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Italian Pages [188] Year 1949
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nuovamente questa immagine per esprimere il medesimo
concetto che diventera un dogma per la storiografia del sec. XIX, dopo che Michelet avra scritto: « C’est bien la le fond des tenebres. Et il se passe un demi-siécle sans que Vimprimerie y raméne un peu de lumiere» (123). Come per la prima metafora di carattere piu generale, anche per questa credo che non si possa contestare che ai
francesi essa venne fatta conoscere dagli italiani unitamente alla coscienza della nuova eta. I nostri umanisti infatt1 adoperarono essi pure tale espressione e talvolta Yabbellirono con variazioni suggerite dalla loro immaginazione poetica e dal loro gusto. Il Poliziano, ad esempio, sl serve di essa in modo curiloso e non privo di originalita. Trattando dell’opera di Platone, egli cerca di spiegare l’intimo significato del mito della caverna cosi: « Vinctos in tenebris Ihomines nullos esse alios quam vulgus et ineruditos; liberum autem illum clara in luce et exemptum vinculis hune esse ipsum philosophum de quo iamdiu loquimiur» (124). Questo testo @ importante non solo percheé ripete la formula con una originalita sua propria, ma principalmente perché indica in modo chiaro che quando gli umanisti accennavano alle tenebre, intendevano parlare
delV’ignoranza propria degli indotti mentre con la luce significavano la dottrina e per essa la verita. Che gli umanisti indicassero con queste espressioni tanto l’epoca medievale quanto gli uomini privi di cultura classica, lo riprova ancora questo altro testo del Poliziano che parlando di Omero si domanda: « An erimus barbaris quoque ipsis Guriores atque immaniores ut hoc celeste opus in quo tot
virorum lumina studium omne suum atque industriam posuerunt, ipsi in camoenarum gremio enutriti lacere neglectum in situ atque in tenebris patiamur? » (125). Come si vede gli umanisti adoperavano l’immagine con una certa liberta, applicandole differenti significati che tutti pero si riducevano all’unico concetto di opposizione tra due diverSi periodi culturali. Inneggiando ad Alessandro Farnese, M. A. Flaminio si domandera: (123) J. Michelet, La Renaissance, op. cit., p. CXXXIIL. (124) Poliziano, Praelectio in priora Aritstotelis Analytica ttfulus Lamia, in Opera, vol. II, Lione, 1537, p. 23. (125) Poliziano, Oratio in Homerum, op. cit., p. 101.
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« ...quis putasset
Post tot saecula tam tenebricosa Et tot Ausoniae graves ruinas Tanta lumina tempore uno Oriri potuisse? » (126).
Secrivendo al marchese Leonello di Ferrara il vecchio Guarino ringrazia per il dono di un manoscritto di Plauto e riconosce nell’opera dellillustre protettore un valido mezzo per cul lo scrittore classico «é stato
dalle tenebre alla luce, dagli antri ai ginnasi, dalla
morte alla vita richiamato» (127). Né diversamente si esprime il Landino il quale, lodando Jlopera del Ficino, riconosce come egli abbia riportato nel giusto onore Platone (« divinam disciplinam plurimis iam saeculis situ temporum hominumque tenebris obrutam, in luce revocavit ») (128). Cosi ancora il Boccaccio nella lettera a Jacopo Pizzinghe adopera questa metafora e parlando del Petrarca dice: « Homo tam grandi nisu et elucubratis suis operibus iam undique clarescentibus, emissa quasi per universum volatili tuba, poeticum diffudit nomen a se in lu-
cem e latebra revocatum et spem fere deperditam in generosos suscitavit animos » (129). Col Boccaccio eccoci nuo-
vamente al Petrarca al quale si giunge dopo una lunga esplorazione circolare. Scrivendo al popolo romano quelia lettera in onore di Cola di Rienzo che giustamente é stata considerata come un manifesto del nuovo spirito della rinascita di Roma, proprio in quella lettera, vicino alla metafora generale, si trova pure questa piu particolare. Ricordando ai romani l’opera del tribuno, lumanista h pre-
ga di tutelare la sua vita e la sua attivita ed aggiunge: « Neve qui in luce fecit omnia, immo qui quantum per hominem fieri poterat, lucem mundo reddidit, in tenebris
condemnetur» (130). JI senso nuovo con cui qui viene (126) M. A. Flaminio. Hendecasyllabi ad Alexandru Farnesium cit. da D. Gnoli, Fasti letterart nella Roma di Leone X in Nuova Antologia, genn. 1930, p. 3.
(127) Testo citato e tradotto da G. Carducci, Prinvi svaght e studi dell’Ariosto in Nuova Antologia, genn. 1933, p. 6. (128) C. Landino, De vera nobilitate in Fossi, Monumenta ad Alamanni Rinuccini vitam contexendam, Firenze, 1791, p. 113. (129) Boccaccio, Epistola a lTacopo Pizzinghe, in Lettere edite ed inedite, Firenze, 1877, p. 189 seg.
(130) Petrarca, Eptstolarum sine lUttulo liber IV, in Opera, op. cit., vol. II, fol. 715.
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adoperata ’immagine non puo che ridursi a quello comune
cioé rinascenziale. Quando si pensi quale valore attribuisse il Petrarca all’opera del Rienzo e come da questo egli attendesse la restaurazione dell’antica potenza romana, questo testo deve essere interpretato richiamandosi alla coscienza storica dell’autore.
Tuttavia il modo con cui la comune metafora viene espressa ha il grande vantaggio di indicare le possibili fonti da cui essa viene tratta. Poiché giunto nella ricerca a quello che io credo il principio dell’evoluzione umanistica della metafora, non e possibile trascurare di doman-
darsi se gli umanisti, e per primo il Petrarca, erano originali in questo modo di esprimere un concetto tanto radicato nella loro mentalita oppure se non si servirono di un’immagine per altre vie familiare alla loro cultura. Ora proprio questo ultimo testo, per lo strano modo con cul si richiama ad un motivo evangelico, mi ha spinto a cercare appunto dalla parte della tradizione biblica. In verita la formula si trova pure nella letteratura classica e Lucrezio, ad esempio, incominciando al principio del ter-
zo libro del De rerum natura l’elogio di Epicuro, per indicare come il filosofo abbia saputo additare i veri beni della vita, dice testualmente che egli seppe «e tenebris tantis tam clarum extollere lumen» (131), intendendo che la luce della verita finalmente rischiarava gli uomini che nelle tenebre cercavano una soluzione al problema della condizione umana. Nell’opera del poeta latino la formula
e frequente ma non mi pare che si possa indicare una tradizione costante che la ricongiunga con quella umanistica. Probabilmente essa pote confermare luso pitt che
offrire lespressione adatta di un concetto che nel suo
significato non storico ma comune, ée di tutti 1 tempi. Ad ogni modo, comunque si risolva il problema che sorge dal
testo classico, mi pare che, diversamente da quanto avviene per Lucrezio, si possa dimostrare lesistenza di un reale sviluppo della metafora quando si porga attenzione alla tradizione biblica (132). Cotesta metafora infatti si (131) Lucrezio, De rerum natura, Ill, 1.
(132) Abbiamo qui ancora un esempio di come nel Medio Evo la cultura profana derivi per linea diretta da quella sacra. Fatto che recentemente ricordava Leo Spitzer (Modern language Notes, giugno 1941, p. 222), quando scriveva: « C’est un fait cou-
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trova indicata dalla Bibbia nel versetto: « Exortum est in tenebris lucem rectis, misericors et miserator» (133); e viene ripresa da un secolo allaltro da diversi autori sempre secondo una direzione e per opera di una precisa influenza. Il significato e del tutto identico a quello classico:
la verita e la luce che sorge tra le tenebre dell’errore.
Questo appunio voleva significare levangelista Giovanni
quando riporta l’espressione del Cristo: «Ego sum lux mundi, qui sequitur me non ambulat in tenebris sed habebit lumen vitae» (VIII, 12); oppure quando dice: « Lux in tenebris lucet et tenebrae eam non comprehenderunt » (1, 5). S. Paolo ripete il medesimo concetto con JVidentica immagine scrivendo ai Tessalonicesi: « Omnes enim vos
filiz Iueis estis ct filii Dei; non sumus noctis neque tenebrarum» (V, 5); ed ancora quando afferma: « Eratis enim aliquando tenebrae, nune autem lux in Domino » (ad Ephesios, V, 8). Si forma cosi una tradizione che S1 vale della concezione cristiana ed e facile quindi tro-
vare nei Padri ripetuta la metafora sempre con Videntico significato. S. Ambrogio nel De virginitate (134) dice che Cristo e la luce per chi fugge le tenebre (« si tenebras fugis, lux est»)» e nel De officiis ministrorum (135) ripete il medesimo concetto scrivendo: « Omnis enim qul lucem fugit, diligit tenebras ». Ugualmente S. Payant dans Ja civilisation mediévale que cette prévalence et priorité du terme religieux, toute scicnce au moyen-dge empruntant de préférence son vocabulaire au langage eccl¢siastique ». Sullo stesso concetto vedi ancora quanto scrive lo stesso Spit er in Romanta, tomo LXIX, 273, 1 (1946) a proposito di Maria di Francia (p. 90). Sulla progressiva secolarizzazione delle parole restitutio e renovatio derivate dalla tradizione biblica, hanno messo in. luce numerosi testi prima R. Hildebrand, Zur sogenannten Renaissance in Bettraege zum deutschen Unterricht (Lipsia. “Teubner, 1897, p. 284 sgg.), poi K. Burdach, Riforma, Rinascimento, Umanesimo,
op. cit., p. 5-71. Ouanto Vorigine biblica di una formula letteraria fosse una dipendenza frequente nella culture medievale dimostra anche M. Sahlin, Elude sur la carole médiévale; Uorigine du mot et ses rapports avec Téglise, Upsala, 1940. Cfr. J. Jud, Pour [’histotre de la terminologie ecclésiastique in Revue de linguistique romane, vol, X, p. 55. (133) Salmo CNT, 4.
(134) S. Ambrogio, De viginitate; Migne, tomo XVI, col. 291. (135) S. Ambrogio, De offtctis ministrorum, liber I, cap, XIV; Migne, tomo XVI, col. 39. 10
trizio nel De tribus habitaculis liber (136) afferma che: « Deus qui est invisibilis et incommutabilis lux omnia penetrat... non solum coelestia et terrestria sed etiam infer-
nalia». S. Agostino scrive nel De civitate Dei: « Solus quippe iile ista discernere potuit qui potuit etiam priusGuam caderent praescire casuros et privatos lumine veritatis in tenebrosa superbia remansuros » (187) ed aggiun-
ge che la lotta tra la luce e le tenebre e la lotta tra gli angeli del bene e del male. Ne diversamente si esprime nelle Confessiont dove ricordando il passo dell’Evangelista gia citato, rivolgendosi a Dio, riconosce in lui l’unica luce della verita che deve disperdere le tenebre dell’errore dei
Manichei (138). Piu frequentemente il concetto biblico e con esso limmagine che ci interessa, 6 sviluppato nel commenti dei Padri al testo sacro. Cosi S. Girolamo, commentando il passo di S. Paolo agli Efesini, spiega linsegnamento dellapostolo cosi: « Sicut autem iusti sunt lumen mund?, Sic imph consequenter tenebrae vocabuntur; et iusti
quidem cum sint lumen, videbunt lumen in lumine; inlusti autem cum sint tenebrae, populus sunt sedens in tenebris et nihil videns» (139). Per opera della grande diffusione della Bibbia e dei commenti di cui l’arricchivano
gli autori cristiani, l’analogia della verita con la luce e cell’errore con le tenebre si generalizzo sempre piu. BoeZio accennando alla penosa condizione in cui si venne a trovare la sua intelligenza in un particolare momento della vita, dice nel De consolatione philosophiae: « Heu quam praecipiti mersa profundo Mens hebet et propria luce relicta Tendit in externas ire tenebras (140). (136) S. Patrivio, De Oibus habitaculis liber; Migne, tomo LIT, col. 838. (137) S. Agostino, De crvilate Dei, Jibcr XI. cap. NIN. Migne.
tomo NIL, col. 353. Circa la paicla luce come metafora indicante la dottrina gnoseologico-metafisica di S. Agostino cfr. G. Capello, Introduzione a Le confessioni di S. Agostino, Torino, Marietti, 1945, p. LXXNII, (138) S. Agostino, Conrfessioni, libro IV, cap. 15, ediz. G. Capello. op. ctt., p. 152. (139) S. Girolamo, Commentariorum in epistolam ad Ephesios libri TIT; Migne, tomo XXVI, col. 523.
(140) Boe.1o, De consolatione philosophiae; Migne, tomo LXITI, col. 593.
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Pi avanti nella medesima opera lTautore esalta ancora opera della filosofia che, allontanate le tenebre che velavano i suoi occhi, gli ridava lo splendore della luce solare (141). Proprio in questo testo si puo vedere, come
poco a poco la metafora perda il suo carattere strettamente religioso per passare ad indicare in un modo piu generale la verita filosofica e l’errore di qualunque genere esso fosse. Cosi Cassiodoro nel De institutione divinarum litterarum, consigliando con fine intuizione lo studio dei classic1 perche da essi un monaco avrebbe potuto apprendere molte nozioni necessarie alla formazione religiosa, ricordava pure come fosse facile essere allontanati dalla verita quando si concedesse una eccessiva importanza agli autorl pagani. « Quanti enim philosophi, egli aggiungeva, haec solummodo lectitantes, ad fontem sapientiae non ve-
nerunt et vero lumine privati, ignorantiae caecitate demersi sunt!» (142). La metafora adopera pure Alcuino scrivendo a Carlo Magno. Dopo aver esortato il suo re a perseverare nel cammino intrapreso per cooperare con la Chiesa all’opera di evangelizzazione delle genti a lui soggette, egli osserva: « Haec est, o dulcissime David, gloria,
laus et merces tua in judicio diei magni et in perpetuo sanctorum consortio; ut diligentissime populum, excellentrae vestrae a Deo commissum, corrigere studeas et igno-
rantiae tenebris diu animas obcaecatas ad lumen verae fidet deducere coneris» (143). In un/’altra lettera (144) egli ritorna sul medesimo concetto, ricordando ai suoi mo-
naci quale beneficio essi avevano ricevuto perché: « divina misericordia de terra tenebrarum et frigoris, de regione ignorantiae et iniquitatis transtulit in loca lucis et laetitiae ». Ugualmente nella sua Grammatica, egli si serve della metafora per indicare l’importanza propedeutica dello studio delle lettere. « Oculi itaque si splendore solis vel alia qualibet lucis praesentia asperguntur, perspicacissime, quidquid obtutibus occurrit discernere valent: caeterum si(141) Boezio, De consolatione philosophiae, op. cit., col. 601. (142) Cassiodoro, De institutione divinarum litterarum: Migne, tomo LXX, col. 1142.
(143) Alcuino, Epistolae; Migne, tomo C, col. 207. Lettera a Carlo Magno dell’anno 796.
(144) Alcuino, Epistolae, op, cit., lettera CXII, col. 340. V2
ne lucis accessu in tenebris manere notissimum est» (145). Ancora egli si domanda: « Quid pulcrius luce? et haec te-~ nebris succedentibus obfuscatur » (146), effermando che la
verita é€ continuamente velata dalle tenebre dell’errore che ogni uomo si deve sforzare senza sosta di disperdere. E’ facile risalire per questa via 1 secoli medievali per dimostrare con nuove attestazioni quanto il concetto e Vimmagine fossero comuni. Ancora Pierre de Blois espvi-
meva lI'uno e laltra quando in una lettera affermava che gli antichi sono la fonte della vera scienza che non si pus acquistare senza un lungo lavoro intellettuale. « Scriptum est, egli diceva, quia in antiquis est scientia... Nam de tenebris ignorantiae ad lumen scientiae non ascenditur nisi antiquorum scripta propensiore studio relegantur » (147). Ma piu che collezionare dei testi (148), dopo aver di(145) Alcuino, Grammatica; Migne, tomo CI, col. 850.
(146) Alcuino, Grammatica, of. cit., col. 851. Nelle opere di Alcuino si trovano pure delle espressioni che potrebbero giovare a coloro che sostengono il valore rinascenziale del rinnovamento culturale al tempo di Carlo Magno, Cosi nella lettera LAV (Migne, tomo CG, col. 235) egli scrive: « Sacrae lectionis
studia omnimodis renovate vobiscum, ne pereat labor noster in librorum collectione ». Scrivendo a Carlo Magno a proposito della sua riforma scolastica (Migne, tomo C, lettera CI, col. 315) egli
dice: «Sed sicut totius sapientiae decus et salutaris eruditionis ornatus per vestrae nobilitatis industriam renovart incipit, ita et horum usus in manibus scribentium redintegrandus esse opiime videtur », Tuttavia questi testi indicano, a mio avviso, piuttosto 1 limiti in cui deve essere contenuto tale concetto di rinnovamento. Se si deve credere all’esistenza di una rinascenza tutte le volte che si constata un rifiorire degli studi, allora non vi e€ pitt alcun limite all’uso di questo termine. Bisognera risalire, oltre la rinascenza carolingia, a quella del sec. V; ma chi si avventurera in questo tentativo non potra dirsi originale perché preceduto dal Boissier il quale scrisse (La fin du Paganisme, Parigi, 3° ediz., 1898, p. 430): «En réalité le XIV® siecle a repris le travail brusquement interrompu par les barbares au V° siécle... on peut dire sans exagération que du temps de Théodose la Renaissance commencait ». Come si vede, su tale via é facile moltiplicare le rinascenve all’infinito. Una precisa messa a punto del problema e& stata scritta, soprattutto per quanto riguarda la supposta rinascenza del sec. XII, da W. A. Nitze, The so-called Twelfthe Century Renaissance in Speculum, XXIII (1948), pp. 464-471. (147) Pierre de Blois, Epistolae; Migne, tomo CCVII. lette-
ra Cl, col. 313. (148) Circa la nozione di tenebra propria alle potenze non cognitive cfr. A. Combes, Jean Gerson commentateur dionysien,
mostrata la larga diffusione della metafora, é di interesse capitale indicare 11 momento in cui questa, lasciato il suo originale valore religioso, passo a significare un conceito letterario e con esso la transizione da un periodo di poca
cultura ad uno di grande fervore per gli studi. Bisogna a auesto scopo riportarsi ancora una volta al Petrarca. Nell’Apologia infatti, accennando agli antichi, egli afferma
che quel nobili ingegni seppero ugualmente brillare di viva luce pur nelle tenebre dell’errore in cui erano immersi. « Nullo enim modo divinarum rerum veritas appa-
rere llis poterat, quibus nondum verus sol iustitiae illuxcrat. Elucebant tamen inter errores ingenia, neque ideo minus vivaces eranl oculi, guemvis tenebris et densa cali-
give circumsepti, ut els non erranti odium sed indignae sortis miseratio deberctur » (149). Appare qui evidente che il Petrareca si preoccupava di mettere in evidenza la potenza intellettuale dei classicl e come essi avessero saputo giungere talvolta alla verila senza avere avuto quegli aiuti che erano stati offerti ai cristiani con la rivelazione. Ora per esprimere tale concetto che gli umanisti svilupperanno e ripeteranno a sazieta, egli adopera ancora una volta la formula biblica adattandola alla nuova concezione. Fatto significativo che indica come per l’umanista italiano la verita non fosse soltanto quella che derivava dall’insegnamento cristiano ma anche quella che si poteva trarre dai classici, maestri essi pure di sapienza e per questo sor-
genti di vera luce per chi si trovava nelle tenebre della
uma3na itnorenza. Gli ingegni degli antichi avevano saputo brillare ancora prima che il sole della giustizia rischiarasse le vie del vero; la loro esperienza era quindi tento piu prezicsa quanto maggiormente veritiere erano le loro opere. Questa riabilitazione del valore filosofico e morale degti antichi era in diretta dipendenza con la tradizione uimanistica che risaliva ai Padri, almeno a quelli faParigi, Vrin, 1940, p. 218 ed il testo ed il commento a pp. 236237. Numerosi testi in cui la formula viene ripresa nel preciso significato gia in uso presso i medievali si trovano in Charles Boveiles, De sapiente (ediz. Klibansky in Cassirer, Jndividuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance, Lipsia, 1937, pp. 372; 407; 409. (149) Petrarca, Apologia, op. cit., fol. 1083. V4
vorevoli agli antichi (150); ma non tradizlonale bensi nuova ed originale era l’applicazione di una formula che fino ad
allora era generalmente servita sempre per indicare appunto Vopposizione della verita cristiana agli errori dei pagani. Ora invece il Petrarca non temeva di additare quale luminosa verita vi fosse anche fra le supposte tenebre, fissando in tal modo uno dei fondamentali princip1 del’umanesimo secondo il quale gli autori classici avevano gia preparato e talvolta anticipato Vinsegnamento evangelico. In fondo quindi l’applicazione della metafora era un indizio del nuovi rapporti che sl venivano stabilendo tra 11 mondo classico ed 11 mondo cristiano. La storia di
questi rapporti che nel Medio Evo aveva subito alterne vicende, entrava definitivamente nella fase del’? umanesimo rinascenziale; per essa 1 pagani diventavano in modo asso-
luto degli incontestati maestri di verita 1 cui precetti era-
no complementari, ed in certi casi persino superiori, a quelli del Cristianesimo. Le opere classiche venivano quin-
di considerate opere di verita e per analogia, sorgenti di luce; Peta in cul coteste opere erano rivalutate non poteva essere chiamata che una luminosa rinascenza. A tale nuova concezione si opponeva fra Giovanni Dominici quando scriveva, in cortese polemica col Salutati, la
sua Lucula noctis (151). Egli non era che un rappresentante di quella corrente mistica che sopra tutto nel Medio Evo aveva trovato dei validi esponenti e che anche nel momento piu glorioso della rinascita avra dei fedeli seguacl. Questi, In Francia ad esempio, formeranno appunto quel partito rigidamente ortodosso, in opposizione in ugual misura ai riformatori come Lefévre d’Etaples e agli spiriti liberi come Rabelais. Il Dominici adunque non accettava (150) Come ¢ noto, questo concetto ¢ uno dei fondamenti delPumanesimo cristiano quale si sintctiz-a nella precisa formula agosiiniana: « Omnis veritas a quocumque dicatur, a Spiritu. Sancto est» (De doctrina christiana, 1, 2). (151) G. Dominici, Lucula noclis, ediz. Remi Coulon, Parigi,
Picard, 1908. Il Dominici dal Toffanin (Stora dell’Umanesimo, op. cit., p. 143) viene giudicato un isolato fra i letterati italiani. Dubito che anche fra questi possa essere giudicato tale; e certo perO che ancora fra gli uomini del Cinquecento francese egli tro-
va non pochi spiriti affini. Cfr. E. Gilson, La Philosophie au Moyen-dge, op. cit., p. 734.
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la concezione che vedeva nei classici dei maestri di verita
mentre il Salutati e con lui tutti gli umanisti studiavano le opere classiche perche pensavano che era pur quella una vita per giungere a Dio (« noli putare quod, cum vel in poetis vel in aliis Gentilium libris veritas queritur, in vias Domini non eatur») (152). I1 Dominici invece ribatteva che essi rappresentavano le tenebre perché avevano ignorato la paroia di Dio che solo é verita. Negava di conseguenza, pur con curlose contraddizioni fra cui princi-
pale la sua erudizione classica, lo studio degli autori
pagani che non potevano giovare in alcun modo alla formazione cristiana. Sola luce quindi era la luce evangelica. In questo modo, riprendendo il versetto dell’evangelista: « Lux in tenebris lucet et tenebrae eam non comprehenderunt », egli riaffermava il significato tradizionale della metafora quale aveva indicato linterpretazione dei Padri e seguito tutti 1 commentatori medieval, negando nel modo piu assoluto la nuova interpretazione che gli umanisti cercavano di stabilire. Si viene cosi a spiegare l’insistenza con cui lautore ricorda il passo di S. Giovanni che egli scrive a principio della propria opera, che commenta nel
prologo, di cul si serve come acrostico per unire fra di loro 1 diversi capitol. E forse cotesta interpretazione puo
servire pure per spiegare il titolo stesso dell’opera che agli studiosi parve tanto enigmatico (153). A mio giudizio, lo spunto del concetto che il Dominici trovava espresso nel
versetio evangelico si trova proprio nella lettera del Sa-
lutati a fra Giovanni da San Miniato che fu colui che
provoco la discussione. Scrivendo infatti a questo suo contraddittore, il segretario fiorentino diceva: « Verum te video nondum questionis terminos intelligere versarique in illo tuae simplicitatis errore, quo reputas ista nostra poe-
tica grave et inexpiabile nefas esse et pernitiosa mendacla» (154). Poiché la poesia era una menzogna, conteneva in sé lVerrore tenebroso; gli umanisti pensavano invece
che in essa ci fosse nascosta la luminosa verita. Ecco la ragione per cui il Dominici risponde con il versetto del(152) C. Salutati, Epistolario, op. cit., vol. II, p. 539. (153) C. Salutati, Epistolario, op. cit., vol. IV, p. 209, nota.
(154) C. Salutati, Eptstolario, op. cit., vol. IV, p. 175. 16
Vevangelista e rovescia immagine che gli umanisti venivano componendo e secondo la quale Ja Juce di Roma antica
trionfava sulle tenebre dell’ignoranza e lo studio e amore delle lettere classiche vincevano la dimenticanza e labbandono in cui erano state lasciate. « Hine lucem dixerim, scrive il Dominici, quemdam divinae claritatis influxum ad cernendum disponentem potenciam intellectivam creatam de quo, pro statu tam vie quam patrie, illum versiculum caplamus: In lumihe tuo videbimus lumen». Nessuna altra luce quindi che non fosse quella cristiana poteva esistere; all’esterno non vi erano che le tenebre pagane che consistevano appunto nella privazione del raggio luminoso della Saplenza divina. « Tenebras vero sentio nichil aliud esse
quam radii privationem interdicti, inductas, ut sic more vulgi improprie loquar, per aliculus interpositionem opaci inter mentis intuitum et prefatum lumen aeternum » (155). In questa necessita di riaffermare il significato tradizionale della metafora per difendere un concetto non meno tradizionale si trova il principale indizio dell’evoluzione che stava compiendo la metafora stessa. Appena gli umanisti tentarono di appropriarsela, non per svuotarla di ogni valore religioso ma per allargare i] suo significato fino al campo classico, subito trovarono delle opposizioni e dovettero difendere la loro concezione. La preparazione culturale, la capacita intellettuale, infine le doti letterarie che erano le qualita di quei nobili ingegni seppero mantenere ferma la nuova interpretazione; ma ugualmente gli oppositori ebbero il modo di ricordare loro quanto di tradizionale vi fosse in una concezione che tendeva a negare ogni rapporto
col periodo precedente. Infatti @ cosa ben curiosa, anche se comprensibile, che per indicare lo spirito nuovo che doveva separarli completamente dall’eta di mezzo, gli umanisti si siano serviti appunto di una metafora offerta dalla tradizione medievale. Fatto per se stesso molto istruttivo perche indica come involontariamente la storia si vendichi contro chi tenta di corrompere con troppo rigorose classificazioni la sua essenza stessa che e nell’eterno divenire. Mi pare quindi possibile stabilire come conclusione che agli umanisti non sfuggi Vimportanza dell’opera che ave(155} G. Dominici, op. cit., prologus, pp. 1-2. 77
vano intrapreso. Questa loro coscienza storica che cosi chiaramente appare nelle loro opere, essi espressero con delle immagini tratte dalla loro stessa cultura che, essendo fon-
damentalmente cristiana, offriva loro in grande numero quelle cognizioni bibliche di cui essi sl servirono per costruire il loro nuovo mondo culturale. Pur con le importanti differenze caratteristiche dei vari gruppi e delle varie epoche, tutti quegli studiosi erano uniti da un’unica concezione che essi stessi opponevano a quella medievale, inconsapevolmente forse dimenticando come ne fossero gli eredi diretti.
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Capitolo terzo
UN TESTO DI MELANTONE
I. - L’importanza delle testimonianze che dimostrano la
differenza di concezione tra gli umanisti italiani e francesi circa la durata del periodo medievale.
kX’ stato dimostrato nel capitolo precedente che gli umanisti, nella loro volonta di rinnovare lo spirito classico, furono portati a disprezzare, almeno apparentemente, ogni traccia della cultura medievale. Questa particolare tendenza agi sull’interpretazione che quegli studiosi diedero delle vicende storiche e li spinse a creare uno Schema storiogra-
fico in cul lo sviluppo, la decadenza ed il rinnovamento dello spirito classico corrispondevano rispettivamente all’eta romana, medievale e rinascenziale. Lo schema venne ado-
perato sopra tutto per fissare le principali fasi della storia della lingua latina che era appunto lelemento piu concreto della concezione umanistica. L’interpretazione che ne deri-
vo fu a tal punto caratteristica della nuova mentalita e
cosi aderente che si diffuse in tutti 1 centri di cultura tanto che non v’é umanista il quale non abbia fatto uso, anche indirettamente, di quelJa precisa concezione storiografica. Per
questo motivo non e difficile trovare dei testi in cui gli umanisti descrivono l’evoluzione della lingua latina ripetendosi lun Il'altro, adoperando le medesime espressioni e ricordando i medesimi autori. Ho gia detto che per trovare la prima formulazione di questo schema storiografico bisogna risalire al Petrarca. Il poeta infatti, anche se non definisce in modo preciso le tre epoche, affermando da un lato che dopo Boezio nessun
scrittore conobbe la purezza del latino classico e da un altro lato che a lui spetta il merito di aver rinnovato la lingua ciceroniana, implicitamente fissa la nuova interpre19
tazione. Tuttavia, a mia conoscenza, lo schema appare in tutta la sua precisione soltanto con Coluccio Salutati. Scrivendo al card. Bartolomeo Oliari, Pillustre umanista ricorda i principali scrittori latini per paragonarli a Cicerone, anticipando con un simile paragone una pagina famosa del Ciceronianus di Erasmo (1). Egli limita la grande eta classica con Macrobio ed Apuleio ed indica in Agostino e Simmaco gli ultimi scrittori latini degni di questo nome. Dopo di essi non vi e che lignoranza medievale. « Post quos, egli dice, tanta rei huius iactura facta est tantaque mutatio, ut Maronico versiculo liceat conqueri quod ’ex illo fluere ac retro sublapsa referri’ eloquentia visa sit» (2). E’ pur vero che sono ricordati Bernardo di Chiaravalle, Ildeberto, Abelardo ed altri, ma ’lumanista osserva che essi non sono degni
neppure di essere paragonati ai classici. Il principio della
nuova eta e segnato dall'‘opera di Albertino Mussato: « Emerserunt parumper nostro saeculo studia litterarum et primus eloquentiae cultor fuit conterraneus tuus Musattus Patavinus » (3). Come si vede, lo schema é qui chiaramente indicato nelle tre epoche nettamente distinte. I] giudizio critico dell’umanista fissa il valore di ciascuna di esse, basandosi puramente su di un criterio estetico: la bellezza formale della prosa latina. Questa particolare posizione critica ci spiega la ragione delle variazioni dei limiti dell’eta di mezzo nello schema in rapporto al mutare dei tempi e degli autori dai quali esso veniva usato. Nel Cinquecento, quando per la lunga dimestichezza con i classici e per la loro attenta imitazione, il gusto del latino elegante si sara largamente diffuso, 1 termini saranno spostati in modo da prolungare il piu possibile epoca medievale. Allora anche nei cenacoli umanistici d’oltralpe che erano stati 1 piu renitenti, si ammettera che l’epoca della decadenza medievale era durata da
Boezio al Petrarca. Caratteristica a questo riguardo é la prefazione scritta da Jean Despautere per la sua Ars ver(1) C. Salutati, Epistolario, op. cit., vol. Ill, p. 76 spe. (2) C. Salutati, op. cit., vol. III, p. 82-83. (3) C. Salutati, op. cit., vol. III, p. 84. Testo che conferma la tesi
che a taluni parve ardita del Toffanin. Cfr. Che cosa fu ’?Umanesimo, ‘Torino, Bocca, 1920, cap. V; Storia dell’'Umanesimo, op. cit., Pp. 56 seg.
