La cetra e la penna. Dalla letteratura alla canzone d'autore 8851427763, 9788851427764

In queste pagine si parla della cosiddetta canzone d'autore, di quel tentativo cioè di fondere parole e tessuto mus

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Italian Pages 192 [173] Year 2024

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Table of contents :
Ringraziamenti
exlibris
1. Un’introduzione
2. Parigi o cara
3. Ma Leopardi è il grande profeta
4. Fate fuoco sul mito
5. Dall’Ecclesiaste alla canzone d’autore
6. Solitudine, calvinismo e rock & roll
7. Traduzioni e tradimenti
8. Timore e tremore
9. Mito e quotidiano
10. Thanatos, ovvero alla fine del viaggio
11. Il pendolare, o l’Ulisse di strada
12. Ancora sul viaggio
13. E la società?
14.Reazione al mercato
15. Il superuomo straccione
16. Ancora sulla solituidine
17. La follia
18. Un bilancio. Provvisorio, ovviamente
Bibliografia
L'Autore
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La cetra e la penna. Dalla letteratura alla canzone d'autore
 8851427763, 9788851427764

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La cetra e la penna ISBN: 9788851428792

Questo libro è stato acquistato da: [email protected]

su ancoralibri.it il 16 Aprile 2024 19:47 Codice Transazione BookRepublic: 2024000514000070

Numero Ordine Libreria: 101202400021003

Copyright © 2024 Ancora

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Marco Testi

La cetra e la penna Dalla letteratura alla canzone d'autore

Maestri di frontiera

© 2024 Àncora S.r.l. Àncora Editrice Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano [email protected] www.ancoralibri.it ISBN 978-88-514-2879-2 Prima edizione digitale: febbraio 2024

Amor che ne la mente mi ragiona cominciò elli allor sì dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi sona. Lo mio maestro e io e quella gente ch’eran con lui parevan sì contenti, come a nessun toccasse altro la mente. (Dante, Purgatorio, canto II, vv. 112-117)

Ringraziamenti

Un grazie particolare a Daniele D’Ambrogio. Senza la sua profonda conoscenza del continente musica d’autore (e non solo) e senza la sua faticosissima revisione – con relativo passaggio tra i vecchissimi, ammuffiti fogli dattiloscritti alla memoria del computer da lui pazientemente effettuato – questo libro probabilmente non avrebbe mai visto la luce.

1

Un’introduzione

Ma l’animale che mi porto dentro non mi fa vivere felice mai si prende tutto anche il caffè mi rende schiavo delle mie passioni e non si arrende mai e non sa attendere e l’animale che mi porto dentro vuole te.

Parole assai conosciute per chi ama l’operazione musicale (e poetica) di Franco Battiato1. Parole che però vengono da lontano, vera e propria citazione da un libro abbastanza ignorato in Italia, anche e forse soprattutto per il sospetto di reazionarietà: arrivano infatti da Viaggio intorno alla mia camera (1794), di Xavier de Maistre, fratello del più famoso Joseph, che fu appassionato avversario della rivoluzione francese e dei suoi eccessi. Racconto che è, secondo chi vi scrive, se non il primo, uno dei primi novel moderni, perché il viaggio dichiarato nel titolo avviene dentro una casa – l’ufficiale savoiardo de Maistre è stato punito con gli arresti domiciliari, diremmo oggi, per aver partecipato a un duello –, tra gli oggetti che a loro volta rimandano a immagini, e a ricordi, e alle profondità della psiche. Qui, centocinquant’anni prima della école du regard e del suo sguardo sugli oggetti, e ottanta prima di Freud, si narra l’inconscio che se ne va per conto suo, e si porta dietro anche il, peraltro vigile, protagonista: Di solito alla mia bestia do l’incarico di preparami la colazione: essa mi abbrustolisce il pane, e lo affetta. Sa fare il caffè a meraviglia, e molto spesso se lo beve pure2.

Se Battiato va oltre il limite temporale che ci siamo prefissi in questo lavoro (alla ricerca delle fonti letterarie della canzone d’autore soprattutto tra i ’60 e i ’70), è di per sé la prova della presenza della scrittura che un

tempo avremmo chiamato «alta» nel panorama della musica contemporanea. Una presenza che viene da molto lontano. Dai tempi in cui la separazione non era stata ancora consumata. Nobiltà poetica e realtà «plebea» del bisogno espressivo hanno offerto spesso scenari diversi e considerazioni opposte sul fronte della riflessione estetica. Una certa critica tende generalmente a valorizzare e a riconoscere come opera poetica ciò che si conforma più o meno con uno dei canoni stabiliti da una più o meno tacita selezione. Canoni assai fluidi e che possono – se confrontati – presentare elementi apparentemente contraddittori. In realtà una operazione complessa come quella dello sguardo sull’incontro tra testo e musica deve compiere lo sforzo di individuare le radici culturali e poematiche contenute in una canzone di un autore a noi contemporaneo sia nelle suggestioni coeve, sia nelle datazioni più arretrate, che talvolta possono andare assai indietro nei secoli, come vedremo più avanti. Dignità letteraria nell’area culturale occidentale ha significato individuazioni di stili, oltre che separazioni dogmatiche di generi e arti tout court. Una di queste distinzioni-separazioni ha riguardato il testo da una parte e la musica dall’altra. Per dirla in termini semplicistici, dopo una antica fusione tra parole e canto, il testo poetico ha acquisito l’indipendenza necessaria alla sua autoriproduzione all’interno di un sistema di rimandi e di generi compiuti che crea una tradizione e, ancora una volta, un canone, su cui ha scritto pagine importanti e per certi versi fondamentali Harold Bloom3. Se comunicazione orale significava nella Grecia pre-socratica la possibilità di trasmettere interi sistemi conoscitivi in mancanza di codificazioni scritte, come nell’interpretazione di Havelock, poiché la formula ritmata consente l’assimilazione facilitata dalla ricorrenza musicale e ritmica («La comunicazione poteva contare sull’ausilio diretto di un solo senso, l’udito, e quindi la forma da dare al materiale da presentare doveva essere regolata da espedienti mnemonici che obbedivano a leggi acustiche. Gli altri sensi venivano quindi coinvolti nella massima misura possibile mediante meccanismi di associazione e di partecipazione»4), è anche vero che la scrittura ha attraversato Grecia classica, medioevo e rinascimento fino a realizzare, soprattutto nel Seicento barocco, un discorso metaletterario su se stessa, attraverso il quale si è rafforzata la concezione di

letteratura come costruzione autoreferenziale. In periodi variabili a seconda delle zone di diffusione, ma a partire genericamente dall’undicesimo secolo, accanto a una letteratura poetica «alta», si era affermata una letteratura giullaresca che era per lo più cantata, poiché il cantare era diventata l’unica possibilità di trasmissione popolare in una società in trasformazione dove la cultura degli eletti continuava il suo corso all’interno della curia, dei monasteri e del Palazzo. Ma non solo letteratura cosiddetta giullaresca: la poesia provenzale aveva nel tessuto musicale la sua forma privilegiata di diffusione, anche se più tardi le estreme propaggini provenzali e la «scuola» siciliana diverranno già istituti dove il trobar («comporre» in provenzale) avrebbe conosciuto le sue diaspore: accanto alla accattivante e facile proposizione amorosa del leu (comporre in modo leggero, comprensibile) si era strutturato, soprattutto in seguito alla codificazione di Arnaut Daniel, il trobar «clus», ermetico e difficile, con figure retoriche e luoghi comuni precisi, disciplinati secondo un gusto e una convenzione volutamente oscuri. Essi proponevano una struttura di rimandi sempre più colti dove la scienza delle lettere prevaleva sull’espressione e sull’affabulazione: la poesia diviene il veicolo per un’affermazione di potere sulle cose anche attraverso i riferimenti alla scienza e alla letteratura religiosa. La Corte e il Comune, la Signoria poi, avvertono la necessità di una giustificazione culturale che istituisca i valori nuovi (e nel contempo ne recuperi – sotto forme diverse – più antichi) di cui sono portatori i ceti in ascesa: negli anni di cui stiamo parlando l’aristocrazia «borghese», il ceto mercantile. Si dovranno quindi stabilire le regole per la codificazione della cultura intesa come manifestazione della propria coscienza comune. La borghesia sostituisce gradualmente l’aristocrazia anche a livello ideologico, con la ricodificazione della nobiltà di spirito e con la consacrazione letteraria e artistica attraverso cui si possa riconoscere la propria comunione con la cultura aristocratica preesistente. Questa riappropriazione progressiva porta alla scissione e all’accantonamento del rapporto con l’espressione musicale, proprio perché le parole stesse assumono il valore di modello culturale per eccellenza, reso autosufficiente dalle codificazioni ritmico-retoriche. L’antico legame, però, continuò per secoli, seppure in un clima di diffidenza dei palazzi del potere e delle corti, visto ormai come ibrido,

giullaresco, infimo, comico, lasciato a coloro che sono rimasti ai margini della cultura ufficiale, ai divertimenti di piazza. Ogni tanto l’antica comunione risorgerà attraverso alcuni poeti che ravviseranno nella lingua dei colti i limiti di una comunicazione ormai sterile e fine a se stessa: i Villon e i Rimbaud, nell’arco di quattro secoli, tenteranno anche la riproposizione di un ritmo leggero e facile, con radici lontane nei secoli proprio per recuperare l’antica popolarità di quell’ormai lontano incontro. In ogni loro opera, dalla «Ballata degli Impiccati» a «Ofelia», è possibile avvertire l’abbandono alla musicalità popolare per tentare il recupero di una comunicazione immediata, anche se attraverso lo scherno e l’ironia. E d’altronde Rimbaud stesso faceva perno sulla musicalità ridicolmente trionfante delle bande dei giardini pubblici domenicali per abbandonarsi ad analogie lessico-musicali, a invenzioni testuali che, più che alla sperimentazione di un giovane iniziato alla poesia, fanno pensare a una precoce, impertinente e sguaiata canzonatura dei costumi borghesi. La generazione a cavallo della metà degli anni ’50 del passato secolo ha, da questo punto di vista, esperito vari tentativi di riesumare un rapporto più stretto fra musica e parola, tentativo che, a voler tentare una sua storicizzazione, suggerisce che la musica, più o meno latamente popolare, ha la possibilità e il potere di accompagnare, o di divenire ancora una volta tutt’uno con essa, la poesia. La canzone, in conclusione, può ritrovare l’unità perduta tra le parole e il tessuto musicale. In queste pagine si parlerà così della cosiddetta canzone d’autore, di quel tentativo di fondere parole e melodia anche, a essere più realisti del re, per una più profonda penetrazione in quei settori del mercato esclusi in gran parte dalle vette letterarie. Questo lavoro è anche un omaggio a una cultura che si è manifestata tra la fine dei ’50 e quella dei ’70 del secolo breve, e che nel giro di quegli anni ha lasciato tracce indelebili soprattutto in concerti, film (basti pensare a Ken Russell), raduni e festival musicali divenuti pietre miliari non solo del mondo della canzone. A scusante delle molte mancanze di questo a volte nostalgico percorso, attraverso il quale cercherò di individuare, fra l’altro, le fonti «colte» di alcuni fra i più rilevanti esperimenti d’autore nell’ambito della canzone contemporanea, mi si concederà il beneficio della sua sostanziale novità.

Note 1 Il brano è all’interno di Mondi lontanissimi, Lp EMI Italiana, 1985. 2 X. de Maistre, Viaggio intorno alla mia camera, Rizzoli, 1991, p. 55. 3 Cf H. Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle Età, Einaudi, 1996. 4 E. A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura, Laterza, 1973, p. 136.

2

Parigi o cara

Canzoni e canzonette Chi è il protagonista, innanzitutto, all’interno di quella dimensione che abbiamo individuato, nelle pagine precedenti, come canzone d’autore? Qualcuno che coglie nel testo la possibilità di trasmettere esigenze più profonde, messaggi che non sarebbero possibili in un ambito più leggero. La canzonetta, da parte sua, ma vedremo che i confini non sono così netti, è, o meglio era, strutturata in tipi ben precisi, talvolta semplici sillabe usate al posto delle battute musicali. Amore deluso, soldato lontano (molto prima della riforma e della abolizione della leva obbligatoria), fanciulla piangente, mamme, rimpianti di vecchi amori, sensi di colpa per aver tradito il partner, livore per i tradimenti subìti, speranze di evasioni e di vita economicamente migliore. Dichiarazioni d’amore, ovviamente, e doni floreali. Anche se poi la cosiddetta canzonetta si prenderà le sue belle rivincite, adeguandosi ai tempi e trattando anch’essa di emarginazione, padri indegni, razzismo. Negli anni ’50 l’ascesa economica contribuì alla revisione di alcuni canoni consunti e ormai spremuti: se prendiamo spunto da un misuratore fedele della tendenza media di gusto, come l’insepolto Festival di Sanremo, vediamo come dal ’51 al ’56 sia tutto un susseguirsi di lamenti, sospiri, disperazioni: «Grazie dei fiori» e «Vola colomba» con Nilla Pizzi, «Tutte le mamme» con la coppia Consolini-Latilla nel 1954 e «Buongiorno tristezza» del futuro re Claudio Villa, cantata a Sanremo nel 1955 con Tullio Pane. Il fatto che fin dal titolo della canzone ci fossero riferimenti al best-seller di Françoise Sagan, uscito l’anno prima, pone inquietanti interrogativi sulla possibilità di tracciare confini precisi tra canzonetta, compresa quella dei

crooner, e canzone d’autore. E di questi limiti dovremo sempre e comunque tener conto: non è possibile dividere nettamente e matematicamente in due il mondo della canzone. Qualcosa però si muoveva pure nei ’50: in quegli anni escono fuori intenzioni più allegrotte con «Papaveri e papere» e «Aprite le finestre», poi, nel 1958, l’esplosione del surreale e freudiano «Volare» del giovanotto Modugno, con una diversa concezione dello spettacolo musicale, anzi con il cantante come spettacolo in sé, non più modulatore, ma soggetto e artefice della comunicazione, nonché istrione, in grado di concentrare l’attenzione del pubblico su se stesso e sulla propria fisicità. Le prime blande concessioni a una accennata, aurorale sensualità, si scontrarono con la componente tradizionalista e conservatrice, che invece si faceva paladina di una «scuola» compiuta in schemi precisi e con scarse concessioni alla fisicità. Iula De Palma finì censurata perché qualcosa nel suo portamento e nel suo porgere trasudava allora troppa sensualità: «Avvinta come l’edera» era una frase troppo azzardata e che faceva intravedere intrecci non solo vegetali. L’alternanza fra «progressisti» e «conservatori» è evidente alla fine degli anni ’50 in cui ai Dallara di «Come prima», ai Modugno di «Libero», ai «Ventiquattromila baci» di Celentano si contrapponevano più antichi numi come Nilla Pizzi e i sussurri melodici di Renato Rascel e Nunzio Gallo. Si stava sviluppando tra l’altro una più viva attenzione per la dimensione prettamente musicale, iniziavano a farsi largo i pezzi in cui il cantante lascia spazi al refrain dell’orchestra. L’autore rivolto anche ai fenomeni culturali in atto, invece, tentava di capire come si potesse trasferire nella canzone un chiaroscuro, una minima profondità psicologica, un maggiore impegno, seppur velato di malinconia e ricordi struggenti. Come in tante canzoni cosiddette di consumo. Il processo «decadente» iniziava da noi con 60-70 anni di ritardo rispetto alla originaria corrente letteraria (sulla cui coesione e organicità chi scrive nutre forti dubbi, ma questo è un altro discorso); e però i sintomi, nel loro piccolo, erano simili: approfondimento fino alla scissione dell’io, abbandono di una trita convenzionalità letteraria, curiosità esterofila e languori da fine impero. Si cominciò da noi con gli «scapigliati» urlatori, genere di personaggi che calcavano i palcoscenici – ovviamente sanremesi – di fine anni ’50 e primi ’60 e che, al posto di vaghi gorgheggi romantici e di flautati addii, offrivano

alla platea divertita, e un po’ scandalizzata, inusitati toni acuti e salti atletici, una certa aggressività e un frasario meno conformistico, con i ricordati fremiti freudiani di voli liberatori e sublimanti (o segni di devastanti inibizioni). Sanremo conobbe così angosce d’amore, attese inutili e voluttuose, incoscienti compiacimenti del passato, ma anche frizzanti paradossi di bollenti ghiacci o promesse d’amore cantate a squarciagola. Ma fuori, a due passi, c’era la Francia, e in Francia una certa tradizione letteraria, peraltro recente in termini storici, che aveva tramandato vaghezza e noncuranza ma anche una aurorale coscienza – pure linguistica, con azzardi espressionistici – della trasgressione (con richiami più o meno espliciti a Rimbaud e Mallarmé, e con la musicalità tradizionale di Verlaine a fare da tramite) unita a una visione più laica della vita e a una impressione di soffocamento esistenziale, iniziava a offrire i frutti di una canzone nuova. La lingua francese ha saputo far tesoro della sua musicalità: il linguaggio d’Oc, secondo lo schema dantesco, iniziò una poesia di corte che, come abbiamo visto, i giullari trasportarono e contaminarono con quella dei borghi e delle campagne: la moderna canzone ha origini lontane. È rimasto un che di «leggero» di alcune forme della canzone medioevale anche nel Novecento, unito a una precisa coscienza anche formale, capace di dare dignità al nuovo tipo di comunicazione, antica e nello stesso tempo immediata, seria perché in essa è stratificata una tradizione, e giocosa in quanto rompe con l’accademia che si è formata sui testi, quelli divenuti laicamente sacri per i cultori del deragliamento di tutti i sensi, il dérèglement (sconvolgimento di tutti i sensi) rimbaudiano. Léo Ferré, che sembra aver ridonato la loro antica veste musicale ai maledetti, Rimbaud e Verlaine in testa, sostiene che [i poeti] sono strani tipi che vivono d’una penna o non vivono affatto secondo la stagione sono strani tipi che fendono la nebbia a passi d’uccello sotto ali canzoni5.

Penna sottobraccio a canzone, tradizione come coscienza contemporanea di calcare prestigiose spiagge, protagonisti simili agli uccelli che partono per viaggi senza fine, ma goffi a terra, come l’albatros di Baudelaire, o a quelli sanguigni e simbolici di Prévert, nuove incarnazioni di anime che hanno dovuto rinunciare, per castigo degli dei, all’adolescenza anonima – e comune – per la poesia, come Rimbaud, o esseri stanchi e senza desiderio di

vivere, senza più note in uno spartito ormai abraso dal tempo. Certo, ri-creazioni artistiche, proiezioni pur sempre virtuali, ma che fanno i conti con una realtà di rassegnazione e noia, talvolta di autoesclusione dal mondo, sinistramente imprigionati nelle strade di Parigi o negli acciottolati delle periferie o della provincia, tanto diffusi non solo come luoghi comuni decadenti, ma presenti anche nella letteratura contemporanea: quella di un Patrick Modiano, ad esempio. Ma anche da noi, molti lo hanno dimenticato, si sono sviluppate esperienze fondamentali per quel che riguarda la fuga dal perbenismo e dal sedicente benessere. L’opera di Dino Campana, ad esempio, rappresenta nella storia della nostra letteratura il tentativo di conciliare realtà e sogno, anche se già prima del poeta dei Canti orfici, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e, più indietro nei secoli Villon, avevano dimostrato come il progetto poetico renda assai difficile il cammino quotidiano. Un incontro impossibile eppure testardamente perseguito, non solo nella letteratura, ma anche nella canzone d’autore, come nel caso di Luigi Tenco. A loro merito va sottolineato come chi ce l’ha fatta si sia ricordato degli altri. De Gregori e De André con Tenco, ad esempio. Le radici Se bisogna andarci piano con le comparazioni tra il mondo ipoteticamente a sé stante della poesia e quello della canzone, bisogna ammettere che quei mondi a volte si sono incontrati, talvolta drammaticamente. E che comunque gli incontri sono stati talmente fecondi da poterci costruire un libro. Il perché dei tragici incidenti di percorso è evidente: c’è di mezzo il mercato. Per capire i modi in cui talvolta la poesia – compresa quella dei cantautori o degli autori – è riuscita, se non a eludere le sue leggi, a venirne a più o meno onorevoli patti, dobbiamo partire da lontano. Prendiamo allora come esempio di una delle facce della modernità il personaggio che «scopre» il mercato e cerca di adeguare il prodotto alle sue leggi: Gabriele D’Annunzio, che fa testo perché, come è stato notato6, identifica alcune aurorali coordinate del consumo e crea quelle che saranno vere e proprie regole culturali per almeno trent’anni, tentando la

conciliazione tra ricerca poetica e nuove leggi interne al mercato. È un personaggio cosciente dei propri obiettivi e con scrupoli ridotti, cosicché in alcuni casi ci illumina con la sua paradossale – e da lui indesiderata – trasparenza. Le sue escursioni attraverso il mondo borghese, una borghesia in fase di crisi per l’emersione di fasce sociali fino ad allora rimaste nella periferia della storia per le sempre più frequenti crisi del mercato che tendevano a proletarizzare le sue componenti più deboli, e nell’aristocrazia (per la quale il vate mostrò una mescolanza ambigua di nostalgica ammirazione e disprezzo per un tramonto non abbastanza combattuto) hanno operato una sintesi narrativa e poetica di come il mercato si avviasse a diventare il vero padrone della ferrovia. Il pescarese ha narrato i bisogni occulti o già espressi dei salotti di due classi alla ricerca di nuovi punti di riferimento, per poi potere a sua volta dirigerne il gusto, blandirlo, interessarlo, egemonizzarlo. Il superuomo estetico di D’Annunzio non è necessariamente l’Übermensch, oltre o super uomo che si voglia leggerlo, di Nietzsche: le sue scelte vanno a cozzare spesso contro il fato dei tragici greci, che, secondo la vulgata classica, è più forte: Andrea Sperelli e Giorgio Aurispa subiscono l’ossessione del nuovo oltre-uomo ancora di là da affermarsi, più che realizzarla. E il Poema paradisiaco conferma d’altra parte la duttilità del pescarese: i toni smorzati e crepuscolari segnano il controcanto dell’impegno aristocratico e politico de Le Vergini delle Rocce e del vitalismo di alcune Laudi. È una traiettoria adatta all’assunzione di segnali provenienti dal pubblico in cerca di nuovi miti e alla confezione, che risponda a quei bisogni, di un prodotto nuovo, almeno in apparenza. D’Annunzio lo sa bene quando scrive: «Avevamo più volte insieme ragionato d’un ideal libro di prosa moderno che – essendo vario di suoni e di ritmi come un poema riunendo nel suo stile le più diverse virtù della parola scritta – armonizzasse tutte le varietà del conoscimento e tutte le varietà del mistero»7 e più avanti: «Concorrere efficacemente a costituire in Italia la prosa narrativa e descrittiva moderna: ecco la mia ambizione più tenace»8. Un’operazione stilistica che si basa soprattutto sull’osservazione del panorama sociale, su una nuova «armonizzazione» della conoscenza dispersa dell’intellettuale e di conseguenza non organica a una visione del modo precisa e operativa, per concludere con il riferimento a modelli diffusi nella classe dei colti:

«Noi tendiamo l’orecchio alla voce del magnanimo Zarathustra, o Cenobiarca, e prepariamo nell’arte con sicura fede l’avvento dell’ÜBERMENSCH, del Superuomo»9. D’Annunzio rappresenterà l’unico esempio con cui la generazione operante a metà fra Ottocento e Novecento dovrà fare salatissimi conti. Ha saputo creare una fascia di fruizione incentrata sul sogno stesso della creazione, sul terrore del volgo e della mediocrità, sull’operazione letteraria alta e raffinata e nel contempo su una sensualità immediata, sull’amore per l’azione, fosse anche brutale e violenta. Ha stabilito un rapporto fra produttore di cultura e pubblico, ponendosi senza remore al centro di un mercato in via di formazione. La costante dicotomia dannunziana è stata messa in relazione con una componente sensuale sado-masochista da Salinari10, con l’attrazione-repulsione per il pubblico e il mercato, terra di consensi ma anche di conquista, folla da dominare e da sedurre. Dino Campana, nel suo tentativo di incontrare il sogno qui in terra, che lo ha portato al vagabondaggio e poi al manicomio di Castelpulci, ha gettato le basi di una ricerca sulle potenzialità creative della parola, sfociata in Ungaretti e Caproni, potenzialità riscoperte nell’immediato dopoguerra e continuate con esiti e modalità diverse nei nostri anni, forse meno attente ai problemi specifici dello stile e dettate da un’esigenza di sincerità e fedeltà alle proprie ragioni11. Gozzano, Sbarbaro e Corazzini segnano l’operazione di critica assoluta del nuovo mercato a tre differenti livelli: il primo assume una propria retorica contestativa per opporsi al Retore per eccellenza, con l’uso di una lingua meno aristocratica e sfasata cronologicamente; il secondo esprime il graduale rifiuto del nuovo mondo e della comunicazione, l’aspirazione all’assenza ma anche al vizio della persistenza; l’ultimo piange non solo un ruolo perduto, ma l’inutilità in assoluto del grande gesto, e continua un pascolismo esacerbato e pure stemperato in una serie di quadretti crepuscolari, tutti risolti nell’abbandono e nella rinunzia. E poi c’è il caso Rebora: nella seconda parte della sua vita l’annullamento dell’uomo di prima è totale. Dall’angolo prospettico del suo isolamento l’amore sensuale e «borghese» è visto come follia e autodistruzione; da questo punto di vista convivono san Francesco (che tornerà spesso nell’immaginario della canzone popolare e d’autore, con Branduardi, ad esempio) e Petrarca, amore verso gli altri come fratelli e non come oggetti

del desiderio e amore verso l’altra come cammino necessario per il riconoscimento del fallimento della mitizzazione della creatura. Anche se nel Novecento matura un’altra interpretazione, quella del poeta Betocchi, che proprio in Petrarca vede l’affermarsi dell’io «protestante»12, dell’egotismo radicale che assume il possesso della creazione, che avoca a sé i diritti che non gli spettano. Portandolo fuori dalla Grazia e iniziando una lunga crisi spesso autodistruttiva che continuò poi con il ritorno al rapporto letteratura-canzone. Il Futurismo si auto-propose come programma rivoluzionario. Gli eventi hanno poi dimostrato che spesso i progetti di rifondazione da parte del colto portano alla riproposizione dell’ordine sociale: le ipotesi della sinistra popolare erano ancora troppo confuse, bolscevismo e massimalismo mal si coniugavano con una realtà che in alcune zone del nostro Paese era ancora pre-industriale. Le sinistre erano occupate a dividersi e a dibattere su particolari che né operai né piccola borghesia potevano e avevano tempo per condividere e per prima cosa comprendere. Allora ecco le nuove tentazioni: tutto e subito, violenza e ordine, fascinazione poetica e fuga in avanti dopo decenni di sonnacchiose riunioni di partito: la poesia nuova crea il partito nuovo. Non dimenticando i grandi disillusi, come Pirandello, che nel fascismo «vitalistico» videro, come ha ben notato Venè13, l’estremo atto di coraggio per nascondere l’essenza della vita che è il caos, e per assumere ogni peso affinché questa verità resti celata alla debolezza delle masse. L’esperienza de «La Voce», rivista di riferimento per quella generazione, si dissolve in modalità sempre più confuse tra ripiegamento interiore, ubbidienza alle leggi della patria in guerra, fuga dal mondo o impegno politico. Resta un retaggio malinconico, la solitudine finale di chi pensava di rientrare nel mondo dalla porta principale attraverso il moralismo o le capacità palingenetiche della poesia. L’ultima illusione che la poesia fosse anche utile. La poesia non può essere vera anche per il qui e l’ora, sembra dire Cardarelli, o, tutt’al più può essere specchio letterario della psiche: tutta l’aspirazione rivoluzionaria, mutuata da Rimbaud, viene ridotta a una ricerca introspettiva, regolazione di toni o accenti di una nuova poetica autosufficiente: Sbarbaro ne incarnò poeticamente gli elementi fondamentali. È chiaramente una reazione, una ricerca di ordine dopo gli assalti o le

rinunce dei vociani, e che tenta il controllo sullo stile, sullo specifico letterario; alcuni versi di Cardarelli possono essere chiarificatori: «Lascio la primavera / dietro di me / come un amore insano / d’adolescente»14. È dunque il riconoscimento della primavera come stagione del cuore, della forza vitalistica, ma anche la necessità del passaggio nella calcinante estate, dove tutto si staglia chiaro e definito in una sostanziale immobilità. Sulla poetica ermetica è stato detto molto, ma quello che conta, per il nostro discorso, è riconoscerne i presupposti anche «ideologici» in Rimbaud e Campana che hanno gettato le fondamenta, con quel loro tentare una lingua nuova, in grado di dire gli abissi al di là delle retoriche culturali. Se vogliamo restare nel campo della poesia, Ungaretti riesce a dare sostanza nuova ai tentativi di Valery, di Mallarmè, di Campana di trovare la nuova strada per una poesia essenziale, non solo e non tanto nella riduzione delle quantità dei membri sintattici, ma in direzione di un nuovo sguardo sul mondo, fraterno e nello stesso tempo teso all’oltre. Distante da quell’ermetismo troppo spesso superficialmente attribuitogli, Montale assume il ruolo del dubitatore metodico, esempio di organica sospensione di giudizio strutturata in una indagine laicamente metafisica attraverso i simboli naturali. Saint-Germain, il quartiere parigino degli artisti e dei poeti, in Italia non ha filiazioni dirette, ma Parigi vuol dire anche surrealismo e cubismo, e cioè trasgressione nell’arte della vita, e anche la pittura italiana sarà obbligata a vivere il radicalismo pseudo – o realmente – proletario delle latterie e dei bordelli di Montparnasse: Picasso e De Chirico, Dalì e Sartre, Apollinaire e Modigliani, Éluard e Soffici saranno i punti di incontro di una concezione della realtà che in Francia aveva consistenti esempi, già a modo loro canonizzati: Rimbaud e Verlaine, Sade e Lautréamont. Pavese, seppure molto più giovane rispetto alla generazione degli ’80, parte anche lui da una sorta di naturalismo, però già contaminato dalla dimensione metropolitana. La città esiste, ci si debbono fare i conti, bisogna pur andarci, la discesa agli inferi non può essere elusa. Ma essa è la negazione dell’infanzia paesana, crea la nostalgia e i ricordi, che confondono il gioco e illudono; si assiste al tentativo di recuperare una dimensione interiore in cui città e campagna potrebbero forse armonizzarsi: «La città la vorrebbe su quelle colline, / luminosa, segreta, e non muoversi più. / Così, è troppo diversa»15. Ma è solo un sogno: il destino degli altri

non è nelle nostre mani, non è possibile rimanere, e il ritorno, come in La luna e i falò, si mostra altrettanto irrealizzabile. Il paese come comunità non esiste più per chi se ne è andato, non solo materialmente. Quando ci avviciniamo agli anni ’50, la Resistenza ha lasciato il passo al neo-industrialismo, il che significa uno spostamento di forze anche culturali all’interno della sinistra, l’abbandono della cifra realista, una sostanziale revisione del concetto di organicità intellettuale. Pasolini è il segno più evidente di questa crisi, cui i fatti d’Ungheria e la guerra fredda contribuiscono a dare un ulteriore, drammatico strappo. La progressività dell’opera letteraria ora passa attraverso la sua discesa agli inferi, e la discesa non è più simbolica, tutta all’interno del poeta-veggente: anzi, essa assume i caratteri della fisicità più incombente, però al di fuori della razionalità «progressista». Vittorini ha poi affrontato l’altra faccia del problema, e cioè il contenuto: esso (ma già Engels aveva redarguito i patiti del romanzo popolare a tutti i costi) non deve essere costruito su una forzata, impersonale fotografia di un mondo «oggettivo», ma lasciare allo scrittore la scelta dei mezzi stilistici. La sperimentazione della neo-avanguardia assume da questo punto di vista caratteri diversi: l’ossessione della forma vincola gran parte dell’itinerario del gruppo, e nella forma (che qui si stacca nettamente dalla accezione di stile) si crede di riconoscere il veicolo più sensibile ai segnali sociali. Forma come trasgressione, allora, poiché i vecchi canoni estetici, secondo questa lettura, non rappresentano altro che i rifiuti di un mondo falso e paranoide. Siamo agli inizi degli anni ’60 e il consumismo si è affacciato alle porte del nostro mercato. Ma qui torneremmo lontano nel tempo, perché la prima risposta alle borghesi consunte parole, paralizzate dalla ripetitività, come abbiamo visto, è stata quella di Rimbaud. Anche in questo il poeta adolescente aveva precorso i tempi, scandalizzando i borghesi già traumatizzati dai fermenti neo-giacobini non solo con la sua scansione esistenziale, ma anche con l’uso stravolto e ludico del lessico che proveniva dalla necessità di nuove parole per dire il mondo. Di un uso nuovo delle parole, della ri-creazione del verbo. Da noi l’avanguardia degli anni ’60 ha diretti e illustri precedenti in Palazzeschi e in Gadda. Senso del gioco innato in Palazzeschi, dove lo stile è fraseggio quasi infantile, segno di una persistenza positiva dell’homo ludens. Al contrario di Pirandello e di Tozzi che condannavano l’uomo alla

cecità rispetto ai significati del mondo, Palazzeschi declina un grottesco sfuggente alle implicazioni finali dell’etica sociale: la giovinezza se ne va, arriva la vecchiaia, la decadenza senza riparo: «Solo da quell’oscuro involucro / impertinente sbuca / un naso adunco / gli occhi e la bocca / sono ormai sepolti / sotto gli sterili solchi / di quella verdissima carne»16. Come si vede il processo di lettura e di significazione di una visione delle cose avviene su un registro apparentemente scherzoso e mosso da termini estranei al crepuscolarismo. Ma la realtà è presente, e la fine allusa nel poemetto di Palazzeschi non è solo quella della singola esistenza, ma anche quella di una lingua non più in condizione di spiegare il mondo. Il poeta può solo percorrere le rovine della lingua che lui stesso ha contribuito a ridicolizzare perché inutile: «I tempi sono cambiati, / gli uomini non domandano più nulla / dai poeti: / e lasciatemi divertire!»17. Carlo Emilio Gadda opera una mescolanza lessicale nella lettura del mondo che scaturisce dalla matematica, dal progetto industriale, dalla materia bruta, dal dialetto individuale e territoriale, dal neologismo e dall’invenzione; si trova a spostare sul lessico le forme e i segnali che gli derivano dalla complessità dei dati esteriori: vernacoli, linguaggio burocratico e termini scientifici offrono un tessuto nuovo. Il gioco dei rimandi formali va a coprire la sostanziale negatività, l’immobilità di fondo dell’esistenza dei personaggi. La contaminazione avviene anche all’interno del gruppo – sarebbe meglio dire dei gruppi – della neoavanguardia; il procedimento tecnico è conseguenza di una analisi ideologica che dà un giudizio sull’esistente prima che sulle forme. Qui infatti emerge una visione del mondo che possiamo considerare post-marxiana e post-industriale, nel senso che si fanno i conti con una realtà sociale avanzata rispetto alle analisi sulle società in via di capitalizzazione di Marx ed Engels. D’altronde Marcuse e la Scuola di Francoforte, Freud e la psicanalisi, l’école du regard sono il vento, vecchio e nuovo, che attraversa l’Europa – e non solo – solleticando l’attenzione di chi dell’ortodossia non vuole fare una prigione e una torre d’avorio. Siamo più vicini, paradossalmente, al Montale de «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato», alla mancanza di alternative che non siano il disconoscimento dei vecchi canoni, culturali e non. Elio Pagliarani ci offre un esempio calzante: «Uso e scambi linguistici b) l’equazione di

valore linguistico. Consideriamo / l’equazione x merce A= / y merce B / e applichiamola al linguaggio»18, che identifica le dominanti di un discorso teso alla ridefinizione – o alla nostalgia – di una lingua perduta, più che a una definizione di nuovi orizzonti. Negli anni ’60 del Novecento anche il linguaggio è visto come merce, come prodotto da consumare sbrigativamente e asetticamente. Il poeta dotato di sguardo critico deve riconoscere la sua soggezione alle leggi del mercato e combatterla cercando di rompere la falsa intelligibilità della lingua borghese e di sezionare, come su di un cadavere, le parti di quella lingua ancora utili alla ricerca di un modulo altro, per ridare, novello Frankenstein, al corpo-lingua una vitalità nuova, che ai borghesi votati al mero consumo, può sembrare mostruosa. Se guardiamo poi alla realtà politica in atto in quegli anni, c’è da considerare come l’esperimento del centro-sinistra abbia potuto identificare in qualche modo, nella visuale del Gruppo, proprio il tentativo del capitalismo di sterilizzare l’opposizione portandola all’interno di un potere ambiguamente riformista. Il ’68 rilancia l’immaginazione, ma soprattutto rimette in discussione, nelle sue componenti spontaneistiche, la funzione alta della poesia. Una nuova poesia La neoavanguardia conservava pur sempre un vizio intellettualistico, e il concetto stesso di avanguardia contiene in sé una accezione illuministica di guida, seppure in negativo. Soprattutto l’esempio parigino, da SaintGermain in poi, e alcune esperienze nord-americane di rifondazione poetica e narrativa, che rivelava debiti profondi con Whitman, Thoreau e il «padre» Emerson, spingono le capacità espressive là dove nessuno di noi aveva osato, se non nei tentativi drammatici di radicale rinnovamento in Campana. Dai ’60 in poi anche la musica viene strappata, insieme alla poesia, ai suoi altari troppo ammuffiti – con le eccezioni che abbiamo visto – e recuperata alla elementarità di comprensione e comunicazione. Gli studi etnologici vengono utilizzati per recuperare la dimensione della storia popolare e subalterna.

