'estate del 1928 arrivai per la prima volta a Berlino, e questo fu l'altro avvenimento per me decisivo. Wieland Herzfelde, il fondatore della casa editrice Malik, cercava un giovane che lo aiutasse per un certo lavoro su un libro, e un'amica gli aveva parlato di me. Cosi egli mi invitò ad andare a Berlino per le vacanze semestrali dell'università, proponendomi di abitare e lavorare in casa sua. Mi accolse con grande cordialità e non mi fece pesare né la mia inesperienza né il fatto che ero uno sconosciuto. All'improvviso mi trovai in uno dei punti nodali della vita intellettuale berlinese. Dovunque andasse, Herzfelde mi portava con sé, conobbi tutti i suoi amici e innumerevoli altre persone, qualche volta - magari da Schlichter o da Schwanecke - mi capitava di conoscerne una dozzina in un colpo solo. Nominerò qui soltanto le tre persone che più mi interessarono: Georges Grosz, del quale ammiravo i disegni fin dagli anni di Francoforte, quando ancora andavo a scuola; Isaac Babel', del quale poco tempo prima avevo letto due libri che mi avevano profondamente impressionato, più di qualsiasi altro libro della nuova letteratura russa; e infine 336
Brecht, di cui avevo letto solo qualche poesia, ma di lui si parlava talmente tanto che per forza ero curioso di conoscerlo; a ciò si aggiunga che Brecht era uno dei pochissimi giovani scrittori apprezzati da Karl Kraus. Grosz mi donò il suo album intitolato Ecce homo, di cui era proibita la circolazione, Babel' mi portò in giro ovunque, soprattutto da Aschinger, il posto dove si trovava meglio. Io ero soggiogato dalla loro franchezza, sia Grosz sia Babel' parlavano apertamente con me di qualsiasi cosa. Brecht aveva subito capito quanto io ero ingenuo, e poiché i miei «nobili sentimenti», com'è facile immaginare, gli davano ai nervi, cercava di scandalizzarmi con battute ciniche su se stesso. Immancabilmente, ogni volta che lo vedevo, diceva su di sé qualche cosa che mi lasciava sconvolto. Io sentivo che Babel', al quale pure avevo ben poco da offrire, mi voleva bene proprio per quella mia innocenza che provocava le battute ciniche di Brecht. Grosz, che non aveva letto molto, mi chiedeva più che altro informazioni su dei libri, e, senza mai darsi arie né fare il prezioso, si lasciava consigliare ogni sorta di letture. Su questo periodo berlinese ci sarebbero una infinità di cose da dire, e io in verità non sto dicendo nulla. L'unico aspetto che qui vorrei ricordare è quello del contrasto con Vienna. A Vienna non conoscevo un solo scrittore, vivevo per conto mio, ma neanche 1 avrei voluti conoscere, dg^to che il loro mondo era messo al bando da Karl Kraus. Allora non sapevo nul la né di Musil né di Broch. Molte, anzi moltissime co se che allora a Vienna erano tenute in gran conto va levano pochissimo, e soltanto oggi si riconosce l'im portanza di ciò che si sviluppò in quel periodo quas a porte chiuse, trascurato e disprezzato da ogni ufficia lità, come per esempio le opere di Berg e di Webern E ora, ad un tratto, mi trovavo a Berlino, dove tut to avveniva in pubblico, dove ogni cosa nuova e inte ressante subito diventava celebre. Mi muovevo esclu sivamente in mezzo a uomini celebri che si conosce vano tutti tra loro. L'esistenza che conducevano era 337
frenetica, impetuosa. Frequentavano gli stessi locali, parlavano tutti insieme senza alcun ritegno, si amavano e si odiavano davanti a tutti, ostentavano il loro modo di essere fin dalle prime frasi, sembrava che fossero sempre sul punto di azzuffarsi. Mai prima di allora avevo visto riuniti tutti insieme uomini cosi complessi e diversi tra loro, cosi agli antipodi, cosi bizzarri. Era un gioco da ragazzi capire all'istante chi ci sarebbe andato di mezzo, e, al contrario che a Vienna, le persone disponibili non mancavano mai. Sentivo il mio essere espandersi enormemente, e questo mi eccitava, ma anche mi atterriva. Assorbivo in me una tale quantità di cose nuove che per forza ne ero disorientato. Eppure ero ben deciso a non lasciarmi andare, e questo mio rifiuto a cedere a un disorientamento comunque inevitabile ebbe conseguenze assai dolorose. La cosa più difficile da accettare per un giovane puritano quale io ero ancora - date le caratteristiche particolari della mia fanciullezza - era la sessualità nelle sue forme più crude. A Berlino vidi molte cose che avevo sempre esecrato. T u t t o avveniva ininterrottamente alla presenza degli altri, l'ostentazione apparteneva al carattere della vita berlinese dell'epoca. T u t t o era lecito e tutto si faceva, e la Vienna di Freud, nella quale si parlava di questo e di quello, appariva, al confronto con Berlino, una città di chiacchiere innocue. Mai prima di allora avevo avuto la sensazione di essermi tanto avvicinato al mondo intero in ogni suo aspetto, e questo mondo, che in tre mesi non ero riuscito a padroneggiare, mi appariva come un mondo di pazzi. Eppure quel mondo mi affascinava a tal punto che mi sentii infelice quando, in ottobre, fui costretto a ritornare a Vienna. Tutto continuava a vivere in me, indistinto e incontrollato, un groviglio mostruoso. Durante l'inverno portai a termine gli studi universitari e in primavera superai gli esami. Era un po' come se non sapessi quel che stavo facendo, perché sempre, nel sottofondo, urgeva in me quel nuovo caos che non si lasciava sopire. Avevo promesso ai miei amici che nel338
l'estate del 1929 sarei tornato a Berlino. Il secondo soggiorno berlinese, che pure durò circa tre mesi, fu un po' meno febbrile. Andai ad abitare per conto mio e mi imposi un ritmo di vita più pacato. Molte di quelle persone le vidi ancora, ma non tutte. Frequentai altri quartieri di Berlino, andavo nelle bettole da solo, e così conobbi persone di tutt'altro genere, operai soprattutto, ma anche borghesi e piccolo-borghesi che non facevano né gli intellettuali né gli artisti. Insomma, me ia presi con calma e cominciai a scrivere varie cose. Quando questa volta nell'autunno ritornai a Vienna, l'informe groviglio cominciò a districarsi. Con la chimica avevo chiuso per sempre, d'ora in avanti volevo scrivere e basta. La mia sussistenza era assicurata da alcuni libri di Upton Sinclair che dovevo tradurre per le edizioni Malik. Ero un uomo libero, e cosi seguitai a scrivere i vari saggi che mi stavano a cuore e che già avevo iniziato prima di andare a Berlino, insomma i lavori preparatori per il libro sulla massa. Ma dopo il mio ritorno da Berlino un pensiero occupò soprattutto la mia mente e non la lasciò più, il pensiero degli uomini eccessivi e invasati che avevo conosciuto in quella città. A Vienna ero tornato a vivere da solo nella stanza di cui ho parlato sopra. Non frequentavo quasi nessuno e avevo sempre davanti agli occhi, sulla collina di fronte, lo Steinhof, la città dei pazzi. Un giorno mi venne in mente che il mondo non si può più raffigurare come nei romanzi di un tempo, per così dire dal punto di vista di un unico scrittore, il mondo era andato in pezzi, e solo se si aveva il coraggio di mostrarlo nella sua frammentazione era ancora possibile dare di esso un'immagine veritiera. Ma non per questo bisognava accingersi a un libro caotico nel quale nulla fosse più comprensibile, al contrario, bisognava escogitare con grandissimo rigore dei personaggi estremi, come quelli di cui in effetti il mondo era fatto, e questi individui bisognava raffigurarli in tutti i loro eccessi uno accanto all'altro e ognuno 339
separato dall'altro. Concepii allora il mio piano di una « Comédie humaine dei folli » e scrissi l'abbozzo di otto romanzi. Tutti ruotavano intorno a una figura al limite della follia, e ciascuna di queste figure era diversa dalle altre in tutto, perfino nella lingua e nei pensieri più reconditi. Ogni personaggio viveva un'esperienza talmente irripetibile che nessun altro avrebbe potuto condividerla. Nulla doveva essere interscambiabile, non dovevano esistere commistioni di sorta. Dicevo a me stesso che stavo costruendo otto riflettori coi quali avrei illuminato il mondo dall'esterno. Per un anno scrissi su queste otto figure alla rinfusa, scegliendo di volta in volta quella che più mi attirava. C'era fra loro un fanatico della religione; un visionario della tecnica che viveva rimuginando i suoi progetti sugli spazi interplanetari; un collezionista; un uomo ossessionato dalla verità; un dissipatore; un nemico della morte e, infine, un uomo fatto solo per i libri, l'Uomo dei libri. Alcune parti, brevi purtroppo, di questi stravaganti abbozzi le possiedo tuttora, e, quando recentemente mi sono messo a leggerle, si è ridestato in me lo slancio di quel tempo e ho capito come mai quell'anno sia rimasto impresso nella mia memoria come l'anno più ricco di tutta la mia vita. All'inizio dell'autunno del 1930, infatti, ci fu un cambiamento. Ad un tratto l'Uomo dei libri assunse per me una tale importanza che trascurai tutti gli altri abbozzi e mi concentrai soltanto su di lui. All'anno nel quale mi ero permesso tutto seguì un anno di disciplina addirittura ascetica. Ogni mattina, senza tralasciare un solo giorno, scrivevo un pezzo della storia di « Brand », come ora si chiamava il mio personaggio. Non avevo un piano ben preciso, ma era un modo di proteggermi dai fervori dell'anno appena trascorso. Per non lasciarmi trascinare troppo in là, leggevo e rileggevo continuamente Il rosso e il nero di Stendhal. Volevo procedere passo per passo e mi dicevo che il mio doveva essere un libro severo, spietato verso me stesso non meno che verso il 340
lettore. Data la mia profonda ripugnanza per la letteratura viennese che allora era di moda, mi sentivo immune da ogni amabilità, da qualsiasi compiacenza. Gli autori che a quell'epoca andavano per la maggiore erano affetti da sentimentalismo melodrammatico, senza contare poi gli squallidi elzeviristi e i chiacchieroni. Non posso certo affermare che uno solo di questi individui abbia mai significato qualcosa per me, la loro prosa mi riempiva di disgusto. Se oggi mi domando da dove io abbia tratto la severità del mio stile di lavoro, il pensiero mi riporta a influssi quanto mai eterogenei. Stendhal l'ho nominato, senza dubbio fu Stendhal che mi ancorò alla chiarezza. Avevo appena finito di scrivere l'ottavo capitolo di Auto da fé, quello che ora è intitolato « La morte », quando per un caso mi misi a leggere La metamorfosi di Kafka. Una fortuna più grande non sarebbe potuta capitarmi in quel momento. Vi trovai, nella sua massima perfezione, proprio l'opposto dell'irresponsabilità letteraria che tanto odiavo, vi trovai la severità alla quale anelavo. In quel libro era stato raggiunto qualcosa che io avrei voluto trovare con le mie sole forze. Mi inchinai di fronte a questo che è il più fulgido di tutti i modelli, ben sapendo che era irraggiungibile; eppure mi diede forza. Sono convinto che anche la familiarità con la chimica, coi processi e le formule della chimica, sia confluita in questa severità. Cosi, a uno sguardo retrospettivo, non posso deprecare in alcun modo i quattro anni e mezzo che ho trascorso in laboratorio, impegnato in un'attività che allora mi sembrava limitante e niente affatto intellettuale. Quel tempo non andò perduto, anzi si è rivelato ben speso in un'insolita disciplina per la mia attività di scrittore. Anche l'anno degli abbozzi non andò perduto. Poiché nello stesso periodo lavoravo ora all'uno ora all'altro progetto, mi ero abituato a muovermi contemporaneamente, saltando dall'uno all'altro, in mondi diversi, che nulla avevano in comune tra loro, separati 341
in tutto, perfino nei minimi elementi della loro lingua. Ebbene, questo esercizio giovò moltissimo alla rigorosa separazione dei personaggi di Auto da fé. La separazione tra i diversi romanzi si trasformò in separazione all'interno di un unico libro. Benché dunque la materia di quegli abbozzi sia rimasta quasi del tutto inutilizzata, si è formato, a partire da essi, il metodo usato in A uto da fé. E perfino tutto ciò che in quegli otto romanzi non è stato scritto, la linfa segreta della « Comédie humaine dei folli », è confluita in A uto da fé. Provavo soddisfazione per il fatto che il mio lavoro procedeva ogni giorno, che non mi abbandonava la voglia di continuarlo e non sentivo mai il desiderio di smettere, eppure soffrivo, mi tormentava la realtà concreta delle mie frasi non appena le mettevo sulla carta. La crudeltà di un uomo che si impone una verità ferisce lui stesso più di chiunque altro, fa male allo scrittore cento volte di più che al lettore. In alcuni momenti questa vulnerabilità sembrò volermi persuadere - contro ogni più lucida convinzione contraria - a concludere bruscamente il romanzo. Se non cedetti mai a questa tentazione lo devo anche alle riproduzioni della pala di Isenheim che nella mia stanza avevano sostituito gli affreschi della Cappella Sistina. Mi vergognavo di fronte a Grùnewald che aveva intrapreso quell'opera di immensa difficoltà lavorandovi ininterrottamente per quattro anni. Oggi quei miei pensieri mi sembrano ridicolmente tronfi. Ma il culto per le cose veramente grandi, quando diventa troppo intimo, sempre sconfina nell'arroganza. A quell'epoca i particolari della pala di Grùnewald che vedevo di continuo intorno a me rappresentarono un indispensabile incitamento. Dopo un anno, nell'ottobre del 1931, il romanzo era finito. Come già sappiamo, Brand nel corso del lavoro aveva cambiato nome, adesso si chiamava Kant. Ma io ero perplesso a causa dell'omonimia con il filosofo e sapevo che anche quel nome non gli sarebbe rimasto. 342
Perciò anche il titolo del manoscritto, « Kant prende fuoco », era un titolo provvisorio. Il romanzo ha conservato in ogni particolare la forma che aveva allora. Tranne il titolo e il nome del sinologo nulla in esso è stato mutato. Feci rilegare in tela ciascuna delle tre parti in cui il romanzo è diviso e mandai a Thomas Mann i tre pesanti volumi in un enorme pacco. Certamente, aprendolo, egli deve aver avuto l'impressione che si trattasse di una trilogia. La mia lettera di accompagnamento esordiva in un tono solenne e altezzoso. È quasi incredibile, eppure ero convinto che inviandogli quel pacco gli facevo un onore. Ero sicuro che non appena egli avesse aperto uno dei volumi, avrebbe continuato a leggerlo senza più riuscire a fermarsi. Dopo pochi giorni i tre volumi tornarono indietro senza essere stati letti, Thomas Mann si scusava dicendo che le sue forze non erano sufficienti all'impresa. Avevo la convinzione incrollabile di aver scritto un libro veramente singolare e da cosa traessi questo convincimento è rimasto per me un mistero fino ad oggi. Come reazione al fatto di essere stato così ignominiosamente rifiutato, decisi di lasciare il manoscritto in un cassetto e di non farne nulla. Mantenni il mio proposito con coerenza per parecchio tempo, ma poi, in qualche occasione, mi lasciai intenerire. Attraverso varie letture di alcuni brani del mio manoscritto, uscii sempre più dall'isolamento della mia vita viennese. Lessi Musil e Broch, rimasi profondamente impressionato dalle loro opere, poi li conobbi entrambi di persona. Ebbi altri incontri che significarono molto per me : Alban Berg, Georg Merkel e Fritz Wotruba. Per loro e per qualcun altro il mio libro c'era, anche se ufficialmente ancora non esisteva. Soltanto davanti a questi uomini, le vere figure di Vienna, mi importava di superare la prova, e alcuni di essi diventarono miei buoni amici. Per quattro anni non si trovò un solo editore che osasse pubblicare il mio romanzo, ma non per questo mi sentii umiliato. 343