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sificatoria (4). Tracciando a grandi linee la storia della decadenza della lingua latina, l’umanista ricorda lopera devastatrice dei Goti 1 quali distrussero con la loro barbarie la potenza della spiritualita romana. Dopo Claudiano, Ausonio e Boezio non vi fu piu alcun scrittore latino ed alcun poeta perche i barbari disprezzavano la bellezza dell’arte che non comprendevano. Gli stessi cristiani dimenticarono i grandi poeti che rifuggivano « ut diaboli pabulum ». Solo dopo lunghi secoli di tenebrosa ignoranza il Petrarca, « non sine divino numine », proclamo la guerra a cosi profonda barbarie e risollevo al dovuto onore gli studi umanistici. In tal modo Despautére fissa 1 termini dell’eta di mezzo,
volutamente dimenticando tutta JVattivita letteraria che
avevano esplicato nei vari secoli medievali numerosi autori che il Salutati giudicava pur degni di un ricordo. Nel Cinquecento non vi é€ piu alcun ricordo per essi; il rinnovamento dell’epoca carolingia, quello del sec. XII non hanno alcun valore per quegli uomini tutti presi dal puro amore per Vantichita (5). Lo schema nella sua rigidezza e direi quasi nella sua severita critica viene adottato pure dal Vivés (6). Analizzando le ragioni della decadenza degli studi liberali, Puma-
nista spagnuolo traccia la storia della loro varia fortuna e ricorda come per essi sia stata fatale ’invasione dei barbari 1 quali avrebbero distrutto ogni traccia della civilta romana bruciando le biblioteche e con esse le grandi opere degli autori classici. « Simul, egli dice, irrisae sunt ab eis linguae ac studia omnia nec solum eis detractum est pre-
tium sed contumelia addita» (7). Dimenticata la lingua latina, gli studi liberali vennero abbandonati ed una oscura notte oppresse per plu secoli le intelligenze. Finalmente dopo tanto male qualche studioso pieno di coraggio risuscito Vantico spirito classico tanto che ’umanista poteva affermare: « Revertuntur tam longo postliminio graeca_ et (4) J. Despautére, Ars Versificatoria, Parigi, Josse Bade, 1516. (5) Giulio Cesare Scaligero nella sua Poetica fa la storia della
poesia latina senza ricordare il Medioevo, Cfr. CH. S. Baldwin, Renaissance Literary Theory and Practice, op. cit., p. 4. (6) L. Vivés, De causis corruptarum artium, in Opera, Basilea, 1555, tomo I, fol. 325 e sgg. (7) L. Vivés, op. cit., fol. 334. 81
Jatina lingua seu renascuntur verius» (8). Piu avanti nella stessa opera l’autore riprende lo schema quando si propone di scrivere la storia della rettorica. Dopo aver indicato la
fine del’eloquenza romana negli ultimi secoli dell’impero, accenna alla debolezza dell’eloquenza cristiana che ando sempre piu imbarbarendosi fino alla sua completa estinzione. Solo per opera degli umanisti italiani viene ripresa la grande tradizione classica. « Memoria patrum et avorum, egli dice, coeptum est in Italia revocari studium linguarum...» (9). Come si vede lo schema e sempre il medesimo; dal Pe-
trarca ai cinquecentisti esso rimane immutato nella sua triplice divisione e nel preciso giudizio che gli umanisti danno di ciascuna eta. Bisogna tuttavia osservare che cotesta immutabilita non impedi alcune innovazioni nei particolari. Infatti sono importanti le modifiche cronologiche che vennero adottate dagli umanisti. Importanti, dico, perche esse ci offrono 11 modo di comprendere le caratteristiche che distinguono le mentalita particolari ai vari centri di studio, indicandoci le principali tendenze delle diverse formazioni cultural. Il primo cenacolo umanistico francese per opera di Nicolas de Clamanges non accettava la durata del periodo medievale da Boezio al Petrarca. Richiamandosi agli scrittori del sec. XII, Pumanista chiaramente indicava di conside-
rare quel periodo come importante per il rinnovamento classico che veniva separato da quei precursori soltanto da due secoli di tendenze anti-letterarie. I] cenacolo di R. Gaguin era della medesima opinione; in polemica con gli italiani, 1 francesi pensavano che la barbarie medievale si prolungava durante i trecento anni che erano trascorsi dal movimento culturale del sec. XII. Questa precisa variazione cronologica imposta allo schema degli umanisti italiani é significativa. Essa indica non solo il grado di formazione culturale dei francesi, meno raffinati nel gusto e quindi meno severi nella loro classificazione, ma principalmente essa ci fa comprendere che la tendenza era diversa da quella italiana perché preoccupata maggiormente del problema teologico. Richiamandosi infatti agli scrittori del (8) L. Vives, op. cit., fol. 335. (9) L. Vives, op. cit., fol. 401. 82
sec. XII gli umanisti francesl indicavano di voler continuare quella particolare mentalita; né e@ necessario insistere sulle differenze di quest’ultima rispetto al nuovo spirito umanistico italiano (10).
II. - Melantone riwnisce la concezione italiana e quella francese in una nuova interpretazione storica che svaluta anche umanisticamente Vopera degli scolastici del sec. XIII. Tenendo presente quanto sono venuto precisando, cioé
da un lato Vesistenza di un rigido schema storiografico usato dagli umanisti per localizzare storicamente la loro opera rinnovatrice, da un altro le modificazioni cronologiche che a cotesto schema gii stessl1 umanisti Imponevano secondo le loro tendenze, si potra comprendere l’effettivo valore di un testo di Melantone che mi propongo di ilustrare.
Parlande a Wittenberger nel 1518 sulla necessita di riformare gli studi, lillustre umanista tedesco (« le seul capable de succéder dans la littérature a la réputation d’Erasme », secondo i] giudizio di Bossuet) (11), dopo aver ricordato 11 rapido mutamento che si era realizzato nell’insegnamento grazie all’applicazione dei nuovi metodi umanistici, traccia egli pure la storia delle vicende subite dalle (10) ‘Tuttavia vale la pena notare che questa differenza é quan-
litativa e non qualitativa poiché tanto per gli italiani come per
i francesi del sec. NV Videale umanistico consisteva nell’unione delia eloquentia con la sapientia. Soltanto pensando che questo ideale derivava tanto in Italia) quanto in Francia dall’unica tradiztone medievale si pud accogliere l’interpretazione recente che vuol vedere ncl movimento umanistico francese del sec. XV un carattere decisamente autonomo da quello italiano. Si veda per
le ragioni a favore e contrarie E. Gilson, La philosophie au Moyen-dge, op. cit., p. 749; A. Combes, Jean de Montreuil et le Chancelier Gerson. Contribution a lhistoire des rapports de
umanisme et de la théologie en France au début du XV® siécle,
Parigi, Vrin, 1942, p. 601; L. Mourin, Stix sermons francais inédits de Jean Gerson, Parigi, Vrin, 1946, p. 537; F. Simone, Rassegna di studt sul Quattrocento francese, op. cit., p. 166 sgg. (11) Bossuet, Histoire des variations des Eglises protestantes
in Oeuvres complétes, 1862, tome IV, p. 484. 83
arti liberali (12). L’autore incomincia col ricordare l’opera devastatrice dei Goti: « Simul cum Romano imperio Ro-
manae litterae sunt intermotuae, quod una belli furor et bibliothecas exciderat et Musas otio, ita ut fit, negato extinxerat ». A causa delle nuove tendenze dei popoli in-
vasor! la grande cultura classica veniva indebolendosi anche se essa trovava ancora un valido sostenitore nel papa Gregorio del quale l’umanista ricorda lopera attiva come di colui che « Romanam ecclesiam administravit et infelicisimi saeculi casum, quoad potuit, docendo scribendoque sustinuit». Ma ugualmente poco a poco ogni segno di vita culturale scompariva dall’italia, dalla Francia e dalla Germania. « Frigebat Italia, frigebat Gallia, Germania ut semper armis quam litteris instructior erat, eaque
tum potissimum in Italia saeviebat». L’Irlanda diven-
tava l’ultimo rifugio delle lettere classiche; cola dei mo-
naci studiosi ed attenti tenevano accesa l’ultima, e la prima?, fiamma dello studio delle lettere classiche. Melan-
tone ricorda il venerabile Beda, esprimendosi in termini eloquenti: « Verum hactenus in Scotis atque Hibernis litteras diuturna pax aluerat, clarebantque ii cum aliis qui-
busdam tum maxime venerabili Beda, Graece et Latine haud vulgariter perito, ad haec in philosophia, mathemati-
cis, sacris sic erudito ut cum vetustis quoque conferri posset ». Per opera dei monaci irlandesi si preparo il movimento letterario dell’ epoca carolingia. Melantone accenna chiaramente all’importanza di questo primo rinnovamento medievale, né si lascia sfuggire lopera compiuta da Carlo Magno né Vimportanza di Alcuino. «In hunc re-
rum statum, egli dice, Carolus natus cum fines Romani imperil pacasset, ad instaurandas litteras animum adiecit: nam et ipse praeter multarum linguarum cognitionem plerasque disciplinas quae scholis debent, expeditas et compertas habebat. Alcuinum ex Anglia in Gallos duxit, quo auctore Parisii litteras profiteri coeperunt, auspicio certe laeto: nam purae adhuc erant et accedebat Graecarum re(12) Melantone, De corrigendis adolescentiae studiis in Declamationes, edit. Karl Hartfelder (Lateinische Litteraturdenkmiler des XV. und XVI. Jahrhunderts, vol. TV), Berlino, 1891, p. 13 sgg..
I] testo si trova pure nel Corpus Reformatoruin, ediz. Bretschneider, tomo XI, p. 15 sgg. 84
rum mediocris peritia» (13). Importa mettere in evidenza come l’umanista noti in questo passo il valore letterario del rinnovamento («nam purae adhuc erant») che mirava a preservare la necessaria purezza a quella lingua latina che i barbari avevano alterato e corrotto. Certamente tale fortunato mutamento, secondo Melantone, era ricco di promesse se non fosse sopravvenuto un nuovo fatto che arresto lo sviluppo degli studi letterari. Esso consiste nell’introduzione nella cultura medievale delle traduzioni delle opere di Aristotele: « Deinde, spiega l’umanista, usu res acta est, incideruntque homines quidam sive libidine inge-
niorum sive amore litium ducti in Aristotelem eumque mancum et lacerum et, qui alioqui Graecis obscurus xa; tH Aok&ia similis videtur, latine sic redditum, ut etiam Sibyllae furentis coniecturas exerceret: huc tamen incauti homines impegerunt» (14). La diffusione di queste nuove traduzioni spinservo gli studiosi su vie del tutto contrarie agli studi letterari. Rapidamente furono trascurate le arti liberali e nacque la numerosa turba degli scolastici, « pro-
les numerosior Cadmea sobole». Attirati verso 1 nuovi studi, gli intelletti dimenticarono completamente le let~ tere classiche ed in tal modo con una dannosa inco-~ scienza provocarono la perdita delle preziose opere degli autori latini. Quello che maggiormente addolora Melan-
tone é la constatazione che tale mentalita duro per ben {tre secoli. « Haec ratio studiorum, egli dice, annos cir-~ citer trecentos in Anglia, in Galliis, in Germania regnavit », né ’umanista si illude sugli effetti di un cosi inco-
trastato dominio e di una diffusione tanto vasta: « Primum desertis veterum disciplinis, quando audax ista com-
mentandi et philosophandi ratio invaluit, simul Graeca contempta, mathematica deserta, sacra neglegentius culta sunt » (15). Con tristezza egli si domanda: « Quo malo quae saevior pestis esse potuit? »» Onde quasi a _conclusione,
egli cosi sintetizza il danno procurato dai metodi della
filosofia scolastica: « Hic casus vere Christianos ecclesiae ritus ac mores, ille studia litterarum labefectavit ». Dopo
un cosi severo quadro come non augurarsi che le arti (13) Melantone, op. cit., p. 15. (14) Melantone, op. cit., p. 16. (15) Melantone, op. cit., p. 17. 83
liberali riprendessero il loro antico splendore e che le Muse un tempo disprezzate fossero ora da tutti nuovamente amate? (« Quo bonas litteras ac renascentes Musas quam maxime commendatas a vobis universis velim ») (16).
L’importanza del rinnovamento veniva da Melantone additata ai suol giovani uditorl. Quest’ultimi erano esortati
allo studio degli autori latini e greci, le opere dei quali dovevano loro essere di stimolo e di esempio. In tal modo, soggiungeva Melantone, la gioventu tedesca potra raffinarsi nel gusto e nei costumi; né l’umanista con un giusto orgoglio nascondeva a sé ed agli amici suol di scorgere gia 1 primi risultati. « Videor enim videre mihi tacitus aliquot locis reflorescere Germaniam planeque moribus et communi hominum sensu mitescere et quasi cicurari quae barbaris olim disciplinis effera nescio quid immane solita est spirare » (17).
In questo testo e facile vedere con quale precisione storica Melantone riprenda lo schema classico degli uma3nisti e con quanta abilita lo sviluppi. Se da una parte, giovandosi della concezione comune, egli indica quanto fosse completa la sua adesione al movimento, dall’altra, con le
modificazioni introdotte, svela nel modo piu preciso in quale direzione egli intendesse orientare i suol studi ietterari. In primo luogo merita di essere messa in evidenza Vimportanza che egli riconosce al rinnovamento carolingio
ed ai suoi benefici effetti, Questa ammirazione ci puo in certo qual modo illuminare circa i possibili rapporti che egli aveva con |’umanesimo francese piu che con quello italiano perche quest’ultimo era in generale sdegnoso dli tutte le attivita letterarie del Medio Evo. Secondo il punto di vista storico affermato qui da Melantone, lepoca carolingfa acquista un valore rinascenziale perché con essa la oscura barbarie dell’eta di mezzo poteva dirsi completamente finita. E questo sarebbe avvenuto se tra il sec. XII ed il XIII non si fosse introdotto un nuovo indirizzo che devio la cultura verso preoccupazioni esclusivamente filosofiche. Questo secondo concetto e la piu importante modificazione voluta da Melantone. A suo giudizio gli studi letterari e con essi leducazione classica avrebbero ritro(16) Melantone, op. cit., p. 13. (17) Melantone, op. cit., p. 26.
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vato l’antico splendore se per opera della nuova diffusione delle opere di Aristotele, tutta la cultura, orientata verso i nuovi campi di investigazione che le traduzioni rendevano accessibill, non avesse dimenticato la necessaria formazione letteraria. In tal modo lVumanista accusava i nuovi rappresentanti del pensiero aristotelico di essere il vero ed unico ostacolo che la rinascenza aveva incontrato nel suo cammino. Melantone traeva questa sua concezione dagli italiant poiche e noto quanto fosse un tema comune dal Petrarca in poi, la lotta contro gli interpreti medievali del filosofo greco. Bisogna tuttavia notare che l’umanista tedesco, pur accusando gli scolastici di aver dimenticato la lingua latina per seguire unicamente il pensiero aristotelico, si pone da un punto di vista molto pil. ampio. Il Valla, parlando di S. Tommaso, aveva gia notato la medesima cosa splegando appunto che la lingua latina si era maggiormente imbarbarita per l’uso eccessivo di termini filosofici importati dal greco (18). Anche il Bruni aveva ac-
cusato 1 traduttori di Aristotele di essere dei corruttori della lingua latina e con lui Guarino Veronese ed il Pontano (19). Ma Melantone generalizza il concetto degli umanisti italiani. Accusando, come egli fa, la scolastica e per essa 1 SUOl maggiori esponenti, S. Tommaso e Duns Scoto, di aver arrestato il libero rinnovamento degli studi letterari, egli nega ogni possibile rapporto tra l’umanesimo ed i filosofi scolastici. L’umanista sintetizza alcuni elementi presi dal-
lumanesimo italiano ed altri derivati da quello francese per formare una nuova interpretazione storica. Accettando (18) Un testo interessante (Laurentit Vailae encomium Senctt LThomae Aqutnatts) © stato pubblicato dal Vahlen, in Lorenzo Valla
tiber Thomas von Aquino in Vierteljahrschrift fiir Kultur und Litterxatur der Renaissance, Leipzig, 1886, p. 38-4.
(19) L. Bruni, Epistolae, Amburgo, 1724, libro IV, lettera
XVI, p. 147: « Ex quo magis translatoribus istis indiscretis irasci soleo quod huits philosophi libros admirahbili facundia suavitateque
in gracco scriptos, tam absone nobis converterunt ». Cfr. G. Guarini, Opera, Basilea, 1531, fol. 76: «Sed non sunt illi Aristotelis libri nec si vivat ipse suos dici velit sed merae translatorum ineplive ». Cfr. G. Pontano, Aegidius, edi: crit. Previtera (Firenze, Sansoni. 1943), p. 280, 6-9; 19-24. Queste affermazioni gli umanisti rivolgevano contro gli scolastici i quali per scusare la loro negligenza per la parte formale delle loro opere, si richiamavano alVYesempio di Aristotele.
3]
VYidea francese che riconosceva capacita letterarie alla cul-
tura medievale, egli si giovava dei motivi addotti dagli umanisti italiani, per indicare le cause della improvvisa estinzione di coteste capacita. Nella nuova sintesi Melantone localizzava storicamente la polemica italiana contro 1 traduttori del sec. XII dell’opera aristotelica, additando appunto in questi ultimi i principali nemici del nuovo movimento rinascenziale. Non e chi non veda come tale interpretazione storica sia del tutto opposta a quella degli studiosi moderni i quali considerano appunto la grande fioritura filosofica come uno dei principali elementi della rinascita medievale. Né l’opposizione e€ meno viva quando S1 pensi che, proprio a proposito di S. Tommaso considerato da Melantone come un fiero oppositore del movimento letterario, 11 Gilson (20) ed il Toffanin (21) hanno indicato
precise tendenze umanistiche. Bisogna quindi ricercare quali erano le idee generali che guidavano l’umanista tedesco a questa importante modificazione dello schema comune.
Appare evidente infatti che Melantone qui rivela in modo preciso le preoccupazioni che erano caratteristiche alla concezione culturale di Lutero. E’ noto che il riformatore accusava gli scolastici di aver paganizzato il Vangelo con la
filosofia aristotelica. Egli rimproverava a S. Tommaso di aver troppo seguito Aristotele nel riconoscere una eccessiva importanza alla natura umana in rapporto alla grazia. Come bene spiego il Gilson, « bien loin de lui reprocher c’avoir ignore ]’Hellénisme, il lui reproche d’en avoir abusé et, paganisant l’Evangile, d’avoir corrumpu lTessence méme du Christianisme » (22). Ora, questa idea fu da Melantone estesa al campo letterario. In perfetto accordo con il Valla ed il Bruni (23), egli affermo che a causa della nuova passione (20) E. Gilson, L’humanisme de saint Thomas d’Aquin in Attt del V Congresso internazionale di Filosofia, Napoli, 1925. Cfr. del Gilson, Moyen Age et Naturalisine antique, in Heélojse et Abélard, Parigi, Vrin, 1938, p. 183 sgg. Queste idee riprende e sviluppa R. Montano, Dante e il Rinascimento, op. ctt., pp. 67-74. (21) G. Toffanin, Storia dell’umanesimo, Napoli, 1933, p. 34 sgg.
(22) E. Gilson, Humanisme médiéval et Renatssance, in Les tdées et les lettres, Parigi, Vrin, 1932, p. 173. (23) E’ interessante notare che alla fine dell’edizione del 1573
(Witenberga, edit. C. Schleich et A. Sch6ne) della Rhetorica di $8
per il pensiero greco falsamente interpretato dai traduttori, « sensim neglectae meliores disciplinae, eruditione Graeca excidimus, omnino pro bonis non bona doceri coepta » (24). In verita gli umanisti italiani non si erano avventurati sovente al di la delle semplici discussioni liguistiche e anche quando avevano polemizzato nel campo filosofico e teologico come il Valla delle Dialecticae disputationes, pur rivendicando in una certa misura la liberta del pensilero, non avevano osato toccare Vortodossia cattolica. Per opera di Melanione invece, l’avversione che fino ad allora era apparsa
semplizemente come una insensibilita letteraria, veniva Spiegata come il tentativo fatto dagli scolasticl per una completa indipendenza dal pensiero tradizionale cristiano. In questo modo 1 termini della discussione venivano completamente capovolti e direl quasi sconvolti. Superando i filosofi del sec. XIII, 1 riformatori si richiamavano ai Padri, proclamandosi loro eredi non solo per il pensiero ma anche per le tendenze letterarie e con questo tentativo affermavano di riprendere la tradizione di pensiero e di bello stile che il movimento scolastico aveva interrotto. La Rinascenza significava quindi il completo rinnovamento degli
spiriti e delle forme con la riabilitazione tanto del vero Spirito evangelico come della pura lingua latina.
Per tale ragione si puo concludere che la modificazione fatta da Melantone allo schema storiografico degli umanisti italiani e francesi rivela in modo significativo il preciso orientamento dell’umanesimo tedesco che, per opera di uno dei suol principali esponenti, veniva strettamente legato alla Riforma da cui traeva le sue principali idee direttrici. Melantone, si trovano ripubblicate le note lettere di Pico della Mirandola e di Ermolao Barbaro sui « filosofi barbariy per indicare quanto il pensiero dell’umanista tedesco fosse vicino a quello degli italiani. (24) Melantone, op. cit., p. 16.
89
Capitolo quarto
LA COSCIENZA DELLA RINASCITA NEGLI UMANISTI FRANCESI
I. - Necessita di studiare nella cultura umanistica francese il progressivo svilupparsi cella coscienza della Rinascita.
Dopo di aver dimostrato nei precedenti capitoli quanto diffusa fosse tra gli scrittori italiani e francesi la coscienza della Rinascita, credo utile al fine di maggiormente approfondire il problema, di illustrare il progressivo svilupparsi di questa concezione neila cultura francese, precisando per quali motivi si sia affermata e con quali opere abbia raggiunto la sua definitiva espressione. Le testimonianze che servono alla dimostrazione sono numerose. Ma non tutte hanno il medesimo significato, pur essendo tutte esempio importante dell’entusiasmo tipico dell’epoca. Se unico e il concetto di una nuova eta che si forma opponendosi in modo reciso a quella precedente e se ri-
mane identica la formula usata per esprimerla, muta invece il significato particolare che si da tanto al concetto quanto alla formula, secondo 11 problema storico contingente che gli studiosi sono chiamati a risolvere. Voglio dire che quando Gaguin come Bude come Peletier, in epoche differenti, inneggiano alle arti liberali nuovamente risorgenti e per esprimere cotesta loro soddisfacente costatazione parlano di una nuova luce che finalmente disperde le tenebre medievali, anche se tutti accennano al fatto storico generale che esprimono con la medesima formula, tut-
tavia in modo piu particolare ciascuno si riferisce ad un problema specifico del momento storico in cui vive ed opera. Per questo, esaminando piu attentamente 1 ‘esti, ci si C]
avvede che per « rinascita » Gaguin intende un fenomeno storico che non ha le caratteristiche di quello a cui accenna Budé, il quale a sua volta pensa in modo differente da Peletier du Mans. Ma la differenza che si osserva non é opposizione perche chiaramente appare come le diverse interpretazioni siano tra loro strettamente unite da un nesso logico che si scopre non essere altro che lo svolzimento stesso del movimento umanistico. In cotesto svolgimento ci sono alcuni scrittori che, per avere intuito piu nettamente il processo storico, offrono testimonianze precise che segnano le tappe di questa pro-
gressiva marcia verso una piu ricca maturita culturale. Attorno a queste testimonianze fondamentali si radunano tutte le altre, meno chiarificatrici per mancanza di precisione e di intulzione ma non per questo prive di interesse. Le une e le altre si illuminano a vicenda, rivelando cosi il loro esatto significato storico. La rivelazione e di grande interesse perché occorre avere sempre indizi precisi a documentazione dei progressl compiuti per non essere Ssviati dagli elementi che per le influenze straniere, per i nuovi contributi della tipografia, per gli stessi sforzi di rinnovamento della cultura tradizionale, numerosi arricchiscono le vicende di quegli anni fortunosi. Non possono destare stupore cosi numerose testimonianze di quella comune coscienza circa limportanza della propria attivita. Solo nei migliori scrittori esse rappresentavano una concezione storiografica, frutto di meditazione sulJa storia delle letterature classiche e sulla loro varia vicenda nei secoii precedenti. Nei piu, cotesta coscienza non era
che certezza del significato spirituale di un insegnamento o del contributo effettivo di uno scritto. In tutti era entusiasmo per le novita che si proclamavano o per quelle che si credeva di proclamare; né mai vi furono rivoluzioneri piu inconsciamente legati alla tradizione.
Per altro, cotesto entusiasmo era tenuto vivo dal ricordo della personale esperienza che ogni studioso aveva
fatto quando per rinnovare gli studi ed imporre le sue opere si era urtato contro difficolta di ogni genere. Per questo le piu alte espressioni d’ammirazione per la nuova eta risorgente sono quasi sempre accompagnate dal ricordo delle opposizioni e delle incomprensioni che avevano reso difficile ogni attivita culturale. Difficolta che ai nostri oc92
chi legittimano pienamente tanta ammirazione perch? ci fanno apprezzare gli sforzi di quei nobili spiriti che non solo durante l’ultimo terzo del secolo XV ma per tutta la prima meta del Cinquecento, furono una minoranza che si voleva fare ascoltare in un ambiente indifferente quando non era contrario. Mette conto rilevare che la descrizione, precisa nella sua severita, fatta da Erasmo della vita di studio al collegio di Montaigu (1) non e molto differente da quella tracciata venti anni dopo da Girolamo Aleandro circa l’univer-
sita parigina (2) e valgono entrambe a darci una visione reale dell’ambiente in cui operavano tanto gli umanisti che si radunavano attorno a Gaguin quanto quelli che avevono a maesiro Lefevre d’Etaples. Né si puo dire che qualche anno dopo la condizione generale degli studi fosse migliorata se dobbiamo credere ad un/’altra testimonianza di Aleandro (3) che e del 1512, cloé quando le lettere greche erano finalmente tornate in onore nell’universita di Parigi
e le latine erano state gia illustrate da due opere fondamentali di Budé. Ma si pensi che ancora Pierre Galland, accennando all’indifferenza degli studenti francesi per i nuovi studi, osservava con rammarico come la dottrina amabile ed elegante degli umanisti piacesse molto poco (4) e come in quegli stessi anni Ronsard giudicasse la sua generazione « ignorante de toute discipline » (&) e Buchanan scrivesse 1 suol versi sulla « Conditio docentium literas huma(1) Erasmo, Opus epistolarum, op. cit., vol. I. p. 202. (lettera ad Arnold de Bost). Cfr. Erasmi Opera, Basilea, 1540, tomo I, Colloquia, col. 806. Un’eco delle pessime condizioni del collegio nel Gargantua, cap. XXXVII, ediz. Boulenger, p. 131. (2) Lettera di Aleandro ad Aldo Manuzio del 23 giugno 1508, in P. De Nolhac, Les correspondants d’Alde Manuce, Roma, 1888, pp. 65-69. (3) Erasmo, Opus epistolarum, op. cit., vol. T. p. 503. Sul me-
desimo tono vedi un/’altra lettera di H. Glareanus ad Erasmo da Parigi del 1517 in Opus epistolarum, vol. TH, p. 437. (4) Pierre Galland, Petri Castellani vita, Parigi, 1674, in 49, pp. 51-53.
(5) Ronsard, Contre la jeunesse francotse corrompue nel Bocage del 1550, in Oeuvres completes, ediz. crit. Laumonier, vol. II, p. 189. 93
niores Lutetiae » (6) che neppure Du Bellay, pur tanto reazionario, credette opportuno tradurre per intiero (7).
Solo tenendo presente la vivace corrente antiumanistica si puOo avere un quadro esatto dello sviluppo della cultura francese di quel periodo, e comprendere 1 limiti veri di quel rinnovamento che, per essere stato voluto e proclamato dalle piu elevate intelligenze che contasse in quel momento la Francia, non per questo fu meno contrastato nella sua lenta ma efficace divulgazione.
II. - Gli umanisti del cenacolo di R. Gaguin riaffermano il econcetto dell’unione della sapienza con lVeloquenza
e fanno rifiorire lo studio della retorica (rinascita = rinascita del vero testo classico).
Il testo piu chiarificatore della particolare concezione sulla Rinascita manifestata dai rappresentanti del secondo cenacolo umanistico francese é la letttera che Robert Gaguin scrisse nel 1495 ad Erasmo per esprimere il suo favorevole giudizio sulla prima redazione manoscritta degli An-
tibarbarorum libri (8). Qui meglio che altrove si trova esposto in breve sintesi il programma che quegli studiosi si prefiggevano di svolgere per rinnovare in Francia gli studi letterari. Con maggiore entusiasmo Fichet inneggia nella Rhetorica (1471) alla sua opera di innovatore; con piu chiara intuizione storica Tardif nel suo Eloquentiae benedicendique scientiae Compendium (1481) sdegna la barbarie medievale da cui si sente finalmente liberato; ma né Yuno ne laltro espongono con la precisione di Gaguin i propositi comuni a tutto il gruppo. Cotesta precisione man(6) Buchanan, Opera omnia, Lione, 1725, vol. II, p. 301 sgg. (7) J. Du Bellay, Oeuvres poétiques, ediz. crit, Chamard, Parigi, 1919, vol. I, p. 190 sgg. (8) R. Gaguin, Epistolae et orationes, ediz. Thuasne, Parigi. 1903, vol. If, pp. 9-13. Riassumo da questo particolare punto di vista, quanto sono venuto diffusamente illustrando nel mio lavoro su. Fichet retore ed umanista, in « Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino », serie 28, tomo 69, parte II, Torino, 1939 e nell’altro su Robert Gaguin ed il suo cenacolo wmanistico, I: 1473-1485, in « Aevum », luglio 1939, pp. 410-476.
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ca pure nelle Epistolae di Charles Fernand, nel commento al De remedio amoris di Gilles de Delft, anche se tutti accennano, con la certezza di un fatto compiuto, al rinnovamento degli studi. Per parte sua Gaguin spiega che la legge fondamentale da tutti riaffermata é ’unione della sapienza con ]’eloquenza. Contro una tradizione ormai due volte secolare che disprezzava ogni attenzione stilistica, curandosi solamente di raggiungere nel modo piu preciso la verita filosofica e teologica, ’umanista sostiene la necessita di abbellire con gli ornamenti preziosi di una bella e curata esposizione, cosi importante materia. « Eos solos, egli dice, in ore et fama hominum litteratorum versari qui cum sapientia eloquentiam junxerunt ». E continua ricordando le opposizioni alVattivita degli umanisti del gruppo dei filosofi e dei teologi (« despicabile hominum genus») i quali combattono quello che non conoscono e si rifiutano di conoscere. Costoro non sanno che gli umanisti non ad altro mirano se non a rinnovare quella « urbana et expedita elocutio» che essi ammirano tanto nei Padri della Chiesa. Perché adunque condannare nei propri contemporanei quello che viene approvato negli antichi? Alla domanda Gaguin risponde egli stesso riaffermando il proprio fondamentale concetto con il seguente efficace paragone: « Quantum enim muto balbus antecellit, tanto est quippliam disertus balbo et diserto eloquens prestantior ». Questa superiorita dell’homo eloquens che anche Tardif ripetutamente afferma, (9) é€ un argomento a cul quegli umanisti ricorrono sovente per sostenere Varmonica unione della filosofia con la retorica. Ma poiché per realizzarla e indispensabile una sicura padronanza della lingua latina, ecco Vinvito a riprendere lo studio dei classici e ad abbandonare quei formulari « bar-
bari» di cui si era sempre servita fino ad allora la tradizione scolastica. Formulari ricordati con sdegno da Lefévre d’Etaples quali sofismi che impedivano la comprensione della verita filosofica, anche nel 1496 quando l’umanista scriveva: « A gotica enim illa dudum latinorum literis illata plaga, bonae litterae omnes nescio quod goticum pas(9) Tardif, Eloquentiae benedicendique scientiae compendium, in 4°, Parigi, 1481, prefazione. 95
sae sunt» (10), ripetendo e anticipando quello che Erasmo aveva scritto e stampera negli Antibarbarorum libri (11). Questi umanisti alla cui testa stava Gaguin, avevano capacita filosofiche mediocri; essi erano dei letterati 0, se meglio piace, dei retori che credevano nelle possibilita del loro insegnamento avvalorato dagli esempi di Roma antica e dell’Italia contemporanea. Nella loro volonta di rinnovamento non vi era un primo moderno ripensamento della filosofia scolastica, perché di questa si professavano ed erano seguaci ubbidienti e fedeli. In egual modo manca nei loro tentativi qualunque preoccupazione riformista, perche i mali della Chiesa ed in genere deila societa civile e religiosa essi vedevano alla luce del pensiero ortodosso, tanto che lo stesso Fichet, cosi legato alla causa degli umanisti,
non indugia a tralasciare la sua attivita di letterato e di
tipografo per la propaganda in favore della crociata contro 1 Turchi. Altrettanto errato sarebbe il credere che nel comune disprezzo per gli ignoranti teologi sia anche da sottintendere una minor considerazione della teologia mentre
non é da vedere altro che un giustificato sdegno per il brutto latino in uso nelle scuole teologiche. La reazione, percio, € puramente formale (12), voluta da letterati che se non intendono uscire dal campo di loro stretta competenza, pur tuttavia esigono che sia riconosciuta Vimportanza che loro spetta nella generale ricostruzione della cultura. Questo, e non altro, é il loro effettivo programma, (10) Lefevre d’Etaples, Artifictales introductiones, Parigi, G.
Marchand, 1496, in-49. (11) R. Pfeiffer, Die Wandlungen der « Antibarbari », in « Ge-
denkschrift zum 400. Todestage des Erasmus von Rotterdam », Basilea, 1936, pp. 50-68. (12) Si puo sottoscrivere anche per quanto riguarda l’umanesimo francese, almeno in questo primo momento, 1|’affermazione di E. Garin, Aristotelismo e platonismo del Rinascimento, in «La Rinascita », 1939, p. 649: « Contro i quali (averroisti) come con-
tro gli aristotelici in genere, la reazione fu piuttosto formale c letteraria che non filosofica e non senza qualche spunto apologetico o addirittura nazionalistico in nome della classicita greco-
romana, fattasi cristiana e cattolica contro Ja barbarie araba ». Nuovi contributi, atti a precisare queste caratteristiche, sono stati
forniti dalla notevole opera di A. Combes, Jean de Montreuil et le chancelier Gerson. Contribution a Vlhistoire des rapports de Phumanisme et de la théologie en France au début du XV* siccle, Parigi, Vrin, 1942.