Non ci si fermò solo agli studi teorici: l’esempio del circolo esistenzialista d’oltralpe portò molta gente a imbracciare la chitarra non per eseguire pezzi di successo, ma per esprimere in forma più immediata e più comunicativa una sensibilità nuova, attraversata d’altra parte, in contraddizione con le pose elitarie di alcuni maestri dell’esistenzialismo, dalla scoperta dell’elemento popolare o dagli stimoli provenienti dalle nuove forme di denuncia anche musicale, come nel caso di Woody Guthrie in America o dei Brel e Brassens in Europa. C’erano stati esempi notevoli di come la poesia si potesse riavvicinare non solo a una ristretta élite, ma alle masse, alle minoranze perseguitate, coloro che avevano scelto una vita meno conformista, con la mediazione della canzone popolare, dei canti degli sfruttati, dei deportati, degli schiavi e delle minoranze di colore. Negli USA il fenomeno Dylan ha alle spalle una cultura popolare ben salda: il blues di campagna e il talkin’ blues19. Gli Stati Uniti erano stati percorsi in lungo e in largo da menestrelli postatomici che appoggiandosi sulle terzine blues cantavano frustrazioni, fatiche e alienazioni nelle strade, nei bar e poi nelle università. L’hobo, il vagabondo, diventa il mito dell’America giovane e alternativa: Kerouac rifiutava la falsa sicurezza della stabilità e del denaro e riportava nella cultura americana il mito del viaggio, che aveva già attraversato l’Ottocento e i primi del Novecento. Ben presto il folk singer diventa un mestiere urbano e giovani, emarginati, emuli dei beatnik, si affidano ad esso per attaccare una cultura mercificata dal consumo e dal conformismo. Woody Guthrie, Pete Seeger, Joan Baez, Bob Dylan riprendono le forme del country e del blues per comunicare una insoddisfazione generazionale che cercava le parole per esprimere il rifiuto del passato – e del presente – e una nuova visione della realtà, e lo facevano paradossalmente appoggiandosi alla tradizione, seppure la tradizione alternativa degli emarginati. C’è già qui il primo salto fra l’antico bluesman che non arriva neanche in sala di registrazione e il cantautore che coglie i nuovi segnali generazionali e tenta uno stile nuovo, anche se con le mediazioni di cui abbiamo detto, per riaprire una diversa comunicazione musicale e poetica. Per alcuni tentativo già abortito dalle radici, poiché CBS e Columbia, solo per fare due nomi, già vigilavano per ricondurre tutto, anche l’antagonismo, al mercato. È una evidente, anche se necessaria, contraddizione fra bisogni rivoluzionari di ascoltare le voci finora silenti degli esclusi e realtà delle

case discografiche, che guidano il processo mediando questa cultura attraverso la figura di successo del cantautore. Dylan si opporrà alla sua compromissione con ideologie rivoluzionarie, e lo farà sia perché tale ammissione sarebbe stata obiettivamente un falso, in quanto il cantautore non ha concreti progetti sociali se non il sogno di una società più giusta, ma anche perché cavalcare la tigre dei weathermen, dei duri del Movimento, gli avrebbe causato la perdita di influenza sulle masse progressiste e pacifiste, sugli studenti, e in breve si sarebbe trovato isolato dal sistema stesso, allora essenziale per la veicolazione mediale. Alcuni autori, più apertamente e ideologicamente ostili all’establishment, affidano a una musica dura, ripetitiva e lancinante i loro messaggi radicali e però mai in linea con l’ortodossia marxiana: basti pensare a Ginsberg sul versante poetico e ai Fugs, a Jim Morrison e i Doors su quello musicale. Gli esempi alternativi europei provengono soprattutto dalla Francia, dove la canzone risente del clima di sfiducia ideologica, anche verso la militanza politica, che nasce dalla crisi ungherese del ’56 e dalla guerra fredda. Juliette Greco diviene la musa della nuova canzone esistenzialista, del nuovo flâneur, il vagabondo che si aggira per le malfamate – agli occhi del borghese benpensante – viuzze parigine, tanto malfamate che ne sono partiti Braque e Picasso, Modigliani e De Chirico, Apollinaire, Sartre e molti altri. L’Elicona parigino è fatto di cantanti che sfruttano non solo e non tanto la modulazione, quanto il tono discorsivo, intimo, la confessione sussurrata, e si chiamano Ferré, Brassens, Brel. Il fenomeno prende piede e lo stesso Prevért scrive per la musica; si assiste in breve alla commistione fra testo poetico e spartito musicale che però in Francia è facilitato dalla capacità di alcuni poeti (Rimbaud, Apollinaire, Éluard, ancora una volta Prévert) di costruire versi vicini alla cantabilità. Da noi i primi tentativi di osmosi sono di netta derivazione francese, De André e Paoli risentono del clima post-esistenzialistico, Brassens e Brel si leggono non solo fra le righe, ma sulle righe stesse dello spartito. Ci si accorge finalmente che la cultura può passare attraverso un disco, anche se ancora si tende alla categorizzazione e catalogazione della poesia vera, della poesia-poesia in quella scritta sui libri, ignorando che Cohen e Dylan sono arrivati sulle antologie scolastiche e che lo stesso Cohen era un poeta e scrittore, dimenticando che la trasmissione melica ha origini antiche

e pre-omeriche20; e d’altronde Dino Campana ha cercato di arrivare alla musica assoluta della poesia, cadendo nel silenzio dell’afasia. Nel ’68 Pasolini decide di affidare alcuni versi del suo «Notturno» a un gruppo, Chetro & Co, che li comprese nella canzone «Danze della sera». Ma il rapporto di Pasolini con la canzone è più stretto di quanto si possa pensare oggi, visto che a interpretare i suoi versi ci furono Laura Betti, Gabriella Ferri, Grazia De Marchi, Domenico Modugno, e che Nuccio Siano e Aisha Cerami, con gli arrangiamenti musicali di Roberto Marino, hanno realizzato Le canzoni di Pier Paolo Pasolini per l’etichetta Nota nel 2007. Una cosa era chiara a quel punto: la poesia non poteva più essere comunicata attraverso la tradizione alta, ma doveva avvicinarsi alla lingua di tutti i giorni. L’esito si prospetta molto diverso rispetto alle avanguardie dei primi anni ’60, dove il linguaggio veniva frantumato e contaminato per mostrare la sua mercificazione in un processo riservato però agli addetti ai lavori, nonostante gli sforzi di alcuni, nelle piazze e nei convegni, di arrivare davvero al popolo. All’interno o nei paraggi della linea Gramsci-De Martino-Luporini si incrociano ricercatori, esecutori (fra gli altri Ivan Della Mea, Caterina Bueno) e gruppi che attraverso la ricerca dell’autentico popolare cercavano una diversa strada verso la coscienza popolare. Accanto a questa dimensione latamente politica si situano episodi, come quelli della Nuova Compagnia di Canto Popolare, che evidenziano una ricerca anche filologica delle dimensioni espressive di una cultura orale emarginata e appiattita sugli stereotipi di un’esecuzione ammiccante e più adatta al pubblico dei night club e dei crooner. D’altra parte, esperienze come quelle di Brel e Dylan stimolano molti a ricrearne le condizioni in Italia, tentando di mediare il discorso politico con quello personale, il popolare e l’esistenziale. Guccini può considerarsi il capofila più autorevole, lui che con una voce più alla Brassens che alla Guthrie canta all’inizio il talkin’blues alla Dylan, e dopo di lui De Gregori e Venditti, se lasciamo da parte il cabaret impegnato (i Gufi e Nanni Svampa), De André, Lauzi ed Endrigo. Ed è proprio Endrigo a rappresentare un importante periodo della musica italiana, e non solo, con la sua stessa storia personale: la fuga da Pola, diventata territorio jugoslavo, con la conseguente sensazione di non appartenenza narrata nella canzone «1947». Forse il cantautore più vicino

ad alcune della radici di cui stiamo parlando, soprattutto quelle francesi di Brel e Brassens: le canzoni di Endrigo, interpretate poi da voci e sensibilità assai lontane dalla sua, come Lucio Battisti e Franco Battiato, hanno toccato temi assai sensibili, vicini alla storia italiana recente che non erano frequentemente ripresi dalla canzone dei ’60: basti pensare alla già citata «1947», che affronta il tema dell’abbandono forzato della propria terra e di una umanità indifesa, costretta dagli eventi post-bellici a dire addio alle origini («Come vorrei essere un albero che sa dove nasce e dove morirà»), o a alla «Ballata dell’ex», in cui la normalizzazione del dopoguerra viene vista – e subìta – da chi ha combattuto a rischio della vita per la libertà. Ma soprattutto un episodio che lo vide tra i protagonisti testimonia come già alla fine dei ’60 del secolo breve gli artificiosi confini tra musica, poesia, canzone, cultura evidenziassero la loro sostanziale inutilità: uno dei grandi poeti del Novecento, considerato l’iniziatore dell’ermetismo, Giuseppe Ungaretti, Toquinho, Luis Bacalov, Endrigo, Vinícius de Moraes e altri, dopo un incontro tra il poeta brasiliano e Ungaretti stesso, incisero negli studi della Fonit Cetra un Lp, come si usava allora, destinato a rimanere nella storia della musica e della poesia: «La vita, amico, è l’arte dell’incontro». Eravamo nel 1969. Data destinata a rimanere incisa nel cuore di chi crede al superamento dei confini di genere. Dalla e Roversi, o della poesia Lucio Dalla rappresenta il più valido aggancio al nostro discorso della mediazione fra spartito e poesia. Dal ’73 al ’78 a scrivere i testi delle sue canzoni è Roberto Roversi, un poeta fra i più sensibili al rapporto societàpoesia e che dai tempi di «Officina» è stato partecipe degli avvenimenti poetici e sociali nel nostro paese. Questo esperimento di osmosi fra un ex jazzista – e istrione non privo di autoironia – e un poeta che aveva scritto per le editrici istituzionali e che poi aveva deciso di affidare la diffusione delle sue parole al ciclostile, è uno delle più affascinanti nella storia della canzone d’autore. I testi di Roversi hanno subìto pochissimi ritocchi per entrare nello spirito della canzone, Dalla ha interpretato il dolore, l’umiliazione, l’alienazione, la nostalgia dell’operaio per la patria lontana. Anidride Solforosa21 è la prova che il

legame antico tra canto e parola poetica non si era interrotto neanche da noi, anzi, era tornato in auge ai tempi della questione operaia. L’osservatore dei momenti quotidiani, lo stesso che annota i doganieri indossano le tute sul lago di Como mentre un uomo ansima solo e suda all’ombra del Monviso22

è attratto da una presenza diversa, un viso conosciuto e poi dimenticato, e il fluire della memoria involontaria nell’attimo che separa la visione dall’arrivo del treno, attivando una scintilla di malinconia senza che essa operi una captatio benevolentiae sentimentale e complice: Ogni mattina, ogni sera io parto e ritorno da solo, come il ragazzo che ero non posso più bruciare in un volo. Il treno arriva, si ferma, la mia ombra sale parte scompare. Io ti vedo giovane ancora come in un sogno dileguare23.

Non più solo militanza politica, ma neanche acritica traduzione di motivi d’oltralpe o d’oltre oceano. Con l’inasprirsi della crisi molti giovani si trovano di fronte alla necessità di cambiare radicalmente la società: la cultura ufficiale era vista come un fatto elitario e salottiero che si allontanava dalla sensibilità giovanile e dalla realtà. A questo punto un episodio come quello di Castelporziano nel 1979, in cui per la prima e ultima volta nella storia non solo nazionale si trovarono sul palco Viviani, Bellezza, Corso, Ferlinghetti, Ginsberg, Burroughs, De Angelis, Cucchi, Zeichen e molti altri, fatti oggetto, soprattutto gli italiani, di contestazioni, improperi, interruzioni, lanci di materie varie, può apparire paradigmatico. Da una parte era diffuso il sospetto che la chiamata dei poeti sul palco fosse stato un tentativo di fare e far fare passerella: molti sollevarono l’obiezione che i problemi sociali non si risolvono con una esibizione. La rabbia di Dario Bellezza esplose in un contesto in cui però anche la poesia nuova veniva vista come lontana dagli interessi di una società giovanile in continuo, drammatico cambiamento. Non si era capito che quelle migliaia di giovani non volevano ascoltare la lettura di due o tre poesie: non volevano sbeffeggiare il poeta per il gusto di ridicolizzarlo come persona. E non era un problema di o tempora o mores: Franco Cordelli ricordava sul «Corriere della Sera» del 9 agosto 2005 l’improvviso silenzio di quella indomabile, irascibile, incontrollabile folla allorché Allen Ginsberg, una

volta sul palco, si accoccolò nella posizione del loto e intonò un mantra. Quando le cose non cambiano Già allora si era capito che le cose dovevano cambiare, comprese quelle di segno progressista. Molti rifiutavano l’idea che la poesia diventasse spettacolo mediatico per il tempo dell’esibizione, per poi tornare all’isolamento e all’estraneità rispetto alle masse; e le cose, a cinquant’anni di distanza, non sono un granché cambiate, perché non si è permesso ai nuovi autori privi di appoggi mediatici, politici, istituzionali l’accessibilità alle case editrici e una gestione da parte di queste della poesia aperta a stimoli nuovi in grado di rinsanguare il nostro panorama creativo. L’avvento del net, fatti fermi tutti i suoi ormai celebrati limiti e rischi, ha permesso la creazione ex novo di periodici o di siti aperti ai contributi di persone il cui bisogno espressivo fa della poesia una categoria che abbatte steccati e frontiere di classe. Almeno questo. Allora i mass media non si fecero carico di sviluppare un discorso sulla poesia nuova senza limitarsi a celebrare solo gli happening o i grandi premi nazionali per fare notizia e tentare consensi che non c’erano ormai più. Il termine riflusso va giudicato anche da questo punto di vista: chi contestava la passerella estiva dei poeti non poteva essere certamente accusato, se vogliamo rimanere nella terminologia critica novecentesca, di «rondismo», che è stato il vero riflusso dopo la sbornia del travaglio di inizio secolo, quando le sinistre non riuscirono a organizzare una politica unitaria e una percezione della politica in grado di essere condivisa dalle masse che attraversavano la crisi epocale del primo dopoguerra. Una crisi non solo morale, ma materiale, fatta di miseria, di perdita di lavoro, di fame. Molti dei giovani contestatori di Castelporziano avevano insomma preso tremendamente sul serio la poesia, nonostante gli spogliarelli fuori programma, i lanci di vario genere e gli insulti. Note 5 L. Ferré, «Les poètes», in La canzone francese, Savelli, 1979, pp. 141-142. 6 Cf E. Raimondi, Gabriele D’Annunzio, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, vol. IX, Garzanti, 1969.

7 G. D’Annunzio, Trionfo della Morte, dedica introduttiva, Mondadori, 1966, p. 7. 8 Ivi, pp. 8-9. 9 Ivi, p. 12. I caratteri maiuscoli sono nel testo. La nota dello scrittore è datata aprile 1894. 10 Cf C. Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano, Feltrinelli, 1975. 11 La scelta campale dell’orfismo mutuato dalla trasgressività espressionista e surrealista, rispetto al tecnicismo ermetico, è testimoniata dalle nuove e pressoché esclusive letture giovanili negli anni ’70: oltre al citato Campana, Rimbaud, Poe, Dylan Thomas, Leopardi, e di nuovo, beat generation, espressionisti tedeschi. 12 F. Camon, Il mestiere di poeta, Garzanti, 1982, p. 68. 13 G. Venè, Capitale e Letteratura, Garzanti, 1974, p. 10. 14 V. Cardarelli, «Saluto di stagione», in G. Contini, Letteratura dell’Italia unita, Sansoni, 1968, p. 736. 15 C. Pavese, Poesie, Mondadori, 1974, p. 69. 16 A. Palazzeschi, «Le mie ore», in Poesie, Mondadori, 1974, p. 10. 17 A. Palazzeschi, «Lasciatemi divertire», ivi, p. 92. 18 E. Pagliarani, «La merce esclusa», in G. Guglielmi – E. Pagliarani, Manuale di poesia sperimentale, Mondadori, 1966, p. 161. 19 Il blues, formula ritmica e primitiva, «canone» su cui impostare improvvisazioni vocali e strumentali, di origine nero-africana, viene adottato dai bianchi come potenziale espressivo di grande presa e comunicazione, adatto com’è a trasmettere ossessivamente le frustrazioni e le ansie di una frangia culturale non conformista. Si interverrà poi su elementi country o legati al rock urbano o di derivazione più antica, dalle radici epiche delle origini delle colonie, creando per alcuni anni una vera e propria cultura connessa a fenomeni sociali e politici come la guerra in Vietnam, la lotta per la parità dei diritti dei neri e delle altre minoranze etnico-linguistiche, il radicalismo di alcune componenti politiche. 20 Cf il già citato E. A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. 21 Lp con testi di R. Roversi e musica di L. Dalla, RCA Italiana, 1975. 22 R. Roversi, «Prima descrizione in atto», in Le proporzioni poetiche, a cura di D. Cara, Laboratorio Arte, 1976. 23 «Tu parlavi una lingua meravigliosa», in Anidride Solforosa, cit. Ma accanto a episodi come questo, in cui precipitano ricordo e abbandono al flusso del tempo, ve ne sono altri in cui si coglie la maggior attenzione di Roversi verso il mondo del lavoro e del proletariato: «È vita questa? / incoerente, ozioso, dissociato / con monotonia a un suo sogno legato / il rapido passa a mitraglia / è lui è sempre più disperato» («Non era più lui»); e ancora: «Donna e albero sono invecchiati / la miseria è la fame più nera. / Lì sul fiume si toglie le scarpe: / schiuma l’acqua, la vita ha fretta («Un mazzo di fiori»).

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Ma Leopardi è il grande profeta

Torniamo per un attimo alla letteratura, apparentemente imbalsamata e paludata, il che è, appunto, solo un’apparenza che nasconde abissi inimmaginabili. E assai moderni, più di quanto si possa pensare. Per esempio il già citato Sergio Corazzini, che ha avuto, nella sua breve scansione esistenziale e poetica, il coraggio di individuare proprio nel poeta la figura-cardine della crisi in atto: ormai appurata, in una società tesa verso valori ben piantati per terra e legati alla produzione di merci, la propria inutilità di creatore di realtà impalpabili e fuori dalle leggi dei mercati, il giovane romano arriva a smascherare una per lui penosa farsa. Se la si fa, la poesia, è per narcisistico auto-compianto, poiché il poeta, ora, è a un passo dalla solitudine dell’emarginazione, anzi, ormai vi è ben dentro. Non rimane che cantare la propria estraneità, innalzare come simbolo dello sprofondamento il giorno eletto, quello che il borghese vive come riposo dalla corsa materiale e, notava argutamente Rimbaud, come esibizione di inutilità di cattivo gusto. La domenica, soprattutto la sera, il Recanatese lo aveva intuito un secolo prima, svanisce ogni speranza del futuro. Se vogliamo scavalcare i secoli e gli steccati accademici, anche Aznavour, in pieno Novecento, dirà di odiare le domeniche, così inutili, così vuote, così incomunicanti e pure svelanti l’angoscia che ci ricorda chi siamo davvero; la domenica, insomma, è tutt’altro che un giorno fausto, per molti, poeti, filosofi, perfino cantanti. Leopardi mette in relazione l’aspettativa della festa con la festa stessa, individuando e oggettivando potentemente quella molla di disgusto, di oppressione che scatta quando

Tutta vestita a festa la gioventù del loco lascia le case, e per le vie si spande24.

Il poeta si guarda, come se fosse un altro, indugiare in quello che dovrebbe essere un giorno di baldoria e felicità: Io solitario in questa rimota parte alla campagna uscendo, ogni diletto e gioco indugio in altro tempo25.

Per precisare, ne «Il sabato del villaggio»: Diman tristezza e noia recheran l’ore, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno26.

Con la desolata affermazione de «La sera del dì di festa»: e fieramente mi si stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia27.

La sindrome da angoscia festiva o domenicale fa spesso capolino nella poesia moderna: potremmo citare i più svariati nomi, da Pasolini a Penna, a Prévert, andando indietro nel tempo fino a Leopardi, e non solo nella poesia, basti pensare a De Chirico. Chi la odia, la domenica, chi si abbandona ad essa, ormai perduto nella rinuncia, chi la aggredisce, chi la studia figurativamente, ne cerca il nesso profondo con il significato dell’esistenza. Le operazioni poematiche sono infinite; se ne distingue Prévert, che è più vicino al nostro tema, poiché le sue poesie hanno l’aria di svagate ma spesso intense, oniriche canzoni. Una di esse è intitolata proprio alla domenica, e scorre come una strofa di una canzonetta di ascendenze surrealiste: Tra i filari di alberi del viale des Gobelins una statua di marmo mi conduce per mano oggi è domenica i cinema sono affollati gli uccelli tra i rami osservano gli uomini e la statua mi bacia ma nessuno ci vede tranne un fanciullo cieco che ci segna a dito28.

Così come una famosa poesia-frammento del poeta bretone coglie un

attimo assoluto di un altro, calcinante, giorno di festa: Digiuna estranea perduta sola sola senza un soldo una ragazza sedicenne ritta impietrita a Place de la Concorde a mezzogiorno del Quindici Agosto29.

Due episodi fra l’impressionismo onirico e il surrealista che potrebbero benissimo essere eseguiti come motivo jazz, oltre che cantati da un portavoce usuale, un Brassens o un Ferré. Gli fa da pendant surreale una poesia di Éluard che, durante la guerra, nel pomeriggio domenicale snoda il confluire di sensazioni visive: Si stringevano i rami arcati d’un’aurora grigia in un passaggio grigio, senza passioni, timido […] Si rispondevano i muti, si udivano i sordi, si guardavano i ciechi30.

È evidente la comune matrice visionaria di Prévert ed Éluard, che coglie l’assolutezza dell’assenza domenicale e ne rivela gli incubi, le incrostazioni dell’abitudine, con il passaggio tra la sonnacchiosa e abitudinaria assenza di azione alla visione e all’urlo devastante e però rivelatore di altro: solo un bambino cieco vede l’angoscia metropolitana, i muti rispondono, si compie lo sconvolgimento totale auspicato in un giorno di totale inconsapevole alienazione. Da profezia biblica. E le Scritture, lo vedremo tra poco, sono un inaspettato punto di partenza per il lungo viaggio di ritorno della poesia alle sue origini musicali. Non dimentichiamo poi uno dei padri del Crepuscolo, Laforgue, il cui beffardo Pierrot si strascina in un giorno ormai per sempre privato della dimensione della festa, figuriamoci del ricordo sacro: Davvero, una domenica sotto un cielo grigio e io non faccio più nulla di buono, e un qualsiasi organetto di Barberia (poveraccio!) s’agguanta alle viscere!31

Più tardi, nel 1913, Apollinaire, un altro che di spleen festivo se ne intendeva, scriverà: Le domeniche sono eterne e gli organetti di Barberia nei grigi cortili si lamentano i fiori ai balconi di Parigi

pendono come la torre di Pisa32.

Dalla domenica inutile e vuota ai giardini pubblici il passo è breve, e in letteratura gli esempi non mancano. Rimbaud tra tutti: L’orchestra militare, nel mezzo del giardino, dondola i suoi cheppì nel Valzer dei pifferi: intorno, in prima fila, si pavoneggia il ganimede; il notaio pende dai suoi sbrelocchi cifrati33.

E poi, il solito Prévert: In un giardinetto su una panchina c’è un uomo che vi chiama quando passate […] Non bisogna ascoltarlo conviene andare avanti fingere di non vederlo […] Egli vi fa un suo cenno e niente nessuno può impedirvi di andare a sedervi accanto a lui […] e voi restate là seduto congelato sulla panchina sorridente e fanciulli giocano vicino a voi passano i passanti tranquillamente […] Sapete che mai più voi passerete tranquillamente come quei passanti34.

Panchina come separazione dal mondo, come affossamento, anticipazione della morte, come insinuante promessa di dimenticanza di sé: è il rifugio del mondo, la vita di un uomo che durante la settimana officia il rito della ripetizione e che la domenica, la triste domenica, continua a ripetere nel parco l’ultimo sacrificio al vuoto e all’inutilità. Saranno questi i messaggi, fra il crepuscolare e l’esistenziale, di spiriti inquieti che invidiano i saltimbanchi che non «chiedono al loro passaggio»35 come voleva Apollinaire, e che invece Mettono dei festoni intorno all’alfabeto e portano in strada le parole a prender aria

per dirla alla Ferré36. In qualche modo alunni di Rimbaud, gli eterni giovinetti giocano con i laici riti della festa noiosa e senza senso anche attraverso la musica della lingua. Se l’uomo solo era preda del tedio e della noia, se era la solitudine di Prévert a buttarlo su quella fatale panchina e a realizzarne l’intuizione del vuoto, ora, sembra dire Brassens, non c’è proprio scampo. La vita normale, la regola, è la ragnatela, e noi le mosche imprudenti: perché abbiamo di fronte la scena da secoli, e nonostante il ribrezzo che ci fa a vederla dipinta, continuiamo a celebrare una festa che non c’è più: Le persone che guardano di traverso pensano che le panchine verdi che si vedono sui marciapiedi sono fatte per gli impotenti o gli obesi37.

Attenti, dice il nuovo trovatore: non pensate, sedendo in uno squallido parco su una squallida panchina, solo perché siete in due, invece di rappresentare i comuni e retorici, ormai, frequentatori solitari e perdenti, di essere immuni dal virus melanconico che è sempre in agguato cavalcando l’abitudine e la noia: Ma è un’assurdità perché, in verità sono là, com’ è noto, ad accogliere qualche tempo gli amori nuovi38.

Le cause, signori, le cause sono queste, dice l’empio giullare, ma so bene che non cambierete nulla, anche a saperlo. E infatti che cosa ci vuole a rispecchiarsi tutti lì, in quei già vecchi innamoratini che si vedono già, dolcemente lei che cuce, lui che fuma in un sicuro benessere e scelgono il nome del loro primo bebé39.

Brassens gioca con le facili previsioni del cucire della donna e del fumare dell’uomo, ma ognuno di questi poeti ha un linguaggio preciso per cogliere il succo diabolico, agli occhi dei poeti trasgressori, della routine di coppia. E, nella nostra canzone, De André all’inizio assimilava molti dei motivi di Brassens: intonava anche lui la voce e sottolineava le pause, si soffermava sulle parole con quel tono fra il serissimo melodico e lo scanzonato. Ma

eravamo nei primi anni ’60 e per sprovincializzare là dove si deve bisogna pure avere dei punti di riferimento. Il cantautore ligure ha creato presto un suo modo per reinventariare la lenta indifferenza a due che è talvolta il matrimonio: Con tua moglie che lavava i piatti in cucina e non capiva con tua figlia che provava il suo vestito nuovo e sorrideva con la radio che ronzava per il mondo cose strane e il respiro del tuo cane che dormiva. Coi tuoi santi sempre pronti a benedire i tuoi sforzi per il pane con il tuo bambino biondo a cui hai dato una pistola per Natale che sembra vera, con il letto in cui tua moglie non ti ha mai saputo dare e gli occhiali che tra un po’ dovrai cambiare. Com’è che non riesci più a volare40.

Il matrimonio, canta De André, con un orecchio a Brassens e l’altro all’esistenzialismo contestativo mutuato dal post ’68, è anche soprattutto questo: ruoli definitivi e alienanti, lento regresso dagli ideali se pure spiccioli e piccolo-borghesi, epifania rovesciata degli oggetti che diventano incomprensibili, estranei. In questo vicino all’Aznavour che pure lui cantava di odiare le domeniche, e a tutta una letteratura europea che incrocia la festa con la ripetizione meccanica, con la speranza semmai di una fuga provvisoria e fragile dalla noia nella noia. È un De André che viene da lontano: dall’antica «Canzone dell’amore perduto», ad esempio, dove L’amore che strappa i capelli è perduto ormai non resta che qualche svogliata carezza e un po’ di tenerezza41.

con l’occhio aperto verso lontani – o vicini – poco esotici orizzonti: E sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato, per un amore nuovo42.

Ma Faber prenderà di petto proprio la domenica in uno dei suoi testi (la musica è di Mauro Pagani) compresi all’interno dell’album Le nuvole, nel 1990. Qui le considerazioni, radicalmente pessimistiche, si distaccano sia dalle tristezze esistenzialistiche che dalle riflessioni episodiche su amori

andati a male o su attese vane. Qui panorama politico, colleghi – un tempo impegnati – del pianeta cantautori, profetica intuizione del ritorno a mitologie di tipo razziale («la scimmia del quarto reich»), (in)giustizia, precipitano in una fosca visione del panorama culturale e sociale a venire, non solo italiano. E con qualche sospetto di intuizione profetica. Lo stesso Venditti non sfugge alla fascinazione dell’ambiguità domenicale, dedicando anzi un intero album al giorno del riposo, Buona domenica, uscito nel 1979; la canzone che dà il titolo all’Lp targato Philips è anche qui «un giorno da dimenticare», ma perde la negatività radicale della letteratura esistenzialista e del modello leopardiano: qui è una ragazzina in piena crisi adolescenziale a sentire, certo, una «tristezza nera nello stomaco», causata però non da considerazioni ontologiche, ma dal fatto che il ragazzo del cuore non chiama. Le generalizzazioni più pessimistiche, come quel «in testa voglia di morire», nascono da questo incidente di percorso nel cammino dell’adolescenza. La stagione del tedio domenicale non sempre si confonde con quella della noia tout court: la «Domenica bestiale» di Concato, ad esempio, che è la celebrazione del giorno festivo come liberazione e riappropriazione felice degli spazi di libertà insieme. Un po’ quello che accade in uno degli archetipi canzonettari di questa visione euforica, quella di «Domenica è sempre domenica» (1957; il testo è di Garinei e Giovannini, la musica di Gorni Kramer), felice visione di un giorno di libertà in un ambiente familiare in cui ci si sente a casa, con valori condivisi (le campane delle chiese) e interclassisti («è domenica per poveri e signori»), anche se l’ambientazione è rigorosamente romana, il che, in quegli anni era un luogo retorico, un tòpos vero e proprio. In territorio per lei ostile, la domenica qualche rivincita se l’è presa. Di più: proprio quella domenica pomeriggio, luogo deputato alla terribile sazietà post prandium, se non vogliamo alludere alla tradizione dell’animale triste dopo l’accoppiamento, viene cantata come fonte di gioia, anzi, progetto di altri giorni festivi passati così, in cui «la vita sarebbe un’estasi senza fine»43 dalla band americana, siamo negli anni ’60, degli Young Rascals. Segno evidente che la domenica non era sempre domenica solo in Italia, ma nella patria della beat generation e della contestazione globale. Paradossi del destino. O del mercato discografico.

Note 24 G. Leopardi, «Il passero solitario», in I Canti, Sansoni, 1967, p. 260. 25 Ivi, pp. 260-261. 26 «Il sabato del villaggio», ivi, p. 292. 27 «La sera del dì di festa», ivi, p. 142. 28 J. Prévert, «Domenica», in Poesie, Guanda, 1971, p. 97. Traduzione di G. D. Giagni. 29 J. Prévert, «La bella stagione», ivi, p. 15. 30 P. Éluard, «Dimanche après-midi», in Poesie, Mondadori, 1969, pp. 399-341. 31 J. Laforgue, «Dimanches», in Poesie e prose, Mondadori, 1971, p. 195. Traduzione di I. Margoni. 32 G. Apollinaire, «Les sept épées», in Poesie, Newton Compton, 1976, p. 109. 33 A. Rimbaud, «A la musique», in Opere in versi e in prosa, Garzanti, 1999, p. 49. Traduzione di D. Bellezza. 34 J. Prévert, «La disperazione è seduta su una panchina», in Poesie, cit., pp. 61-63. 35 G. Apollinaire, «Saltimbanques», in Poesie, cit. p. 129. 36 L. Ferré, «Les poètes», in La canzone francese, cit. p. 142. 37 G. Brassens, «Les Amoreux des bancs publics», testo or. sul sito . Traduzione mia. 38 Ivi. 39 Ivi. 40 F. De André – F. De Gregori, «Canzone per l’estate», in Volume 8, Lp Produttori Associati, 1975. 41 F. De André, «La canzone dell’amore perduto», 45 giri Karim, 1966. Poi presente in raccolte più tarde. 42 Ivi. 43 The Young Rascals, «Groovin’», nell’Lp omonimo, Atlantic Records, 1967.

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Fate fuoco sul mito

Con l’avvento dei cantanti post-esistenzialisti nulla o quasi più si salva dalla distruzione dei vecchi luoghi comuni, e il sarcasmo, da troppo tempo represso nella diffusione popolare della canzonetta, nel perbenismo e nell’ipocrisia dei sentimenti sbattuti in faccia alla gente, ora esplode e corrode ogni cosa, dalla religione alle figure mitiche della tradizione familiare. Così Penelope deve fare i conti con Brassens, il quale, a dire il vero, la tratta un po’ con leggerezza e con eccesso di familiarità, tra il compagnone e il complice: Tu la sposa modello, grillo del focolare tu che non hai alcun strappo nell’abito nuziale tu Penelope intrattabile pensando al maritino così buono non hai mai con rispetto parlando graziosi ma equivoci pensieri44.

Una Penelope in ambiguo chiaroscuro, alla quale i sacri doveri militari del marito lasciano la possibilità e il tempo di pensare agli altri doveri, quelli coniugali; in anni in cui Simone de Beauvoir imperversa in Francia e non solo, e Sartre era di casa a Saint-Germain, la relatività dei valori fa apparire inquietanti buchi nel mito, e la consorte di Odisseo diventa una provinciale indecisa ma già sensibile alla libertà sessuale: E non aver paura che il cielo diventi sereno non è davvero il caso che il cuore ti frustino perché galoppi in mezzo alla campagna è una colpa comune e un peccato veniale è il lato oscuro della luna di miele è il prezzo del riscatto di Penelope45.

Fra i tanti precedenti letterari, troviamo anche un Laforgue che decodifica ironicamente Shakespeare. Amleto «piange» così sul feretro di Ofelia: Eppure, non era poi così pesante […] Oh! dimenticavo: dev’essere gonfia d’acqua come un otre; piccola sudiciona; ripescata alla chiusa! Doveva finir così, con tutto quello che aveva attinto, e senz’alcun metodo, dalla mia biblioteca. Oh! ma Dio! […] Povera, povera fanciulla! Così magra e così eroica! Bah, pazienza! È lo sfacelo! Domani, il conquistatore Fortebraccio ne avrebbe fatto la sua amante46.

Così Prévert, collegandosi a una tradizione consolidata e a più antiche radici comico-realiste, può mostrare la faccia demistificante dell’eroe tragico, il suo divertimento a smettere gli abiti scuri e seri del mito e a privilegiare il quotidiano riscontro con la realtà; in una comune classe di una comune scuola un comune professore fa l’appello e Eh?… Che?… mi scusi… Che succede… che c’è (IL PROFESSORE) Non può rispondere «presente» come tutti? È assurdo, lei è ancora fra le nuvole. (L’ALLIEVO AMLETO) Essere o non essere fra le nuvole47.

Qualche anno dopo, ancora una volta sarà De André a portare avanti lo stesso procedimento, a partire da un episodio dylaniano che evidenzia le stesse fonti ispiratrici: Ofelia è dietro la finestra mai nessuno le ha detto che è bella a soli ventidue anni è già una vecchia zitella la sua morte sarà molto romantica trasformandosi in oro se ne andrà per adesso cammina avanti e indietro in Via della Povertà48.

Dylan, nella versione originale, è ancora più suggestionato dalle infinite possibilità di decodificazione – e di ironia – del mito: Ofelia è sotto la finestra per lei ho molto timore a ventidue anni è già una vecchia zitella lei crede la morte una cosa romantica indossa una maglia di ferro la sua professione la sua religione il suo peccato è la mancanza di vita e sebbene tenga lo sguardo fisso sul grande arcobaleno di Noè passa il suo tempo a spiare

nel vicolo della desolazione49.

Ofelia è la giovane-vecchia, la vergine intrappolata in una gabbia oscura, dove nonostante, e anzi a causa dell’intoccabile virtù, è reclusa nella desolazione di quel vicolo che è il mondo: non rappresenta più la tangibile follia, la congiura e l’espiazione innocente di un destino espropriato, una storia d’amore finita tragicamente e con una grande capacità di fascinazione sulla fantasia di poeti come Rimbaud o di pittori come Millais. Ofelia è qui il segno di una testarda conservazione della bellezza in sé e per sé (un po’ quello che era accaduto in un romanzo del 1930, Vita e morte di Adria e dei suoi figli, di Massimo Bontempelli) come costruzione fredda, illusa speranza di redenzione dalla inevitabilità dell’accadere. Ma non sono solo Ofelia e Penelope a soffrire la scoperta del nuovo mondo e dei nuovi bisogni: si pensi, nella poesia, alle interpretazioni più svariate del mito di Orfeo ed Euridice, ad esempio, del Pavese dei Dialoghi con Leucò, o alle elaborazioni del Faust, oltre il quale emerge Thanatos, nascosto dall’ansia di conoscenza, di piacere, di amore con cui l’eroe tenta di rimandare l’appuntamento con il proprio destino. E, a proposito di Orfeo, è stato in Italia che è avvenuto il più rilevante incontro tra mito e letteratura musicale, realizzato nell’opera Orfeo 9 di Tito Schipa jr. che nel 1970 venne presentata al Sistina di Roma, divenuta poi un Lp doppio e un film50. Per la prima volta, in una cosiddetta (in alcuni casi le etichette impoveriscono i contenuti effettivi) opera-rock, la prima del genere in Italia, la tradizione delle voci si incontra con il nuovo suono degli strumenti elettrici e con il canto proveniente dalle origini della contemporaneità, dalla rilettura della musica afro-americana e del blues. La storia di Orfeo non è il pretesto per proporre una nuova modalità di intendere l’incontro tra mito, cultura, canzone, ma parte integrante e operativa, attraverso la sua rifondazione e rilettura alla luce di quello che accadeva in quegli anni e oltre. A partire dal racconto della perdita di Euridice, che qui non è legata alla fuga e al morso del serpente, ma al nonriconoscimento del presente e dell’altro. Orfeo perde Euridice perché proprio nel momento in cui la trova cerca un altrove che nasconde l’inquietante ombra del già trovato e il ghigno del desiderio che insegue unicamente se stesso. «Più felici, bisogna essere più felici» grida alle orecchie di Orfeo il venditore di felicità impersonato da un Renato Zero agli

inizi della sua carriera. Orfeo compra, e qui è il male, ciò che ha già, perché è preso dal sogno narcisistico di una felicità fine a se stessa e sempre altrove. Il male significa la perdita dell’oggetto del desiderio, – la donna amata – e la condanna a ripiombare in un incubo costante: l’inseguimento (e il relativo senso di colpa) di un qualcosa che si aveva già. Un discorso che viene da molto lontano, dalle teorie sull’amore cortese culminate nelle riflessioni di Denis de Rougemont in L’amore e l’occidente (1936). L’amore cantato dai trovatori provenzali è anche un rispecchiamento narcisistico, un riflesso egotico di sé proiettato nell’altro, che rende inaccessibile ogni realizzazione nel qui e nell’ora. A distanza di tanti anni, lo possiamo dire senza alcuna forzatura campanilistica, la struttura portante di quell’opera emana ancora significati, a prescindere dalle forme legate all’epoca. Ma mentre Jesus Christ Superstar (1970 l’album doppio, 1971 la prima in concerto e l’inizio delle rappresentazioni teatrali) poteva contare sull’impatto della figura del Salvatore, che al di là della fede rappresenta un’icona assoluta nella storia dell’umanità, l’Orfeo di Schipa faceva parte di un immaginario di nicchia. Quell’opera ha rielaborato il mito rispettandone il nucleo fondante e nello stesso tempo ha compiuto l’impresa, assai ardua, di reimmetterlo in una realtà nuova, rivitalizzandolo simbolicamente in una cultura problematica e assai sospettosa riguardo le mitologie occidentali. L’opera rock internazionale, compresa quella dei nostri anni, deve molto a questo raro esempio di rielaborazione operistica di un archetipo rimosso. Note 44 G. Brassens, «Penelope», testo francese or. in . Traduzione mia. 45 Ivi. 46 J. Laforgue, «Amleto», in Poesie e Prose, cit. p. 298. 47 J. Prévert, «L’Accent grave», in Poesie inedite e segrete, Newton Compton, 1974, p. 21. Traduzione di B. Cagli e R. Delfino. Il maiuscolo è nel testo. 48 F. De André – F. De Gregori, «Via della Povertà» (versione italiana di «Desolation Row» di B. Dylan), in F. De André, Canzoni, Lp Produttori Associati, 1974. 49 B. Dylan, «Desolation Row», in Blues, ballate e canzoni, Newton Compton, 1972, p. 201. Traduzione di S. Rizzo. 50 Il doppio Lp uscì nel 1973 per l’etichetta Cetra; nel 1971 era stato realizzato il film che fu mandato in onda dalla Rai nel 1975. Tra gli interpreti, oltre a Tito Schipa, Renato Zero, Loredana Bertè, Edoardo Nevola, Santino Rocchetti.

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Dall’Ecclesiaste alla canzone d’autore

L’elemento religioso, come abbiamo visto, è profondamente innervato nel passaggio tra poesia e canzone. Mito (Pavese), archetipi, ritorni inquieti a un dualismo che sembrava cancellato (de Rougemont), rock (Jesus Christ Superstar) e molto altro lo stanno a dimostrare. Ma c’è un ulteriore tema che risente fin dalle radici dell’elemento religioso: il tempo. La letteratura del e sul tempo possiede infatti infiniti punti di riferimento: Orazio, Seneca, Petrarca, soprattutto quello dei Trionfi, che celebra la dolce memoria di quel giorno, il tempo dell’incontro con la signora del suo cuore, ma che nello stesso luogo ne intuisce la fine e la sua minaccia per la salute dell’anima: «I’ vidi il ghiaccio, e lì stesso la rosa, quasi in un punto il gran freddo e ’l gran caldo»51. Siamo nel momento del riconoscimento dell’errore nel quale si è confusa la creatura, pur nel suo fascino e nella sua bellezza, con il Creatore. Tempo come compimento, unione degli opposti, luogo da cui si è partiti un giorno e verso il quale si tende, attraverso la nostalgia, etimologicamente il dolore del ritorno. Un succedersi di stagioni, di speranze e disillusioni, che viene da molto lontano, e che a sua volta porterà molto lontano in avanti, al tempo di una nuova musica, elettrica ed elettronica, che però trascina con sé antiche memorie di trovatori e canti poetici. Perché uno dei modelli che sono rimasti, nel corso della letteratura, pressoché invariati, è quello del biblico libro di colui che parla di fronte all’assemblea, questa la traduzione del termine Qoèlet che con vocabolo greco sarà detto Ecclesiaste. Un invito alla accettazione (e non riflessione negativa, come altri hanno interpretato) dello scorrere del tempo che ha

fecondato molti autori fino ai nostri tempi. Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni cosa sotto il cielo. Un tempo per nascere e un tempo per morire […] Un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via. Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace52.

Thomas Stearns Eliot, nel 1915, fa uscire sulla rivista «Poetry» il poemetto Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock, probabilmente influenzato dalla lettura di Henry James e della sua concezione del tempo, dell’azione che diviene tutt’uno con il pensiero e che, vedremo più avanti, porta l’impronta filosofica di Bergson. La poesia è anche una ripresa del motivo del tempo nell’Ecclesiaste: Ci sarà tempo per uccidere e creare, E tempo per tutte le opere e i giorni delle mani Che sollevano e lasciano cadere una domanda sul tuo piatto; Tempo per te e tempo per me, E tempo anche per cento indecisioni, E per cento visioni e revisioni, Prima di prendere un tè col pane abbrustolito […] Ho conosciuto le sere, le mattine, i pomeriggi. Ho misurato la mia vita con cucchiaini da caffè53.

L’oscillazione del tempo, per l’Eliot di più di duemila anni dopo l’Ecclesiaste, privilegia il quotidiano: la vita d’uomo è scandita dai cucchiaini di caffè, il demone si affaccia dalle rampe delle scale, la caduta fa capolino ghignando nelle stanze quotidiane, gli inferi appaiono attraverso la perplessità e il dubbio della metropoli contemporanea. E anche il relativismo e il materialismo non offrono speranze se non quelle della realizzazione del desiderio qui e ora, e poi dell’appagamento, e poi della noia. Negli stessi anni, Ezra Pound, colui che riconoscerà nella Terra desolata un capolavoro assoluto, diario poetico della crisi dell’uomo razionale d’occidente, scrive: Quello che veramente ami rimane

Il resto è scorie Quello che veramente ami non ti sarà strappato Quello che veramente ami è la tua vera eredità […] Aver raccolto dal vento una tradizione viva o da un bell’occhio antico la fiamma inviolata questa non è vanità54.