Ogni tanto, ma piuttosto di rado, cedevo all'insistenza di qualche amico e presentavo il manoscritto a un editore. Ricevetti varie lettere nelle quali mi venivano illustrati i rischi di una simile pubblicazione, quasi sempre però furono lettere piene di rispetto. Soltanto Peter Suhrkamp mi fece intendere con molta chiarezza la sua profonda avversione per il romanzo. Ognuno di questi rifiuti rafforzava il mio convincimento che il libro in futuro sarebbe vissuto. Quando, nel 1935, finalmente stava per uscire, Broch insistette con una caparbietà in lui insolita per farmi rinunciare al nome Kant. Era un passo che avevo sempre pensato di fare, ma ora finalmente lo feci. Il protagonista si chiamò Kien, la sua infiammabilità rifluì in parte nel nuovo nome.* Col nome Kant scomparve anche il titolo « Kant prende fuoco » e così decisi il nuovo e definitivo titolo Die Blendung. Forse non dovrei sottacere il fatto che ora Thomas Mann lesse subito il libro. Scrisse che fra tutti i libri dell'anno il mio Auto da fé e l'Henri Quatre di suo fratello Heinrich erano quelli che più lo avevano interessato. La sua lettera, che conteneva qualche osservazione intelligente e molte frasi lusinghiere, suscitò in me sentimenti contrastanti; soltanto dopo averla letta seppi quanto era stata insensata la ferita che quattro anni prima egli mi aveva inferto con il suo rifiuto. 1973
» Kien » significa legno resinoso (di pino) [iV.d.T.]. 344
r I L N U O V O KARL KRAUS Conferenza tenuta all'® Accademia berlinese delle belle arti »
Traduzione di Renata Colorai
« Dal censimento risulta che Vienna ha 2.030.834 abitanti. Cioè 2.030.833 anime e m e » . Non esiste dichiarazione di Karl Kraus che meglio definisca la sua posizione e la sua essenza di questa glossa costituita da un'unica scarna proposizione. Si tratta di un censimento, del censimento di Vienna che indica la presenza nella città di tante e tante anime, laddove questa parola significa il contrario di ciò che originariamente e ancor oggi viene designato con la parola « anim a » . Il plurale rimanda alle anime morte di Gogol', trattandosi appunto di anime che non sono più tali. Il loro numero è così grande che ad esse è disdetta la vita. A tutte insieme si contrappone un singolo individuo, che si chiama « i o » , e proprio questo « i o » le controbilancia, il suo peso e il suo valore sono più grandi del peso e del valore di tutti gli abitanti di Vienna messi insieme. Mai una simile pretesa è stata avanzata con questa secchezza, e direi che sia una fortuna disporre di una formulazione che non potrebbe essere più concisa. È la stessa pretesa che sta dietro alle 30.000 pagine della « Fackel », a cui la vita non fa certo difetto, malgrado 347
il linguaggio corazzato. Essa significa che il singolo può accettare la sfida di milioni di uomini, implica l'intenzione assassina di questo singolo il quale si sente di affrontare tutti i cittadini di una metropoli, nel loro insieme e uno per uno, ed è importante che questa città sia chiamata per nome: Vienna. Il fascicolo della « Fackel » in cui si trova questa glossa così poco appariscente è datato 26 gennaio 1911. Vista a posteriori, si tratta di un'epoca relativamente innocua, e a qualcuno potrà sembrare incongruo che io attribuisca all'autore di questa semplice proposizione un intento assassino. Di primo acchito sembra che egli non esprima nulla di più che una propensione alla separatezza. È insopportabile entrare nel conteggio di un censimento come un semplice numero. Quanto più grande è la cifra totale, tanto più l'individuo che ne viene a conoscenza - essendo uno che respira, vive, legge, giudica e odia - sente la propria inconfrontabile diversità rispetto a tutti coloro che sono entrati in quel conteggio come puri numeri. Apparentemente in questa contrapposizione non si esprime altro che questo, e bisogna essere stati personalmente contagiati da Karl Kraus e conoscere molto bene le sue opere da anni e anni per subodorare qualche cosa di più. La diffidenza era da lui considerata la virtù suprema, cominciò a scrivere la « Fackel » con l'idea di scrutare ogni cosa con estrema spietatezza, il che in effetti riuscì a fare come nessun altro durante i trentasei anni di vita della rivista. Molti ne furono contagiati, e alcuni probabilmente hanno elaborato grazie a lui una loro originale modalità di scrutare le cose alla quale sono poi rimasti fedeli - come lui alla sua - per un tempo non meno lungo. Kraus non può dunque evitare di essere a sua volta scrutato a fondo, e deve accettare di diventare l'oggetto di quella stessa spietata attenzione da lui esercitata per tutta la vita con incomparabile maestria. Quanto a me, insisto nel subodorare in quella scarna glossa un'intenzione assassina che si dirige contro tut348
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ta la popolazione statisticamente accertata di Vienna, e a supporto della mia tesi cito qui alcune delle molte proposizioni da lui scritte nel 1911, o ancora prima. La parola d'ordine che la « Fackel » si è scelta nel suo primo numero non è un tonante « Ciò che facciamo », ma un onesto « Ciò che facciamo fuori », e questo potremmo ancora ricondurlo al gusto del gioco di parole * a cui non è il caso di attribuire un significato eccessivo. Ma sfogliando vari numeri della «Fackel», ci si imbatte in frasi come queste: « Quando crepa davanti ai miei occhi, mi sbeffeggia per la piccolezza dei miei trofei ». E la pagina dopo : « Che volete che mi importi di quello che succede? Qualunque sia la forma del sasso che cade, la vista della materia cerebrale austriaca che schizza in alto è l'unica cosa che ancora mi induce a pagare una tassa di successione in questo Stato ». Così troviamo scritto nella rivista dell'estate 1907. Gli attacchi a Kerr dell'anno 1911 sono preceduti, in quattro numeri successivi della « Fackel », dalle seguenti epigrafi: « Il piccolo Pan è morto ». « Il piccolo Pan rantola ancora ». « Il piccolo Pan già puzza ». « 11 piccolo Pan puzza ancóra». E troviamo inoltre frasi di questo genere : « Infatti, mentre altri polemisti si fanno voler bene perché il fiato gli manca, io sono stimolato continuamente a nuove polemiche dalla sopravvivenza dei miei oggetti. Sappiate che perseguito i grandi fino al regno delle ombre, e neanche allora li lascio in pace ». « È mio destino che la gente che voglio far fuori mi muoia tra le braccia». «Se n'è andato, e a me non resta altro da fare che comporlo nella bara ».
Non credo affatto di falsificare la figura di Kraus se in cima a queste considerazioni che lo riguardano met* In tedesco « Was wir bringen » e « W a s wir umbringen » [N.d.T.]. 349
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to in risalto le sue voglie assassine. Ciò che mi propongo di scrivere non è un trattato morale. Voglio solo tentare di coglierlo com'era veramente. Tuttavia, per evitare qualsiasi malinteso e per non suscitare un'immagine falsa nei suoi detrattori - che non sono mai mancati - dirò subito che ritengo Kraus il più grande scrittore satirico di lingua tedesca, l'unico nella letteratura di questa lingua che si abbia diritto di nominare accanto ad Aristofane, Giovenale, Quevedo, Swift e Gogol'. È un numero assai esiguo di nomi. Potremmo aggiungervi Ben Jonson e Nestroy. Rimane comunque una piccola lista che chiaramente non abbraccia tutti gli autori che appartengono a un genere letterario in senso stretto. Ciò che essi hanno in comune è una sostanza del tutto peculiare, che io chiamerei la sostanza assassina. Si rivolgono contro gruppi interi di esseri umani, aggredendo però anche i singoli, e il loro odio è tale che in altre circostanze, se non fossero capaci di scrivere, certo porterebbe all'assassinio. Non sempre conosciamo per nome le loro vittime, ma tra esse figurano alcuni grandi spiriti come Socrate o Euripide, che per noi significano ancora qualche cosa e che potrebbero testimoniare sulla furia degli attacchi che hanno subito. Il caso di Karl Kraus è veramente peculiare perché in questo modo si riesce a cogliere l'essenza di tutta la sua immensa opera. Possiamo aprire a caso uno qualunque dei suoi testi, e sempre lo troveremo grondante della voglia insaziabile dell'attacco. Per quanto insignificanti possano sembrarci molti dei pretesti e degli oggetti dei suoi attacchi, ci è comunque possibile dare di essi una spiegazione esauriente. Non li sentiamo affatto troppo lontani nel tempo, non esistono solamente sulle pagine della «Fackel». Molte delle vittime di Kraus sono defunte, ma fino a poco fa erano in vita, e altre lo sono tuttora. Io stesso ne ho conosciute parecchie e le ho continuamente confrontate coi personaggi che ad esse corrispondono nell'opera di Kraus. Un fascino inesauribile emanava da questi pa350
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ragoni, e da essi ho potuto imparare un'infinità di cose sul processo della satira. Ciò che oggi infastidisce spesso i lettori della « Fackel » e rende insopportabile la lettura di lunghi brani di questa rivista è l'indiscriminata uniformità degli attacchi. Tutto viene detto con la stessa energia, tutto assume la stessa importanza essendo coinvolto nello stesso linguaggio, ci si accorge che ciò che conta è sempre e soltanto l'attacco in sé, la superiorità delle forze viene esibita anche quando non sarebbe necessaria, la vittima soccombe sotto i colpi ininterrotti, scompare del tutto, ma la lotta si protrae per molto tempo ancora. In effetti le vittorie ci appaiono oggi sospette. Nel nostro secolo sono state riportate numerosissime vittorie, ma così dispendiose, inutili e insensate che la maggior parte della gente, e non solo chi è in grado di rifletterci sopra, di fronte a una nuova vittoria è colta da un senso di nausea che forse in passato non si conosceva. Perfino i gesti che indicano vittoria suscitano il nostro disgusto: c'è qualcosa che sta mutando profondamente negli automatismi di reazione alla vittoria elaborati nel corso di tutta la storia umana che noi conosciamo. Così, anche in presenza di coloro che si sono stabilmente affermati nel campo intellettuale, in presenza degli uomini abituati ad aggredire e a lottare continuamente perché devono vincere per forza e non possono far altro che dimostrare in ogni momento la loro superiorità, noi in realtà non ci sentiamo a nostro agio, quegli uomini ci sembrano fastidiosi e tendiamo a sfuggirli. Parecchie persone per questo motivo non vogliono avere nulla a che fare con Karl Kraus e direi che tra i suoi denigratori sono i più degni. Ma essi trascurano un elemento decisivo: nessuno al mondo, letteralmente nessuno si è adoperato come Kraus per diffondere il loro stesso modo di pensare. Kraus è stato l'unico, in effetti, che ha violentemente osteggiato, dall'inizio alla fine e in ogni sua 351
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particolarità, la Prima guerra mondiale, nel corso della quale i vincitori di ogni parte sono stati messi su un piedistallo. Ed egli non Io ha fatto sul piano teoretico, non mancavano persone che concepivano per la guerra un assoluto rifiuto intellettuale, e neanche si può dire che egli abbia sostenuto una posizione di partito. Erano così importanti questi partiti e cosi incommensurabili le conseguenze dei loro atteggiamenti, ammesso che fossero dotati di una qualche coerenza, che Kraus la sua battaglia l'ha condotta veramente da solo, e anche se di li a breve molte delle anime - più di due milioni - conteggiate in quel censimento viennese nutrirono probabilmente i suoi stessi sentimenti, egli ha davvero affrontato ogni singolo fenomeno della guerra, non c'è una voce che Kraus abbia lasciato perdere, era invasato da ogni specifico accento della guerra e lo riproduceva con forza stringente. Certe cose che in quel caso minimizzava con un intento satirico, risultavano in effetti efficacissime, e altre cose le esagerava con una tale pregnanza che solo in questa forma esagerata acquistavano una vera consistenza e diventavano memorabili. La guerra mondiale è entrata completamente negli Ultimi giorni dell'umanità, senza consolazioni e senza riguardi, senza abbellimenti, edulcoramenti, e soprattutto, questo è il punto più importante, senza assuefazione. Tutto ciò che nella guerra si ripeteva conservava la propria atrocità in ciascuna delle ripetizioni di Kraus. Si rimane sbalorditi che un odio di tale intensità sia mai potuto esistere, quest'odio era davvero all'altezza della guerra mondiale e in lui si accanì con furia visibile senza mai abbandonarlo nel corso di quattro anni. Paragonato all'odio di Kraus, debole era l'odio dei combattenti stessi che si accanivano contro un nemico che a loro veniva imposto e dipinto ogni giorno con tinte assolutamente false. Si scagliavano gli uni contro gli altri, ma avevano la stessa mentalità, incombeva su di essi infatti una doppia minaccia di morte, quella del nemico, coinvolto nella guerra esattamente come 352
loro, e quella dei loro stessi superiori. Karl Kraus invece portava da solo il peso di un odio vulcanico, nei quattordici anni di vita della «Fackel» egli questo odio lo aveva esercitato in grandi, piccole e minuscole azioni che gli avevano insegnato tutto ciò che ora gli giungeva a proposito. Aveva predisposto, in quell'epoca, un ricco arsenale di armi di ogni genere, pur non potendo ancora immaginare a che cosa in seguito gli sarebbero servite; le sue esercitazioni le troviamo tutte quante nella « Fackel », ma non per questo dobbiamo ritenere che ognuna di esse sia una battaglia sacrosanta; ce ne sono alcune veramente ammirevoli, come ad esempio la liquidazione di Maximilian Harden o il saggio stupendo su Nestroy e la posterità, altre invece sono mal riuscite o noiose. Nell'insieme comunque si rivelarono utilissime all'impresa che sempre sarà considerata la sua vera opera, quella per la quale egli viene annoverato tra i pochissimi grandi autori dell'umanità che hanno scritto delle satire micidiali. Il compito che oggi mi sono proposto non è di persuadervi della grandezza di quest'opera. Certamente in proposito ci sarebbero da dire un'infinità di cose, ma quasi non riesco a credere che uno solo di voi, ammesso che l'abbia affrontata, non ne sia rimasto soggiogato. Ben difficilmente qualcuno potrebbe azzardarsi a scrivere un'introduzione agli Ultimi giorni dell'umanità. Sarebbe non solo arrogante, ma superflua. Quell'introduzione la porta dentro di sé chiunque sia nato in questo secolo e dunque sia stato condannato a viverci. Il mostruoso secondamento della Prima guerra mondiale, cioè il movimento che ha portato all'ultima guerra, nonché l'esito di questa, stanno ancora davanti agli occhi di noi tutti, che sappiamo bene con quale minaccia essa sia finita. È una minaccia entrata nell'immagine del futuro nel quale, per la prima volta, siamo incastrati tutti insieme. Non è più possibile essere ciechi su questo. Non intendo tediarvi ripetendo ciò che ho già detto riguardo al futuro che per 353
noi si è «scisso».* Chi nutre ancora la speranza - e non saprei chi non dovrebbe nutrirla - che forse riusciremo a sottrarci alla metà scura di questo futuro, quella che minaccia di annientarci, per volgerci a quell'altra, la metà chiara della vita comoda, la quale ha le stesse possibilità della prima e in più dalla sua la massima desiderabilità, chi nutre questa speranza sa anche che la cosa più importante di tutte è la conoscenza di noi stessi, e che di questa conoscenza sono capaci uomini simili a noi sotto ogni aspetto. Tale conoscenza non sarà mai abbastanza completa, né abbastanza radicale. Ci sono due modi di leggere Gli ultimi giorni dell'umanità: come tremenda introduzione ai veri ultimi giorni che ci stanno davanti, ma anche come quadro d'insieme di ciò che dobbiamo evitare se non vogliamo che agli ultimi giorni si giunga davvero. La cosa migliore sarebbe che trovassimo la forza di vivere quest'opera in maniera diversa a seconda delle circostanze, leggendola ora in un modo, ora nell'altro. Ma comunque quest'opera venga vissuta, finora è rimasto un mistero come si sia giunti a poterla scrivere. È facile dire di uno che l'odio che reca in sé ha la potenza di un vulcano, soprattutto se a dire questo è stato lui stesso. Ma che cosa lo ha indotto ad alimentare un simile odio per quattro anni, un odio straordinariamente complesso che ora non si dirige più, come nelle precedenti satire della « Fackel », volta a volta contro un nemico singolo o contro un fatto che egli ritiene mostruoso? Com'è possibile che un uomo per quattro anni interi diventi la voce di centinaia e centinaia di voci che nella loro infamia recano in sé la propria condanna, com'è possibile sopportare un numero così sterminato di orrori? Io sono andato a * Si vedano sopra, nel saggio Realismo
108 sgg. [iV.d.r.].