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ma quanto fosse innovatore ée facile comprendere da chiunque rifletta sulle condizioni dell’ambiente universitario pa-
rigino negli ultimi decenni del Quattrocento. Per la loro opera gli umanisti trovarono un valido aiuto nella tipografia che fu una parte fondamentale della loro attivita, perché di quella si giovarono per diffondere i nuovi manuali di grammatica e di stilistica latina che sostituirono quelli vecchi, rimasti immutati da secoli e quindi oggetto delle piu severe condanne. Questa fu veramente effettiva opera rinnovatrice; con essa gli umanisti incominciarono a diffondere nella scuola l’attenzione per il bello stile ed il gusto per 1 migliori scrittori latini, finalmente riletti con preoccupazioni letterarie, ristudiati come esempi a cul affidarsi con piena fiducia e sicuro amore. Un indirizzo non meno fruttuoso e logicamente dedotto dal concetto dell’unione dell’eloquenza con la sapienza filosofica, essi intrapresero a sviluppare quando, tra 1 vantaggi di questo rinnovamento letterario, additarono quello di poter finalmente scrivere la storia delle proprie vicende nazionali che dall’universalita del latino avrebbero appunto acquistato fama universale. E lo stesso Gaguin per primo realizzo questo programma dando alla propria letteratura quel De Francorum origine et gestis compendium che
tuttavia non si allontana ancora dalla cronaca per assurgere alla generale visione storica. Ma esso rappresenta un lodevole tentativo che per molti anni restera senza segui-
to onde 1 re di Francia dovranno ricorrere agli storiografi stranierl e plu propriamente italiani, come quel Paolo Emilio a cui Gaguin desiderava succedere e con il quale
polemizzoO non tanto forse per risentimento personale quanto per desiderio di affermare, anche in quel campo, la tendenza nazionale del proprio programma umanistico. L’importanza e i limiti di questa concezione della Rinascita meglio che altrove si comprendono nell’ammirazione che gli umanisti del secondo cenacolo dedicarono alla poesia di Battista Mantovano. Per merito di questo letterato essi trovavano realizzato in poesia l’ideale artistico che si prefiggevano di raggiungere in tutti 1 campi della cultura. Il Mantovano aveva per loro il grande merito di
aver ripreso poeticamente tutta la materia religiosa che formava parte viva della loro cultura, e di averla rinnovata per opera di una piu abile conoscenza della lingua 97
latina. Frequentemente nelle opere di quegli umanisti si leggono accenni ed elogi per il Mantovano che viene stimato il migliore dei poeti di quel periodo. Giudizio cosi diffuso che lo ripeteva anche Josse Bade nel 1499, quando nella prefazione ad un commento della Parthenice Mariana scriveva: « Quo circa cum hic ille sit quem saeculo octaviano tot vatibus superbo objicere possumus et quo mille
abhinc annos neminem aut pulchrius aut dulcius poema scripsisse merilto censueris » (13); giudizio che Erasmo non mutera neppure nel] Ciceronianus dove il Mantovano é preferito al Pontano ed anche al Sannazaro del De Partu Vir-
ginis (14). Questa preferenza é quella stessa per la quale Lefevre d’Etaples consigliera di tenere lontani i giovani
dalle poesie di Catullo e dai suoi morbidi incanti, (15) mentre invitera caldamente i poeti a cantare le lodi della Vergine. « Sed Christianis, egli dice, aliena non sunt exempla quaerenda cum Deus ex alto in gremium descenderit almae Virginis et ad Virginem totam suam spem et sua tota vota convertant» (16). Tali giudizi e tali tendenze derivavano da un’unica concezione che € comune a tutti quegli umanisti. Erasmo che in quel periodo, per essere vissuto a Parigi alcuni anni (1495-1499), aveva avuto amichevoli rapporti con i principali rappresentanti del movimento e specialmente con Gaguin, tanto che lo si puod considerare a buon diritto uno (13) Parthenice Mariana F. Baptistae Mantuani ab Iodoco Badio Ascensio familiariter explanata, venundatur Parisiis in Leonéd Argenteo vict sancti Iacobi, 1499. Cfr. Renouard, Bibliographie de Josse Bade, Parigi, 1907, vol. II, p. 102; G. Ellinger, Italien und der deutsche Humanismus in der neulateinischen Lyrik, Berlino, 1929, p. 105 sgg. Furono molto popolari in Francia anche le Egloghe del Mantovano: cfr. la prefazione di W. P. Mustard alla sua edizione, Baltimora, 1911. (14) Erasmo, Cicerontanus, in Opera, Basilea, 1540, tomo I,
1019-1020. Cfr. B. Croce, Erasmo e gli umanisti napoletani, in
« Gedenkschrift zum 400. Todestage des Erasmus von Rotterdam », Op. cit., pp. 89-97. (15) Lefevre d’Etaples, Decem librorum moralium Aristotelis,
Parigi, Higman e Hopyl, 1497, libro II, c. I: «Procul enim ab ipsis (iuvenibus) sint exempla Catulli, procul molles cupidines, molles arcus mollesque pharetrae molles elegiae, epigrammata et
Jenonum comediae et omnis ea lectura ad quam severus Cato
minime suos admitteret liberos ». (16) Lefevre d’Etaples, op. cit., libro III, c. 10. 98
dei membri del secondo cenacolo, interpreto il pensiero comune nella prefazione scritta alle poesie di Guglielmo Herman (1496). Qui Battista Mantovano viene paragonato senza il minimo indugio a Virgilio (« mihi non alio iure Christianus Maro videtur appellandus ») e questo, proprio secondo il giudizio dato da Gaguin il quale, a tale proposito, viene richiamato quasi a garanzia. I poeti di tendenze pagane sono condannati perche dimenticando la loro educazione cristiana (« tamquam non sponte sint Christiani ») seguono con eccessivo abbandono i classici antichi come perseguissero un inutile sogno di gloria oppure un altrettanto vano desiderio di passionalita. Comunque, osserva Erasmo, non per tale via deve procedere la nuova poesia ma su quella additata da Ambrogio, Prudenzio, Davide e Salomone (17). E’ chiaro adunque che quando questi umanisti accennano alla rinascita della poesia, intendono la rinascita dei modi classici adattati alla materia religiosa. Da questo tipico esempio si puo comprendere che cosa gli umanisti del secondo cenacolo intendessero quando in modo piu generale accennavano ad una nuova « rinascita ». Questa ai loro occhi significava non altro che il ritorno al perfetto stile latino quale con semplicita di costrutti e pu(17) Erasmo, Opus epistolarum, op. cit., vol. I, n. 49, pp. 160-
164. Erasmo dice testualmente: «Quare recentioribus his poetis atque adeo christianis, subirasci mecum interdum soleo quod in deligendis sibi archetypis Catullum, Tibullum, Propercium, Nasonem quam divum Ambrosium, quam Paulum Nolanum, quam Prudentium, quam TIuvencum, quam Mosen, guam David, quam Salomonem sibi proponere malint tanquam non _ spon-
te sint Christiani ». Giova osservare in questo testo il richiamo ai poeti biblici come ad autori da preferire ai classici perché questa idea, che si trovera ripetuta da altri scrittori del Cin-
quecento, trova negli umanisti del secondo cenacolo dei validi as-
sertori. Marot nella prefazione alla sua introduzione dei Salmi
dira di preferire Davide ad Orazio (Oeuvres, ediz. Grenier, Vol. II, Pp. 306) e Muret (Opera, Veronae, 1727, Vol. I, p. 8) nell’orazione
De dignitate ac praestantia stud?i Theologici tenuta a Parigi nel 1552 osservera: « Nam sive poeticis modulationibus aures demulcere meditamur, quis unquam ita in hoc genere excelluit ut cum Davide comparatus non sordeat? Nisi forte Orpheum, Homerum, Pindarum, de levissimis plerumque nugis verba fundentes audire praestat quam illum Deo acceptissimum regem... ». Si badi che Mu-
ret affermava un simile giudizio proprio nel periodo in cui commentava Les Amours di Ronsard. Cfr. F. Simone, L’avuviamento poetico di Pierre de Ronsard, Firenze, 1942, p. 11 sgg.
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rezza di lingua era stato innalzato a duttile strumento letterario dai maggiori scrittori classici (18). Con la loro riforma essi si illudevano, poiché una semplice illusione era cotesta, di potere ancora una volta rivestire il mondo culturale in cui scrivevano ed insegnavano, di un perfetto paludamento classico. Questo intendeva Fichet quando si vantava di aver unito per primo a Parigi la retorica con la teologia; questo intendeva Tardif quando diceva di aver riportato in Francia la vera lingua latina; ed ancora a questo accennava Gaguin quando constatava la rovina prodotta nello stile latino dai manuali scolastici rozzamente composti. E tutti quanti infine non riconoscevano altro quando ammiravano Marsilio Ficino e Pico della Mirandola che ad essi, non sicuri di comprenderli nella originalita del loro tentativo filosofico, apparivano quali abili artefici capaci di far rivivere col pensiero cristiano l’arte di Platone (19). Tanto profonda era la convinzione letteraria di quegh Studiosi da giudicare felice tutto un secolo perché in esso finalmente il bello stile latino era tornato in onore. Onde nel 1496 Gaguin scriveva a Guglielmo Herman: « Gratulari propterea non segniter debemus seculi huius felicitati in quo, tametsi alia multa interierunt, excitantur nichilominus plurimorum ingenia rapere cum Prometheo a cele(18) Cfr. A. Tilley, The Dawn of the French Renaissance, Cambridge, 1918, cap. XVI: The study of Latin, p. 188 sgg. (19) Gaguin, Epistolae et orationes, ediz. Thuasne, Vol. II, p. 21,
lettera a M. Ficino: « Testes tuorum meritorum sunt illis (gli studenti parigini) praeclari labores tui, quos ut Platonem latinum redderes desumpsisti; auget gloriam tuam Plotinus ex schola Platonis Jatinus a te factus ». Cfr. A. Renaudet, Etudes érasmiennes, Parigi, Droz, 1939, p. 130: « La philosophie savante, poétique et religieuse de Marsile Ficin et de Pic de la Mirandole répondait sans doute a quelques aspirations confuses du XV° siécle finissant, puisqu’elle émut l'Italie, les Pays-Bas, l’Allemagne, l’Angleterre et la France ».
Tuttavia dell’influenza sul secondo cenacolo non si pud per ora
sapere di piu di quanto dice Gaguin. Cfr. W. MO6nch, Die italienische
Platon Renaissance und ihre Bedeutung fiir Frankreichs Literatur und Geistesgeschichte, Berlino, Ebering, 1936, p. 184 sgg.; A. Tilley, op. cit., p. 194. Nessun nuovo tesio aggiunge il Festugicre nella sua riedizione (Parigi, Vrin, 1941) della memoria stampata a Coimbra nel
1923 col titolo: La philosophie de l'amour de Marsile Ficin et son influence sur la littérature francaise au XVI* siécle; cfr. Cap. IV, pp. 62-63. Cfr. E. Garin in La Rinascita, 1942, n. 25, pp. 307-310. 100
stibus splendidum sapientiae lumen» (20). Ma quegli studiosi non supponevano quante intelligenze e quanti cuori avrebbe infiammato quella fiaccola della sapienza che essl credevano di avere per primi nuovamente rapito agli Dei.
lil. - Nei primi quindici anni del Cinquecento gli umanisti affermano nello studio dei classict un nuovo metodo critico. L’opera filologica di Lefevre dEtaples si indirizza ai testi filosofici; quella di Bude at testi giuridici; quella di Erasmo ai testi sacri (rinascita = rinascita del vero testo classico). Nel febbraio del 1517 Erasmo, scrivendo a Fabrizio Ca-
pitone in uno di quei felici momenti che gli procurava talvolta il rapido entusiasmo caratteristico della sua intelligenza, tracciava un ottimistico panorama della cultura europea che é tuito un inno alla nuova eta. Le notizie che gli giungevano da ogni parte circa il rifiorire degli studi erano cosi confortanti che ’umanista, giunto sulla cinquantina si rammaricava di non poter ringiovanire per meglio godere del secolo d’oro che da numerosi indizi si annunZiava (21).
Leone X che dall’alto della cattedra romana si era
sforzato di portare la pace negli animi ancora turbati dalle
guerre, era la migliore garanzia per la durata della pace stessa. In Francia Francesco I, degno del titolo di re cristianissimo, con tutte le sue energie difendeva la vera re~ ligione contro 1 perturbatori e dettava buone leggi, rego-
lava i costumj, favoriva le arti liberali. Come il re francese cosi Carlo V, Enrico VIII, Massimiliano d’Austria garantivano con la loro buona volonta il benessere e la felicita dei loro popoli. La guerra e le discordie potevano dirsi definitivamente allontanate, tanto da essere legittima la speranza che non solo la religione ne avrebbe tratto effi-
caci vantaggi ma anche gli studi (« ut non solum probi mores pietasque christiana, verum etiam purgatiores illae (20) Gaguin, op. cit., vol. II, p. 26. (21) Erasmo, Opus epistolarum, op. cit., vol. Il, p. 487 sgg. 101
ac germanae literae ac pulcherrimae disciplinae partim reviviscant partim enitescant »). Per le sorti della rinascita letteraria Erasmo non nutriva dubbi poiché sapeva quanto nelle loro proprie nazioni avessero fatto e facessero i principali studiosi che ora avevano trovato difensoril e mecenati nei loro stessi governanti. Leone X a Roma, il card. Ximenes in Spagna, Enrico VIII in Inghilterra, Francesco I in Francia (« qui premiis etiam amplissimis invitat et allicit undecunque viros virtute doctrinaque praecellentes ») Carlo V (« divinae cuiusdam indolis adolescens ») ed i piu importanti principi tedeschi con tanto amore si occupavano delle sorti della nuova cultura europea da poter concludere che mai gli studiosi avevano trovato migliori condizioni per sviluppare liberamente e completamente le loro doti artistiche e intellettuali («Horum igitur pietati debemus quod passim videmus ceu signo dato excitari erigique praeclara ingenia et ad restituendas optimas literas inter sese conspirare»). Infatti, osserva ancora Erasmo, gli studiosi con tanta passione si sono messi all’opera da assicurare nel modo piu certo che tutte le discipline avrebbero fatto ottimi progressi (« disciplinas omneis multo purgatiores ac synceriores in lucem prodituras »). Le lettere ormai erano studiate persino dagli scozzesi e dagli spagnoli; molti si applicavano alla medicina come a Roma Nicola Leoniceno ed a Parigi Guglielmo Cop. I] diritto era riportato in onore da Bude
e da Zasio (22); a Basilea Enrico Glareano studiava le matematiche. E finalmente anche la teologia, pur essendo la disciplina piu tradizionalista, si rinnovava per opera di Lefévre d’Etaples e di Erasmo stesso. Un solo dubbio tra
tante consolanti constatazioni tormentavano lumanista pensoso dei destini delle lettere: « Unus adhuc scrupulus (22) Era concezione corrente nel Cinquecento unire insieme in un triumvirato tre umanisti che con la loro attivita avevano cooperato alla rinascita delle opere dei giuristi classici. Si diceva che Alciato aveva fatto in Italia quello che Budé aveva fatto in Francia e Zasio in Germania. Per altro Alciato insegnd pure in Francia e precisamente a Bourges dal 1529 al 1533; ma non era in buon accordo con Bude. Cfr. P. E. Viard, André Alciat, Parigi, 1926; V. Cian,
Lettere inedite di Andrea Alciato a Pietro Bembo, Milano, 1890, dove vi sono alcune lettere scritte durante la residenza a Bourges.
Cfr. A. Tilley, op. cit., cap. IX: Humanism in the Province,
Pp. 311-312.
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habet animum meum ne sub obtextu priscae literaturae renascentis caput erigere conetur paganismus» (23). Ma anche questo dubbio era un elemento importante per la esattezza del panorama della cultura europea quale solo un
Erasmo in quel periodo poteva sintetizzare e descrivere. Di fronte a questo quadro dai colori precisi e ben definiti pare a me piu che legittimo domandare in che cosa consista la differenza che si nota tra la concezione che qui viene chiaramente affermata e quella che gli umanisti del secondo cenacolo avevano sostenuto con non minor entusiasmo trent’anni prima. Poiché non credo che sia suffi-
ciente risposta indicare il tempo trascorso tra Vuna e Valtra concezione, e neppure convincerebbe il richiamo alla
piu elevata statura intellettuale di Erasmo. La visione piuXU ampia e piu matura che qui si constata
deriva dal fatto che appunto in quel primi anni del nuovo secolo gli umanisti avevano maggiormente approfondito il problema letterario che Gaguin ed i suoi compagni avevano per proprio conto risolto. E fra 1 primi si era posto Erasmo, il cui passaggio dalla mentalita del letterato che aveva pensato gli Antibarbarorum libri a quella che dirigera ledizione critica del Nuovo Testamento fu graduale e logico e del tutto simile all’evoluzione intellettuale di
tutti gli umanisti francesi che per essere allora sotto la sua diretta influenza, non potevano che seguire da vicino cosi illustre iniziatore e maestro. Nell’approfondimento adunque del problema risolto dal secondo cenacolo, i continuatori si erano trovati di fronte a nuove esigenze logicamente dedotte da quello e come quello richiedenti una inderogabile soluzione. La necessita di purificare la lingua latina aveva condotto gli umanisti a rinnovare i manuali scolastici e quindi, in un secondo tempo, ad offrire testi classici da cui gli studenti e quanti si interessavano al rinnovamento stilistico potessero trarre esempio e regola. Ma quali testi classici offrire se tutti quanti erano offuscati nella loro bellezza dai commenti e dalle interpretazioni medievali per non dire di quelli che la tradizione manoscritta aveva deformato e reso irriconoscibili? Fu necessario adunque che gli umanisti intraprendessero una prima e fondamentale opera di revisione critica dei testi clas(23) Erasmo, op. cit., p. 491, 133-135. 103
sici onde pubblicare le opere degli scrittori latini con quella esattezza che il loro gusto e la loro preparazione erudita richiedevano. Una esigenza richiamava I’altra e si ripeteva adunque anche in Francia quanto per tutto il secolo XV avevano fatto gli umanisti italiani, tanto che 11 nome di Lorenzo Valla, anche al di la delle Alpi, risuono per tutti come invito alla ripresa attiva e feconda dei metodi filologici (24). Gli studiosi francesi divennero editori e proprio in quel primi anni del secolo XVI non di altro si ocCuparono se non di pubblicare integralmente quante piu potevano opere classiche. Onde nel periodo che corre dalPattivita di Josse Bade giunto a Parigi nel 1497 a quella di Erasmo degli anni 1516-1518, ?umanesimo francese trae principale caratteristica proprio da questa opera filologica.
Le prefazioni che Josse Bade fa precedere a tutte le opere che escono della sua officina tipografica, ripetono con significativa monotonia la sua preoccupazione di pubblicare i classici con precisione testuale. I] valente tipogra-
fo non dimentica mai di far sapere al lettore con quanta cura abbia collazionato tutti i codici a lui noti, e con quanta attenzione abbia riprodotto quello maggiormente degno. Pubblicando gia nel 1492 le sue Sylvae Morales con lo scopo di offrire delle regole morali giovevoli alla formazione spirituale dello studioso, egli si richiamava a Catone quasi per garantire «eas leges vivendi quas laudatissimas olim lam multa saecula habent ». Ma della sua raccolta vantava pure con speciale cura lVeleganza e la purezza dello stile, tanto che citando Lorenzo Valla, diceva « mille annis elegantius aut doctius scriptum nihil est ». Tuttavia tale riconoscimento non andava disgiunto dal dolore che commenti inutili e rozzi avessero offuscato tanta bellezza e lumanista apertamente soggiungeva: « Quocirca solemus iniquo
animo pati tam inepta glosemata super tam aurea dicta contorquerl...» (25). Quando a Parigi giunse Aleandro, si trovo egli pure nelle medesime necessita dei colleghi francesi ed a sua volta dovette trasformarsi in editore di quei (24) E’ noto infatti che tutte le volte che gli umanisti si vorranno richiamare all’iniziatore del loro movimento filologico faranmoO quasi sempre il nome di Lorenzo Valla, meno frequentemente quello del Petrarca. (25) Renouard, Bibliographie de Josse Bade, op. cit., vol. WI, p. 71.
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testi di cui sentiva maggiormente la necessita. Né mancarono di giungere le lamentele per tale situazione fino agli amici italiani a cui richiedeva sempre e soltanto libri (26). Pubblicando nel 1508 presso Gilles de Gourmont tre opu-
seoli di Plutarco, nella prefazione chiaramente denunziava la mancanza dei testi classici (27). Questa si faceva principalmente sentire nel campo greco ed ebraico dove nessuno ancora lo aveva validamente preceduto, come invece era avvenuto nel campo latino. Ancora nel 1511, Aleandro
curava presso Josse Bade una edizione di Ausonio per la quale Michele Hummelberg scriveva la prefazione in cul lodava il maestro italiano perché 1 numerosi codici da !ul ricercati erano pieni di errori e solo un valente correttore quale era Aleandro poteva assumersi l’incarico di correggerli (28). Questo merito riconosceva nel 1513 ancora lo stesso Josse Bade in una nuova prefazione ad un’altra edizione di Ausonio in cui, rivolgendosi alla gioventu studiosa, additava Aleandro alla gratitudine di tutti gli umanisti perche con la sua paziente opera aveva saputo strappare le tenebre che circondavano lopera del poeta per ridargli la grazia per cui nell’antichita era giustamente ammirato (29).
Sse Josse Bade e quanti lavoravano attorno a lui in quegli anni sl preoccupavano in modo speciale della revisione dei testi classici di carattere letterario, Lefévre d'Etaples (30) ed 1 suoi allievi, primo fra tutti Jean Clichtowe, seguendo la loro particolare tendenza, si volgevano al (26) J. Paquier, Humanisme et Réeforme. Jéréme Aléandre (14801529), Parigi, 1900, p. 70. (27) H. Omont, Essat sur les débuts de la typographie grecque a Paris (1507-1516) in « Mémoires de Société de VHistoire de Paris et de |’Ile-de-France », 1891, p. 23. (28) J. Paquier, op. cit., p. 37, Cfr. A. Horawitz, Michael Hummelberg, Berlino, 1873, p. 16. (29) J. Paquier, op. cit., p. 73.
{30) R. H. Graf, Jacobus Faber Stapulensis: ein Beitrag zur Geschichte der Reformation in Frankreich in « Zeitschrift fir
die historische Theologie », 1852; Id., Essai sur la vie et les écrits de Jacques Lefévre d’Etaples, Strasburgo, 1842. Cfr. « Revue Historique », XII, 1880, p. 123. Cfr. Jeanbarnaud, Jacques Lefévre d’Eta-
ples, in « Etudes théologiques et religieuses, Revue publiée par la Faculté libre de théologie protestante de Montpellier», gennaio 1936, pp. 3-29. Cfr. Tilley, op. cit., cap. VII, p. 233 sgg. 103
campo filosofico. L’opera umanistica di Lefevre e per buona parte occupata da questa meritoria fatica editoriale ondegli si propose di ristampare Aristotele libero dai commenti di cui i filosofi scolastici lo avevano oberato per presentarlo nell’esattezza del suo testo primitivo. Nella Para-
phrasis in Aristotelis octo physicos libros (31) (1493) é stato giustamente notato (32) che Lefevre manifesta un bisogno nuovo di precisione per arrivare a spiegare Aristotele soltanto con le sue stesse parole e con l’aiuto delle idee fondamentali al suo sistema. Nel prologo ai libri aristotelici sulla fisica (33) egli dichiarava tutto il suo amore per Aristotele quale appariva nella sua vera natura a chi Si avvicinava direttamente senza intermediari alla sua opera. « Ea enim, egli diceva, benevolentia Peripateticos prosequor omnes et praesertim summum Aristotelem omnium vere philosophantium ducem ut si quid ex illorum disciplinis deprompserim quod utile, pulchrum sanctumque putem, id omnibus communicatum esse velim quo omnes una mecum ipsorum rapiantur amore ipsosque digna veneratione prosequantur et ament» (34). Clichtowe, suo affezionato discepolo, aggiungendo, parecchi anni piu tardi, degli scolia per illustrare i passi piu oscuri del commento del maestro, Si rivolgeva al cancelliere dell’universita parigina per dire come egli non tenesse in nessun conto opera dei commentatori medievali e quanto invece ammirasse il metodo critico di Lefévre. Accennando ai primi egli diceva: « Enimvero solent haec ratiuncularum contra scientiarum veritatem pugnantium commenta non ad amplectandam earum (31) Jacobi Fabri Stapulensis, Peripateticae disciplinae indagatoris solertisstmt in quoscumque Philosophiae naturalis libros Paraphrasis cui ad matorem siudiosorum commoditaten scolia Iudoci Clichtowet adscripta sunt, Parisiis apud Franciscum Regnault, 1525,
(32) A. Renaudet, Préréforme et humanisme a Paris pendant
les premtéres guerres d’Italie, Parigi, Champion, 1916, p. 133. (33) A. Tilley, op. cit., p. 370 sgg.: Appendix to Chapter VIT:
Bibliography of the first editions of Lefévre’s Works on Aristotle and the other subjects of the Arts course at Paris. (34) Lefévre d’Etaples, op. cit., Prologus in physicos libros Artstotelis, cfr. foglio CCLV. Praefatio in commentariolos introductorios metaphysices Aristotelis (a Germain de Ganay). Qui Lefévre mani-
festa tutta la sua umanistica ammirazione per la filosofia e per gli antichi suoi cultori «quos suo tempore fecit Deus suos sacerdotes, suos vates et faces quod ad tempora nostra lucent ». 106
certitudinem synceritatemque conducere sed ab ea detorquere potius et ad captiunculas quasdam sophisticas prolabi, nihil cum vera doctrina commerci habentes ». Il metodo di Lefevre, e di conseguenza anche quello di Clichtowe, non voleva essere un ostacolo alla comprensione del testo. « Dissolventur quidem, aggiungeva Vumanista, in adiectis scholiis nonnunquam quaestiones pro rei materia occurrentes ac agitari dignae non tamen modo barbaro insulso et crasso quo nostra tempestate in disciplinis moveri conspiciuntur ac deprehenduntur ». Dedicando quindi la sua opera al cancelliere dell’universita egli sapeva di offrire un contributo alla rinascita (« par est utique bonas literas tuis
auspiclis in lucem prodire, propagari in caeteros atque transfundi»). E quale valido sostenitore del rifiorire degli studi che si sarebbero grandemente giovati della pubblicazione esatta delle opere del filosofo greco lo riconosceva lo stesso Clichtowe scrivendo: « Siquidem nullius authoritate potius fulcientur et robur assument nitidaiores authorum disciplinae quam elus qui patronus literarum et pater institutus est quem tota Parisiensis academia ut vindicem et tutorem rei literariae suspicit ot observat» (35). L’opera di Lefevre, per la sua importanza e per la sua audacia, aveva riscosso l’ammirazione di tutti quanti si interessavano agli studi filosofici. Onde Francesco Patrizio nel libro XI delle sue Discussionum Peripateticarum, dopo aver diviso in varie epoche gli studiosi di Aristotele e le (35) Lefevre d’Etaples, op. cit., Epistola di Clichtowe a Lodovi-
co Pinel. Quale amore avesse Lefévre per la ricerca erudita dei codici antichi lo possono dimostrare queste sue due notizic. Nell Apologia quia vetus interpretatio epistolarum Beatissimi Pauli quae passim legitur non sit translatio Hieronymi (ediz. delle Fptstolae di S, Paolo commentate da Lefevre, Parigi, H. Estienne, 1512, in-foglio) racconta l’umanista: « UWlum tamen librum Iob in uno loco ubi vetusta in acervum nullo ordine coniecta volumina annosa conficiebat caries comperi, quem compertum protinus comiti meo
Ioanni Solido qui Polonus e Cracovia ad nostra studia venerat
mihi quidem imprimis amicissimo et ad scribendum promptissimo iuveni commisi transcribendum ». Nella prefazione a Briconnet delle Contemplationes Idiotae de amore divino (Parisiis, apud Ioannem Bignon, 1538) dice ancora: « Nam coenobiis aliquot et oratoriis Sanctorum Victorum perlustratis tandem in manus nostras incidere
contemplatorii libelli cuiusdam pii ac sancti viri qui se non alio quam Idiotae nomine prodit quos illico typis nostris informandos COMIAIISI »).
107
loro differenti interpretazioni, metteva a capo di un nuovo periodo importante per lo studio della dottrina aristotelica proprio Lefévre d’Etaples «qui primus philosophiam ex infinitis quaestionibus eximere est conatus» (36). E quindi meglio spiegava questa riconosciuta priorita dicendo: « Primus in Galiis Ion. Faber Stapulensis, in Italia vero Patavii Franciscus Caballus et post eum Nicolaus Leonicus eiusmodi philosophandi rationem neglexerunt, Aristotelem graece, graecosque Aristotelis interpretes in scholas induxerunt » (37). Riconoscimento che gia era stato fatto chiaramente da Scevole de Sainte-Marthe quando, tessendo Velogio del nostro umanista, metteva in risalto 1 suoi meriti di iniziatore nel campo della critica dei testi filosofici, osservando come egli, spinto dall’esempio e dalla emulazione di quanto avevano fatto gli italiani, si fosse formato una cultura ed una preparazione filologica tanto da essere maestro non solo con Vinsegnamento («non voce tantum
et praelectionibus») ma anche con lDattivita editoriale (« verum et scriptis quibus ad universam Aristotelis doctrinam matheseosque partes omnes planum et facilem posteris aditum patefecit ») (38). Identico era lo scopo che si prefiggeva Budé nel campo giuridico. Le sue Annotationes in Pandectas (1508) non miravano ad altro se non a detergere i testi della giurispru-
denza classica dalla barbarie medievale. In quell’opera Pumanista ad ogni passo dimostra la sua preoccupazione di riferirsi il piu. possibile nella lettura dei classici ai manoscritti che gli erano accessibili. E per quanto il carattere stesso del suo lavoro non lo richiedesse, cercava di pre(36) Francesco Patrizio, Discussionum Peripateticarum, Basilea, 1581, p. 146. (37) Francesco Patrizio, op. cit., p. 163. Cfr. A. Corsano, I/ penstero di Giordano Bruno, Firenze, Sansoni, 1940, p. 8. (38) Scevole de Sainte-Marthe, Virorum doctrina illustrium qui
hoc saeculo in Gallia floruerunt Elogia, Augostoriti Pictonum, ex officina Io. Blauceti, 1598, p. 1. L’attivita di Lefévre come editore fu varia e molteplice poiché egli mirava ad offrire numerosi testi
di studio ai giovani scolari. Pubblicd pure un trattato musicale.
Cfr. Iacobi Fabri Stapulensis, Elementa musicalia, in Musica libris
quatuor demonstrata. Parisiis, apud Gulielmum Cavellat, 1551. Nella prefazione enumera numerosi musici dell’antichita e quindi tesse l’elogio dei suoi due maestri nell’arte musicale, Jacques Labin e Jacques Turbelin. 168
parare la via ai nuovi filologi quando questi avessero rivolto la loro attenzione allo studio critico dei testi della giurisprudenza classica. Dalle sue stesse affermazioni sappiamo che durante la compilazione del lavoro, egli teneva sottomano un manoscritto di Plinio il Vecchio e che consultava per le opere di Plinio il Giovane un manoscritto scoperto da Fra Giocondo e che per il Nuovo Testamento Si rivolgeva al manoscritto conservato nella biblioteca delPAbbazia di Saint-Victor (39). L’umanista si preoccupava
con straordinaria cura di scoprire le corruzioni del testo originale e dimostrava un acume raro per quel tempi nel correggere, nell’interpretare, nel ripristinare il testo antico. Di passaggio per Firenze, durante il suo viaggio in Italia, aveva scorso il celebre manoscritto delle Pandette pisane ed aveva letto in casa di Pietro Ricci le annotazioni fatte dal Poliziano (40). In tal modo egh affermava limportanza della tradizione manoscritta e maggiormente constatava quanti errori si fossero venuti aggiungendo al testo originale e come fosse necessario segnalarli onde evitarli. In una di quelle digressioni che sono una caratteristica delle sue opere, Budé si domandava: « Quae est igitur ista tanta in hominibus perversitas ut cum lautam atque elegantem utendi fruendique iuris supellectilem habeant, latinam illam ab Ulpiano, Paulo, Iuliano reliquisque eiusdem notae iurisconsultis relictam, librariorum legentiumque in-
scitia aerugine infestatam, eam ut aeruginem abstergeri nolint, sordida etiam supellectili hac gotica et barbara uti malint? » (41). Codesta tendenza di preferire volontariamente il male al bene era per lo meno singolare e tale da (39) L. Delaruelle, Etude sur V’humantsme francais: Guillaume Budé. Les origines, les débuts, les idées mattresses, Parigi, Cham-
pion, 1907, pp. 106-107. Cfr. J. Plattard, Guillaume Budé et les
origines de l’humanisme francais, Parigi, 1923. Segnalo agli studiosi
il trattato inedito di Budé, De canonica sodalitate (1533) che nel 1907 L. Dorez diceva di aver studiato in un lavoro dal titolo: Les idées politiques et religieuses de Guillaume Budé. Non mi risulta sia stato pubblicato. Cfr. E. De Budé, Vie de Guillaume Bude, Parigi, 1884. D. Rebitté, Guillaume Budé, restaurateur des études grecques en France, Essai historique, Parigi, Joubert, 1846. (40) C. di Pierro, Zibaldoni qutografi di Angelo Poliziano inediti, in « Giornale storico della lett. italiana», 1910, fasc. 163, pp. 1-32. (41) Budé, Annotationes in Pandectas, Lione, 1524, foglio x. 109
far pensare che quei giuristi per qualche incantamento degno di Circe, preferissero mangiare ghiande invece di cibi sani. Proprio nel secolo in cui finalmente era stata richiamata in onore la lingua latina, costoro preferivano la lingua dei barbari, « romanum sermonem respuunt, homines certe palati corruptissimi quamquam plerique palatini». E pitt innanzi nel suo trattato, a proposito di un richiamo a Quintiliano, Budé nuovamente si accendeva di sdegno nel sentire che al retore romano gli veniva opposto Accursio,
uomo che non aveva mai letto i classici e che aveva un merito solo, quello di aver macchiato con la sua ignoranza leleganza dei giureconsulti romani (« quorum elegantiam ac doctrinam permultis luculentisque vestigiis ignorantiae suae impressit »); onde per colpa sua quella antica bellezza era stata nascosta con errori durati per tre secoli (« iisdem erroribus, aliis atque aliis aetatibus subscribens, trecentis circiter annis ad extremum indignitatis perduxisse rem videtur ») (42).
Dell’importanza di questa sua attivita Budé era piu che mai cosciente. Nel 1517 Cutberto Tunstall gli scriveva dicendo la sua ammirazione per l’opera innovatrice da lul compiuta nel campo della giurisprudenza e ricorreva al paragone con l’opera di Erasmo. « Tu non minore diligentia, osservava Tunstall a Bude, veteres excussisti omnes et dum multa ex graeco sermone vertis in latinum, parem in utraque lingua facundiam adeptus, Pandectas, opus immensum et in quo non pauciores erant mendae quam legum capita,
commentantium vero errores multis partibus plures, tibl repurgandum putasti» (43). Assentiva per parte sua Bude a questo riconoscimento, e nella risposta all’amico (maggio 1517), pur essendo preoccupato di non turbare la suscetti-
bilita di Erasmo in quel periodo gia scossa, apertamente ammetteva quale vantaggio fosse venuto agli studi giuridici dalla sua revisione filologica ed abilmente si dilun(42) Budé, Annotationes in Pandectas, op. cit., foglio cxxx1. Di
questo testo mette conto anche sottolineare la delimitazione cronologica (érecentis circiter annis) che in questo caso corrisponde a quella gia indicata da R. Gaguin e dagli altri umanisti del secondo cenacolo. E chiaro che in questo periodo l’umanista delimita la notte medievale.