L’accenno a una «tradizione viva» non è destinato a rimanere isolato come perla poetica fine a se stessa, materiale estetizzante destinato a rimanere inerte nella ricerca di senso. Tradizione viva significa che il passato non è scarto, inutilità, peso, ma parte integrante di una vita mai ferma in se stessa, fluidamente distesa tra ciò che chiamiamo passato e futuro, che, come avevano capito san Paolo e sant’Agostino, non è matematicamente divisibile in un prima e in un poi. Il tempo è solo una dimensione dell’anima (distensio animi). Soprattutto in Agostino, il passato non esiste in quanto non è più, il futuro deve ancora essere e il presente è solo un istante inesistente di presunta separazione tra passato e futuro. Ritroviamo questo concetto, sempre in quegli anni, nella Recherche di Proust, che, guarda caso, con Bergson farà conti anche parentali: la bellezza e la salvezza stanno nel comprendere che il vero tempo è quello del di dentro, che muta e che pure trascina con sé, come teorizzava allora Bergson, ciò che noi chiamiamo passato, facendolo diventare vita. Il narratore intuisce quale contraddizione vi sia nel ricercare nella realtà ciò che vive nella memoria: La realtà che avevo conosciuto non esisteva più. Bastava che la signora Swann non giungesse, identica, nel medesimo istante, perché il viale fosse altra cosa. I luoghi che abbiamo conosciuto non appartengono solo al mondo dello spazio dove per facilità li collochiamo. Essi non erano che una parte insignificante, fra le impressioni contigue che formavano la nostra vita d’allora; il ricordo d’una certa immagine non è che il rimpianto di un certo istante; e le case, le strade, i viali sono fuggitivi, ahimè, come gli anni55.

La verità è che non si può rivivere nello spazio il medesimo, il passato, perché sarebbe come cercare fuori qualcosa che si è trasformata in noi stessi. Ed è per questo che il Faust definitivo di Goethe, scritto cent’anni prima, può essere interpretato anche come un rinnovarsi dell’ammonimento dell’Ecclesiaste che porterà verso il sì al tempo interiore. Il dottore inquieto non è assetato di potere, ma di un’esperienza che lo sollevi dalla noia e gli faccia finalmente dire all’attimo: «Ma rimani! Tu sei così bello»56. La non accettazione del tempo finito è l’altra faccia di una medaglia

rappresentata dalla critica che del tempo fa Mefistofele, il quale schernisce l’inutilità di quello umano, destinato a tornare al nulla. Una prospettiva parziale, però, perché «onnisciente non sono» è costretto ad ammettere57. E però ambedue tacciono a se stessi il tempo dell’interiorità. L’equivoco è quello di Faust, che non riconosce più la provvidenzialità del tempo e si annoia perché tutto preso dalla melancholia e dalla nostalgia di qualcosa che forse è oscuramente stato suo, ma non nel qui. L’equivoco è anche quello di Mefistofele che scambia come affermazione quello che è invece un augurio, una possibilità, e fa morire Faust, perdendolo così per sempre. Lo stesso errore che compie l’anarchico Kirillov dei Demoni, quando nell’atto gratuito del suicidio vede la riappropriazione del tempo attraverso la sua abolizione58. Gli risponde ambiguamente (dovrebbe pensarla come il suo interlocutore, ma sono le sfumature che mettono in rilevo il nulla) Stavrogin che la fine fa parte del gioco, una sua parte, in quanto «quando tutto l’uomo raggiungerà la felicità, il tempo non vi sarà più, perché non occorrerà»59. Ancora una volta emerge la dimensione di un tempo interiore, anche in un pensiero «antagonista». Torna prepotente il grido del nuovo Eliot, dopo La terra desolata, passato anche lui attraverso il nulla di Stravrogin, quello che scrive Il mercoledì delle ceneri e afferma, con un richiamo al Dante del terzo canto del Paradiso, che «e’n la sua volontade è nostra pace» aggiungendo subito dopo: «Non sopportare che io sia separato»60; una ulteriore conferma di come in alcune esperienze nel corso dei secoli il tempo sia colto nel suo farsi circolare. Un corrispondente iconografico di questa circolarità dell’essere e della sua manifestazione nella letteratura è, per rimanere nella nostra epoca, l’acquaforte «Dante si fa cosa del Cosmo», che Ennio Calabria ha realizzato nel 1995, presente nell’appendice iconografica del volume di A. Bagnato Natura e poesia nella Divina Commedia61. Ovviamente circolarità è da intendersi come movimento non meccanicamente originato da un punto A e linearmente teso verso uno B, e non come ritorno eterno dell’uguale come in Nietzsche. Che cosa è rimasto di questa ricerca di un tempo-per-ogni-cosa che parte dalla Bibbia e arriva nella cultura contemporanea?

Molto, soprattutto in quella poesia tesa alla ripresa dell’antica alleanza tra parole e musica, operante nel secondo canto del Purgatorio, nell’episodio di Casella che intona la canzone dantesca «Amore che nella mente mi ragiona»(vv. 76-117). L’Ecclesiaste torna anche nella musica d’autore: quella di Pete Seeger in «Turn Turn Turn» (1961), canzone interpretata poi dal gruppo dei Byrds, celebre per aver inciso, elettrificandola, «Mr Tambourine Man» del futuro, e allora inimmaginabile, Nobel per la letteratura Bob Dylan. Un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per ridere e un tempo per piangere Un tempo per costruire e un tempo per demolire un tempo per ballare e un tempo per gemere un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli Un tempo d’amore, un tempo d’odio un tempo di guerra, un tempo di pace un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci Un tempo per vincere, un tempo per perdere un tempo per stracciare, un tempo per cucire, un tempo per amare, un tempo per odiare un tempo per la pace, giuro che non è troppo tardi62.

Ma non solo i menestrelli dell’incontro tra country, beat generation, folk, protesta e testi sacri. «There will be time», citazione letterale dall’Eliot che a sua volta ricordava l’Ecclesiaste, diventa di nuovo un cavallo di battaglia e anche stavolta su un versante di confine tra generi. Testo sacro, poi testo lirico di un grande poeta, poi cavallo di battaglia beat e ora colonna sonora di un film di Fernando Di Leo, «Milano calibro 9», uscito nel 1972. Ci sarà tempo per incontrarci e giocare, ci sarà tempo per fingere di avere una ragione per tardare ci sarà tempo per morire e per creare per essere il tiranno o lo schiavo ci sarà tempo per chiedersi perché, ci sarà tempo per essere un passante che passa e va, […] Ho passato interminabili pomeriggi contando i miei giorni con i cucchiaini di caffè alla ricerca di qualche cosa che è già stato mio63.

Gli eliotiani cucchiaini di caffè sono immersi in una dimensione di

recupero quasi proustiano del tempo. L’ora che un tempo sarebbe stata consacrata al demone meridiano, interdetta ai mortali, diviene qui il momento favorevole, il kairòs che permette, in un attimo epifanico, di riappropriarsi di qualcosa che sembrava perduto per sempre. Anche qui, in quella che molti considerano una canzonetta, la riappropriazione del tempo non è vissuta come possesso materiale, come impossibile ritorno di ciò che tornare non può, ma come consapevolezza che essa diviene parte di noi, petrarchesca ma non inerte dolce memoria di quel giorno, che è viva nella nostra vita, nel presente: ci stordisce quasi con quell’attimo di felicità che ci consente di affrontare la realtà. Come nella madeleine di Proust che interrompe il meccanico passaggio del tempo. Note 51 F. Petrarca, Trionfo del tempo, vv. 49-50, in I Trionfi, Rizzoli, 1956, p. 89. 52 Qoèlet 3, 1-9, in La Bibbia di Gerusalemme, EDB, 1988, p. 1344. 53 T. S. Eliot, «Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock», in Poesie, Mondadori, 1972, pp. 125-127. 54 E. Pound, Canti pisani, LXXXI, Garzanti, 1977, pp. 191-195. 55 M. Proust, La strada di Swann, in Alla ricerca del tempo perduto, vol. I, Einaudi, 2005, p. 464. 56 J. W. Goethe, Faust, Mondadori, 1990, p. 131. 57 Ivi, p. 123. 58 Devo questa notazione ad Alessandro Poliziani, che sta lavorando a un testo ancora inedito, La filosofia della redenzione in Leopardi. 59 F. Dostoevskij, I demoni, Garzanti, 1995, p. 118. 60 T. S. Eliot, Mercoledì delle ceneri, in Poesie, cit., p. 273. 61 L’Albatros, 2016, p. 14. 62 Il testo è presente in molti siti web, uno dei quali è . La traduzione è mia. 63 «There Will Be Time» di L. E. Bachalov, eseguita dal gruppo degli Osanna. Tra i vari siti su cui si può trovare il testo inglese citiamo . Traduzione mia.

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Solitudine, calvinismo e rock & roll

Non sorprendiamoci di ritrovare il senso del tempo della Bibbia elettrificato nelle chitarre dei Byrds o degli Osanna, dopo essere stato attualizzato nella città desolata di Eliot. Troviamo anche altrove contaminazioni singolari. Scopriamo ad esempio che tutta quella sensibilità che passa dal poeta al cantautore, concretata soprattutto in Gozzano, ma espressa poi mutatis mutandis da Brassens-De André (e richiamata dalla fonte Antoine Paul) possa essere, sempre nel campo della canzone d’autore, ritrovata in un posto così lontano nel tempo e nella cultura come l’Inghilterra industriale e mineraria del Lancashire. Un fenomeno di origine assai articolata fra il rock & roll, il rhythm & blues e il country, ma anche il melodico, come quello dei Beatles, ha creato a sua volta una nuova musica, con episodi che potremmo chiamare genericamente rock o, al contrario, intrecciati con intense melodie accompagnate, oltre che da una strumentazione non convenzionale per il tempo, archi e fiati, da testi tutt’altro che canzonettari (ovviamente rispetto ai tempi e al genere), come nel caso di «Eleanor Rigby», 1966: adattata da una ballata popolare, questa canzone presenta un testo che fa al caso nostro per i suoi richiami colti (sperando che nessun sostenitore dell’unica validità estetica dell’Opera D’Arte Letteraria abbia bisogno di sali): Guarda tutta la gente sola! Guarda la gente sola! Da dove verrà mai tutta? Tutta la gente sola, a chi appartiene?64

Non bisogna fare di tutta l’erba un fascio: Lennon e McCartney sono stati

poco amanti di impegni e ricerche organiche (basti pensare alla stagione indiana dei Beatles, presto abbandonata) ma, nel rispetto del mito di genio e sregolatezza, posseggono una cultura (altra ferita ai puristi, lo so, ma è indispensabile) musicale, il talkin’ blues, il blues urbano, le folk-ballad di Guthrie e Dylan, il gospel, una ampia base in grado di poter dar vita a sguardi meno superficiali sulla crisi esistenziale e sui nuovi interrogativi individuali e sociali che si poneva la generazione dell’immediato dopoguerra. La scelta della solitudine e della «follia» rispetto alla norma della gente, ad esempio: Giorno dopo giorno, solo su una collina l’uomo con un folle sorriso è perfettamente calmo ma nessuno vuol fare la sua conoscenza perché dicono sia soltanto un pazzo65.

oppure l’addio alla sicurezza di una famiglia troppo ancorata a schemi in cui non trovano posto la comprensione e l’affetto profondo, che costringe la ragazzina di «She’s Leaving Home» ad andarsene: Il padre russa ancora mentre la mamma si infila la vestaglia e raccoglie la lettera che lei ha lasciato lì posata sulla cima delle scale comincia a piangere e grida al marito: «Papà la nostra bambina se n’è andata. Perché ci ha trattato così insensibilmente? Come ha potuto farmi una cosa simile?».66

La nota dominante in queste due canzoni che risalgono al discrimine degli anni ’60 è quella comune alla generazione che i Beatles, sotto molti aspetti, sono riusciti a rappresentare: quella non ancora politicizzata e al di qua di una vera coscienza ideologica, in ogni caso senza ideali che non siano stati quelli di un mal motivato e generico rifiuto della tediosa esistenza della piccola borghesia e del proletariato dei sobborghi di Liverpool, Manchester e Londra. Il mondo anglosassone rientra in quella dimensione religiosa che, nel corso delle note vicissitudini, a partire dal XVI secolo, secondo il Max Weber de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, ha gettato le basi per una ricerca, attraverso il lavoro e la produttività, della motivazione alla salvezza. Concezioni radicate profondamente, vista poi la gelosa tendenza autoreferenziale anche a livello religioso (con la creazione di una Chiesa

nazionale indipendente da Roma) della piccola e media borghesia anglosassone. Il lavoro diventa dovere cristiano assunto poi nelle generazioni successive come universo totalizzante, al di là del quale, negli occhi dei giovani del «risveglio» di metà dei ’60 del Novecento, non esistono che il pub, la partita, il circolo. È la stessa chiusura ai nuovi valori che Fernanda Pivano ha descritto osservando quella generazione d’oltreoceano; la fossilizzazione di un evento nel XVI secolo, in cui la secolarizzazione della curia romana aveva spinto alcuni regni del nord a rivendicare la loro autonomia e il loro specifico diritto nazionale a una produttività non vincolata da ingerenze estranee, altrettanto incapaci però di opporsi in seguito alla riduzione della vita dell’operaio e dell’impiegato agli elettrodomestici, al lavoro e di nuovo a casa. A un sonno da cui la generazione dei capelli a caschetto e delle minigonne tentò il risveglio. Un testo che dimostra la sensibilità dei quattro di Liverpool al problema del rapporto fra società, lavoro e individuo è quello della ballata «Girl», composta nel 1965, in netto anticipo, all’interno della canzone beat, sulla diffusione di questa tematica in Europa. Altri gruppi che la affronteranno saranno gli Animals, esplosi con il riarrangiamento di un traditional, «House of the Rising Sun», con motivi prettamente sociali, in questo caso la prostituzione, collegati con l’insoddisfazione del proletariato urbano e periferico, e Rolling Stones e Spencer Davis Group, solo per fare alcuni nomi, anche se a un livello mai propriamente politico; la «protesta», di cui si comincia a parlare ora, è velata di romanticismo individualista, o di idealismo «corretto» dall’industria discografica che lasciava proporre nella maggior parte dei casi temi del passato oppure aspirazioni a uno status migliore, come accade in «We Gotta Get Out of This Place» degli Animals, e siamo nel 1965: In questa sporca, vecchia parte della città dove il sole si rifiuta di splendere la gente mi dice che non c’è proprio niente da tentare. Ora, ragazza mia, che sei così giovane e carina, c’è una cosa che so essere vera, sarai morta prima che sia arrivato il tuo tempo. Ce ne dobbiamo andare da questo posto dovesse essere l’ultima cosa da fare perché c’è una vita migliore, per me e per te. Guarda mio padre, a letto così stanco,

guarda i suoi capelli diventare grigi, sta lavorando e buttando via la sua vita, lavora così duramente e anch’io lavoro così. Me ne voglio andare via67.

Dicevamo dei Beatles, il modello del cambiamento, ma nello stesso tempo così tartassati dalla critica militante per il loro supposto disimpegno, almeno prima dell’arrivo di Yoko Ono. Abbiamo già accennato che nello stesso anno di «We Gotta Get Out of This Place», che sarebbe stata poi riconosciuta come l’archetipo della protesta contro il degrado della vita del proletariato nelle città industriali inglesi, una loro canzone, «Girl», presentava un motivo analogo: Le hanno detto quando era piccola che il dolore avrebbe portato al piacere? Lo capì quando dissero che un uomo deve spaccarsi la schiena per guadagnarsi un giorno di riposo? Lo crederà ancora quando lui sarà morto?68

Come si vede, trapela da più parti quella sorta di insoddisfazione esistenziale di cui parlavamo, che riguarda anche e soprattutto il lavoro, inteso ora come dannazione, non più come benedizione. Poco dopo faranno eco Jagger e Richard, leader dei Rolling Stones, con «Flight 505», storia di un uomo vittima di un incidente aereo dopo aver cercato di fuggire da una società ormai per lui inaccettabile. Anche la ribellione è vista con un’ottica pessimistica e fatalistica, Prometeo è incatenato e ormai ridotto all’impotenza. E di solitudine si può anche morire, come nel caso della Nancy di Cohen, che si toglie la vita consapevole che nessuno la corteggerà mai «nella casa del mistero». O si affonda nella vana attesa, come la Eleanor Rigby dei Beatles che passa la sua vita a raccogliere il riso in chiese dove altri si sposano. O il suo alter ego, padre McKenzie, che scrive sermoni che nessuno ascolterà. O la Pearly Spencer di David McWilliams, che contempla lo squallore del paesaggio, inevitabilmente associato a quello della sua esistenza. Beatles e Rolling Stones, Animals e Spencer Davis Group, Yardbirds e Buffalo Springfield sono influenzati dal rock viscerale e contaminante, di origine blues, di B.B. King, Chuck Berry, Bo Diddley e degli altri bluesmen che circolavano nell’America dei Guthrie morenti negli ospedali, ma anche

dei Perry Como, dei Frank Sinatra e dei crooner. Il rock della generazione appena successiva è invece gonfio di influenze mistiche, orientaleggianti, pacifiste, che, se hanno posto le basi per una nuova cultura in grado di accendere la speranza di un mondo migliore, non hanno però lasciato capolavori in grado di passare impunemente attraverso i mutamenti dei tempi. In ambito francese abbiamo un episodio molto significativo, quello della «Solitudine» di Barbara (al secolo Monique Andrée Serf), per la sua derivazione esistenzialistica, una dimensione condivisa da una cerchia di autori ed esecutori che nella disillusione, nel tedio, e nel volersi sentir languidamente e talvolta teatralmente soli, continuerà a sostanziare e aggiornare un modello antico. Un modello condiviso anche da una letteratura attenta alle decostruzioni ad uso e consumo del mercato, che narra gli amori infelici dell’elegante-stracciona Parigi e delle sue notti, oltre le spiagge più modaiole. Quelle dei romanzi della Sagan. E infatti Barbara beve dalla fonte della solitudine, la accoglie alla fine come una compagna inevitabile, come un amore legittimo che ritorna dopo un tradimento: Mi ha detto «Aprimi la porta t’avevo seguita passo passo so che i tuoi amori sono morti sono venuta eccomi qua t’han recitato i loro versi i tuoi bei signori i tuoi bei bambini falsi Rimbaud falsi Verlaine ma adesso è davvero finita»69.

È un senso di familiarità, di languido abbandono, che parte da lontano; non a caso è presente un testuale riferimento a Rimbaud e Verlaine. Gli amanti trascorsi erano «falsi» poeti maledetti poiché la loro infantilità era costruita, teatrale, pretesto per la consumazione di un flirt visto come ripetitività fine a se stessa. Ma si guarda ancora oltre, verso le origini, la malinconia regale e languida di Laforgue, con concessioni al Verlaine della stanchezza, quello della stagione cosiddetta della «bontà». Per non parlare dell’archetipico spleen, la malinconia-noia-depressione di Baudelaire. Solo che lo spleen ereditato da Barbara fa parte di una società assai cambiata. La borghesia dell’impiego, della specializzazione industriale si è totalmente sostituita a quella ancora nostalgicamente

aristocratica, mentre la classe operaia si è organizzata, ha raggiunto un tenore di vita prima impensabile: poco però sembra cambiato nell’anima del poeta. Il dubbio che si insinua è che non fosse solo un problema sociale. Il viaggio dei Maledetti ridiventa ripiegamento sui propri insuccessi in una esistenza segnata da un rifiuto radicale del presente e non da una precisa scelta ideologica. E in effetti gli stimoli più fedeli al modello spleenetico sono quelli che derivano dall’annoiato Laforgue: Sì, questo mondo è davvero piatto e quanto all’altro, frottole. Rassegnato, senza speranza io vado alla mia sorte e per ammazzare il tempo, in attesa della morte, fumo in faccia agli dei le mie fini sigarette70.

Note 64 J. Lennon – P. McCartney, «Eleanor Rigby», in Il libro delle canzoni dei Beatles, a cura di A. Alridge, Mondadori, 1972, p. 171. 65 J. Lennon – P. McCartney, «The Fool on the Hill», ivi, p. 203. 66 J. Lennon – P. McCartney, «She’s Leaving Home», ivi, p. 201. 67 B. Mann – C. Well, «We Gotta Get Out of This Place», in Animal Tracks, Lp MGM Records, 1965. Traduzione mia. 68 J. Lennon – P. McCartney, «Girl», nell’album Rubber soul, Parlophone, 1965. Traduzione mia. 69 Barbara, «La solitude», in La canzone francese, cit., p. 179. 70 J. Laforgue, «Cigarettes», in Poesie e prose, cit., p. 123.

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Traduzioni e tradimenti

In Italia le cose non vanno benissimo, se guardiamo alle traduzioni. Si cominciano ad adattare, non a tradurre, che è cosa assai diversa, Beatles e Rolling Stones, Animals e perfino Dylan e Donovan. «Girl» viene cantata da Peppino Di Capri, e diventa una storia di marinai e baci galeotti e fuggitivi. «The house of the rising sun» da storia di prostituzione diventa una canzone a tre voci (Los Marcellos Ferial) che lacrimano di addii e parole mai dette; ci sono, certo, versioni di «Catch the wind» di Donovan e «Like a Rolling Stone» di Bob Dylan, e quelle di «Just like a woman» sempre di Dylan, di «The beat goes on» di Sonny Bono, di «Lady D’Arbanville» di Cat Stevens, di «Ruby Tuesday» dei Rolling Stones, della «Nights in white satin» dei precursori – riguardo il rock sinfonico – Moody Blues, trasformata in «Ho difeso il mio amore», di «Blowin’ in the wind» di Dylan, di «Space Oddity» di David Bowie diventata «Ragazzo solo, ragazza sola» dalla scelta, nel testo originale, di rimanere nella bellezza dello spazio assoluto di un astronauta, e poi quelle della sorprendente (per il soggetto e la capacità di raccontare l’isolamento e il rimpianto) «Days of Pearly Spencer» del cantautore David McWilliams, che abbiamo citato nel capitolo precedente, diventata un amoroso «Il volto della vita» cantato da Caterina Caselli, di «California dreamin’» dei Mamas & Papas, risparmiata o quasi nella nostra lingua, di «I am, I said» di Neil Diamond, di «Solitary man» sempre di Neil Diamond diventata «Se perdo anche te» con Gianni Morandi, di «A whiter shade of pale» privata del suo criptico significato in «Senza luce» e la surreale «Homburg», sempre dei Procol Harum, diventata «L’ora dell’amore», e della mai abbastanza glorificata «The Sound of

Silence» del duo Art Garfunkel e Paul Simon, confezionata e «tradotta» per una fruizione completamente diversa con il titolo di «La tua immagine» e cantata, tra gli altri, da Dino e da Mike Liddel e gli Atomi. I discografici e i parolieri hanno motivato quelle scelte con alcune glosse: la prima è che tradurre in italiano parole che non siano cuore e amore è secondo loro praticamente impossibile almeno nel regno della canzonetta. La seconda è che, concesso che i testi potessero essere tradotti fedelmente, il senso sarebbe stato non compreso dagli ancora immaturi – secondo questa prospettiva – ascoltatori nostrani, adusi a mercanteggiare l’acquisto di una lavatrice o di una nuova cilindrata ma non a penetrare i testi di Procol Harum o Moody Blues (chissà poi quelli di Ungaretti e Quasimodo). La terza, a cappello del tutto, è che in un modo o nell’altro si sono fatti conoscere i cantanti, gli autori, i gruppi (o complessi, come si usava dire allora) a un pubblico più vasto degli ascoltatori della radio, dei compratori di dischi, o semplicemente degli appassionati. E questo, tutto sommato, è vero. E però ci sono dei però. Si potrebbe replicare che i testi di De André, Branduardi, Dalla, Lolli, De Gregori e Venditti, Rocchi, Tenco, Endrigo, Lauzi e su di lì non hanno nulla da invidiare a quelli di cui abbiamo parlato. E che la struttura testuale dei Dylan e dei Cohen va in ogni caso rimeditata e adattata a ritmo e lingua, e questo è lo sforzo anche creativo richiesto ad addetti ai lavori che abbiano a cuore il rispetto per l’opera altrui; ma, comunque siano andate le cose, e nonostante questi travestimenti, proprio dalla seconda metà degli anni ’60 e dall’assunzione di esperienze più mature – ma anche popolari, come si vedrà poi con l’avvento di gruppi e artisti che si rifaranno alle nostre radici etniche – è partita la sana curiosità di mettere a confronto le traduzioni, per poi passare a capire da quale contesto sia iniziata la nuova musica. Molti dei nuovi autori di allora sono in poche parole arrivati sterilizzati e conformati al gusto sanremese, depurati da qualsiasi odore di attualità e di critica sociale. E le prime trasmissioni radio che abbiano parlato di Brassens o di Dylan e della Baez sono del 1967, dopo che erano uscite da tempo le opere-guida di quegli autori. Facciamo un esempio abbastanza conosciuto: «Homburg» dei Procol Harum, uscita nel 1968. Questo gruppo è noto per i suoi testi inquietanti, attraversati da oscurità e piuttosto ermetizzanti, con richiami alla latinità

(già dal nome, che se fosse «procul harum» significherebbe, anche se in modo sintatticamente scorretto, «lungi da queste cose»), e alle visioni ossianiche, oltre che a un espressionismo verbale. La tua compagna d’avventure poliglotta ha fatto le valigie e se ne è andata lasciando solo posaceneri pieni e il letto sfatto sporco di rossetto lo specchio in un riflesso si è arrampicato nuovamente sul muro perché si è accorto che il pavimento era inclinato e il soffitto era troppo alto. L’orologio della città nella piazza del mercato è in attesa dell’ora giusta quando le sue lancette che girano entrambe al contrario si incontreranno tutto verrà divorato se stesse e anche ogni idiota che osa dire l’ora e il sole e la luna andranno in frantumi e i cartelli stradali smetteranno di dare indicazioni. I risvolti dei tuoi pantaloni sono sporchi e le tue scarpe sono allacciate male faresti meglio a toglierti il tuo cappello floscio perché il tuo soprabito è troppo lungo71.

Di tutto questo paesaggio urbano e visionario rimane nella nostra lingua un unico oggetto, il campanile della piazza. Per il resto «Homburg»,con tutta la sua mefistofelica atmosfera d’attesa e di paranoia, diventa una lamentazione d’amore perduto. L’ora che, attraverso le lancette fatali, doveva esprimere l’ansia di distruzione e l’impossibilità di accettare il rapporto con la realtà, diventa «L’ora dell’amore»; la casa del protagonista ha le finestre chiuse ed è priva di luce, la luce che naturalmente ha portato via con sé l’amata: a lei viene diretta la preghiera del ritorno, perché, appunto, si ripeta l’ora dell’amore. Ancora più inquietante è la riduzione dell’emblematico testo di «The Sound of Silence», una lunga ballata risalente al 1966 e inserita nella colonna sonora del film di Mike Nichols «The Graduate» (Il Laureato), che lanciò definitivamente fra il nostro pubblico Dustin Hoffman. La fabula della canzone era una sorta di cammino attraverso un’allucinazione notturna, un lucido, e nello stesso tempo onirico, passaggio in un esasperato inferno urbano, dove la schiavitù complice dell’uomo è totale e il silenzio

padrone dei rapporti umani. Il che è oggi di una attualità sorprendente. A oltre sessant’anni di distanza assume la dimensione della profezia. Il testo esordiva con un singolare, familiare, saluto all’oscurità, e qui è possibile notare uno dei luoghi eccellenti di quella cultura che elegge il buio e l’estraneità come narrazione della propria visione del mondo. Con questo emblematico saluto alla dea dell’oscurità, la notte, il protagonista racconta un sogno che gli ha lasciato i sensi ancora in fermento: nel sogno egli ha camminato per strade strette e acciottolate, alzandosi il bavero per il freddo intenso, fino all’apparizione: Il bagliore di una luce al neon che lacerava la notte e toccò il suono del silenzio72.

Inizia un procedimento visionario non dissimile da quello di «Homburg»; qui però c’è una diversa modalità di evocare uno stato quasi di trance e nello stesso tempo di racconto tradizionalmente inteso: E nella nuda luce vivida vidi diecimila persone, forse anche di più che dicevano parole senza parlare che udivano senza ascoltare che scrivevano canzoni che nessuna voce avrebbe mai cantato e nessuno osava disturbare il suono del silenzio73.

È la visione della non-comunicabilità, della luttuosa atonia in cui sta scendendo l’umanità in attesa acritica – e passiva – delle un tempo magnifiche sorti e progressive. Ma l’io narrante si ribella, la coscienza umana – e sociale – ha un rigurgito estremo di dignità e d’ira, di compassione ma anche di prometeico incitamento alla rivolta: «Folli» gridai io, «Non sapete che il silenzio cresce come un cancro! Udite le parole affinché possa insegnarvi prendete le mie braccia affinché io possa toccarvi» Ma le mie parole come silenti gocce di pioggia caddero ed echeggiarono nei pozzi del silenzio74.

Il silenzio ormai è divenuto l’unica dimensione di una umanità cieca, sorda e muta. Il fallimento della missione del profeta metropolitano, che serba in sé il ricordo arcaico di una umanità viva (qui c’è un segnale del

cambiamento di rapporto fra pubblico e nuovo cantautore in America e in Inghilterra, dove molti artisti assumono, volenti o nolenti, il ruolo di guida di una fascia giovanile alla ricerca di nuovi valori che non siano il consumo e il buon matrimonio) rivela che non ci sono guide, perché le vecchie fedi sono cadute e al loro posto non è cresciuto nulla, se non metropolitane oscure e maleodoranti agglomerati urbani dove l’esistenza sembra senza senso fin dalla nascita: Le parole dei profeti sono scritte sui muri delle metropolitane e negli ingressi dei caseggiati e sussurrano il suono del silenzio75.

Anche qui la versione italiana diventerà una canzonetta d’amor perduto, di lui che ha sbagliato e vuole tornare di corsa da lei, perché, dovunque vada, vede l’immagine dell’amata. Nulla di nuovo sotto il sole. In generale, qualsiasi cosa abbiano detto le traduzioni nostrane, nei testi originali continuava la constatazione di malessere e di difficoltà d’adattamento alla realtà che abbiamo notato nella poetica dei primi cantautori, attenti alle profondità dell’io e al sociale. Tenendo conto però delle diversità dettate dalle tradizioni culturali: Guthrie, Dylan, Baez, Cohen, Donovan sono influenzati dalle folk-song, dai canti di strada, dal talkin’ blues e dalla ballata popolare di trasmissione orale; Aznavour (il primo), Brassens, Brel, Ferré, Trenet, Béart vengono invece dalla cultura dei ritrovi e dei club in cui regnavano la denuncia e l’ironia sui benpensanti e sul fariseismo imperante, tradizione fatta propria dalla temperie esistenzialista e dal circolo di Saint-Germain-des-Prés, dal contatto, fisico o mediato dalle letture e dalle discussioni, con Sartre, Camus, Prévert, Simone de Beauvoir e altri. Differenze anche di caratteri, con un Ferré chiuso nel suo rifiuto (a parte qualche apparizione anche nelle nostre televisioni) di questo sistema, fedele alle sue ragioni iniziali, con un Dylan arroccato in un roccioso privato ma anche propenso a riverniciare la sua facciata con conversioni elettriche e con la partecipazione ai concerti oceanici (come all’isola di Wight), ma sempre dall’alto della sua figura di padre putativo della generazione (soprattutto musicale) off. E con un Brel che, ora che la sua odissea è conclusa, acquista sempre più i colori di un Rimbaud moderno, con il quale

ha in comune l’ambigua dimensione del silenzio; una scelta dettata forse dalla responsabilità di portare alle estreme conseguenze un imperativo morale e una intuizione di fallimento e di inutilità del proprio compito. Ma Brel non è stato – e non sarà – l’unico a scegliere il silenzio, anche perché gli autori più sensibili sanno che l’ispirazione vera non può essere soggetta alle scadenze annuali della discografia. Note 71 K. Reid – G. Brooker, «Homburg», 45 giri IL (distribuito da RCA), 1968; brano non incluso in Lp ufficiali del gruppo pubblicati in Italia; soltanto nel 1976 viene inserito nell’album The Best of early Procol Harum, RCA. Traduzione mia. 72 P. Simon – A. Garfunkel, «Sounds of Silence» (poi trasformato in «The Sound of Silence»), singolo uscito nel 1965 per la Columbia Records, poi Lp CBS, 1966, successivamente inserito in Greatest hits, Lp CBS, 1972. Traduzione mia. 73 Ivi. 74 Ivi. 75 Ivi.

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Timore e tremore

Animali, fiabe, fiere La coscienza di instabilità e di non adattamento di parte delle nuove generazioni autoriali (quelle che investono una fascia di tempo che va dalla fine del ’50 ai primi del ’70) ha radici profonde. Dal versante culturale emerge, lo abbiamo già notato, una tendenza a contaminare i testi con suggestioni baudelairiane e rimbaudiane, ma anche con immagini prese in prestito da Poe o Masters o dalla componente romantico-ossianica. Quest’ultima avrà un periodo di larga diffusione legata però non a cantautori ma a gruppi rock che poi daranno origine all’heavy metal e al dark: Black Sabbath, Uriah Heep, ma anche formazioni che risentivano di suggestioni più articolate, provenienti dal jazz come dalla mitologia nordica, dalla atonalità fino al recupero del blues elettrico, come pure dall’improvvisazione, dalla sperimentazione, dall’elettronica e dalle ascendenze orientali. I Colosseum, sul versante più «tradizionale» delle riprese jazz e rock, ma, più sperimentalmente – e ironicamente –, Mothers of invention, e poi King Crimson, fra i più conosciuti, e, in Germania, Amon Düül II, Tangerine Dream, Popol Vuh: si accentuò l’uso di sintetizzatori molto sofisticati, mellotron, moog, percussioni tradizionali e non, effetti vari, ma anche il lento articolarsi di una direzione musicale e culturale che andava oltre l’Europa e si avvicinava alle culture amerinde, orientali, alla ricerca di radici più lontane. Era un modo per drenare nell’irrazionale, nel lontano, nelle radici e nel mistero, quell’ansia di cambiamento di cui si verificava già la crisi, tentandone l’esorcizzazione non più e non solo nella sfera politica latu

sensu e nel mondo del sociale, ma nel regno dei Re Cremisi o nelle Regine Zingare, quando non nelle cosmografie arcaiche o nei sottosuoli delle sostanze acide o della dimenticanza di sé. La musica diventa uno stimolo nuovo e un tramite per una ricerca delle terre favolose, di visioni che andassero oltre le percezioni ammesse nella vulgata contemporanea. Esperienze che lentamente, dal blando pacifismo o da un comunitarismo vissuto in prima persona, portò al vagheggiamento di regni ultraterreni o a visioni, anche attraverso l’uso di nuove-vecchie sostanze, per attingere a fonti di conoscenza altre. Per quanto riguarda i cantautori, il discorso è – in parte – diverso. Vi sono collegamenti con la tradizione colta del vagheggiamento delle ingenuità e della purezza perduta, o con l’intenzionalità satireggiante e pungente, con l’uso del mondo fiabesco a fini ideologici e trasgressivi. Il già citato Rimbaud paragonava se stesso a un personaggio di favola, a metà strada com’era fra l’infanzia sognante e la giovinezza: «Negli ultimi calzoni / avevo un largo squarcio. / Pollicino sognante, spargevo nel mio errare / rime»76. Già si prefigurava la scelta del viaggio nel suo tentativo di sfuggire alla logica – e al sonno – d’occidente, sulle orme di Villon e dei trovatori provenzali (alcuni dei quali erano nobili), ma anche dei vagabondi senza dimora o dei giullari, riproponendo così nella modernità letteraria una singolare figura che diventerà il nuovo progetto poetico del cantore di strada. E gli effetti di questa fascinazione saranno ben presenti nella musica d’autore da metà anni ’50 in poi: «Vecchio Frack» di Modugno, «Un cavallo bianco» di Ricky Gianco, «Io vagabondo» dei Nomadi e, per restare in tema, anche se molti anni dopo, «Nomadi» di Franco Battiato: solo per fare pochi esempi. La scelta dell’oltre riguarda anche l’amore, così come esso si è concretizzato nel costume d’occidente. Laforgue sintetizzava in chiave sorniona e ironica la favola di Pan e Siringa, in un’epoca in cui si offriva una interpretazione già estenuata e aristocraticamente annoiata dei miti agresti (vedi il Fauno di Mallarmé ripreso dall’impressionismo di Debussy): Presto bisogna dormire nell’oblio dell’empietà, sulla sabbia assetata giacente e come mi piace aprire la bocca al possente astro dei vini! Addio, coppia, sto per vedere l’ombra che tu divenisti77.

Un atteggiamento ormai critico verso quell’istituzione divenuta, da sogno d’amore cantato da trovatori e poeti dell’età di mezzo, nella prospettiva delle avanguardie e delle élite del tempo, un semplice ingranaggio nel meccanismo sociale. Nei cantautori come Béart, la favola è vista come tentativo di recupero, insieme ironico e disperato, del rapporto di coppia: un ritorno alle suggestioni di un racconto malinconico che isoli dalla realtà i due amanti, e ne conservi le potenzialità creative e fantastiche, con Gatti con gli stivali che tornano a fare la corte alle signore e con Cenerentole cenciose che riprendono le umili faccende domestiche. Non c’è nulla da fare, nonostante le maledizioni, le dichiarazioni di fallimento: il sogno d’amore continua anche nei malinconici scenari esistenzialisti, si ricercano le scaturigini della favola della coppia, i sogni da essa generati e che in lei ritornano a morire attraverso i millenni. Le variazioni sono finalizzate alla conservazione di quel mito, e accanto a Béart che accarezza l’attimo che illumina il cuore, leggendovi storie incredibili e tensioni irripetibili, ecco un Dylan dalla doppia lettura simbolica: l’attesa dell’amore e gli ostacoli posti non solo dal venir meno del sentimento, ma dalle rigide leggi della società dello pseudo-benessere. In alcuni esiti le due componenti si confondono e intrecciano, lasciando una inquietante sensazione di provvisorietà, quasi di antica caduta, che lo avvicinano ad alcuni esiti della poesia anglosassone, a Poe, soprattutto, come vedremo più avanti. Per ora occupiamoci di alcuni versi di «Sad-Eyed Lady of the Lowlands» (Signora delle vallate dagli occhi tristi) di Bob Dylan, pubblicata nel doppio album del 1966 Blonde on Blonde: Con le tue lenzuola come metallo e la tua cintura di merletto e il tuo mazzo di carte senza il fante e l’asso e i tuoi vestiti di cantina e il tuo volto scavato chi di loro mai penserebbe di ingannarti Con il tuo profilo quando la luce del sole si abbassa nei tuoi occhi dove nuota la luna e le tue canzoni di brandelli di carta e i tuoi inni gitani chi tra di loro cercherebbe di impressionarti I re di Tiro con le loro liste di prigionieri fanno la fila per il loro bacio di geranio e tu non potevi sapere che sarebbe finita così ma chi tra di loro veramente vuole solo baciarti con le tue fiamme di infanzia e il tuo tappeto di mezzanotte78.

Qui più che altrove la motivazione mitologica e favolistica si confonde con una ancora oscura istanza di liberazione dalle catene del conformismo e del materialismo. La particolare visionarietà di Dylan nasce dalla necessità di intessere un rapporto diverso con le cose e con le persone donando nuova attenzione agli oggetti usuali e scatenandone le capacità di nuova rivelazione. Nella visione deterministica, lo sguardo su quelle stesse cose assume solo i caratteri di una ossessionante fissità ma, nel caso di Dylan, esso crea un’aurorale intesa, senza parole e regole, con l’inanimato e con il mito. Le cinture di merletto, i fanti e gli assi, gli zingari, i re e le regine, le file di prigionieri, i tappeti e le mezzanotti magiche sono modi attraverso i quali passare oltre le apparenze per trovare nuove dimensioni di senso. Abbiamo citato Poe: in alcune canzoni di Dylan è presente l’elemento notturno e inquietante, ma anche il gioco dell’assenza-presenza, della morte, apparente e non, che derivano anche dal retaggio dello scrittore. Ricordiamoci del «Corvo» e della singolare struttura della poesia, dove alla monotona risposta dell’uccello fa riscontro una incalzante visione interiore che sfocerà poi nell’abbandono finale e nello sconforto: E il Corvo, senza muovere una piuma, posa ancora, posa ancora sul pallido busto di Pallade alto sopra la mia porta; e i suoi occhi sembrano quelli di un demonio in preda ai sogni e la luce che l’inonda ne riflette l’ombra in terra; e l’anima mia da quell’ombra che fluttua distesa per terra non si leverà, mai più!79

Singolare, pur nella sua arcaica tradizione, intreccio di amore e morte, ancora una volta, nuovo per stile (anche se si intravede un debito verso Coleridge) che non è passato inosservato in Baudelaire e altri, tra crepuscolari e scapigliati. In Dylan l’elemento «notturno» è a dire il vero piuttosto marginale, con episodi legati a tutto un sistema di rimandi culturali e di suggestioni, dove favola e racconto inquietante, biografia e visioni allucinate si rincorrono: La cappa e la spada ondeggiano le Signore accendono le candele Nelle cerimonie dei cavalieri anche la pedina diventa invidiosa Statue di fiammiferi crollano una dentro l’altra Il mio amore sorride non se ne cura

capisce troppo per discutere o giudicare. Il castello a mezzanotte trema il medico di campagna va per la sua strada Le nipoti dei banchieri cercano la perfezione accettano tutti i doni che uomini saggi portano Il vento urla martellante la notte soffia piovosa Il mio amore è come un corvo alla mia finestra con un’ala spezzata80.