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e nuova realtà, le pp.
sentire cento letture pubbliche di Karl Kraus : per nove anni ho lasciato agire su di me ogni parola detta o scritta da lui, per cinque di quegli anni senza resistenza alcuna, per quattro con atteggiamento sempre più critico; eppure non ho mai capito chi lui fosse veramente, Kraus è rimasto per me il più incomprensibile di tutti gli uomini, nell'epoca in cui ero soggiogato da lui e cosi pure nel periodo dei miei primi dubbi coglievo il suo influsso su di me e sugli altri, ma chi lui fosse e come facesse a resistere rimase sempre un insolubile enigma. La chiave di accesso a Karl Kraus è stata trovata recentemente, un nuovo Karl Kraus esiste in effetti da quando sono state pubblicate le sue lettere a Sidonie Nàdherny,* ed è di questo Kraus che oggi desidero parlarvi. Per prima cosa vorrei dichiarare il mio debito di riconoscenza nei confronti dei veri curatori di queste lettere, Walter Methlagl e Friedrich PfàfHin, che hanno svolto un lavoro molto difficile. Le delucidazioni di Friedrich Pfafflin, che riempiono quasi interamente il secondo volume, si distinguono per scrupolosità e delicatezza. Senza di esse una vera comprensione del primo volume risulterebbe impossibile, e bisogna aver vissuto a lungo con le lettere a Sidonie per apprezzare l'alto valore di questa impresa editoriale. L'8 settembre 1913, nel Caffè Imperiai Karl Kraus fu presentato a Sidonie da un cugino di lei, il conte Max T h u n . Su questo primo incontro Kraus non ha scritto praticamente nulla, tanto più grati siamo dunque a Pfafflin che ha citato un passo dal diario di • Karl Kraus, Briefe an Sidonie Nàdherny von Borutin, a cura di Heinrich Fischer e Michael Lazarus, redazione di Walter Methlagl e Friedrich PfàfHin. Volume I : Brieje [Lettere] con una postfazione di Michael Lazarus, 695 pagine; Volume I I : Editorischer Bericht [Commento editoriale], documentazione iconografica e delucidazioni di Friedrich Pfafflin, Kosel Verlag, Mùnchen, 1974, 440 pagine. 355
Sidonie di qualche giorno dopo. Si tratta di poche frasi staccate, dalle quali però tralucono molte cose sull'intensità di quel primo incontro. Parlarono degli autori più rinomati della letteratura di allora. Con un certo stupore leggiamo di un influsso di Sidonie sulle poesie di Rilke. Si trattava forse di un complimento esagerato di Kraus, ma subito dopo c'è la frase: « Per Lei non va bene. Adesso mi metto io al lavoro ». In quella stessa notte andarono insieme al Prater. « Fiacre, viale del Prater, stelle che scivolano » è scritto nel diario di Sidonie. Kraus parlò della voce di lei, lamentevole, chiara ma quasi impercettibile, assente. Dei suoi occhi che guardavano un punto lontano. Magari fosse stato là dove lei dirigeva il suo sguardo! Già prima, durante uno spuntino notturno nel bar di un albergo, lei gli aveva parlato del deserto in cui ora viveva. Dalla morte del suo fratello prediletto Johannes erano passati solamente tre mesi. Si era suicidato durante un viaggio a Monaco. Lei non riusciva a darsi pace, i genitori erano morti già da tempo e Johannes, di un anno maggiore di lei, era stato la persona più importante della sua vita. Aveva ventinove anni quando si era ucciso. Ormai le era rimasto soltanto Karl, il fratello gemello con cui viveva a Janowitz. Da quello che di lei si saprà in seguito, si può pensare che Sidonie si fosse come raggelata nella sua pena: ogni sentimento si dissecca, tutto appare privo di senso, niente può più commuovere dopo una morte così atroce e improvvisa. Per questo la vita le appariva un deserto. Kraus, dotato com'era di una speciale sensibilità per la morte (a diciassette anni era stato inconsolabile per la scomparsa della madre, e in seguito per quella di Annie Kalmar, la giovane di ventidue anni per la quale aveva un'adorazione simile a quella di Sidonie per il fratello Johannes), sconvolto dal dolore di lei dilatatosi tutt'intorno come un deserto, ma anche dalla sua bellezza, pervaso da pietà e ammirazione, decise, con quella fulmineità che ha sempre caratterizzato le sue reazioni più importanti, di 356
condurla per mano fuori dal deserto. L'intensità con cui Kraus la guardò e la comprese, il modo in cui si atteggiò verso il morto che lei recava in sé, con tatto e rispetto, come se lo avesse conosciuto di persona e sapesse quanto egli meritasse un lutto così profondo, la fermezza del suo comportamento, la veemenza e l'accortezza con cui la circondò di un'ammirazione a cui nulla sfuggiva - tutto questo soggiogò Sidonie, che sentì, con la stessa sicurezza di lui, di aver incontrato l'essere umano di cui più aveva bisogno. Durante la rapida corsa notturna attraverso il Prater, Kraus, parlando a Sidonie, le dice alcune cose su di lei vagamente sonnamboliche : che lei ha bisogno di libertà, di viaggi, di movimento. « Capisce la mia natura » è il commento di Sidonie. Ciò che in seguito gli avrebbe procurato i più gravi tormenti, lo ammette lui stesso dinanzi a lei in quelle prime ore. Ma sempre durante quella corsa, Sidonie gli disse una frase che allora non annotò, e che troviamo in una lettera di Kraus otto anni più tardi. Gli disse: «Mi accompagni! » intendendo con queste parole che lui poteva accompagnarla nella libertà. Era l'unico invito che lei gli aveva rivolto in tutti quegli anni, l'unica volontà attiva che aveva manifestato. Alla fine di novembre egli si recò a farle visita per la prima volta a Janowitz, un castello situato in u n parco stupendo con alberi secolari, tra cui un pioppo di cinquecento anni che lo colpi in modo particolare. Lì viveva Sidonie, la signora degli animali, con cavalli, cani, cigni e usignoli. A chi volesse farsi un'idea dell'impressione che suscitava Sidonie quando dava il benvenuto a un ospite in visita a Janowitz, consiglio di leggere la lettera scritta da Rilke * sette anni prima, dopo aver visitato il castello. L'impressione di Kraus fu diversa, più sbalordita e sconvolta, quella visione * Rainer Maria Rilke, Briefe an Sidonie Nddherny voti Borutin, a cura di Bernhard Blume, Insel Verlag, Frankfurt a.M.,. 1974, 383 pagine. 357
fu per lui una specie di antitesi paradisiaca rispetto al mondo esecrabile che notte dopo notte andava rovistando e fustigando; ma ciò non toglie nulla al valore della descrizione di Rilke. Giacché anch'essa testimonia che quello non era un castello qualsiasi, né un parco qualsiasi, e che coloro che dimoravano in quel luogo non erano persone qualsiasi. Anche Rilke sentì l'unità tra il parco e colei che lo abitava e ne fu colpito più profondamente di quanto non osò ammettere dinanzi ad alcune tra le sue pivi influenti benefattrici. Il carteggio che per vent'anni intrattenne con Sidonie fu indirizzato a Janowitz oltre che a lei, Rilke amava pensare a quel luogo come a un'eventuale ultimo rifugio, che però non volle più utilizzare da quando seppe che vi era giunto Karl Kraus. Gli ultimi giorni di dicembre del 1913 e i primi di gennaio del 1914 Karl Kraus li passò di nuovo a Janowitz. Egli si sente empaticamente coinvolto dalla signora, come pure dal luogo e da quelli che vi abitano. Entrano nel centro del suo essere, tutto ciò che succede d'ora in avanti lo riferirà a loro, Janowitz diventa un luogo di fede, il saldo polo della sua esistenza. Qui tutto è buono e perfetto, nulla è stato guastato. Non c'è niente, qui, da scrutare a fondo, tutto è come appare, ma innalzato e trasfigurato. Nel mondo di Karl Kraus non c'è mai nulla che possa dirsi indifferente. T r a ciò che è esecrabile e ciò che è elevato non c'è via di mezzo. Kraus ignora completamente le cose scialbe e medie di cui è fatto il mondo della maggior parte degli uomini, la materia vitale di cui egli si appropria con piglio selvaggio non contiene mai nulla che sia indifferente. « T i ricordi ancora come vedo io? » scrive in una lettera, e allude al proprio sguardo a cui è stato concesso di cogliere le cose per sempre. È uno sguardo, quello di Kraus, a cui non sfugge nulla, che significa altresì una decisione, implica adorazione o condanna, e poiché perlopiù si tratta di condanna, l'anelito all'adorazione diventa il suo destino. 358
Ma poiché ogni condanna è movimento, un continuo tuffarsi negli abissi dell'inferno - sempre di più Kraus sente il bisogno della pace, della inviolabilità e della imperturbabilità di ciò che qui, nel castello di Janowitz, si presenta dinanzi ai suoi occhi. Sidonie non è sola a Janowitz, vive col suo fratello gemello Karl, che figura nelle lettere come Charley. Lei gli è molto legata, Karl è l'unico parente stretto che le sia rimasto. Ma Sidonie vive anche sotto una sorta di tutela, è una giovane donna ed è compito del fratello vigilare su di lei. È stato deciso da molto tempo che Sidonie dovrà fare un matrimonio adeguato al suo rango, un avvenire del genere sembra ovvio anche a lei, e infatti nel suo diario ne parla spesso. Il fratello incarna questo aspetto convenzionale dell'indole di Sidonie, la quale, benché abbia un grande bisogno di libertà, non contesta il diritto del fratello e di buon grado si sottomette alla sua tutela. La vera natura della sua relazione con Karl Kraus dev'essere tenuta segreta. È un segreto diffìcile da tutelare. Quando è in visita al castello, di notte, mentre il fratello di Sidonie e i domestici dormono, Kraus s'infila furtivamente nella stanza di lei. Talvolta, sempre di notte, vanno invece a passeggio nel parco, c'è un prato che egli ama particolarmente, quel prato diventa la parola chiave delle sue lettere e compare anche nelle sue poesie. Nel corso dell'inverno Sidi è sopraffatta dall'amore per Kraus e lo nomina spesso nelle sue lettere a Rilke. Le sembra naturale cercare presso uno scrittore comprensione per un altro scrittore, come se l'alleanza di questi due grandi spiriti potesse darle la forza di sfidare i pregiudizi del suo ceto. Non è escluso che in questo periodo Sidonie si sia baloccata con l'idea di rendere ufficiale la sua relazione con Kraus. Rilke, che gode della fiducia di lei perché, pur essendole devotissimo, si è sempre tenuto a una certa distanza, subodora il pericolo e si dimostra il nemico più efficace di Karl Kraus. Nella sua discussa lettera del febbraio 1914, egli la 359
mette in guardia da un legame troppo stretto con Kraus. Con guardinga prolissità - è una delle sue lettere più lunghe - e senza mai adoperare la parola « ebreo », le insinua l'idea che Karl Kraus per sua natura sarà sempre un estraneo per lei. È una lettera imbarazzante, soprattutto per la cautela che si nasconde dietro a quelle allusioni così ben calibrate. Ci si accorge inoltre che la preoccupazione manifestata per Sidi in realtà ne dissimula un'altra, cioè la preoccupazione per Janowitz: Rilke vorrebbe conservare Janowitz per sé come luogo in cui potersi rifugiare, e dunque desidera preservarlo da altri più potenti influssi. Comunque, giustizia vuole che si rammenti che anche Kraus, sia pure nella sua maniera, che era più onesta, aveva aperto le ostilità contro il rivale già la sera del suo primo incontro con Sidi. Quando il discorso era caduto su Rilke, Kraus le aveva detto: «Per Lei non va bene. Adesso mi metto io al lavoro». Queste parole, da noi già citate, si trovano nel diario di Sidi, e anche se si può dubitare che riproducano esattamente quelle di Kraus, certamente ne colgono il senso. Esistono indizi sicuri che la messa in guardia di Rilke sortì l'effetto voluto, il tono delle lettere di Sidonie a Karl Kraus subì un lieve mutamento, ed egli se ne accorse, pur senza sapere nulla dell'attacco di Rilke. Certamente da allora in poi Sidi non pensò mai più a un matrimonio con Kraus. Tanto più importante diventò dunque per entrambi tutelare il segreto del loro amore. La vigilanza di Kraus è stupefacente. Il suo sospetto, pur xispaxmiando Sidi, si dirige contro chiunque entra in rapporto con lei; sulle dichiarazioni che vengono fatte su Sidi in sua presenza, ma anche su quelle che gli vengono riferite da qualcun altro, egli si scaglia con lo stesso odio annientatore che riserva alle vicende pubbliche. Poiché vivono separati la maggior parte del tempo, va subito messa in rilievo la grande eccitazione con cui Kraus aspetta le lettere di Sidi. « H o passato la giornata di ieri ad aspettare. A stare in ascolto sperando 360
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di sentire un telegramma cadere nella cassetta. Più di venti volte sono corso sul pianerottolo perché pensavo di aver sentito sbattere lo sportello ». Egli accoglie le sue lettere acusticamente: le sente cadere nella cassetta della posta. La dipendenza dalle lettere di lei acuita all'estremo è uno dei pochi tratti di questa corrispondenza che rammenta il rapporto di Kafka con Felice. Le aspettative di Kraus, come quelle di Kafka, sono spesso deluse, ed egli, allora, pretende di nuovo delle lettere da lei influenzandola con grande energia e addirittura tiranneggiandola pur di ottenere quello che desidera. Queste sue richieste sono in notevole contrasto con il tono solitamente adorante delle sue lettere. La necessità che questo amore rimanga un segreto per tutti, ma soprattutto per Charley, il fratello gemello di Sidi, crea spesso situazioni mortificanti per Kraus, il quale però le accetta di buon grado per amore di lei. Sidi da parte sua deve trovare un motivo plausibile per recarsi a Vienna in visita da lui. Il loro amore diventa spesso impossibile a causa di questi condizionamenti che accrescono la passione di Kraus. Siccome Sidi detta legge, essendo lei sola al corrente di come stanno esattamente le cose a Janowitz, la padrona rimane lei. Ma poiché spiritualmente il dominio di Kraus seguita a essere incontrastato, questa opprimente sudditanza sul piano pratico lo fa soffrire ancora di più. Fin dall'inizio egli la invita ad assistere alle sue pubbliche letture, sperando con ciò di attirarla a Vienna. Nella sala ha una sedia riservata in seconda fila, a cui Kraus volge lo sguardo anche se lei non è potuta venire. Quando ha in mente qualche progetto, glielo comunica con molto anticipo e dice che durante le letture è lei la persona più importante, come se contasse addirittura più di lui che dovrà tenerle. Sidi gode dei suoi trionfi, che egli in effetti le consacra. Se lei non è potuta venire a una lettura per qualche impedimento o perché si trova in viaggio in un paese lontano, lui le 361