(43) Erasmo, Opus epistolarum, op. cit., vol. I, lettera 571
(aprile 1517), p. 540. 110
gava sui meriti dell’umanista olandese, sapendo che altrettanto meritava si dicesse di lui: « Ecquis est autem, si domandava Bude, tam adversis gratiis natus cul iam non sor-
deat pinguis illa ac tenebricosa Minerva, ex quo literae quoque sacrae Erasmi industria tersae, mundiciam priscam splendoremque receperunt? » (44). Ma gia Tunstall aveva unito i due grandi iniziatori del rinnovamento umanistico francese e tutta Europa colta aveva accettato il giudizio. A dire il vero l’amico era andato arditamente molto avanti quando aveva oSato stabilire un paragone con gli italiani. « Itaque ut meam de vobis sententiam qualencumque maio-
ribus iudiciis interponam: plus ad veterem eloquentiam multis antiquatam saeculis revocandam, plus ad instaurandas humaniores literas (absit invidia verbo), vos duo contulistis quam omnes Perotti, Laurentiil, addo etiam Hermolai, Politiani caeterique omnes qui ante vos fuerunt» (45). Chiaramente egli accennava allopera filologica degli umanisti poiché aggiungeva ancora: « Quamdiu in foro, quamdiu in templis, quibus in locis frequentissime versamur, patimur regnare barbariem! At e diverso reducta in haec loca facundia, ubi latitandi sibi locum amplius reperiet infantia barbara? ». Ma quanto cotesta attivita filologica fosse ancora necessaria e logicamente richiesta dallo stesso principio fondamentale dell’umanesimo, lo riconosceva Tunstall stesso conchiudendo: « Frustra igitur ad instaurandam latinam linguam diligentiam adhibueris, inanem omnem insumpseris operam, nisi prius in templa, nisi prius in forum, purum sermonem revoces ». (44) Budé, Lucubrationes variae, Pasilea, 1557. p- 360 (mag-
gio 1517).
(45) Erasmo, Opus epistolarum, op. cit., lettera citata, p. 539, 27-28. Tunstall, continuando il paragone con gli italiani, precisa
meglio la sua idea nel modo seguente: «Illi (gli italiani) ne in
comoediis et epigrammatis et historiis erraremus, elaborarunt; vos
tota de hominum vita tollendos errores curastis ». Dove si puo
Osservare come la differenza tra l’umanesimo italiano e quello straniero fosse nel concetto degli umanisti nordici veramente sostanaziale. I nostri umanisti erano giudicati troppo letterati (ed Erasmo arrivera fino a giudicarli pagani), poco preoccupati dal problema morale e€ quindi privi di un profondo senso umano di cui si vantavano gli stranieri. Questa differente concezione umanistica é alla base di molte polemiche ed incomprensioni che sorsero nel seco-
Jo XVI tra i nostri studiosi e quelli delle altre nazioni.
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In verita la materia teologica, data la sua delicatezza e lo stesso controllo sotto cui era tenuta, era stata l’ultima fra quante la filologia degli umanisti si era proposto di riformare. Questa era ]’opera riservata ad Erasmo, degna delle sue eccezionali capacita intellettuali. Gia Lefevre con l’edizione dei Salmi e delle Epistole di S. Paolo (46), aveva per
conto suo dato un ottimo avviamento. Alla revisione del testo sacro Erasmo era stato condotto dalla speciale sua concezione teologica, preoccupata di giungere alla verita ascoltando non 1 commenti degli uomini ma la stessa parola divina. Non per questo la sua reazione contro 1 teologi scolastici era differente da quella degli altri umanisti. Comune era la preoccupazione filologica, fatta in questo caso maggiormente attenta dal rispetto per 1] sacro testo. Non altro Erasmo si preoccupava di dimostrare nella Paraclesis, nel Methodus e nell’Apologia messe davanti alla sua edizione del Nuovo Testamento del 1516 (47) se non di giustificare Vapplicazione del metodo filologico alla Sacra Scrittura ed anzi di proclamarlo quale unico mezzo per comprendere ]’insegnamento del Cristo (47 bis). Diceva Erasmo di voler rispettare quanto avevano scritto i grandi mae-
stri di teologia ma affermava di preferire la diretta parola divina quale era stata dettata da Dio ai suoi profeti e ai suoi apostoli. Se come lui avessero pensato tutti i cristiani, un risveglio del sentimento religioso avrebbe percorso le moltitu(46) E’ noto infatti come Lefévre, dopo essersi occupato dal 1492
al 1507 della restaurazione filosofica ispirata dall’ammirazione per Aristotele, volse poi tutta la sua attivita alla teologia che si propose di riportare alla purezza dei primi secoli cristiani. Questa nuova fase incominciO con la traduzione compiuta con l’aiuto di Jean Chichtowe della Theologia di Giovanni Damasceno (H. Estienne, 1507) quando nel 1507 Lefévre fu accolto da Briconnet a SaintGermain-des-Pres. Nel 1508 pubblicd ledizione dei Salmi; nel 1512 quella delle Epistole di S. Paolo (Parisiis, H. Estienne, in-fol.) dove in una prefazione dedicata appunto a Briconnet spiega la sua preoc-
cupazione critica e quali principi abbiano diretto la sua edizione. Cfr. Imbart de la Tour, Origines de la Réforme, Parigi, 1909, vol, II, p. 389 sgg.; A. Renaudet, op. cit., p. 622 sgg.
(47) Desiderius Erasmus Roterodamus, Ausgewdhlte Werke,
ediz. crit. di Hajo e Annemarie Holborn, Monaio, Beck, 1933, Pp. 137 Seg.
(47bis) Cfr. F. Simone, Nuovi rapporti tra il riformismo e
Pumanesimo in Francia all’inizto del Cinquecento in Belfagor, mar20. 1949, pp. 149-167. 112
dini desiderose di verita. La teologia si sarebbe divulgata, cessando di essere un privilegio di pochi ed un disprezzo per moiti (48). Nel Methodus egli spiegava quale strumento prezioso fosse la filologia per la comprensione della Bibbia poiche non tutto si poteva accogliere e non agli errori della tradizione si poteva credere. La necessita della conoscenza delle tre lingue, latina, greca, ebraica, veniva dimostrata e con essa una preparazione letteraria vasta in cui non fosse trascurata alcuna disciplina (49) ed alla grammatica ed alla rettorica fosse data una attenzione particolare per acquistare l’esercizio del distinguere e del giudicare. Poiché questa e la regola principale. « Quod si diutius immorandum sit profanis litteris, equidem id fieri malim in his quae propilus affines sint arcanis libris ». Della sua opera filologica Erasmo discorreva piu particolarmente nell’Apologia, rispondendo alle accuse ed alle insinuazioni dei teologi tradizionalisti. Paragonando la sua opera a quella del Valla, enumerava la maggior quantita di codici da lui studiati, gli autor consultati e l’attenzione offerta ad ognuno onde assicurare una maggior esattezza e precisione al nuovo testo critico (50). Mandando a Leone X quella sua considerevole
fatica, Erasmo la presentava come il frutto pit prezioso della rinascita filologica (51) a cui aveva teso lo sforzo di
tutti gli umanisti in unione di opere e di mezzi (52). (48) Erasmo, op. cit., Paraclesis, p. 147. (49) Erasmo, op. cit., Methodus, p. 153. (50) Erasmo, op. cit. Apologia, p. 166. Nel 1505 Erasmo aveva
ristampato le Annotationes ad Novum Testamentum del Valla. Cir, Allen, The Age of Erasmus, Oxford, 1914, pp. 141-142.
(51) Erasmo, Opus epistolarum, op. cit., vol. II, lett. n. 384,
pp. 181-187.
(52) Per dimostrare quale affiatamento vi fosse in quegli anni fra gli umanisti, tutti intenti a raggiungere un’unica meta culturale, valga la testimonianza di Lefévre d’Etaples tratta dal Prologus in physices introductorios dialogos (folio LXXXI dell’ op. cit.) dedicato a H. Estienne: « Charissime Stephane quanta sit animorum benivolentia inter liberalium artium cultores in hoc nostro Parisio
studio (ubi res cognita esset) exterj mirarentur... Nec iniuria (ut
aiunt) nam et philosophia et philosophus nomina ab amore sortiun-
tur. Quid enim philosophia nisi sapientiae amor? Iure decet itaque ut recte sentiant ipsos esse amicos ». Come é noto, i rapporti amichevoli con Erasmo furono poi turbati da una discussione sorta per Vedizione del Nuovo Testamento e dai malintesi che ne segui-
rono. Cfr. Admonitio in mendacium in Biblioteca Erasmiana, Gand, 1893.
113
Frutto prezioso e delicato che egli affidava nelle robuste mani del giovane Capitone («hanc lampadam a nobis traditam accipe») affinché la sua opera fosse continuata secondo il suo preciso insegnamento. Il quale voleva non gia trascurare quanto era stato fatto ma rendere nella sua intera verita quanto 1 secoli avevano tramandato (53). Da tutti questi testi che sono venuto citando si puo ora facilmente comprendere quale fosse la particolare concezio-
ne della Rinascita espressa da Erasmo nella sintesi da lul tracciata. Come lui, per opera del suo magistero, pensavano tutti gli umanisti che in quel periodo operavano insegnando e scrivendo. Proponendosi di rigettare le incrostazioni medievali che si erano venute formando sui testi classici e sforzandosi di rileggerli come erano stati lasciati dall’antichita, essi avevano l’impressione di squarciare un velo tenebroso che per tanti secoli aveva coperto quelle opere e di gettare luce laddove non vi era che oscura ignoranza. A questa chiarificazione fatta con la penetrante lampada filologica cooperavano tutti, scegliendo ciascuno il proprio campo, secondo la propria inclinazione intellettuale ma servendosi tutti del medesimo metodo. Fra tanto lavoro e cosi vasta impresa si alza talvolta un grido di ammirazione e di stupore: e la coscienza di aver nuovamente ridato alla cul-
tura qualche opera da secoli abbandonata in manoscritti scorretti, mutili, indecifrabili. Quel grido é€ un inno alla rinascita e deriva dalla sicurezza di possedere un testo clasSico riportato nella sua critica esattezza. E questo naturalmente per quel tanto che lo potevano permettere i deboli mezzi scientifici del tempo. In verita Josse Bade al principio del secolo (1503), nella prefazione ad una nuova ristampa delle Epistolae di S. Paolo scriveva al cancelliere Pinel: « Non possum non gratulari huic saeculo nostro in quo cum bonis moribus iamdudum tuo tuique similium auspicio renatis aut in meliorem (ut dicunt) statum reformatis, etiam castis eloquiis et sanctis litteris receptum et pretium» (54); leditore anticipava cosi quanto con piu slancio Erasmo scriveva a Budé nel 1517, (53) Erasmo, Opus epistolarum, op. cit., vol. Il, lett. n. 541, Pp. 491, 119-120.
(54) Renouard, Bibliographie de Josse Bade, op. cit., vol. II, Pp. 376.
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dopo aver ricordato i nomi migliori di coloro che in Francia si dedicavano agli studi: « Deum immortalem quod saecu-
lum video brevi futurum! utinam contingat reiuvenescere» (55). Che fosse il secolo d’oro quello in cui viveva, Erasmo stesso aveva affermato proprio in una lettera a Leone X (1515): «Sensit ilico mundus Leonem gubernaculis rerum admotum, repente saeculum illud plusquam ferreum in aureum versum» (56). Ad Erasmo, per parte sua, Budé rispondeva (1517) facendo lVelogio di Francesco I. Grazie all’opera del regale mecenate l’umanista osava espri-
mere le speranze pit belle. I] re infatti si proponeva dl aiutare in ogni modo i letterati e pensava allora alla fondazione di una nuova istituzione in cui le arti liberali fossero protette con il dovuto onore (57). Uguale speranza, qualche anno prima, nel 1512, aveva espresso Vatable allarrivo di Aleandro. Lo studioso affermava che, a causa dell’ignoranza del greco, 1 migliori autori erano rimasti nelle tenebre e soprattutto i filosofi. Ora invece poiché a Parigi la lingua greca ritornava ad essere studiata, si poteva sperare che la repubblica delle lettere ne traesse un vantaggio duraturo (58). Non meno chiara e la coscienza rinascen-
ziale in quel medico versatile e pieno d’ingegno che fu Symphorien Champier. Mette conto ricordare di lui la Apologia literarum humaniorum che, pubblicata insieme alla Symphonia Platonis cum Aristotele nel 1516 (59), é tutta (55) Erasmo, Opus epistolarum, op. cit., vol. II, lett. n. 534, Pp. 479.
(56) Erasmo, Opus epistolarum, op. cit., vol. II, lett. n. 335, P. 82.
(57) Budé, Lucubrationes variae, op. cit., fol. 337. Cfr. L. Delaruelle, Répertoire analytique et cronologique de la correspondance
de G. Budé, Parigi, Champion, 1907, p. 14, dove si fa notare che quando Budé dice di Francesco I « literarum nescius » vuol dire soltanto che il re non conosceva il latino e non come interpreta il Lefranc (Histotre du College de France, Parigi, 1893, p. 47, n. 1) che esso fosse un ignorante. I] testo citato dal Lefranc manca di una variante che chiarifica il senso. (58) Testo citato da H. Omont, Essat sur les débuts de la typographie grecque a Paris, in « Mémories de la _ société de Vhistoire
de Paris et de l’Ile le France », XVIII, 1891, p. 58. (59) Symphonia Platonis cum Aristotele et Galeni cum Hip-
pocrate D. Symphoriani Champerii - Hippocratica philosophta etusdem - Platonica medicina de duplici mundo cum etusdem scholits Speculum medicinale platonicum et apologta literarum humaniorum, Parisiis, Josse Bade, 1516. 115
una vigorosa difesa dei nuovi studi di cui lo Champier stesso si vantava di essere un valido sostenitore. Merito questo che gli riconosceva Stefano de Barro nella letteraprefazione indirizzata a Lefévre d’Etaples in cui il comune amico viene paragonato ad Ercole. Infatti come questo domo i mostri, « ille (Champier) facundiam artis paeoniae bonam
magnamque partem prius incultam et ielunam expolivit atque adornavit ». Questo elogio non si sarebbe potuto fare a Lefevre poichée egli si conservo sempre piuttosto dimesso nello stile e non certo elegante, preoccupato come fu della sola rinascita filosofica. Alla quale, per altro, fermamente credette. Indirizzandosi a Germain de Ganay, nella prefazione ai suoi commenti alla Metafisica di Aristotele (60),
diceva di essersi proposto di far comprendere a chi non voleva leggere i filosofi pagani, quali spirituali interpreti della verita divina essi fossero. « Libuit ergo commentarioJos parare ut caeteris detur occasio metaphysica divine intelligendi et de piis philosophis mitius cogitandi quos suo tempore fecit Deus suos sacerdotes, suos vates et faces quod ad tempora nostra lucent ». Per mezzo dei filosofi Dio era
presente fra gli uomini («ipsis tamen de suo coelo lucebat ») ed irradiava la sua luce di sapienza e di verita. Questi medesimi concetti sono ripresi da Champier, fervido ammiratore di Lefevre. I] medico lionese si propone
di dimostrare quanto la cultura classica sia una preparazione alla vita cristiana e svela preoccupazioni caratteristiche dell’umanesimo francese tutt’altro che indipendente dalla soggezione teologica. Egli infatti trova una sola giu(60) Lefévre d’Etaples, Praefatio in commentariolos introductovtos metaphysices Aristotelis (folio CCLV dell’ op. cit.). Qui Lefévre riesponeva un concetto prettamente umanistico che gli veniva dalla tradizione dell’umanesimo medievale. Esso era sempre stato l’argomento principale contro coloro che negavano ogni valore apologetico
all’antichita classica. Cfr. Marrou, Saint Augustin et la fin de !a culture antique, Parigi, De Bocard, 1938, p. 390sgg. A questo concetto aderiranno, in generale, tutti gli umanisti francesi fra cul Champier stesso e Budé. E’ questo un esempio, fra quanti si
presentano spontaneamente nel corso della trattazione, che serve a dimostrare nel modo piu chiaro come i nostri autori fossero legati a tutta la cultura dei secoli medievali dalla quale dipendevano quasi in modo completo sia per la concezione generale della cultura come per i mevzzi della cultura stessa. Cfr. F. Simone, La « reductio arttum ad Sacram scripturam y quale espressione dell’umanesimo medievale fino al sec. XII in Convivium, 1949, fasc. V. 116
stificazione agli studi umanistici nel loro vantaggio per la teologia. Rispondendo alle varie obbiezioni che frequenti in quel periodo dovevano intralciare lattivita degli umanisti
e sono noti 1 loro sdegni, il nostro autore consiglia lo studio dei classici perche anche nelle loro opere si trovano concezioni e consigli accettabili da un cristiano. Ed a questo riguardo caratteristico rimane il cap. V in cui Champier, cercando di spiegare quello che pensassero della filosofia platonica gli autori cristiani, afferma che gia in Platone si trovano « principia quaedam verae theologiae». Di altre obbiezioni bastera accennare il titolo come questa: « An liceat christiano literis gentilium videlicet Orphaet Mercuri Platonis incumbere » oppure quest’altra: « Si liceat viro catholico Deum vocare Iovem » per comprendere il valore ma anche i limiti, di tutta la concezione della Rinascita in quegli anni dagli studiosi francesi affermata. Giova aggiungere che di questa erano consapevoli non solo gli umanisti ma anche i letterati in genere che, senza comprendere 1 motivi e gli scopi profondi di quella ripresa
vigorosa degli studi, sentivano tuttavia che il clima era mutato e divenuto piu accogliente per le opere intellettuaili. Jean Lemaire de Belges per parte sua, fin dal prologo del
primo libro (1510) della sua opera Illustrations de Gale et singularitez de Troye, rivolgendosi alla principessa Mar-
gherita d’Austria, riconosceva che «toutes sciences sont plus esclarcies que jamais » (61) mentre nel Temple de Vémus (1511), riprendendo lumanistico sdegno per il passato
medievale, disprezzava i poeti dei secoli precedenti e lodava 1 nuovi a cui porgeva attenzione cordiale: « Tous vieux flageots, guisternes primeraines Psalterions et anciens decacordes sont assourdis par harpes souveraines. Par le doux son des nouveaux monocordes Ont mis sous bane les gens du roy Clovis Leurs viiesles, leurs vieux plectres et cordes » (62).
Cesi, come negli altri campi della cultura, Jean Lemaire segnava nella storia della poesia una rottura con la (61) J. Lemaire de Belges, Illustrations de Gaule et singularitez de Troye, Lione, Jean de Tournes, 1549, prologo. (62) J. Lemaire de Belges, Temple de Vénus in La concorde des deux langages, ediz. crit. di J. Frappier, Parigi, Droz, 1947, Pp. 17; VV. 247-252.
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quale misconosceva ogni rapporto tra Medio Evo e Rinascimento. E di questa rottura, come é stato notato, si ricordera ancora Sainte-Beuve (63).
IV. - Nel terzo decennio del Cinquecento gli umanisti riaffermano Vautonomia degli studi letterart arric-
chiti dallo studio di tutte le lingue antiche (rinascita — autonomia degli studi letterari).
L’edizione critica del Nuovo Testamento di Erasmo rappresento verso il 1516 il frutto piu maturo dell’umanesimo europeo. Quell’opera raccolse, insieme alla viva ammirazione, i piu vasti consensi che procurarono all’autore larga
fama tanto da renderlo in quel giro di anni il centro spirituale di tutta ]’Europa colta. In tal modo si diffuse e si divulgo una specifica concezione intellettuale che per lui fu detta erasmismo (64) ed erasmiani furono chiamati 1 suoi aderenti come attesta John Maier di Eck quando, scrivendo al maestro dice: « ... Ut omnes ferme docti prorsus sint Erasmiani, cucullatis paucis demptis et theologastris » (65). Non ultimi fra gli ammiratori stavano gli umanisti francesi che stretti contatti avevano sempre mantenuto con Volan-
dese (66) e piu ancora si proponevano di stringerne ora che il re Francesco I aveva espresso il desiderio di vedere Erasmo insegnare a Parigi. Di questo proposito si giovo in modo speciale Budeé che intensifico le relazioni epistolari con Erasmo poiché a lui il re aveva affidato Vincarico di convincere l’amico alla nuova residenza. Se prima i due umanisti aveva rivelato soltanto una reciproca stima, ora, in quegli anni in cui pareva che attorno al grande olandese le (63) Sainte-Beuve, Nouveaux Lundis, t. XIII, p. 363.
(64) Imbart de la Tour, op. cit., vol. II, p. 332; A. Renaudet et H. Hauser, Les débuts de l’dge moderne, Parigi, 1930, p. 129; A. Renaudet, Etudes érasmiennes (1521-1529), Parigi, Droz, 1939, . 157.
r (65) Erasmo, Opus epistolarum, op. cit., vol. III, lett. n. 769, p. 209. Cfr. J. Huizinga, Erasmo, trad. ital., Torino, 1941, p. 149. (66) Renaudet et Hauser, op. cit., p. 282: « L’umanisme en France depuis les premieres années du_ siécle (XVI°) s’inspirait d’Erasme plus que des Italiens. Forteresse de la scolastique, Paris devenait la capitale de la culture nouvelle ». 118
opposizioni si fossero placate, Budé dichiarava senza reticenze l’ammirazione che le nuove opere avevano suscitato in lui. L’umanista francese apprezzava in Erasmo soprattutto il grande filologo. Nella lettera a Tunstall egli si domandava: « Ecquis est autem tam adversis gratils natus cul iam non sordeat pinguis illa ac tenebricosa Minerva, ex qua literae quoque sacrae Erasmi industria tersae, mundiciam priscam splendoremque receperunt? Quamquam id longe maius est quod idem eadem opera praestitit ut veritas ipsa sacrosanta ex cimmeriis illis tenebris emergeret » (67).
Ne gli potevano sfuggire gli stretti legami che univano questo ultimo passo fortunato del rinnovamento letterario con quanti erano stati compluti in Francia da lui stesso, da Lefévre e da Josse Bade. Tuttavia la perizia dimostrata era
tanta e cosi adeguata alle difficolta presentate dal testo sacro che Budé non poteva non seguire ghi insegnamenti che con quell’opera venivano impartiti a tutti gli umanisti. Fra quanti allora in Francia attendevano con amore allo studio delle lettere non é€ dubbio che Budé era il piu preparato ad accogliere il metodo erasmiano ed a farlo fruttare. Quel suo amore per lo studio che lo aveva conquistato fin dalla prima giovinezza; quella sua nativa intuizione dei problemi letterari dimostrata con la traduzione latina dei trattati di Plutarco (1503-1505); infine quella sua passione per la filologia che egli diceva sua unica sposa (68), sono tutte testimonianze della maturita culturale con cui Budé $1 accingeva ad accogliere ]’eredita di Erasmo.
Per altro il commento alle Pandette aveva gia offerto sufficiente testimonianza del grado di preparazione filologica a cul era giunto, per conto suo, il nostro umanista. (67) Budé, Lucubrationes variae, op. cit., f. 360.
(68) Budé, Lucubrationes variae, op. cit., f. 368, lettera del 1516 ad Erasmo: « At ego te hoc ignorare nolo me quidem rivalem esse tibi in amore Philologiae: sed quam tibi uxorem esse dicis, non longe a contubernio meo adfuisse ex quo hoc insano literarum amore captus sum ». Budé attesta il suo amore per la filologia pure in una lettera a Tommaso Moro del 1518 (op. cit., f. 247); in una lettera a Guillaume du Maine del 1521 (op. cit., f. 421) ed in un/altra lettera a Claude Robertet del 1523 (op. cit.,
f. 384). Si veda poi tutto il trattato De Philologia. Cfr. ora la
bella lettera a Tommaso Moro in ediz. crit. presso The Correspondence of Sir Thomas More, ediz. di E. F, Rogers, Princeton, Princeton University Press, 1947, n. 66, pp. 125-132. 119
Accingendosi a diffondere in Francia il metodo di Erasmo egli lo faceva con piena conoscenza delle difficolta che esso avrebbe incontrato e dei vantaggi che avrebbe recato. In verita gli umanisti francesi ripetutamente avevano caldeggiato la formazione filologica e per conto loro avevano imposto nella Sorbona il ritorno all’insegnamento del greco e dell’ebraico a cui molte delle loro speranze erano affidate. Che Erasmo ora rivolgendosi a tutto il mondo della cultura confermasse quei propositi (69) e con tutto il peso della sua esperienza li avvalorasse, era per loro buona ventura. Tuttavia Pedizione erasmiana del Nuovo Testamento si proponeva uno scopo ben pit importante. Essa doveva diventare un mezzo efficace per diffondere la particolare concezione teologica basata sulla diretta lettura del testo sacro che ciascuno avrebbe dovuto compiere a suo personale van-
taggio spirituale. A questo scopo Erasmo offriva a tutti l’esatta psrola divina liberata da una tradizione ingenua e spesso ignorante che l]’aveva travisata. La critica testuale acquistava cosi una importanza di primo piano e faceva si
che tutta la filologia sostituisse la filosofia nello stretto rapporto che essa da secoli aveva sempre avuto con la teoIcgia. Per questo nuovo carattere religioso acquistato, la nuova scienza si avvantaggiava sulle altre arti liberali e tutte le precedeva. Gli umanisti francesi non compresero o non vollero comprendere in quel particolare momento storico l’importanza religiosa del metodo critico di Erasmo; la maggior
parte di essi non lo segui sulla via della sua riforma e meno che mai si avventuro per il sentiero riformista a cui essoO pareva invitare. Se qualcuno volle tentare l’avventura, trovo duri ostacoli nell’autorita costituita che stronco ogni velleita anche con il rogo. Invece essi furono apertamente consenzienti circa la nuova importanza riconosciuta alla filologia. Budé nel suo trattato De studio litterarum recte instituendo (70) espone tutto un piano di studi che da (69) A. Renaudet, Etudes érasmiennes, op. cit., p. 122: « Luiméme (Erasmo) n’a jamais caché qu’il entendait, pour le bien de l’Eglise chrétienne et de l’esprit humain, rétablir l’harmonie centre le savoir théologique et ces nouveaut¢s qu’étaient alors la philologie,
la linguistique, la critique des textes, la haute culture de 1’individu... ».
(70) Budé, Lucubrationes variae, op. cit., fol. 3 sgg. 120
Erasmo deriva le migliori idee e con queste le piu’ probanti giustificazioni. Quel trattato dimostra come nel decennio o poco piu che segue la nuova edizione dell’opera erasmiana (1518), le nuove idee trovarono viva eco e perfetta comprensione nella Francia di Francesco I che assisteva intanto
alla morte di Leonardo ad Amboise ed alla sconfitta del suo re a Pavia mentre lontano lorizzonte si illuminava dei bagliori del sacco di Roma. Per altro in quel decennio le idee maturarono ed intrapresero un nuovo cammino che
veniva ancora una volta illustrato dallo stesso Bude. Infatti il trattato De Philologia (1530) (71) non é soltanto, come in genere viene creduto, uno scritto in cul si caldeggia la fondazione del Collége de France del quale si espongono tutti i vantaggi. Un‘idea ben pitt nuova viene esposta in quelYopera e cioé lindipendenza degli studi letterari raggruppati in una unica disciplina fornita di una sua propria vi-
talita e capace di una sua autonomia. Bude per filologia intende non soltanto la scienza che si occupa della critica dei testi ma anche quel vasto complesso di cognizioni che a volte dice litterarum scientia oppure semplicemente sapientia o ancora studium bonarum litterarum e che proprio alla fine del trattato definisce come la disciplina « quae uno nomine liberalia studia complectitur» (72). A questi studi il nostro umanista concede quella autonomia che l’organizzazione medievale aveva in parte limitato, fissandoli in
una severa gerarchia (73). Gia nella volonta di voler distinta dallistituzione sorbonica la nuova organizzazione Si rivela il recondito scopo degli umanisti, desiderosi che gli studi letterarl non soggiacessero ma dominassero le altre discipline. Onde Bude parlera appunto della scienza filologica come di quella « quae omnes alias complectitur atque intra suum orbem coércet. quae suis finibus singulas quasi architectonico iure circumscribit » (74). Il De Philologia,
cronologicamente composto dopo il De studio litterarum (71) Budé, Lucubrationes variae, op. cit., fol. 31 sgg.
(72) Budé, De Philologia, op. cit., fol. 95 Cfr. H. Chamard, Les origines de la poésie francaise de la Renaissance, Parigi, 1920, . 272.
" (73) Cfr. L. J. Paetow, The Arts Course at Medieval Univers stiies with Special Reference to Grammar and Rhetoric, University
of Illinois; The University Studies, vol. TI, n. 7, 1910. (74) Budé, De Philologia, op. cit., fol. 48, C.
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recte instituendo (1527) e prima del De transitu Hellenismi ad Christianismum, (1535) rappresenta il passo piu ardito della concezione del nostro umanista. In esso l’insegnamento erasmiano é sviluppato fino alle sue logiche conseguenze mentre nell’ultimo trattato Budé pare ritrarsi, fatto timoroso dalla sua stessa audacia e dall’eta avanzata reso curioso soltanto dei problemi religiosi (75). Comunque la concezione resto quale era stata formulata ed il College de France non altro rappresento che la realizzazione pratica delPautonomia degli studi letterari.
Intraprendendo ad esporre lungamente la sua teoria, Budé incomincia con un ampio elogio dell’eloquenza, cioé
degli studi letterari di cui dice tutti i meriti e tutti 1 vantaggi, non ultimo quello di fornire al re dei dotti storiografi. Non degna di questa loro capacita era la situazione che alle lettere era fatta nella cultura universitaria. « Nam quid iniquius », si domandava l’umanista, « eo esse potest quod quam disciplinam ad omnium artium honestarum interpretationem, explanationem et iudicium, omnium honorum administrationem illustrem et spectandam, viam munire et gradum facere non dubium est apud homines peritissimos, ea una disciplina omnibus honorum gradibus dejecta, omnibus cassa dignitatum insignibus est, ut nec in orchestra nec in ordinibus theatri reipublicae nostrae sessum spectatumque admittatur? » (76). Budé confrontava
la disciplina letteraria sua con le altre sue consorelle e metteva in risalto come queste fossero piu favorite di quelle. « Queritur autem chorus ille disciplinarum ingenuarum atque liberalium quem Graeci eruditionis orbem patrio verbo appellaverunt, non eodem se numero, non pari loco universum haberi quo singulae artes longe illiberaliores habentur » (77). Budé pensava al diritto, alla medicina, alla teologia; vedeva queste discipline organizzate scolastica-
mente, frequentate dalla gioventu, favorite dai potenti e cercava di comprendere il motivo del successo di queste e della sfortuna delle lettere. A spiegazione del fatto ricordava lindifferenza della corte per l’eloquenza, lincompletezza della cultura universitaria, il disprezzo dei teolo(75) Cfr. D. Rebitté, Guillaume Budé, op. cit., p. 194 sgg. (76) Budé, De Philologia, op. cit., fol. 47, B. (77) Budé, De Philologia, op. cit., fol. 40, C. 122
gi e dei filosofi. Onde concludeva manifestando la sua meraviglia che, pur in cosi sfavorevoli condizioni, le lettere avessero potuto ugualmente rifiorire e diceva degni della piu grande ammirazione coloro che con grande fiducia si erano dedicati «ad interpolandam, reconcinnandam, denuo perpoliendam eloquentiam quae tot saeculis in squallore [sic] iacuit et situ foedissimo » (78). E tanto piu ammirevole era quell’opera in quanto quei valorosi lavoravano senza la speranza di alcun riconoscimento. Per mutare una cosi dclorosa condizione Budé si rivolgeva direttamente a Francesco I. Al re chiedeva di riconoscere la vera importanza
degli studi letterari i quali dovevano essere parificati a quelli giuridici, teologici, medici ed aprire ai giovani una carriera ed una situazione sociale. Essi dovevano cessare di essere semplicemente propedeutici. Nulla poteva essere fatto di piu illustre quanto il richiamare la sacra Minerva dalle tenebre in cui era stata abbandonata a piu dignitosa condizione e meritato rispetto (« ex umbratilibus illis textrinis et studiorum obscuritate ad conditiones vitae illustres ») (79). In verita se grande veniva ad essere il merito di Francesco I che con la sua munificenza dimostrava di comprendere limportanza del gesto, grandissimo era il merito di Budé che il gesto e la munificenza per lun-
ghi anni aveva consigliato e quasi provocato. Onde a buon diritto per quella sua opera e per quanto di essa rende testimonianza questo trattato, egli e detto il restauratore della filologia in Francia (80).
Tuttavia dal particolare punto di vista da cui si esamina il De Philologia, un altro merito non meno grande acquista Budé. Egli infatti pud essere considerato il primo storico dellumanesimo francese. Per difendere la concezione dell’autonomia degli studi letterari nell’opera ven-
gono fatti frequenti accenni ai vari progressi del movimento umanistico. Ora, riunendo tutti quei vari testi, si puo avere una quasi completa visione del cammino compiuto dagli studi in quel preciso periodo storico. Bude di-
mostra di avere una chiara coscienza del valore del suo umanesimo anche se quella egli disperde nel suo carat(78) Budé, De Philologia, op. cit., fol. 46, D. (79) Budé, De Philologia, op. cit., fol. 94, C. (80) Cfr. J. Plattard, recens. a Delaruelle in « Revue des études rabelaisiennes », 1907, p. 321.
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teristico argomentare pieno di ritorsioni di pensiero e di digressioni. Egli non ignora di aver fatto compiere alla concezione umanistica l’ultimo passo che con graduale sviluppo, strappando dalla soggezione medievale gli studi letterari, questi aveva riportato al trionfo della loro compieta autonomia.
Gia dalla prefazione lumanista ricorda il lontano periodo in cui gli studi letterarl erano immersi nelle tenepre delV’ignoranza e parla di un « diuturnum naufragium »
Gi cui le lettere classiche erano state vittima e da cul era
pur necessario che fossero salvate (81). Piu avanti, nel primo libro del trattato, ricorda le tristi1 condizioni dei tempi in cui le lettere erano dimenticate (« literarum obscuritate quasi quadam caligine obducta»). Tuttavia non addebita a nessuno quello stato di cose (« indulgentius aequiusque agendum esse») poiché le intelligenze non erano ancora mature per comprendere le nuove idee. Gli stessi re non compresero quanto avrebbe loro giovato lIavere storiografi valenti e permisero che si tramandassero, invece delle verita, le leggende che ancora ai suoi tempi erano credute (« unde adhuc hodie, dispulsa rudiorum aetatum nebula hac literarum luce, imbutas tamen imperitorum mentes videmus ») (62). Poi al tempo di Carlo VIII e di Luigi XII (83), grazie allinfluenza della cultura italiana ricevuta in cambio delle guerre d’oltralpe, una maggliore comprensione per gli studi letterari si era manifestata fra la classe colta francese. In quel tempo Budé che pur Si era dedicato esclusivamente agli studi, era stato invitato a corte. In verita, aggiunge ’umanista, né Carlo VIII ne Luigi XII avevano molto tempo libero dagli affari politici per potersi dedicare ai problemi letterari ma avevano il vantaggio di avere vicino Guy de Rochefort che era uomo amante degli studi ed attento a tutte le manifestazioni della cultura. Sicche le lettere furono considerate un complemento della attivita politica. I cortigiani, per parte loro attratti piuttosto dalla vita pratica che dal quotidiano raccoglimento del lavoro intellettuale, gettarono il discredito (81) Budé, De Philologta, op. cit., fol. 33, A. (82) Budé, De Philologia, op. cit., fol. 49, B. (83) Ph. Aug. Becker, La vie littéraire a la cour de Louis XII, in « Neuphilologische Mitteilungen », Helsingfors, 1922, XXIII, p. 113. 124.
sulle persone di studio che consideravano degli stolti e de-
gli indolenti (84). Tuttavia Carlo VIII si interesso agli studi greci di Bude che in quel tempo erano ai loro inizi e rappresentavano un ardito progresso. « Tametsi Rex Carolus humanitate singulari liberalitateque memorabili praeditus et literarum elegantium opinione quadam im-
butus, quarum nomen tantum in Italia raptim quasique per transennam audierat, earum me gratia et Graecarum praecipue quae tum in Francia pene erant inauditae, evocandum mandarat » (85). Il re adunque volle conoscere Bude che rappresentava una curiosa rarita in queil’ambiente di indotti guerrieri come colui che da solo con un paziente lavoro si era formato una profonda cultura classica ed aveva acquistato una perfetta padronanza della lingua greca.