Favola che (ri)diventa espressione individuale, e che unisce parte dei primi cantautori di lingua inglese: forse perché più forte è nella tradizione celtica e sassone il richiamo alle saghe e alle leggende che, invece, nella canzone francese, lasciano il posto al senso di vuoto che l’esistenzialismo coglie nella ricerca angosciosa di una libertà di cui si intravede tragicamente l’inesistenza o l’inutilità; almeno in alcuni casi (il cui correlativo narrativo può essere esemplato in certe atmosfere di Patrick Modiano), anche se altri hanno indicato, talvolta ambiguamente, altre vie: a partire da Rimbaud, e molto prima, dai giullari vaganti nelle corti e nelle piazze, attraverso il mito del viaggio senza apparente meta. Dylan riprende Seeger e Guthrie, divenendo l’incarnazione (in cui è evidente l’influenza della «rinascenza» americana, soprattutto di Whitman e poi della beat generation, in primis Corso e Kerouac) del romantico vagabondo alla ricerca di una dimensione più autentica, solidale con i senza fissa dimora che salgono su qualunque treno per qualunque meta; ma se vogliamo rimanere nel campo delle fiabe cantate, Peter Paul & Mary forniscono alle loro ballate un soffice tappeto vocale e armonico con cui tessere le favole di magici dragoni o di partenze verso un lavoro lontano e difficile; Joan Baez racconta la leggenda di Geordie e Donovan, con la «Stagione della Strega» e non solo, rievoca antiche ballate agresti e legate a un mondo scomparso. Più tardi assisteremo a una fioritura di gruppi (Fairport Convention, Steeley Span, Pentangle, Albion Country Band, Chieftains e gli elisabettiani Amazing Blondel) che si dedicheranno alla rielaborazione, più o meno fedele, di temi popolari e tradizionali. Nei cantautori si trova spesso questa tendenza alla favolistica soggettiva, che a volte non incarna solo nostalgia o evasione: è il caso della più volte citata collaborazione tra Roversi e Dalla che, in quel caposaldo della canzone italiana che è Anidride Solforosa, affronta il tema della leggenda

con «Merlino e l’ombra». Qui il personaggio non è rivissuto con intenti dichiaratamente ostili o rielaborativi: nel motivo regna una atmosfera divertita, una favola nella favola. Il recupero della mitologia non avviene come altrove con lo scavo filologico o il rimando sociale attraverso magari una risentita modalità contestativa: C’era una volta un uomo forte che si chiamava Merlino, andava in giro nel mondo per giocare con la morte81.

Già qui si prefigura la particolare intenzione dell’autore: Merlino non è più il gran veglio, il mago incantatore, una figura cristallizzata e definita una volta per tutte, ma è l’uomo continuamente sul filo. Debito classico di tutto un cantautorato illustre che si auto-analizza e talvolta si denigra: De Gregori («Arlecchino», «Piano bar»), De André («Giugno ’73»), Guccini («L’avvelenata», «Piccola città»), Lolli («Primo Maggio»), Gaber («L’asse di equilibrio»), ma anche fuori d’Italia, da Dylan a Ferré a Brel. Merlino è dunque rinato e per (ri)vivere deve continuamente sfiorare la morte; sappiamo che questo vuol dire ricercare le proprie ragioni anche nel negativo e sappiamo anche come questo rimandi a un vivere-per-la-morte elaborato da gran parte di un ceto intellettuale impregnato di negatività esistenziale o, come canteranno, molti anni più tardi, i Pink Floyd di «Time», alla ricerca di qualcuno o qualcosa che indichi una via. Merlino dunque va in giro a giocarsi la pelle (o l’anima?) con la morte, o semplicemente a giocare, che è l’accettazione di questa dualità, la quale, a sua volta, impone un doppio come maschera, che entra nella casa dove avverrà lo scontro, l’ennesimo: Merlino entra con il suo cane e sente una voce parlare forte – mentre tranquillo mangiava il pane – «voglio giocare con la tua sorte e scendo adagio da questo camino». Ma Merlino senza paura chiede ridendo se può aspettare82.

L’antico mago non ha paura delle ombre, perché si trova a combattere su un terreno già suo, ed è preparato ad affrontare le forme insinuanti del

demoniaco. Mangia con calma perché non può essere scosso dai trucchi del mestiere. Ma le forze che il mago ha accumulato nella ricerca e nell’esperienza non servono, perché alla mattina il sole appare Merlino vuole partire; apre felice le porte fa un passo appena vede su un fiore la sua ombra che si dimena e per la paura muore83.

La notte è finita, e con essa le paure ancestrali. Resta il sole, la luce del giorno che colpisce là dove troppo ci si è affidati alla presunta conoscenza del notturno. Il capovolgimento dei luoghi comuni del mito è evidente. Vedremo più avanti come una precisa mitologia ulissiaca abbia sempre attraversato l’operazione di Lucio Dalla, con o senza Roversi. Anche in altre esperienze il riferimento fiabesco o mitico è presente, in forma esplicita o mediato dalla cultura e dall’esperienza dell’autore. Ad esempio Roberto Vecchioni, che incarna una particolare dimensione della nuova canzone (se per nuova si intende quella post anni ’60) italiana. Fino alla prima metà del secolo, infatti, il cantante era un corpo separato dall’autore: la dimensione vocale-melodica prevaleva come espressione canonica e staccata dai contenuti. Ora invece una coscienza più sensibile alle problematiche sociali ed esistenziali rende operative le esperienze e l’ideologia – in senso lato – dell’artista anche a livello testuale. Alcuni propongono le situazioni, le sensazioni, i sogni, la dura realtà senza innalzarsi a profeti. Vecchioni rappresenta quel gruppo di artisti che esprimono una cultura, a usare schemi tradizionali, «alta», non appartenente al mondo della canzonetta usa e getta buona per la stagione estiva. Abbiamo visto come questi nuovi menestrelli vedano in Rimbaud un demone protettore, e non a caso proprio Vecchioni gli ha dedicato una canzone. Ma il cantautore-professore ha anche evidenziato un gusto inventivo o semplicemente rielaborativo che lo ha portato alla costruzione di storie dominate da atmosfere fiabesche: Sette cavalieri sette finte giacche finte come i loro sette pensieri

suona falso il corno falso pure il liocorno e di vero forse solo la volpe vanno verso il ponte vanno all’orizzonte d’illusione fieri come guerrieri84.

Altrove, il senso del Viaggio, sempre presente nei toni favolistici di Vecchioni, emerge come catarsi rovesciata, in una dimensione di mitologia immanente, di disperata volontà di esperienza totale e risolutrice: Dai dottori di Smirne ho imparato il triangolo e il libro della vita scorreva piano fra le dita; coi mercanti di Tebe ho giocato tutti i sensi di scacchi e di pedine coi chicchi bianchi e le palline; e dai profughi celti ho visto segni per capire le stelle e aprire un velo e far salire menhir al cielo85.

Sembra di intravedere quasi un tentativo, se non di separazione, di rivisitazione archetipica, di distacco da un’arché originaria consolidatasi in tradizione: da questa tradizione ci si è allontanati, forse a ragione, ma la sua nostalgia è ancora operante, fa difficoltà a essere rimossa, si confonde con l’andare oltre, con la trasgressività finanche del materialismo «progressista». E il circolo si chiude, ritorna su sé stesso. E il mio vecchio che sa la verità guarda il tramonto dalla collina, da qualche punto lontano suo figlio tornerà86.

Nel testo di Vecchioni è presente, anche solo come ipotesi di suggestione culturale, un motivo comune alla poetica di Lautréamont e di Rimbaud; la trasgressione. Una trasgressione che se da una parte offre nuove e inaudite visioni, dall’altra può spingere alla follia. O alla nausea del ritorno ad un oggi senza sogni e senza progetti. Per rifondare una nuova antropologia della storia occorre distruggere la dimensione farisaica, banalizzante, che svaluta la ricerca e il sogno come chimere di folli. Una parte della poesia – non solo moderna – e della canzone d’autore ripercorre la strada di una cultura alternativa, non in senso ideologico e politico, ma individuale,

tentando di sondare la voragine dalla quale l’uomo si tiene prudentemente lontano: Egli si mise a sorridere sotto i colpi, e parlò loro con tale sentimento, tale intelligenza su molte scienze umane da lui studiate, rivelando grande istruzione in chi non aveva ancora varcato la soglia della giovinezza, e sui destini dell’umanità, e svelò interamente la nobiltà poetica del suo animo, che i suoi guardiani, per il raccapriccio dell’azione commessa, si trascinarono ai suoi ginocchi chiedendo un perdono che venne accordato, e si allontanarono, con i segni di una venerazione che di solito non si accorda con gli uomini87.

Una lettura unicamente mitopoietica risulterebbe insufficiente per comprendere storicamente la posizione di un isolato come Isidore Lucien Ducasse, alias Lautréamont: in lui convergono il mito dell’ermafrodita come archetipo e tensione alla riunificazione, la letteratura misticheggiante romantica, il desiderio di riavvicinarsi a una antica rivelazione. Nella struttura stessa del brano e nel suo contenuto è facile notare l’emergere della crisi della poesia come allora era intesa e strutturata, che nelle menti più sensibili diventò in breve la crisi della cultura stessa. Erano gli anni, come abbiamo già visto nei capitoli precedenti, di Rimbaud e della scelta di nuovi lidi lontano dal sazio occidente. Ma ci fu anche chi aveva tentato la continuazione del viaggio attraverso la notte e aveva dovuto, come Hölderlin o von Kleist, – e un secolo dopo Dino Campana –, confrontarsi con il rischio del non-senso che si annidava nelle inquiete domande dei giovani romantici. Anche quello di Lautréamont è stato un viaggio attraverso la notte, in questo caso interrotto tragicamente e in circostanze ancora avvolte nel mistero. Negli stessi anni della fine della sua parabola esistenziale (24 novembre 1870) e all’inizio del viaggio oltre di Rimbaud si collocano due dei documenti più sconvolgenti della crisi di identità dell’uomo post-illuminista, e nello stesso tempo tentativi di proiezione in avanti di un progetto umano e poetico: la lettera detta del Veggente di Arthur Rimbaud, datata 15 maggio 1871, e I canti di Maldoror editi, a fatica, proprio da Lautréamont tra il 1868 e il 1869. Apparentemente l’autore dei Canti rappresenta la negazione assoluta. Rimbaud è il progetto bruciante e visionario, che risale dall’oceano di una umanità dimenticata, che ora sembra confermare la validità della rivolta di Maldoror. L’umanità non ha salvezza dal non senso se non nel recupero della visione, nel farsi medesimo di un’esistenza a contatto con la natura e lontana dalle convenzioni borghesi; l’artista deve essere già oltre lo

sbadiglio di una vita senza senso, e nello stesso tempo deve tracciare una strada ai pochi altri che vorranno provare a seguirlo: «Egli – scrive Rimbaud – giunge all’ignoto, e quand’anche, smarrito, finisce col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrà pur viste!»88. Come si vede, il senso di sradicamento si annida soprattutto in scrittori precoci e destinati a una breve e intensa fiammata come Ducasse e Rimbaud; quando, un secolo dopo arriverà il momento del viaggio anche nella canzone d’autore, esso sarà cantato e dai profeti urbani come Dylan e prima ancora Woody Guthrie o dal talkin’ blues, poi, nel nostro paese, da giovani leve che iniziavano il loro percorso dalla metà dei ’70 del Novecento, come nel caso di Branduardi: in lui il richiamo a tradizioni celtiche o ebraiche è evidente ed esplicitato; se analizziamo uno dei testi (che sono per la gran parte scritti dalla – o assieme alla – moglie Luisa Zappa) dedicati al viaggio possiamo isolare alcuni motivi: Se viene la sera compagno non avrai, da solo farai la tua strada… e allora la prima sarà la faina, verrà per portarti paura. Se non la fuggirai, sorella ti sarà, è lei che davvero conosce l’ordine segreto che il fiume conduce, per il tuo passo il sentiero sicuro89.

Oltre la ripresa dantesca, lo smarrimento nella sera appartiene a una tradizione radicata nella favolistica di ogni tempo, come anche l’apparizione della figura della fiera. Essa acquista qui un carattere di parziale rovesciamento, poiché il simbolismo sottointeso alla composizione implica una presenza benefica: Se viene la sera compagno non avrai, da solo farai la tua strada… sarà solo allora che da te verrà il lupo, verrà per portarti paura90.

Se la faina esempla la scaltrezza rapida e aggressiva, la preveggenza utilitaristica, il lupo potrebbe riempire interi tomi di attribuzioni, con una ulteriore lettura mitica e psicoanalitica. Lupo come trasferimento dei caratteri più ancestrali della sessualità, per esempio in Fromm; nell’analisi

della favola di Cappuccetto Rosso lo studioso tedesco scrive: La maggior parte del simbolismo contenuto in questa favola può essere compreso senza difficoltà. Il «Cappuccetto di velluto rosso» è un simbolo delle mestruazioni. La ragazzina di cui ascoltiamo le avventure è diventata una donna matura e si trova ora di fronte al problema del sesso. L’ammonimento di «non allontanarsi dal sentiero» per non «cadere e rompere la bottiglia» è un chiaro ammonimento contro i pericoli del sesso e contro quelli di perdere la propria verginità. L’appetito sessuale del lupo è risvegliato dalla vista della ragazzina: cerca di sedurla suggerendole di «guardarsi intorno e di ascoltare il dolce canto degli uccellini». Cappuccetto Rosso «alza gli occhi» e, seguendo il consiglio del lupo, si addentra sempre più nel bosco […] Ma questa deviazione dalla retta via è severamente punita91.

È evidente che Fromm risente della esegesi freudiana, anche se si sforza di andare oltre: [Freud] non è affatto – come spesso erroneamente definito – l’esponente della «atmosfera frivolosessuale e immorale di Vienna», ma al contrario un puritano che poteva scrivere così liberamente sul sesso e sull’amore proprio perché li aveva collocati in un erbario. La sua interpretazione tende a occultare proprio questo conflitto, spiegando erroneamente il significato del sogno92.

Fromm poi aggiunge: «Nel mito, come nel sogno, gli impulsi primitivi non vengono espressi apertamente ma sono mascherati»93. Allora, lettura alla Rousseau dell’incontro animalesco come spoliazione dalle vesti urbane e civili e accettazione delle radici più profonde rispetto alle false convenzioni civili? In parte sì, se è vero, come anche noi pensiamo, che questo testo voglia significare anche una tendenza all’archetipo, a un modello mitico sentito come perduto e rimpianto. Infatti, più avanti, l’ultima strofa della canzone di Branduardi conclude: Seguendo la via che va verso il lago, tu troverai la sorgente, ritroverai la collina dei giochi, e là tu deponi il tuo cuore94.

Memoria come salvezza dal tempo Di qui passa un’altra suggestione comune e diffusa, sia in poesia che nel mondo della canzone: quella del rifugio, del riparo dal mondo, dalle sue brutture e quindi della sua realtà; una tendenza talmente connaturata, sotto diverse valenze e suggestioni, nello spirito umano, con segni diversi a seconda dei tempi e della personalità, che è difficile isolarla come

componente unicamente negativa e reazionaria, come si sarebbe detto tempo fa: si pensi a episodi così diversi tra loro come la poesia dantesca delle Rime, o di una parte della Vita Nuova, e nella pittura, alla «Natività mistica» di Botticelli; nel sonetto «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io», risalente al periodo giovanile, Dante augurava per se stesso e per i suoi amici e sodali nel credo poetico-amoroso, Guido Cavalcanti e Lapo Gianni, il dono dell’hortus conclusus, di una dimensione fatata, esclusiva, che segnasse la concretizzazione del sogno di superiorità – o semplicemente alterità, rispetto allo spirito commerciale del tempo – morale della loro ristretta cerchia: nobiltà come animo e non come nascita. Una proiezione in una dimensione mitica in cui amicizia e amori cortesi, nobiltà d’animo e posizione sociale coincidessero. Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento, e messi in un vasel ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio, sì che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento, di stare insieme crescesse ’l disio95.

Su questo accento di velata malinconia per un destino che già si avverte carico di divisione e discordia, e su questa richiesta di gratificazione nella fantasia e nella poesia come ricreatrici dell’idea archetipica, sembra modellata, sei secoli dopo, una canzone del Bob Dylan primitivo, quello più sensibile al fascino della strada: Mentre viaggiavo su un treno verso ovest mi addormentai per riposarmi un poco feci un sogno che mi rese triste su di me e i pochi amici di un tempo. […] Cuori affamati nel caldo e nel freddo non pensammo mai che saremmo molto invecchiati pensavamo di poter restare insieme allegri per sempre e le nostre possibilità invece erano una su un milione96.

Qui, a distanza di seicento anni, regnano fatalismo e rassegnazione, un senso rafforzato da anni di illusioni e disillusioni, non solo individuali, dalla

guerra fredda e da alcuni esiti delle avanguardie, dall’impatto con la realtà della città già codificato in Poe e Baudelaire. La mitologia hobo, dell’amicizia on the road fatta di cameratismo e rifiuto di un futuro pianificato e consegnato ai riti del perbenismo borghese, già qui, come accade in Dante, si avvicina ad alcuni caratteri «chiusi» e latamente aristocratici che abbiamo visto ricorrere nelle varie poetiche attraverso i secoli. E in effetti in «Bob Dylan’s Dream» la sostanziale non adattabilità a canoni rituali borghesi porta alla scelta del viaggio ma anche a una coscienza di isolamento e di nostalgia di una stagione perduta per sempre. Un paradiso ormai abbandonato e diventato mito personale: vorrei vorrei vorrei invano che potessimo di nuovo essere insieme in quella stanza diecimila dollari al cadere di un cappello darei volentieri se la nostra vita potesse ritornare così97.

Un sogno aristocratico di amicizia eletta e irripetibile, nato all’interno di una situazione storica di precario equilibrio fra nuova borghesia e nobiltà in declino in Dante: e quivi ragionar sempre d’amore, e ciascuna di lor [le tre donne citate nel componimento] fosse contenta sì come i’ credo che saremmo noi98.

Ci siamo così resi conto come in tutta la storia della letteratura sia presente una componente non solo nostalgica, ma di sfiducia nel presente, di reazione e di proiezione in un mondo altro. Abbiamo citato, a questo proposito, in un campo che esula dalla nostra trattazione, la «Natività mistica» di Botticelli, che vede la luce alle soglie del ’500 fiorentino. In un tempo che sta per consacrare alla storia i nomi di Leonardo e Michelangelo, di uno studio naturalistico e documentato del vero, del corpo e dei suoi meccanismi, Botticelli, sconvolto dalla predicazione, e poi dalla tragedia, di Savonarola e affascinato dalla sua dottrina palingenetica, «risponderà più tardi, corrucciato e sfiduciato, con la “Natività mistica”, apocalittica e reazionaria, nel 1501: l’anno in cui Leonardo tornerà da Milano già carico di gloria e portando a Firenze una nuova pittura»99. Perché citare un’operazione tecnicamente così lontana dai canoni della nostra trattazione? Perché è essa stessa, appunto, poetica, espressione di una coscienza turbata e inquieta, che tornava apparentemente indietro, rifiutando la tecnica e la

stessa idea della mìmesis: l’imitazione dell’esistente. E in effetti qui la mìmesis, come raffigurazione del qui e dell’ora, è abbandonata. In questo Argan ha ragione: è un’opera reazionaria perché sposta indietro gli equilibri artistici raggiunti, frutto di studio e di ricerca scientifici nello sforzo di rappresentare realisticamente il mondo. Piero della Francesca e Paolo Uccello sembrano non esserci mai stati. È appunto l’opera che condensa esemplarmente, quasi in vitro, la componente nostalgica e idealizzante presente nella storia. Così come Dante sogna, ma ne sconta già la fine, l’esemplazione al di là del tempo della corte comunale e dei suoi ideali che guardavano anche indietro, così anche Alessandro Filipepi impone alla sua opera una brusca frenata, anzi, una direzione contraria: la prospettiva lascia il posto anche qui al rimpianto di simboli eterni e non più soggetti alle leggi dell’accadere. In Dante a essere rimpianto era l’hortus conclusus, il giardino paradisiaco e però perduto dell’amicizia, in Dylan sarà l’incontro on the road, al di qua degli ideali borghesi di accumulazione e affermazione economica. Non siamo, in questo caso, così lontani non solo dal maestro Guthrie, ma anche dai precursori dell’avventura del ritorno alla natura come Emerson, Whitman e soprattutto Thoreau. Note 76 A. Rimbaud, «La mia Bohème», in Opere, cit., p. 77. 77 S. Mallarmè, «L’Apres-midi d’un faune», in Tutte le poesie, Newton Compton, 1974, p. 141. Traduzione di M. Grillandi. 78 B. Dylan, «Sad-Eyed Lady of Lowlands», in Blues, ballate e canzoni, cit., p. 229. 79 E. A. Poe, «The Raven», in Tutti i racconti e le poesie, Gherardo Casini Editore, 1953, p. 1126. 80 B. Dylan, «Love Minus Zero/No Limit», in Blues, ballate e canzoni, cit., p. 143. 81 L. Dalla – R. Roversi, «Merlino e l’ombra», in Anidride Solforosa, cit. 82 Ivi. 83 Ivi. 84 R. Vecchioni, «Sette meno uno», in Calabuig, stranamore e altri incidenti, Lp Philips, 1978. 85 R. Vecchioni, «L’estraneo», ivi. 86 Ivi. 87 Lautréamont, Tutte le poesie, Newton Compton, 1978, pp. 113-115. 88 A. Rimbaud, Lettera a Paul Demeny del 15 maggio 1871, in Opere, cit., p. 143. 89 A. Branduardi, «Il Funerale», in Alla Fiera dell’Est, Lp Polydor, 1976. 90 Ivi. 91 E. Fromm, Il linguaggio dimenticato, Garzanti, 1977, p. 228.

92 Ivi, p. 91. 93 Ivi, p. 92. 94 A. Branduardi, «Il Funerale», cit. 95 Dante, «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io», in Vita Nuova. Rime, Mursia, 1973, p. 99. 96 B. Dylan, «Bob Dylan’s Dream», in Blues, ballate e canzoni, cit., p. 55. 97 Ivi. 98 Dante, «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io», cit. 99 G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, vol. II, Sansoni, 1975, p. 267.

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Mito e quotidiano

La fiaba è separata dalla realtà: sarebbe meglio dire che ha un codice perfettamente autonomo e da questa autonomia trae la sua forma e il suo fascino. Il fantastico nei suoi contorni sempre si confonde con la vita vissuta, sempre si fa riferimento o la «ricorda». Si è visto quanto il fantastico sia l’ingresso violento dell’individuo nella favola piuttosto che l’ingresso di questa nella realtà100.

Così scrive Alberto Abruzzese nel suo saggio sulla letteratura del fantastico, ricordando come, nonostante gli statuti separati, l’irruzione nel mondo fiabesco non sia sempre foriera di pacifica saggezza. Spesso incarna la coscienza della propria incapacità di vivere la realtà. Già nei primi poeti monodici greci era possibile individuare una coscienza di non adeguamento: È oscuro e non si intende l’Uno che assomma, termine fisso d’eterno consiglio101.

Su una base simile opererà tutta una letteratura che dell’inadeguatezza esistenziale farà oggetto di poesia alla ricerca di segnali a volte contraddittori e incomprensibili di un mito visto come estremo tentativo di salvezza dal non senso. Nell’età romantica, dopo che il vagheggiamento mitologico era intanto divenuto stanca applicazione di luoghi deputati, Hölderlin ha lasciato un segno profondo di questa tendenza: Numi fuggiti! Anche voi, voi presenti, allora più veri, ormai remoto è il nostro tempo

oppure l’amore d’immortalità è la proprietà, come nostra, anche di un Dio,

o, ancora, Che è la nostra vita degli uomini? Un’immagine della divinità102.

Il rimpianto del mito diviene individuale constatazione di separazione e sradicamento: Al sicomoro il mio Achille mi è morto, e Aiace è steso lungo le grotte del mare, e i ruscelli vicino allo Scamandro. Un tempo soffio alle tempie, secondo la ferma consuetudine dell’immobile Salamina, in terra straniera, grande Aiace è morto, ma Patroclo nelle armi del re. E sono morti anche altri molti103.

La vita appare al poeta come constatazione di una antica assenza e perciò disperante nostalgia: l’adeguamento è fallito, il poeta, estraneo alla polis, si avvicina ai cieli di una mitologia che ad alcuni è apparsa reazionaria, ad altri ricca di presagi e stimoli per il futuro. Temi che poi diverranno motivi di una parte della canzone d’autore: la visione, la volontà di toccare l’essenza della realtà in un attimo assoluto. Ma assoluto in alcuni casi si rovescia in mortale, per l’eccessiva e pericolosa vicinanza con la fascinazione dell’avventura umana, anche a rischio della condivisione del fallimento in un universo dove regna sovrana la razionalità: Ad un processo per amore baciò le bocche dei giurati e ai loro sguardi imbarazzati rispose «Adesso è più normale adesso è meglio, adesso è giusto, giusto, è giusto che io vada». Ed i giurati lo seguirono a bocca aperta lo seguirono sulla sua cattiva strada. E quando poi sparì del tutto a chi diceva «È stato un male» a chi diceva «È stato un bene» raccomandò «Non vi conviene venir con me dovunque vada. Ma c’è amore un po’ per tutti e tutti quanti hanno un amore sulla cattiva strada»104.

In questo caso De André interpreta l’aspirazione alla rottura, alla sublimazione trasgressiva di situazioni quotidiane, al riconoscimento – anche attraverso il male – di valori diversi da quelli dominanti. L’elezione a mito può avvenire con diverse modalità: si può assumere un mito ormai tramandato nei secoli, o ricavare da una situazione, da un personaggio, o da sé stessi, potenzialità di ri-creazione mitica, come in Laforgue: Io troverò bello e puro soltanto ciò che immagino e ciò di cui mi ricordo – ciò che può accadere e ciò che è stato. Mi sento come un Ariele al di sopra del presente – e così con la donna e così con tutto il resto. Chi mai getterà un ponte fra il mio cuore e il Presente?105

Inizia un affascinante viaggio a ritroso nella memoria, non solo quella volontaria: il presente è uno sguardo sulla mediocrità, e si guarda al passato come una dimensione eletta, una possibilità di redenzione. Huysmans, Proust, Laforgue, Mallarmé, lo stesso Rimbaud che ritrova e scatena nuovi poteri nel linguaggio, Hölderlin, Campana, sono solo alcuni fra i nomi di generazioni poetiche sensibili a un fascino che attraversa i secoli, e che testimonia la sua persistenza con frammenti di linguaggio talvolta oscuri, in cui la caduta è ancora trattenuta, anche se talvolta favorita, dalla mistica del canto orfico. Ma, sembrerà strano ai conservatori e ai puristi, anche la canzone d’autore si è spinta oltre su questo territorio in cui la solitudine, la noia e la ricerca di senso vengono narrati e cantati ai margini della medietà ufficiale, e talvolta dentro di essa, come accadde a Luigi Tenco. Con un contatto urticante che ammonì ancora una volta a non confondere laicissimo sacro e divinizzato profano. Note 100 A. Abruzzese, La grande scimmia, Feltrinelli, 1979, p. 142. 101 Solone, in I lirici greci, Einaudi, 1975, p. 31. 102 F. Hölderlin, «Germania», «Che è Dio» e «Che è la vita dell’uomo?», in Inni e Frammenti, Vallecchi, 1974, rispettivamente pp. 95, 217 e 215. 103 F. Hölderlin, «Mnemosyne» – terza stesura, ivi, p. 201. 104 F. De André – F. De Gregori, «La cattiva strada», in Volume 8, cit. 105 J. Laforgue, «Vivere solo con la propria anima», in Poesie e prose, cit., p. 141.

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Thanatos, ovvero alla fine del viaggio

Molte canzoni hanno raccontato storie di viaggi, ma non solo e non tanto quelli esotici o vacanzieri: l’uomo è in fuga dalla società nei suoi aspetti più quotidiani, l’amore, la famiglia, i ruoli, la ripetitività. La fuga e il viaggio di un Ferré alla ricerca dell’oltre, il viaggio nello spazio-tempo della strada e della fantasia, che rende i poeti i perdenti, i rifiuti della società. O nuovi eroi che abbandonano la propria patria per conoscere diversi orizzonti: è il viaggio il centro e il senso, non il compimento. La loro anima è in panne sotto i ponti della Senna i soldi dentro i libri che non hanno venduto la donna chissà dove in fondo a un ritornello che ci parla d’amore e di frutto proibito […] Hanno a volte dei cani compagni di miseria che gli leccano le mani di penna e d’amicizia col muso illuminato dallo sguardo fedele che li conduce verso regni d’assurdità Sono strani tipi che guardano i fiori e ci vedono dentro dei sorrisi di donna sono strani tipi che cantano il dolore sul violino dell’anima e sul piano del cuore106.

È, come si vede, una dimensione di continuità con Villon e Rimbaud, il Rimbaud-Ulisse-Orfeo che attraversa i confini presso i quali si fermavano i poeti del prima. Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate; anche il mio cappotto diventava ideale; andavo sotto il cielo, Musa! Ed ero il tuo leale; oh! Quanti amori assurdi ho strasognato!107

Un viaggio continuato poi fino alla tensione estrema e lacerante con la realtà: Per le strade, certe notti d’inverno, senza dimora, senza abiti, senza pane, una voce mi stringeva il cuore gelato: «Debolezza o forza: ecco, è la forza. Non sai né dove vai né perché vai, entra dovunque, rispondi a tutto. Non potranno più ucciderti come se tu fossi già cadavere». Al mattino avevo lo sguardo così perso e un aspetto così smorto, che quelli che ho incontrato forse non mi hanno visto108.

È un passo di «Una stagione all’inferno», centro focale della poesia-prosa rimbaudiana, ma anche dell’intera poesia novecentesca, che ha avuto per anticipazione il Rimbaud ragazzino di quel se desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera nera e fredda dove verso il crepuscolo odoroso un fanciullo inginocchiato e pieno di tristezza, lascia un fragile battello come una farfalla di maggio. Non ne posso più, bagnato dai vostri languori, o onde, di filare sulla scia dei portatori di cotone, né di fendere l’orgoglio di bandiere e fuochi, e di nuotare sotto gli orrendi occhi dei pontoni109.

Viene spontaneo pensare al Brel di Dietro alla sporcizia stesa davanti a noi dietro gli occhi increspati e i visi molli al di là delle mani aperte o chiuse che si tendono invano ci sono pugni alzati più in là delle frontiere e dei fili spinati più in là della miseria noi dobbiamo guardare Noi dobbiamo guardare quello che c’è di bello il cielo grigio o azzurro le donne in riva al mare l’amico che sai fedele il sole di domani il volo di una rondine la nave che ritorna110.

Se non fosse che, quasi cent’anni dopo Rimbaud, la rivolta non è più contro l’intero universo d’occidente, comprese la sua (falsa) coscienza e la

sua razionalità, ma consiste in un po’ meno infero compromesso, anche se con un tono di bohéme scapigliata e antiborghese: Il cuore ben al caldo gli occhi nella birra dalla grassa Adrienne de Montalant con l’amico Jojo e con l’amico Pierre bevevamo la nostra gioventù Jojo si credeva Voltaire e Pierre Casanova poi io che ero il più fiero io mi credevo me e quando a mezzanotte passavano i notai uscendo dall’albergo «I Tre Fagiani» gli mostravamo il culo e le buone maniere cantando in coro: I borghesi sono come i porci più diventan vecchi più diventano gonzi111.

Accade quello che è naturale che accada. Il passaggio dal rifiuto totale, gridato, in una poesia ormai avviata alla propria negazione nell’azione e nel fatto compiuto – la fuga, l’oltre – a quello della canzone che è anche dichiarazione di rimpianto della trasgressività perduta, fino all’impasse che il ragazzino di Charleville aveva superato con l’attraversamento della soglia e che Brel sconta nella sconfitta del non senso borghese e infine nella morte. È un procedimento che porta al canto della caduta, alla fisicità della fine non solo come mero espediente melodrammatico, ma come unica ragione ormai con la quale fare i conti. Conti già anticipati nel «Tango Funebre»: Ah io mi vedo già sistemarmi per sempre così triste e così al freddo nel mio campo d’ossicini ah mi vedo già mi vedo già alla fine di quel viaggio che da tutto ti guarisce112.

Quello dell’anticipazione della propria imago mortis è un espedientecardine di tutta una letteratura anche musicale, come abbiamo visto, e possiede radici profonde. Suggestione presente ad esempio nello Sbarbaro di Pianissimo: il poeta, sconvolto dallo choc dell’incontro con la città, si

prepara alla notte solitaria nel suo letto come su di una bara. Se non si dimenticano però Poe e Baudelaire, quest’ultimo richiamato da Brel con quel senso di orrore, di cui parlavamo prima, scatenato dalla percezione di una assenza che è prima di tutto dentro di noi. Il viaggio come cardine «decadente», se ancora dobbiamo usare questo abusato e spesso fuorviante termine, ma anche come romantica reinvenzione di motivi che permettano ancora la ricerca. Senza la quale l’uomo (ri)diviene sonnacchioso pantofolaio senza ideali e senza sentieri da percorrere. La contraddizione è stata sempre cantata da poeti e cantanti. In uno degli archetipi, Baudelaire, l’ansia della rinascita nel viaggio di «Vogliamo andare senza vela né vapore!»113 muta nella contemplazione della fine, compresa quella della bellezza e del fascino, in un episodio che rappresenta l’altra faccia dello spingersi oltre, con il rapporto Eros-Thanatos portato fino all’allucinazione: E tu? anche tu un giorno sarai quel letamaio quella peste orrenda stella dei miei occhi, sole della mia natura, tu angelo mio, passione mia! Sì, anche tu sarai così, regina delle grazie dopo gli estremi sacramenti, quando sotto l’erba e le piante grasse ammuffirai tra le ossa114.

Una poetica che ha influito, anche da noi, su diverse esperienze, specie negli scapigliati, con una sostanziale presa di coscienza di mancanza e inutilità della poesia nella società moderna. Era necessario fare i conti con il linguaggio che cambiava, con le strutture che cambiavano, con i valori e la realtà che cambiavano. Baudelaire, dall’alto – o dal basso? – della sua oscura consapevolezza, poteva dire alla fine: E allora, mia bellezza, di’ pure ai vermi che ti mangeranno di baci, che ho conservato la forma e la divina essenza dei miei amori decomposti!115

Neanche il poeta, sconvolto dal grande balzo, e dalla rapace fretta del progresso nella sua incarnazione urbana, ha potuto evitare la caduta. Egli, sull’orlo del romantico, orrifico burrone, si è aggrappato alla fragile infiorescenza da cui stillano l’essenza, l’archetipo, la nostalgia. Quando

precipita, ormai esausto, nell’abisso, ha strappato, nella foga dell’ultima battaglia, la pianta che avrebbe dovuto e potuto salvarlo. La bellezza ha seguito nella caduta la sorte del suo cantore. L’orgoglio diventa, chiudendosi in circolo, disprezzo di sé. I «decomposti amori» contaminano l’aria che un giorno circondava limpida, la «divina essenza». Note 106 L. Ferré, «I poeti», in La canzone francese, cit., p. 142. 107 A. Rimbaud, «La mia Bohème», cit. 108 A. Rimbaud, «Una stagione all’inferno», ivi, p. 245. 109 A. Rimbaud, «Il battello ebbro», ivi, p. 183. 110 J. Brel, «Dobbiamo guardare», in La canzone francese, cit., p. 153. 111 J. Brel, «I borghesi», ivi, pp. 155-156. 112 J. Brel, «Il tango funebre», ivi, p. 161. 113 C. Baudelaire, «Le vojage», in Tutte le poesie, Newton Compton, 1974, p. 295. 114 C. Baudelaire, «Una carogna», ivi, p. 101. 115 Ivi.

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Il pendolare, o l’Ulisse di strada

In Italia il viaggio come romantica tensione verso l’altrove ha conosciuto diversi esiti, i più drammatici dei quali in Campana e Michelstaedter. Tra i primi cantautori a scoprire il viaggio interiore, Luigi Tenco, che lo interpretava come moderno percorso nel quotidiano, e qui è facile riandare all’eroismo dell’odissea di ogni giorno nella città e nelle sue sonnolente sirene – e i suoi aridi ciclopi – del Novecento di Joyce, Svevo, Musil e Kafka: l’eroe è quello che si incontra agli incroci metropolitani, sulle panchine dei parchi pubblici, al tavolo di un bar, o alla sua scrivania mentre tenta di scrivere, nell’oggi disincantato e talvolta arido, nuove-antiche testimonianze. Viaggio metropolitano come diario e come tentativo, talvolta, di fuga, di fronte a questo sgretolarsi giorno dopo giorno di sentimenti e valori, oltre che di sogni. Un viaggio nella disperazione, talvolta, quando ci si accorge che anche la fuga è impossibile. «Un giorno dopo l’altro» ne è forse la testimonianza più esplicita in un momento storico in cui nel Belpaese non si parlava, a livello di canzoni, di non senso della vita, di ideali frustrati, di delusione esistenziale: La nave ha già lasciato il porto e dalla riva sembra un punto lontano qualcuno anche questa sera torna deluso a casa piano piano. Un giorno dopo l’altro la vita se ne va e la speranza ormai è un’abitudine116.

In questa canzone di Tenco (e guarda caso, come, per passare sul versante

della letteratura, nella poesia di un altro ligure, Camillo Sbarbaro) è evidente il rifiuto del viaggio come mistificazione e fuga, come fragile tentativo di estraneamento da una vita alienante e senza senso. Anche altrove Tenco esprime una particolare vena di autocoscienza del fallimento che lo accomuna a esperienze contemporanee (Brel) e che lo porterà a essere precorritore nella canzone italiana del rapporto fra interiorità e realtà. Nei suoi confronti sono tragicamente attuali le parole che Gianni Nicoletti dedica alla scrittura di Lautréamont: quando la morte viene chiamata con una volontà che forse solo apparentemente e superficialmente è disperazione (si pensi al suicidio del «persuaso» Michelstaedter), essa non conosce limiti fra poesia e canto. Nell’istante in cui la storia, questa incomoda visitatrice dell’idillio, aggredì la liricità in cima al suo cristallino monumento solitario, non scompose solo membra e articolazioni ma, insieme al modo di essere, la ragione di essere. Le metafore si ammalarono con il decadere della energia metaforica, causa e compimento di sé117.

È l’irruzione della storia, una storia-necessità, in questo caso legata alle leggi del mercato discografico. E a ciò che è musicalmente sanremese e ciò che non lo è. Sanremo era l’ultima delle prove a cui colui che è destinato a precoce morte poteva soggiacere. L’atto stesso dello scomparire è una affermazione. E già da tempo Tenco aveva chiarito alcuni termini della sua particolare persuasione, se vogliamo rimanere sotto la parabola di Michelstaedter: Una vita inutile vivrai se non diventerai qualcuno: questo diceva a me un signore, e la sua casa era una reggia. […] Provai ad essere qualcuno, però sono rimasto nessuno. provai a diventare un poeta, ma il mondo non ho capito ancora118.

Il mondo cui allude qui Tenco è un agglomerato di avversità ed estraneità, e in quel preciso momento esso era incarnato dal meccanismo discografico che sarebbe diventato la fiera della vanità sul cui altare sacrificare la vittima destinata. Anzi, su cui preparare la coreografia della scena ultima. Francesco De Gregori ha colto questo aspetto del mercato a tutti i costi: L’inviato della pagina musicale scrisse:

«Tutto è stato pagato». Si ritrovarono dietro il palco, con gli occhi sudati e le mani in tasca, tutti dicevano: «Io sono stato suo padre!», purché lo spettacolo non finisca119.

Quel «sono rimasto nessuno» di Tenco è scritto sulla pelle viva del non sapere – e non volere – economizzare sulla propria poetica, e presenta il conto della contraddizione fra il mestiere di poeta – o autore – e la struttura che relativizza questo mestiere, lo schiaccia, lo soggioga alle leggi del mercato. Torniamo a Baudelaire, ricordando una lontana eco che vagava per le strade della cultura occidentale di metà Ottocento: la poesia come soglia sul limite, dopo il quale c’è un altrove che non tutti hanno il coraggio di visitare. Abbiamo parlato dell’omaggio di De Gregori a Tenco, senza però dimenticare che anche Fabrizio De André aveva dedicato «Preghiera in gennaio» (in Volume 1, 1967), alla tragica morte di Tenco, ventinovenne, a Sanremo nel 1967, riprendendo una poesia scritta da Francis Jammes nel 1912, «Preghiera per andare in paradiso con gli asini». In De Gregori il senso del viaggio come assenza, fuga o sete di esperienze diverse si confonde con la attualizzazione del fiabesco: Ma questa non è casa mia, i ricordi si affollano in fretta, un libro cominciato la sera è già dimenticato la mattina. Al Lupo, anima pura, perché non giuri più sulla sua bambina120.

Il senso di estraneità qui è mescolato all’autoironia, e la vita alla favola, dove la zucca si trasforma in una Rénault e tutto si confonde, perché ogni cosa intorno cambia aspetto e viene rovesciata in fretta: Le stelle sono tante milioni di milioni la luce dei lampioni si riflette sulla strada lucida seduto o non seduto faccio sempre la mia parte con l’anima in riserva e il cuore che non parte […] e non c’è niente da capire121.

Note 116 L. Tenco, «Un giorno dopo l’altro», 45 giri RCA Italiana, 1966. 117 G. Nicoletti, «Introduzione a Lautréamont», in Lautréamont, Tutte le poesie, cit., p. 11. 118 L. Tenco, «Una vita inutile», 45 giri Ricordi, 1961. 119 F. De Gregori, «Festival», in Bufalo Bill, Lp RCA Italiana, 1976. 120 F. De Gregori, «Al lupo», in De Gregori, Lp RCA Italiana, 1974. 121 F. De Gregori, «Niente da capire», ivi.