riferisce come si è svolta. In tal modo veniamo a sapere molte cose sul significato che le letture hanno per lui. La serietà con cui egli le prepara, la cura e lo scrupolo con cui volta a volta ne mette a punto il programma, l'ebbrezza che prova quando hanno successo - di queste e di molte altre cose si trovano nelle lettere testimonianze di inestimabile valore; varrebbe la pena di leggerle non foss'altro che per questo. Capita perfino ciò che sembra incredibile a tutti quelli che lo hanno udito - che alla sola idea che lei non possa venire, egli sia colto da una certa titubanza. Talvolta insiste, e dice che almeno prima della lettura vuole vederla. « Sabato sera, domenica a mezzogiorno e lunedi sera dovrò stare di fronte a della gente. Ovviamente è del tutto escluso che io possa farlo se prima non ti avrò vista ». Kraus, quando è in pubblico, non si prende mai in giro. Nella sua opera non si trova una sola frase che egli rivolga contro se stesso. Kraus attacca, si aspetta che altri lo attacchino e si difende. Si accorge se nella sua corazza c'è una piccola fenditura, e subito la tappa. Nulla può succedergli e nulla in effetti gli succede. Già solo per questo motivo è affascinante vederlo là dove è debole e dove si concede la propria debolezza: appunto in queste lettere. Lei non lo invitava a Janowitz con la frequenza che lui avrebbe desiderato, e così Kraus concepì il sospetto che lei qualche volta, anche quando il fratello era in viaggio, preferisse rimanere al castello da sola. Ma quando poco dopo si risvegliò in lei l'antica voglia di viaggiare, egli corse un pericolo ancora più grande. 11 conte Guicciardini di Firenze, un amico di Sidonie che lei aveva conosciuto un anno prima di Kraus, le manifestò il desiderio di incontrarla a Venezia per la Pentecoste. Lei disse di sì senza esitare, benché avesse promesso a Kraus di passare quei giorni con lui in una località nei pressi di Vienna. « Perché fai questo? » le scrisse lui ferito. « Forse un giorno sarò io a partire per chissà dove e nessun grido potrà tratte362
nermi ». Eppure si rassegnò, in fondo era stato proprio lui, già la prima volta che si erano incontrati, ad aver riconosciuto e apprezzato la sua brama di libertà. Mentre lei era a Venezia, sentendo la sua mancanza, gli venne ad un tratto l'idea di comprare un'automobile: sperava così di legare a sé il desiderio di muoversi di Sidonie. Con un autista andò a prenderla a Graz e passò con lei un paio di giorni durante il viaggio di ritorno. L'automobile diventò ora un elemento importante del loro rapporto, poco dopo egli si trattenne a Janowitz più a lungo. Il 28 giugno rientrò a Vienna a notte fonda e, sulla Nussdorferstrasse, apprese da un'edizione straordinaria che era stat:) assassinato l'erede al trono Francesco Ferdinando. Già allora gli fu rimproverata una certa predilezione per gli aristocratici. L'accusa era legata com'è ovvio alle sue visite a Janowitz, del cui vero motivo nessuno doveva essere al corrente. A me non sembra affatto che in quella che ritengo la sua vera opera, Gli ultimi giorni dell'umanità, gli aristocratici ne escano meglio degli altri. Per la sorte di uno solo di loro Kraus dimostrò partecipazione, ma era un uomo assassinato, l'arciduca Francesco Ferdinando. Il dileggio del morto e l'ignominiosa cerimonia funebre per la coppia assassinata scatenò il suo furore, tale sdegno influenzò le sue opinioni riguardo ai vivi ed egli parlò con rispetto delle qualità dell'erede al trono. In tutto il resto dell'opera fu ancora più spietato verso gli aristocratici che verso gli altri : essendo essi più potenti, era giusto che la responsabilità della catastrofe fosse attribuita più a loro che ad altri, i quali non erano altro che misere comparse impotenti di quella guerra. In luglio Kraus si recò nelle Dolomiti per qualche settimana con Sidi e il fratello di lei Charley. Sul lago di Misurina seppero che era scoppiata la guerra. Charley riparti subito per tornare a casa e vedere se a Janowitz tutto era in ordine. Kraus e Sidi rimasero da soli nelle 363
Dolomiti per una settimana. A me sembra di grande importanza che quei giorni così agitati li abbiano passati insieme, tagliati fuori dal resto del mondo. Sidi esecrava la guerra non meno di Kraus. Era preoccupata per la sorte di Rilke, che credeva ancora a Parigi, e gli scrisse immediatamente. In questa lettera si espresse con delle frasi che potrebbero essere di Kraus; non solo esecrava la guerra, la esecrava con le parole di lui. Tornarono indietro, lui andò a Vienna, ma pochi giorni dopo era di nuovo a Janowitz. La mentalità che egli condivideva con Sidi, il rifiuto di entrambi dell'isteria della guerra, si ritrova anche nelle lettere che le spedi da Vienna : « Qui è sconsolante ». « Da ieri, nei menu dei ristoranti viennesi sono state depennate tutte le scritte in francese o in inglese. La situazione diventa sempre più idiota». «È impossibile a Janowitz farsi un'idea della volgarità che qui si manifesta sotto forma di entusiasmo. Un saluto ai cigni neutrali! ». «Se solo questo anno lo potessimo addormentare! O se fossimo degni della bella pace di Janowitz! ». Egli non si accorse che si faceva vedere troppo spesso a Janowitz. Forse fu anche imprudente. Charley aveva le sue preoccupazioni, anch'esse legate allo scoppio della guerra, ma di natura più pratica. Voleva che la sorella gli desse ascolto; gli dava sui nervi che Kraus assorbisse ogni giorno di più la sua attenzione. Si accorgeva della crescente intimità di quei due. Un giorno Kraus giunse a Janowitz inaspettatamente con la sua automobile, per prelevare Sidonie e portarla con sé in un viaggio piuttosto lungo, e allora ci fu, a quanto pare, una penosa scenata. Sidi provò nelle sue lettere a mediare tra i due uomini, ma tutto fu inutile, suo fratello non voleva che Kraus si facesse più vedere a Janowitz. In questo primo mese di guerra Kraus si senti paralizzato dagli avvenimenti, ne ebbe un'impressione talmente profonda che non riuscì a dir più nulla. Lo scrivere gli venne in odio, diradò anche le lettere. Si avvinghiò all'immagine di Janowitz, !'«isola» come 864
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lui la chiamava. I motivi dei suoi attacchi precedenti non erano paragonabili alla sventura che ora si abbatteva su tutti; nessuno aveva mai sperimentato un simile mutamento di tutte le proporzioni. Gli intellettuali se la cavavano perlopiù immettendosi nella grande corrente e contribuendo in prima persona ad aizzare le masse alla guerra. Anche alcuni scrittori che Kraus ammirava, Gerhard Hauptmann per esempio, si erano abbandonati all'isteria della guerra senza opporre resistenza. Kraus patì questa cecità come un tormento fisico. La prima cosa da imparare era il silenzio; la vera isola era il silenzio, che egli contrapponeva alle false voci. Ma riconobbe anche il pericolo che questo silenzio potesse essere frainteso. In novembre giunse al punto di dare di esso una pubblica giustificazione. Tenne un discorso che comincia con queste parole: « In quest'era gloriosa... » e nel quale si trovano le frasi seguenti : « Non aspettatevi da me una sola parola. Non potrei dirvi comunque niente di nuovo; giacché nella stanza dove sto scrivendo fortissimo è il frastuono delle voci, e non è il caso di decidere adesso se esse vengano da animali, da bambini o anche soltanto da mortai. Chi parla in favore dei fatti, svergogna la parola e il fatto, ed è da disprezzare due volte. Questa vocazione non si è ancora estinta. Parlino ancora quelli che adesso non hanno niente da dire, poiché la parola è passata ai fatti. Chi ha qualcosa da dire, si faccia avanti e taccia! ». Questo discorso fu rettamente compreso, anche quando, in dicembre, apparve come unico testo della « Fackel », che ormai usciva di rado. Quel silenzio di inaudita eloquenza fu sentito come un pronunciamento. In dicembre ci fu ancora una pubblica lettura, non tratta però dalle sue opere, e un'altra nel febbraio del 1915 con una nuova motivazione del silenzio. Era tutto. Per un lungo periodo non ci fu più nulla. Il silenzio durò molto a lungo. La prima vera « Fackel » riapparve più di un anno dopo lo scoppio della guerra, nell'ottobre 1915. 365
Solamente ora si può capire che cos'era successo. In questo primo inverno di guerra Sidi ha preso la voce di Kraus. E Sidi gliel'ha restituita nell'estate 1915. Chiarire questo nesso ha una certa importanza. Dalla perdita di Janowitz, in conseguenza del rifiuto del fratello di lei a riceverlo ancora nel castello, Kraus era rimasto colpito assai profondamente. Sidi gli scrisse che il suo tentativo di mediazione era fallito. Charley era irremovibile. Lei stessa si trovava già di nuovo in Italia, questa volta a Roma e a Firenze, dove incontrò Guicciardini. In una lettera a Kraus aveva preannunciato la sua partenza con queste parole : « Sono attesa con ansia in Italia ». Ancora una volta egli si rassegnò, ma la sua inquietudine crebbe, cominciò a intuire che Guicciardini significava molto per Sidi. Gradualmente, non senza tener conto della sensibilità di Kraus, lei lo mise al corrente dei suoi progetti: voleva sposare Guicciardini. Sidi era stufa della vigilanza oppressiva su di lei esercitata dal fratello, e cercava una via d'uscita. Vedeva la libertà solamente nel matrimonio, una donna delle sue origini non poteva sperare di trovarla altrove. E poiché aveva bisogno del consenso del fratello, doveva trattarsi di un matrimonio adeguato al suo rango. Già solo per questo Kraus era fuori discussione, e comunque lei non desiderava certo una vita coniugale con lui, nella quale ben difficilmente avrebbe trovato la libertà. Il conte Guicciardini, che aveva la stessa età di Kraus, le sembrò la persona giusta. Le faceva la corte già da parecchio tempo, era un uomo gradevole e inoltre era disposto a concederle quella libertà senza la quale il matrimonio non le appariva desiderabile. Il suo rapporto con Kraus non sarebbe cambiato, anziché a Janowitz si sarebbero incontrati in Italia. Kraus accolse con diffidenza questo progetto, il pensiero di doverla ufficialmente spartire con un altro uomo gli riusciva insopportabile, e ancora di più era colpito dall'idea del distacco di Sidonie da Janowitz, 366
l'unico posto in cui lei gli appariva la signora degli animali, pur non avendo il permesso di recarvisi, era là che lui la vedeva. « Sono molto assillante, » scrive Kraus ancora un po' sostenuto « voglio salvare il mio mondo». Le manda la poesia Vita senza vanità, intitolata originariamente Tutto o niente. Sidonie commenta: «Mandatami in segno di protesta, perché a causa di altre considerazioni e incombenze non ho potuto vederlo tanto quanto lui voleva». Inizia con questa la lunga serie di poesie a lei dedicate. Sidi cerca di incoraggiarlo a lavorare, e lui, poco dopo il discorso del mese di novembre di cui sopra si è detto, le risponde così : « Non parlarmi più di lavoro. Mi son bastate quel paio di pagine* per liberarmene. Per molto tempo a venire non ci sarà nulla da fare, nulla da dire a questo mondo imbecille che sanguina. T u t t o ciò che sono appartiene a te. Forse non lo vuoi? ». SofEre di un'angoscia mortale quando lei non scrive : « Non si sa forse che a Vienna c'è un folle, doppiamente sventurato perché consapevole della propria situazione?... ». « T i prego, non tranquillizzarmi. La vita non può soddisfare la mia smoderatezza, e dunque non può farlo neanche l'amore che deve scendere a patti con la vita... ». «Sarebbe stato davvero celestiale. Ammesso che una volta potessi essere un uomo "positivo", il più positivo di tutti, e mi mettessi a proclamare il mio amore davanti a una creatura che rende onore al suo Creatore, il grido: "È troppo tardi!" mi bloccherebbe ». H o citato solo poche frasi tratte da lunghe lettere che testimoniano la sua disperazione. Alla fine dell'anno passa con lei alcuni giorni a Venezia. Sidonie prosegue poi per Roma, dove lui le scrive: « I tuoi ultimi due giorni a Venezia - quale fiacco epilogo! Con occhi • Il discorso di novembre fu stampato con il titolo In dieser grossen Zeit come unico testo del numero 404 della « Fackel », 5 dicembre 1914 [iV.d.T.]. 367
doloranti ti aggiravi tra i monumenti come se la Natura te lo avesse imposto! ». Come una qualsiasi turista che non vuole trascurare nulla, Sidonie riempie le sue giornate con visite frettolose a luoghi e oggetti obbligati. Quali che siano, in relazione a lei Kraus li percepisce come oggetti di una falsa esaltazione, perché nulla è più elevato di Sidonie. Non sopporta di saperla in adorazione di fronte a qualcosa. Sarebbe assai meno irritato se lei, tranquilla e orgogliosa, andasse in giro tra la gente e permettesse che i più famosi quadri e le più celebri sculture si inchinassero al suo cospetto. Le scrive che lei, Sidonie, è l'unica e vera rarità da ammirare, quale significato possono dunque avere per lei altre cose che valgono tanto meno? Nel corso del mese di febbraio le scrive una serie di lunghissime lettere. Per timore che finiscano nelle mani sbagliate, parla di sé in terza persona indicandosi con la sigla B. Sono lettere in cui cerca di padroneggiarsi e nelle quali descrive il proprio stato d'animo con estrema finezza. Con stupita ammirazione lo si scopre romanziere. In nessun'altra delle sue opere ritroviamo questo legame tra passione e scavo psicologico. Qui Kraus non attacca né inveisce, bensì rappresenta, e la precisione con cui egli sa guardarsi dentro rammenta i grandi autori della letteratura francese. Eppure tutto questo non è un romanzo, ma un fedele resoconto, che quasi tutti i giorni, e talora più volte in uno stesso giorno, egli fa della propria situazione. Le risposte di lei non devono essere state indegne di queste lettere, ed è un vero peccato che siano andate perdute. Spesso erompono dall'animo di Kraus parole di pura disperazione. Come dice egli stesso, soffre di idee deliranti che si avverano una per una in virtù delle parole che riceve da lei. Proprio mentre contesta le ragioni del suo tormento, lei gli dice delle cose che confermano il suo delirio. L'agitazione giunge al massimo in lunghi telegrammi in cui egli cerca di strapparle il consenso per un incontro. 368
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Ad un tratto e inaspettatamente giunge a Roma. « Sono arrivato qui da Firenze ieri sera per dirti addio... Non so che cosa sto scrivendo. Son da ieri per strada e sono mezzo morto». La prega di concedergli cinque minuti quella sera stessa, perché ha intenzione di ripartire subito. Un autista porta la lettera a Sidonie. Lui aspetta lì vicino in automobile. Fu il momento culminante della crisi e l'inizio del suo superamento. Lei accettò di incontrarlo immediatamente. Lui rimase a Roma e il giorno dopo le scrisse in uno stato di esaltazione : « Ho sentito i tuoi passi sul mio cuore, volevi calpestare la mia mente... ieri mi hai salvato, ed è stata una grazia più grande di tutti i dolori delle ultime settimane ». Lei lo aveva persuaso a saggiare finalmente la propria forza, ed egli si rassegnò per la prima volta ai suoi progetti matrimoniali. Lei lo pregò di mandarle una poesia per festeggiare le nozze, egli la scrisse e gliela fece recapitare il giorno dopo. Era intitolata A Sidi per il giorno delle nozze. In seguito fu chiamata Metamorfosi, la si trova in apertura della raccolta Parole in versi.* Sidonie aveva chiesto anche a Rilke una poesia per la stessa occasione, e anch'egli l'aveva subito scritta. Karl Kraus rimase a Roma ancora per un po', vicinissimo a Sidonie ma spaventato nel profondo dai numerosi impegni di lei e dal fatto che la vedeva stremata. Kraus era ancora assai labile, lei si lagnava che ogni giorno lui fosse diverso ed egli sentiva di avere una parte di responsabilità per quel suo sfinimento. Comunque, questa volta, quando si separò da Sidi, non fu per molto. Dopo pochi giorni lei lo raggiunse a Vienna, e insieme - meraviglia delle meraviglie! partirono per Janowitz. È evidente che avvenne allora una specie di riconciliazione tra lui e il fratello di lei. Mancava un mese alle nozze che si sarebbero svolte a Roma, e sui preparativi, di cui molto si discuteva, i due uomini trovarono un punto di incontro. Qui a • Karl Kraus, Worte in Versen, Munchen, 1959 [iV.d.T.].