Fatto questo non di lieve importanza in quanto allora in Francia le lettere erano in generale trascurate (« erat tum in Francia literarum bonarum doctrina ferme tam vendibilis et expetia quam olim erat Lacedaemone ars scenica atque histrionica »). Tuttavia, conchiude Bude, se quei primi
tentativl non riuscirono a recare i vantaggi che era legittimo sperare, questo fu per colpa non della mancanza della buona volonta dei re ma per lopposizione dei cortigiani. Pur nella generale indifferenza, senza alcun aiuto dei potenti, anche con l’opposizione della classe dirigente, 1 pochi fedeli degli studi continuarono la loro opera. « Omnes iam
fere ingenio felici ingenuaque voluntate nati e veterno pristino incuriae ac socordiae excitati sunt liberalliaque studia capessere, id est literas bonas lautioresque certatim
instituerunt, naviterque colere». E cosi, attraverso fatiche e difficolta, si giunge finalmente al primo riconoscimen-
to dell’importanza degli studi letterari. Questo momento viene da Budé fissato anche cronologicamente. Infatti nella prefazione, augurando la miglior fortuna alle lettere dice che queste ebbero il loro « natalem instaurativum » con Passunzione al trono di Francesco I, mentre, al principio del secondo libro, spiega piu diffusamente cosi: « Cum lite-
rae vere Latinae annos plus mille intermortuae fuissent, Graecae etiam conclamatae citra mare Ionium et tamquam funere elatae ac conditae, iamdiu tamen in Italia, regione (84) Budé, De Philologia, op. cit., fol. 52, C. (85) Budé, De Philologia, op. cit., fol. 53, B. 125
literis semper hospitalissima, redivivam auctoritatem ac splendorem utraeque habere coeperunt. Cum interim Alpes mulis etiam clitellariis pervias, armillatisque tabellariis cursu diurno ac nocturno superabiles, literae ipsae bonae transire aut nequiverint aut respuerint ut quidem ad nos accederent, quasi commercio nobis earum adempto aut nostro illis interdicto, quoad tandem tuo appetente principatu, ipsas pedetentim quasique sese dissimulantes, Phi-
lologia mihi primo nostratium et (quod equidem norim) uni diu vere familiaris, ingenti contentione accitas, aegreque evocatas, ea hospitalitate prosecuta est ut lam ipsae diversari in Francia non nollent» (86). Questo é il passo Gove Bude espone con piu chiarezza la sua coscienza del rinnovamento letterario quale a lui appariva nel suo sto-
rico sviluppo. Mette conto notare come egli, diversamente da quanto si giudica comunemente, sembri non valutare molto il contributo culturale delle guerre d’Italia e come manifesti la tendenza di ritardare al secondo decennio del sec. XVI il primo effettivo risveglio delle lettere francesi. A questa idea egli ritorna sul finire dell’opera dove paragona la Francia a Penelope, in attesa questa di Ulisse, quella di Francesco I per il quale i Proci sono rappresentati dai cortigiani ignoranti e tradizionalisti. Con Francesco I adunque, secondo Bude, si supera ogni ostacolo e gli studi letterari ritornano nel loro dovuto onore. Ma questo ancora avviene gradatamente fino a quando, proponendo il re Vistituzione dei lettori reali, ultimo passo viene compiuto e Vultimo velo di barbarie definitivamente strappato. I risultati subito si annunziano numerosi: la lin-
gua latina viene acquistando una sempre maggiore ricchezza e duttilita onde puo servire per qualunque argomento e persino, come esemplifica Budé, per la viva descrizione di un episodio di caccia; la giurisprudenza riportata alle sue classiche fonti con vantaggio di tutto l’organismo politico dello stato; finalmente piu abili storio-
grafi sl preparano a narrare in modo degno le imprese del grande re. Onde conchiude Bude: « Cum igitur literas vitae restituas postliminio aetatis nostrae videamus, cum nihil iam hoc tempus ad numeros ultimos scribendi facultatis praeter regum et principum hominum opitulatio(86) Budé, De Philologia, op. cit., fol. 60, C. Cfr. fol. 54, C. 126
nem desideret, quid iam vetat nos sperare Demosthenes, Platones, Thucydides, Tullios, Livios eiusdem notae scriptorum et supparis, mox in medium prodituros, non imitatores tantum illorum antiquorum sed etiam aemulos? » (87). Sogno che tutto conquista il nostro autore il quale fermamente spera che « prisca literarum claritas in Francia rcediviva videatur ». Pare frenare tanto legittimo entusiasmo
il re Francesco I che nel trattato a forma di dialogo, regge la parte di uno dei due interlocutori. Egli infatti osserva che non vi sono eta di luce ed altre di tenebre, poiché tutte le eta tra loro sono collegate da un unico progresso. Ma all’obbiezione Bude precisa, in un modo molto interessante per il nostro punto di vista, che quando egli accenna ad una nuova eta in formazione come di una luce nuova che dilegua le tenebre, egli intende parlare di un periodo in cui la concezione di vita degli antichi sia elevata dagli uomini a regola delle loro azioni ed a principio della loro sapienza. « Nec dubitabo, conclude l’umanista, dicere posse antiquam quam vocant sapientiam, ad mores humanitate condiendos et perpoliendos, iusto pene postliminio intra aetatem unam restitui» (88). Difficilmente Bude avrebbe potuto definire in modo piu chiaro che cosa egli intendesse per Rinascita umanistica, ma anche non avrebbe potuto meglio indicarci quale valore egli attribuisse alla liberta ed alla autonomia che gli studi letterari reclamavano in Francia verso Vanno 1530.
Questa concezione della Rinascita tanto diffusamente
splegata da Budé, € comune a tutte le menti pid aperte che in quel periodo si interessavano agli studi. Ma poiché (87) Budé, De Philologia, op. cit., fol. 87, A. Un testo alitrettanto significativo nel De Asse (Lione, 1542, p. 589): « Nuper tamen instauratae utriusque linguae felicitate studia iuvenum nostrorum magnopere exarserunt. Pauci enim literarum admiratione ducti, pertinaci studio multorum aemulationem excitaverunt; simul Italorum industria qui libros is dies alios atque alios edide-
runt, literarum bonarum nomen non pridem nostris inauditum, primum invisum, deinde neglectum, postremo festivum ac plausibile
esse coepit. Nunc etiam eousque honori habitum, praesertim literarum graecarum auctoritate (quae ab initio ipsae prodigiosae ac
propemodum dirae putabantur) ut ii qui maxime refractarii per
inscitiam futuri videbantur, liberos suos iis literis instituendos iam percupide tradant, nominatim etiam quasi ex formula caventes ut literis bonis probatisque eruditi reddantur ». (88) Budé, De Philologia, op. cit., fol. 88. 127
del nuovo progresso fatto dagli studi il lato piu positivo e pil appariscente era Vlistituzione dei lettori reali e poiché codesta istituzione era merito della comprensione di Francesco I, gli studiosi rivolsero le loro lodi e ringraziamenti al re. Per questo tutte le lodi che in quegli anni vennero lJargite al re francese non sono da interpretarsi sempre come volgare adulazione ma come il riconoscimento di un contributo effettivo dato alle lettere che avevano trovato in Francesco I un Padre e un protettore (89). Cosi Pierre Bunel, scrivendo a Pierre Chastellain (90), diceva che
grazie all’aiuto del re le lettere avevano trovato un’accoglienza quale a nessuno era lecito credere prima: « Nactus est liberalissimum Principem nobis divinitus datum qui omnes bonas artes superiorum temporum iniuria in Gallia pene sepultas 7n lucem revocaret: cuius benignitate incredibili etsi tantum effectum est quantum optare perpaucis, sperare certe nemini in mentem venerat...». Tuttavia Vumanista aggiungeva che molto restava ancora da compiere: « Munienda est arx ista litterarum non solum contra Vim praesentem impetumque barbarorum quos repellere superstite Francisco rege non erit non difficile ». Restava quale sicura garanzia dell’avvenire il molto che gia era stato fatto onde Bunel conchiudeva dicendo: « Francisci nomen antea inter Reges inauditum, ad ingenuas disciplinas instaurandas fatale mihi videtur ». Idee che non molto diversamente esponeva Marot nel suo Enfer (1526) quando rivolgendosi al re diceva: « O Roy heureux soubs lequel sont entrez (Presque periz) les lettres et lettrez! » e quindi non mancava di ricordare tutti gli ostacoli che erano stati superati: (89) Cfr. W. Heubi, Francois premier et le mouvement intellectuel en France, Parigi, 1913; J. Plattard, Francois premier, pére des lettres in « Pubblications de l'Institut francais en Portugal », Coimbra, 1929, pp. 13; A. Tilley, op. cit., vol. I, cap. I. (90) Pierre Bunel, Familiares aliquot epistolae in adulescentularum Ciceronis studiosorum gratiam typis excusae, Coloniae, 1568,
In una lettera a Francois Olivier, cancelliere di Francia, ripete: « Facile enim intellectum est ex eO quod nuper te consiliario et impulsore, Rex, bonis Omnibus plaudentibus, edixit de sanandis vulneribus quae superiorum temporum iniquitate Galliae nostrae imposita fuerunt ». 128
« Et d’autre part (dont noz jours sont heureux) Le beau verger des lettres plantureux Nous reproduict ses fleurs et grandz jonchees Par cy devant flaistries et sechees Par le froid vent d’ignorance » (91). A questa barbara ignoranza finalmente dispersa accennava anche Budé quando in una lettera a Nicolas Bourbon (1529) ricordava quei tall predicatori che nei loro sermoni pareva cercassero sollevare la moltitudine contro gli studiosi deiia lingua greca (92). Josse Bade aile medesime cifficolta accennava quando, nella prefazione ad un nuovo commento di Orazio (1503), diceva: « Non ignorabamus invi-
dulos (quos forsan paucos nonnuillos tamen habere meruimus) haec nostra studia improbaturos quasi vero rei litterariae, dum illi imprudenter consulere studuimus, longe plus lacturae quam commodi fecerimus » (93). Qui troviamo specificato con quali argomentazioni gli oppositor1 intralciassero il cammino dellumanesimo. Per parte sua Peletier, piu tardi ricordando gli ostacoli incontrati dal padre il quale era a Le Mans uno dei pochi che s’interessassero agli studi, lamentava ch’egli fosse vissuto « in ea tempora quibus bonarum artium studia in Gallia vix nascebantur » (94). Tuttaviu per essere gli studi finalmente risorti si rallegrava Nicolas Bourbon
in una poesia In laudem Dei Optimi Maximi dove Iddio veniva ringraziato perche con la luce della sua sapienza Gisperdeva le tenebre dell’ignoranza, facendo ridiscendere
la verita sulla terra dove da molti secoli una turba di pedanti aveva ridotto il mondo ad un mare di errori (95). Finalmente queste idee riassumeva Rabelais nel noto cap. VIII del Pantagruel mentre in una lettera ad André Tiraqueau le ripeteva in quel medesimo anno (1532) in lati(91) Marot, Oeuvres completes, ediz. Grenier, vol. I, p. 54. NellL Enfer Marot combatte soprattutto Vignoran-sa dei giuristi e quindt ripete molti concetti di Budeé.
(92) Budé, Lucubrationes variae, op. cit., fol. 391; cfr. L. DeJaruelle, Répertoire analytique et chronologique de la correspondance de G. Budé, Parigi, 1907, p. 231. (93) Ph. Renouard, op. cit., vol. TT. p. 506. (94) J. Peletier du Mans. De constitutione horoscopit commentarium, Basileae apud Ioannem Oporinum. 1563. (95) Nicolas Bourbon, Nugae, Parigi, Vascosan. 1523. Cfr. L. De
Santi, Rabelais et Nicolas Bourbon in « Revue du NVlIe siecle », 1922, p. 171.
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no (96). Ma il grande scrittore non aveva atteso quell’anno per partecipare la sua convinzione di lavorare alla formazione di una nuova eta. Gia nel 1521, in una lettera a Bude, scherzando su Plutone, diceva: « Pudet enim eum (ut obiter hic tibi congratuler) pudet, inquam, ipsum [Plutone] universis prope mortalium rebus priscum nitorem assecutis, deformem unum videri atque ridiculum» (97). Nel Pantagruel Rabelais ebbe il merito di dare forma artistica ad una concezione che i testi qui riportati e quanti ancora si potranno citare, dimostrano quanto fosse comune. Come ho gia avuto modo di osservare i tentativi fat-
ti dal Thuasne (98) e dal Delaruelle (99) per rintracciare le fonti della lettera di Gargantua sono stati vani poiche la vera fonte si trova nella concezione stessa della cultura del tempo che tutti gli studiosi allora ripetevano. Per questo non si potrebbe non acconsentire con il Sainéan quando a proposito di questo testo afferma: « Mais les rapprochements que nous présente a cet égard M. Thuasne ne font que plus lumineusement ressortir Voriginalité de cette page immortelle qui a elle seule vaut au-
tant que tout le fatras des humanistes» (100). Onde si puo conchiudere che alla fine del terzo decennio del sec. XVI la Rinascita francese aveva trovato, nel suo lento procedere, il suo primo storico ed il suo primo artista 1 quali con una visione netta, anche se in modi differenti, ne segnavano i progressi e ne registravano il completo successo. (96) Rabelais, Oeuvres completes, ediz. Boulenger, Parigi, 1934,
p. 224 e p. 968.
(97) Rabelais, op. cit., p. 960. (98) L. Thuasne, La lettre de Gargantua a Pantagruel in « Revue des Bibliothéques ». 1905. (99) L. Delaruelle, Ce que Rabelais doit a Erasme et a Budé in « Revue d’histoire littéraire de France y, 1904, p. 251. (100) L. Sainéan, Les sources modernes du roman de Rabelais in « Revue des études rabelaisiennes », 1912, p. 383. Cfr. F. Lot, La vie et lVoeuvre de Rabelais, Parigi, 1938, p. 194. Riprende ora il problema, con esatta visione storica, A. C. Keller, Rabelais and the Renaissance Idea of Progress in Renaissance News, Il, 2, 1949, pp. 21-23.
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V. - Per opera di Dolet la filologia degli umanisti diventa esclusivista, giunge al purismo formale ed al libero pensiero (rinascita = culto esclusivo del latino ciceroniano).
Bude, dopo aver scritto il De Philologia, si era fermato
al principio della via che il suo trattato schiudeva e cosciente dei pericoli, si era prudentemente ritirato su di una posizione piu sicura e tradizionale. Tuttavia non si arresto Vinteriore sviluppo dell’umanesimo. Questo trovo in Dolet lo studioso audace che negli anni che corrono tra il 1532 e il 1540 accolse la concezione, ormai validamente affermata dell’autonomia degli studi letterari e la porto alle ultime conseguenze (101). Per opera sua l’autonomia si fa esigente al punto d’essere esclusivista; la filologia non solo Gimentica di essere via alla conoscenza della verita divina ma si fa strumento razionalistico, distruttore di ogni fede religiosa. Il gusto per il bello stile latino diventa purismo e quindi cultc esclusivo per Cicerone. $i vedra come questo sviluppo schiuda la strada alla lingua volgare. Ma prima di compiere questo ultimo passo che doveva essere fatale agli scrittori neolatini e bene augurante per la generazione del poeti nuovi, dall’alto della sommita a cui avevano condotto cinquant’anni di studi classici, un ultimo sguardo viene gettato su tanta attivita, quasi a voler fissare in una sintesi definitiva gli uomini e le loro opere. Cotesta sintesi si trova nell’opera che apparentemente meno parrebbe poterla contenere cioé in quei Commentari linguae latinae (1536-38) (102) dello stesso Dolet che,
a buon diritto, sono ritenuti con le opere di Budé ed il Thesaurus linguae graecae (1572) di Henri Estienne, le ope(101) Cfr. M. Chassaigne, Etienne Dolet, Parigi, 1930; R. C. Christie, Etienne Dolet, le martyr de la Renaissance, trad. Stryienski, Parigi, 1886; O. Galtier, Etienne Dolet, vie, oeuvre, caractére, Pa-
ris, 1907; P. Champion, Paris au temps de la Renaissance: l’envers de la Tapisserie, Parigi, 1935, cap. XIX. (102) Commentariorum linguae latinae tomus primus Stephano Doleto Gallo Aurelio autore, Lugdun:i apud Seb. Ghyphium, 1536, in-folio. Cfr. Imbart de la Tour, op. cit., vol. III, p. 275; M. Chassaigne, op. cit., p. 155.
131
re basilari dell’umanesimo francese. Quanto Dolet partecipasse alla comune coscienza della Rinascita lo prova gia
ampiamente la lettera da lui scritta a Francesco I come prefazione al primo volume dellopera. Qui VPumanista riconosce anche lui apertamente tutti 1 meriti che il re ave-
va avuto nel favorire la ripresa letteraria. Per cosi insigne benemerenza Dolet gli dedicava il suo lavoro come a colui « cuius ope et opera, ascitis undique amplissima mercede viris doctis, Gallia tamdiu inscitiae atque artium ignorationis tenebris sepulta, situm tandem excusserit, caput in lucem extulerit, literas denique arripuerit atque didicerit ». Ma questo ed altri accenni (103) non erano che indizi della completa concezione storica che guidava l’attivita del
nostro autore. Infatti in una di quelle digressioni nelle quali egli soleva alleggerire la fatica della sua impresa, quando la musica non era piu sufficiente distrazione (104), Yumanista traccia un panorama di tutta la rinascita euro-
pea (105). Quasi vent’anni dopo Erasmo, questa sintesi scritta dall’umanista piu fieramente avverso allolandese (106), parrebbe ripresentarci il medesimo elenco di autori e di opere, ripetendo il comune quadro storico. Ma la somiglianza e soltanto apparente poiché e mutato completamente il punto di vista. Non piu il problema letterario di Erasmo guida ora Dolet nella scelta delle opere e degli autor! ma quel nuovo problema che da esso si e€ sviluppato
per una sua interiore necessita logica e quasi iInconscia(103) Nella lettera a Budé Vumanista dice che Ie opere dell’a-
mico « vivent nec tenebris obscuritateve opprimentur doctrinae splendore undique collucentia ». In un/’altra lettera scritta a Francesco I, come prefazione al secondo volume (1538). Dolet ripete: « Salis nos nostra sponte currentes id etiam vehementius incitavit, scilicet ut qui ad hoc fere usque tempus barbariem Gallis innatam
putarunt, a Gallis tandem latine loqui discant aut certe Gallos
Jaline scire noscant ». (104) Dolet, op. cit,, tomo II, col. 1294, al cap.: « Doleti quac-
57-58. . .
nam voluptas extra studium literarium », l’umanista dice: « Musica, musica inquam et symphonia mea est una ect sola voluptas ». (105) Dolet, op. cit., tomo I, ad vocem: literae, coll. 1156(106) Dolet, De imitatione ciceroniana, Lione, 1535. in-4°%. Nel
primo tomo dei Commentariorum libri rviprende la polemica con-
tro Erasmo (col. 265-298-1084-85-86) e difende Longeuil (ad vocem: eloquentia, col. 1234). 132
mente e certo contro la volonta stessa del suoi primi promotori. Ora Dolet si preoccupa di mettere in luce quanto e stato fatto negli ultimi cento anni per giungere alla completa liberta degli studi letterari ed alla loro maggior raffinatezza. La barbarie e superata e debellata é la sua resistenza. Necessita ora perfezionare sempre pit questo studio letterario per raggiungere la completa liberta del pensiero e Vassoluta padronanza della lingua che saranno le plu preziose doti del sapiente. « Literarum dignitati nostra aetate tam feliciter atque eximie efflorescenti gratulabor »,
dice Dolet, ma osserva subito «nihil desit praeter antiquam ingeniorum libertatem et artium cum laude exercendarum facultatem », rivelando la sua vera preoccupazione quale avvertiva la sua coscienza storica. Questa era cosi vigile da non permettere che le manchevolezze osservate nascondessero la realta del progresso compiuto, tanto piu che quanto egli lamentava era difetto dei molti, non vizio di quel pochi a cui l’umanesimo era affidato. Dolet riconosce il fatto onde riandando nella memoria tutta la storia del movimento, egli risale fino a Lorenzo Valla da cui prende inizio la sua sintesi. Per descrivere il sorgere e lo svilupparsi degli studi umanistici egli immagina che Vesercito degli studiosi abbia dovuto sostenere una accanita battaglia contro un mostro spaventoso: la barbarie. A capo dei primi combattenti stava Lorenzo Valla (« Acie prima viam vi fecit aditusque rupit Laurentius Valla ae-
qualium suorum centurlis adiutus») che tento il primo energico attacco contro il terribile nemico senza ottenere risultati definitivi. Lo seguirono meglio armati il Poliziano, Ermolao Barbaro, Pico della Mirandola, il Sabellico, 11 Crinito, il Filelfo, Marsilio Ficino e tutti i letterati di quell’eta « quae in barbariem se sensim colligentem et vires recuperantem, quos modo recensuimus, immisit, eloquentiae armis satis probe instructos et ad propulsandam barbariem strenue animatos illos quidem ». Duri colpi ricevette il mostro ma non tali da ucciderlo fino a quando da ogni parte d’Europa giunsero nuovi aiuti che riportarono il definitivo trionfo: « At ecce tibi belli literarii fulmina tum ex Italiae, tum ex Germaniae, Britanniae, Hispaniae Galliaeque partibus in barbariem adhuc stantem ruunt, cristas adhuc iactantem et ostentantem quatiunt, 133
concussam et manus tandem dedentem in triumphum ducunt ». Allora incomincia un nuovo periodo in cui i combattenti sempre piu numerosi cercano di trarre tutti 1 vantaggi dalla loro vittoria e si adoprano ad ottenere la perfezione nell’eloquenza latina. L’Italia («ut eloquentium hactenus parens fuit et nunquam divinis ingeniis destituta») @ sempre all’avanguardia con il Bembo, il Sadoleto, Battista Egnazio, Andrea Navagero, Lazaro Bonamico a cui sl aggiungono i poeti quali il Pontano, 11 Vida, il Sannazzaro mentre Andrea Alciato scaccia la barbarie dal campo giuridico. Veramente bella coorte, osserva Dolet, e quale all’Italia non poteva fare maggior onore. Intanto anche la Germania «Italiae studiis incitata» entra nella battaglia. Reuchlin é il primo e lo seguono Rodolfo Agricola, Erasmo,
Melantone e quindi tutta una schiera fra cui Beato Renano, von Hutten, Zasio, Enrico Glareano e tanti altri « partim artem oratoriam, partim poeticam, partim luris civilis scientiam, partim medicinam a barbariae dominatu asserere cupientes ». Pol anche lInghilterra partecipa alla lotta con Tommaso Moro e Cutberto Tunstall; quindi la Spagna con Lodovico Vives. Un posto speciale é riconosciuto alla Francia (« Galliam in ordine postremam collo-
cavi ne me plus Satis patriae favere calumnieris») che interviene con una schiera di studiosi guidati da Budé e da Lefevre d’Etaples. Tutti hanno un solo desiderio: « Ut linguae latinae fines longius proferant, operamque in id diligenter navent ac ipsam eloquentiam devicta barbaria
in pristinam dignitatem restituant». Ai primi si aggiungono Nicole Bérault 107), Germain de Brice (108), Lazare (107) L. Delaruelle. Notes biographiques sur Nicole Rérault, suivies d’une bibliographie de ses oeuvres et de ses publications in « Revue des bibliothéques », 1902; Id., Nicole Bérault in « Musée
belge », 1909, pp. 253-312. Cfr. Mann, Erasme et les débuts de
la réforme francaise, Parigi 1934, p. 6 seg. (108) Allievo di Erasmo. da lui conosciuto in Italia, fu in re-
Jazione con tutti gli studiosi del suo tempo. Segretario del cancelliere Jean de Ganay, canonico di Parigi nel 1519, elemosiniere
del re, mori nel 1538. Si hanno di Iui Poematia duo (1520).
Gratulatoriae quatuor epistolae (1531), Chordigerae navis conflagratio (1513). Tradusse dal latino alcune opere di Giovanni Crisostomo.
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de Baif (109), Toussain (110), Salmon Macrin (111), Nicolas Bourbon (112), a cui seguono i giureconsulti quali Boyssoné (113), Michel de l’Hospital (114) ed i medici come Champier (115), Cop (116) e Rabelais (117). « Haec », conclude Pumanista, « undique comparata doctorum manus
eam in barbariei castra impressionem fecit ut, ubi consistat, nullus ei sit relictus locus». Cosi generale movimento di studi che, partito dall’Italia, aveva risvegliato le
migliori menti di tutta Europa, non poteva non recare frutti copiosi. « Coluntur », osserva Dolet, « ut cum maxi(109) L. Pinvert, De Lazart Bayfti vita ac latinis operibus et de eius amicis, Parigi, 1889; Id., Lazare de Baif, Parigi, 1900. (110) H. OQmont, Le premier professeur de langue grecque au Collége de France, Jacques Toussain in « Revue des études grecques », 1903. Cfr. A. Lefranc, Histoire du Collége de France, op cil., p. 173 sgg.; Id., Les commencements du Collége de France in « Melanges Pirenne », vol. I, p. 577. Ramus in Collectaneae praefationes (Parigi, 1577) tesse un vivo elogio di Toussain, polemivz-
zando con Turnebe che a questo era succeduto.
(111) Numersi sono gli accenni dei conteimporanei su Macrin (1490-1557) che era considerato il maggiore dei poeti neolatini. Cfr. J. Boulmier, Salmon Macrin, l’Horace francais in « Bulletin du Bibiiophile », nov. 1871. H. Chamard, Joachim Du Bellay, Lilla, 1900, p. 30 sgg.; P. De Nolhac, Ronsard et Vhumanisme, Parigi, 1921, p. 4sgg.; Delaruelle, Répertoire, op. cit., p. 87, nota; P. Van ‘Tieghem, La littérature latine de la Renaissance. Etude d’histotre littéraire européenne, Parigi, Droz, 1944, p. 259-260.
(112) Poeta neolatino tra i piu fini, ebbe stretti rapporti con Rabelais (cfr. L. De Santi, Rabelais et Nicolas Bourbon, op. cit.). Di lui si ricordano le Nugae (1533) 1istampate con aggiunte nel
1538. Tuttavia vale la pena di riportare il giudizio negativo di
Giuseppe Scaligero (Scaligerana, Colonia, 1695, p. 127): « Doletus
et Borbonius poetae nullius nominis ». Cfr. G. Carré, De vita et
scriptis N. Borbontt Vandoperani, Parigi, 1888. (113) Cfr. H. Jacoubet, Jean de Boyssoné et son temps, Pari-
gi, 1930; F. Mugnier, La vie et les poésies de Jean de Boyssone, Parigi, 1897. (114) Cfr. Dupré-Lasale, Michel de V’Hospital avant son éleva-
tion au poste de chancelier de France, Parigi, 1875. (115) Cfr. Allut, Etude biographique et bibliographique sur Symphorien Champtier, Lione, 1859.
(116) Medico del re, traduttore di Ippocrate e Galeno, amico
di Aleandro ed Erasmo a cui scrisse per invitarlo a venire a Parigi.
(117) Rabelais in quegli anni aveva gia pubblicato il Pantagruel (1532) ed il Gargantua (1534); Deolet, come molti dei suoi contemporanei, lo considera soprattutto come cultore della scienza medica.
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me, literae; efflorescunt artium omnium studia, omnes ad veri aequique cognitionem (quae tamdiu iacult) lhterarum praesidio evchuntur ». Gli studi classici spingono le intelligenze alla riflessione e piu matura rendono l’umana saggezza finalmente conscia delle possibilita del suo pensiero. « Nune se noscere mortales didicerunt, nunc in rerum omnium luce versantur qui aitea tenebris obducti ad omnia misere caecuticbant. Nunc demum a brutis vere differre videntur animo tam diligenter artibus exculto ct sermonis... splendore tam accurate comparato ». Per cotesta piu matura civilta Dolet si mostra grato agli umanisti ai quali
egli attribuisce ogni merito e tutti gli onori per aver saputo realizzare la felicita della repubblica platonica. In verita qui Dolet sognava realizzata non una repubblica retta dai filosofi bensi dai letterati che dall’antichita traessero norme per la vita quotidiana ed insegnamento per la sociale saggezza; una repubblica dove il libero penSiero di ognuno fosse accettato da tutti per la squisita eleganza della forma latina; dove quest’ultima fosse regolatrice suprema di ogni gusto e per esso norma di ogni bellezza. Fino a qual punto questo fosse un sogno l’avventuroso umanista non capi nelle carceri di Lione ne durante le sue peregrinazioni di citta in citta; neppure nell’esilio piemontese; ed e€ dubbio se lo abbia compreso di fronte al rogo della piazza Maubert. Tuttavia in quegli anni in cui scriveva 1 suoi Commentariz non pochi degii amici del Sodahtium lugdunense dovevano pensare come lui e se non altri almeno Rabelais che nella Abbaye de Theéeleme aveva minutamente descritto quella comune illusione. Tutti quanti credevano nelle capacita rinascenziali degli studi letterarl perché ne constatavano ogni giorno i benefici effetti. Ma in modo particolare essi avevano fiducia nelle lettere quali maestre di vita umana che in esse soltanto trovava Ja via per il suo indirizzo spirituale. Onde gli studi letterarl non furono piu soltanto preparazione alle altre discipline, autonome educatrici dell’intelligenza, ma di questa unici regolatori perché soli sapevano indicarne la bellezza
e la verita. Per questo Dolet stesso non temeva di paragonare agli dei alcuni suoi contemporanei come il Bembo ed il Budé, Sadoleto e Melantone perché « generis divini plane et deorum immortalium gentiles sunt atque affines, non nominis quidem atque appellationis similitudine sed in136
genii atque virtutum omnium laude et praestantia» (i118), Quelli venivano riconosciuti quali capi della nuova repub-
blica in cui le doti intellettuali erano in onore e la Sapienza unica dea. In essa la storia dell’umanesimo si esau-
riva perche aveva raggiunto la sua meta che ora non si
doveva che difendere e conservare. E’ facile constatare come in quel periodo che corre dal 1532 al 1540 il concetto di Rinascita si arricchisse di un nuovo e piu profondo significato umano sconosciuto ai pre-
cedentt periodi. Per esso la storia di tutto il movimento acquistava un unico valore cioe quello di aver preparato il trionfo del libero pensiero espresso nella perfetta lingua latina (119). Quanti erano stati gli studiosi che prima di guei tempo avevano operato, tutti non altro avevano fatto che preannunziare quel trionfo. Gaguin era ormai cosi lontuno da poter essere misconosciuto e dimenticato; Erasmo, morto da qualche anno (1536), restava maestro di pochi, mentre per i piu parlava un linguaggio superato; lo stesso Bude negli ultimi anni della sua laboriosa vita (-- 15460), era considerato un precursore e diventava un uomo da ammirare non da ascoltare. La rapidita dello sviluppo era tale che il trionfo di oggi era soltanto la preparazione di quello
di domani e gli uomini passavano sulla scena letteraria strappando all’oblio appena le opere piu espressive del generale progresso.
Per questo i piu acuti degli umanisti di quel tempo, attratti dalla bellezza della loro concezione, interpretavano tutto un passato ancora recente in funzione della sua afferrmazione e si rendevano cosi, verso di questo, ingrati. I minori invece, quelli meno preparati alla comprensione dei fenomeni storici, si limitavano a ripetere la comune concezione, fatti piu attenti dalla loro stessa particolare visione, alle difficolta, agli ostacoli ed alle polemiche incontrate
per il riconoscimento della propria idea. Fra questi stupisce trovare Marot? La verita é@ che egli, pur non essendo propriamente un umanista, senti il fascino della nuova concezione della Rinascita ed a questa reco il suo contributo scrivendo a proposito della nascita del terzo (118) Dolet, op. cit., tomo II, col. 326 (ad vocem: homo). (119) H. Busson, Les sources et le développement du rationalisme dans la littérature francaise de la Renaissance, Parigi. 1922, p. 121 sgg.
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figlio di Renata di Francia un inno in onore della nuova eta. Egli si faceva introduttore nella cultura francese del nuovo principe e lo assicurava che avrebbe trovato incominciata «la guerre contre ignorance et sa trouppe insensée », per la quale guerreggiava il re Francesco I di cul nuovamente ricordava opera in favore del rinnovamento letterario (120). Ma in quello stesso anno (1535) Marot si era pure rivolto direttamente al re. Per motivi personali si lamentava della «ignorante Sorbonne» che contrapponava alla «trilingue et noble académie » per mezzo della quale egli affermava essersi riaccesa «la chandelle par Gui maint oeil voit mainte véritée ». E si domandava a modo di conclusione: « Et qu’est-il rien plus obscur qu’ignorance? » (121). Con non minore chiarezza accennava alla ri-
nascita Salmon Macrin che con ogni sua attivita aveva aderito al movimento, tanto da essere giudicato dai suoi contemporanei il maggiore dei poeti neolatini. Egli infatti dedicando una poesia (1537) alla memoria di Lazare de Baif che tutti reputavano emulo di Budé per la sua erudizione classica, dopo aver accennato ai meriti dell’ambasciatore presso la repubblica veneta, ricorda quale valido contributo egli abbia recato nella lotta contro la barbarie anti-umanistica. Quindi 11 poeta continua dicendo dell’aiuto
prestato in questa lotta da Budé e come la lotta sia stata molto impegnativa (« contra loguacem barbariem tibi est contentio acris ») fino a quando Baif, con le sue stesse opere, vinse ogni resistenza: « Et luce lhibrorum fugantur Cimmerlae tenebrae tuorum » (122). Ne diversamente il poeta scriveva rivolgendosi agli al-
tri poeti francesi che lodava per le loro opere ed incorag(120) Marot, Oeuvres completes, op. cit., vol. I, p. 61. Cfr. J. Plattard, in « Revue des études rabelaisiennes », 1912, p. 326: « Ame légere et mobile, Marot subissait l’influence des esprits distingués et delicats. Il avait ¢pousé la cause des humanistes contre la faculté de théologie, farouche gardienne des traditions médiévales et avec une désinvolture de page et espi¢glerie d’ « escholier » il avait nasardé les maitres de la Sorbonne ».