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Ancora sul viaggio

De Gregori è uno dei più vicini alla letteratura del viaggio, anche quando, più tardi, approderà a esperienze stilistiche diverse: Chi di voi l’ha vista partire dica pure che stracciona era quanto vento aveva nei capelli se rideva o se piangeva la mattina che prese il treno e seduta accanto al finestrino vide passare l’Italia ai suoi piedi giocando a carte col suo destino122.

C’è un qualcosa di diverso dalla fuga dalla pazza folla, per citare Thomas Hardy (che riprese il titolo del suo «Far from the madding crowd» da un verso della celebre «Elegy written in a country churchyard» di Thomas Gray). Il cantautore non è più l’innalzatore di lamenti e l’incarnazione dell’eterno antagonista alla visione del mondo borghese: ora lo sguardo si sposta verso l’avventura umana degli altri, coglie i momenti in cui avviene la rivelazione, che qui si manifesta attraverso il racconto di una storia diversa, fatta di apparente emarginazione (dal lusso e dal progresso, oltre che dalla cultura ufficiale); la storia è quella di due zingari, dove mito gitano e scelta individuale di strade diverse si intrecciano: Rispose la ragazza: ho tredici anni trentadue perle nella notte e se potessi ti sposerei per avere dei figli con le scarpe rotte girerebbero questa ed altre città questa ed altre città a costruire giostre e a vagabondare

ma adesso è tardi anche per chiacchierare. E due zingari stavano appoggiati alla notte forse mano nella mano e si tenevano negli occhi aspettavano il sole del giorno dopo senza guardare niente. Sull’autostrada accanto al campo le macchine passano velocemente e gli autotreni mangiano chilometri sicuramente vanno molto lontano, gli autisti si fermano e poi ripartono dicono: c’è nebbia, bisogna andare piano si lasciano dietro un sogno metropolitano123.

Il sogno metropolitano segna il culmine di questa storia che rivela nuove modalità linguistiche, nuove forme, nuove metafore («appoggiati alla notte», «si tenevano negli occhi») che in realtà vengono da molto lontano, dalle avanguardie, dalle ardite analogie futuriste ed espressionistiche, ma anche dai grandi isolati come Rimbaud e il Campana dei paesaggi e delle donne appena intraviste, dei viaggi e delle illuminazioni epifaniche: A frotte s’avventurano i viaggiatori alla città sonante che stende le sue piazze e le sue vie124.

Il mito del viaggio ha avuto qui in occidente la sua concretizzazione archetipica in Ulisse: il medioevo e Dante hanno rielaborato la sua figura in una mitologia più complessa, l’Otto e il Novecento hanno poi intessuto nuove interpretazioni dove alla saga ellenica si sovrapponevano le visioni del mondo dettate dalla psicologia del profondo e delle ricerche antropologiche. Con l’emersione di interpretazioni radicalmente contrapposte alle convinzioni pseudo-scientifiche della seconda metà dell’Ottocento e finanche a quelle di tradizione illuministica. Eresie, nel senso etimologico di scelte consapevoli, di un modernismo che però aveva radici assai lontane. Già in Dante era iniziato il contrasto fra l’ammirazione per la sete di sapere e la coscienza di non poter accettare la fascinazione di una scienza non conforme ai dogmi dominanti. Nel basso medioevo si inizia ad approfondire, e a leggere conformemente alla cultura tomistica, la psicologia dell’Odisseo omerico, lettura che nel corso dei secoli porterà fino agli esiti pavesiani del commosso dialogo fra Leucò e Circe, che cerca di spiegare il motivo che l’ha spinta a risparmiare Ulisse:

Molti nomi mi diede Odisseo stando sul mio letto. Ogni volta era un nome. Dapprincipio fu come il grido della bestia, di un maiale o del lupo, ma lui stesso a poco a poco si accorse che erano sillabe di una sola parola. Mi ha chiamata con i nomi di tutte le dee, delle nostre sorelle, coi nomi della madre, delle cose della vita. Era come una lotta con me, con la sorte. Voleva chiamarmi, tenermi, farmi mortale. Voleva spezzare qualcosa. Intelligenza e coraggio ci mise – ne aveva – ma non seppe sorridere mai. Non seppe mai cos’è il sorriso degli déi – di noi che sappiamo il destino125.

Odisseo segna qui il passaggio dall’età fatata – e fatale – degli déi a quella dominata dalla ragione, e perciò dal disincanto, degli uomini. L’eroe potrebbe diventare un dio, ma ha davanti a sé l’immagine (e sulla differenza qualitativa tra immagine e reale geografia domestica fa perno tutta l’economia dell’episodio) di una casa, una moglie, ciò che appare al suo vecchio io come l’unica realtà possibile. Ulisse riporta la terra e se stesso al centro del senso: il regno degli déi assiste rassegnato – in un quadro di aristocratico crepuscolo – alla propria fine sull’orizzonte di senso del viaggiatore, e all’accettazione di quella fine da parte di un mortale che pure potrebbe ottenere l’eternità. Eccole di nuovo: sono ancora una volta le illusioni leopardiane che scompaiono, l’uomo cerca unicamente se stesso, la propria finitudine. Eppure continua a viaggiarci dentro. Non si fida più dello specchio fatato del mito. Dare un nome alle cose vuol dire non solo conoscerle, ma anche sottometterle ai propri rapporti linguistici, culturali, politici. Se vogliamo fare un salto qualitativo e riportare, secondo il nostro progetto, seppure con le dovute precauzioni, questo motivo al contesto musicale, ricordiamo che Lucio Dalla tornava talvolta sul tema del viaggio ulissiaco. Lui stesso in «4 marzo 1943» diventa figlio di un Ulisse di passaggio. Ma l’Ulisse di Dalla-Pallottino diviene ben presto ambivalente. Perché il comandante è tentato dal potere attraverso la figura dell’eroe, che ha dalla sua il comando su uomini che non hanno nulla da perdere, e di cui non gli importa nulla: il mito talvolta, per usare il linguaggio di quegli anni, può rivelarsi reazionario. Capitano che hai negli occhi il tuo nobile destino pensi mai al marinaio a cui manca pane e vino? Capitano che hai trovato principesse in ogni porto pensi mai al rematore che sua moglie crede morto?126

Il marinaio è ignorato dalla storia e dai piaceri riservati alla gerarchia del mito e della letteratura. Al viaggio dell’eroe omerico è dedicato anche il testo della roversiana «Ulisse coperto di sale»: Vedo le stanze imbiancate tutte le finestre spalancate neve non c’è, il sole c’è, nebbia non c’è, il cielo c’è. Tutto scomparso, tutto cambiato mentre ritorno da un mio passato tutto è uguale, irreale sono Ulisse coperto di sale127.

Il vecchio tipo canzonettistico del marinaio sviluppa ora una sua profondità e una psicologia che lo ricollegano alle leggende legate ai nòstoi, il ciclo dei ritorni degli eroi dopo la conquista di Ilion la turrita. Il viaggio verso casa è colto attraverso una carrellata di impressioni e di visioni che affonda le radici nell’idea del ritorno, che sta per assumere i caratteri di quello eterno, direbbe Nietzsche: Ah è vero la vita è sempre un lungo, lungo ritorno ascolta io non ho paura dei sentimenti e allora guarda, io sono qui, ho aperto adagio adagio con la chiave come un tempo ho lasciato la valigia sulla porta. Ho guardato intorno prima di chiamare, non ho paura, ti dico che sono tornato per trovare, come una volta dentro a questa casa la mia forza come Ulisse che torna dal mare128.

In questo caso opera una sorta di estraneamento, uno scavo nell’animo del viaggiatore senza indulgere al facile buonismo della ricongiunzione familiare. Il viaggio non è il ritorno dopo la separazione dalla donna amata: è la scelta di essere per e verso, non dentro. Abbandonando il qui per un altrove incognito. Ulisse è l’uomo contemporaneo smarrito e confuso, costretto ad affinare le proprie possibilità di indagine per trovare un rapporto con il mondo, con le sue relazioni e con il senso stesso del viaggio che sta alle radici, quello

della vita. Una vita dove ci si perde spesso, nonostante e forse a causa della pulsione che ci porta disordinatamente alla ricerca di un senso, di un ritorno. Del Ritorno. Roversi è un poeta che cerca segnali di quel senso anche nel racconto mitico, e questo ci rimanda a un’altra rievocazione mitologica del viaggio, quella di Enea, operata ancora una volta in senso metaforico da un altro poeta del Novecento, Giorgio Caproni: […] E se dice il sangue che c’è amore ancora, e schianta inutilmente la tempia, oh le leghe lunghe che ti trascinano – il rumore di tenebra, in cui il battito del cuore ti ferma in petto il fruscío delle streghe! Ti ferma in petto il richiamo d’Averno che dai banchi di scuola ti sovrasta metallurgico il senso, e in quell’eterno rombo di fibre rotolanti a un’asta assurda di chilometri […]129.

Avviene qui la laica riduzione del viaggio alla reale sostanza urbana dell’incedere e del perdersi, «fra scheletri di luce», «soffitti imbiancati» (che rimandano guarda caso alle «stanze imbiancate» dell’Ulisse roversiano) «gomme», «pistoni», all’ansia dell’uomo che combatte fra un passato che manda inquietanti bagliori di presenza e un futuro che drammaticamente si pone come necessità: Enea che in spalla un passato che crolla tenta invano di porre in salvo, e al rullo d’un tamburo ch’è uno schianto di mura, per la mano ha ancora così gracile un futuro da non reggersi dritto130.

Ma torniamo al testo di Roversi cantato da Dalla: Voglio dirti: non rovesciare gli anni come un cassetto vuoto. Ascolta: anche i giovani non hanno paura di un amore e mai, mai, mai strappano dal cuore i sentimenti; io ti guardo, la tua forza è un’ombra di luce la tua forza è un’ombra di luce.

La mano affondata nel vento del vento, aria calda, urlano quelle nostre ore strette in un pugno urlano come gli uccelli, i sassi si consumano, non si consuma la vita la giornata è uguale a una mano che è ferita io sono Ulisse al ritorno Ulisse coperto di sale! Ulisse al principio del giorno!131

La saga dei piccoli uomini è nobilitata dalla potenzialità metaforica che permette una ricognizione aperta a suggestioni liriche e mitiche, una rivalsa giocata sulle porzioni dell’esserci, ancora non incatenate nell’immobilità quotidiana. Ci sembra utile mettere a sigillo di questo discorso la conclusione dello stesso Roversi al secondo volume del ciclo Non sparate sul cantautore, a proposito del personaggio Dylan: E la felicità, questa felicità consiste non solo nell’ascoltare e nel respirare insieme, ma nell’avere memoria e nell’inseguire la memoria insieme. Nel capire, nel cercare, nel ricordare. La canzone è una festa anche quando, come si dice, è impegnata. Per impegno non intendo l’impegno politico nel senso stretto e ristretto, visceralmente istintivo e nevrotico e perciò poco resistente, facilmente polverizzabile; intendo una partecipazione fisica di tutto il corpo; una partecipazione totale […]. A parte il fatto che nonostante i miliardi guadagnati, e l’invitante provocazione che può suscitare un anarchico con la maschera di un Re Mida, bisogna riconoscere questo: una canzone di Dylan aiuta anche nell’opera di ricognizione continua che ognuno deve compiere a livello personale e nella direzione della realtà circostante132.

Il viaggio, lo abbiamo notato parlando dell’odissea altrettanto eroica dell’uomo metropolitano in Joyce come in Svevo, ma pure in Dylan, e da noi in De Gregori e nel Dalla di «Disperato erotico stomp», avviene anche uscendo di casa senza sapere esattamente cosa fare e dove andare: è il viaggio nelle possibilità di «Non è vero» di Claudio Rocchi, un autore in cui coincidevano impegno, realtà sociale, ma anche quella cultura orientaleggiante che ebbe il suo momento di picco in Italia tra la fine dei ’60 e primi anni ’70. La canzone è la storia di un continuo rovesciarsi di azioni, sentimenti, pensieri e dell’intermittenza di una volontà che cede alla situazione, al momento, alla sensazione: Io stavo scendendo in strada per comprare delle sigarette

tre passi e ci ho ripensato: avevo voglia di un giornale. Ma non è vero, non sono sincero, volevo telefonare, no, io volevo venire, volevo volare, volevo parlare con te133.

Qui c’è, come si vede, un ribaltamento della tendenza della canzone a irrigidire in tipi fissi e immobili le situazioni d’amore: il protagonista gioca con i termini del quotidiano, poiché fanno parte integrante di un cammino non lineare, quello della vita. Non opera la contemplazione degli oggetti come nell’école du regard, perché l’oggetto del discorso è l’itinerario attraverso il quale accade il talvolta accidentale aprirsi delle porte delle occasioni: Ma non è vero, non sono sincero, ti fumo in una sigaretta, ti leggo sul mio giornale che stampo per me che invento per me e per te134.

Anche perché uno dei profeti della modernità aveva immortalato questa apertura casuale sul senso o sul nulla in un celebre passo della sua Ricerca: Talvolta, nel momento in cui tutto sembra perduto, giunge il messaggio che ci può salvare: abbiamo bussato a porte che davan tutte sul nulla; e nella sola per cui si può entrare, e che avremmo cercato invano cent’anni, urtiamo inavvertitamente, ed essa s’apre135.

Note 122 F. De Gregori, «Renoir», ivi. 123 F. De Gregori, «Due zingari», ivi. 124 D. Campana, «Spiaggia, spiaggia», in Opere e contributi, vol. II, Vallecchi, 1973, p. 351. 125 C. Pavese, «Le streghe», in Dialoghi con Leucò, Einaudi, 1976, p. 147. 126 L. Dalla (coautori S. Baldazzi – G. Bardotti), «Itaca», in Storie di casa mia, Lp RCA Italiana, 1971. 127 L. Dalla – R. Roversi, «Ulisse coperto di sale», in Anidride Solforosa, cit. 128 Ivi. 129 G. Caproni, «Versi», da Il passaggio d’Enea, in Poesie, Garzanti, 1976, p. 115. 130 Ivi, pp. 115-116. 131 L. Dalla – R. Roversi, «Ulisse coperto di sale», cit. 132 R. Roversi, «Cantare stanca», in C. Bernieri, Non sparate sul cantautore, nota conclusiva del secondo volume, Mazzotta, 1978, p. 109. Il corsivo è nostro. 133 C. Rocchi, «Non è vero», in Viaggio, Lp Ariston, 1970. 134 Ivi. 135 M. Proust, Il tempo ritrovato, in Alla ricerca del tempo perduto, vol. III, Einaudi, 2005, p. 942.

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E la società?

E poi esiste il problema del rapporto con l’universo della politica. Lo si è ripetuto fino alla nausea, e anche oltre: chi dichiara di non essere un autore politicizzato, esprime nella canzone una sua posizione, una sua valutazione dell’esistente; l’essere apolitico è essa stessa una posizione, nella pòlis, di rifiuto di una realtà vista come ostile, o anche semplicemente di stanchezza. Léo Ferré è uno che prende posizione, ad esempio, proclamando la sua scelta dell’anarchia, e scagliandosi contro la vita borghese e i suoi miti: la sua visione è netta, a volte manichea, con l’oscenità morale del borghese, con i suoi miti materiali e i suoi riti, il suo omaggio al potere, compreso quello religioso, da una parte, e la possibile scelta di campo a fianco di un proletariato talvolta mitizzato, con i suoi amori e i suoi odi, e i suoi tentativi di sbarcare il lunario, dall’altra. Thank you, Satan per il ladro che proteggi col tuo maglione rosso e tenero per le porte che gli apri nella tana dei signori per il condannato che vegli nell’abbazia per l’altro mondo per il rhum che gli consigli e per la cicca che gli servi […] Per il peccato che fai nascere tra le più rigide virtù e per la noia che abiterà i letti dove non sei più per gli imbecilli che fai pascere come le pecore nei prati per il tuo impegno

a non mostrarti mai in televisione136.

Non sfugga quel profetico accenno alla necessità di apparire in TV che sarebbe divenuta triste, compulsiva consuetudine quasi ottant’anni dopo. Ferré si sente tutto da una parte: come Brecht che, a chi gli domandava se si sentisse critico verso il marxismo realizzato storicamente, rispondeva di aver definitivamente scelto l’oriente – in senso di patria del comunismo sovietico –, anche lui ha un bersaglio fisso e qualcosa da difendere. Non un partito, ma una scelta contro: contro il perbenismo borghese, l’utilitarismo, il non senso di finire la vita tra elettrodomestici e non contemplando la bellezza della natura, godendo di un’amicizia senza interessi. È proprio di certa canzone d’autore esprimere il senso drammatico della scelta, al di là della razionalità e del conformismo. Nell’aria si avvertono bagliori di quelli che in Dylan saranno i winds of change, i tempi che stanno cambiando: Noi avremo TUTTO niente di voi Tutto di Noi avremo avuto il tempo di inventare la Vita la Bellezza la Giovinezza le lacrime che brilleranno come smeraldi negli occhi delle ragazze Le bestie finalmente sballate la precedenza a Sinistra Permettete! Non moriremo più di niente vivremo di tutto e i microbi dell’idiozia che non avrete mancato di lasciarci in eredità che salgono dal vostro letame dai vostri libri accumulati nelle vostre siloteche dei vostri regolamenti di amministrazione penitenziaria delle vostre preghiere, certo tutti quei microbi giuridico-casarecci state tranquilli! Abbiamo già delle macchine per revocarli NOI AVREMO TUTTO TRA DIECIMILA ANNI137.

E quasi una ripresa del motivo rimbaudiano di «Soleil et chairs», dove però dominava soprattutto la nostalgia per un mondo perduto, sogno proiettato in un futuro incerto ma intimamente sperato: Se solo tornassero i tempi, i tempi ormai perduti! – Perché l’Uomo è finito! L’Uomo ha recitato ogni ruolo! Nel gran giorno, stanco di distruggere idoli risorgerà, libero da tutti i suoi dei, e, poiché appartiene ai cieli, scruterà i cieli! L’Ideale, l’invincibile pensiero, eterno138.

Per poi tessere il progetto del viaggio come conoscenza oltre, costi quel che costi:

Non possiamo sapere! – Siamo tutti oppressi da cappe ignoranti e chimeriche caverne! Scimmie umane cadute da vulve materne, la scialba ragione ci cela l’infinito! Noi vogliamo guardare – il Dubbio ci ha punito! Il dubbio, tetro uccello, ci batte con l’ali… – E l’orizzonte dilegua in fughe eternali!…139

A parte quel «Noi vogliamo guardare», poi ripreso dal «Noi dobbiamo guardare» di Brel, e a parte anche la nuova mistica «pagana» che Rimbaud acquisterà, perderà e ritroverà per strada, è qui evidente l’aspirazione verso il futuro, un futuro che non deve essere solo atteso, ma realizzato nel qui e nell’ora. Rimbaud ha iniziato a scrivere giovanissimo, sintetizzando le esperienze dell’adolescenza, e rivelando tra l’altro l’impazienza di raggiungere – anche fisicamente – quelle illuminazioni che si fanno largo nel suo spirito. Ferré analizza ormai più freddamente la situazione, conosce, con i mezzi e il disincanto di cent’anni dopo, i rapporti sociali e la geografia politica. Ma ciò nonostante anch’egli tenta il recupero di quello che i borghesi da lui deprecati considererebbero un vezzo adolescenziale e «maledetto», che viene non solo da Arthur, ma dalle letture di Baudelaire, Apollinaire, Verlaine e Laforgue, dai dadaisti e dai surrealisti. La strada della canzone d’autore è piuttosto affollata di suggestioni e modelli non sempre visibili o enunciati coscientemente. Non siamo distanti dall’elencazione dei luoghi comuni della vita borghese, con l’intento di rinnegarla, presente in Prévert: La porta che qualcuno ha aperto la porta che uno ha richiuso la sedia su cui uno s’è seduto il gatto che uno ha accarezzato il frutto che uno ha morso la lettera che uno ha letto la sedia che uno ha rovesciato la porta che qualcuno ha aperto la strada dove uno sta correndo il bosco che uno attraversa il fiume dove uno si butta l’ospedale dove uno è morto140.

Una serie di tappe di un calvario laico dal quale si può uscire solo con la forza dell’istinto e la trasgressione della «malattia» dell’abitudine

rassegnata e della morte dell’anima: No, io non sarò mai il loro uomo poiché il loro uomo è una canna pensante giammai diverrò questa pianta carnivora che uccide il suo Dio e lo divora e vi invita a mangiare e poi se vi rifiutate vi accusa di essere un mangiapreti e sorridente ascolto il fanciullo della vita l’amato felice fanciullo e lo vedo danzare danzare come mia figlia prima di andarsene là dove è necessario che vada141.

Con questi presupposti è fatale che la musica d’autore francese si confronti con la dimensione sociale senza scadere nella pura, meccanica enunciazione politica, nel programma teoretico, nel vittoriniano «suonare il piffero» per qualsiasi posizione partitica, come nel «Morire per delle idee» di Brassens: E voi gli sputafuoco, e voi i nuovi santi crepate pure per primi, noi vi cediamo il passo. Però, per cortesia, lasciate vivere gli altri, la vita è grosso modo il loro unico lusso. Tanto più che la carogna è già abbastanza attenta non c’è nessun bisogno di reggerle la falce. Basta con le garrote, in nome della pace! Moriamo per delle idee, vabbè, ma di morte lenta, vabbè, ma di morte lenta142.

Brassens è il gran maestro di tanti autori anche italiani, anche lui vicino all’anarchia. Le sue sono parole significative per capire che cosa rappresenti la ribellione per questi poeti, angeli caduti secondo la visione baudelairiana: essa è in Brassens il rifiuto del conformismo, sia quello della piccola borghesia, sia quello generato dall’appiattamento su un carisma ideologico. Brassens rifiuta anche la concezione razionale e finalizzata a una ipotetica società migliore dei partiti e dei loro leader, che, lo si notava già allora, ottengono e mantengono il potere attraverso le clientele, anche a sinistra, in grado di alienare dalle proprie aspirazioni «naturali» le masse, con il risultato di aprire praterie alle destre. L’inganno è dovunque, sembra dire il vecchio menestrello, e allora non rimane che l’antico e mai sopito spirito anarchico che rifiuta ipocriti schemi di parte, creati per rubare all’uomo il

suo adesso e il suo qui. Inutile aggiungere che questo suo disimpegno dalle ideologie comuni nella sinistra, riformista o massimalista, che lo separa da un Jean Trenet, cantore impegnato del Partito Comunista Francese, gli permette maggiore libertà – e spregiudicatezza – non solo nei giudizi ma anche nelle scelte, nei comportamenti e nella comunicazione nell’ambito dei media di allora. Guy Béart è un altro che ha capito che i nuovi pseudo-miti sono peggio dei vecchi, la verità è sempre rivoluzionaria, per questo chi la dice viene messo in manicomio: Il mondo deve ubriacarsi di discorsi non di vino rimanere in linea, seguire le istruzioni a Mosca, un poeta dell’Unione degli Scrittori soffia sulla zuppa dove mangia il gruppo. Il poeta ha detto la verità, dovrebbe essere giustiziato143.

La rivelazione degli orrori staliniani, le invasioni di nazioni sovrane da parte delle truppe sovietiche hanno contribuito al crollo dei miti palingenetici e della convinzione che il comunismo preparasse l’avvento, anzi, per alcuni il ritorno, al paradiso terrestre. Dall’altra parte del mare Oltre oceano il senso del viaggio è un po’ la dominante di personalità come Woody Guthrie, i folk singer influenzati dal mito dell’hobo, il vagabondo, anche se questo viaggio assume talvolta la caratteristica del ripiegamento interiore, dell’attenzione verso problemi che probabilmente il giovane americano riscopriva allora, dopo la scorpacciata dello spensierato consumismo e dopo i segnali di fumo della beat generation e della Black Mountain. La reazione a quella che si andava profilando, nelle menti più sensibili, come l’America dell’opulenza e del benessere, dello spreco e dell’appiattimento fra macchina, lavoro e salotto con televisione, si incarnava in un atteggiamento talvolta contraddittorio, agli occhi razionali dell’occidente post-illuminista, di ricerca e di visioni lisergiche, di svelamento dei miti e di nuovi varchi del sacro; al puro e spesso inconsapevole materialismo moraleggiante dell’America post-bellica

cominciarono a opporsi le forze delle menti e dei cuori, in una mistica che si proiettava gradualmente verso oriente, ma non solo, come nel caso nella presenza del cristianesimo e più in generale del fermento religioso in Kerouac, fino ad attraversare la stagione floreale e psichedelica. E fino al lento, inesorabile, riflusso degli ’80. È noto come uno degli intellettuali all’interno della generazione beat che dedicarono maggiore interesse alla cultura orientale sia stato Allen Ginsberg. Le sue posizioni poetiche e ideologiche hanno sempre avuto come leitmotiv l’oscillazione tra la protesta contro la degenerazione tecnocratica del sistema americano e un misticismo che guardava all’India come una patria cui tornare. E già in «Howl», nel 1956, Ginsberg contamina la sua anatomia dolente dell’emarginazione con stilemi e titolazioni ispirati alla mistica indiana o ai testi biblici (il Mutamento, Kaddish, Sutra, Libro delle Risposte ecc.) Inoltre, nella lirica «America» è presente un’espressione che la dice lunga su questa ricerca di radici: un passaggio come «America quando manderai le tue uova in India?»144 rivela lo sguardo al modello orientale visto come l’unico forse in grado di restituire autocoscienza a un uomo, come quello occidentale, preda del dio denaro da lui stesso creato. Anche se quel verso potrebbe nascondere una allusione alla possibilità che sia l’America consumista a insidiare con il suo seme la cultura delle mitizzate terre della meditazione e della comunione con il sacro. Sta di fatto che dalla seconda metà degli anni ’60 un gruppo divenuto già mito come quello dei Beatles comincia a subire suggestioni orientaleggianti, limitate inizialmente all’uso del sitar; via via, però, alcuni riflessi di una ricerca più profonda si fecero concreti nelle opere di George Harrison e John Lennon, e di gruppi rock come gli Who («Baba O’Riley», dedicata al guru Mether Baba e al compositore Terry Riley), di un chitarrista sensibile agli stimoli più eterogenei come John McLaughlin, di vocalist attenti ai cambiamenti in atto come Eric Burdon, e ancora di Brian Jones, dei Quintessence e molti altri. Il sitar come simbolo di una cultura intera, visto che il suo diffusore in occidente, Ravi Shankar, è stato presente, fra la rispettosa attenzione di un pubblico non sempre silenzioso e composto, nei maggiori appuntamenti degli anni d’oro dei concerti: lo ricordiamo ad esempio, a Monterey, a Woodstock, al concerto per il Bangladesh organizzato da George Harrison al Madison Square Garden di

New York nell’agosto del 1971. È un effetto singolare quello che scaturisce dalla contemporaneità sul palco, specie nell’antesignano Monterey, di una musica e di una figura come quella di Shankar, ipnotica, mistica, e di esecutori rock-blues come Hendrix o Joplin, viscerali e immersi nella dimensione elettrica del racconto del sé occidentale. Anche per questo Shankar comunica un’emozione nuova e nello stesso tempo molto antica: per alcuni artisti, la creazione – e la sua comunicazione attraverso la musica – inizia a divenire un momento privilegiato di fusione, di contatto con qualcosa che trascenda il qui e l’ora. La musica rituale indiana reca in sé una diversa visione del mondo attraverso una serie di stati di coscienza, ognuno superamento dell’altro, espressione per molti di una lontananza ancestrale ma anche di una vitalità culturale che dura da millenni attraverso migrazioni, invasioni, lotte. Un pensiero che contempla, tra l’altro, una paziente sospensione delle preoccupazioni del giorno, che sono invece così importanti in occidente. Il suo distacco dal determinismo e dal razionalismo scorre nei secoli delle speculazioni edilizie come su quelli delle lotte di casta e di classe, in una scansione temporale che noi facciamo fatica a comprendere; ma nello stesso tempo è questo che attira, che getta le basi per un viaggio, che, come abbiamo già constatato, è, secondo alcuni, un ritorno. Se in Francia Ferré e Brassens hanno offerto contributi musicali alla causa anarchica, in America il problema rimaneva quello del chiarimento di se stessi di fronte alle spinte di una società opulenta che baratta lo spazio interiore con servizi e cose. È il problema, già approfondito da Max Weber, del self made man, delle sue radici nell’etica protestante e calvinista. Lo spontaneismo freak e i miti legati alle comuni, al movimento del Flower Power, all’antirazzismo e al rifiuto della guerra coloniale, si sono intrecciati con le canzoni di Jefferson Airplane, Fugs, Baez, Dylan, Seeger, Peel, Country Joe, Jackson Browne, Doors, Thunderclap Newman e molti altri, spesso alimentando equivoci di impegno politico e sociale, in alcuni casi rigettato dai diretti interessati. Si tendeva a unificare episodi di critica di costume con precise prese di posizioni politiche. Di più: quando Dylan chiese un alto cachet per esibirsi a Wight, la delusione fu immensa. Ma Dylan non si era mai definito impegnato politicamente, almeno non in senso stretto. Ha spesso tuonato contro i mali della sua società, ma dal suo – per alcuni – aristocratico isolamento; lo spirito ironico, a volte sarcastico di

alcune sue canzoni denuncia l’ipocrisia e il conformismo talvolta con disprezzo, ma altre volte con l’atteggiamento mistico e profetico di attesa di un mondo nuovo: Un politico del Sud predica al miserabile uomo bianco: tu hai più dei neri, non ti lamentare sei migliore di loro, sei nato con la pelle bianca, spiegano. E il nome dei negri viene usato, è ovvio per il guadagno del politicante e lui diventa famoso mentre il miserabile bianco rimane nell’ultimo vagone del treno ma non è lui il colpevole è solo una pedina nel loro gioco. Gli sceriffi e i soldati i governatori vengono pagati e i marshall e i poliziotti ma il miserabile bianco viene usato nelle loro mani come uno strumento nelle sue scuole gli viene insegnato fin dall’inizio come una regola che le leggi sono con lui per proteggere la sua pelle bianca145.

Il senso di profonda inquietudine di Dylan venne in superficie soprattutto in «All Along the Watchtower», che potrebbe essere assimilata, per qualche aspetto, alla suggestione del Deserto dei Tartari, uscito 25 anni prima, di Dino Buzzati, per quell’atmosfera inquietante di attesa ai confini di un mondo vecchio e in disfacimento. Il guardare oltre fa paura, ma è anche inevitabile: Lungo la torre di guardia, i prìncipi scrutavano l’orizzonte mentre tutte le donne andavano e venivano anche i servitori scalzi. Fuori, in lontananza, un gatto selvatico ringhiò, due cavalieri si stavano avvicinando, il vento cominciò a ululare146.

Quasi un quadro di suggestione medioevale e ossianica, dove i protagonisti rivestono ruoli opposti a quelli di cavaliere ed eroe, e però sono

gli unici a vedere e a capire. La visione diventa spasmo di attesa, un traguardare oltre questa calma apparente con un affacciarsi di suggestioni bibliche, di allucinazioni e rimandi alle condizioni attuali della società di massa. Ma anche questa tipologia «bassa» di protagonisti (in realtà cornice di un singolare affresco poetico sulla morte o sull’incombere del destino) ha datazioni antiche: ladro e giullare sono membri a tutti gli effetti di una letteratura che attraversa il medioevo (ma che ha origine nel servitore geniale della commedia antica, da Menandro a Plauto e oltre); ambiguamente Dylan solleva due personaggi in apparenza negativi alla dignità di filosofi che lanciano bagliori di apocalittica profezia mentre tutti gli altri intorno sono in preda alla confusione: «Non c’è motivo di allarmarsi», il ladro gentilmente rispose. «Ci sono molti qui in mezzo a noi che pensano che la vita non sia altro che un gioco. Ma tu ed io ci siamo passati e questo non è il nostro destino, perciò, non parliamo falsamente adesso, l’ora si sta facendo tarda»147.

Già in «It’s Alright, Ma», presente nell’Lp Bringing it all back home, del 1965, è forte la critica alla morale dominante, anche se meno velata da allegorie: Cartelloni pubblicitari ti portano a pensare che tu sia quello che può fare quello che non è mai stato fatto che può vincere quello che non è mai stato vinto e intanto la vita va avanti intorno a te […] Mentre predicatori predicono destini malvagi insegnanti insegnano che il sapere aspetta può condurre a piatti da cento dollari le divinità si nascondono dietro i loro cancelli ma persino il Presidente degli Stati Uniti a volte deve stare nudo148.

È evidente l’accusa contro l’ipnosi sociale che tenta di far credere che tutto può essere raggiunto mediante il denaro. Dylan denuncia che questa lenta deriva spacciata per progresso porta alla sospensione delle possibilità creative, intellettuali e critiche. La rivolta di molti autori è contro un

sistema apparentemente benevolo e paternalistico, e assume contorni sempre meno legati a ipotesi riformistiche e immediatamente politiche, e semmai può assumere, lo abbiamo visto in «All Along the Watchtower», visionarietà millenaristiche. Si può leggere anche qui questa aspirazione a un ruolo all’interno di quella cultura: quello di bardo, cantore di aspirazioni millenaristiche e di più o meno profetica denuncia del presente. In Italia Da noi si è parlato molto di scuole: milanese, bolognese, romana, napoletana, ligure, col solito vizio di approssimazione, più che altro per comodità di inventario. Certamente De Gregori ha più da spartire con un certo vecchio Dylan – e con Cohen – che con Venditti. Stefano Rosso era lontano anni luce, e in modo equidistante, da ambedue, per rimanere in ambito romano. Ma siamo nella città eterna, e allora rimaniamoci un poco. E interessiamoci di chi ha espresso il malessere degli anni ’70, fatto di solitudini e visioni interiori assai vicine alle ballate dylaniane. E in effetti, prima di Rimmel, De Gregori aveva scandito un lungo monologo interiore, radiografia fedele dei disagi, dei dubbi, delle perplessità giovanili dei ’70, che lo ha fatto amare da quanti si riconobbero in questa recherche delle proprie ragioni dopo il ’68, e anche oltre Dylan, oltre le grandi speranze e le disillusioni. Amore, ricerca di comunicazione, solitudine, visionarietà sono le componenti fondamentali di questo discorso. Un amico d’infanzia, dopo questa canzone mi ha detto «È bellissima, un incubo riuscito ma dimmi, sogni spesso le cose che hai scritto oppure le hai inventate solo per scandalizzarmi?» amore amore, naviga via, devo ancora svegliarmi149.

Come si vede, dubbi sulla credibilità e comunicabilità del senso della propria visione del mondo, sulla propria incapacità di sentire e comunicare perfino il proprio amore («amore amore, naviga via») di tradizione leopardiana, richiamo chissà quanto consapevole a quell’«amore amore, assai lungi volasti» de «La vita solitaria»; il tutto realizzato con lo strumento dell’ellissi, dell’aggiramento e dell’attenuazione dei nessi

sintattici presente in tutta una letteratura, ad esempio nel simbolismo di Mallarmé ma anche in Rimbaud e – più oscuramente – in Lautréamont, ma che viene, lo abbiamo già notato, da molto lontano, dalle terre di Provenza e da Dante. Il mondo di De Gregori, perlomeno a quell’altezza cronologica (correva il 1974), è fatto di dubbio, di constatazioni sulla difficoltà dell’amore, dell’amicizia, sulle ingiustizie sociali; lo sporgersi verso l’altro e il ripiegamento su sé sono parti vive dei testi del cantautore, attraverso uno stile regolato sulla song dylaniana, o sulla melodia rappresa e sulla testualità simbolica e «maledetta» di Cohen. Una dolente coscienza di separazione, altra faccia dell’uso di metafore militari che abbiamo trovato in Buzzati e Dylan. È come vivere in una guerra su due fronti, con gli altri e con se stessi: In fondo alla pianura una linea più buia l’esercito degli uomini diversi con gli occhi e la bocca pieni di sonno aspettava in una buca di due metri. E noi, dall’altra parte del concetto con l’anima in fondo alle gavette cacciavamo i pensieri come mosche mortali e il nostro cervello era bianco l’attacco era fissato per le sette. E credo che fu in quel preciso momento che venne da molto lontano un ricordo qualcosa di simile a un pianto di madri e due angeli vestiti di bianco scesero con aria stupita e il vuoto nel cuore e aprimmo al pianto le finestre del dolore150.

Il «male di vivere» è, in questo De Gregori, l’attesa, ancora una volta, dei Tartari che incombono, ma che non hanno ancora una forma né un volto. Un male di vivere che non presenta soluzioni organiche o coincidenti con precise ortodossie ideologiche. La prima strofa è vicina a suggestioni dylaniane, soprattutto nell’atmosfera tesa e inquietante, di cui abbiamo già parlato, di «All Along the Watchtower»: sensazione di vita come trincea, di solitudine e attesa di un evento che si avverte incombente. Nella seconda strofa, che nella canzone forma il ritornello, lo spannung, il culmine della tensione, è raggiunto in forma di visione, di epifania catartica, di suggestione cristiana: una visione che, lo vedremo in dettaglio più avanti,

deve un tributo anche a Dante, quello delle arpie che, strappando le foglie dalle piante umane, «fanno dolore, e al dolor finestra»151 e ai «due angeli» del canto VIII del Purgatorio. Il simbolismo, nella canzone d’autore, non deve sorprendere, anzi, ne è una componente fondamentale, in Brassens come in Dylan, in Donovan come in De André; i simboli hanno origini antiche, che si alimentano nelle radici religiose del pensiero umano. Eravamo nel 1974 quando, seppure sull’avanzamento complessivo della Sinistra e su una maturazione di temi di impegno sociale e anche religioso-civile (Cristiani per il Socialismo, dibattito all’interno delle ACLI, tentativo di costruire un partito dei cattolici al di fuori della DC, crisi di identità all’interno della stessa CISL), si innesta anche la crisi di adattamento a una nuova situazione sociale, più complessa e contradditoria rispetto alle attese e alle profezie del biennio ’68-’69. Sul tema del ricordo struggente e mitopoietico (il canto delle madri), ma anche con un riferimento a un’essenza perduta, si stratificano alcune suggestioni, provenienti da diverse eredità che non è detto siano coscienti: manierismo figurativo, visioni presenti in Dino Campana (l’attimo in cui il tempo si ferma per dare origine alla visione), le già notate influenze dantesche e dylaniane evidenti negli episodi degli occhi piangenti come finestre di dolore, il che richiama non solo il già citato «l’arpie (che) fanno dolore, e al dolore finestra» dell’Inferno ma anche gli angeli («Three Angels») del Dylan di New Morning, debitori ancora una volta del Dante del regno di mezzo («e vidi uscir dall’alto e scender giùe / due angeli con due spade affocate»)152. Anche se l’archetipo è, ancora una volta, un testo sacro, per la precisione il Vangelo di Giovanni (20, 12), dove Maria di Màgdala «vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù». Un altro cantautore romano, Antonello Venditti, ha affrontato realtà sociali anche con riferimenti ironici alla topografia politica romana (la divisione in zone di influenza della destra e della sinistra negli anni ’70): Io non voglio più passare a Piazzale degli Eroi153.

Non mancano il canto ritmato del ’68 parigino posto a conclusione di «L’uomo di pane», all’interno dello stesso disco, sul quale alcuni hanno visto l’influenza di Madman Across the Water di Elton John, uscito tre anni

prima, ma con una suggestiva immagine di ambiente operaio: L’ingresso della fabbrica e il sole che comincia le tue labbra senza rossetto. Le tue amiche «Bolero film» continuano a sognare di sognare ancora le mille storielle d’amore, strane come il tuo bambino. Autobus pieno come la culla di Gesù i tuoi occhi piangono speranze in bianco e nero. Aspetta all’uscita un uomo sposato con l’850 grigio topo154.

che rimanda all’approccio sociale sia della «Vincenzina davanti alla fabbrica» di Jannacci, di cui parliamo altrove in questo lavoro, sia ad altri momenti del mondo vendittiano, come lo sguardo sull’emigrazione interna: Lontana è la casa del mio padrone la gente parte per far fortuna duemila sogni più in su, i vecchi son stanchi, le donne di aspettare i treni fischiano un addio155.

È la percezione del vuoto metropolitano che diventa coscienza di uno scacco più problematico, che ha tra le sue radici la povertà, in una canzone tra le più profonde di Venditti, anche se meno nota al grande pubblico: figlia mia che mi rimane col vestito della sera ho comprato tanti libri per cercare di spiegare. Chiedo scusa all’ignoranza chiedo scusa alla tua scuola onestà è una cosa sola onestà è una cosa grande. Oggi ho voglia di graffiare le pareti della stanza la signora è tanto buona mi permette di parlare156.

Situazioni emblematiche del nostro «progresso» e della nostra cronaca, come la nube tossica di Seveso: E donne al davanzale lanciavano parole sepolte ormai nel ventre di madri perdute, perdute dal cielo proprio sopra di noi che restiamo a guardare morire le radici, i preti perdonare proprio sopra di voi, […] Noi siamo qui prigionieri del cielo come giovani indiani risarciteci i cuori157.