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Janowitz Karl Kraus rientrò in se stesso. Qui Sidonie smise di affannarsi e tornò quella di prima. In quei due giorni entrambi ritrovarono fiducia in se stessi e l'uno nell'altra. Kraus si riferì in seguito allo « spirito del 1° aprile », e firmò « Karl di Janowitz » la prima lettera che le indirizzò a Roma. La svolta era avvenuta. Di fronte a una sua frase non crediamo ai nostri occhi : « Qualche rara volta scrivere non rende affatto inquieti ». Egli non ha « la sensazione di essere sminuito » e anche qualche semplice cartolina lo rende contento. Discute con Charley il regalo di nozze per lei, ha in mente uno specchio. Una volta nomina perfino il lavoro: « T u t t o è diventato molto più facile ». Ma poco dopo dirà: « H o interrotto il lavoro per fare un grande ordine nelle vecchie cose, nella biblioteca e negli scritti. Vorrei sistemare tutto in modo da poter eventualmente lasciare l'appartamento all'improvviso». Sembra che non gli dispiaccia l'idea di trasferirsi in Italia, mentre poco prima la cosa gli sembrava impensabile. Poi partì per Roma, in modo da poterle stare vicino il giorno delle nozze, che erano state fissate per il 6 maggio. Gli ospiti invitati alla festa si erano tutti radunati a Roma. Ma la guerra, i cui effetti sulla loro relazione Kraus aveva tanto temuto, diventò ora la sua alleata. L'entrata in guerra dell'Italia contro l'Austria era imminente, e gli ospiti austriaci, per i quali la dichiarazione di guerra avrebbe significato l'intemamento immediato in un campo, fuggirono da Roma in preda al panico. Le nozze non ebbero luogo. Karl Kraus fu liberato di colpo da tutte le sue angosce: sembrò quasi un premio per il riacquistato controllo di sé e per il fatto che alla fine si era rassegnato all'odioso progetto. Sidi ora doveva andare in Svizzera per riprendersi da quell'agitazione. La sensazione di Kraus, a Vienna, è che un nuovo incontro con lei dovesse meritarselo, ma già dopo due settimane si rividero a Zurigo. Una nuova automobile, comprata in Svizzera, era pronta per 370
loro. Sidi al volante, accompagnati dalla vecchia balia irlandese che viveva con lei fin dall'infanzia, per oltre cinque settimane traversarono la Svizzera in lungo e in largo, si fermarono nei posti più belli e ne scoprirono uno - Thierfehd am Todi - che già li colpì per il suo nome * e che, in seguito, avrebbe acquistato per loro una grande importanza. Kraus, questa volta, non appena tornato a Vienna si buttò sul lavoro con furia selvaggia. « Fuori » scrive « si respira l'aria di Sodoma e ovunque si sente l'orrendo grido "Edizione straordinaria!" sotto cui i bambini vengono ora partoriti e gli uomini muoiono - ma tutto ciò non può più nuocermi ». Comunque non era ancora un lavoro nuovo, stava solo mettendo insieme il volume Untergang der Welt durch Schwarze Magie [Il declino del mondo a causa della magia nera] costituito da saggi apparsi nella « Fackel » prima della guerra. Ogni proposizione, com'è suo costume, viene completamente rielaborata. « La gioia di questo lavoro è un risarcimento per la cupa attesa di questi anni, che però certamente è stata necessaria ». « Sto lavorando circondato da una immensa ostilità, sono forte soltanto del mio lavoro e per poterlo continuare ho bisogno perciò, più ancora che nell'epoca del vuoto, dell'ultimo cuore umano disposto a darmi ascolto ». « Ciò che penso è dedicato a te, ciò che scrivo è scritto per te, e tu lo sai che queste cinquecento pagine che ho rielaborato appartengono a te... ». Da quando la sua capacità di tormentarsi si è staccata da lei, egli la dirige sugli oggetti che alimentano la sua vera vocazione. « Ieri... è stato un giorno tormentoso. La guerra ha bussato alla mia porta, non solamente alla tua. H o saputo che una delle poche persone che hanno avuto un comportamento decoroso con me e con le cose che ho scritto si trova in una situazione talmente orribile che aspetta la chiamata al * È un nome che richiama gli animaH in lotta contro la morte [N.d.T.]. 371
fronte come una liberazione. La cosa è di una tale atrocità che preferisco non illustrartela per iscritto ». Si tratta di Ludwig von Ficker, l'editore della rivista « B r e n n e r » , e Kraus mette in moto mari e monti per alleviare il suo stato. In questa stessa lettera racconta di un'altra avventura che potremmo considerare ridicola se non si fosse rivelata per lui una fonte di energia, e perciò non avesse acquistato una grande importanza. Il grafologo e veggente Raphael Schermann, che a Vienna in quell'epoca faceva molto parlare di sé, aveva fatto una perizia della sua calligrafia senza conoscerlo personalmente e senza possedere il minimo appiglio per desumere chi lui fosse. A Kraus questa perizia sembrò fenomenale e la trascrisse di suo pugno per Sidi. Giacché essa dimostra come egli desiderava essere visto - certamente infatti la spedì a Sidi per influenzarla - ne citerò qui di seguito i passi più importanti: « Una testa come ce n'è poche; uno scrittore che scrive in maniera tremendamente avvincente... « Quando si prende a cuore una causa, le resta fedele fino alla morte. Le sue parole e la sua lingua sono come un mortaio da 42... Quando affronta un nemico, non ha pace fino a che non lo ha messo a terra. Nulla lo spaventa, e se sono presenti mille persone, sosterrà la sua causa con una voce cosi forte e avvincente che tutti cadranno giù come ipnotizzati [Commento di Kraus: Visione di una sala per conferenze]... Nella sua vita deve aver condotto lotte immani. Sempre pronto all'attacco, l'arma che ha in mano è pronta a sparare, in guisa tale che l'attacco altrui non può coglierlo impreparato. « L'impressione è talmente forte che non riesco a liberarmene. Tremendamente acuto come osservatore, e più ancora nella critica. Un comune mortale non è assolutamente in grado di contrastarla... « Il lavoro gli ha procurato molte mortificazioni e 372
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persecuzioni, dalle quali però è sempre uscito vittorioso... « Nessuna vanità, neanche personalmente... « Nervi sovraffaticati. Non si concede riposo... « Capisce della guerra più di molti dei suoi capi, ma non gli è permesso di dire nulla ». Questa perizia, che ho qui citato circa per metà, ha certamente un tono zoppicante da banditore di piazza. Inoltre è scritta in un modo che se Kraus l'avesse letta su un giornale l'avrebbe di sicuro dileggiata a morte. Ma qui l'unica cosa che importa è capire l'effetto che in questo particolare momento essa esercitò su di lui. C'è in essa una frase che Kraus ha sottolineato di suo pugno « e se sono presenti mille persone... » perché nella battaglia che tra breve deciderà di ingaggiare, egli da solo dovrà affrontare più di mille avversari. La perizia calligrafica gli promette di uscire vittorioso anche da questa lotta. La direzione del suo attacco è comunque anticipata dall'ultima frase : « Capisce della guerra più di molti dei suoi capi, ma non gli è permesso di dire nulla », la cui parte finale (« ma non gli è permesso di dire nulla ») è da lui sottolineata. La lettera termina con queste parole provocatorie e il lettore si accorge, per restare nel gergo della perizia che è poi quello dell'epoca, che si sta preparando un'esplosione. Tuttavia, nella lettera successiva scritta due giorni dopo, « in seguito a una giornata delle più atroci » nella quale aveva « per di più ricevuto lettere di prigionieri e un povero soldato ammalato», Kraus trascrive per Sidi ventisei proposizioni tratte dalle Lettere ai Corinzi di Paolo. Ne citerò tre: « L'uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno». «Se ancora è necessario vantarsi, mi vanterò delle mie infermità ». « Chi è debole, che non lo sia anch'io? Chi riceve scandalo, senza che io ne frema? ». 373
E finalmente, una settimana dopo, giungiamo alla lettera per amor della quale ho preteso da voi questo lungo cammino. È la lettera più importante di questa corrispondenza e dunque ve la farò ascoltare quasi tutta:* « Troppe cose tristi ho visto in questi giorni, eppure ne è nato un nuovo lavoro - un lavoro che si chiude ogni volta la mattina alle sei, proprio quando sento marciare le vittime sotto la mia finestra. Che specie di lavoro sia questo, di cui ho finito di scrivere una prima sezione in tre giorni e tre notti te lo dirò... ». Egli cita a questo punto una pagina di diario, scritta qualche giorno prima, che pure aveva pensato di mandarle : « Ora, mentre davanti al mio tavolino risuona il quotidiano, ineluttabile, orrendo grido: Edizione straordinaria, che ormai affliggerà l'orecchio umano per tutti i tempi futuri, ora sono stato per un'ora a Thierfehd. E nulla, nulla è cambiato! Nessun pensiero, pensato, detto, urlato sarebbe forte abbastanza, nessuna preghiera sarebbe fervida abbastanza per trapassare questa materia. Non dovrò allora, per mostrare questa impotenza, far vedere tutto ciò che ora non posso - e per lo meno fare qualcosa : espormi? Che cos'altro rimane da fare? « Questa via dovrà essere presa... Quel che si dovrebbe urlare mi strangolerà, perché non mi soffochi in altro modo. Non sono più sicuro della strada dei miei nervi. Ma sarebbe meglio che tutto questo accadesse secondo un piano preciso, e che anche questo fosse dedicato a quella persona per la quale vivo e non vorrei più vivere se lei credesse che continuare a tacere minaccia la propria dignità umana, al punto che non è più tollerabile assistere in silenzio a fatti, no: a parole che hanno cancellato per tutte le ere cosmiche la * È la lettera del 29 luglio 1915 contenuta in Karl Kraus, Brieje an Sidonie Nddherny voti Borutin, cit., voi. I, pp. 179-180
[A^.d.r.].
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memoria dell'umanità. C'è una persona, senza la quale nulla può accadere, perché tutto deve accadere per lei... « Da questo stato di spossatezza si è sprigionata una scintilla ancora, e ne è nato il progetto di un'opera che certamente, se mai potesse apparire, equivarrebbe a un espormi nel modo più totale. Il primo atto, il preludio al tutto, è finito e potrebbe stare anche a sé. Ma a chi farlo avere? La Svizzera, dove ci rifugiamo con la nostra piccola, cara automobile, in questo ci viene meno. Forse ci sarà d'aiuto in seguito, o altrimenti l'America. « Comunque, qualsiasi cosa a questo punto possa o non possa succedere, ora mi sento più libero ». Dunque il Preludio degli Ultimi giorni dell'umanità è stato scritto, è nato in tre giorni e tre notti. Della pericolosità di quest'opera Kraus è consapevole, la definisce un rischio totale. Egli si trova nella capitale del paese che ha dato il via alle ostilità, e attacca, uno per uno e chiamandoli per nome, tutti quelli che partecipano alla conduzione di questa guerra. Non risparmia nessuno, ma meno che mai quelli che avendo più potere e più responsabilità potrebbero facilmente ridurlo al silenzio. Può essere mandato in prigione, forse sarà assassinato. II fatto che ciò non sia accaduto non ha niente a che fare con il momento della sua decisione. Il pericolo lo vede e lo affronta : ha tutte le ragioni di affermare che sta esponendosi a un grande rischio. Quando dice che ciò che dovrà urlare lo strangolerà intende che potrebbero impiccarlo come traditore della patria. Come scriverà molto più tardi, in questa guerra sono state erette 10.000 forche. Se non lo urlasse ne sarebbe soffocato in altro modo. Ma non vuole che ciò accada senza un piano preciso, deve nascere un'opera che egli possa scrivere solo dedicandola a Sidi, la persona per cui vive. Giacché proprio Sidi, ravvisando nel silenzio di Kraus qualcosa che minacciava la sua stessa dignità umana, aveva preteso che lui parlasse. Nel corso di 375
quell'inverno tumultuoso lei gli aveva parlato di lavoro, ma lui non ne aveva voluto sapere. La dichiarazione con cui in novembre Kraus aveva pubblicamente giustificato il proprio silenzio era a quell'epoca commisurata ai fatti, ma in seguito si era trasformata in un guscio vuoto a cui lui, tenace come sempre, era rimasto fedele; un giorno finalmente, grazie anche all'influsso di Sidi e per amor suo, decise di infrangerlo.