(121) Marot, Oeuvres completes, op. cit., vol. I, p. 201. (122) S. Macrin, Hymnorum libri VI, Parisiis, 1537, pp. 83-84. Cfr. quanto dice de] padre A. de Baif, Ode au Roi Charles, in « Revue de la Renaissance », 1903, p. 300. Ronsard, De Feu Lazare de Bajf, in Oeuvres completes, ediz. Laumonier, II, pp. 60-61. 138
giava nella loro attivita. Per merito di questa, egli diceva, la Francia « quae barbara dicebatur olim » perché gli studi letterari vi erano disprezzati, ora poteva essere orgogliosa della sua civilta tanto da non temere il paragone con Ate-
ne e con Roma. Certo essa non era inferiore alla civilta italiana (« nec sese Italia putet minorem ») (123). Che la civilta romana fosse passata in Francia sosteneva con maggiore abbondanza di argomenti Lamberto Campester che nel 1538 scriveva una Oratio laudatoria pro Francisco Valesio (124) in cui si metteva in luce Vimportanza che gli studi letterari avevano acquistato durante il regno di Francesco J. Egli spiegava come « omnis illa florentis olim im-
perli apud Romanos maiestas, splendor, gloria... omnis transisse videtur ad Galliam et ibidem consedisse » (125). Il
nuovo splendore era tale che « qui e media Gallia ad alia regna se transfert, videtur plane e Christiano orbe ad mediam Barbariam transmigrare ». I] nostro autore lodava luniversita parigina e quelle che di non minore fama brillavano nelle provincie, come Tolosa e Poitiers. Ma facendo egli parte della corrente avversa agli studi umanistici, lamentava che un cosi generale risveglio fosse turbato dalla « novitas ingeniorum ». Questa era giudicata pit pericolosa dei Turchi o della perfidia luterana perché trascinava la gioventu con lo studio della lingua greca ed ebraica verso mille pericolosi errori. Infatti egli si domandava: « Ut de reliquis sileam, quae per Deum immortalem insania hoc tempore iis legibus, moribus, sacris currentibus, durantibus, ciceronianam illam eloquentiam tantopere affectare vel persequi? ». Alla domanda da oltre un secolo gli studiosi rispondevano con le loro opere. Resta tuttavia interessante osservare con questo esempio come anche i tradizionalisti accogliessero dagli umanisti la concezione della Rinascita e la adattassero alla loro specifica mentalita. Non certo si lamentava del risorgere degli studi greci (123) S. Macrin, Ad Io, Bellatum, in Hymmorum libri VI, op. cil., p. 36. Cfr. H. Chamard, J. Du Bellay, op. cit., Pp. 105-106; P. de Nolhac, Ronsard et ’humanisme, op. cit., p. 4.
(124) A. Roersch, Un contrefacteur d’Erasme, Lambertus Campester, in Gedenkschrift zum 400 Todestage des Erasmus von Rotterdam, Basilea, 1936, pp. 113-124 (il testo in appendice, pp. 125129).
a Testo citato da A. Lefranc, Les grands écrtvains de la
Renaissance, Parigi, 1914, p. 88. 139
ed ebraici Antoine Heroct quando presentava al re la sua opera Androgyne nouvellement traduict de latin en francays poiché nella prefazione (1536) egli inneggiava al rinascimento cos: « Livres estoyent par enormes delicts Auparavant morts et ensepveliz, Doctes estolent par ignorantz tués;
De vostre regne on voit restitues
Grec et hebrieu (langages trop hays) Eft les bannys remys en leurs pays» (125 bis). Per 1 medesimi meriti lodava Francesco I anche Barthelemy Le Masson (Latomus) quando nel 1534 nominato professore di latino al Collége de France nella sua prolusione De studilis humanitatis (126) si diceva soddisfatto di vivere in una eta tanto gloriosa ed accennava in una breve sintesi storica alla decadenza della civilta romana, alla distruzione delle biblioteche per opera dei Goti, all’opera compiuta da Carlo Magno e quindi a tutta la lenta ma efficace opera degli umanisti. Quando Le Masson ritorno, nell’ottobre del 1540, da un viaggio in Italia, pronuncio un
nuovo discorso per dire quale grande impressione egli avesse riportato dal contatto con la rinascita italiana. Ricordo lo splendore di Venezia e quello di Ferrara dove Renata di Francia (« mulier decus et specimen matronalis sexus ») accoglieva con fasto regale artisti e letterati ed i francesi favoriva nei loro rapporti con gli italiani. Disse quale stupore avesse provato arrivando a Roma, « volvens animo quanta fuisset quondam illa inclyta imperii orbis terrarum sedes, quam dispar praesens fortuna ». E conchiudeva ricordando come la civilta francese avesse saputo rapidamente accogliere e rifare per conto suo quella italiena alla quale ora poteva, con tutta serenita, essere paragonata. In conclusione quei letterati sentivano cosi profondamente limportanza storica del movimento umanistico e tan-
to comprendevano il valore della nuova eta che essi non mentivano a sé stessi quando credevano di vivere in un (125bis) A. Heéroet, L’Androgyne de Platon, in Oeuvres poetiques, ediz. F. Gohin, Parigi, 1943, p. 75, vv. 81-86. (126) Testo citato da FE. Champion, Notes sur un Recueil, in « Mélanges Picot », Parigi, 1913, vol. Il. pp. 194-197; cfr. A. Lefranc, Un professeur de latin au Collége de France, in « Mélanges Pirenne », Bruxelles, 1926, pp. 12-13. 140
secolo d’oro. E come poteva essere diversamente se poche altre volte nella storia della cultura si era visto attribuire tanta importanza agli studi letterari e considerare con piu rispetto i letterati ed ammirare con maggior gusto le opere darte? A buon diritto Marot che pure grandi fortune non aveva accumulato facendo il poeta, poteva dire, lodando Vopera del re suo protettore: « O siecle d’or le pius fin que lon treuve Dont la bonté sous un tel roy s’espreuve » (127). Eeli affermava in tal modo come un fatto comptluto
quanto Erasmo aveva intuito e quanto ancora due anni dopo (1537) Salmon Macrin constatera domandandosi: « Quis rediisse iterum Gallis Saturnia regna Aureaque hoc nostro secula Rege neget? » (128).
VI. - Dal latino al francese (rinascita = culto del volgare). Come dal culto esclusivo per la lingua latina considerata quale madre di tutte le scienze e di tutte le arti nuovamente rifiorenti, 1 letterati francesi siano passati alla esaltazione della lingua nazionale e come questo risveglio Si sia manifestato principaimente nel decennio che precede lopera polemica di Du Bellayv e le prime poesie di Ronsard, non staro a spiegare qui minutamente (129). Tuttavia si accennera alla causa fondamentale quando Si osservi che Vevoluzione era inevitabile perché implicita nel programma stesso degli umanisti ciceroniani. Nel loro intransigente purismo questi impedivano l’adattamento della lingue latina aile necessita del progresso culturale in genere e€ in specie di quello scientifico. Era cotesta la parte negativa del programma che Budé aveva compreso quando appunto nel De Philologia aveva sostenuto la necessita di non irrigidire la lingua latina in uno schema troppo assoluto (1380). Ma i continuatori, con a capo Dolet, avevano (127) Marot, Oeuvres complétes, op. cit., vol. I, p. 62. (128) S. Macrin, Epigrammata: Ad Franciscum Regem, in Odarum libri VI, op. cit. (129) Ctr. H. Chamard, J. Du Bellay, op. cit.; F. Brunot, Histoire de la langue francaise, vol. I. 3% ediz., Parigi, 1947, pp. 6-91; R. Morcgay. La Renaissance, Parigi, 1937, vol. I, pp. 453-496. (130) Budé, De Philologia, op. cit., fol. 71, B. 141
preteso ad una sempre maggiore perfezione che per essere difficile e non comune, aveva allontanato dal latino molti degli studiosi ed in generale tutto il pubblico colto (131). Per altro a questo passo non consigliava anche l’esempio dei letterati italiani sempre cosi presenti nella cultura francese di quel tempo?
Piu frequenti adunque in quel decennio si fecero le voci in favore del francese. Furono proprio alcuni degli umanisti e non ultimo lo stesso Dolet a riprendere e diffondere il concetto della difesa della lingua nazionale che gia da parecchi anni era stata da pochi fedeli opposta al latino con un’audacia poi presto frenata. E’ significativo che proprio allinizio di quel decennio Dolet, ciceroniano se altro mai, pubblicasse il suo trattato su La maniere de
bien traduire dune langue en autre (Lione, 1540) e volesse che Charles de Sainte-Marthe, in un proemio in versi,
affermasse la necessita di non piu trascurare il francese affinché anche alla lingua nazionale venisse da opere nuove quell’onore che le era dovuto (132). Questa conversione degli umanisti, cosi importante per le sorti di tutta Varte francese, trovo consenzienti sopra tutto 1 poeti e fra questi 1 seguaci di Marot che al latino non si erano voluti arrendere. Ma con essi anche quei tradizionalisti che spinti da pitt mature tendenze innovatrici, avevano trovato a Lione in Maurice Scéve un maestro se non proprio un capo (133). Numerosi furono allora i letterati che si adoperarono a tradurre le opere latine e greche in francese, favoriti in questa loro attivita dall’interessamento di tutte le persone di media cultura ed in special modo dagli uomini di corte e dallo stesso sovrano che quell’attivita incoraggiava. Quando Marot traduceva i Salmi, nel 1541 Hugues Salel dava alle stampe la traduzione del primi due libri dell’Iliade; nel 1544 Peletier e Lazare (131) Dolet nel De imitatione ciceroniana (op. cit., p. 174) sosteneva persino che era necessario purificare il latino usato dalla Chiesa e€ sostituire, per esempio, le parole: apostolo, vescovo, scisma con altre scelte da Cicerone. (132) Cfr. La peeéste francaise de Charles de Sainte-Marthe, natif de Fontevrault en Poictou divisé en trois livres, Lyon, Le Prince, 1540, p. 78. (133) Cir. A. Baur, Maurice Scéve et la Renaissance lyonnaise, Parigi, 1906.
142
de Baif traducevano rispettivamente l’Arte poetica di Orazio e la Ecuba di Euripide (134) mentre Bonaventure Desperiers e Jean Martin traducevano in francese, forse per
la prima volta, liriche di Orazio e Claude de Seyssel si dedicava ad Appiano. Ancora nel 1546 Richard Le Blanc traduceva il dialogo platonico Ione e nel 1549 Sebillet PIfigenia
euripidea e Colet brani di Eliodoro e Macault le Filippiche di Cicerone mentre l’anno prima Nicole Bérault aveva tradotto Luciano (135). Rapido elenco questo ma sufficiente per dimostrare quale accoglienza avesse avuto tra 1 letterati la piXU matura concezione umanistica e quale diffusione.
I] primo e piu caratteristico effetto di questo nuovo progresso fu il parallelo evolversi del concetto di Rinascita che per essere strettamente legato a tutta la cultura, di questa ne esprimeva il piu profondo significato. Non é dubbio che, a prima vista, stupisce tanto rapido mutamento.
Appena dopo pochi anni da quando in modo apparentemente definitivo Dolet aveva indicato, con una sintesi generale, il piu alto punto a cui era giunta la visione storica degli umanisti, cotesta visione viene mutata e direl capovolta e laddove si ammirava il pit. bel fiore latino rinato a nuova vita, si sostituiva, pur con ribcllioni e contrasti, quello francese. Ma lo stupore cessa quando si pensi che questa concezione finalmente raggiunta rappresentava la sola e la piu vera e la pilX umana rinascita che potesse
essere affermata e vantata. Essa sola testimoniava nella Sua originalita la potenza del genio nativo ormai liberamente avviato a tutte le sue possibili manifestazioni. Con questo definitivo progresso la Rinascita acquistava in Fran-
cia una caratteristica tutta sua, quale soltanto il nuovo e non confondibile ripensamento della concezione umanistica
aveva potuto produrre. Rinascita allora significO ritorno esclusivo alla lingua francese e la sua difesa contro quanti ad essa opponevano il latino e la sua esaltazione con opere di poesia e di letteratura. Nessuno meglio di Du Bellay poté esprimere questa (134) La falsa attribuzione di questa traduzione a Baijf ha cercato di dimostrare R. Sturel, in Mélanges E. Chatelain (Parigi, 1910}. Pp. 576 sgg. e in « Revue d’hist. litt. de la France », 1913, p. 280 sgg.
(135) Cfr. M. Delcourt, Etude sur les traductions des tragiques grecs et latins en France depuis la Renaissance, Bruxelles, 1925; J. Bellanger, Histoire de la traduction en France, Parigi, 1903. 143
nuova concezione perché egli fu il portavoce dei poeti della
Brigade i quali pitt di tutti seppero valutare con storica intuizione il passato della cultura francese e prevedere le possibilita dell’avvenire. Anche Du Bellay rifaceva lelogio
di Francesco I e ne lodava lopera in favore del rinnovamento degli studi. Ma pur servendosi quasi alla lettera della formula che gli umanisti avevano tutti usato, egli
rivolgcva le comuni lodi non al latino ma al francese. « Mais a qui, apres Dieu, rendrons nous graces d’un tel benefice, si non a nostre feu bon roy et pere Francois, premier
de ce nom et de toutes vertuz? Je dy premicr, d’autant qu’il a en son noble royaume premierement restitué tous
les bons arts et sciences en leur ancienne dignite et sia nostre langaige au paravant scabreux et mal poly, rendu elegant et si non tant copieux qu’ll poura bien estre, pour le moins fidele interprete de tous les autres? » (136). La preferenza egli stesso spiegava nell’ultimo capitolo del suo trattato dove VPesempio di Pietro Bembo era quanto di meglio 11 giovane letterato potesse ricordare a sostegno della suo tesl. Egh infattl si preoccupava di dimostrare la legittimita delV’ultimo sviluppo compiuto dalla concezione uma-
nistica. Per conto suo e non a torto, egli spiegava, come aveveno gia fatto tutti i suoi predecessori, che quella raggiunta era la meta a cul aveva in modo fatale teso tutta Vopera degli umanisti francesi. Di questi proprio i piu insigni, Bude e Lazare de Baif, avevano scritto in volgare quasi a dimostrazione effettiva della loro piu profonda intenzione (137). Eglh poteva quindi con tutte le speranze che gli offriva la bonta della sua concezione, guardare con certezza alla nuova luce della Rinascita e disprezzare | tentativi di oscurarla fatti da certi malevoli poeti a cui accenna quando dice: « Malgre la nuit, qui espere
Sortant de son noir sejour Rebander (0 vitupere)
Les yeux de nostre beau jour» (138).
‘136) Du Bellay, La deffence et illustration de la langue francase, libro I, cap. IV, ediz. Chamard, 1948, p. 29. (137) Du Bellay, op. cit., libro II, cap. XII, p. 192 sge. (138) Du Bellay, Contre les enviewx poetes, in Oeuvres poétiques, ediz. Chamard, vol. IV, p. 49, vv. 141-144. 144
In modo pit. particolare nella Musagnoeomachie (139) descrive la lotta contro i] mostro dell’ignoranza alla cul uccisione si erano adoperati tanti nobili ingegni. Du Bellay nomina tutti i poeti moderni perche tutti, anche se in diversa misura, avevano lottato per il trionfo contro la barbara ignoranza. E fra questi Peletier ha un posto speciale e Baif e Dorat: « Dont Vart bien elabouré
de lor de Saturne encore ! a ce siecle redoreé » La poetica descrizione termina con un vero inno ai poeti nuovi ai quali Du Bellay tributa gli onori del trionfo ro-
mano. Cosi viva era in lui limpressione che la cultura
francese uscisse da un periodo di ignorante disprezzo; tan-
to sincero era il suo entusiasmo per 1 nuovi favori che venivano offerti agli artisti; e per altro, cosi sensibile era la sua anima per i disprezzi patiti e quanti ancora doveva subirne l’arte, che non tralasciava occasione per ricordare questa e lodarla. Si rivolge alle dame di Augers e lancia un frizzo di disprezzo contro «la tourbe murmurante des professeurs de sagesse ignorante » (140); si rivolge alle Muse ed alVattestazione della sua devozione aggiunge un accenro all’« ignorance authorizee» (141). Infine dedica un souetto a Scéeve ed afferma nuovamente la sua concezione xiconoscendo nel poeta lionese uno del promotori del movimento rinascenziale (142).
Sse Du Bellay e il poeta che offre i testi pit chiarificatori fra quanti in questo periodo ebbero la coscienza dei tempi nuovi, bisogna pero aggiungere che anche qui egli non fa che ripetere e sintetizzare quanto avevano gia detto altri letterati. Proprio fra i traduttori che Du Bellay pareva non valutare a sufficienza, quelli che nel decennio (139) Du Bellay, Musagnoeomachie, in Oeuvres poétiques, ediz.
Chamard, vol. IV, p. 3 sgg. Il passaggio che riguarda J. Dorat ai
VV. 262-264.
(140) Du Bellay, Aux dames angevines, in Oeuvres poétiques, edi7. Chamard, vol. IV, p. 37; vv. 13-14. (141) Du Bellay, L’adieu aux Muses, in Oeuvres poétiques, ediz.
Chamard, vol. IV, p. 194; v. 68.
(142) Du Bellay, Sonnet a Scéve, in Oeuvres poétiques, ediz. Chamard, vol. II, p. 288. 145
tra il 1540 ed il 1550 si adoperarono a far conoscere opere classiche ai francesi, ebbero profonda la coscienza storica del distacco che si veniva realizzando con il trionfo defla lingua francese. Nel 1545 Hugues Salel faceva precedere la continuazione di quella sua traduzione dell’Iliade a cui gia si e€ accennato, da una prefazione indirizzata a Francesco I (143) in cui spiegava per quali ragioni storiche e letterarie egli avesse intrapreso quella fatica. Al suo re 1] valente letterato, dopo aver accennato alle qualita estetiche e morali della poesia omerica, spiegava di essere stato spinto a quel faticoso lavoro dal desiderio di contribuire al rinnovamento artistico francese. Eglhi dimostrava quale vivo sentimento nazionale sorreggesse la sua opera letterarla che vedeva «reluisans d’un clair splendeur » come le armi francesi ugualmente vittoriose. E’ pur vero che Salel non taceva quali critiche fossero fatte alla sua opera e come
fosse accusato di travisare il canto del poeta greco. Ma egli rispondeva giudicando un fatto iniquo vituperare quel-
la sua nobile fatica per merito della quale « ,.plusieurs arts qui n’estoient en lumiére sont ia rendus en leur clarté premiére Et le scavoir autrefois tant couvert Est maintenant a chacun descouvert ». Continuando pareva quasi rispondere a Du Bellay anticipatamente mentre rispondeva a coloro che facevano poca stima delle traduzioni (144) ed osservava quale somma di cognizioni e di esperienze tecniche fosse necessaria per
tradurre cosi alte opere classiche nel non sempre adattabile francesce. Tuttavia quella fatica, pur con Vingratitudine dei tradizionalisti, non venne misconosciuta dai poeti nuovi.
Ronsard per tutti dira l’elogio di Salel al quale verra riconosciuto il grande merito di essere stato un precursore (« qui des premiers chassa le monstre d’Ignorance ») (145). (143) Les XXIII livres de l’Iliade d’Homere traduits du grec en vers francais - Les XI premiers par H. Salel, les XIII derniers par A. Jannin, Parigi, 1599. Cfr. L. A. Bergoumions, Hugues Salel, Tolosa, 1930. (144) Fra questi vi era anche Saint-Gelays. Cfr. Ronsard, Oeuvres poétiques, ediz. Laumonier, vol. VI, p. 34, nota. (145) Ronsard, Oeuvres poétiques, ediz. Laumonier, vol. VI, Pp. 33, VV. 37-38.
146
Gia Vanno prima, nel 1544, Peletier du Mans, presentando la traduzione francese dell’Arte poetica di Orazio con una prefazione (146) nota appunto per la sua importanza nella storia letteraria di quel periodo, dedicava ampie lodi agli scrittori che con nuovo ardore si erano dedicati a « faire
valoir» la lingua francese. Questa infatti da Lemaire de Belges avviata sul cammino del progressivo arricchimento, aveva incominciato in quegli anni il suo rifiorire. Onde lo scrittore osservava: « Et maintenant elle prend un tres beau
et riche accroissement sous notre tres chrétien roi Francois, lequel par sa liberalité roialle en faveur des Muses s’efforce de faire renaitre celui siecle trés heureux auquel
sous Auguste et Mecenas a Rome florissoint Virgile, Horace, Ovide, Tibulle ...tellement qu’a voir la fleur ou ell’est
de present, il faut croire pour tout seur que, si on procede toujours si bien, nous la voirrons de brief en bonne maturite ». Questa coscienza di una rinascita affidata tutta al rinnovato uso della lingua francese, Peletier ripeteva in
una Epitre a Francois Ier (147) a cui dedicava le sue
Oeuvres poetiques dei 1547 e meglio ancora manifestava
piu ampiamente nel proemio del primo libro della sua Arithmetique, pubblicata a Poitiers nel 1549 (148). Peletier si dimostra ancora una volta, con questa chiara visione sto-
rica, una delle menti piu aperte di tutto il Rinascimento francese ed anche una delle piu acute. Nella sua concezione si trova nettamente formato lo schema storiografico che tra l’epoca classica e quella moderna, frappone un’eta dl mezzo considerata completamente ignorante e barbara ri-
guardo agli studi. « Le temps, dice Peletier, s’est si fort dementi que toutes ies professions liberales qui avayent si bien faict prosperer, ont quasi esté mises a non chaloir et a neant par toutes nations, tout un grand espace jusque a nostre aage ». Per spiegarsi questo fatto storico che lo rende pensoso, l’umanista paragona la storia ad un campo (« le temps a faict ainsi que la terre labourable ») che deve es(146) Testo pubblicato in appendice all’ediz. critica de |’ Art poctique (1555) a cura di J. Boulenger, Parigi, 1930, p. 229 sgg. (147) J. Peletier du Mans, Oeuvres poétiques, ediz. Séché, Parigi, Revue de la Renaissance, 1904, p. 5 seg. (148) J. Peletier du Mans. Arithmétique, Poitiers, 1549. Cfr. Laumonier, in Oeuvres poétiques di Peletier, op. cit., p. 154. Edizione critica di Binet, Vie de Ronsard, Parigi, 1910, p. 57. 147
sere lasciato per un certo periodo in riposo onde possa pol dare maggiori frutti. E cosi infatti € avvenuto. Dopo un intervallo di parecchi secoli, nuovi ingegni hanno ora dimostrato in tutte le discipline di saper rinnovare i secoli piu belli dell’antichita. « Quel temps, si domandava Peletier, s’est-il jamais trouvé plus florissant en Philosophie, Poesie, Peinture, Architecture et inventions nouvelles de toutes choses necessaires a la vie des hommes que le nostre? ». E continuava con la soddisfazione dello studioso: «Si le bien estoit capable, je pourroye remplir la feuille d’innumerables personnages d’excellence que j’ameneray d’Allemagne, d’Italie, d’Espagne et que je prendraye en nostre France: lesquels je n’auroye honte de comparer aux anciens en quelque profession que ce fust ». Ma e facile supporre che se Peletier avesse scritto l’?enumerazione che era nelle sue intenzioni, egli ci avrebbe dato un/’altra sintesi panoramica come gia Erasmo, come Dolet. Egli invece, come Bude, preferisce riflettere sul curioso alternarsi dei periodi storici e come a secoli di abbandono culturale altri ne seguano, ricchi di tutte le piu belle manifestazioni delVintelligenza umana. « Nous voyons que le temps se montre evidemment favorable a une génération d’homme plus qu’a lautre; leguel quand bon luy semble met les choses en lumiere; puis apres les avoir couvertes du voile de l’obliance assez longuement, par ses révolutions, il ressuscite ses richesses, beautés et magnificences ». La decadenza medievale lo rende pensoso. Egli non nega che in quel periodo vl siano stati uomini desiderosi di conquistare le pit alte mete della cultura. I] difetto consiste nel fatto che essi non sono riusciti completamente nei loro propositi, restando a mezza via a causa della debolezza dei loro ingegni. « ...Lesquels quoy qu'ils se soyent peinés et quwils ayent en persuasion de bien faire, si n’ont-ils rien apporté aux bonnes lettres que Barbarie, a la Philosophie que Sophisterie, a nos mathématiques que ténébres, a la médecine qu’abusion et en somme quasi partout qu’hypocrisie ». Il valore sempre piu esclusivo di questa rinascita della lingua volgare riconosceva anche Muret nella prefazione alle sue poesie giovanili (149). L’umanista ricordava co(149) M. A. Muret, Zuvenilia, Parisiis, ex officina Viduae Mau-
rici a Porta in clausos Brunello, 1552, p. 9. 148
me Ronsard per primo e poi Du Bellay e Baif avessero riassunto tutti gli sforzi fatti dai poeti precedenti facendo progredire con il loro talento poetico la poesia francese a tal punto che « ut res vel ad summum pervenire iam vel certe haud ita multo post perventura esse videatur ». Ma cotesto riconoscimento non era altrettanto entusiasta quanto quello di Peletier perché Muret si rammaricava che non
altrettanto si potesse dire della poesia latina che egli ve-
deva sempre pit: trascurata e non piu sorretta da alti e
valorosi talenti poetici. L’umanista non comprendeva, oppure si rifiutava di comprendere, come ormai al volgare fosse affidata la fortuna della Rinascita francese che per per qualche ritardatario e per molti tradizionalisti avrebbe dovuta essere affermata soltanto dalla poesia latina.
Per questo i letterati che si radunavano attorno a
Ronsard erano perfettamente consapevoli dell’ultimo progresso compiuto. Gli altri, ed erano la maggioranza, continuavano a ripetere la comune concezione che si riferiva
al rinnovamento degli studi in generale, fossero questi quelli umanisticl oppure quelli letterari e poetici. Giustificavano cotesta non perfetta intuizione storica le difficolta che ancora si opponevano al trionfo delle idee piu nuove che per la loro stessa caratteristica potevano sembrare non uno sviluppo ma una opposizione a quanto l’umanesimo aveva per tanti anni proclamato. Onde gli ostacoli non diminuirono ma aumentarono e dalla parte degli « ignoranti » Si schierarono non pochi valenti umanisti dei quali non si possono dimenticare le testimonianze sulla loro convinzione di cooperare, anche a quel modo, al Rinescimento. A questa cooperazione non poteva certo credere Peletier perche eghi caldeggiava la corrente innovatrice e quindi era insofferente delle difficolta che ancora dovevano essere superate. Scrivendo a Francesco I nel 1547 enumerava
tutti gli ostacoli che le Muse avevano incontrato per trovare sede degna in Francia e nel 1581 non nascondeva il suo sdegno contro gli scolastici che si opponevano al nuovo
metodo con cul venivano studiate le matematiche (150). (150) J. Peletier du Mans, De contactu linearum commentarius, Parisiis, 1581, fol. 18, V. Nelle poesie raccolte nel 1547 una é rivolta A ceux qui blament les Mathematiques. Cfr. Oeuvres poétttiques, op. cit., p. 104. Si veda pure: Oratio Pictaviit habita in prae-
149
Gia in una orazione del 1544 (151) Ramus aveva accennatc ai medesimi fatti. Con non minor chiarezza di Peletier egli
dimostrava di aver netta la coscienza della nuova eta. IJ filosofo ricordava come le discipline matematiche fosserc attentamente studiate in Grecia e quindi in Italia di dove, unitamente a tutte le arti liberali, erano passate in Francia. Qui per un lungo periodo di tempo erano state trascurate. « At quae nubes, quae tempestates, quae noctes temporum coortae interea sunt? ». Inorridisce Ramus a tale domanda ed aggiunge «nec tantam calamitatem necesse est acerba praeteriti doloris commemoratione renovare ». Tuttavia erano mutati i tempi (« ecce autem conversis mutatisque temporibus, de repente cum nova lux Regis unius virtute nobis affulserit ») per cui anche le matematiche avrebbero cdovuto ora ritornare ad avere quell’onore che l’antichita aveva loro riconosciuto. Poiché anche coteste discipline parte-
cipavano della sapienza divina di cui erano una emanazione ed a cui per altro riportavano gli uomini poiché, spiegava il filosofo «non humanum mediusfidius sed divinum quoddam ac caeleste bonum est ignoratione animum liberare». Argomento questo di capitale importanza con il quale gli umanisti legittimavano da secoli la loro attivita di studiosi di fronte agli intransigenti che misconoscevano ogni importanza religiosa alla scienza ed alla cultura. Argomento che riprendera nel 1546 Richard Le Blanc nella prefazione del dialogo platonico Jone tradotto in francese (152), quando accennera: « Poesie donc est un don divin. Et tout ce que les poetes excellentz soient Grecz, Latins ou Francoys ont faict, dict et composé, il procede de la grace divine ». Con questo argomento gli umanisti si prefiggevano di continuare
lassorbimento graduale nella cultura cristiana di tutto il patrimonio classico che gia i Padri avevano considerato una anticipazione dell’insegnamento evangelico. Giova pertanto osservare che a questo principio a cul erano sempre rimasti fedeli, gli umanisti francesi si richiamavano ancora lectiones Mathematicas, ediz. P. Laumonier, Revue de la Renaissance, 1905, V, pp. 281-303. __ (151) Ramus, Collectaneae, praefationes, epistolae, orationes, Parisiis, 1577, p. 284. (152) Testo pubblicato da A. Lefranc, Le platonisme et la litterature en France, in « Grands Fcrivains ce la Renaissance », Parigi, Champion, 1914, pp. 125-126. 150
a meta del sec. XVI, proprio quando parevano piu nettamente opporsi ad ogni concezione medievale. E serva questo caso come esempio della debolezza filosofica della loro concezione storiografica che menire da un lato segnava una
opposizione tra la Rinascita ed il Medio Evo, da un altro non poteva non riconoscerne ed accettarne gli stretti rapporti.
Di questa debolezza e delle contraddizioni di una concezione cosi diffusa non dubitava Ramus che pure era la mente filosofica piu preparata che avesse in quel periodo lo studio parigino (153). Tanto quegli studiosi si sentivano differenti per mentalita e cultura da quanti li avevano preceduti e cosi profonda era la loro convinzione nelle possihilita degli studi letterari! Nelle sue Dialecticae partitiones del 1543 il nostro filosofo lodava Francesco I perché aveva
risvegliato le arti liberali « multis iam saeculis iacentes» (154) e nel 1544 tracciava a sua volta un rapido qua-
dro di tutta la Rinascita (155) quale si era manifestata prima in Firenze per opera di Cosimo e di Lorenzo de’ Medici e poi in Francia grazie agli italiani chiamati alla corte francese. E conchiudeva cosi: « Floruerunt bonae artes ac literae Florentiae et Lutetiae maioremque doctorum hominum et operum provectum saeculo uno vidimus quam totis antea quatuordecim saeculis maiores nostri viderant ». A sua volta accennava pure lui ad un nuovo secolo d’oro al quale aveva coscienza di aver contribuito per parte sua
poiché si vantava di aver riportato in onore la dialettica (« illam dialecticae lucem ac veritatem ») strappandola « ex aristotelicis tenebris »» Non meno di Ramus pensavano di collaborare al rinascimento i suoi colleghi di insegnamento,
Turnebe e Pierre Galland che erano stati lungo tempo i piu fierl oppositori del nostro filosofo. I] primo nel discorso (153) Ch. Waddington. Ramus (Prerre de la Ramée) sa vie, ses écrits et ses opinions, Parigi, 1856, p. 341 sgg.. Non si dimentichi come la riferma degli studi voluta da Ramus melluniversita parigina riveli una concezione umanistica veramente profonda. Cfr, Col-
lectaneae, in op. cit., p. 303-304, dove Ramus si vanta di leg-
gere con una preoccupazione nuova i classici. Questo merito pero non confermava Turnébe (cfr. Opera, Argentorati, 1600, p. 73). (154) Ramus, Dialecticae partiliones, 1543, (lettera ripubblicata da Waddington, op. cit., p. 421). (155) Ramus, Collectaneae, op. cit., p. 180. 151
inaugurale del suo corso al College de France, tessendo Velogio di Toussain a cui succedeva (156), osservava come in quel medesimo anno (1547) fossero morti insieme al suo predecessore anche Francesco I e l’umanista Vatable. L’o-
ratore diceva quale grave danno rappresentassero quelle
tre perdite in un memento in cui gli studi letterari piu che mai erano al loro massimo splendore. Quindi non lasciava sfuggire l’occasione di descrivere minutamente questa rinascita letteraria che per opera di quei valenti ingegni « doctrinis obscuris lucem, scriptoribus mortuis vitam,
litterarum candidatis magnum ad discendum adiumentum attulit ».