Nella canzone dedicata alle vittime della fuga di diossina, che si verificò nel ’76 all’ICMESA, fa spicco quel madri perdute, richiamo ancestrale alle radici che abbiamo visto espresso in De Gregori e che anche Guccini ha realizzato proprio in Radici. Non sono però mancati riferimenti al Vietnam, alla miseria umana nelle situazioni deformate dall’abitudine, alla censura della TV e alla TV stessa in quanto tale. Chi ha assunto una visione del mondo già consolidata da orizzonti politici e ideologici definiti è stato Claudio Lolli: la sua canzone è «politica» nel senso che in essa è inerente un giudizio ideologico, senza però che questo soffochi lo spazio dell’interiorità; certo è che alcune delle sue canzoni evidenziano un giudizio netto, compiuto, con certezze e poche esitazioni: Vecchia piccola borghesia per piccina che tu sia, non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia. Sei contenta se un ladro muore, se si arresta una puttana, se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova campana. […] Godi quando gli anormali sono trattati da criminali, chiuderesti in manicomio tutti gli zingari e gli intellettuali, ami ordine e disciplina, adori la tua polizia tranne quando deve indagare su un bilancio fallimentare. […] Di disgrazie puoi averne tante, per esempio una figlia artista oppure un figlio commerciante o, peggio ancora, comunista. […] Vecchia piccola borghesia, vecchia gente di casa mia, per piccina che tu sia, il vento un giorno ti spazzerà via158.

Si avverte, fra le tante, una analogia di fondo con tutta una sezione della canzone della rive gauche, con Ferré, ma anche con un Aristide Bruant, storico cantore della rivolta dei setaioli: Ma il nostro regno arriverà quando il vostro regno finirà. […] Noi tesseremo il sudario del vecchio mondo perché già si sente la tempesta che tuona159.

Una nausea dei decaduti valori borghesi analoga a quella di Brassens che canta la carità a suon di idiozie festaiole, in un paradossale insieme di morte e lusso: Passi di danza e baciamani

vestiti lunghi di Cardin ecco stasera il ballo mondano per la gente che muore di fame uno due tre, uno due tre un pasticcino: è per il Biafra un whisky: per gli indiani una suora: per il Vietnam160.

Suggestioni che si avvicinano al gusto iconoclastico e sferzante delle enunciazioni alla Prévert: Uomini onorevoli e stimati nel vostro quartiere voi vi incontrate voi vi congratulate voi vi coalizzate ahimè ahimè caro signor Babylas Ho avuto tre figli e li ho dati alla patria ahimè ahimè caro signore dei miei due ne ho dato solo due facciamo ciò che possiamo di cosa si tratta hai ancora dolore al ginocchio? e lacrime dagli occhi moccio falso lutto il pancake con un cappello piedi caldi le corone funebri e l’aglio nella gamba ti ricordi prima della guerra cucchiai per assenzio omnibus di cavallo forcine fiaccolate ah che bello è stato un bel momento161.

Molto più sfumato nelle nebbie di una cosciente precarietà, anche nella trasgressione, ma concreto e spassionato, è l’apporto di Guccini: il sociale, di cui si avverte anche la minacciosa irriducibilità a certezze ideologiche, stimola il bisogno di guardarsi, cercarsi, più che l’individuazione di certezze e giudizi definitivi: già ai primordi della sua operazione, in un clima romagnolo-blues, ma molto diverso da analoghi esperimenti dei Gufi, o di Pino Daniele in ambito partenopeo, il suo naturale anticonformismo ha una venatura dandy e sensibile alla dimensione cabarettistica, ad esempio in un brano in cui talkin’ blues e Dylan fanno la parte dei leoni:

Sono un tipo antisociale, non m’importa mai di niente, non m’importa dei giudizi della gente. Odio in modo naturale ogni ipocrisia morale, odio guerre ed armamenti in generale. Odio il gusto del retorico, il miracolo economico, il valore permanente e duraturo, radio a premi, caroselli, T.V., cine, radio, rallies, frigo ed auto non c’è «Ford nel mio futuro»! E voi bimbe sognatrici della vita delle attrici, attenzione da me state alla lontana: non mi piace esser per bene, far la faccia che conviene poi alla fine sono sempre senza grana… […] Sono senza patrimonio, sono contro il matrimonio, non ho quello che si dice un posto al sole; non mi piaccion le gran dame, preferisco le mondane perché ad essere sincere son le sole… Non mi piaccion l’avvocato, il borghese, l’arrivato, odio il bravo e onesto padre di famiglia […] Sono un tipo antisociale, non ho voglia di far niente, sulle scatole mi sta tutta la gente. In un’isola deserta voglio andare ad abitare e nessuno mi potrà più disturbare162.

Il testo risente di un atteggiamento usuale allora, in piena epoca beat (non a caso l’album da cui è tratto ha titolo Folk Beat n. 1), dove si incontrano, a cavallo fra il ’65 e il ’66, molti testi che sottolineano il rifiuto delle convenzioni piccolo-borghesi, spesso in modo ingenuo: «Che colpa abbiamo noi», «Come potete giudicar», «Un ragazzo di strada», «La mia libertà», «Per quelli come noi»; molti altri prendono spunto, nei casi migliori, anche da suggestioni ancora una volta dylaniane, il Dylan di «Like a Rolling Stone», di «Chimes of Freedom», «Ballad in Plain D», a metà strada fra la denuncia sociale e il vagheggiamento di un romantico vagabondaggio ai margini del perbenismo borghese, grazie anche all’apporto dei gruppi più musicalmente duri, come Rolling Stones, Animals, Small Faces, Spencer Davis Group. È evidente in Guccini una vena malinconica che è a un passo dall’ abbandono totale al flusso delle cose, ma che è anche denuncia del conformismo e dell’abitudine senza speranze, e che porta con sé suggestioni crepuscolari: Laforgue e Gozzano, solo per fare due nomi. Non a caso un Lp del bolognese ha come titolo L’isola non trovata, che è un riferimento gozzaniano.

Le suggestioni di cui stiamo parlando non significano riprese e prestiti diretti; in Guccini alcune concessioni al dubbio, al guardarsi indietro e attorno con meno energie e certezze, sono parte di una letteratura che piega verso la riflessione amara, la stanchezza esistenziale: Venerdì Santo piene d’incenso sono le vecchie strade del centro, o forse è polvere che in primavera sembra bruciare come la cera. Venerdì Santo stanchi di gente siamo in un buio fatto di niente, Venerdì Santo anche l’amore sembra languore di penitenza163.

In Guccini convivono speranza di cambiamento e ripensamenti esistenziali, sguardi ingenui e celebrativi dell’eroismo anarchico, come nel caso della «Locomotiva», benevole autodenigrazioni, grottesche rielaborazioni di anticlericalismo cabarettistico (Opera buffa), limpide e struggenti rievocazioni di stagioni concluse. Anche la concezione del mondo di Claudio Lolli investe aspetti non solo immediatamente politici, ma personali e di costume, o situazioni diffuse ai tempi della leva obbligatoria: Questa è la storia, di un povero soldato, che in una notte d’estate s’è ammazzato. Stringersi al collo una cinghia di cuoio, non si fa in tempo neanche a pensare: muoio. Solita storia, solita la canzone, solita vita, solita situazione. Soliti accordi, soliti anche i versi, solo i tuoi occhi amico quelli erano diversi, solo i tuoi occhi amico quelli erano diversi. Porca Eva, proprio a te è toccato morire di leva164.

Guccini e Lolli, entrambi bolognesi, si avvicinano l’uno all’altro soprattutto nella descrizione di una festa di compleanno, dove lo squallore di una vita che trascorre senza ragioni apparenti fa da leitmotiv a pennellate a metà fra bozzetto e manierismo impressionista; vale per tutti la descrizione di Lolli, più dura, lucida e meno compiacente verso le tenerezze d’occasione: Si porta in tavola la commozione tutti i ricordi di giovinezza, la ruota gira, gira il timone fa capolino un po’ di tristezza. Fa capolino un poco di rabbia, fa capolino una vita schifosa,

fa capolino il giorno in cui mamma diede il suo frutto di giovane sposa. […] Suona alla porta, un poco di gioia, con i bambini di tua sorella, vengono a fare la festa più bella, perché oramai qualcuno si annoia. […] Passa la mezza così a chiacchierare, ormai qualcuno se ne vuole andare, qualcuno dice che non importa anche se non si mangia la torta165.

È un quadro lontano dagli amori finiti e dai baci di tanta canzone contemporanea, perché alla tristezza si sovrappone una lucida presa di coscienza della realtà, con il rifiuto dell’abbandono totale, con la speranza di trasformare tutta questa assenza in un qualcosa di più umano. Si avverte soprattutto la volontà di conservare una propria individualità in un mondo dove tutto sembra funzionale al profitto, al guadagno, al mercato, anche la tragedia: ricordiamoci la canzone di De Gregori dedicata a Tenco, con quel «Tutti dicevano “Io sono stato suo padre”/ purché lo spettacolo non finisca». Il senso di precarietà, ostentata come un trofeo contro l’immobilismo senza senso del buon borghese, arriva fino a quelli che sono considerati i manifesti di un’epoca: «L’avvelenata» e «Eskimo». Ed io che ho sempre un eskimo addosso uguale a quello che ricorderai, io, come sempre, faccio quel che posso, domani poi ci penserò se mai ed io ti canterò questa canzone uguale a tante che già ti cantai: ignorala come hai ignorato le altre e poi saran le ultime oramai166.

Viene da pensare al Pavese de La Luna e i falò, che guarda al mito del viaggio e della fuga con gli occhi di chi ha già davanti a sé il ritorno, o il fallimento: Tornò come fan molti, due soldi e giovinezza ormai finita. L’America era un angolo, l’America era un’ombra, nebbia sottile; l’America era un’ernia, un gioco di quei tanti che fa la vita, e dire boss per «capo», e ton per «tonnellata», raif per «fucile». Quand’io l’ho conosciuto, o inizio a ricordarlo, era già vecchio; sprezzante come i giovani, gli scivolavo accanto senza afferrarlo, e non capivo che quell’uomo era il mio volto, era il mio specchio, finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo167.

Impegno e dubbio, realtà e sogni, coscienza di fallimenti e riscoperta di sé

segnano i tentativi di restituire alla canzone una dignità poetica attraverso la negazione dei modelli e dei padri. Non tanto e, soprattutto in quegli anni, non solo rivoluzione o applicazione di dettami dottrinali: rimaneva ancora sul tappeto il problema, sollevato vent’anni prima da Vittorini nella polemica contro Togliatti, del fare letteratura come «suonare il piffero» per la rivoluzione, in qualsiasi salsa o condimento; si fa strada, anche nella canzone d’autore, un atteggiamento volto alla reinvenzione, all’abbandono delle remore ideologiche, alla tanto temuta e secondo alcuni «reazionaria» fantasia per dare una motivazione all’esserci. In questa direzione di ricerca di autenticità, con tutti gli equivoci che l’accezione di autenticità può creare, non è difficile rilevare come qui e là riaggallino suggestioni culturali, lontane e vicine, che a volte involontariamente – e in altri casi coscientemente – ritessono le fila di un riavvicinamento di letteratura e canzone, una linea di partenza per nuove esigenze creative e comunicative. Note 136 L. Ferré, «Thank you Satan», in La canzone francese, cit., pp. 138 ss. 137 L. Ferré, «Il n’y a plus rien», ivi, p. 162. 138 A. Rimbaud, «Soleil et chair», in Opere, cit., p. 31. 139 Ivi, p. 33. 140 J. Prévert, in Poesie, cit., p. 33. 141 Ivi. 142 G. Brassens, «Mourir pour des ideés», in La canzone francese, cit. p. 137. 143 G. Béart, «La veritè», ivi, p. 182. 144 A. Ginsberg, Jukebox all’idrogeno, Mondadori, 1971, p. 157. 145 B. Dylan, «Only a Pawn in Their Game», in Blues, ballate e canzoni, cit, p. 77. 146 B. Dylan, «All Along the Watchtower», ivi, pp. 233-235. Traduzione mia. 147 Ivi. 148 B. Dylan, «It’s Alright, Ma», ivi, pp. 162-169. Traduzione mia. 149 F. De Gregori, «Cercando un altro Egitto», in Francesco De Gregori, cit. 150 F. De Gregori, «Finestre di dolore», ivi. 151 Dante, Inferno, canto XIII, vv. 101-102. 152 Dante, Purgatorio, canto VIII, vv. 25-26. 153 A. Venditti, «Piazzale degli Eroi», in Quando verrà Natale, Lp RCA Italiana, 1974. 154 A. Venditti, «L’ingresso della fabbrica», in L’orso bruno, Lp RCA Italiana, 1973. 155 A. Venditti, «Lontana è Milano», ivi. 156 A. Venditti, «Il treno delle sette», in Le cose della vita, Lp RCA Italiana, 1973. 157 A. Venditti, «Canzone per Seveso», in Ullalla, Lp RCA Italiana, 1976.

158 C. Lolli, «Borghesia», in Non sparate sul cantautore, cit., pp. 149-150. 159 A. Bruant, «Las canuts», in La canzone francese, cit., p. 56. 160 N. Colombier, «Bal de sociète», ivi, p. 98. 161 J. Prévert, «Les temps de noyaux», in Il Prévert di Prévert, Feltrinelli, 1967, pp. 79-81. 162 F. Guccini, «L’antisociale», in Folk Beat n. 1, Lp La voce del padrone, 1967. 163 F. Guccini, «Venerdi Santo», ivi. 164 C. Lolli, «Morire di leva», in Un uomo in crisi. Canzoni di morte, canzoni di vita, Lp EMI Italiana, 1973. 165 C. Lolli, «La guerra è finita», ivi. 166 F. Guccini, «Eskimo», in Amerigo, Lp EMI Italiana, 1978. 167 F. Guccini, «Amerigo», ivi.

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Reazione al mercato

Lukács aveva notato168 come Poe sia stato il protagonista di una precisa reazione al mondo e agli schemi del mercato culturale, nei modi in cui esso si andava configurando già dalla seconda metà dell’Ottocento. Il critico magiaro ha colto il senso di impasse esistenziale dello scrittore che offre una risposta di assoluta, visionaria individualità nel mercato delle lettere, tentando di recuperare un io profondo – e perduto – nella deriva della parola e della sua diffusione per mezzo di media che la riducono a veloce scambio, quasi a una contrattazione di merci. L’inquietudine scaturita da ciò che ancora rimane nel passaggio di quell’indefinibile confine tra sogno e realtà, visione ed epifania della materia attraverso lo sguardo sull’oggetto (e dell’oggetto stesso, come poi avrebbero insegnato Virginia Woolf, Joyce ed Eliot) segna, oltre che l’individuazione dell’orrore umano (la morte è in noi: il monstrum siamo noi), anche l’emergere del motivo dell’abbandono e dell’esilio, che deriva in buona parte dal pre-romanticismo tedesco, ma che ha radici più antiche. L’uomo della folla, il viaggiatore che si affaccia sul mare in tempesta, come nelle celebri raffigurazioni di Friedrich, e più tardi il manichino, figura emblematica di tutta una cultura non solo artistica, sono le diverse facce della coscienza dell’alienazione. Il senso di isolamento in Poe è riferibile a una sensibilità che si era andata rimodulando già nel passaggio tra Sette e Ottocento, nella coscienza che il mitizzato equilibrio dei modelli classici non sarebbe più stato raggiunto. Solo attraverso il tentativo di un viaggio senza meta apparente quella patria perduta avrebbe potuto essere di nuovo riconquistata, anche se iniziava ad

aleggiare il dubbio che la vera meta fosse la ricerca nel viaggio stesso. Da Poe a Baudelaire e alla ripresa di alcuni «maledetti», e, lentamente, la riemersione oltre oceano nei viaggiatori, nei vagabondi consapevoli alla ricerca del rapporto con la natura indicata da Thoreau e Emerson, il viaggio riprende il centro della scena, fino ad arrivare all’hobo di Dylan. Abbiamo già visto come la mancata adesione del cantautore americano alle componenti più impegnate e radicali del panorama politico americano e le sue scelte anche religiose possano essere interpretate alla luce di questa sostanziale continuità culturale. Proprio per approfondire il principio di estraneità anche ai progetti di cambiamento delle rispettive epoche ci soffermeremo su tre protagonisti della cultura americana di Otto-Novecento: i già citati Poe e Dylan, e Gregory Corso, vagabondo per le strade di New York e oltre, uno dei protagonisti di quella generazione più vicina ai modelli perduti, compresi quelli classici, di quanto si possa pensare. La cultura antica (greca, quella rinascimentale, ma anche Dante) era vagheggiata come archetipo, come dimensione universale perduta. In Poe leggiamo: L’ultimo luogo in terra ch’io calcai fu quel superbo tempio, il Partenone; […] E quando il Tempo sciolse le mie ali, mi levai come l’aquila dal nido, anni lasciando dietro me in un’ora sempre ch’io sorvolassi i suoi confini metà del suo fiorito globo agli occhi spiegato mi s’apriva come carta di paese, e città insieme!169

È interessante rilevare come questi stimoli, norma in tutta una dimensione di «sensitivi» romantici come Hölderlin, Poe, Novalis e in parte Baudelaire, siano presenti anche in uno spazio culturale come quello del Greenwich Village, dove la sperimentazione sembrava, ai non addetti ai lavori, compiaciuta trasgressione (ma in realtà così non era, o lo era solo in parte) della cultura tradizionale: Mi arrampico ed entro un’adunata focosa di cavalieri ignari della mia presenza stendono mappe di pergamena e con dita cotta di maglia tracciano il mio arrivo indietro indietro indietro quando sui neri scalini della Roma di Nerone con la lira io stavo170

cui è collegata una aristocratica caduta: Condotto a 100 km/h per queste troppo reali strade di Mafia empiamente io lasciai cadere le mie ali d’Ermes. O Tempo sii pietoso171.

E ancora: Lorenzo sogna di destare uccelli azzurri Ariosto si succhia il pollice Michelangelo siede in mezzo al letto […] destato da nessun mutamento nuovo Dante getta indietro il cappuccio di velluto, i suoi occhi sono profondi e tristi. Il suo cane danese piange. Della primavera nessun segno!172

In quest’ultimo episodio, tratto dalla poesia «La primavera del Botticelli», è interessante notare quel senso di inquieta rivisitazione del mito, e di una storia che per la sua irripetibilità ripropone la dimensione dell’assenza; una diversa e moderna disposizione che evita il pericolo della cristallizzazione mitologica, grazie al potere visionario che stravolge la fissità delle figure. Anche qui è possibile un collegamento con elementi del Novecento europeo, fra cui il nostro Campana, oltre a Pavese, contraddistinti da uno scavo profondo delle ragioni della poesia e dell’esistenza. Nei Canti Orfici del poeta di Marradi, fra le tante rievocazioni, oniriche, mitiche e reali, ve ne è una che riassume la sua finale ricerca di senso nella visione salvifica: Mentre più dolce, già presso a spegnersi ancora regnava nella lontananza il ricordo di Lei, la matrona suadente, la regina ancora ne la sua linea classica tra le sue grandi sorelle del ricordo: poi che Michelangiolo aveva ripiegato sulle sue ginocchia stanche di cammino colei che piega, che piega e non posa, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano, e lo sbattere delle pose arcane e violente delle barbare travolte regine antiche aveva udito Dante spegnersi nel grido di Francesca là sulle rive dei fiumi che stanchi di guerra mettono foce, nel mentre sulle loro rive si ricrea la pena eterna dell’amore173.

È evidente la tensione radicale (e la drammatica ripresa del rapporto preromantico e decadente fra opera e vita) alla rivisitazione impaziente che, per reazione a una realtà modellata su un mercato di domande e offerte materiali, guarda al mito come scintilla primigenia in un tentativo disperato di rifondazione: atteggiamento simile al Rimbaud della creazione di una nuova realtà nella trasgressione lessicale, oltre che esistenziale. Ma anche

vicina al dialogo fra Prometeo ed Eracle, in cui Pavese lascia dire al primo: «O Eracle, c’è una sapienza più antica. Il mondo è vecchio, più di questa rupe. E anche loro lo sanno. Ogni cosa ha un destino»174. Anche Dylan si affaccia sulle radici mitiche, nel suo caso quelle bibliche: La Madonna nera della motocicletta regina zingara su due ruote con il suo fantasma incastonato d’argento fa urlare il nano in flanella grigia e lui piange mentre malvagi uccelli di preda beccano i suoi peccati di briciole di pane e non ci sono peccati dentro i Cancelli dell’Eden175.

Come si vede, a parte il registro linguistico che raccoglie derivazioni colte, retaggi espressionistici, sperimentazioni che vengono anche da allusioni agli effetti «creativi» degli allucinogeni, c’è da notare l’aggancio fra la consueta nominazione urbano-favolistica (regina zingara, fantasma d’argento, nano in flanella) e il senso d’esilio, di estraneamento e di aristocratico rifiuto rispetto a una realtà mediocre e mercificata. Sembra regnare la nostalgia di luoghi ancestrali, dove tutto è ancora incontaminato e pacificato in un equilibrio ora perduto («Non ci sono peccati dentro i Cancelli dell’Eden»). Proprio il senso della vita come esilio ha precedenti lontanissimi, anche nei lirici greci: Saffo, ad esempio: Vaghezza mi punge di morire. Vedere nella rugiada i fiori di loto, lungo l’Acheronte!176

Il senso di esilio è presente ovviamente nella tradizione cristiana medioevale, soprattutto in Dante: Sì, soprastando al lume intorno intorno, vidi specchiarsi in più di mille soglie quanto di noi là su fatto ha ritorno177

in Baudelaire: Un’Idea, una Forma, un Essere partito dall’azzurro e caduto di uno Stige, melmoso e cupo, dove occhio del Cielo non penetra178

e ancora una volta in Campana: Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza?179

Fino al rimpianto radicale di Hölderlin, il poeta che ha tentato di ripercorrere antichi sentieri pre-logici in cui divino e umano erano ancora uniti: «Risuona un evento divino da tempo antico ormai spento»180, e ancora: «Che è la vita degli uomini? Un’immagine della divinità»181. Note 168 Cf G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, Einaudi, 1964. Traduzione di C. Cases. 169 E. A. Poe, «Al Aaraaf», in Tutti i racconti e le poesie, cit., p. 1147. 170 G. Corso, «In The Fleeting Hand of Time», in Benzina, a cura di G. Menarini, Guanda, 1969, p. 23. 171 Ivi, p. 25. 172 G. Corso, «Botticelli’s Spring», ivi, p. 45. 173 D. Campana, «La notte», in Opere e contributi, cit., p. 8. 174 C. Pavese, «La rupe», in Dialoghi con Leucò, cit., 102. 175 B. Dylan, «Gates of Eden», in Blues, ballate e canzoni, cit., p. 161. 176 I lirici greci, cit., p. 198. 177 Dante, Paradiso, Canto XXX, vv. 112-114. 178 C. Baudelaire, «L’irremédiable», in Tutte le poesie, cit., p. 189. 179 D. Campana, «Il viaggio e il ritorno», in Canti Orfici, Vallecchi, 1973, vol. I, p. 17. 180 F. Hölderlin, «Germania», in Inni e frammenti, cit., p. 101. 181 F. Hölderlin, «Che è la vita degli uomini?», ivi, p. 215.

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Il superuomo straccione

La musica rock e quella dei cantautori più o meno «leggeri» attraversa momenti di maggiore stanchezza, di ripiegamenti e di concessioni al buon senso comune, periodi di «bontà», come vedremo nei riferimenti alla letteratura. Perché non è accaduto solo nella canzone: basti pensare al primo grande azionista del mercato delle lettere nostrane della prima parte del Novecento, D’Annunzio, con l’abbandono – temporaneo – dei motivi superomistici e il riflusso nella «bontà» del Poema paradisiaco e di altri episodi del periodo romano. Una vera e propria esplosione «barocca», di manierismo aggressivo, talvolta anche verso le proprie motivazioni culturali, è avvenuta per esempio intorno ai primi anni ’70. Le forme stilistiche che avevano dominato la seconda metà degli anni ’60 erano entrate in crisi. Il beat elettrico e semplice nelle sue espressioni di base, l’ingenuo folk alla Donovan e la protesta avevano esaurito le loro possibilità utopistiche di rinnovare società, contenuti e stili. Ma non c’è mai una frattura completa con il passato, e il futuro non nasce per caso e dal nulla. C’è sempre una sottile vena critica e palingenetica che, seppure debitrice del linguaggio dei tempi, continua a pulsare anche negli schemi della nuova musica, giovanile e non. L’espressività viene accentuata fino a diventare espressionismo: si pensi solo all’uso della voce da parte di Tim Buckley. La voce torna a essere strumento, momento di comunicazione e insieme di rottura; il suo Starsailor è l’estremo e coraggioso atto di predicazione di un raccordo impossibile con il mondo che si veniva frantumando alla luce della lucida

ragione e all’ombra di tentativi di conciliare il sogno con il quotidiano. La ricerca di un nuovo linguaggio, di una nuova forma di comunicazione, di abbandono alle voci del cosmo ha antiche radici culturali, a volte inconsapevoli, altre volte ben presenti e citate: affondano – lo abbiamo già notato – nel cosiddetto decadentismo europeo con tutta una fascia di precursori, Baudelaire, Rimbaud, Lautréamont, Verlaine, Laforgue, ma soprattutto con la tensione verso la parola assoluta – e il silenzio – di Mallarmé, che hanno affascinato molti autori del Novecento. Soprattutto per il tentativo di sganciare la parola da un significato ormai sclerotizzato, cercando una dimensione che avesse nella suggestione, nel potere evocativo, nella musicalità (come nel cosiddetto orfismo di Campana) la nuova ragione d’essere. E come era accaduto tra fine Ottocento e primo Novecento, così anche gli anni ’70 del secolo breve hanno conosciuto l’affermazione di un atteggiamento di orgogliosa coscienza e nel contempo di superamento dei tradizionali schemi stilistici e, più in profondità, conoscitivi. Veniva abbandonata la semplice struttura della canzone, compresa quella beat, 2 minuti e mezzo, max 3 di durata, con strofa, ritornello e coda, e introdotta una misura più larga, ricca di movimenti, con atmosfere sospese e allucinate, attraversate da improvvise riprese ritmiche, con la voce che acquista una dimensione diversa nell’economia dell’opera e nella sua esecuzione. Di volta in volta aggressiva, insinuante, stridula, in primissimo piano o volutamente coperta in studio dagli strumenti, la voce riacquista una funzione più teatrale, in questo caso diversa da quella degli Hendrix, Jagger, Joplin e molti altri, più allusiva e raffinata, attenta alle sfumature simboliche, ad accompagnare le trasformazioni rapide e sfarzose di un Peter Gabriel, frontman dei Genesis. Ma gruppi come Family, Jethro Tull, Gentle Giant, Van Der Graaf Generator, Yes, Amon Düül II e molti altri non nascono, è il caso di ripeterlo, dal nulla. I loro componenti avevano suonato e si erano fatti le ossa negli anni ’60 ascoltando le band della protostoria rock. I Rolling Stones, ad esempio, un punto di riferimento che torna più spesso di quanto si potrebbe sospettare. Il loro stile aggressivo, con una ritmica ossessiva, con concessioni al melodico manieristico, a volte medievaleggiante («Lady Jane», ad esempio, per rimanere all’interno di uno degli archetipi operativi anche dopo i ’60 e legati alla dimensione della letteratura, in questo D. H. Lawrence), la presenza di un transformer ante

litteram come Mick Jagger e una storia di continue trasgressioni estetiche, individuali e sociali, sono diventati un punto di riferimento. L’uso della voce, per esempio nei Van Der Graaf Generator e nei Family, ha precedenti, fatta ammenda delle ovvie differenze, in Hendrix e Jagger, che la tenevano talvolta «sotto», coperta dagli strumenti, per cercare di assimilarla al suono complessivo e di formare un – aggressivo – tutt’uno. Il tono, la particolare sensualità della timbrica, l’allusività avevano preso, dopo la metà dei ’60, il sopravvento sulla limpidezza della bella voce da melodia dei crooner e sulla perfetta sintassi vocale e gestuale. Jagger, Daltrey (voce degli Who) e Hendrix si mangiano le parole o le usano a nastro, riprendendo alcuni stilemi del talkin’ blues e precedendo così i modi dei rapper e dell’hip hop. Demetrio Stratos sarà uno dei protagonisti di questa ricerca delle nuove, rivoluzionarie possibilità creative della voce umana. Una ulteriore rivolta estetica, con la sperimentazione di strade altre rispetto alla melodia tradizionale non solo del crooner ma anche del Mersey beat dei ’60. Un’altra modalità di codificare il bisogno di trasgressione e di spingersi oltre i confini di una musica ormai sclerotizzata è il transformer, l’uomo anceps, ambiguo sessualmente, ma soprattutto moralmente ed esteticamente, che trova il suo apice in David Bowie e Lou Reed. Il performer di New York, scomparso nel 2013, e che Bowie considerò un maestro, aveva intuito i limiti e la progressiva banalità del giocare tutto esclusivamente sull’ambiguità sessuale, e puntò anche sull’effetto animalesco, trasgressivo, oltre che sul recupero di una certa contiguità fisica con la carica sessuale «virile», da Elvis Presley a Mick Jagger. Reed, che aveva una profonda conoscenza della letteratura, sapeva che dal decadentismo in poi lo spettacolo era divenuto proiezione sul pubblico di tutto il magmatico insieme di impulsi, frustrazioni, aberrazioni, senza alcuna giustificazione e senza alcun senso di inferiorità, anzi. Wildismo e neo-estetismo canzonettaro in cerca di nuovi spazi? Senza dubbio, se vediamo la questione dall’orizzonte del mercato, quando molti ruoli e certezze vengono messe in discussione, e perfino la trasgressione deve essere oculatamente gestita per permettere la penetrazione in altri territori commerciali. Il problema di oggi, più di ieri, è che, nel campo musicale «leggero» si è alla ricerca del sedicente mito «trasgressivo» che faccia gridare allo scandalo le mamme che guardano in televisione il festival di Sanremo. La ricerca della piccola trasgressione che mostri, con

prudenza da voyeur, come lo spettacolo sia all’altezza dei tempi in una lenta accettazione di ciò che poco prima era considerato indecente, come Joseph P. Overton illustrerà nella sua ormai celebra Finestra, è uno dei nodi cruciali del mercato, come la rinnovata affermazione che questo o quel gruppo possa essere la nuova incarnazione dei Beatles: il solo riferimento ai fenomeni passati chiarisce la mancanza di una realtà in grado di cambiare i destini dello spettacolo e del mercato. Lo stesso Lou Reed aveva varcato quel mondo passando per una porta leggendaria, del cosiddetto underground americano, quella di Andy Warhol. Allora si creò un personaggio sempre più aderente alle richieste di un pubblico giovane in attesa di segni nuovi: era necessario confessare e esorcizzare con una ritmica ossessiva, allucinata, i problemi della solitudine e della droga, supplire alla mancanza di riferimenti e alla sensazione di abbandono con l’offerta di un personaggio che facesse dei problemi e delle aspirazioni giovanili una disperata e però autentica professione di fede. Lou Reed ha giocato anche sul piano estetico, ma non è caduto nella retorica del discorso roboante o banalmente estetizzante, inseguendo anzi realtà sociali concrete, anche in un beffardo autocompiacimento, con l’incarnazione di personaggi che di volta in volta sembrano uscire da film polizieschi anni ’50 o da autentiche tragedie esistenziali della generazione freak. Su tutto, però un tessuto di citazioni spesso occultate, di languide allusioni a una nobiltà sfiorita o ritrovata: e qui chi dovesse pensare al dandy di Baudelaire avrebbe tutte le ragioni. Senza dimenticarci del rimbaudiano viaggiatore trasgressivo. La precettistica agiografica lo vuole in giro per le strade e i vicoli di New York, pronto a tutte le esperienze, anche quelle della Saison en enfer dentro la caverna oscura dell’irrazionalità, del ritorno annientatore in un crepuscolare bisogno di forza e di violenza: Ehi uomo, qual è il tuo stile? […] sai che adoro il tuo modo di guidare l’automobile… Ehi uomo, qual è il tuo stile? Non sono geloso della tua maniera di vivere… Quando hai ammazzato quel gatto, l’altra notte, con quel punteruolo, ehi, fratello lo hai fatto così bene… fallo di nuovo adesso… mentre il sangue gli scendeva dal petto, era molto meglio del sesso…

era meglio del mio stesso piacere, era proprio il finale adatto… prendi qualcuno che venga con te e poi… prendi qualcuno che venga con te… meglio che lo uccidi adesso… Meglio che lo uccidi ora… sì ammazzalo ora… perché ho bisogno di eccitanti, sì, v-o-g-l-i-o qualcosa di emozionante, oh andiamo, dammi dammi dammi qualche sensazione182.

La ricerca della trasgressione, del superamento della morale corrente non è sviluppata come un’ideologia (ir)razionale dell’esistenza, ma come un antico discorso rovesciato, una logica ribaltata e schernita su e con il proprio stesso corpo di eccitatore e eccitato, di corrotto residuo di una civiltà alle prese con i limiti sempre più drammatici del proprio sviluppo. O del proprio crepuscolo. Nel testo qui citato, Lou Reed non offre qualcosa, ma si offre, attraverso il rovesciamento del buon senso borghese: il saggio non propone più nulla, anzi, in realtà suggerisce, con noncuranza, ma anche con una esibita stanchezza, l’abbandono del ruolo di sapiente e l’assunzione del suo contrario, come accadeva qualche anno prima nel Dylan della già citata «All Along the Watchtower», in cui un giullare e un ladro attendono l’ora del rovesciamento dei ruoli attraverso l’abbattimento dell’ordine borghese, dove a scacciare la menzogna sono proprio i fuori-ruolo per eccellenza, un buffone e un criminale: «Così non parliamo falsamente adesso / l’ora si sta facendo tarda». E non sarà sfuggita al lettore l’atmosfera apocalittica che proviene anche dalla letture bibliche, fin dalle radici familiari a Dylan. Anche i Rolling Stones avevano offerto una prova di questo rovesciamento della figura dell’eroe d’occidente in «Let It Bleed», del 1969: «Tutti abbiamo bisogno di qualcuno da dissanguare / e se vuoi farlo allora perché non dissangui me»183. Il cantore della nuova epica rovesciata rivela ancora una volta un debito non solo con Baudelaire ma anche con Lautréamont, e, se vogliamo avvicinarci cronologicamente, con Hesse e il suo lupo in fuga da un ruolo prefissato all’interno della società tedesca ai primi del Novecento, troppo saggio per accettare quella trappola per topi, troppo animale per sfuggire completamente alle sirene dell’istintività, che nel frattempo ha riacquistato nuova linfa con l’oltre-uomo di Nietzsche. Anche se la tentazione di chi vi scrive è quella di ritenere assai influente, in questo contesto, la suggestione di quel dostoevskiano «Sono un uomo malato… sono un uomo cattivo», celebre incipit dei Ricordi dal

sottosuolo184, rovesciamento radicale della figura positiva dell’eroe romanzesco dominante prima di quel fatale 1865. Ma altre inquiete – e inquietanti – figure si sporgono da una finestra ormai spalancata: quella della prostituta, emblema post-baudelairiano e dostoevskiano della società metropolitana, in una dimensione in cui regnano la babelica confusione delle lingue e il rovesciamento, dove Frankenstein è insieme amante e schiavo del mostro da lui stesso creato. Abbiamo parlato dell’übermensch di Nietzsche, a patto che lo si intenda anche nel suo capovolgimento in senso estetico, variante maschile della figura della prostituta di cui si diceva poco prima, genialmente impersonato da David Bowie, ma mai come in Reed portato a contraddizione estrema e compiaciuta. Il rifiuto del mercato, la scelta di stare lontani dalle ideologie, anche quelle sedicenti progressiste, saranno gli elementi fondanti di una esperienza italiana: quella di Faust’O, in realtà Fausto Rossi (il vero nome sarà recuperato nel 1992 con l’album Cambiano le cose). Qui personale visione dell’arte, non solo della musica, ripresa della beat generation, soprattutto William Burroughs, e potere creativo delle erbe creano i presupposti per una instabile soluzione creativa che ha elementi comuni al primo Lou Reed e ai Velvet Underground, Iggy Pop, David Bowie, ma anche l’altro David, il Byrne musa dei Talking Heads, e Roxy Music. Faust’O è forse il primo e l’unico rappresentante di una cultura antagonista senza schemi prefissati ideologicamente e che pone l’opposizione al mercato come ragione d’esistere. Forse solo Bukowski, ma fuori dal mondo musicale, ha espresso attraverso un linguaggio brutalmente materiale e scatologico l’aggressione alla cultura paludata, mainstream o superficialmente protestataria simile – e antecedente – a quella di Faust’O. Anche se nell’autore di «Suicidio» appare, in profondità, la fascinazione di una figura completamente fuori dalla morale anche commerciale del suo tempo, fuori anche fisicamente e esistenzialmente: quella di Arthur Rimbaud, che dietro il linguaggio corporale, l’apparente brutalità del riporto immediato degli elementi biologici nascose un precoce sogno di rifondazione d’occidente e di fuga dalla noia borghese. Tornando a quanto stavamo accennando, la visione benjaminiana della prostituta-comunione con la città mutuata dal profeta Baudelaire giunge a Reed – e non solo – attraverso una infinita serie di mediazioni. Ambedue

hanno cantato l’angoscia dell’uomo che ha perso il proprio ruolo e anche la voglia di ritrovarlo, tenendo conto naturalmente della sfasatura cronologica. Il francese si serve di una lingua dotta contaminandola con l’anatomico disperdersi in pezzi del mondo antico e delle sue certezze; la sua parola è contaminata dal terremoto del nuovo eppure memore di una antica compostezza: Alla mensa di qualche Creso mostruoso, come parassiti, per piacere al bruto, degno vassallo dei Demoni, abbiamo insultato quel che amiamo e adulato quel che ci ripugna. Abbiamo rattristato, da carnefici servili, il debole disprezzato a torto; abbiamo la Bestialità enorme, la Bestialità con testa di toro; abbiamo baciato la stupida Materia con grande devozione e benedetto la livida luce della putrefazione. Infine, per affogare nel delirio la vertigine, noi orgogliosi sacerdoti della Lira, la cui gloria è sbandierare l’ebrezza de le cose funebri, abbiamo bevuto senza sete e mangiato senza fame!… – Dai, spegniamo quella luce! Nascondiamoci nel buio!185

Lou Reed ormai non aveva nessun bisogno di soffiare sulla lampada, perché era da tempo spenta. Non più la volontà di essere un poeta aristocraticamente e classicamente inteso, ma in un contesto mutato, quando mutata è la sua funzione: il transformer è ora un uomo da palco, da rock & roll, da luce di riflettori e lancinanti suoni di chitarre, amplificate allo spasimo. Non vuole e non deve realizzare un discorso su nulla, quel nulla è già in lui. Parla e canta di situazioni, storie sbocconcellate e travisate, sognate, testimonianze frantumate a volte dai complessi di colpa, a volte da un senso di superiorità sul piccolo borghese, a volte dall’acido lisergico. Ma più è forte la sensazione di essere ormai oltre, più forti arrivano la reazione, la violenza, la rabbia per una liberazione che non appare su nessun orizzonte. La coscienza di questa impossibilità favorisce l’ironica

aristocratica contemplazione del nulla e della negazione, in un distacco che spesso ha fatto nascere numerosi equivoci e accuse di neo-nazismo; la sua voce metallica, insinuante e sognante scherza con queste pretese tanto da inserire elementi inattesi di «correttezza» sessuale e misoginismo indifferente: Io sono proprio un regalo per le donne di questo mondo… sulle mie spalle pesa una grande responsabilità, come un buon vino io miglioro invecchiando e adesso sono proprio un regalo per le donne di questo mondo… sono un regalo per le donne del mondo, proprio un regalo per le donne di questo mondo186.

Ma i barlumi del dramma riaffiorano dovunque: Gli uomini di buona fortuna a volte desiderano morire, mentre i miserabili vogliono ciò che possiedono e se lo tengono stretto fino alla morte… Tutte quelle grandi cose che la vita può offrire: loro vogliono soldi, loro vogliono vivere ma a me, a me non importa niente187.

La caduta di ogni interesse verso una società che dietro l’ordine e il lusso nasconde la paranoia e il non senso è condivisa da Bowie: Sbattei la mia anima e vendetti la mia mente abbandonato vicino a un giovane bordello ero vagamento mezzo addormentato, per cui la mia reputazione fu spazzata via in un lampo188.

È questo decadente rilkiano «Io non ho casa paterna, e non ne ho perduta nessuna»189 che trascina i portavoce di una coscienza infelice verso l’ambiguità non solo sessuale. Nella marea di ironia e di contraddizioni, anche il progressismo può essere oggetto di derisione e sprezzante ironia, come accade nel Bowie di «Quicksand»: Non credere in te stesso non ingannare con la fede la conoscenza viene con la liberazione della morte. Non sono un profeta o un uomo dell’età della pietra solo un mortale con potenziale da superuomo continuo a vivere sono incatenato alla logica dell’Homo Sapiens non riesco a distogliere gli occhi dalla grande salvezza di una fede del cazzo se non spiego quello che dovreste sapere

mi potrete dire tutto quanto nel prossimo Bardo sto affondando nelle sabbie mobili del mio pensiero e non ho più il potere190.