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Nella decisione di scrivere quest'opera, cui prima non si sarebbe arrischiato perché non avrebbe trovato in sé la forza sufficiente, confluirono vari elementi. La guerra privata dell'inverno appena trascorso che lo aveva profondamente lacerato e quasi distrutto, un senso di minacciosa disperazione che gli faceva escludere tutto, tutto tranne Sidi. Il viaggio con lei in Svizzera, un mondo di pace nel quale essi avevano suggellato la loro pace (Thierfehd ne era diventato il simbolo), seguito da un improvviso ritorno a Vienna in mezzo alle voci stridenti della guerra. Da allora in poi Kraus parlò di queste voci in ognuna delle sue lettere, ne era invasato come dalle reclute, o vittime, che ogni mattina alle sei sentiva marciare sotto la sua finestra. Gli giungevano inoltre notizie sulla guerra di persone singole, lettere di sconosciuti o di amici ai quali lui spalancava il suo cuore. Ci fu poi quella perizia grafologica - poiché ha avuto un suo ruolo, non si può sottacerla - la quale lo incoraggiò a intraprendere uaa lotta mortale contro un numero spropositato di nemici. Furono tutti questi elementi insieme che diedero a Kraus ciò di cui egli aveva bisogno per affrontare una simile battaglia. Si aggiunse da ultimo l'influsso delle parole di Paolo, che gli rammentò il dovere del sacrificio. Ma l'elemento singolo più importante di tutti fu Sidi: in quanto Kraus si riferiva a Sidi, trasse da lei la propria unità senza la quale una simile opera non avrebbe neanche potuto essere incominciata. La du376
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rata dell'amore che egli si aspettava da lei diventò la durata della stesura di quest'opera. Lei lo abbandonò quando la guerra finì e quest'opera era ormai conclusa. Ma con ciò abbiamo largamente anticipato quella che fu la sua impresa. In questa stessa lettera, cioè quando iniziò la stesura dell'opera, Kraus annuncia a Sidonie che andrà a trovarla a Janowitz il 1° agosto «carico di lavoro». Vi trascorse in effetti il mese intero a scrivere il suo dramma e un grosso numero della « Fackel » sulla guerra. Da allora in poi non interruppe più il suo lavoro. Sulle vicende ulteriori della sua grande passione da me non udrete più nulla. Le lettere dei successivi tre anni, cioè fino alla fine della guerra, esigerebbero considerazioni di natura diversa. E forse non sono altrettanto significative. Le cose più importanti si trovano ora nella sua vera opera. Gli ultimi giorni dell'umanità, e nei grossi numeri della « Fackel » dedicati alla guerra, il primo dei quali viene pubblicato nell'ottobre 1915. Ci tenevo moltissimo a portarvi fino al punto in cui non fu più possibile mettere un freno a quest'opera. Per usare un'immagine di Stendhal, è l'attimo della cristallizzazione. Anche se in questa cristallizzazione convergono insieme passionalità e creazione letteraria, Kraus riesce ugualmente a fare in modo che nell'opera, cioè negli Ultimi giorni dell'umanità, non entri affatto la donna senza la quale l'opera stessa non sarebbe mai nata. Ciò di cui Kraus ha bisogno d'ora in poi è una speciale tensione. Ha bisogno di Janowitz, che certo è un'isola, ma un'isola di un paese nemico, ogni suolo su cui si combatte è per lui un paese nemico. Ha bisogno anche di passare in Svizzera, un luogo di pace paradisiaca, è un bisogno che sente di continuo. Avrebbe potuto decidere di rimanerci, in Svizzera, come fecero altri che aborrivano la guerra, per esempio Romain Rolland. Ma per lui era importante che la « Fackel » venisse pubblicata a Vienna, ci teneva a condurre la sua battaglia contro la censura là dove per vincerla 377
bisognava strappare tignosamente ai suoi divieti ogni singola frase, una dopo l'altra. E ci teneva ancor di più a sentire la guerra proprio nel luogo, la capitale austriaca, in cui convergevano tutti i suoi fili. Così si recava spesso da Sidi in Svizzera, ma poi ritornava a Vienna. A ogni nuovo confronto con la guerra il suo odio diventava più acuto e pungente. E neanche doveva rimproverarsi di abbandonare troppo spesso il teatro della guerra, perché proprio nelle regioni in cui regnava la pace, a Janowitz, ma soprattutto in Svizzera, continuò a scrivere Gli ultimi giorni dell'umanità con crescente energia e passione. Le lettere che scrisse a Sidi abbracciano ventitré anni della vita di Kraus. Ho cercato di farvi conoscere solo un paio delle sue lettere, le più importanti. Il fatto che Kraus abbia desiderato che le sue lettere a Sidi venissero pubblicate testimonia secondo me il suo grandissimo amore per la verità. Abbiamo nei suoi confronti il dovere di prenderle in seria considerazione per esaudire così il suo vero ultimo desiderio. 1974
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LA MISSIONE DELLO S C R I T T O R E Discorso tenuto a Monaco di Baviera nel gennaio 1976
Traduzione di Renata Colorni
T r a le parole che per un certo periodo hanno languito in uno stato di inerme estenuazione, parole da tutti evitate e occultate giacché chi le usarà si esponeva all'altrui dileggio, e a tal punto svuotate di senso che ciascuno si teneva per detto che erano diventate parole orribili e come rinsecchite, tra queste c'è anche la parola «scrittore».* Chi malgrado tutto ha seguitato a dedicarsi all'attività letteraria, che in effetti non ha mai cessato di esistere, si è autodefinito « uno che scrive ». Si sarebbe potuto pensare che ciò avvenisse per lasciar cadere una falsa pretesa, per trovare criteri nuovi, per diventare più severi con se stessi e, soprattutto, per evitare tutto ciò che può condurre a successi immeritati. In verità è accaduto il contrario: proprio quelli che si sono scagliati senza pietà sulla parola « scrittore » so* Rendiamo qui con « scrittore » la parola tedesca Dichter (autore di opere letterarie in poesia o in prosa) perché in questo saggio, e in altri contenuti in questo volume - per esempio in quello su Hermann Broch - Canetti, oltre che a se stesso, si riferisce prevalentemente ad autori di opere in prosa [N.d.T.]. 381
no gli stessi che hanno consapevolmente sviluppato e affinato i metodi per fare scalpore. La meschina opinione che ogni letteratura sia morta è stata proclamata da qualcuno con parole patetiche, stampata su carta costosa, e discussa con una tale solennità e serietà da farla apparire una difficile e concettosa costruzione intellettuale. È chiaro che chi ha fatto così è annegato ben presto nel suo stesso ridicolo, ma anche altri autori, che non erano sterili al punto da esaurirsi in un solenne proclama e dunque hanno scritto dei libri, libri amari e pieni di talento, anche costoro, che pure continuavano a dire di se stessi : sono « uno che scrive », si sono conquistati ben presto una grande notorietà, e hanno fatto poi ciò che gli scrittori hanno sempre fatto: anziché tacere, hanno seguitato a scrivere sempre lo stesso libro. E l'umanità, per quanto incorreggibile e meritevole di morte potesse loro apparire, una funzione ce l'aveva ancora: quella di applaudirli. Chi non aveva voglia di farlo, chi era ormai sazio di quei monotoni profluvi di parole, veniva colpito da una doppia condanna: come uomo con il quale comunque non si aveva niente da spartire, e come u n o che si rifiutava di riconoscere nell'eterna brama di morte di colui che scriveva l'unico valore ancora esistente. Capirete dunque che nei confronti delle opere sensazionali di « quelli che scrivono » io nutra una diffidenza non minore di quella che ho verso le opere di coloro che continuano con imperterrito compiacimento a chiamarsi « scrittori ». Non vedo tra loro la minima differenza, si assomigliano come due gocce d'acqua, e una volta acquisito un certo pubblico riconoscimento, lo ritengono un loro inalienabile diritto. Perché oggi in realtà la situazione è tale che non esiste scrittore il quale non dubiti seriamente del proprio diritto di esserlo. Chi non vede lo stato del mondo nel quale viviamo, difficilmente potrà dire qualche cosa al riguardo. I suoi pericoli e le sue insidie, che in passato rappresentavano uno dei principali punti 382
di forza delle religioni, si sono ora spostati sulla terra. La fine del mondo, di cui più volte si è già avuto un saggio, viene presa in considerazione dai non scrittori con assoluta freddezza, c'è perfino qualcuno che del calcolo delle probabilità che il mondo finisca ha fatto un redditizio mestiere che lo ingrassa sempre più. Da quando abbiamo affidato alle macchine il compito di predire il nostro futuro, le profezie hanno perso ogni valore. Quanto più ci separiamo da noi stessi, quanto più ci consegnamo a istanze senza vita, tanto meno riusciamo a padroneggiare quello che accade. Il nostro crescente potere su tutto, su ciò che è vivente e su ciò che non lo è, e in special modo sui nostri simili, si è trasformato in un contropotere che solo in apparenza riusciamo a controllare. Su questo argomento ci sarebbero da dire centinaia e migliaia di cose, ma, questo è proprio stranissimo, son tutte cose risapute, le troviamo atrocemente banalizzate sui giornali quotidiani, dove vengono divulgate fin nei minimi dettagli. Non aspettatevi da me che io ripeta tutto questo: oggi mi sono proposto un tema diverso e un poco più modesto. Forse vai la pena di riflettere se esista qualcosa che gli scrittori, o quelli che finora abbiamo considerato tali, possano fare per rendersi utili nell'attuale situazione del mondo in cui viviamo. Nonostante sia caduta così in disgrazia la parola che li indica, è rimasto ancora qualcosa di ciò che essa evoca e pretende. La letteratura può esser quel che vuole, ma una cosa non è, non è morta, come del resto non è morta l'umanità che ancora le si aggrappa. Come ha da essere la vita di colui che oggi rappresenta la letteratura, che cosa dovrebbe sapere offrire? Recentemente mi sono imbattuto per caso nella seguente annotazione di un autore anonimo, di cui non faccio il nome appunto per il buon motivo che nessuno lo conosce. Reca la data del 23 agosto 1939 - una settimana prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale - e suona cosi: 383
« Comunque è finita. Se io fossi davvero uno scrittore, dovrei essere capace di impedire la guerra ». Quale assurdità e quale arroganza, ci diciamo oggi, dal momento che sappiamo cos'è successo da allora! Che cosa avrebbe mai potuto fare un singolo individuo per impedire la guerra, e in particolare uno scrittore? Chi potrebbe mai immaginare una pretesa che fosse più lontana dalla realtà? E che differenza c'è tra questa proposizione e le frasi declamatorie di cui si sono consapevolmente serviti quelli che la guerra l'hanno voluta? Lessi questa frase con fastidio, e mentre la trascrivevo la mia irritazione aumentò ancora di più. Ecco, pensavo, qui ho trovato ciò che più mi disgusta nella parola « scrittore », una pretesa che si pone in stridente contrasto con ciò che gli scrittori sono in grado di fare nella migliore delle ipotesi, un esempio lampante della boria che ha gettato il discredito su questa parola e ha fatto sì che la gente sia diventata sospettosissima nei confronti di ogni membro della nostra corporazione che battendosi il petto se ne venga fuori con uno dei suoi propositi colossali. Ma poi, nel corso delle giornate successive, mi accorsi con stupore che quella frase non riuscivo a scordarmela, che mi tornava in mente di continuo, e cosi la esaminavo, la scomponevo, la respingevo per riprenderla di nuovo in esame, come se a me soltanto fosse dato di scovai-ne il riposto significato. Già l'inizio era strano : « Comunque è finita » è un'espressione di totale e irrimediabile sconfitta in un'epoca di vittorie imminenti. Siccome l'accento è stato posto sulla sconfitta, si esprime già qui la desolazione della fine della guerra, tra l'altro in un tono di assoluta ineluttabilità. Ma la frase vera e propria : « Se io fossi davvero uno scrittore, dovrei essere capace di impedire la guerra » esprime, se la si osserva più da vicino, esattamente il contrario di un senso di boria: essa contiene infatti l'ammissione di uno scacco totale. Ma più ancora essa esprime l'ammissione di una responsabilità, e pro384
prio in un campo - questo è ciò che sbalordisce dove meno che mai si può parlare di responsabilità secondo l'uso corrente di questa parola. Questo individuo, che chiaramente pensa quello che dice, poiché lo dice senza svelarsi, si sta volgendo contro se stesso. Non accampa pretese, anzi vi rinuncia. Nella sua disperazione per ciò che dovrà accadere, accusa se stesso e non i veri colpevoli, che certo conosce molto bene, perché altrimenti la penserebbe in maniera diversa su ciò che accadrà. Così, quale fonte dell'irritazione che inizialmente abbiamo provato non rimane che questo : l'immagine che aveva quest'uomo di ciò che dovrebbe essere uno scrittore, e il fatto che egli si è ritenuto tale fino al momento in cui è scoppiata la guerra e tutto gli è crollato addosso. Ciò che qui mi affascina e mi rende pensieroso è la pretesa irrazionale di avere una responsabilità. Una cosa tra l'altro bisognerebbe aggiungere : alla situazione che ha poi reso la guerra davvero inevitabile si è arrivati per mezzo di parole, parole su parole usate a sproposito. Se cosi grande è il potere delle parole, perché esse non dovrebbero anche essere in grado di impedire la guerra? Non c'è affatto da meravigliarsi che uno che ha a che fare con le parole più degli altri, abbia anche, rispetto a costoro, maggiori aspettative sulla loro efficacia. Lo scrittore sarebbe dunque uno, ma forse è una scoperta a cui siamo giunti un po' troppo frettolosamente, che alle parole tiene moltissimo, tra di esse si aggira con lo stesso piacere, e forse anzi più volentieri, che tra gli uomini, e, abbandonandosi totalmente sia agli uni che alle altre, ma alle parole con maggiore fiducia, è capace, queste, di tirarle via dalle loro sedi per poi reinsediarvele in maniera da farle cadere proprio a pennello, e le interroga, le saggia, le vezzeggia, le lacera, le pialla, le imbelletta, ma è anche in grado, dopo averle arrogantemente strapazzate, di accucciarsi nuovamente di fronte a loro con rispetto e devozione. Anche quando, come accade sovente, si comporta con 385
le parole da vero malfattore, le sue son malefatte compiute per amore. Dietro questo enorme lavorio si nasconde qualcosa di cui egli non sempre è consapevole, perlopiù è una lieve sensazione, solo talvolta una volontà selvaggia e trascinante, la volontà dello scrittore di farsi garante per tutto ciò che si può esprimere con le parole e di scontare personalmente la pena di ogni loro sconfìtta. Che valore può avere per gli altri questa assunzione di una responsabilità fittizia? Non le viene tolta qualsiasi efficacia a causa del suo carattere irreale? Io sono convinto che ciò che l'uomo si impone da sé viene preso da tutti, anche da persone estremamente limitate, più sul serio di ciò che egli fa perché qualcuno lo obbliga. E in effetti non c'è rapporto più stretto, né relazione più profondamente coinvolgente con un evento di quello che stabiliamo quando per quell'evento ci sentiamo colpevoli. Se la parola « scrittore » si era come slabbrata per molte persone, ciò fu dovuto al fatto che queste la collegavano a una immagine di finzione e di scarsa serietà, a una sorta di scappatoia di chi non vuole rendersi la vita troppo difficile. Non era certo molto adatto a ispirare rispetto l'atteggiamento di quegli scrittori che continuarono a coltivare le più squisite e variegate stravaganze estetiche proprio alla vigilia di uno dei periodi più cupi della storia umana, periodo del quale essi non seppero riconoscere la natura neanche nel momento in cui ne furono travolti; la loro falsa fiducia, il loro disconoscimento della realtà, alla quale cercavano di accostarsi solo con sprezzante noncuranza, il loro rifiuto di stabilire con essa qualsiasi collegamento, la loro profonda estraneità rispetto a tutto ciò che avveniva nei fatti - poiché certo non erano cose che potevano trasparire nella lingua da essi adoperata: in effetti si può ben comprendere che chiunque fosse avvezzo a guardare le cose con più durezza e precisione si sentisse respinto e disgustato di fronte a tanta cecità. 386
A costui si potrebbe obiettare che esistono frasi come quella da cui sono partito nello svolgere le mie considerazioni. Fino a quando esistono autori, e naturalmente ce n'è più di uno, che si assumono la responsabilità delle parole che dicono, nel senso che soffrono profondamente quando si rendono conto del totale fallimento di queste parole, fino a quel momento conserviamo il diritto di aggrapparci al termine che è sempre stato usato per gli autori delle opere fondamentali dell'umanità, opere senza le quali non avremmo neppure consapevolezza di che cosa questa umanità sia fatta. In rapporto a tali opere, delle quali sia pure in maniera diversa ma non meno pressante abbiamo bisogno come del pane quotidiano poiché da esse veniamo alimentati e sostenuti, anche se non ci fosse rimasto nient'altro, e anche se, non sapendo fino a che punto esse in effetti ci sostengono, ci dedicassimo intanto alla vana ricerca di qualche altra cosa che nella nostra epoca potesse uguagliarle, in rapporto a queste opere non possiamo pensare altro che questo: è vero che quando siamo molto severi con il nostro tempo e, soprattutto, con noi stessi, possiamo giungere alla conclusione che oggi di veri scrittori non ce ne sono, eppure dovremmo augurarci appassionatamente che ce ne fossero. Tutto ciò suona certo assai sommario e non ha un gran valore se non proviamo a chiarire ciò che uno scrittore di oggi dovrebbe avere in sé per soddisfare questa pretesa. Il primo e più importante requisito direi che sia questo: lo scrittore è il custode delle metamorfosi, e lo è in due sensi. Innanzitutto egli farà propria l'eredità letteraria dell'umanità, nella quale le metamorfosi abbondano. Solo oggi ci rendiamo conto di questa ricchezza, dal momento che sono state decifrate le scritture di quasi tutte le antiche civiltà. Ancora fino al secolo scorso, chiunque avesse voluto occuparsi di questo aspetto altamente peculiare ed enigmatico dell'umanità, e cioè della sua capacità di metamorfosi, si 387