Non diversamente si esprimeva Pierre du Chatel nellYorazione (157) letta in occasione della morte di Francesco I del quale ricordava le numerose benefiche attivita svolte a favore del suo popolo, non ultima quella in favore degli studi. « Et puis qu’il vient a propos des lettres, diceva Pumanista, le feu Roy ne les a pas seulement honorées magnifiquement en son royaume et dehors mais les a edifiées et planteées en son peuple par sa largesse et liberalité tant Latines, Grecques que Hebraiques ». A sua volta Pierre Gal-
land, nella biografia di Pierre du Chatel, enumera tutti i provvedimenti che 11 grande Elemosiniere di Francia aveva
attuato per riformare l’universita parigina, per fondare il Collége de France, per disciplinare l’organizzazione studen-
tesca al fine di riportare la cultura al posto dovuto (« ut rei literariae longius contra barbarorum vim aliasque temporum iniurias consuleret») (158). Per parte sua Nicolas Bourbon in una orazione Pro domo sua sive regiorum in(156) Adriani Turnebi, Oratio habita post lIacobi Tusani professoris regtt mortem cum in eius locum suffectus est. Nunc primum in lucem prodit, Lutettae, apud Federicum Morellum (MDCXCV) in-12°. Cfr. L. Clement, De Adriani Turnebi regiit professoris praefattontibus et poematis, Parigi, 1899. (157) Petri Castellani Magni Franciae elemosynarii vita auctore Petro Gallandio, regio latinarum literarum professore, Stephanus Ba-
luzitus nunc primum edidit et notis illustravit. Accedunt Petri Ca-
stellanit orationes duae habitae in funere Francisci primi Regis Fran-
corum Christianissimi literarum et artium parentis, Parisits, apud Mugnet, 1674. Cfr. A. Tilley, The literature of the French Renaissance, op. cit., vol. I, p. 20 sgg. (158) Pierre Galland, op. cit., p. 50. 152
terpretum cathedra (159) accennava ancora una volta alla riforma degli studi giuridici, ricordando come agli avvocati ormai gli studi offrivano molti autori classici necessari per
la loro cultura professionale («iacentem ac prope intermortuam eruditionis graecae dignitatem excitari et in dies reflorescere »). Tanto diffusa era la coscienza dei tempi nuovi in quegli
anni cne non ci fu poeta o prosatore in volgare o in latino il quale non abbia manifestato la sua soddisfazione di vivere in un momento storico cosi importante per le lettere e ad
un tempo non abbia dimostrato il suo sdegno per la barbarie del tempi passati. Marot si ripete ancora nel 1544
nel’Eglogue sur la naissance du Filz de Mr Le Dau-
phin (160) dove imita la virgiliana egloga dedicata a Pollione per indicare l’attesa di un periodo sempre piu felice in un secolo gia da lui giudicato aureo. Nella Delie (161), Maurice Sceve si sofferma a considerare lo splendore del nuovo secolo che contrappone a quelli precedenti del tutto barbari. Salmon Macrin nel 1546, in una nuova racco!ta di Odi, accenna alla fondazione dei lettori reali come al fatto piu importante nella storia delle lettere francesi (162). Pubblicando poi al seguito delle sue poesie, quelle del Cardinale
Gu Bellay, paragonava il suo protettore al Bembo ed al ~adoleto poiche, come gli italiani, egli aveva riportato i giovani allo studio delle lettere (163). Della rinascita poetica parla Sebillet nel suo Art poétique (1548) (164) dove facendo la storia di tutto il movimento letterario mette in risalto come questo, da Jean Lemaire in poi, avesse preso un im-
pulso nuovo tale da far attendere quegli ottimi risultati (159) Nicolas Bourbon, Opera omnia, Parigi, Piaget. 1654, ° (160) Marot, Oeuvres completes, op. cit., vol. I, p. 58 sgg. » 223.
(161) M. Scéve, Delite objet de plus haute vertu, edis, E. Parturier, Parigi, 1916, p. 175 seg. (162) S. Macrin, Ad Franciscum Galliarum regem potentissimum, in Odarum libri tres ad P. Castellanum Pontificem Matisconum, Parisiis, ex Officina Roberti Stephani, 1546.
(163) Tuttavia si noti la distinzione che egli pone (op. cit.): « Huc accedebat quod in hac florentissima Parisiorum Academia
Rhetoricen videbam iam pene ad veterum normam splendorem resti-
tutam eique iuventutem pene omnem sic deditam ut tamen a poeticae facultatis studio abhorreret ». (164) Sebillet, Art poétique francoys, ediz. crit., F. Gaiffe, Parigi, 1910, p. 14. 153
che gia sotto il regno di Francesco I si stavano realizzando. A tutte queste testimonianze si possono ancora aggiungere quelle di Theodore de Béze (165), di Martin Du Bel-
lay (166), di Olivier de Magny (167) per arrivare finalmente all’Ode a Michel de Hospital (1552) di Ronsard (168)
che non é soltanto un tentativo di rinnovare in Francia la forma e lo spirito della poesia di Pindaro quanto un
inno alle Muse nuovamente rinate. La poesia di Ronsard fiorisce dopo cinquant’anni di frequenza assidua alla scuola degli antichi. Di tanti sforzi
e di tanti tentativi e il fiore delicato che con la sua bellezza ripaga tutti i sacrifici compiuti. Quanti furono gli insegnamenti morali che i letterati francesi scoprirono nelle
due letterature antiche e cosi provate virtu eroiche e la misura nel dolore e nell’amore e la raffinatezza del piu dolci sentimenti, tutto coopero a formare una originale sensibilita piu acuta e di tanto piu dotta. Onde quando i gio-
vani della nuova generazione, a quella scuola allevati e fiduciosi1 in quegli insegnamenti, si abbandonarono a se stessi, riconobbero nella loro anima il desiderio nostalgico delv’eroe che sospira il ritorno alla propria casa; il rim-
pianto di un mondo perduto in una rosa appassita nella melanconia della sera. Tutto apparve cosi nuovo ed inaspet-
tato da far dimenticare anche il passato piu recente. Per potere ritornare ai Romani e piu oltre ai Greci, con giovanile semplicita, venne sdegnata la tradizione, i precursori furono rinnegati e con essi parecchi secoli di civilta. Ma chi avrebbe potuto rimproverare tanta ingratitudine? Budé era inorto nel 1540, quattro anni dopo Erasmo e Lefeévre, quaitro anni prima di Marot; nel 1546 moriva Dolet, ’anno dopo Toussain e Vatable. Nello stesso anno moriva il re,
il padre celle lettere; Rabelais era agli ultimi anni della sua vita. Poteva adunque incominciare il viaggio alle isole fortunate; Ronsard guidava la studiosa brigata (169). (165) Th. De Baze, Abraham sacrifiant, ediz. crit. M. W. WalJace. ‘Toronto, 1906, prefazione.
(166) Martin, du Bellay, Mémoires, in Choix de chroniques et mémoires sus Vhistoire de France, Parigi, 1836, p. 308. (167) O. De Magny, Ode a Ronsard et Pascal, in Ronsard, op. cit., vol. VI, p. 129. (168) Ronsard, Oeuvres completes, op. cit., vol. III, p. 118 sgg. Cir. Laumonier, Ronsard pocte lyrique, op, cit., p. 89. (169) Ronsard, Oeuvres completes, op. cit., vol. V, p. 175 sgg. 154
Nello scoprire e nel ricostruire vollero tutti essere primi. Du Bellay aveva pur esortato di saccheggiare i tesori di Grecia e di Roma (170) ma non pensava certo di trovare una cosi pronta risposta. Primo si disse Ronsard nelVunione della musica alla poesia (171) e primo Du Bellay volle essere nel sonetto alla maniera italiana (172) e primo
Baif nella tragedia (173) e nella poesia pastorale (174). Ancora Ronsard, Peletier e du Bellay si contesero il primato dell’ode (175). Du Beilay venne chiamato il Petrarea francese (176), Jean Doublet l’Ovidio francese (177), SaintGelays il Virgilio francese (178), Marot POmero francese (179), mentre per il posto di Orazio vi furono due pre(170) Du Bellay, La deffence et illustration de la langue francase, op. cit., pp. 196-197. (171) Ronsard, Ode a Antoine de Baif, cp. cit., vol. I, p. 128, vv. 20-25; cfr. Muret, Iuvenilia, op. cit. (prefazione). (172) Du Bellay, Contre les envieux poétes, in Oeuvres, ediz.
Chamard, vol. IV, p. 47, vv. 81-84; Aux daines angevines, in Oeuvres, vol. IV, p. 37; Olive, préface in Oeuvres, vol. I, Pp. 73 Cfr. Jasinski, Histoire du sonnet, Parigi, 1903. Si veda quanto ¢
detto di Nicolas de Herberay a proposito dclla sua traduzione del1’ Amadis in Oeuvres, IV, p. 169. (173) Questo riconosce Ronsard nell’ode a Bajf citata.
(174) Ronsard, Hymne a@ Charles de Lorraine, in of. cit., vol. IX,
Pp. 69. WV. 725-728. Questa priorita di Baif ¢ pure riconosciuta da R. Belleau in Oeuvres poétiques, ediz. Marty-Laveaux, vol. I, Pp. 186.
Cfr, A, Eckhardt, Ronsard accusé de plagiat, in « Revue du XVI° siccle », 1920, pp. 243-244. Il primato della poesia pastorale Du Bellav riconosce a Bertrand Berger (cfr, Oeuvres, vol. IV, p. 186). (175) H. Chamard, L’invention de Vode. Le différend entre Ronsard et Du Bellay, in « Revue d‘hist. litt, de France », 1899, pp. 21-27.
(176) Charles de Sainte-Marthe: « Bellaius quoque qui Italo Petrarchae / Artem sustulit atque dignitatem », in Annae Margarifae Tanae, sororum virginum, heroidum anglarum in mortem divae NMargaittae Valesiae, Navarrorum reginae, hecatodistichon..., Parigi, 1550, in-8°. Cfr. H. Charmard, Du Bellay, Lille, 1900, p. 243. (177) Cfr. M. Ravmond, L’influence de Ronsard sur la poésie francaise (1550-1580), Parigi. Champion, 1927, vol. I. p. 309.
(178) Cfr. Gohin, introduzione alla ediz. crit. di La parfatcte amie di Héroet, Parigi, 1909, p. XVI. (179) Cfr. Boysonné, Epitaphe pour Marot, in Villey, Marot
et Rabelais, Parigi, 1923. p. 138. Guy Lefevre de la Borderie, in La Galliade ou de la Revolution des Arts et des Sciences, Parigi, 1578, riconosce a Marot il primato nell’epigramma e nell’egloga. Cfr. L. Sainéan, in « Revue du XVI° siécle », 1914. p. 353. 155
tendenti: Salmon Macrin (180) e Heroét, ma esso tocco a Ronsard. Fra tutti vi fu uno sfortunato: Antoine de Baif
il quale tentd di precedere tutti in tutti i campi ed in ognuno fu superato e misconosciuto. Cosi avendo scritto tragedie prima di Jodelle, da questo venne seguito e superato per cui Jodelle é riconosciuto comunemente per il primo poeta tragico; avendo usato con precedenza assoluta il verso alessandrino fu imitato da Ronsard a cui tuttavia e attribuito il primato in questo genere. Di tutte le novita una scla gli venne accordata: quella di aver inventato il verso che porta il suo nome ma proprio a questo merito Baif non attribuiva alcuna importanza (181). Questa preoccupazione di riprendere tutti 1 generi letterari classici e di vantarne il rinnovamento e di attribuirsi il primato di ogni tentativo, se da un lato indica la volonta dei poeti della Pléiade di gareggiare con gli antichi, dall’altro lato prova come essi avessero la convinzione di fare opera che nessuno da secoli aveva tentato in Francia. Quando Baif ricordava a Ronsard la loro vita in comune al col-
legio di Coqueret e come essi meditassero la loro rivoluzione letteraria (« quand nous propensions en commun ce fait nouveau ») che si riprometteva, come soggiungeva Du Bellay, di « outrepasser les devanciers trop conards », non ad altro i nostri poeti accennavano se non a quella loro convinzione di volersi richiamare all’antichita, non tenendo in nessun conto lopera dei letterati precedenti. Tuttavia quando, dopo il primo impulso, la reazione dl
quei giovani artisti si calmo in una piU meditata valutazione, si tenne conto allora di quanto avevano fatto tutti i letterati che nel secolo XVI avevano lavorato per 11 tricnfo della rinascita. Dimenticati gli umanisti del Quattrocento, Lefevre d’Etaples fu considerato da tutti il vero iniziatore (180) Villey, Tableau chronologique des publications de Marot, in « Revue du XVI° siécle, 1920, p. 88. Cfr. Gohin, op. cit., p. XV];
156 |
L. Delaruelle, in « Revue d’histoire litt. de France », tomo VIII, p. 335, nota 2. A questo proposito merita di essere ricordato lepigramma scritto da J. Visagier per S. Macrin (Epigrammata, Pari-
gi, 1537, p. 59): «Iam te Gallia Gallicum Maronem / lam te Gallia Gallicum Catullum / Iam te Gallia Gallicum Marullum / Jam te Gallia Gallicum Tibullum / Flaccum Gallia te, Macrine, dicet / Nasonem semel et quater vocabit ». (181) Scévole de Sainte-Marte, Elogia, op. cit., p. 14.
del movimento umanistico; colui che, secondo le parole di Sainte-Marthe, come un sole venne a risvegliare la gioventu
francese ed a ridonare tutto il loro splendore alle discipline liberali (« liberalesque disciplinas turpissime iacentes, effuso purioris doctrinae lumine, primus illustraret et eri-
geret») (182). Fu riconosciuto il vanto di Jean Lemaire de Belges di aver usato per primo in lingua francese la terzina italiana (183); Budé fu il primo filologo fra tutti gli umanisti (184), Mellin de Saint-Gelais fu detto Viniziatore della poesia amorosa (185). Cosi in un piu meditato ripensamento il movimento letterario del Cinquecento appariva in quella omogenea unita che aveva acquistato nel suo sforzo di preparare e realizzare un grande periodo della letteratura francese.
Vil. - L’illusione della Rinascita, Giunti alla meta del secolo, i testi che si possono ancora incontrare non hanno piu un preciso carattere di originalita. Possono essere l’espressione di un particolare ripensamento
di uno studioso che si attarda su questioni di soluzione (182) Scévole de Sainte-Marte, Elogia, op. cit., p. 1. Cfr. Theodore de Béeze, Icones id est Verae Imagines viroruni doctrina simul
et pietate illustrium (apud Toannem Laonium, 1580), p. 15. Lefevre de la Borderie, La Galliade, op. cit., fol. 31: « Toy, Fevre favori du grand Roi precepteur / Et du scavoir gaulois premier restaurateur ». Buchanan, Opera omnia, op. cit., vol. II, p. 82,
nell’epitaffio di Lefevre del quale ¢ detto; «qui studiis intulit
omnibus ».
(183) Jean Lemaire de Belges, La concorde de deux langages, op. cit., p. 6, prologo (97-100) «... et sera rimée de vers tiercetz 4 la facon italienne ou toscane et florentine, ce que nul autre de nostre langue gallicane a encore attempté d’ensuivre... ». Marot nella seconda prefazione de 1’ Adolescence clémentine riconosce Lemaire come precursore della riforma del verso.
(184) Budé, De Philologia, op. cit., fol. 59, A: « Philologia mihi primo nostratium... ». In una Iettera a Longueil (in Lucubrationes, op. cit., pp. 406-409) Budé si vanta pure di essere stato un precursore negli studi greci. (185) P. de Pascal, Eloge de Mellin de SaintGelats (in appendice al Ronsard et l’umanisme, op. cit., di P. de Nolhac): « Gallice omnium in Gallia primus amatorios et omnis generis innumeros ornatissimos et optimos versos fudit ac poetae melici nomen, summa omnium approbatione, obtinuit ».
157
ancora recente (186) ma non rappresentano pit le lotte di una cultura nuova che si impone gradualmente e conquista tutti i campi. Ormai il problema del rinnovamento perde il suo carattere di attualita e poco a poco si trasforma in un luogo comune in cul persino Ventusiasmo diventa di maniera. Cosi, per altro verso, la coscienza della Rinascita che per 1 primi umanisti significava antagonismo tra la vecchia e la nuova cultura o la scoperta di un nuovo metodo filologico o una rinnovata sensibilita poetica diventa ora uno schema storiografico. Questo viene largamente accolto in tutte le prime opere di storia letteraria che nella seconda meta del secolo tentano una prima sistemazione della vasta attivita del Rinascimento. Lo schema viene usato da Theodore de Beze nelle sue Icones, da Scévole de Sainte-Marthe nei suoi Elogia; da Pasquier in modo speciale (187). Quest’ultimo, come ha il merito di aver per primo dato un quadro storico di tutto 11 movimento della Rinascita, sotto il nostro particolare punto di vista ha il pregio di aver compreso ancora con entuSiasmo sincero Vimportanza del rinnovamento compiuto da un cosi ardente
gruppo di umanisti e di poeti. Nella sua prosa vibra una non nascosta apprensione per la possibile resistenza delVignoranza tenebrosa di fronte alla nuova luce e con essa una sincera soddisfazione per la vittoria di quest’ultima. Ma oltre questo, nelle sue pagine lo schema acquista un valore storico definitivo. E’ merito della chiarezza e della precisione con cui qui esso viene esposto se fu accolto da tutta la storiografia francese del Seicento. Per altro allo
stato attuale delle ricerche, gia si possono tracciare le grandi linee del suo trascorrere attraverso il secolo per giungere a Bayle. Anche se in modo non preciso, lo sviluppo si puo indicare secondo due direzioni: Puna che (186) Questo é il caso delle interessanti osservazioni di Jacques. Peletier du Mans nella prefazione del suo trattato De occulta parte numerorum, Parisiis, apud Gulielmum Cavellat, 1560. (187) E. Pasquier, Les Recherches de la France, reveues et augmentées de quatre livres, Parigi, 1596. I libri VI e VII _ nell’ediz.
dei Textes Modernes a cura di G. Michaut e F. Gohin. Si nott
come qui lo schema storiografico venga sfasato secondo una nuova rivalutazione di alcuni secoli medievali. Pasquier ritorna alla concezione umanistica di Fichet e di Gaguin che ¢ quella che piu trovera successo nella storiografia romantica.
158
passa per Malherbe e giunge a Boileau ed al suo seguito; l’altra che da Pasquier et Scévole de Sainte-Marthe raggiunge Colletet, Madeleine de Scudéry per fissarsi in modo chiaro negli autori che immediatamente precedono Bayle (188).
La via seguita dopo Bayle per giungere al Michelet e gia stata tracciata in modo sommario. Nuove possibili ricerche non dovrebbero recare modifiche sostanziali ai testi indicati dallo Hildebrand e dal Huizinga (189). Ma qui e
necessario avvertire che per avere un quadro completo degli sviluppi storiografici @€ indispensabile avvicinare a questi testi quelli indicati dalle precise ricerche del Sorrento e del Falco (190) perché la storia del concetto di Rinascimento si abbina nel Settecento, e forse anche prima, alla storia del concetto di Medio Evo. I due termini vivono di una concezione che li tiene in antagonismo. Quando sl
narra la storia di uno dei due termini si deve scrivere la storia di tutta la concezione proprio come si chiarifica la storia del due termini analizzando il formarsi o il procedere dell’unica concezione storiografica. Ma questo esce dai limiti che mi sono imposto. Importa
invece concludere sottolineando il preciso valore dei testi qui elencati. Infatti non si puo chiedere ad essi un Significato che non hanno e quindi supporre antistoriche affer(188) Non so quali testi possano dimostrare che la storiografia francese del sec. XVII non distingueva ancora tra Medio Evo e Rina. scimento (cfr. M. Jouglard, La connaissance de lVancienne littératwe francaise au XVIIT siecle, in Mélanges Lanson, Parigi. 1922, p. 269). F, certo che gli autori qui citati conescono ed usano la formula co-
mune di «luce e tenebre ». Ma non si pud dimenticare che lo sdegno per 1 predecessori tanto generale nel Cinquecento fu ripreso
dai Secentisti contro gli uomini del Rinascimento. Si ricordino 1 noti giudizi di Boileau e La Bruycre, Cfr. Fuchs, Comment le XVI*
et le XVIII® siécle ont jugé Ronsard, in « Revue de la Renais-
sanme », tomi VIII e IX, 1907-1908. F. Neri, La costruzione deila storia letteraria francese Torino, 1938. p. 144. Una esauriente trattazione dell'argomento viene ora offerta da N. Fdelman, Attitudes of Seventeenth-Century France toward the Middle Ages, King’s Crown. Press, New-York, 1946.
(189) R. Hildebrand, Zur sogenannten Renaissance, in Beitrage
sum deutschen Unterrich Leipzig, 1897, p. 285; J. Huizinga, Le probléme de la Renaissance, op. ctt., p. 169. (190) L. Sorrento, Il Medio Evo: il termine ed il concetto, in Mediaevalia Brescia, 1945; G. Falco, Il problema del Medio Evo, Torino, 1933.
159
mazioni che non furono espressioni del pensiero dei loro autori (191). Invece due fatti ben certi si possono dedurre da quanto sono venuto descrivendo. In primo luogo, nel periodo del Rinascimento la cultura francese manifesta una vitalita ed
una vigoria che da secoli non si erano pit riscontrate. Quella fu cosi largamente diffusa da raggiungere 1 piu difesi ambienti culturali e da rinnovarli secondo un metodo che della tradizione si serviva soltanto come strumento di reazione polemica. In secondo luogo vi fu un progresso culturale cosi rapido che le varie generazioni notarono esse stesse le grandi differenze che le separarono e di queste differenze menarono vanto come della prova migliore della loro originalita. Questa proclamata differenza intesa quale testimonianza di una rottura con la tradizione é quella che rende nuove queste affermazioni. Esse non si possono paragonare con quelle che con molta minor abbondanza si trovano nei secoli medievali a dimostrazione della supposta rinascita carolingia o di quella del secolo XII. Poiché, differentemente dai nostri umanisti, mai agli uomini del Medio Evo venne meno il senso della continuita che essi immaginavano trasferirsi di popolo in popolo, secondo una concezione di cui la translatio studii é€ una mitica realizzazione (192). Gli uomini del Rinascimento videro una rottura laddove prima si credette sempre ad un ben concate-
nato sviluppo e su questa rottura trassero le origini del loro entusiasmo e la certezza della loro originalita. Questo é€ il fatto nuovo che mette conto notare per la sua importanza nella storia della storiografia. Una sola domanda ci si puo ancora porre per sapere
fino a qual punto, messo da parte ogni entusiasmo, gli umanisti profondamente credessero a questa rottura che implicava il rinnegamento di tanti secoli di civilta. Alla (191) E’ quanto giustamente teme G. Toffanin nella prefazione alla sua opera I] secolo senza Roma, Bologna, Zanichelli, 1942. La ricerca € legittima soltanto se rimanendo nello stretto campo filolo-
gico, serve per definire il valore ed il significato attribuiti dagli umanisti alla parola « rinascita ». Ma questi testi non possono servire per dimostrare una reale mancanza di continuita tra i secoli
medievali ed il Rinascimento. (192) E. Gilson, La philosophie au Moyen-dge, Parigi, Payot, 1944, p. 325. 160
domanda potrebbe rispondere un/’altra lunga serie di testi non meno significativi dai quali risulta come gli umanisti migliori e pitUDX avveduti fossero convinti che questa loro concezione era unillusione; benefica illusione, capace di sorreggere le piu audaci iniziative ed i sogni piu difficili (per agire bisogna combattere contro qualche oppositore) ma pur sempre illusione. Quando in pieno Rinascimento avvenne il sacco di Roma, Melantone che aveva inneggiato lui pure al secolo d’oro, scrisse dolorose considerazioni se altro mai significative della sua concezione storica (193). Né si puo dimenticare che vicino alle lodi per l’invenzione della stampa si trovano le invettive contro questo pericoloso mezzo di diffusione delle eresie e le non meno generali imprecazioni contro l’artiglieria. Molti scrittori talvolta gareggiavano per primati gia scontati da decenni e sovente 1 rinnegatori della barbarie medievale erano quelli che pit traevano esempi ed ispirazione dai predecessori. Quindi coscienza di una rottura ma anche intuizione che questa rottura non potesse esistere nella realta. Questo dicono innumerevoli testi che testimoniano di un sogno letterario fonte di migliori propositi, di un mirabile rinnovamento artistico, di uno schema storiografico da cui a fatica appena oggi ci liberiamo. (193) Melantone, Oratio de capta Roma (1527), in Corpus Reformatorum, ediz. Bretschneider, vol. XI, p. 130 sgg.
lol
Capitolo quinto VERITAS FILIA TEMPORIS
{A proposito di un testo di Giordano Bruno)
I. - Nel periodo del’Umanesimo e del Rinascimento con la concezione storiografica ciclica coesiste il concetto medievale di progresso. L’ampio orizzonte classico che si dischiuse alla cultura nel’eta dell’umanesimo condusse le menti piu acute a concepire l’anima umana in una identita immobile attraverso tutti 1 tempi e tutti i luoghi. Se questa concezione, da un lato, derivava proprio da una piu approfondita conoscenza della classicita, da un altro ne giustificava lo studio e piu ancora lo sollecitava. Poiché, diversamente da quanto accadra nel Seicento dove con la Querelle des anciens et des modernes tale idea servira come argomento per disprezzare Veta classica, nel periodo umanistico essa impose lo studio
delle opere antiche quali fonti preziose di umana esperienza. Se gli uomini non erano mutati, importante quan-~ altro mai diveniva il conoscere come in determinate circostanze essi si fossero comportati e in quale modo avessero saputo superare alcune difficolta e risolvere certe situazioni. La storia quale maestra di vita era quindi il proposito umanistico che pit direttamente derivava da questa idea fondamentale. Da cui per altro traeva la sua ragione d’essere anche il concetto di imitazione. Era lecito copiare ed imitare gli antichi perché, come diceva Lorenzino de’ Medici, «il mondo é€ sempre stato a un modo». Plauto e
Terenzio era modello al Ruzzante perché, stabilito che nihil sub sole novi, le situazioni umane che il moderno proponeva nelle sue commedie erano precisamente quelle che 163
1 latini avevano osservato e descritto (1). Per altro, una tale concezione, nella sua tendenza statica, non poteva transcurare quel concetto di evoluzione del genere umano che gia dai piu antichi scrittori era stato acquisito al pensiero. Per conciliare dunque le due tendenze Pumanesimo si trovo costretto ad interpretare nuovamente la storia secondo una
visione ciclica (2) in cui le vicende umane, attraverso ad un ben definito movimento circolare, tornerebbero sempre al loro punto di partenza da cui poi ripartono per un/’altra ripetizione degli stessi fatti e delle stesse situazioni. Ecco come il Machiavelli nel modo pit chiaro espone questo concetto:
Perche essendo le cose umane sempre in moto o le salgono o le scendono... E pensando io come queste cose procedino, giudico 11 mondo sempre essere stato ad un medesimo
modo ed in quello essere stato tanto di buono quanto di tristo; ma variare questo tristo e questo buono di provincia in provincia come si vede per quello che si ha notizia di quelli regni antichi che variavano dall’uno all’altro per la variazione di costumi, ma il mondo restava quel medesimo. Solo vi era questa differenza che dove quello aveva prima collocata la sua virtu in Assiria, la collocé in Media, di poi in Persia tanto che la ne venne in Italia ed a Roma... (3). Come si vede, qui il Machiavelli ha dovuto transformare la concezione progressiva della medievale translatio imperii in una semplice concezione evolutiva per non venir meno al fondamentale concetto, secondo il quale « il mondo
sempre [é] stato ad un medesimo modo» (4). La trasfor(1) G. Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, 3 ediz., Firenze, Sansoni, 1940, p. 353. (2) N. Machiavelli, Discorst sopra la prima deca di Tito Livio,
libro II, proemio; Cfr. libro III, capo 39: «...perché tutte le cose del mondo in ogni tempo hanno il proprio riscontro con gli antichi
tempi. Il che nasce perché essendo quelle operate dagli uomini che hanno ed ebbero sempre le medesime passioni, conviene di necessita che le sortiscano il medesimo effetto ». Altro testo che ripete il medesimo concetto nel libro III, cap. 43.
(3) N. Machiavelli, Discorst sopra la prima deca di Tito Livio, libro II, proemio. (4) Questo testo ha dei precedenti non meno significativi. Me-
ditando sulle ragioni storiche della caduta degli imperi, Jean de
Montreuil scrive (Epistola LXX in Marténe et Durand, Amplissima collectio, II, col. 1439): « Rursus quaero quod simul omnia dissolvas ut quid est quod Assyrii, Persae, Medi, Afri, Graeci atque Romani
monarchias mundi successive hactenus tenuerunt qui tamen nihil 164
mazione potrebbe sembrare un regresso del pensiero storico umanistico rispetto a quello medievale, ma esso é tale soltanto in apparenza. Infatti il piu maturo assorbimento del pensiero classico avvenuto con tanta abbondanza e con la precisione offerta dal nuovo strumento filologico aveva svelato un mondo cosi ricco, tanto vario e complesso da non lasciare nessuna idea, nessun fatto, nessuna situazione che in esso non trovasse un possibile precedente. In questo richiamo si smarriva il retto giudizio storico e cadeva in una affrettata dichiarazione di identita. Per essa il medievale concetto di progresso veniva sacrificato per un momento, e un momento soltanto! A questo, in omaggio ad una piu precisa visione dell’antichita classica, veniva sostituito il concetto di ritorno. Non diversamente concludeva
Montaigne di fronte a quanto di inatteso recava con sé la scoperta del nuovo mondo quando osservava: Nous nous escriions du miracle de linvention de nostre artillerie, de nostre impression; d’autres hommes, un
autre bout du monde a la Chine, en jouyssoit mille ans
auparavant. Si nous voyons autant de monde comme nous n’en voyons, pas, nous apercevrions, comme il est a croire, une perpetuelle multiplication et vicissitude de formes. II n’y a rien de seul et de rare eu esgard a nature, ouy bien sunt ad praesens penitus neque possunt. Quo insuper abiit Babylonia? Quo aufugerunt Thebae? Quo Africa? Quo Athenae? Quo Roma? Quae pene omnes ad solum redactae sunt: anne coelum
aliud an terra an aér quamdudum diversi sunt? Credo quidem
nec vana fides, elementa eadem semper esse omnia, nisi cum de uno in aliud commutative fit mixtio ». Cfr. anche la lettera a Giovanni di Piemonte di Nicolas de Clamanges (Opera, ediz. Lydius, Op. cit., p. 189) dove, discutendo delle capacita letterarie della Francia, si afferma che la rinascita della retorica é possibile appunto perché tutte le condizioni ambientali sono rimaste immutate (« neque enim ut ipsa terrae plaga aut coeli inclementia obstat quo-
minus sicuti caetera, literarum hic egregie abundeque vigue-
runt, hodieque vigent: ita artis oratoriae... possit disciplina vigere »).
Peraltro, a nessuno sfuggira come il testo del Montreuil in modo curioso ricordi le numerose riprese medievali del tema letterario Ubi sunt. Non oserei dire che esso ne rappresenti un piu profondo sviluppo umanistico; certo testimonia del perdurare di una tradi-
zione a cui qui una nuova meditazione storica muta il suo pit
intimo significato. Per quanto riguarda le fonti, il testo é la fusione
di due ben noti passi biblici: la profezia di Daniele e il Sapienliae liber.
165
eu esgard a nostre cognoissance qui est un miserable fon-
dement de nos regles et qui nous represente volontiers
une tresfauce image des choses. Comme vainement nous concluons aujourd’hui Vinclination et la decrepitude du monde par les arguments que nous tirons de nostre propre foiblesse et decadence... ainsi vainement concluoit cettuy-la
(Lucrezio) sa naissance et jeunesse, par la vigueur qu’il voyoit aux espris de son temps, abondans en nouvelletez et inventions de divers ars (5). Fa eco a questa concezione ciclica anche Pontus de Tyard quando preoccupato di precisare il vero significato
dell’evoluzione della cultura nella storia dell’umanita,
scrive:
Car bien que l’espece humaine semble estre de temps immemorial precedant les Arts au rapport des Histoires, si est-il plus croyable (mesme a qui considerera comme cha-
cune nation démentant sa corrivale se vante de la pri-
mauté et de linvention) que les sciences sont éternelles,
toutefois delaissees quelques siecles, pour l’injure des guerres, des Tyrans, pour la negligence des hommes, pour les supersticieuses defenses des religions ou autres telles causes, puis elles sont, mercy de quelque plus heureuse bénignité, refraischies et remises dessus (6).
Da questi pensieri e chiaro che tanto Pontus de Tyard come Montaigne e Machiavelli sono condotti dall’interpretazione ciclica delle vicende umane ad un relativismo storico capace di frenare i migliori entusiasmi (7). Non cosi (5) M. de Montaigne, Essais, libro III, cap. VI, ediz. ‘Thibaudet,
Parigi, 1933, p. 874. La complessita dei problemi che derivano da questi testi ha indicato G. Toffanin. Cfr. La querelle della Rinascenza umanistica in Bulletin of the international Comittee of historical sciences, n. 36, sett. 1937; Montaigne e l’tdea classica. Bologna, Zanichelli, 1942.
(6) P. de Tyard, Le second curieux in Les discours philosophiques, Parigi, 1587, pag. 326 v°. (7) Quest’affermazione tuttavia non deve far dimenticare come proprio il Machiavelli offra argomenti alla concezione storiografica
che vede nel Medio Evo un’eta barbara. Cfr. Discorst sopra la prima deca di Tito Livio, libro II, cap. V: « E chi legge i modi tenuti da San Gregorio e dagli altri capi della religione cristiana, vedra con quanta ostinazione si perseguitarono tutte le memorie antiche, ardendo l’opere dei poeti e delli istorici, ruinando le immagini e guastando ogni alta cosa che rendesse alcun segno della antichita. Talché, se a questa persecuzione egli avessino aggiunto
una nuova lingua, si sarebbe veduto in brevissimo tempo ogni 166
si puo dire di tutti gli umanisti per i quali il ripresentarsi sulla scena della storia di alcune felici condizioni che avevano fatto la grandezza dell’eta classica, aveva aperto il cuore, come s’e visto, alle piu alate speranze. Per essi la coscienza della Rinascita non era che la costatazione di un altro evidente passo dell’evoluzione ciclica della storia che nei secoli XV e XVI pareva ripetere gli splendori dei secoli classici piu. belli. Condotti a questa concezione dal rinnovato studio dell’antichita, gli umanisti in essa trovavano le ragioni del loro antistoricismo per il quale avevano sostituito il concetto di progresso con quello di ritorno. Tuttavia non si puo dire che nell’eta dell’umanesimo e del Rinascimento fosse del tutto dimenticato quel concetto di progresso che il pensiero medievale aveva ampia-
mente conosciuto (8). E’ noto che un testo luminoso di
Giordano Bruno nella Cena delle Ceneri (1584) dimostra come il pensatore nolano abbia avuto Vintuizione dell’atti-
vita progressiva dello spirito nella storia (9). Egli non solo non crede che la sapienza sia tutta negli antichi ma
sostiene che é vero il contrario e cioé che i moderni sono piu saggi degli antichi in quanto portano in sé tutta l’esperienza dei predecessori e la loro maturita di dottrina. Ecco come il Bruno esprime la sua concezione:
Si voi intendeste bene quel che dite, vedreste, che dal vostro fondamento s’inferisce il contrario di quel che pensate: voglio dire, che nol siamo piu vecchi ed abbiamo pit longa eta che i nostri predecessori: intendo per quel che appartiene a certi giudizi, come in proposito. Non ha potuto essere si maturo il giudizio di Eudosso che visse po-
co dopo la rinascente astronomia se pur in esso non ri-
nacque, come quello di Calippo che visse trent’anni dopo la morte d’Alessandro Magno; il quale, come giunse anni ad anni, possea giungere osservanze ad osservanze. Ipparcosa dimenticare ». Ma questo é proprio il concetto opposto a quel-
lo del Petrarca. Cfr. Rerum memorandarum liber I, 19; 16-33;
ediz. Billanovich, Firenze, Sansoni, 1943, p. 19. (8) Cfr. A. Comte, Systéme de politique positive, Parigi, 42 ediz.,
1912, t. Il, p. 116; E. K. Rand, Founders of the Middle Ages,
Cambridge, Harvard University Press, 1929, p. 13 sgg. Come é noto
il lavoro di J. B. Bury, Progress, Londra, 1920, pp. 11-18, non
tiene conto della concezione medievale del progresso.