È il rovesciamento, mediato dalla lettura del Libro tibetano dei morti (Bowie ha raccontato di essere stato tentato di diventare monaco buddista), della logica occidentale, un richiamo al dionisiaco ante-lògos ma che subito deve smitizzare la sua stessa tragicità, con una intermittenza di connotazioni comiche e ironiche, un buddismo metropolitano che legge la morte dell’anima sulle insegne al neon, come profetizzato, lo abbiamo già notato, a metà dei ’60 da «The Sound of Silence» di Simon & Garfunkel. Come si vede, questa sorta di superman-dandy ha già in sé la coscienza della contraddizione tra il senso del ridicolo e un drammatico insieme di farsesco e di tragico (lo spleen e l’ideale baudelairiani); l’accento non è più sulla coerenza razionale e sulla logica, bensì sul diritto all’incoerenza, sul rovesciamento dei caratteri «virili» del pensiero benpensante, sulla contaminazione di tutto e di tutti in un gioco mimetico. Qui, specie nella accentuata teatralità e nella proposizione di una trasgressione anche estetica, c’è il ricordo della passione wildiana per la contrapposizione ricercata come gusto di affermazione al di sopra della morale filistea: Il corpo pecca, ma una volta che ha peccato ha superato la sua colpa perché l’azione è una forma di purificazione: nulla più rimane se non il ricordo di un piacere o la voluttà di un rimpianto. L’unico modo di liberarsi di una tentazione è di abbandonarvisi: resistete e la vostra anima si ammalerà di nostalgia per le cose che si è vietata, di desiderio per ciò che le sue mostruose leggi hanno reso mostruoso e fuori legge. Hanno detto che i grandi eventi dell’umanità hanno la loro sede nello spirito. Ma nello spirito, e solo nello spirito, hanno sede anche i grandi peccati dell’umanità191.

Come si può notare, il «mostro» – nella accezione etimologica di prodigio, portento – assume le potenzialità attive e rifondanti contro i caratteri morali ritenuti «universali» che stanno per esseri messi completamente in discussione: mostruoso diventa ciò che ha compresso da secoli le potenzialità conoscitive e di appagamento nascoste nelle profondità dell’io e del desiderio. Tra fine Ottocento e inizio del secolo breve Freud andava sviluppando la sua teoria sulla libido, su una «economia» nascosta e talvolta traumaticamente emergente nella personalità individuale, che rivela un mondo sommerso di pulsioni e rimozioni la cui risalita ai livelli della coscienza assume i caratteri della frattura, della «malattia». E proprio sul

carattere di malattia come superamento si svolgerà gran parte delle poetiche a cavallo fra i due secoli. Lo slancio trasgressivo di affermazione di sé nella decadenza dei valori, assumendo anche la dimensione infima e negatrice, si trasmette fino alla cultura post-sessantottesca: il superuomo-prostituta estetico è alla ricerca anche delle radici della propria condizione, che lo allontana dalla dimensione baudelairiana dei Fleurs du mal, ma che nel contempo lo incatena all’ambigua altalena odio-amore per la città: Ma se sei stanco e nauseato dalla città ricorda ch’essa è solo un fiore scolpito nella creta… fatto d’argilla Oh, la città, dove tutto sembra tanto sporco, ma se sei stanco e pieno di compassione per te stesso ricorda che sei soltanto uno in più tra quelli che vivono lì…192

L’alternanza fra lucidità razionale, espressionismo corrosivo e gratuità della provocazione rappresenta la regola fra questi figli musicali del crepuscolo della ragione positiva, che diviene autocompiacimento e smarrimento del Pierrot Lunaire sospeso fra terra e cielo, a cui non è consentito né l’oblio del gregge cantato da Leopardi, né il nirvana della conoscenza. «Tutto l’onore va al corridore / che seguirebbe la gloria anche nel cuore del fallimento» è l’incoronazione dello slancio verso l’oltre, costi quel che costi, anche in termini di pensiero positivo e ideologico, presente nelle note di Radio Ethiopia di Patty Smith, che si concludono con le parole di Breton a suggello del suo Nadja: «La bellezza sarà CONVULSA o non sarà»193. Bowie, Reed, Smith hanno (ri)creato il teatro musicale attraverso una visionarietà che darà vita a nuove forme di coscienza collettiva, realizzando lo scenario di quella che sarà la cultura punk. E non solo. Note 182 L. Reed, «Kicks», in Lou Reed, a cura di W. Binaghi, Arcana, 1979, pp. 101-103. Il corsivo è nel testo. 183 Tradotto come «Lascialo dissanguare», in Rolling Stones. Tutti i testi. I. 1963-1969, Arcana, 1983 p. 109. 184 F. Dostoevskij, Ricordi dal sottosuolo, Feltrinelli, 1995, p. 23. Traduzione di G. Pacini. 185 C. Baudelaire, «L’examen de minuit», in Tutte le poesie, cit., p. 377. 186 L. Reed, «A Gift», in Lou Reed, cit., p. 103.

187 L. Reed, «Man of Good Fortune», ivi, p. 65. 188 D. Bowie, «The Width of a Circle», in David Bowie, a cura di P. Giaccio, Arcana, 1974, p. 55. 189 Cf F. Ewen, Bertold Brecht, Feltrinelli, 1970, p. 26. 190 D. Bowie, «Quicksand», in David Bowie, cit., pp. 95-97. 191 O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, Rizzoli, 1975, p. 31. Traduzione di U. Dettore. 192 L. Reed, «Ride Into the Sun», in Lou Reed, cit., p. 35. 193 Note di copertina dell’album Radio Ethiopia, Arista Records, 1976. L’edizione italiana di Nadja (or. 1928), il romanzo di Breton cui si fa riferimento, è stata pubblicata da Einaudi nel 1977, con la traduzione di G. Falzoni. La frase citata qui è a p. 141; i caratteri maiuscoli sono nel testo.

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Ancora sulla solitudine

La solitudine attrae inesorabilmente i poeti, e i cantautori. Spesso si lamentano di essere in difficoltà con l’altro e con il mondo. È un motivo che viene da lontano, probabilmente il più immediato retaggio colto della canzone d’autore: uno dei suoi elementi più importanti, diremmo quasi strutturali, è quello del rapporto con sé e con il proprio mestiere di vivere. E Pavese, che su quel mestiere aveva intessuto le sue dolenti memorie, era uno che di rapporti con il lavoro intellettuale ne sapeva molto. Abbiamo già visto come siano tante le contraddizioni che si annidano nelle operazioni e nelle poetiche, anche e soprattutto quelle dei più sensibili alle voci profonde del sé: coscienza delle mistificazioni che il mercato discografico opera sui rapporti bisogno-fruizione, difficoltà a impostare un rapporto profondo con il pubblico senza perdere però contatto con quel mercato, senso di distacco dall’ambiente spietatamente programmatorio e insieme insicurezza rispetto al pubblico che ha acquisito indipendenza, ma che è assai sensibile alle suggestioni dei nuovi media; nello stesso tempo creazione di un ruolo lontano dalle banalità quotidiane, ma anche improponibilità di una adesione a una precisa posizione ideologica che priverebbe della necessaria libertà. Tutto questo contribuisce all’emergere di una sensazione di inadeguatezza e, appunto, di solitudine. Intanto ci torna alla memoria un’affermazione del buon vecchio Brassens: Il plurale non serve nulla a nessuno e quando si è più di quattro, non si è altro che una banda di stronzi. Per conto mio, accidenti! È la mia regola e ci tengo. Tra i nomi di quelli che se ne vanno via, il mio non lo vedrete194.

Il tono è scherzoso ma nello stesso tempo attraversato da una perentorietà quasi programmatica: lo si può prendere come dichiarazione di poetica, manifesto, come ai vecchi tempi, esistenziale, programma sui generis di chi vive nel e del mondo della canzone. C’è da dire che nel 1955 Claudio Villa e Tullio Pane vinsero il Festival di Sanremo con un «Buongiorno tristezza» che potrebbe fare al caso nostro, in barba alle contrapposizioni tra melodici e impegnati. Perché uno dei libri di culto degli anni ’50 è stato, guarda caso, quel Bonjour tristesse di Françoise Sagan, uscito in Francia l’anno prima. In realtà, la produzione festivaliera, romanticheggiante, pur sempre dentro i confini del mercato mainstream – ai limiti della paranoia, alcuni tragici esempi ce lo riportano alla mente – esprimeva con i termini tristezza e solitudine quasi sempre la conseguenza dell’addio all’amata/o, della fine di un amore, insomma. Quello è sempre piaciuto al pubblico dei fiori. Nel caso di cui ci stiamo interessando, invece, a parte occasionali rapporti amorosi, la solitudine è legata a una condizione esistenziale. Prendiamo il Lucio Battisti che ha svecchiato, prima con Mogol e poi con Pasquale Panella, la scena musicale «leggera» (con tutti i limiti di questa classificazione ormai da abbandonare) già da metà degli anni ’60: All’uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli poi, sconfitto, tornavo a giocar con la mente i suoi tarli e alla sera al telefono tu mi chiedevi: perché non parli195.

Mogol, seguendo antichi ricordi, come lui stesso ha poi confessato, accentua la complessità dei caratteri della solitudine, che non è più quella post-abbandono dell’amata, ma la frustrazione dello stare insieme senza più una ragione profonda, il sospetto del fallimento prima ancora dell’azione, anche la più banale, l’amarezza, l’abitudine e la percezione che l’amore non possa salvare nessuno. Prima una nuova coscienza, e poi una nuova affettività. Quale? Sembrerà strano, ma più tardi, con un salto che va dal ’71 al ’77, l’amore dei cantautori allora più impegnati nel sociale tornava a una dimensione meno pessimistica. Venditti, il «secondo» Venditti, quello meno risentito e aggressivo ideologicamente, vede l’amore come soluzione, e, sebbene in una accezione diversa, come comprensione, spontaneità, amicizia profonda, fuori dai vecchi schemi:

E Marina se n’è andata, oggi insegna in una scuola, vive male, è insoddisfatta, e capisce perché è sola, ma tutto quel che cerca e che vuole è solamente amore ed unità per noi196.

Solitudine che lo stesso Venditti vede come effetto di diverse cause, ma fra tutte una tipologia di lavoro, paradigmatica della mercificazione e riduzione a danaro della nostra società: Compagno di scuola, compagno per niente ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?197

C’è chi vive la contraddizione con autoironia, dove sesso e fantasie vaganti si sistemano su un tappeto stilistico semplice e comunicativo, come nel caso di Lucio Dalla, in una Bologna soffocata dalla canicola e dalla tentazione del sonno, in cui anche il sesso è proclamazione di identità solitaria198. L’ironia e un naturale senso di umorismo come quello di Dalla contribuiscono a sdrammatizzare, in parte, un problema che Guccini invece rivisita come coscienza di incomunicabilità fra due esistenze che si ritrovano ormai cambiate – e separate – dalla vita: E correndo mi incontrò lungo le scale quasi nulla mi sembrò cambiato in lei la tristezza poi ci avvolse come miele per il tempo scivolato su noi due. Il sole che calava già rosseggiava la città già nostra e ora straniera e incredibile e fredda come un istante déjà vu ombra della gioventù, ci circondava la nebbia199.

Cambiamenti non voluti né desiderati, subiti come effetto della vita che offre, prende, separa e trasforma, deformandola – e talvolta ridicolizzandone i protagonisti –, ogni cosa. Parole che fanno pensare – ancora una volta – al Pavese dell’impossibilità del ritorno come ritrovato accordo con le cose, vagheggiato nella Luna e i falò, ma presente in tutta la sua poetica: E allora noi vili che amavamo la sera bisbigliante, le case, i sentieri sul fiume,

le luci rosse e sporche di quei luoghi, il dolore addolcito e taciuto ‒ noi strappammo le mani dalla viva catena e tacemmo, ma il cuore ci sussultò di sangue, e non fu più dolcezza, non fu più abbandonarsi al sentiero sul fiume – – non più servi, sapemmo di essere soli e vivi200.

Si ricorderà che De Gregori aveva fatto riferimento a Pavese, alla sua difficoltà nell’aprirsi all’altro, alla solitudine nella coscienza dell’impossibilità di stabilire un rapporto affettivo, con un preciso richiamo «storico» a un evento della vita dello scrittore di Santo Stefano Belbo: E Cesare perduto nella pioggia, sta aspettando da sei ore il suo amore ballerino. E rimane lì, a bagnarsi ancora un po’, e il tram di mezzanotte se ne va201.

Ma la dimensione della solitudine in letteratura acquista un sapore particolare quando emerge il sottofondo di autocompiacimento che talvolta la pervade. In Sbarbaro, nel Novecento post-vociano, l’isolamento, una volta accettato, diventa drammatico superamento delle contraddizioni del mondo, non senza una struggente coscienza di caduta rispetto all’aspirazione a una vita piena, di tradizione dannunziana: La vicenda di gioia e di dolore non ci tocca. Perduto ha la voce la sirena del mondo e il mondo è un grande deserto. Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso202.

Questo senso di auto-isolamento di fronte al filisteismo dei propri simili è ancora più marcato nel contemporaneo Michelstaedter: Si sentirono soli ed estranei nelle tristi dimore dell’uomo si sentirono più lontani fra le cose più dolci e care. E bevendo lo sguardo oscuro l’uno all’altra dall’occhio nero videro la fiamma del mistero

per doppia face battere più forte203.

Qui è accentuato un particolare stile di risposta alla crisi del mondo contemporaneo: una sorta di nuovo stoicismo che trova il suo riferimento in Leopardi da una parte, in Nietzsche e nelle spinte antiborghesi dei movimenti anarco-sindacalisti del primo Novecento dall’altra; e ancora, in profondità, il richiamo di un archetipo più lontano di quello usuale grecoclassico: l’archè agognata, l’inizio dal quale scaturisce ogni essenza, l’attimo di comunicazione con il tutto, che si perde nella oscurità apparente dei presocratici o, per dirla secondo una suggestione che mutuiamo da Giorgio Colli, prima del Lògos. Come si vede, in Sbarbaro e Michelstaedter si intersecano influenze nietzschiane, crepuscolari e anarcoidi, classicheggianti e insieme mistiche; la mediazione determinante è però, come abbiamo constatato, quella di Leopardi: Posa per sempre. Assai palpitasti. Non val cosa nessuna i moti tuoi, né di sospiri è degna la terra. Amaro e noia la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. T’acqueta omai. Dispera l’ultima volta. Al gener nostro il fato non donò che il morire. Omai disprezza te, la natura, il brutto poter che, ascoso, a comun danno impera, e l’infinita vanità del tutto204.

Una tradizione che non conosce confini, né in un prima né in un poi, già presente, ad esempio, nella formulazione della casistica medioevale dell’amore e della tristezza, come in Guinizzelli: Disnaturato son come la foglia quand’è caduta de la sua verdura, e tanto più che m’è secca la scoglia e la radice de la sua natura: […] soletto come tortula voi’ gire, solo partir – mia vita in disperanza, per arroganza – di così gran torto205.

Anche la tristezza disincantata dopo l’ebbrezza dell’innamoramento, la filosofia terrena di Cavalcanti e la malinconica e narcisistica accidia del «realista» Cecco Angiolieri rivelano pur sempre la presenza della tradizione

e della nomenclatura delle reazioni amorose. Ma, specie in Cavalcanti, si fa già strada una diversa concezione esistenziale e poetica, una visione del mondo altra: anticipando di alcuni anni Dante, Cavalcanti inizia una operazione di esemplarizzazione dello Stil Novo (emergente nella sua identità culturale di gruppo elitario nel XXIV del Purgatorio per bocca di Forese Donati) che portava già in sé i germi della sua decadenza. La solitudine e la tristezza iniziano a non corrispondere più soltanto alla retorica amorosa ma a una disposizione complessa dell’animo che piegava verso la coscienza della fine e del disinganno di ogni umano amore. Diverse sono state le risposte alla complessa visione del mal d’amore, codificata – almeno in parte –, dalla stagione stilnovista: la visione di Corazzini di sei secoli dopo, ad esempio, esempio di una interpretazione della vita apparentemente opposta allo Stil Novo, dove non c’è più necessità di una occasione amorosa per definire la deriva esistenziale, predestinazione alla solitudine come inevitabile, continua, laica caduta. L’anima poi che nell’audaci voglie si disfece con gli ultimi rossori della sua giovinezza, in foglie e fiori malinconicamente si discioglie. E resta il cuore e resta il ramo: soli sospiranti in un intimo richiamo la rossa estate e il suo vivere corto206.

La suggestione dell’abbandono diventa, in alcuni giovani cantautori, lo spauracchio dal quale fuggire, pur avvertendone la sottile fascinazione, la sotterranea consonanza. In alcuni inizia a emergere il tentativo di non cedere ai languori della melancholia che attrae con la sua potente fascinazione di ricerca di ciò che non è stato o, al contrario, forse è stato nostro. Occorre una reazione, un punto fermo: è necessario vedere la realtà con gli strumenti che essa ci offre, e cambiarla, se è possibile. In poche parole si fa strada la necessità di affrontare le sirene della resa prendendo coscienza della realtà, a partire dalla propria solitudine. Una solitudine, rischiosa, ma anche amata e cercata, in De Gregori. E avevo in testa una fontana, una pioggia sottile di pensieri cattivi mentre la gente seduta al tavolino, contava il tempo con gli aperitivi e io inchiodato sulla strada pensavo ma tutto questo deve pure finire

e camminavo come un uomo tranquillo, e sotto questo grande cielo azzurro, finalmente mi sentivo un uomo solo207.

Su questo motivo operano anche la tipologia dylaniana del viaggiatore solitario e i fantasmi della solitudine del mondo poetico in Luigi Tenco. In Dylan è presente, anche se questo scandalizzerà molti, una tradizione. Che viene da lontano, e che aveva trovato un punto di consistenza nel ritorno alla natura del trascendentalismo americano, da Emerson a Whitman, passando per Thoreau. La condanna del materialismo egoista, del calcolo, della mancanza di un rapporto scevro da interessi meschini o da ambigui patteggiamenti, il rifiuto degli pseudo-valori borghesi, il senso – di cui ha parlato Walter Benjamin – di choc nell’impatto con la complessità e la violenza della città, sono i segni della nuova solitudine, della malattia metropolitana. E dopo Dylan, molti altri. Una delle più conosciute, e drammatiche, canzoni di Lou Reed, è una semplice testimonianza, sorretta da una ritmica incalzante che, nota su nota, cresce ossessivamente: mi piacerebbe esser nato mille anni fa mi piacerebbe aver navigato per mari oscuri su una nave gigantesca, viaggiando da un paese all’altro con vestiti e cappello da marinaio… Via dalla metropoli, dove un uomo non può essere libero da tutti i peccati di questa città, e da se stesso e da chi lo circonda… e credo solo di non sapere so soltanto di non sapere… Eroina, sarà la morte per me eroina, è la mia donna, è la mia vita, perché una strada dalle vene porta al centro della mia testa e allora sto meglio che se fossi morto208.

Esemplazione di situazioni diffuse, ricca di suggestioni poetiche, ma anche testimonianza vissuta, e poi, certo, soprattutto – ma non solo – la fascinazione di Rimbaud: il tentativo di andarsene dalla civiltà, dapprima con il sogno, poi con l’abbandono fisico dell’Europa, che in «Heroin» è rappresentato dalla fuga nella droga; una analogia con i «mari parlanti» de

«Il battello ebbro» del poeta di Charleville, ma anche con l’aspirazione al viaggio – contraddetta dalla fascinazione della città – di Baudelaire. In comune, fra Lou Reed e Rimbaud, quel senso finale d’amara sconfitta, di fallimento del tentativo di fuga da un mondo cui non si sente più di appartenere. Con la consapevolezza, oltre le maschere e l’autocompiacimento, dell’inutilità di quella fuga con la presa di coscienza, per Rimbaud del ritorno alla «pozzanghera d’Europa» e per Reed alla vita di tutti i giorni dopo il viaggio nell’eroina: il sogno di un mondo diverso, con la coscienza della sua impraticabilità. David Bowie incarna invece la commedia, che talvolta precipita in tragedia, del disadattamento, una solitudine divenuta dandismo estetico attraverso la maschera, la moltiplicazione di sé. Ma in Bowie è presente la coscienza che la poesia e lo stile – inteso in senso wildiano – sono di per sé l’unica possibilità di opposizione alla bruta realtà della borghesia. Se il fallimento è lì a pochi passi, la coscienza della propria diversità salva dalla paura dell’abbandono al fantasma menzognero della banalità che appare sui bastioni del buon senso: Smetterla è difficile, ma vivere nel buio è tremendo. Avevo tanti sogni, ho avuto tanti successi ma tu, amore, eri gentile ma l’amore ti ha lasciato disilluso. La porta dei sogni era chiusa il tuo giardino completamente inaridito forse ora stai sorridendo, sorridendo attraverso questa oscurità. Ma tutto ciò che potevo offrire è la colpa di aver sognato dovrebbe toccare a noi ormai209.

Emerge una poetica comune a quella di Reed: il mito del creatore immaginifico e trasgressivo da opporre alla mediocrità della vita borghese; bisogna creare un’altra possibilità di vita, che sarà praticabile nella misura in cui si crederà alla sua esistenza e la si vivrà come salvezza, in un equilibrio precario fra estetismo e fuga dal mondo, nel segno di una bellezza contaminata, ma anche discesa agli inferi della città, come testimonianza di fratellanza con i nuovi paria: gli omosessuali, i drogati, i deboli, gli insicuri, gli emarginati per questioni di pelle o di classe sociale. Come accade in «I’m Waiting for the Man», in cui l’ambiguità sessuale è

ostentata in un nuovo universo in cui violenza, prostituzione, droga, formano il nuovo territorio, che permette di dimenticare il pisolino dopo il pranzo domenicale della odiata middle class: Sto aspettando il mio uomo con 26 dollari in mano sono venuto a Lexington, al 125: mi sento sporco e malato, più morto che vivo sto aspettando il mio uomo. «Ehi ragazzo bianco, che cosa fai nella città alta? Ehi ragazzo bianco, tu vieni a tampinare le nostre donne?» Oh, mi scusi signore, è l’ultima cosa che ho in mente: io sto solo cercando un mio caro, caro amico… sto aspettando il mio uomo Eccolo che viene, è tutto vestito di nero ha scarpe dai tacchi alti e un grande cappello di paglia. non arriva mai prima, è sempre in ritardo: la prima cosa che impari è che devi sempre aspettare210.

In Dylan c’era già stato un contributo che si poneva a metà strada, in anticipo sui tempi, visto che siamo nel 1964, fra l’esperienza della «Heroin» di Lou Reed e quella del Bowie alfiere della rivalsa estetica e individualistica; si tratta della celebre «Mr. Tambourine Man», diario di viaggio, ma anche aspirazione alla demolizione di un mondo e alla creazione di un altro più aperto alla creatività, terra franca per la realizzazione dei sogni e per l’esplosione della fantasia: Portami in viaggio sulla tua nave magica ondeggiante i miei sensi sono denudati, le mie mani non sentono la presa i piedi insensibili per camminare aspettano soltanto che i tacchi incomincino a vagare. Sono pronto ad andare ovunque, sono pronto a svanire nella parata di me stesso, getta verso di me il tuo incantesimo di danza io mi sottoporrò. […] Allora portami scomparendo attraverso gli anelli di fumo della mia mente giù per le rovine nebbiose del tempo, lontano oltre le foglie gelate gli alberi incantati spaventati

fuori sulla spiaggia ventosa, lontano dalla portata contorta del dolore senza senso. Sì danzare sotto il cielo di diamante con una mano libera ondeggiante stagliato contro il mare, circondato dall’anfiteatro di sabbia con tutti i ricordi e il fato seppelliti profondi sotto le onde fammi dimenticare l’oggi fino a domani211.

La solitudine è vissuta qui come diversità, eccesso di sensibilità e di irrealtà, secondo la media del canone borghese. Molto vicino, ancora una volta, al Rimbaud in cerca di un percorso di fuga definitiva dall’occidente della noia e della sazietà: Grida, tamburi, danza, danza, danza, danza! Non vedo neppure il momento in cui, sbarcando i bianchi, precipiterò nel nulla. Fame, sete, grida, danza, danza, danza, danza!212

Auto-isolamento in una dimensione diversa, che ha due porte: la scelta di una razionalità operativa anche in chiave di costruire una nuova realtà, in direzione opposta e contraria rispetto alla società dominante, o l’abbandono a una sensibilità diversa, divenuta unica bussola di viaggio attraverso l’abbandono della ragione e del calcolo. Rimbaud e Dylan sono passati attraverso esperienze assai diverse, ma nei loro versi si coglie il rifiuto di una precisa presa di posizione ideologica, anche se ambedue hanno sfiorato esperienze significative della storia dei loro paesi, come la Comune e la protesta, talvolta violenta, del movimento delle Pantere nere e di alcune componenti studentesche. Quello che talvolta emerge è un senso di solitudine sconsolata, che torna a se stessa dopo un furioso giro di valzer con le cose del mondo, tirando calci qua e là per uscirne, ma segretamente affascinata dal baratro. La desolazione metropolitana colpisce anche chi parte in cerca di gloria, chi ha velleità operative ma deve ben presto accorgersi che l’onestà programmatica della partenza non basta. Il viaggio dal paese di provincia alla grande città diventa una discesa negli inferi della sordità morale e della paranoia: il cammino nella città tentacolare, per dirla alla Verhaeren, dal punto di vista di un giovanotto disilluso, cantato da Simon & Garfunkel:

Chiedendo solo un salario da operaio sono arrivato alla ricerca di un lavoro ma non ho ricevuto offerte soltanto il «vieni con me» dalle prostitute della Settima Avenue. Lo ammetto ci sono stati attimi che ero talmente solo che ho cercato conforto là213.

Abbiamo già visto come Simon & Garfunkel si siano spesso interessati all’impatto con i nuovi dei della città, dal già citato «The Sound of Silence», esorcismo del progresso come morte del pensiero individuale, a questa «The Boxer», da «So long, Frank Lloyd Wright» a «The Only Living Boy in New York», da «Wednesday Morning 3 A.M.», a «7 O’Clock News/Silent Night». Ma anche i Beatles hanno affrontato il tema della solitudine: lo abbiamo visto quando hanno cantato l’isolamento all’interno della famiglia perbene, come in «She’s Leaving Home». Negli USA la narrazione della paranoia e della malattia aveva già trasceso le caves e i garage dei sotterranei e stava diventando spettacolo nello spettacolo, creando i primi dubbi perfino sulla effettiva potenza di rottura di certo rock accusato tacitamente di resa al mercato e di insincerità. In realtà la trasgressione e la sperimentazione hanno più volte attraversato la strada della canzone d’autore, e hanno rappresentato una realtà alternativa al mercato ufficiale. Doors, Fugs, David Peel, Frank Zappa, un tratto dei Jefferson Airplane, il blues iniziale, duro e viscerale dei Fleetwood Mac di Peter Green, sono stati i nomi più in vista di una spontaneità creativa intesa come rifiuto delle grossolanità e delle contraddizioni più evidenti dell’industria musicale e dei suoi dintorni. Per una significativa parte del pubblico di quegli anni, era forte la distinzione tra rock commerciale, rock come radice di altre ricerche più profonde, e tutto il resto, anche se questo resto significava l’abbandono di modelli come i Beatles. Che, in realtà, non si sa quanto per esigenze di cavalcare i tempi o per evoluzione spontanea, innestarono su un testo musicale veloce e serrato un ritornello facile che si incentrava sul motivo della crisi dei rapporti e della solitudine (poi riportato all’attenzione mediatica dalla aggressiva, ruggente interpretazione di Joe Cocker a Woodstock). I più radicali potranno accusare questo tentativo come banale

ritorno al lieto fine: Cosa faccio quando il mio amore è lontano (ti preoccupa restare solo?) Come mi sento alla fine della giornata (sei triste perché sei da solo?) No, ce la faccio con un piccolo aiuto dei miei amici mm… mi tiro su con un piccolo aiuto dei miei amici mm… ci proverò con un piccolo aiuto dei miei amici (Ho bisogno di qualcuno?) Ho bisogno di qualcuno da amare (Potrebbe essere chiunque?) Voglio qualcuno da amare214.

Alle soglie degli anni ’70, i Lennon e McCartney di «Yer blues» possono scherzare sui modelli dell’impegno e della denuncia della crisi dei valori, rispolverando, il Mr. Jones dylaniano, ignaro dei nuovi venti di cambiamento: L’aquila mi becca l’occhio il verme mi lecca l’osso mi sento così suicida proprio come il Mr. Jones di Dylan solo voglio morire se non sono già morto215.

Ma torniamo oltreoceano: qui Leonard Cohen realizza una diversa esplorazione di questa inadattabilità al mondo contemporaneo; ben più mistica e dolente la cognizione del dolore di questo solitario poeta della generazione, secondo un suo titolo, dei «belli e perdenti», con la percezione di una inevitabile sconfitta causata dalla scelta di un riparo nella solitudine e nel rifiuto della coppia tradizionale, invece che nell’adeguamento alla società in trasformazione: E poi, affacciandosi al tuo davanzale, un giorno ti dirà che sei stata tu a indebolirlo col tuo amore, e il calore, e il rifugio. Tirerà fuori dal portafoglio un vecchio orario dei treni, e ti dirà: te l’avevo detto, al mio arrivo, che ero uno straniero te l’avevo detto, al mio arrivo, che ero uno straniero216.

Atmosfera collassante su se stessa come un sogno dal quale non esiste risveglio, buco nero che assorbe finanche la sua luce in una ermeticità

pressoché totale. Cohen canta la coscienza di essere soli, in una accettazione della caduta come condizione contemporanea dalla quale non è possibile scampo. Ma il rifugio non è un programma: è semplicemente un’occasione da strada, un modo per allontanarsi dal centro divorante del fallimento. Rifiuto che da anni era stato pronunciato da altre voci, provenienti dalla generazione che aveva cantato e adottato come modo di vita quel rifiuto. Gregory Corso, per esempio: Disastroso essere un cervo ferito. Io sono il più ferito, braccato dai lupi, e anch’io ho i miei difetti. La mia carne è presa all’Amo Ineludibile! Da bambino ho visto tante cose che non volevo diventare. Sono la persona che non volevo diventare? La persona che parla da sola? La persona che i vicini prendono in giro? Sono io quello che, sulla scalinata del museo, dorme sul fianco? Indosso i panni di un fallito? Sono io lo scemo del villaggio? Nell’immensa serenata delle cose, sono io il passaggio più soppresso?217

Come si vede Corso e Cohen condividono la comunicazione di stati d’animo e situazioni che hanno rappresentato l’universo della generazione beat, del suo tentativo di esperire possibilità diverse di esserci. O della dichiarazione di una radicale alterità. La poetica di Cohen è penetrata nelle nostre latitudini grazie anche alle traduzioni di De Gregori e De André; la mistica della solitudine emerge soprattutto in «Seems So Long Ago, Nancy». Qui meglio di altrove, e meno ermeticamente di «The Stranger Song», vengono suggerite le tappe di una tragica solitudine che non sembra avere radici sociali: l’essere soli per Cohen è una essenziale condizione umana. Gli antieroi la riconoscono e l’accettano come realtà, o inestricabile disegno terreno, o forse altro, si chiamino Giovanna D’Arco o Nancy. Come traduceva De André: Un po’ di tempo fa Nancy era senza compagnia all’ultimo spettacolo con la sua bigiotteria Nel palazzo di giustizia suo padre era innocente nel palazzo del mistero non c’era proprio niente non c’era quasi niente Un po’ di tempo fa eravamo distratti lei portava calze verdi dormiva con tutti

Ma cosa fai domani non lo chiese mai a nessuno s’innamorò di tutti noi non proprio di qualcuno non solo di qualcuno218.

Disponibilità estrema e disperata a un contatto oltre il rapporto istituzionalizzato, sapendo già di non poter tornare indietro a contrattare un futuro, qualsiasi esso sia. L’apparizione di Nancy è come una epifania che coglie impreparati gli spettatori-ascoltatori. Qui la pregnanza mistica delle immagini di Cohen è fortissima e va a merito di De André essere riuscito a renderlo nella nostra lingua. La presenza di Nancy passa vicino agli altri con il suo calvario di solitudine e dolore, anche se quegli altri fanno finta di non accorgersene: E un po’ di tempo fa col telefono rotto cercò dal terzo piano la sua serenità Dicevamo che era libera e nessuno era sincero non l’avremmo corteggiata mai nel palazzo del mistero219.

La reazione di quelli che assistono all’evento è rivelata attraverso la riflessione di uno di loro: il senso di libertà esibita che noi credevamo di cogliere, dice il testimone-voce narrante, nelle sue stravaganze non era altro che la facciata esteriore del dramma che la predestinava inevitabilmente. Non le era possibile la partecipazione agli istituti della società, la sua follia era il suo estremo tentativo di andare oltre, che nascondeva il desiderio disperato di incontro. La libertà di Nancy era diversa, dimensione oscura e inquietante di una lontananza abissale, fino a essere identificata, nella sua inesorabilità, con la predestinazione. Solo pochi hanno affrontato questo palazzo del mistero, e ad essi è di malinconica consolazione una presenzaassenza che parla nel vento: E dove mandi i tuoi pensieri adesso trovi Nancy a fermarli molti hanno usato il suo corpo, molti hanno pettinato i suoi capelli e nel vuoto della notte, quando hai freddo e sei perduto è ancora Nancy che ti dice «Amore sono contenta che sei venuto sono contenta che sei venuto»220.

Una passione laica, impregnata di un desolato simbolismo, dove vita e sacrificio rituale sono legati da un destino inesorabile e dove naviga indifferente quella presenza umana che pure potrebbe essere salvifica. Almeno nel qui e nell’ora. Il circolo dell’assuefazione, ai nuovi «valori»

sociali sta per chiudersi, e i protagonisti stanno perdendo le ultime occasioni di percorrere strade diverse da quelle dell’omologazione e della conformità. In Italia a questo tipo di consapevolezza individuale fa da contrappunto una presa di coscienza anche politica: quella di Claudio Lolli, ad esempio, cantore di una disperazione consapevole dei condizionamenti sociali. Negli Stati Uniti, l’influenza di Emerson, Thoreau e Whitman, di cui abbiamo già parlato in queste pagine, cantori di una comunione con la natura e con l’altro in senso pànico ma anche trascendentalista – e non è una contraddizione, come potrebbe sembrare –, aveva evitato una collocazione politica precisa, privilegiando aspetti individuali, semmai di condivisione della vita di strada, o soluzioni mistiche, o, come abbiamo visto, nell’altrove degli acidi. All’interno dei movimenti degli studenti, solo una parte ha aderito a frazioni apertamente ideologizzate e rivoluzionarie, come i Weathermen (citati dal Dylan di «Subterranean Homesick Blues»), dapprima all’interno della SDS (Students for Democratic Society) e poi in parte passati alla clandestinità. In Italia una secolare cultura innervata di pessimismo e sdegnoso moralismo (Alfieri, Parini, Foscolo, Leopardi, e poi Carducci, e ancora dopo, Boine, Michelstaedter e altri) ha creato le basi per una diversa concezione del confronto con la storia e la realtà sociale: De Sanctis, Croce, Labriola, Gramsci si sono fatti interpreti, con sfumature diverse, del tentativo di comprensione dei nessi esistenti fra la dimensione storicosociale e l’autonomia della letteratura; comprensione che tenta di superare gli schematismi di partito e la riduzione della letteratura a sovrastruttura. Si è andati in direzione della rappresentazione del rapporto società-cultura come mutuo scambio di stimoli, in cui, paradossalmente, l’essere umano scopre anche la propria solitudine, il suo essere gettato, direbbe Heidegger, in una esistenza alienata. In questa ricerca di nuove possibilità di senso è presente il rischio di vedere la realtà come nebbia impenetrabile: siamo condizionati da un insieme complesso di rapporti fin dalla nascita, e la domanda di senso può ricevere infinite modalità di risposta. Tornava, anche a livello di citazioni, prepotentemente all’orizzonte degli eventi la tragica esperienza di Cesare Pavese. Tentare di andare oltre le barricate ideologiche apre nuovi modi di interpretare la realtà, ma anche di portare al dubbio che in quella realtà possa esserci un senso.

Nella nostra letteratura moderna le risposte sono state diverse, lontane talvolta anni luce; così avviene nella canzone, con un Lolli che canta i rischi di insensatezza nelle scene di vita quotidiana: Salve ragazzo che passi il giorno, alla finestra della tua stanza. Finché tristezza insieme alla sera, accende finestre in lontananza. Guardi le spalle di chi lavora, davanti a te. Corpo di uomo, scarica casse, chissà perché. Quando vorrai buttarti di sotto, e fare i conti con la tua impazienza e accenderai la sigaretta di cui il condannato non può fare senza. Questa canzone scritta su un muro ti arriverà ne sono sicuro, con le sue povere scarne parole, libere come ragazze sole, questa canzone scritta di niente, sceglierà te tra tutta la gente […] E salve uomo che ogni mattina, rinunci a un grammo del tuo destino, salti su un tram intirizzito, addormentato dentro a un vestito. Fra i marciapiedi lisci e deserti di una città, chissà se il sole questa mattina, ti troverà…221

O anche: Io ti racconto lo squallore di una vita vissuta a ore, di gente che non sa più far l’amore. Ti dico la malinconia di vivere in periferia, del tempo grigio che ci porta via. Io ti racconto la mia vita il mio passato il mio presente, anche se a te, lo so, non importa niente. Io ti racconto settimane, fatte di angosce più che umane, vita e tormenti di persone strane. E di domeniche feroci passate ad ascoltar le voci di amici reclutati in pizzeria222.

Saga della noia e della malinconia, di chi si sente nell’inferno di una realtà alienante e possiede, danno estremo, il dono di uno sguardo inclemente che lo condanna a vedersi in pizzeria mentre cerca di allontanare da sé la tristezza solitaria di una domenica sempre più malinconica, o come colui al quale non è permesso scegliere un destino, ma solo subirlo. Probabilmente è proprio la solitudine a proiettare questa coscienza verso un punto limite oltre il quale si intravedono o l’abisso dell’annullamento o la

molla del riscatto. Soli verso la libertà, come canta Lolli: «libere come ragazze sole»; qui alita la struggente e ambivalente identificazione fra libertà e solitudine, fra due scelte oggi vicine l’una all’altra, come già nei moralisti di inizio Novecento, come nei grandi del Sette-Ottocento preromantico. In attesa della liberazione ricominciando dalle fondamenta, per seppellire il mostro, definitivamente. Solitudine e falsa libertà, alienazione e riti – privi ormai di senso – di una fittizia socialità sono le componenti dell’equazione inserita da Venditti in «Marta»: Prega, Marta, nella sera nessun Dio risponderà ogni giorno una preghiera, e una falsa libertà. La giornata è stata dura, piena di contrarietà il lavoro e poi la scuola e un ragazzo che non va223.

Situazioni che segnano i nuovi contenuti poetici di fronte all’accentuarsi dell’estraneamento, dell’atomizzarsi della coscienza all’interno della folla solitaria. Fino a staccare gli ultimi, una volta cantabilissimi, lembi di resistenza fuori dal proprio sé: Le tue mani su di me è difficile chiamarti amore quando basta aprire la finestra per capire un’altra verità

per concludere con: Non amarmi, non amarti non ti riuscirà224.

Un’altra risultante di questo choc della città, secondo il Baudelaire di Benjamin, è costituita dalla coscienza dell’estrema velocità del consumo dei rapporti umani, dalla stupefacente possibilità di accelerazioni ma anche scomparsa di presenze, suggestioni o semplici realtà che sembravano punti fermi nell’universo umano; così in Stefano Rosso: La vecchia fuori dal portone non la cercare più, non c’è e i fiori fuori al mio balcone sono appassiti e sai perché

la vita, sai, non è una foto ma è l’attimo che se ne va e insieme porta via i colori e porta via la verità225.

Fino al fatalismo della strofa finale: e adesso al letto 26 qualcuno sta inventando un sogno o sta crepando chi lo sa226.

La verità di cui parla Rosso è la dimensione vetero-urbana della piazza, della passeggiata, dei muretti e dei bar e di una condizione esistenziale una volta protetta dalla consuetudine e dalle sue implicazioni affettive. Ma la neo-industrializzazione e la virtualizzazione dei rapporti attraverso il net non conoscono le oscillazioni del cuore, e fra sventramenti, costruzioni, abusive e non, casermoni, nuvole – compresi i cloud – avvelenate, la città cambia ancora: le reazioni che vi si consumano, violenza, malesseri, schizofrenia, povertà, rifiuto, fame di umanità, piano piano avvelenano le speranze di una nuova qualità della vita. Si ripete il dramma baudelairiano della ripulsa della città-mostro, o la visione dell’inferno-città di Tito Schipa Jr in Orfeo 9, ma nello stesso tempo si inizia ad affermare la visione della vita attraverso la contaminazione con i nuovi, minacciosi, anche se camuffati futuristicamente da velocità e utilità, mezzi del suo sviluppo, come Lucio Dalla canta in «Automobili» con le parole di Roversi: Mettere in marcia il motore, avanzare tre metri, staccare, fermarsi a guardare e a parlare, alla fine spegnere il motore […] Centomila auto imbottigliate nella corsia nord e sud verso Parigi da dodici ore nessuno si muove […] Luci rosse sempre accese danno il via a una pazza rincorsa; centomila bisonti scatenati verso Parigi stretta in una morsa227.

Non lontanissimo dalla visione metropolitana che aveva fatto dire a un profetico Baudelaire, più di cento anni prima:

Fuggi lontano da questi miasmi ammorbanti, e nell’aria superiore vola a purificarti228.