sarebbe attenuto a due libri fondamentali: uno più tardo, le Metamorfosi di Ovidio, che si presenta come una raccolta pressoché sistematica di tutte le « più elevate » metamorfosi fino allora conosciute nella mitologia, e uno più antico, l'Odissea, dove si narrano essenzialmente le avventurose metamorfosi di un uomo chiamato appunto Odisseo. Esse raggiungono il loro apice quando egli torna a casa nelle vesti di un mendicante, l'uomo più misero che si possa immaginare, e qui la simulazione è talmente perfetta che mai scrittore posteriore l'ha eguagliata e men che meno superata. Sarebbe ridicolo soffermarsi sull'influsso che questi due libri hanno avuto già prima del Rinascimento, ma soprattutto poi, sulle vicende culturali dei paesi europei più recenti. In Ariosto come in Shakespeare, nonché in moltissimi altri autori, compaiono le Metamorfosi di Ovidio, e sarebbe un grave errore pensare che il loro influsso sui moderni si sia esaurito. Quanto a Odisseo, o Ulisse, lo si incontra sempre, fino ai nostri giorni : è la prima figura entrata a far parte del patrimonio più profondo della letteratura universale, sarebbe difficilissimo trovare più di cinque o sei figure che abbiano una simile forza irradiante. Ulisse è certo la prima figura, quella che per noi è sempre esistita, ma non è la più antica, infatti ne è stata trovata una più antica. Non sono passati ancora cent'anni da quando fu scoperta l'epopea mesopotamica di Gilgamesh e ne fu riconosciuto il grande valore. Essa comincia con la metamorfosi di Enkidu, uomo selvaggio e primitivo che vive tra gli animali della foresta, in un uomo civilizzato di vina grande città; e questo è un tema che ci tocca solo oggi assai da vicino, poiché di recente abbiamo appreso alcune cose concrete e molto precise sui bambini vissuti in mezzo ai lupi. E quando Enkidu muore lasciando solo l'amico Gilgamesh, l'epopea sfocia in un confronto straordinario con la morte, l'unico da cui l'uomo moderno possa congedarsi senza che gli resti in bocca il sapore amaro dell'autoinganno. E qui desidero offrirmi come 388
testimone di un fatto che ha dell'incredibile: non c'è nessun'opera letteraria, ma proprio nessuna, che abbia esercitato sulla mia vita un influsso così determinante come questa epopea che risale a quattromila anni fa e che, fino al secolo scorso, nessuno conosceva. In essa mi sono imbattuto all'età di diciassette anni e da allora non mi ha più abbandonato, come a una Bibbia sono tornato di continuo a quest'opera, che a prescindere dal suo effetto specifico mi ha riempito di attesa per tutto ciò che ancora ci è ignoto. Mi è impossibile considerare le opere che ci sono state tramandate e che seguitano ad alimentarci come un corpus in sé conchiuso, e anche se all'epopea di Gilgamesh non dovessero far seguito opere scritte altrettanto significative, rimane pur sempre l'enorme riserva delle tradizioni orali dei popoli primitivi. Di metamorfosi, infatti, che è il tema che qui ci interessa, in queste tradizioni ce n'è un'infinità. Potremmo passare tutta la nostra vita a raccoglierle e a metterle in atto, e non credo affatto che sarebbe una vita mal spesa. Tribù che contano talvolta poche centinaia di esseri umani ci hanno lasciato una ricchezza che certo non meritiamo, poiché per colpa nostra quegli esseri si sono estinti o si stanno estinguendo sotto i nostri occhi, mentre noi li guardiamo appena. Essi hanno salvaguardato fino alla fine le loro esperienze mitiche e la cosa strana è questa: quasi nulla ci è utile e quasi niente ci riempie di speranza più di queste antiche e incomparabili creazioni poetiche scritte da uomini che sono finiti nella più amara miseria dopo essere stati da noi cacciati, truffati e rapinati. Gli uomini che noi abbiamo disprezzato per la loro modesta civiltà materiale e che da noi sono stati sterminati ciecamente e spietatamente, sono gli stessi uomini che ci hanno tramandato un'eredità spirituale inesauribile. Per il salvataggio di questa eredità non potremo mai ringraziare abbastanza la scienza; ma la vera salvaguardia di questo patrimonio, la sua resurrezione per la nostra vita, è compito degli scrittori. 389
Li ho già definiti i custodi delle metamorfosi, ma essi lo sono anche in un altro senso. In un mondo impostato sull'efficienza e sulla specializzazione, che altro non vede se non le vette a cui mirano tutti in una sorta di angusta tensione per la linearità, che indirizza ogni energia alla fredda solitudine di queste vette e invece disdegna e cancella le cose più vicine, il molteplice, l'autentico, tutto ciò che non serve ad arrivare in cima, in un mondo che sempre di più vieta la metamorfosi in quanto essa si pone in contrasto con il fine universale della produzione, che non esita a moltiplicare dissennatamente gli strumenti della propria autodistruzione e cerca nel contempo di soffocare quel poco che ancora l'uomo possiede delle qualità ereditate dagli antichi e che potrebbe servirgli a contrastare questa tendenza, in un mondo cosiffatto, che siamo inclini a definire il più cieco di tutti i mondi possibili, appare di un'importanza addirittura cruciale che alcune persone continuino malgrado tutto a esercitare questa capacità di metamorfosi. Questo, secondo me, è il vero compito degli scrittori. Grazie a una capacità che una volta era di tutti e che ora è condannata all'atrofia, capacità che essi ad ogni costo hanno il dovere di conservare, gli scrittori dovrebbero tenere aperte le vie di accesso tra gli uomini. Dovrebbero essere capaci di diventare chiunque, anche il più piccolo, il più ingenuo, il più impotente. La loro brama profonda di vivere le esperienze degli altri non dovrebbe mai essere orientata dalle finalità che costituiscono la nostra vita normale e per cosi dire ufficiale, essa dovrebbe essere completamente esente dall'intento di ottenere successi o riconoscimenti, dovrebbe essere una passione a sé stante, la passione appunto della metamorfosi. È chiaro che gli scrittori dovrebbero essere sempre pronti ad ascoltare, ma questo da solo non basta, perché oggi c'è un numero straripante di persone che quasi non sono più capaci di parlare e che si esprimono con le frasi dei giornali e dei mass media e sempre più dicono tutti le stesse cose, che 390
pure in realtà non sono le stesse cose. Solo grazie alla metamorfosi, assunta nel significato più radicale che qui ho dato a questa parola, sarebbe possibile sentire ciò che un uomo è al di là delle sue parole, la vera sostanza di un essere vivente non è possibile coglierla se non in questo modo. È un processo enigmatico, di cui praticamente non è ancora stata esplorata la natura, eppure non c'è altra maniera di accedere davvero a un'altra persona. Si è tentato di definirlo in vari modi, si è parlato per esempio di empatia o immedesimazione, ma per motivi che ora non posso esporre preferisco « metamorfosi », che è una parola più pretenziosa. Ma comunque lo si voglia definire, difficilmente qualcuno oserà mettere in dubbio che si tratti di un processo reale e molto prezioso. Sono dunque incline a ravvisare la vera missione dello scrittore nel suo esercizio ininterrotto della metamorfosi, nel suo bisogno stringente di calarsi nelle esperienze di uomini di ogni tipo, di tutti, ma specialmente di quelli che sono meno considerati, nel far uso di questa capacità senza mai stancarsi e in un modo che non sia intristito o paralizzato da schemi preordinati. È attendibilissimo, anzi è probabile, che solamente una parte di questa esperienza confluisca poi nelle sue opere. Il giudizio che su di esse verrà dato appartiene ancora una volta al mondo delle realizzazioni e delle vette che egli vuole raggiungere, e oggi non può certo interessarci, oggi non ci stiamo occupando di ciò che uno scrittore tramanda ai posteri, ma di come dovrebbe essere uno scrittore, ammesso che ce ne fosse uno. Se qui prescindo totalmente da ciò che si suol chiamare successo, e addirittura ne diffido, ciò è legato a un pericolo che ciascuno conosce per averlo sperimentato di persona. L'intenzione di ottenere il successo, così come il successo in sé, hanno un effetto limitante. Chi intraprende una certa strada con l'idea di raggiungere un obiettivo, sente la maggior parte delle cose c h e non servono ad avvicinarlo alla meta come un'inutile zavorra. Egli se ne libera per essere più leggero. 391
non può preoccuparsi del fatto che forse si sta liberando della parte migliore di sé, ciò che gli importa è il punto a cui è arrivato, da quel punto si libra verso un punto più alto, e il suo progresso lo misura a metri. La posizione per lui è tutto, è stata stabilita dall'esterno, non è lui che l'ha creata, e neanche ha preso parte alla sua genesi. La vede e cerca di raggiungerla, e per quanto un simile sforzo possa essere utile e necessario in molti campi della vita, per lo scrittore come noi lo abbiamo in mente sarebbe solo uno sforzo distruttivo. Questi, infatti, deve prima di tutto far posto in se stesso, sempre più posto. Posto per il sapere, di cui si appropria senza uno scopo preciso, e posto per gli esseri umani che conosce e accoglie in sé mediante la metamorfosi. Per quel che riguarda il sapere, egli potrà conquistarlo solo ripercorrendo nel loro nitido profilo i processi che determinano la struttura più intima di ogni branca del sapere. Ma nella scelta di questi campi conoscitivi, che possono essere fra loro assai difformi, egli non si farà guidare da regole ben precise, bensì da un'inesplicabile bramosia. Siccome si apre contemporaneamente alle persone più diverse e le capisce in un modo antichissimo e prescientifico, ossia mediante la metamorfosi, siccome per far questo è impegnato di continuo in un moto interiore che non deve affievolirsi e non deve cessare - giacché egli non colleziona le persone, non le mette ordinatamente da un lato, semplicemente le incontra e le accoglie in se stesso come creature vive - e siccome infine riceve da esse dei violenti scossoni, non è affatto escluso che il volgersi improvviso a una nuova branca del sapere sia anche determinato da questi suoi incontri. Sono consapevole della stravaganza di questa richiesta, essa non può far altro che suscitare contestazioni. Sembrerebbe quasi che lo scrittore debba mirare ad accogliere in sé un caos di contenuti contrastanti e in lotta tra loro. A questa obiezione, che in effetti è molto seria, a tutta prima ho ben poco da rispondere. Lo 592
scrittore è l'essere più vicino al mondo ogni volta che reca in sé il caos, e tuttavia egli sente la responsabilità di questo caos (è il tema da cui siamo partiti), non lo apprezza affatto, nel caos non si trova a suo agio, non si sente un fenomeno perché fa posto in se stesso a tante cose contraddittorie e sconnesse, quel caos lo odia e non rinuncia alla speranza di poterlo dominare per gli altri e dunque anche per sé. Se vuole dire qualche cosa che abbia un certo valore riguardo al mondo in cui viviamo, lo scrittore non può né scansarlo né allontanarlo da sé. Ma essendo il nostro mondo più che mai un caos malgrado tutti i piani e gli scopi che dice di perseguire, dato che con crescente rapidità sta percorrendo la strada dell'autodistruzione, lui, lo scrittore, dovrà recarlo in sé cosi com'è, e non lisciarlo e ripulirlo ad usum delphini, cioè ad uso del lettore. Nello stesso tempo non dovrà abbandonarsi alla mercé del caos e anzi, basandosi sulla propria esperienza, dovrà saperlo contrastare e opporre ad esso la forza impetuosa della speranza. Ma che cosa può essere questa speranza, e perché mai essa ha un valore soltanto se trae alimento dalle metamorfosi che lo scrittore attua in se stesso, con gli uomini del passato grazie alle sollecitazioni derivanti dalla lettura, e coi contemporanei grazie alla sua disponibilità per il mondo attuale che lo circonda? Intanto c'è la potenza delle figure che lo hanno investito e che, una volta insediatesi in lui, non cedono il posto. Sono figure che reagiscono attraverso di lui, come se di esse fosse fatto il suo essere. Queste figure sono la sua molteplicità, articolata e consapevole, e siccome vivono dentro di lui, rappresentano la sua resistenza alla morte. Già appartiene alle qualità dei miti tramandati per via orale che essi siano detti e ridetti. La loro vivacità è pari alla loro determinatezza, ai miti è concesso di non modificarsi. Solo considerandoli uno per uno si può scoprire in che cosa consista la loro vitalità, e forse ci si è soffermati troppo poco sul perché debbano essere continuamente ripetuti. 393
Sono certo che si potrebbe descrivere senza difficoltà ciò che accade a una persona che per la prima volta si imbatte in un mito. Ma una simile descrizione particolareggiata (se così non fosse non avrebbe alcun valore) oggi da me non dovete aspettarvela. Intendo sottolineare una cosa sola : il senso di certezza e di perentorietà che si trae dal mito, esso è così e non potrebbe essere che cosi. Quale che sia il contenuto del mito di cui veniamo a conoscenza, per quanto inverosimile debba apparirci in altri contesti, noi nel mito non lo mettiamo in dubbio, qui esso assume una sua indeformabile e irripetibile configurazione. Questa riserva di certezze, gran parte delle quali sono giunte fino a noi, è stata adoperata per gli abusi più peregrini. Conosciamo fin troppo bene gli abusi che ne hanno fatto i politici; è tipico di queste basse strumentalizzazioni, che prendono a prestito il mito per deformarlo, annacquarlo e distorcerlo, resistere qualche anno ma poi esplodere. Strumentalizzazioni di tutt'altra natura sono quelle operate dalla scienza, di cui nomino qui un solo esempio, particolarmente clamoroso: si può pensare quel che si vuole del contenuto di verità della psicoanalisi, ma è chiaro che essa ha tratto buona parte della sua forza dalla parola «Edipo»; ebbene, le critiche più fondate che cominciano a esserle rivolte puntano le loro obiezioni proprio sull'uso di questa parola. Il rifiuto dei miti, che è un tratto caratteristico della nostra epoca, è spiegabile appunto in base ad ogni sorta di abusi che di questi miti sono stati fatti. Essi sono visti come menzogne perché se ne conoscono soltanto le strumentalizzazioni, e scartando queste si scartano anche i miti in quanto tali. Le metamorfosi che ancora essi testimoniano sono ritenute indegne di fede. Dei miracoli in essi narrati si crede soltanto a quelli che poi sono stati confermati dalle scoperte scientifiche, senza pensare che ciascuna di esse ha nel mito il suo modello originario. Ma ciò che a prescindere dai loro specifici conte394
nuti costituisce la peculiarità dei miti è la metamorfosi che in essi si attua. Grazie alla metamorfosi l'uomo è diventato quello che è. Grazie ad essa si è appropriato del mondo, lo possiede in parte, e che alla metamorfosi egli debba il suo potere lo si ammette facilmente, ma ad essa egli deve qualche cosa di più e di meglio, le è debitore della sua pietà. Non ho timore di usare questa parola che appare fuori luogo ai professionisti di cose spirituali: essa è stata confinata, ciò che pure va ascritto alla specializzazione, nell'ambito religioso, l'unico in cui può essere nominata e adoperata. Bandita è invece dalle decisioni concrete della nostra vita quotidiana, che sempre di più sono determinate da elementi tecnici. Ho detto che può essere scrittore solamente colui che sente la responsabilità, benché magari nelle sue singole azioni egli la dimostri poco più di tanti altri. È una responsabilità per la vita che si sta distruggendo, e non bisogna vergognarsi di dire che questa responsabilità è nutrita dalla pietà. La pietà non ha alcun valore se viene proclamata come sentimento generico e indeterminato. Essa esige la concreta metamorfosi in ogni singolo essere che vive e che c'è. Nel mito e nelle opere letterarie che ci vengono tramandate lo scrittore apprende ed esercita la metamorfosi. Ma egli non vale nulla se non l'applica incessantemente al mondo che lo circonda. La vita che lo pervade mille volte, e di cui egli percepisce separatamente ogni singola manifestazione, non si compendia in lui in un mero concetto, ma gli dà l'energia di contrapporsi alla morte e di attingere cosi a una sorta di universalità. Non può essere compito dello scrittore lasciare l'umanità in balìa della morte. Apprenderà con sgomento, lui che non si chiude di fronte a nessuno, che la morte sta assumendo in molti uomini un potere crescente. Anche se dovesse apparire a tutti un'impresa disperata, egli a questo si ribellerà, e mai, in nessun caso, sarà disposto a capitolare. Sarà suo vanto opporre resistenza ai banditori del nulla, che sempre più nu395
merosi allignano tra i letterati, e suo vanto combatterli con mezzi diversi dai loro. Lo scrittore vivrà secondo una legge che non è stata tagliata su di lui, ma è lo stesso la sua legge. Eccola: Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri. Si indaghi sul nulla con l'unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri ad ognuno. Si perseveri nel lutto e nella disperazione per imparare la maniera di farne uscire gli altri, ma non per disprezzo della felicità, che compete alle umane creature, benché esse la deturpino e se la strappino a vicenda.