(9) Cfr. G. Gentile, op. cit., p. 337-338. Nel De sapiente di
Charles de Bovelles il concetto di progresso che vi é esposto non é storico, ma individuale. 167
co per la medesima ragione, doveva saperne piu di Calippo perchée vidde la mutazione fatta sino a centonovantasei anni dopo la morte d’Alessandro. Menelao, romano geometra, perche vedde la differenza de moto quattrocentosessantadul anni dopo Alessandro morto, é ragione che ni intendesse piu ch’Ipparco. Pi ne dovea vedere Macromet-
to Aracense milleducento e dui anni dopo quella. Pit ni ha veduto il Copernico quasi a nostri tempi, appresso la medesima anni milleottocentoquarantanove. Ma che di questi alcuni che sono stati appresso, non siino pero stati piu accorti che quel che furon prima e che la moltitudine di que’ che sono a’ nostri tempi non ha pero piu sale, questo acca-
de per cio che quelli vissero e questi non vivono gli anni
altrui e quel che e peggio, vissero morti quelli e questi
negli anni propri (10). Questa precisa valutazione dell’opera dei moderni non e loriginale caratteristica della concezione del Bruno poiche, anche se con molta minor profondita, prima del pensatore nolano gia Benedetto Accolti aveva contrapposto alla grandezza delle repubbliche antiche quella di Firenze e di Venezia (11); e piu ancora Flavio Biondo aveva scritto una esaltazione di Roma quale sede del rappresentante di Cristo che era laffermazione di un primato senza precedenti (12). Ora non ée dubbio che questo concetto di una superiorita dei secoli moderni su quelli antichi agli umanisti derivava del pensiero medievale. Non si puo infatti dimenticare che Vimmagine cosi espressiva di Bernardo di Chartres quale viene riferita da Giovanni di Salisbury, essere i moderni dei nani sulle spalle dei giganti (13), @ un sicuro indice non solo della coscienza posseduta dagli umanisti medievali della loro dipendenza dai classici ma anche della loro sicurezza di essere in una posizione piu elevata, tale da abbracciare un orizzonte culturale pitt vasto. Infatti questo concetto ancor piu chiaramente esprimeva Pietro di Blois quando osservava: (10) Cfr. G. Bruno, Opere Italiane, ediz. Gentile, Bari, Laterza, 1907, vol. I, p. 28. (11) B. Accolti, De praestantia virorum sut aewi dialogus, ediz. Galletti Firenze, 1847, p. 105 sgg. Cfr. E. Garin, I] Rinascimento italiano, Milano, 1941, p. 86.
(12) F. Biondo, Instauratae Romae libri tres, Basilea, 1531, p. 271; Cfr. E. Garin, op. cit., p. 86. (13) Giovanni di Salisbury, Metalogicus, III, 4; ediz. Webb, p. 136; P. L., t. 199, col. 900. 168
Nos quasi nani super gigantum humeros sumus quorum beneficio longius quam ipsi speculamur dum antiquorum tractatibus inhaerentes elegantiores eorum sententias quas vetustas aboleverat hominumve neglectus, quasi iam mortuas in quamdam novitatem essentia suscitamus (14). Ma bisogna aggiungere che questo concetto non era che lapplicazione fatta dagli umanisti di Chartres nel campo letterario di una piu vasta concezione che era stata largamente sviluppata dai pensatori medievali (15). Essi infatti per primi avevano sostituito alla concezione ciclica delia storia un concetto di evoluzione progressiva (16). San Tommaso aveva sostenuto che se ]’uomo ha una sua storia individuale che é uno sviluppo costante dall’infanzia alla vecchiaia cosi é per la societa. In questa vi é€ un progresso nell’ordine politico e sociale come nell’ordine scientifico e filosofico. Ogni generazione trae i vantaggi e gli svantaggi dai meriti e dagli errori della precedente e transmette, a sua volta, alla successiva l’insieme di verita che e venuta conquistando. Particolarmente nel campo del penslero 1 medievali sanno che gli uomini passo per passo sono
venuti conquistando la verita e che non essendo questa conquista mai totale, a loro incombe Valta funzione d'assorbire tutta l’eredita classica per moltiplicarla quanto pit possibile. Per altro S. Agostino aveva formulato con chia-
ra precisione lidea sconosciuta tanto a Platone come ad Aristotele, di una umanita concepita come un essere collettivo unico, fatto piu di morti che di viventi, in marcia ed in progresso costante verso una perfezione a cui si avvicina sicuramente (17). Ma Vattesa di una felicita ultraterrena non toglieva allo storico cristiano ogni interesse per il passato (18). Per quanto come credente egli fosse (14) Pietro di Blois, Epistola 92; P. L., t. 207, col. 290. (15) E. Gilson, L’esprit de la philosophie médiévale, Parigi,
Vrin, 1944, p. 365 seg. (16) B. Croce, Teoria e storia della storiografia. Bari, Laterza, 1926, p. 188.
{17) E. Gilson, op. ctt., p. 371. Inoltre, Sant’Agostino aveva gia avuto chiara l’idea della differenza storica delle varie eta del mondo. Cfr. De genesit contra Manicheos, I, 24-42; P. L., t. 34,
col. 193.
(18) Di parere opposto J. T. Shotwell, An introduction to
the history of history, New York; Columbia University Press, 1922, p. 282. 169
tutto proiettato verso un radioso avvenire, rimaneva in lui
la curiosita di osservare per quali umani sviluppi ogni creatura segnasse su questa terra le tappe del suo ritorno verso il Bene supremo. Ai suoi occhi 11 passato rappresentava una inesauribile fonte di esperienze e di esempi nel tentativo comune di raggiungere la vera saggezza.
La prova piu evidente della vitalita di questo pensiero é@ la riaffermazione frequente in tutti 1 secoli del-
Yeta di mezzo della funzione storica della cultura cristiana che viene posta sulla precisa linea di sviluppo della cultura antica e come la sua logica continuazione ed
il suo piu evidente complemento. Ancora alla fine del sec. XIV, Pietro d’Ailly riprende questa interpretazione in una pagina che é notevole non solo per la chiara formulazione del concetto ma anche per le immagini con cui
esso viene espresso. L’autore infatti elenca 1 tentativi compiuti dai sapienti di tutte le eta per giungere al monte della saggezza e dopo di aver accennato alle virttu piu nobili dei principali rappresentanti del pensiero greco, osserva con quale sforzo tutti quel filosofi abbiano inva-
no tentato di salire alla cima piu alta del sacro monte. Egli scrive:
Videamus in huius montis pede qualiter hulusmodi philosophi catervatim sese comitantur ut ascendant facilius et ut current velocius. Alter alterius sequitur vestigia. Plato Socratem sequitur; Aristoteles Platonem, Lucilus Senecam; Seneca vero Paulum sequi cupiens, post eum
clamitat dicens: «O mi Paule charissime, optarem eius esse locl apud meos qualis tu es apud Christianos... Currunt ergo velociter, currunt pariter et tamen quia nec sacrae scripturae nec veritatis catholicae viam tenent, in
montem ascendere non valent» (19).
In questo testo importa sottolineare non tanto la differenza notata tra la cultura classica ed il cristianesimo quanto la linea progressiva che viene stabilita da Platone a Seneca e da questo a San Paolo secondo uno svilup-
po che e appunto la migliore prova di una concezione
storica che, come s’é visto, in S. Tommaso e in S. Agostino aveva trovato i suoi migliori teorizzatori. Un secolo pit (19) Pietro d’Ailly, Recommandatio Sacrae Scripturae, in Gersoni
Opera, ediz. Du Pin, tomo I, fol. 605. 170
tardi riprende la stessa idea anche Jean Raulin. E’ noto come di questo illustre rettore dell’Universita parigina fino ad oggi gli studiosi abbiano messo in luce soltanto la vasta e complessa attivita riformista. Tuttavia storicamente non é@ meno interessante sottolineare quanto di tradizionale vi é nella sua cultura appunto per le influen-
ze e le reazioni che essa pote suscitare nel campo degli umanisti cristiani. Dal rapidi accenni che Raulin fa sovente nel suoi Sermones circa l’importanza e la funzione del pensiero cristiano, ¢ chiaro come questo sia da lui concepito in progressivo sviluppo. Parlando infatti della conquista della verita cristiana quale si e venuta realizzando
nei secoli, egli ricorda la successione dei grandi profeti dell’Antico Testamento ed osserva che Dio rivelo ai pensatorl1 moderni delle verita che aveva tenute nascoste nei tempi antichi sicche é possibile stabilire una sicura linea
in cui Mose appare piu sapiente d’Abramo, Davide pit di Mosé e cosi di seguito. Onde il nostro autore conclude: « Sunt enim doctores moderni in ordine ad alios doctores antiquos sicut nani super humeros gigantum quia vident
ea quae illi viderunt et scripserunt et adhuc ultra» (20). Ora in questo testo é facile vedere come Raulin abbia fatto sua la formula di Bernardo di Chartres al punto di ri-
peterla quasi alla lettera e senza sentire per nulla il bisogno di precisarne la fonte (21). Tanto quella formula Sintetizzava un pensiero ben preciso e vitale nella cultura del nostro autore (22). Neé si puo dimenticare come questa stessa concezione abbia avuto la sua applicazione anche in pura sede letteraria. Quando il Petrarca in un momento della sua po-
lemica senza quartiere contro la cultura araba, si pone (20) J. Raulin, Sermo XVUI in Sermones adventuales, Opera omnia, 1612, tomo I. p. 106. (21) Ma che egli conoscesse le opere di Giovanni di Salisbury ¢ evidente poiché altre volte cita il Policraticus. Cfr. op. ctt., tomo I, p. 283. (22) In un altro passo Raulin contrappone a questo modo la linearita dello sviluppo cristiano alle contraddizioni del pensiero pagano: « Non enim est discrepantia inter scripturas veteris et novi Testamenti ubi in doctrinis humanis philosophi posteriores contradixerunt prioribus ut Aristoteles Platoni et Socrati et Antistenes et Aristippus Socrati magistro suo quamvis essent Socratici ». (Opera omnia, op. cit., tomo III, p. 114). 171
il problema dello sviluppo letterario quale dai piu antichi greci attraverso ai romani giunse agli scrittori cristiani, egli non solo non sacrifica il concetto di progresso alla sua ammirazione per la classicita ma afferma la sua certezza che ogni autore possa e debba superare nel pensiero e nell’arte tutti 1 suoi predecessori. Egli ricorda come dopo Platone ed Aristotele osarono scrivere di tutte le parti della filosofia Varrone e Cicerone; come quest’ultimo abbia superato nell’eloquenza Demostene mentre Virgilio si pose sul cammino di Omero. Livio e Sallustio seguirono e superarono Erodoto e Tucidide mentre tutta la giurisprudenza romana da pochi semi gettati dai greci seppe raccogliere la piu abbondante messe. Onde il nostro scrittore conchiude: « Denique graecos et ingenio
et stylo frequenter aequavimus, imo si quod credimus Ciceroni, semper vicimus ubi annisi sumus quod si vere de nobis comparationem graecorum tantus ille vir dixit, multo fidentius in comparationem omnium aliarum gentium dici potest » (23). Non é tale affermazione il segno di un nazionalismo vigilante e quasi irritato quanto piuttosto la sicurezza di possedere un‘eredita che ben lontana dal restringere ogni attivita ed ogni speranza, queste sprona e favorisce su di una via senza limiti e di tanto pit nuova.
Se il Petrarca non avesse avuto fede nel progresso letterario non un solo rigo della sua opera latina sarebbe stato scritto mentre per altro sarebbe mancato l’ardore segreto che anima tutta la sua attivita culturale. II. - Alcuni uwmanisti conciliano il concetto di progresso con la coscienza della Rinascita e rivalutano tutti 7 secoli medievalt.
E’ dunque evidente che nel periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento coesistevano due concezioni storiografiche che, richiamandosi luna alla tradizione classica
e l’altra alla tradizione medievale, si trovavano fra di loro in netta opposizione. Non é€ quindi senza interesse (23) F. Petrarca, Seniles, epist. II in Opera, Basilea, 1554,
fol. 913. 172
studiare il tentativo di conciliazione compiuto da alcuni umanisti 1 quali, pensosi del significato storico del loro mo-
vimento e per altro memori del valore della tradizione medievale che non potevano rinnegare, cercarono di fon-
dere le due concezionil in una nuova energica affermazione del rinnovato spirito culturale del Rinascimento. Questo non viene piu collegato direttamente all’antichita classica ma segnalato come un passo fortunato e lumi-
noso di quel progressivo svilupparsi della civilta quale
sl venne realizzando in tutti 1 secoli medievali. La coscienza della Rinascita si unisce quindi all’idea di progresso e non di ritorno e con questo mentre si valuta nella sua giu-
sta importanza l’operosita medievale riconosciuta quale precedente diretto dell’opera del Rinascimento, per altro si rigetta la visione ciclica della storia. Fondamentale a questo proposito é il capitolo settimo del primo libro del De studio divinae et humanae philosophiae di Gianfrancesco Pico della Mirandola (24). In que-
sto capitolo Vinsigne umanista, dopo di aver dimostrato come la filosofia sia soltanto utile ma non necessaria per un cristiano il quale particolarmente dalla filosofia anti-
ca non puo trarre tutti 1 migliori vantaggi, tratta del-
Vimportanza storica della cultura classica. Egli afferma che 1 letterati antichi sono esempi insigni perche seppero mirabilmente unire l’eloquenza con la sapienza. Tuttavia subito aggiunge che, dopo di quelli, vennero gli scrittori cristiani i quali appunto perché « vetera excoluerunt et invenerunt nova» sono piu preziosi dei classici in quanto in essi l’eloquenza e la scienza toccarono cime piu alte. Per quanto riguarda la cultura Pico afferma che S. Agostino conquistO un numero di verita filosofiche maggiore di Platone; ad Aristotele egli oppone non solo Alberto Magno ma 8S. Tommaso e Duns Scoto. Anche se riconosce
che i filosofi pagani ebbero il merito di indicare la via ai cristiani non per questo pensa che il seguente sia minore del precedente cosi che Aristotele sia di minor grandezza (24) J. Fr. Pico, De studio divinae et humanae philosophiae in Opera, Basilea, 1567, p. 19 sgg. I] Corsano (II pensiero religioso italiano dall’Umanesimo al Giurtsdizionalismo, Bari, Laterza, 1937, p. 54 sgg.) ha gia studiato questo testo, mettendo in evidenza principalmente l’importanza della rivendicazione dell’originalita cristia-
na derivata dalla influenza del Savonarola. . 173
di Platone e questo di Socrate e via di seguito fino a Ta-
lete. Egli afferma proprio il contrario in quanto crede che nella cultura vi sia una progressiva evoluzione. La quale tuttavia non é semplicemente cronologica poiche non é sufficiente essere venuto dopo un determinato pen-
satore per essere a questo superiore. Pico precisa che é necessaria una eccezionale forza di Ingenio capace di trarre tutti i frutti dall’’opera del predecessore ed una continua applicazione studiosa unitamente ad altre varie cir-
costanze che sole permettono di giungere alla cima di una dottrina. Osservazione la quale meglio non potrebbe precisare che cosa il nostro umanista intendesse per progresso storico e che stranamente ricorda quanto dira pol Bruno secondo il quale soltanto i piu accorti sanno trarre vantaggio dalle esperienze dei predecessori mentre la moltitudine che «non ha piu sale» trae la propria debolezza dal fatto che « quelli vissero e questi non vivono gli anni altrul >.
Anche per quanto si riferisce all’eloquenza Pico stabilisce un sicuro storico progresso. Egli trova in Clicerone la forza di Demostene, la facondia di Platone, la curiosita di Isocrate. Ma subito si domanda: « Quis enim non advertit Lactantium Firmianum aequasse ipsum (Cicerone) et forte praecelluisse in eloquendo? ». Né si limita a Lattanzio ma ricorda S. Girolamo, S. Agostino e molti altri Padri per terminare osservando che nel campo della filosofia morale i pensatori cristianl superarono di gran
lunga i classici. Ma nella sua visione storica il nostro umanista non si ferma a questo punto. Passando a considerare l’importanza del suo secolo egli osserva che que-
sto, in tutto lo splendore di una cultura rifiorente, non e meno ricco di ingegni tanto dell’epoca antica come di quella medievale. « Possem, egli dice, equidem multos
quos antiquitati opponerem numerare et afferre etiam rationes efficacissimas ». Quindi passa all’elogio del Pontano che giudica del tutto pari alla grandezza ciceronia-
na; poi ricorda il Poliziano ed Ermolao Barbaro, ricchi di quei doni letterari che fanno la bellezza dello stile classico. Per quanto riguarda la poesia non invidia gli antichi perche i nuovi poeti sono a quelli superiori in quanto con la migliore forma classica hanno saputo cantare la verita cristiana. Pico ricorda Battista Mantovano 174
e con lui Ercole Strozzi tanto ammirato dallo zio Giovanni. Né tace la grandezza di quest’ultimo di cui si dilunga
ad enumerare tutte le attivita ed 1 meriti nella cultura
umanistica. Passa poi ad esaltare l’opera del Savonarola che a lui appare come uno dei piu grandi uomini del suo tempo, ammirevole tanto per l’ingegno come per la dottrina. Onde il nostro umanista conclude che 1 moderni non
hanno nulla da invidiare agli antichi ne per quanto riguarda il pensiero ne per quanto riguarda le lettere. FE’ facile notare in questo testo come Glianfrancesco Pico consideri tutta la storia della cultura secondo quel graduale progresso che gia avevano precisato i pensatori medievali. La sua coscienza storica circa la rinascita letteraria non e differente da quella rivelata dagli scrittori rappresentativi dei secoli medievali piu ricchi di vita intellettuale. Quando al tempo di Carlo Magno, Moduino, ve-
scovo di Autun, accenna al significato storico del sacro romano impero scrivendo: « Aurea Roma iterum renova-
ta renascitur orbi» (25); quando Lupo di Ferriére ricorda il risveglio culturale voluto da Alcuino (26) oppure Guiberto di Nogent quello del suo tempo (27), questi serittorl non si pongono su di un diverso piano storico del nostro umanista. In questo come in quelli non vi e (25) Dummler, Poetae lat. Aevi Carolint in M. G. H., t. f. p. 385.
(26) Loup de Ferriére, Epistola ad Fginhardum; P. L., t. 119,
col. 433: «Amor literarum ab ipso fere initio pueritiae mihi
est innatus, nec earum ut nunc a plerisque vocantur, superstitiosa, Otia fastidio sunt. Et nisi intercessisset inopia praeceptorum et
longo situ collapsa priorum studia paene interissent, largiente Domino meae aviditati satisfacere forsitan potuissem. Siquidem vestra memoria per famOsissimum imperatorem Carolum, cui litterae eo
usque deferre debent ut aeternam ei parent memoriam, coepta
revocari, aliquantum quidem extulere caput, satisque constitit veritate subnixum praeclarum dictum: Honos alit artes et accenduntur omnes ad studia gloriae ». (27) Guiberto di Nogent, De vita sua, libro I, cap. IV; ediz. Bourgin, Parigi, 1907, p. 12-13: « Erat paulo ante id temporis et adhuc partim sub meo tempore tanta grammaticorum raritas ut in oppidis prope nullus, in urbibus vix aliquis reperiri potuisset et quos inveniri contigerat eorum scientia tenuis erat nec etiam moderni temporis clericulis vagantibus comparari poterat ». Si veda come egli difende i diritti dei moderni in Gesta Det per Francos,
I, 1; P. L., t. 156, col. 683.
175
VYammirazione per un ritorno atteso ed auspicato ma la compiaciuta osservazione di un altro passo compiuto nello sviluppo storico della cultura. La quale rimane legata
a tutta la tradizione che in quella esprime la sua forza e la sua vitalita secondo uno sviluppo che non conosce
alcuna soluzione di continuita. Non stupisce di trovare la stessa concezione in alcuni
fra i piu acuti degli umanisti francesi. Ho gia piu volte osservato come in questi la tradizione medievale agisse con una forza maggiore di quanto non avvenga fra gli umanisti italiani (28). Il] tradizionale ambiente universitario parigino in cui si sviluppo per un primo lungo periodo l’umanesimo francese é la principale ragione di questo perdurare della cultura medievale. La quale, come si é visto, era presente anche durante i piu esaltati proclami
dell’antistorico ritorno allantichita. Ma ancora pit presente essa fu negli umanisti piu acuti i quali pur rinnegando la millenaria barbarie da un lato, dall’altro questa rivalutavano nei momenti di piu meditata riflessione storica. Questo é il caso di Jacques Peletier du Mans. Infatti nella prefazione al suo trattato De occulta parte numerorum (29) Villustre umanista, meditando sulla origine delle arti e delle scienze, é portato ad affermare che
quelle non furono inventate da un solo uomo e scrive: Magnam vero in rebus controversiam fecit temporum fortuna quae suis viribus tantam rerum ubertatem profert ut qui praesenti pulchritudine potiuntur, dum nullam tenent memoriam longiorem, ii non modo suo saeculo omnia accepta referant sed ne ullam quidem in futurum mutationem animo concipiant. Quibusdam rursus aetatibus ea sensim incidit calamitas ut melioris conditionis expectatio nulla subeat in animos hominum atque ubi primum artes florere coeperint, eae non postliminio reversae sed novae et omni memoriae inauditae prodire in lucem videantur. Sic perpetua rerum vicissitudo efficit ut qui longius non prospiciunt, omnia praesenti constitutione metiantur quae a melioribus veluti per manus non acceperint. (28) F. Simone, Guillaume Fichet retore ed umanista in Memorte dell’Accademia delle sctenze di Torino, t. 69, serie 2. p. II°, 1938; Robert Gaguin e il suo cenacolo umanistico in Aevum, giugno, 1939. (29) J. Peletier du Mans, De occulta parte numerorum quam algebram vocant libri duo, Parisiis, apud Guilelmum Cavellat, 1560. 176
Appare qui evidente che quello stesso Peletier, il qua-
le in altri momenti non aveva esitato a contribuire con il suo entusiasmo alla generale esaltazione per il nuovo secolo d’oro, in una piu attenta riflessione sente tutto il valore della tradizione. Allora egli comprende il signi-
ficato del fluire eterno della storia che in un mutare continuo di fatti e di circostanze offre quel progresso che agli uomini di corta memoria appare sempre come una inattesa novita senza precedenti. Rifiuta quindi tanto di negare il passato come di credere in una immutabilita eterna della condizione umana e pensa alla « perpetua rerum vicissitudo » come all’origine di ogni buona o cattiva vicenda umana. Non diversamente in alcuni momenti fortunati aveva pensato Bude. E’ noto, dopo quanto sono venuto dicendo,
come nel De Philologia si trovano, unitamente ad un rapido schizzo del movimento umanistico, le piu chiare lodi per la rinascita letteraria. Bisogna tuttavia aggiungere che, pur affermando questa concezione antistorica, Budé non ignoro il concetto dell’evoluzione pro-
gressiva della storia. Infatti, quasi al termine del suo trattato (30), dopo che l’umanista ha affermato ancora
una volta la sua speranza di vedere le lettere rifiorire dopo la lunga tenebra medievale, Francesco I che é uno degli interlocutori del dialogo, osserva che Budé erra, quando parla di una luce che sarebbe venuta a distruggere la barbarie. Poiché, precisa il re, non vi sono nella
storia eta oscure ed eta di luce, avendo ogni eta le sue scoperte. Come esempi sono ricordati la scoperta della polvere da sparo e quella della stampa. E’ chiaro qui che Budé crede al concetto di progresso storico e che su que-
sto medita per quanto riguarda le vicende della storia letteraria. Onde si fa domandare dal suo regale interlocutore perche mai mentre larte della guerra aveva fatto tanti progressi in confronto degli antichi, la letteratura non avesse affatto progredito e tutta ad un tratto fosse rlapparsa nella sua antica bellezza. Domanda che svela le difficolta in cul si trovava lo storico per conciliare il con-
cetto umanistico del ritorno con quello medievale del(30) G. Budé, De philologta, op. cit., fol. 87 B sgg. 177
VYevoluzione e che denunzia come Budé ne _ avvertisse chiaramente l’opposizione. A quest’ultima Vumanista sfugge affermando che il progresso delle lettere umane ven-
ne meno perché manco laiuto dei potenti ma é evidente che egli qui avverte la debolezza della concezione ciclica della storia a cui nel generale entusiasmo si era pur affidato. Non per questo egli evita di affermare per l’avvenire il sicuro progresso della cultura quasi che incapace di rivedere la sua errata concezione, al concetto evolutivo si affidi con piu sicurezza per il futuro (31). La prima chiara sistemazione di questa originale posizione storiografica si trova nell’ultima parte del cap. VII del Methodus ad facilem historiarum cognitionem di Jean Bodin (32). Qui la preoccupazione di confutare lo schema delle quattro monarchie come interpretazione dell’evolu-
zione umana, spinge lo storico a riprendere il concetto storiografico dei nostri umanisti e ad interpretare la rinascita culturale del sec. XVI non come un semplice ritorno all’eta dell’oro ma come un superamento di questa ed un nuovo ed originale arricchimento della civilta. Si puod anzi dire che in Bodin confluiscono tutte le correnti storiografiche dell’umanesimo italiano e francese poiché da lui € pure accolto quanto di fruttuoso recava con se Vinterpretazione ciclica della storia. Questa serve al nostro scrittore per giustificare la sua svalutazione dei secoli medievali mentre per altro dagli umanisti piu avvertiti accoglie Vaffermata superiorita dei moderni rispetto agli antichi. Cosi Bodin appare proprio per questo tentativo di sintesi di due opposte correnti come uno dei primi teorizzatori di quel preciso schema storiografico che, come é noto, acquistera illustrazione e fama negli storici romantici. (31) La via indicata dal nostro umanista seguira invece fino alle sue ultime conseguenze, qualche anno dopo, Loys Le Roy il quale proprio nella sua Vita Budaei (1540) affermera per la prima volta
il concetto del progresso storico a cui nel suo ultimo scritto (De la vicissitude ou variétés des choses, 1577) e principalmente nel cap, XI dara la pil ampia dimostrazione. Cfr, A. N. Becker, Loys Le Roy, un humaniste au XVI° siécle, Parigi, 1896, pp. 243-281. (32) J. Bodin, Methodus ad facilem historiarum cognitionem, Parigi, 1566. Cfr. la traduzione francese condotta sulla nuova edi-
zione del 1572 di P. Mesnard, Parigi, Les Belles lettres, 1941, Pp. 298-299.
178
Si puo quindi concludere che da Gianfrancesco Pico a Bodin, da Bude a Peletier alcuni umanisti dimostrarono, pur con le inevitabili lacune e debolezze, una intuizione storiografica ben piu profonda di quella che si trova generalmente nella maggior parte dei loro contemporanei. AlVentusiasmo per la renovatio morale e letteraria essi oppongono una meditata considerazione sul valore storico di essa. In questo modo gli adoratori dei classici aprono la via ad una giusta valutazione del moderni e scoprono un pensiero che, pur nelle sue imperfezioni, ¢ lVimmediato precedente di quel passo del Bruno in cui si é voluto vedere « per la prima volta affermato il concetto tutto proprio dell’eta moderna della serieta ed importanza della
storia come attualita dello spirito nel suo svolgimen-
ta» (33). Infatti Gianfrancesco Pico, riecheggiando i medievali, non solo capovolge il detto biblico «in antiquis est sapientia » ma quasi servendosi del medesimo procedimento del Bruno, del Petrarca, di Pierre d’Ailly, sostiene, che «noi siamo piu vecchi ed abbiamo piu lunga eta dei nostri predecessori» e quindi piu maturita e maggior conoscenza delle verita divine ed umane. Nella battaglia contro gli antichi non furono percio assenti gli umanisti quando, pensosi delle vicende della loro eta, si accorsero quanto illusoria fosse la concezione della Rinascita. Direi anzi che furono essi che incominciarono quella battaglia quasi che la suprema maturita dell’umanesimo fosse proprio nella ribellione contro il suo stesso programma: cosi nella supremazia del volgare come nel primato nazionalistico come nella valutazione della cultura moderna. Forti della tradizione medievale allora essi questa ripensarono per trasmetterla ai moderni. Fra questi Giordano Bruno per primo del loro contributo non fu immemore. (33) G. Gentile, op. cit., p. 338. Per comprendere come questa intuizione del progresso dello spirito, pur dopo questa conquista
del Rinascimento, abbia ancora subito strani offuscamenti; si veda,
per il Seicento, opera del Rapin, Réflexions sur la philosophie ancienne et moderne (1676). Qui la storia delle dottrine filosofiche é scritta senza alcun rilievo, semplicemente secondo il precetto che
«il faut avoir du respect pour les uns sans avoir de mépris pour
les autres », Cfr. H. Busson, La religion des classiaues, Parigi, 1948, Pp. 355.
179
INDICE
Premessa . . . . . . . . . 7 Capitolo primo: La storiografia francese dell’Ottocento e la rottura tra Medio Evo e Rinascimento 11 Capitolo secondo: La luce della Rinascita e le tene-
bre medievali . . . . . . . . 27
Capitolo terzo: Un testo di Melantone . . . 79 Capitolo quarto: La coscienza della Rinascita negli
umanisti francesi . . . . . . . 91
Capitolo quinto: Veritas filia temporis . , . 163
181
Finito di stampare nel novembre 1949nelle officine di Tivoli dell’ Istituto Grafico ‘Tiberino (Roma - Via Gaeta, 14)
EDIZIONI DI “ STORIA E LETTERATURA ,,
STORIA E LETTERATURA Raccolta di studi e testi a cura di A. Schiaffini e G. De Luca VOLUMI USCITI Prezzo Ed. comune _ distinta
1. ALFREDO ScHIAFFINI, Tradizione e poesia nella
prosa darte italiana, dalla latinita medievale a
G. Boccaccio. Pp. vui-200 . : : : . L. 800 1000 2. ANDRE Witmart, O.S.B., Le «]ubilus» dit de Saint-Bernard. (Etude avec textes). Edizione
postuma, a cura di J. Bignami-Odier e A. Pel- ,
zer. Pp. x-292. . . . . . . » 000 1400
3. Lrvarius Oxicer, O.F.M., De secta Spiritus libertatis in Umbria saec. XVI. Disquisitio et
documenta. Pp. xu-168 —. : : . . » — 1800
4. Pio Pascurni, Domenico Grimani Card. di San
Marco (+ 1532). Pp. vi1-162 . ~ oe - » — 1500
2. BruNo Narpi, Nel mondo di Dante. Pp. vur-
384 ‘ . . oe : . . . - » 1300 1600
6. RAFFAELE CIAMPINI, Studi e ricerche su Nicco-
lo Tommaseo. Pp. xxtv-412 . . . - » 1300 1600
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‘8. GruseprPe Bituanovicu, Restauri Boccacceschi.
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9. ANGELO MonTEVERDI, Saggi neolatini. Pp. viu-
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11, Vincenzo Arancio Ruiz, Rariora. Studi di Di-
riitto Romano. Pp. x1-292_ . : . . - » 2000 2300
12. Uco Mariani, O.E.S.A., Il Petrarca e gli Ago-
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13. ALEXaANDRO VaLicnano, S.J., Il Cerimoniale per
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troduzione e note di Giuseppe Fr. Schiitte, SJ. Pp. xvi-360, con 28 tavole e due incisioni nel |
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14, Micnere Pecrecrmo, Studi su Vantica apole-
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testo . : . : : : : ; - » 1500 1800
16. GrusepPpE B.LaNovicH, Petrarca letterato. -
I. Lo scrittoio del Petrarca. Pp. xx1v-448 . . » 2750 3000
17. Miscellanea Pietro Fumasoni-Biondi. - Studi missionari raccolti in occasione del giubileo
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Fumasoni - Bionni, Prefetto della S. Congrega-
192 a . : - + D 900 1200 zione «de Propaganda Fide». Vol. I. Pp. xvi-
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19. Husert Jepin, Das Konzil von Trient. Ein Ueberblick iiber die Erforschung seiner Ge-
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20. Massimo Prrroccul, Il quietismo italiano del
Seicento. Pp. 220 ‘ , . . : - » +1300 1600
21. Feperico pa MonrtTereLtro, Lettere di Stato e d’arte (1470-1480), Edite per la prima volta da
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22. ANNELIESE Mater, Die Vorldufer Galileis im
23. Tommaso Bozza, Scrittori politici italiani dal
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24. Fausto Nico.tini, Commento storico ella Se
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25. Fausto Nicotrnit, Commento storico alla Se-
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26. Sercio Bator, Studi sulla poesia popolare d’In-
ghilterra e di Scozia. Pp. 172 .. : - » 1300 1600 simo. Studi e testi. Pp. 172 . . . =. » 1500 1800
27. Roperro Wess, Il primo secolo dell’umane-
VOLUMI IMMINENTI Rosperto Weiss, Un inedito petrarchesco: la redazione sconosciuta
di un capitolo del: «Trionfo della Fama ». Eeanest H. Wirxins, The Making of the Canzoniere, and other Pe-
trarchan Studies. "
N. B. — I prezzi segnati si intendono impegnativi non oltre il 31 dicembre 1949. Per una notizia completa dei voll. chiedere il Catalogo Generale e il Bollottino di Libreria quadrimestrale.