Note 194 G. Brassens, «Le Pluriél», in Supplique pour être enterré a la Plage de Sét, Lp Philips, 1966. Traduzione mia. 195 L. Battisti, «I giardini di marzo», in Umanamente uomo: il sogno, Lp Numero Uno, 1972. 196 A. Venditti, «Sotto il segno dei pesci», in Sotto il segno dei pesci, Lp Philips, 1978. 197 A. Venditti, «Compagno di scuola», in Lilly, Lp RCA Italiana, 1975. 198 Cf L. Dalla, «Disperato Erotico Stomp», in Come è profondo il mare, Lp RCA Italiana, 1975. 199 F. Guccini, «Incontro», in Radici, Lp EMI Italiana, 1972. 200 C. Pavese, nella sezione «La terra e la morte», in Poesie, cit., p. 193. 201 F. De Gregori, «Alice», in Alice non lo sa, Lp RCA Italiana, 1974. 202 C. Sbarbaro, «Taci, anima stanca di godere», in Pianissimo, ora in Poesie, All’insegna del pesce d’oro, 1973, pp. 67-68. 203 C. Michelstaedter, «I figli del mare», in Poesie, Adelphi, 1987, p. 81. 204 G. Leopardi, «A se stesso», in I Canti, Sansoni, 1967, pp. 331-332. 205 G. Guinizzelli, «I’ sono angoscioso…», in Lirica d’amore italiana, a cura di S. Quasimodo, vol. 1, Garzanti, 1974, p. 50. 206 S. Corazzini, «Sonetto d’autunno», in Liriche, Ricciardi, 1968, p. 41. 207 F. De Gregori, «La campana», in De Gregori, cit. 208 L. Reed, «Heroin», in Lou Reed, cit. p. 14. 209 D. Bowie, «Time», in David Bowie, cit., pp. 159-161. 210 L. Reed, «I’m Waiting for the Man», in Lou Reed, cit., pp 12-13. 211 B. Dylan, «Mr. Tambourine Man», in Blues, ballate e canzoni, cit., pp. 155-157. 212 A. Rimbaud, «Una stagione all’inferno», cit., pp. 245-246. 213 P. Simon – A. Garfunkel, «The Boxer», in Bridge Over Troubled Water, Lp CBS, 1970. Traduzione mia. 214 J. Lennon – P. McCartney, «With a Little Help from My Friends», in Il libro delle canzoni dei Beatles, cit., pp. 208-209. 215 J. Lennon – P. McCartney, «Yer Blues», ivi, p. 210. 216 L. Cohen, «The Stranger Song», in The songs of Leonard Cohen, Lp CBS, 1972. Traduzione mia. 217 G. Corso, «Hallo…», in Benzina, cit., p. 77. 218 F. De André, «Nancy» (sua traduzione dall’originale di L. Cohen), in Volume 8, cit. 219 Ivi. 220 Ivi. 221 C. Lolli, «Canzone scritta su un muro», in Non sparate sul cantautore, cit., p. 152. 222 C. Lolli, «Io ti racconto», in Un uomo in crisi. Canzoni di morte, canzoni di vita, cit. 223 A. Venditti, «Marta», in Quando verrà Natale, Lp RCA Italiana, 1974. 224 A. Venditti, «Le tue mani su di me», in Le cose della vita, Lp RCA Italiana, 1973. 225 S. Rosso, «Letto 26 (seconda parte)», in E allora senti cosa fò, Lp RCA Italiana, 1978. 226 Ivi.

227 L. Dalla, «L’Ingorgo», in Automobili, Lp RCA Italiana, 1976. È l’ultimo disco in collaborazione con Roversi. 228 C. Baudelaire, «Elévation», in Tutte le poesie, cit., p. 17.

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La follia

Abbiamo visto come i testi, nei cantautori dei ’60-’70, ma con punte che vanno più indietro nel tempo, tengano conto dei mutamenti sociali in atto e soprattutto narrino i nuovi comportamenti e le nuove risposte ai cambiamenti nella realtà dei rapporti umani e delle modificazioni del linguaggio. Talvolta con richiami dei fantasmi del passato. Uno degli aspetti più interessanti di questa attenzione ai segnali provenienti dall’emersione del nuovo è stata la visione della follia come risposta individuale o come visione alternativa, non più solo come elemento patologico da curare ed esorcizzare. Certamente è stata molto importante la graduale affermazione mediatica della antipsichiatria che ha costituito il punto di riferimento di questa tendenza. Il rifiuto di una funzione meramente reintegrante nel sociale, da parte di David Cooper e altri, ha stimolato un discorso che sembrava chiuso da lungo tempo: «follia» come rifiuto di una realtà alienante e reificante, non accettazione di ruoli sclerotici, ripetitivi e schiaccianti. Già in Italia Pirandello aveva codificato, nel teatro come nella narrativa, una visione dei rapporti umani nella quale la follia era il riconoscimento del vuoto esistenziale nel quale si reggono i valori tradizionali, e paradossale riscoperta di autenticità. La follia, nell’Enrico IV, è la chiave per sospendere la condanna del vivere o per ritrovare una collocazione privilegiata al di fuori della mischia. Ma in Pirandello non esiste apparente salvezza, il cerchio si chiude in ogni caso, sull’idiota e sul sapiente. Con la sensazione che nell’ultimo Pirandello si fosse insediata una possibilità: la rifondazione totale della società

attraverso il ricorso proprio alla follia come riscoperta del rapporto con la vera vita, in semplice comunione con la natura229. Nei paesi anglosassoni, dagli anni ’60 in poi, si affermò gradualmente un anticonformismo estetizzante che ricercava nella stravaganza il riconoscimento di un ruolo nuovo all’interno del rinnovamento del costume e della visione del mondo complessiva che si era avviata in quegli anni, grazie anche al contributo della beat generation. Era l’epoca dei ritrovi giovanili, dell’emozione di trovarsi insieme di notte a vivere una cameratesca comunità, con il sottile brivido del ritardo a casa, dell’orlo della gonna vertiginosamente distante dal ginocchio, con l’ebbrezza di una corsa in moto a tutto gas. Ma anche di quelle bande che si distinguevano generalmente una per la presenza di una componente più estetizzante e cosciente di un ruolo innovatore (i Mods), l’altra più sottoproletaria e violenta con atteggiamenti da blouson noir e con molta voglia di fare casino gratuito, i Rockers. Una contrapposizione spesso non pacifica, che portò a vere e proprie battaglie, tra cui la celebre – per le cronache del tempo – «seconda battaglia di Hastings». Probabilmente lo scenario delle risse tra Mods e Rockers (riprese anche in Quadrophenia degli Who) era uno degli aspetti più eclatanti – e anche più romantici – dei mutamenti sociali in atto; musicalmente il vecchio rock & roll tentava faticosamente di coesistere con il nuovo beat che ben presto avrebbe preso una duplice direzione: quella più dura di Rolling Stones, Yardbirds, Small Faces, Animals, Spencer Davis Group, Who, Them, e quella apparentemente più easy di Beatles, Hollies, Kinks. Ma sono categorie, e le categorie da sole non bastano: gruppi easy hanno inciso canzoni dure e metalliche, mentre quelli più hard hanno a loro volta creato delicate canzoni d’amore. In Inghilterra e negli USA, come abbiamo visto, hanno operato scrittori e poeti che, già dal loro esibito anticonformismo, hanno finito con il rendere precari i puntelli di una ragione basata unicamente su casa, macchina, moglie. Si abbattevano, talvolta con atteggiamento di superiore aristocraticità, come nel caso, se vogliamo tornare ai modelli del secolo prima, di Wilde, vecchi castelli, ma si correva un rischio: che le nuove fondamenta fossero basate esclusivamente sul culto del piacere e di una bellezza che pochi potevano godere e condividere. Si rischiava di lasciare un vuoto ancora più grande di quello che si combatteva:

«Posso ammettere la forza bruta, ma la ragione bruta è veramente intollerabile. Nel farne uso vi è qualche cosa di ingiusto: è come avvilire l’intelligenza». […] «Sì,» continuò, «questo è uno dei grandi segreti della vita. Oggi la gente muore per una sorta di invasione di buon senso, e solo quando è troppo tardi si accorge che le uniche cose di cui non si rimpiangono sono le proprie pazzie»230.

Tipico esempio dell’aforistica wildiana, fatta di assertività estetizzante e insieme di estremismo esperenziale; come in D’Annunzio, fatte salve le profonde differenze, i valori della quieta convivenza e della democrazia liberale sono messi in discussione. Una forza oscura si appresta lentamente a uscire allo scoperto, per liberare tutte le sue potenzialità seduttive, e però anche distruttive. Wilde non aveva aderito a nessuna piattaforma ideologica che non fosse quella della propria istintualità, che pure nasce all’interno della borghesia, ma che tenta una rifondazione attraverso il balzo in avanti che porta con sé tracce contraddittorie di materialismo e idealismo, trasgressività e nostalgia del sacro. Wilde, D’Annunzio, Huysmans e molti altri tentano di svelare il gioco delle parti e di seppellire una volta per tutte la menzogna che si annida nell’ipocrisia della società; dalla ipervalutazione del discorso formale rispetto alla (sovra)struttura ideologica della società, con l’irrazionalismo e il pansessualismo di Wilde e D’Annunzio si passa a una coscienza di impotenza finale. Anche Whitman aveva spezzato una lancia in favore di una prassi liberatoria rispetto alla morale farisaica: Quanto sembrano meschine le discussioni di fronte a un atto insolente! Come la floridezza materiale di una città si raggricchia davanti allo sguardo di un uomo o di una donna! Tutto attende e procede in contumacia, finché non appare un essere forte, un essere forte è la prova della razza e dell’abilità dell’universo. Quando quello o quella appare, la materia resta sgomenta, la disputa cessa i vecchi usi e frasi vengon messi alla prova, respinti o collocati in disparte231.

Queste diverse sensibilità, che prendono piede tra fine Ottocento e inizio Novecento, hanno molto in comune: la sensazione della crisi dei vecchi valori nell’appiattimento conformista e nel moralismo, la ricerca di una più stretta interrelazione fra azione e valori o, su un altro versante, la trasgressione attraverso la denuncia delle contraddizioni e la loro estremizzazione per favorirne l’implosione. Dicevamo dell’ambiguità di tali operazioni nell’area del cosiddetto

decadentismo occidentale, una ambiguità che si ripresenta nel contesto musicale di quasi cento anni dopo: Lou Reed, David Bowie, Mick Jagger, Peter Gabriel e in Italia Faust’O, di cui abbiamo già parlato, potrebbero essere visti come la continuazione e la contestualizzazione in una diversa modalità culturale di quelle contraddittorie esperienze di rifondazione anche – e in talune esperienze soprattutto – estetica. La presenza del folle nell’immaginario di quella generazione ha le stigmate di un discorso alternativo, ma anche ambiguo e dalle molte varianti, anche ideologiche. Bowie è come al solito al centro della contraddizione, la evoca, la esorcizza, anzi, è ormai tutt’uno con essa. È il suo mestiere: Sono un alligatore, sono un mamma – papà venuto per te sono l’invasore spaziale, sarò una puttana del rock’n’roll per te tieni chiusa quella bocca, stai urlando come se ti penetrassero e io mi sto dannando il cervello per trovare le parole232.

La semplice constatazione – colta nel giudizio degli altri – della non adeguazione come malattia, come perdita e come sconfitta, è presente anche in uno scarno ricordo materno di Lou Reed: Tutti i tuoi psichiatri da strapazzo ti fanno l’elettroshock… ti avevano promesso che ti avrebbero lasciato vivere a casa con mamma e papà invece che in un manicomio, ma ogni volta che tentavi di leggere un libro non sei mai riuscita ad arrivare a pagina 17, perché avevi dimenticato dove stavi e così non potevi neanche leggere…233

Follia come dimensione dolorosa, divenuta peccato originale, nella società opulenta per la quale ogni rifiuto del benessere è autodenuncia di disadattamento, dimensione necessaria, nel senso di ciò-che-deve-accadere della ananke greca, per i non-integrati, per i deboli e per i reietti. Cantata fin dai ’50 da Ginsberg, nello struggente poema dedicato alla madre: Naomi, Naomi, sudata con gli occhi spiritati, grassa, il vestito, slacciato su un fianco, i capelli sulla fronte, la calza ribalda penzoloni sulle gambe, che strillava chiedendo una trasfusione di sangue con una mano alzata in predicazione, una scarpa in pugno, scalza nella farmacia […] finché l’ambulanza noleggiata per 35 dollari venne da Red Bank, le afferrò le braccia, la legò sulla barella, gemente, avvelenata da immaginari, vomitando sostanze chimiche sul Jersey, chiedendo pietà dall’Essex a Morristown. E di nuovo a Greystone dove rimase per tre anni, quella fu l’ultima ricaduta, la riconsegno al manicomio234.

Il grande motivo materno non è però esclusivamente legato alla follia

intesa come abbandono – patologico o volontario che sia – della ragione d’occidente. Al di là dei ricordi familiari canzonettistici e festivalieri, è proprio in Italia che la figura della madre come ricordo ma anche come simbolo di pathos profondo, libertà al di fuori degli schemi e dei presunti ideali della borghesia benpensante, si realizza nella dimensione musicale. Carla Vistarini, scrittrice oltre che autrice di molti testi («La nevicata del ’56», «Se mi vuoi», «La voglia di sognare», «Io a modo mio» e altre canzoni interpretate da Mina, Patty Pravo, Gigi Proietti, Mia Martini, solo per fare alcuni nomi), affida alla interpretazione di Cico (in realtà Tony Cicco, batterista e voce della Formula 3), autore della musica, «E mia madre», che sarà poi ripresa l’anno dopo, qui siamo nel 1975, da Raffaella Carrà. Nessun ritornello, assenza di strofette accattivanti, una musica come lento monologo ininterrotto che tenta il recupero di una figura che va oltre il modello canonico, per aprirsi alla ricerca di libertà, all’andare avanti, con il coraggio di oltrepassare quelle che la stessa autrice ha chiamato, nel corso di una nostra chiacchierata, le Colonne d’Ercole, verso il mistero dell’esistenza. E, alla fine, l’addio. «Un passero di strada» che come una bambina aspetta con impazienza la figlia per uscire con «un bel vestito nuovo» e che però permette solo a chi la ricorda nella canzone di starle vicina alla fine: «e mi permise di restarle a fianco fino a quando niente restò di lei». Come si vede, bellezza e abbandono, libertà e morte, ricerca di senso e di nuove strade e meraviglia originaria di fronte alle piccole cose che ci lascia la vita, come l’uscire per strada con un vestito nuovo, coesistono in una canzone, come solo i grandi delle nozze tra musica e parole hanno avuto il dono di fare. E tra questi, il futuro Nobel per la letteratura. Anche nelle sue visionarie contemplazioni dell’universo femminile, Bob Dylan appare più collegato con la forza visionaria surrealista e quindi più sensibile alla suggestione europea (da Baudelaire a Rimbaud e a Breton) è il tentativo di stravolgere il racconto tradizionale. Le sue parole sono attraversate dal potere evocativotrasgressivo di fronte all’usualità oggettuale della ratio borghese. Nel lotto vacante dove le signore giocano a mosca cieca con il portachiavi e le ragazze della notte bisbigliano di avventure sulla linea D

sentiamo il guardiano notturno accendere la sua torcia chiedersi se è lui o loro che è pazzo Louise, sta bene, è vicina è delicata, e sembra come uno specchio ma rende tutto così semplicemente troppo conciso e troppo chiaro che Johanna non è qui lo spettro dell’elettricità urla nelle ossa del suo volto dove queste visioni di Johanna hanno ora preso il mio posto235.

Spezzoni di vita di ogni giorno, usuale e metodica fino alla (para)noia, sono trasportati in una dimensione onirica, in un gioco della fantasia dove il bambino cerca di rivisitare gli angoli della propria stanza con la creazione di presenze altre. Leonard Cohen, probabilmente il più vicino alla letteratura della solitudine e della follia – e forse più debitore dello spleen d’oltreoceano – si affida a un dolente crepuscolo, ancor più evidenziato dal tono della sua voce, sommessa e roca. Mercificazione e ipocrisia, disumanizzazione e solitudine portano gli emarginati di Cohen ai limiti delle città, nei suburbi e vicino ai cavalcavia delle autostrade, o all’interno di hopperiani quadri di desolante, inquieta constatazione di scacco: Suzanne ti ha portato nel suo posto presso il fiume e ora ascolti andar le barche ora puoi dormirle accanto sì lo sai che lei è pazza ma per questo sei con lei e ti offre il tè e le arance arrivate direttamente dalla Cina e proprio mentre stai per dirle che non hai amore da offrirle lei è già sulla tua onda e fa il fiume ti risponda che da sempre siete amanti236.

Ma forse la salvezza, se pure ve ne è una, sta proprio nel coraggio di rompere i rapporti con il mondo del conformismo e dell’assuefazione a modelli di consumo. Perdere e poi rialzarsi, in una accezione più vicina a un cristianesimo sfrondato dalle osservanze dogmatiche: il tentativo di

ritrovare la vita attraverso la città e il rifiuto della vecchia esistenza in un viaggio metropolitano, come nuova stagione all’inferno prima di una nuova rivelazione. E proprio la figura del Cristo come folle, come negatore di una razionalità affossatrice dei sogni e dell’alterità fa la sua apparizione in «Suzanne»: E Gesù fu marinaio finché camminò sull’acqua e passò molto tempo a guardare solitario dalla sua torre di legno e poi quando fu sicuro che soltanto agli annegati fosse dato di vederlo disse: «Tutti gli uomini saranno marinai finché il mare li libererà». E lui stesso fu spezzato molto prima che il cielo si aprisse abbandonato, quasi umano affondò sotto la tua saggezza come una pietra237.

Il Cristo di coloro che stanno per annegare nella solitudine e nella depressione è colui che viene colpito nel corpo e nella mente, esemplando su se stesso la via della liberazione attraverso la sofferenza. Il regno dei saggi è oggi dentro il dolore della città, nel cuore delle sue vittime. Così, in una sorta di misticismo evangelico rivisitato nelle luci al neon della metropoli, rivive il Discorso della montagna, con tutta la consapevolezza che mentre si vive la mancanza nell’attesa, si cammina nei sentieri desolati della disperazione: al di là dei ricordi biografici della Suzanne in carne ossa e spirito, incontrata a Montreal, che colpì Cohen fino al punto di ispirare la canzone, che però, per la stessa ammissione dell’autore, ha anche una componente religiosa: la visita alla Chapelle de Bonsecours nella stessa Montreal. Dicevamo delle influenze europee: come ignorare il terremoto della folle sapienza di Rimbaud, nel superare tutte le moralità, nel cancellare i vecchi valori in nome della religione della Bella Follia per superare l’impasse in cui era caduto il lògos settecentesco? «Oh divino Sposo, mio Signore, non rifiutate la confessione della più triste tra le vostre serve. Sono perduta. Sono ubriaca. Sono impura. Che vita!». «Perdono, divino Signore, perdono! Ah! Perdono! Quante lacrime! E quante lacrime più tardi, spero!». […] «Per ora, sto in fondo al mondo! Oh amiche mie!… no, non amiche mie… Mai deliri né torture

simili… Com’è stupido!». «Oh! Soffro, grido. Soffro veramente. Eppure tutto mi è permesso, carica del disprezzo dei più miserabili cuori»238.

Qui è Verlaine che probabilmente viene fatto parlare da Rimbaud, a ricordo della fuga e del travolgente, anche nella fine, rapporto tra i due poeti: è noto che il 7 luglio 1873, a Bruxelles, Verlaine, non riuscendo a trattenerlo, ferì il giovane amico a un polso con due colpi di rivoltella. Un peculiare modo stilistico di autobiografia indiretta, dove, immerso ormai nella certezza della sua missione assoluta nella e della poesia, egli riconosce finalmente in sé i tratti dell’avventuriero demonico, nell’accezione etimologica del termine, e cioè di presenza divina, dionisiaca, ma nello stesso tempo tendente al verso assoluto, quello che Mallarmé e Valéry cercheranno invano; il poeta che si sente confinato in un esilio (un tema già presente, nella sua realtà o nella proiezione simbolica, in diversi autori, primo fra tutti Dante), fatto di una razionalità da superare e da abbattere. Di qui il suo auto-riconoscimento come profeta rovesciato e crudele anche nei rapporti affettivi, in ogni caso «immorali» e trasgressivi nei riguardi del costume farisaico del suo tempo. In un giovane veggente torna il ricordo arcaico di una saggezza perduta, quasi fosse dettato dal risveglio da un sogno sciamanico, radicalmente opposto a quello della civiltà. Eccone il suggello: «Uomini e donne credevano nei profeti. Ora si crede negli uomini di stato»239. Il dolente passaggio dei battuti di Cohen attraverso la metropoli che abbandona nella solitudine e nella follia i propri figli non è così lontano da quel rifiuto delle false fraternità – e dagli amori di cui si coglievano le contraddizioni e le ridicole promesse – e nello sforzo di riconoscersi nel dolore anche attraverso la visione della rifondazione dell’uomo. Temi presenti, per tornare da noi, anche in Francesco De Gregori, il De Gregori ante-Rimmel, che arriva fino alla prima metà degli anni ’70. Vi sono tematiche come quella della follia, o la presenza di un linguaggio apparentemente ermetico, che ha attraversato le poetiche del simbolismo, del surrealismo, di una letteratura filtrata da una sensibilità e da un linguaggio nuovi. La follia è uno dei temi comuni. Già in Theorius Campus, album condiviso da Venditti e De Gregori, si faceva notare un episodio in cui sono presenti elementi comuni con la poetica coheniana, con in più la lentezza dell’incedere musicale, a ondate, senza ritornello, quasi ipnotico:

In cima alla collina del tridente appollaiata come una gallina c’è la casa che il pazzo ha costruito per avere la luna più vicina. Il pazzo sta scrivendo da vent’anni una canzone senza verità ma adesso è tardi e forse questa sera metterà un punto e l’abbandonerà240.

Il pazzo ha alcuni connotati rimbaudiani, demoniaci (anche qui nel senso di ricerca dell’oltre e del divino presenti anche in Lautréamont), per di più in rapporto con una operazione letteraria, che potremmo chiamare della canzone senza verità. Quale sia la verità cui si rinuncia non è ovviamente spiegabile razionalmente: rifiuto delle convenzioni dei «sani»? O è proprio l’operazione letteraria in sé su cui aleggia il fantasma dell’inautenticità? O piuttosto, non è che il colto, il chierico, per riprendere un termine caro a Julien Benda, debba scendere dal suo ambiguo Olimpo e operare una scelta di campo, per gestire un discorso diverso, prefigurando un sistema alternativo alla società e alla sua cultura? In questo ultimo caso il cerchio potrebbe chiudersi: la cultura della follia, nel senso di emarginazione del colto e non solo, significa anche il rischio della perdita della comunicazione. Solitudine, marchio infamante di alterità, scomparsa dall’orizzonte sociale, come, ancora una volta, nel caso del pazzo di De Gregori: In cima alla collina del tridente la luna sembra proprio una patata il palazzo del matto è illuminato la festa del perdono è cominciata. Scendendo dalle nuvole più basse un angelo è volato nella stanza e ha regalato al pazzo la pistola e il pazzo la pulisce con troppa noncuranza. Sulla sua tomba il vento sarà un bacio l’erba la carezza di un amante quando l’agnello belerà più forte e il mare sarà un po’ meno distante241.

La tematica dell’angelo-folle-viandante, cara non solo a De Gregori, in precario equilibrio tra desiderio di morte e speranza, senso di fallimento e permanenza nel cuore degli altri, infrazione della legge dell’auto-

conservazione – e delle sue componenti religiose, in senso lato –, si avvicina molto al motivo dell’isolato, del non adatto alla vita comune, di chi ha scelto la diversità sociale: come non riandare all’immagine di Pavese in De Gregori, alla Nancy di Cohen e più tardi al ricordo di Tenco in «Festival» dello stesso De Gregori? Ma la follia può essere intesa anche come profonda riscoperta delle possibilità umane; sonda inserita negli abissi dell’essere a smascherare i meccanismi di chiusura e desertificazione dei rapporti umani spacciati per nuove modalità di socializzazione: Bene, se mi dici che ci trovi anche dei fiori in questa storia, sono tuoi ma è inutile cercarmi sotto il tavolo, ormai non ci sto più ho preso qualche treno, qualche nave, qualche sogno, qualche tempo fa. Ricordi che giocavo coi tuoi occhi nella stanza, e ti chiamavo mia, ben oltre la coperta all’uncinetto, c’era il soffio della tua pazzia242.

Follia come rifiuto della realtà condivisa – apparentemente – dagli altri, come ultimo tragico attaccamento a un luogo e a una persona ormai inesistenti (come non riandare all’impossibilità di incontrare di nuovo le persone amate nei percorsi del ricordo nella Recherche proustiana?)243 come accade in Dalla e in Battisti/Mogol. Nel primo caso abbiamo la storia di un prigioniero che crea un rapporto di affettività sognata con una donna intravista dalla propria cella. La solitudine e la mancanza di affetto portano il protagonista a vivere il sogno di una donna che lo attende dopo una liberazione che non avverrà: Lunghi silenzi come sono lunghi gli anni parole dolci che si immaginò questa sera vengo fuori Maria ti vengo a fare compagnia. E gli anni stan passando tutti gli anni insieme ha già i capelli bianchi e non lo sa dice sempre: manca poco Maria vedrai che bella la città. E sognò la libertà e sognò di andare via, via e un anello vide già sulla mano di Maria.

E gli anni son passati, tutti gli anni insieme ed i suoi occhi ormai non vedon più disse ancora: la mia donna sei tu e poi fu solo in mezzo al blu244.

È proprio questa dimensione di irrealizzabilità che fa della fantasia un riparo, il sogno di un Eden non contaminato dalla minaccia di un altro ostile e giudicante. Senza contare la suggestione che veniva in quegli anni dalla «scuola» brasiliana di Chico Buarque de Hollanda, Vinícius de Moraes, Antônio Jobim e molti altri: il discorso sulla malinconia del dopo carnevale e la felicità che si vorrebbe in quei giorni di liberatoria esplosione dei sensi che non si realizza, o meglio, lascia un senso di profonda e apparentemente immotivata tristezza che porta in sé la coscienza dell’infelicità o della rassegnazione. E quando la festa è un evento tanto atteso per la povera gente, strumento di risarcimento e di provvisoria fuga dalla realtà e dalla miseria, allora le sensibilità più impazienti, già perdute nel sogno e in una vita solitaria, fermano la festa per sempre. Mentre il giorno dopo, fra rifiuti e cartacce, all’alba la gente attraversa rassegnata le strade per tornare al lavoro o alla ricerca di un espediente, c’è chi non ha accettato la realtà: «Lei no, lei sta ballando»245. Tornando in Italia, Battisti si fa le ossa nei gruppi del primigenio beat italiano, come I Campioni, è molto attento agli sviluppi del rhythm & blues – ma anche alle radici blues –, a Otis Redding, a Ray Charles, ma pure a Bob Dylan e a Pete Seeger, oltre che alla rabbia rauca e aggressiva del vocalist degli Animals, Eric Burdon. Lo attrae la scarnificazione della melodia, l’ossessivo terzinato del blues che si ottiene anche con il solo battito delle mani, l’impiego della voce non come bel canto, ma suggestione, in tonalità aggressive e roche. Siamo ormai lontani anni luce dalle modalità melodrammatiche dei crooner, che in Italia avevano, e continuavano ad avere, una forte visibilità e un notevole ascolto. Siamo al punto di snodo in cui la mediazione del blues bianco, con una maggiore carica estetizzante rispetto alle radici nere, Mick Jagger, Steve Winwood, lo stesso Eric Burdon in testa, iniziava a influenzare cantanti e autori più attenti alle nuove tendenze. La voce diventava non il richiamo melodico tradizionale, ma un altro strumento, talvolta abbassato tonalmente per fondersi con il basso, la chitarra distorta, la tastiera, talvolta con i fiati, volutamente sgraziata, roca, aggressiva,

talvolta consapevolmente fuori tempo, per esprimere il disagio, l’alienazione. Nel 1970 Battisti incide la mogoliana «Fiori rosa fiori di pesco», in cui la tematica amorosa è contaminata dalla fissità del sogno di possesso, che non si arrende, travalica i limiti della realtà e diventa follia: Credevo di volare e non volo credevo che l’azzurro di due occhi per me fosse sempre cielo, non è246.

La disperazione di una solitudine che credeva di aver trovato un varco arriva a rompere con la realtà, nel momento stesso in cui il protagonista intuisce la verità: Scusa, credevo proprio che fossi sola credevo non ci fosse nessuno con te scusami tanto se puoi signore, chiedo scusa anche a lei ma io ero proprio fuori di me io ero proprio fuori di me quando dicevo posso stringerti le mani247.

L’epilogo è la totale sostituzione della realtà con il desiderio, perché il protagonista scambia il timore e l’imbarazzo dell’altra per un turbamento causato dall’amore: […] come sono fredde, tu tremi, no, non sto sbagliando mi ami dimmi che è vero, dimmi che è vero248.

È la codificazione estrema di una situazione non nuova nella canzone, quella dell’incontro dopo l’abbandono. Ma qui Battisti/Mogol raccontano una situazione oggi tornata purtroppo d’attualità con i femminicidi per motivi «d’amore»: il linguaggio è per questo meno razionale, nulla è spiegato e tutto precipita in un dialogo – che diventa monologo – convulso. Mentre la canzone tradizionale espone la situazione codificandola come narrazione, seppure dolorosa, qui l’argomento abolisce la mediazione della «spiegazione». Il che vale anche per altre canzoni, come «Non è Francesca»: pure qui il sospetto, il rifiuto della realtà dolorosa precipitano nell’abbandono della ragione e portano alla rottura con l’evidenza: Come quell’altra è bionda, però

non è Francesca era vestita di rosso, lo so ma non è Francesca se era abbracciata poi no, non può essere lei249.

C’è però anche un’altra narrazione della follia, vista come definitiva perdita di possesso del proprio destino da parte dell’umanità: è una visione che, sulla scorta delle tensioni internazionali degli anni ’60 e del pericolo sempre incombente di una guerra atomica che sarebbe stata terminale, De André ha cantato nel suo «Girotondo»; i bambini che fanno da coroprotagonista diventano folli superstiti in un mondo devastato: La bomba è già caduta, Marcondiro’ndera la bomba è già caduta, chi la prenderà? La prenderanno tutti, Marcondiro’ndera sian belli o siano brutti, Marcondiro’ndà. […] E voi a divertirvi andate un po’ più in là andate a divertirvi dove la guerra non ci sarà. La guerra è dappertutto, Marcondiro’ndera la terra è tutta un lutto, chi la consolerà? Ci penseranno gli uomini, le bestie, i fiori i boschi e le stagioni con i mille colori. Di gente, bestie e fiori no, non ce n’è più viventi siam rimasti noi e nulla più. La terra è tutta nostra, Marcondiro’ndera ne faremo una gran giostra, Marcondiro’ndà. Abbiam tutta la terra Marcondiro’ndera giocheremo a far la guerra, Marcondiro’ndà250.

Venditti, da parte sua, è tornato talvolta sulla figura del folle-Cristo, dell’indifeso che, dimentico di sé, ama l’altro, indifferente alla fascinazione della ricchezza senza senso, all’accumulazione o al culto del possesso materiale: Dimmi di chi sei, quale strada perduta conosce il tuo amore oh Maria Maddalena, un destino cattivo mi porta lontano da te tra gli insulti e i dolori di una città da ammazzare per amore, sì per amore, è difficile spiegare251.

Folle per troppo amore, miserabile per la troppa ricchezza interiore, tanto

diverso da scegliere di andarsene perché incompreso e dileggiato, il folle di Cohen, De Gregori, Dalla, Venditti, Battisti è l’agnello sacrificato sull’altare della conformità e del nascondimento, della velocità senza senso e della superficialità. Note 229 Per questo, vedi il capitolo dedicato a Uno nessuno e centomila nel mio Sentieri nascosti, Edizioni Fili d’aquilone, 2019, pp. 59-63. 230 O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, cit., pp. 56-57. 231 W. Whitman, poesia sesta del «Song of the Broad-Axe», in Foglie d’erba, Mondadori, 1977, p. 131. Traduzione di E. Giachino. 232 D. Bowie, «Moonage Daydream», in Aladdin Sane, Lp RCA, 1973, traduzione da . L’alligator nel testo originale è termine dello slang americano che indica una persona sicura e senza dubbi, compresi quelli morali. In italiano lo si potrebbe tradurre con «squalo». 233 L. Reed, «Kill Your Sons», in Lou Reed, cit., p. 85. 234 A. Ginsberg, «Kaddish for Naomi Ginsberg», in Jukebox all’idrogeno, cit., pp. 217-219. 235 B. Dylan, «Visions of Johanna», in Blues, ballate, canzoni, cit., p. 207. 236 L. Cohen, «Suzanne», in Song of Leonard Cohen, Lp CBS, 1967. Tradotta e cantata in italiano da Fabrizio De André nell’album del 1974 Canzoni. Per confrontare l’originale con la traduzione, cf . 237 Ivi. 238 A. Rimbaud, «La vergine folle», in Opere, cit., p. 257. 239 A. Rimbaud, «Proses evangeliques», ivi, p. 409. 240 «La casa del pazzo», in Theorius Campus, Lp RCA Italiana, 1972. Testo di F. De Gregori, musica di G. Lo Cascio. 241 Ivi. 242 F. De Gregori, «Bene», in Francesco De Gregori, cit. 243 Per un recente approfondimento della coscienza di questa impossibilità, si veda il mio articolo sull’Osservatore Romano del 1 agosto 2020, «I sogni uccisi dalla quotidianità». 244 L. Dalla (coautori S. Baldazzi – G. Bardotti), «La casa in riva al mare», in Storie di casa mia, cit. 245 C. Buarque, «Lei no, lei sta ballando», in Per un pugno di samba, Lp Polygram/Philips, 1970. Nella versione italiana assieme a Buarque cantano Mia Martini e Loredana Bertè. Il testo italiano è di G. Bardotti. 246 L. Battisti, «Fiori rosa, fiori di pesco», in Emozioni, Lp Ricordi, 1970. 247 Ivi. 248 Ivi. 249 L. Battisti, «Non è Francesca», ivi. 250 F. De André, «Girotondo», in Tutti morimmo a stento, Lp Bluebell Records, 1968. 251 A. Venditti, «Maria Maddalena», In Ullalla, cit.

18

Un bilancio. Provvisorio, ovviamente

Siamo arrivati al termine del nostro viaggio alla ricerca delle sorgenti – più o meno nascoste – della canzone d’autore. Abbiamo visto come non sia possibile operare una distinzione scolastica in scuole o ricercare debiti precisi: le poetiche che hanno influenzato la tipologia di canzone da noi indagata tengono conto soprattutto (con la consapevolezza dell’influenza di modelli letterari molto più antichi) di elaborazioni culturali avvenute dagli anni ’50 alla fine dei ’60, scaturite da trasformazioni strutturali della lingua e delle poetiche. Oltre che della società. Non è possibile pensare, per rimanere in Italia, ai cantautori – e agli autori – dai ’70 in poi senza Dylan e Cohen, ma neanche senza De André, Paoli e Tenco. E senza la canzone popolare, quella americana, certo, ma anche quella del Belpaese. La stagione della ricerca delle tradizioni musicali italiane, dal Canzoniere del Lazio alla Nccp, da Maria Carta a Otello Profazio, per non parlare della particolare esperienza di Angelo Branduardi, che però si è interessato anche di altre tradizioni, ha rappresentato un momento di grande riscoperta delle nostre radici, non solo musicali. A loro volta, Dylan e Cohen sarebbero impensabili senza la rivolta della Generazione Battuta, senza Ginsberg e senza il rifiuto del materialismo conformista e del culto della famiglia perbene, sottomessa ai dettami del benessere. E prima ancora senza Whitman e Thoreau. Ma già a questo livello cronologico e ideologico, come nella Parigi della prima metà del secolo breve (ma anche con il cabaret e con il teatro di Weimar, primo fra tutti Wedekind), una nuova formulazione di una concezione del mondo

prendeva piede, pur sempre guardando a esperienze della tradizione culturale di Otto-Novecento. Insieme a Rimbaud, Verlaine, Valery, e Apollinaire, e poi Prévert, Éluard, solo per fare pochi nomi, agivano nell’immaginario autoriale, in forma più o meno diretta, altri motivi: la mistica della crisi di Eliot (ripreso, come abbiamo visto in un apposito capitolo, nel «Canto d’amore di Prufrock» assieme all’Ecclesiaste, dagli Osanna della colonna sonora di «Milano calibro 9», complice la mediazione di Luis Bacalov), la ricerca del nuovo paradiso sulla terra di Pound, la forza evocatrice di Dylan Thomas e la memoria di Edgar Lee Masters, oltre, con caratteristiche assai diverse, l’esistenzialismo di Sartre e la filosofia negativa, Nietzsche e Schopenhauer, ma anche l’inquietante ripresa di Heidegger; e più in là, il fascino rinascimentale della ricostruzione di un classicismo come archetipo, la struggente «mancanza» manieristica; e ancora, inevitabilmente, Leopardi, soprattutto con il tema della delusione del «dì di festa» e della solitudine. Indietro, fino a Villon, a Dante; senza dimenticare l’ammirazione per il medioevo dei trovatori e dei giullari, per le canzoni di gesta e per le liriche amorose, per l’immediatezza costruita ed esibita dei comico-realisti. Sono pezzi apparentemente sparsi di un insieme, archetipi spesso inconsapevoli delle elaborazioni successive, che si incrociano con esperienze, come quella di Dino Campana, da cui scaturiscono il nuovo orfismo come rifiuto delle vecchie e cristallizzate poetiche e la tensione spasmodica, al di là della forma strutturata, verso il canto puro. Come, a suggello di una universalità del sentire poetico, pur nel rispetto delle differenze storiche e sociali, nella celebre leggenda dell’arciere taoista: partito per trovare i più grandi maestri dell’arco e per apprenderne i segreti, e dopo molti anni tornato nel villaggio natìo, divenuto un grandissimo maestro, non era più in grado di riconoscere un arco. La sua saggezza era andata oltre252. La ricerca va al di là del suo oggetto, a volte, e accade che il cercatore disperi di un viaggio dove ogni distanza è vicina e nello stesso tempo non più misurabile; è questo girare intorno al segno che talvolta spaventa e pone la vecchia domanda se quel segno abbia una corrispondenza nella realtà, o sia semplicemente solo un puro segno. Il rapporto con la realtà è da sempre la sfinge edipica. La strada che ci ha portato fino alla canzone d’autore è stata lunga e

tortuosa. Ma abbiamo trovato alcune radici, che ci hanno rivelato come perfino la tanto vituperata – dai puristi – canzone nasconda inquietanti e anche aristocratiche paternità. Anche dove non sembrerebbe. Non è vero, Edoardo, e lo sai bene: non sono solo canzonette. Nota 252 Cf «Il più grande arciere del mondo», racconto cinese molto probabilmente nato all’interno della disciplina dell’arco tradizionale (Kyudo) e tramandato in diverse varianti: cf e J. Stevens, Lo zen, l’arco, la freccia. Vita e insegnamenti di Awa Kenzo, Edizioni Mediterranee, 2011.

Bibliografia

Sono qui riportate le opere citate nel corso del lavoro o che possono essere tenute in considerazione per la prossimità agli argomenti trattati. Sono riportati direttamente i titoli delle sillogi, delle antologie, delle opere complete, in quanto i titoli delle singole poesie o dei brani sono già presenti nelle note. In caso di più di due autori l’opera è riportata come AA.VV. La Bibbia di Gerusalemme, EDB, 1988 AA.VV., L’arcipelago pop, Arcana, 1977 AA.VV., I lirici greci, Einaudi, 1975 A. Abruzzese, La grande scimmia, Feltrinelli, 1979 A. Alridge (a cura di), Il libro delle canzoni dei Beatles, Mondadori, 1972 G. Apollinaire, Poesie, Newton Compton, 1976 G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, Sansoni, 1975 G. Armellini (a cura di), La canzone francese, Savelli, 1979 A. Bagnato, Natura e poesia nella Divina Commedia, L’Albatros, 2016 C. Baudelaire, Tutte le poesie, Newton Compton, 1974 R. Bertoncelli, Joan Baez, Gruppo Editoriale Fabbri, 1982 R. Bertoncelli, Donovan, Gruppo Editoriale Fabbri, 1983 W. Binaghi (a cura di), Lou Reed, Arcana, 1979 H. Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle Età, Einaudi, 1996 M. Bontempelli, Vita e morte di Adria e dei suoi figli, Lucarini, 1989 A. Breton, Nadja, Einaudi, 1977 F. Camon, Il mestiere di poeta, Garzanti, 1982 D. Campana, Opere e contributi, Vallecchi, 1973 G. Caproni, Poesie, Garzanti, 1976 G. Contini, Letteratura dell’Italia unita, Sansoni, 1968 S. Corazzini, Liriche, Ricciardi, 1968 G. Corso, Benzina, a cura di G. Menarini, Guanda, 1969 G. D’Annunzio, Trionfo della Morte, Mondadori, 1966 Dante, Canto II e VIII del Purgatorio; Canto XXX del Paradiso Dante, Vita Nuova. Rime, Mursia, 1973 F. De Gregori – A. Gnoli, Passo d’uomo, Laterza, 2016

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Senza indicazioni di autore: Jim Morrison & the Doors, Stampa Alternativa Editrice, 1980 Rolling Stones. Tutti i testi. I. 1963-1969, Arcana, 1983

L'AUTORE

Marco Testi è storico della letteratura e critico letterario. Scrive sulle pagine culturali dell’agenzia stampa SIR, su «L’Osservatore Romano» e «La Civiltà Cattolica». Ha pubblicato, fra le altre cose, Sentieri nascosti. Quando i libri celano nuovi modi di vedere il mondo (Ed. Fili d’aquilone, 2019); La cura. Il libro come salvezza dalla solitudine e dalla paura (Fuo‐ rilinea, 2021) e il romanzo Risvegli (Robin, 2023).