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INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE
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r - James Joyce e i tempi attuali, 26 Brod, Max, 114-227 Buber, Martin (Storie di fantasmi e d'amore in Cina), 202 Buchner, Georg, 11, 309-326 - La morte di Danton, 317, 324 - Lem, 313, 316, 319, 320 - Woyzeck, 85, 312, 313, 316, 321, 324 Buchner, Wilhelm, 316, 317 Buffon, Georges L., 106
Alessandro Magno, 249 Ariosto, 388 Aristofane, 74, 98, 350 Babai', Isaac, 336, 337 Balzac, Honoré de, 95, 106 Bauer, Erna, 168, 176, 177, 183, 184, 193 Bauer, Felice, 111-237, 361 Baum, Oskar, 227 Belzer Rabbi (un capo dei chassidim), 1^10 Berg, Alban, 337, 343 Bergson, Henri, 106 Bernard, Claude (Introduction à l'étude de la médecine expérimentale), 106 Bloch, Crete, 159-181, 204 Bormann, Martin, 263 Braun, Eva, 260 Brecht, Bertolt, 337 Breughel, Pieter, 74 Broch, Hermann, 12, 13, 1737, 337, 343, 344, 381 n. - Il ritorno a casa, 13, 35 - I sonnambuli, 13, 25, 26
Canetti, Elias, 329 n., 381 n. - Auto da fé, 294, 295, 312, 313, 327-344 - « Comédie humaine dei folli », 334, 340, 342 - La provincia dell'uomo, 81 n. - Massa e potere, 12, 13, 42 n., 244, 250, 339 Canetti, Veza, 9, 234, 313 Carlo Magno, 264 Certkov, 289, 291 399
Cervantes, Miguel de, 95 - Don Chisciotte della Mancia, 95 Chaka, 53 Churchill, Winston, 259 Ciano, Galeazzo, 52 Clarus, 321 Claudius, Matthias, 69, 74 Confucio, 11, 275-284 - Dialoghi, 279-284
Gilgamesh, 43, 74, 388, 389 Giovenale, 350 Goebbels, Joseph, 254 Goethe, Johann Wolfgang von, 69, 74, 116, 117, 314, 316, 319, 320 Gogol', Nikolaj V., 74, 347, 350 Gòring, Hermann, 253, 263, 267, 268 Grillparzer, Franz, 114, 158, 164 Grosz, Georges, 336, 337 Griinewald, Matthias, 74, 342 Grùtzner, Eduard von, 264 Guicciardini, Carlo, 362, 366 Gutzkow, Karl Ferdinand, 316, 319, 322 G.W. (« la svizzera »), 159, 161, 165, 206, 207
Danton, Georges, 318 Darwin, Charles, 336 Dolfini, Giorgio, 317 n. Dostoevskij, Fedor M., 74, 114, 158, 161, 193, 289, 295 - I demoni, 85 - 1 fratelli Karamazov, 295 Dostoevskij (vedova di), 289 Eliodoro, 95 Eulenberg, Herbert, 126, 144 - Mozart, 126 - Schattenbilder, 126 Euripide, 350
Hachiya, Michihiko, 297-308 Handy, E.S.C., 46 H a n Fei Tzu, 279 Harden, Maximilian, 353 Hauptmann, Gerhart, 74, 365 - £ Pippa balla, 74 Hebbel, Friedrich, 93, 114 Henschke, Alfred, vedi Klabund Herder, J o h a n n Gottfried, 314 Herzfelde, Wieland, 336 Himmler, Heinrich, 264 Hitler, Adolf, 11, 12, 239-274 - Mein Kampf, 264 Hsuan Tsang, 93 Huch, Ricarda, 126 Hugo, Victor, 324 n. - Marion Delorme, 324
Federico il Grande, 274 Ficker, Ludwig von, 372 Fischer, Heinrich, 355 Fison, L., 48 n. Flaubert, Gustave, 114, 148, 149, 158 - Éducation sentimentale, 148 - Salammbó, 203 Forster, Friedrich W. (Jugendlehre), 213 Francesco Ferdinando, arciduca d'Austria, 363 Franklin, Benjamin, 288 Freud, Sigmund, 56, 57, 338 - Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia {Il caso clinico del presidente Schreber), 56 n. Fròhlich, Kathi, 114 Fuchs, Rudolf, 221
Ibn Battiita, 55, 93 Jacobsen, Jens Peter, 126 James, William, 106 Jesenskà, Milena, 135, 165 Jonson, Ben, 350 Joyce, James, 106, 107 400
Kafka, Franz, 11, 87. 97, 111227, 361 - America, 118, 123, 130, 180, 189 - Diari 1910-1923, 87, 115227 - Epistolario, 114-227 - Il cacciatore Gracco, 219 - Il castello, 190, 191, 193, 198 - Il cavaliere del secchio, 219 - Il fuochista, 123, 130, 152, 155, 218 - Il nuovo avvocato, 219 - Il ponte, 219 - Il processo, 137, 169, 171, 175, 176, 179, 180, 183, 184, 185, 189, 190, 191, 193, 198 - Il prossimo villaggio, 219 - Il rifiuto, 202 n. - Il sostituto procuratore, 184 - In galleria, 219 - La condanna, 122, 125, 130, 148, 155, 188 - La costruzione della muraglia cinese, 202 n., 220 - La metamorfosi, 123, 124, 130, 140, 146,149, 152, 188, 189, 200, 218, 341 - La talpa gigante, 184 - La tana, 200 - Lettera al padre, 134 - Lettere a Felice, 111-227, 361 - Meditazione, 114, 117, 125, 126, 127, 128, 130, 144, 187 - Nella colonia penale, 140, 180, 183, 190, 218 - Preparativi di nozze in campagna, 195 - Quaderni in ottavo, 227 - Ricordo della ferrovia di Kalda, 180, 200 - Sciacalli e Arabi, 219 - Una vecchia pagina, 197 - Un medico condotto, 197, 219, 220
Kafka Ottilie (Ottla), 138, 214, 215, 218,219, 222, 223, 224 Kafka, Valerie (Valli), 131 Kalmar, Annie, 356 Kant, Immanuel, 227, 342 Kerr, Alfred, 349 Kierkegaard, Soren, 94, 114 Klabund (pseudonimo di Henschke, Alfred), 212 Kleist, Heinrich von, 114, 158 Korsakov, Sergej S., 295 Kraus, Karl, 11, 61-76, 334, 335, 337, 345-378 - A Sidi per il giorno delle nozze (Metamorfosi), 369 - . Die Fackel », 73, 74, 347, 348, 349, 350, 353, 354, 365, 367 n., 371, 377 - Gli ultimi giorni dell'umanità, 69, 352, 353, 354, 363, 375, 377, 378 - Il declino del mondo a causa della magia nera, 371 - Lettere a Sidonie Nàdherny von Borutin, 355, 874 - Nestroy e la posterità, 355 - Parole in versi, 369 - Vita senza vanità {Tulio o niente), 367 Lagerlof, Selma, 126 Lasker-SchUler, Else, 74, 128, 129 Lazarus, Michael, 355 Lenz, Jacob M.R., 314, 316, 319, 320 Li Chi (Libro dei Riti), 282, 283 Lichtenberg, Georg Christoph, 311 Lindner (collega di Felice Bauer), 125 Luigi II di Baviera, 258 Luning, 321 Lutero, Martin, 260 401
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Mann, Heinrich, 344 - Henri Quatre, 344 Mann, Thomas, 343, 344 Merkel, Georg, 343 Methlagl, Waher, 355 Michelangelo Buonarroti, 331, 342 Milena, vedi Jesenska Minnigerode (amico di Biichner), 316, 321 Muhammad Tughlak, 54 Miihlstein (medico di Kafka),
Ribbentrop, Joachim von, 248 Rilke, Rainer Maria, 218, 356, 357, 358, 359, 360, 364, 369 - Lettere a Sidonie Nàdherny von Borutin, 357 Rolland, Romain, 377 Roosevelt, Franklin D., 274 Rosenberg, Alfred, 264 Rousseau, Jean-Jacques, 287 Rowohlt, Ernst, 117
221
Schermann, Raphael, 372 Schnitzler, Arthur, 129 - Anatol, 129 - Girotondo, 129 - Il sottotenente Gusti, 129 - Professor Bernhardi, 128 Schober, Johann, 335 Schreber, Daniel Paul, 56-60, 250, 265 - Memorie di un malato di nervi, 56, 57 Schulz, Caroline, 325 Scott, Walter, 95 Sei Shonagon (Libro del guanciale), 93 Seitz, Karl, 333 Shakespeare, William, 69, 74, 98, 324, 388 Sinclair, Upton, 339 Socrate, 350 Sofocle, 85, 126 - Aiace, 85 Speer, Albert, 12, 239-274 - Memorie del Terzo Reich, 241 n., 265 Stalin, losif V., 273 Stendhal, 74, 96, 97, 340, 341 - Il rosso e il nero, 340 Stòber, August, 321 Stoessl, Otto, 127 Strindberg, August, 74 Suhrkamp, Peter, 344 « Svizzera » la, vedi G.W. Swift, Jonathan, 68, 350
Murasaki Shikibu (Storia di Genji), 93 Musil, Robert, 107, 337, 343 Mussolini, Benito, 52 Nàdherny, Johannes von, 356 Nàdherny, Karl (Charley) von, 356-370 Nàdherny, Sidonie (Sidi) von, 355-378 Napoleone I, Bonaparte, 144, 249, 251, 256, 257, 266 Nestroy, Johann, 69, 71, 74, 350 Offenbach, Jacques, 69 Omero (Odissea), 74, 388 Ovidio (Metamorfosi), 388 Paolo, 373, 376 - Lettere ai Corinzi, 373 Pascal, Blaise, 94, 114 Pavese, Cesare, 87 Pfafflin, Friedrich, 355 Po Chù-i, 202 n. Poe, Edgar Allan, 74 Pollak, Oskar, 198 Proust, Marcel, 93, 98, 106 Quevedo y Villegas, F.G., 68, 350 Ramorino, Gerolamo, 314 402
Tliun, Max, 355 Todt, Fritz, 249 Tolstoj, Lev N., 11, 285-295 - Diari, 288 - Opere complete, 289 Tolstoj, Masa, 290, 292 Tolstoj, Sasa, 295 Tolstoj, Sergej, 292 Tolstoj, Sofia Andreevna, 288-295 Tolstoj, Vanicka, 291 Trakl, Georg, 66, 74 Troyat, Henri, 294 n. Tsu, duca di, 280 Tucidide, 335
Wedekind, Frank, 74, 129 - Hidalla, 129 Weiss, Ernst, 161, 168, 169 Weltsch, Felix, 227 Weltsch, Lise, 220 Werfel, Franz, 126, 157 Wittgenstein, Ludwig J., 26 Wolffi, Kurt, 152, 220 Wotruba, Fritz, 343 Woyzeck, Johann Christian, 321 Wu Ch'éng-én (Lo Scimmiotto), 202 n.
Waley, Arthur, 202 n. Walser, Robert, 130 Webern, Anton von, 337
Zampa, Giorgio, 174 n. Zinzendorf, contessa di, 212 Zola, Émile, 106
Yen Hui, 282
403
r FINITO DI STAMPARE NEL MAGGIO
2007
IN AZZATE
DAL CONSORZIO ARTIGIANO «L.V.G.»
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