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Italian Pages 257/263 [263] Year 2018
ASPETTANDO I BARBARI Collana a cura di Giusto Traina
Maxime Petitjean
LA CAVALLERIA NEL MONDO ANTICO
Dagli Assiri alle invasioni barbariche traduzione italiana a cura di Lucia Visonà
Maxime Petitjean La cavalleria nel mondo antico. Dagli Assiri alle invasioni barbariche Prima edizione italiana – Palermo © 2018 Maut Srl – 21 Editore www.21editore.it ISBN 978-88-99470-36-4 Tutti i diritti riservati Progetto grafico e impaginazione: Luca De Bernardis Immagine di copertina: Greek cavalier (Greece). Ca. 350 BC. (Photo by adoc-photos/Corbis via Getty Images)
Indice
Prefazione
I
Introduzione
9
Capitolo 1
Prerequisiti del combattimento di cavalleria 13
Addomesticare il cavallo Cavalcare il cavallo Combattere a cavallo
13 17 20
Capitolo 2
I primi sviluppi tattici 25
La cavalleria assira La cavalleria achemenide I contributi del mondo nomade
25 30 34
Capitolo 3
L’epoca classica della cavalleria: il modello greco 39
Il ruolo degli hippeis nella guerra oplitica La cavalleria come espressione del corpo civico La costruzione del centauro
40 46 50
Capitolo 4
L’apogeo ellenistico 55
Filippo II e Alessandro Magno: la cavalleria come arma decisiva Cavallerie e cavalieri all’epoca dei regni ellenistici I Parti: la scelta esclusiva della cavalleria
55 64 74
Capitolo 5
Roma: gli equites Romani e la cavalleria ausiliaria 85
La tradizione romana del combattimento di cavalleria 85 L’adozione delle tecniche di scaramuccia e l’emergere della guerriglia di cavalleria 94 Il nuovo volto della cavalleria romana nel I secolo a.C. 102
Capitolo 6
La cavalleria mediterranea sotto il Principato romano 115
La progressiva costituzione di una cavalleria permanente e multietnica 115 La cavalleria alle frontiere: stanziamento e missioni della cavalleria imperiale durante il Principato 127 Dal campo di addestramento al campo di battaglia 136
Capitolo 7
L’età tardoantica ovvero l’epoca d’oro della cavalleria 147
Le riforme del Tardo Impero: una bipartizione della cavalleria romana? I cavalieri nomadi di epoca tardoantica: lo scontro con il modello unno Il declino romano e la nuova stagione bizantina
147 155 164
Conclusione 177 Abbreviazioni Fonti Bibliografia Note Indice generale
181 183 189 215 251
Prefazione Verso la fine del ii secolo a.C., un cittadino di Pompei fece decorare l’esedra della sua sontuosa dimora, la cosiddetta Casa del Fauno, con uno stupendo mosaico ispirato a un modello greco del primo Ellenismo, forse arrivato dall’Oriente come bottino di una campagna militare. La scena raffigura una delle vittorie di Alessandro Magno contro i Persiani: in piedi sul carro da guerra, trainato da quattro splendidi cavalli di razza nisea, il Gran Re Dario iii si volge verso i nemici inseguitori, in un ultimo tentativo di controbattere l’assalto guidato da Alessandro in sella a Bucefalo. Le rimanenti figure, più o meno riconoscibili, rappresentano dei cavalieri.
Museo archeologico nazionale, Napoli. Mosaico di Alessandro.
Gli archeologi continuano a discutere sull’identità del proprietario della Casa del Fauno, la più grande delle domus di Pompei, e le eventuali ragioni della scelta del tema iconografico, mostrando però meno interesse per gli aspetti tecnico-militari della scena. In effetti, come ricorda Maxime Petitjean sulla scorta di un importante contributo di Christopher Tuplin, nell’esercito di Dario iii la cavalleria rappresentava una parte considerevole dell’esercito1. Questo rispecchiava la struttura della società persiana e di gran parte delle I
etnie tributarie dell’impero achemenide, a cui si aggiungevano gli alleati nomadi e indiani: le unità di cavalleria rappresentavano l’élite nobiliare. Del resto, questa struttura era valida anche per i Macedoni, nonostante dei loro eserciti si tenda a valorizzare soprattutto la falange. In realtà, fin dal v secolo a.C., l’efficacia della falange si deve a studiate disposizioni tattiche che prevedevano l’interazione di fanti e cavalieri. Ma gli artisti greci che lavorarono per la corte macedone preferirono evidenziare gli aspetti spettacolari di una carica di cavalleria, e ovviamente il conflitto tra i due re. Il mosaico di Alessandro è solo uno dei tanti esempi di rappresentazioni iconografiche che evidenziano il ruolo della cavalleria in combattimento; del resto, ciò si riscontra anche in vari esempi della letteratura sia greca che latina. Tuttavia, nonostante il peso della documentazione, la visione degli storici resta condizionata da filtri ideologici sia antichi che moderni che hanno ridimensionato il ruolo della cavalleria, in favore della fanteria pesante di opliti e legionari, espressione dei modelli civici delle poleis greche o della Roma repubblicana, esempio di continuità nel modo occidentale di fare la guerra. Simili interpretazioni hanno portato a distorcere gli aspetti strategici e tattici dell’uso della cavalleria, fino agli eccessi di Victor Davis Hanson e del suo “modello occidentale della guerra”, basato sulla fanteria pesante e sulle battaglie in campo aperto, in contrapposizione a un presunto “modello orientale”, caratterizzato da scorrerie rapide in terreni impervi, nei quali l’uso del cavallo si rivelava fondamentale, condizionando il percorso formativo dei combattenti. Nel tentativo di confermare il suo teorema, schematico quanto infondato, Hanson non ha esitato a considerare il disastro di Carre del 53 a.C., che Plutarco ha presentato come uno scontro fra legioni “occidentali” e cavalleria “orientale”, addirittura come l’eccezione che confermerebbe la regola: “Anche i disastri orribili come quello di Carre non hanno la superiorità definitiva delle forze occidentali. La Partia si trova oltre l’Eufrate, e le legioni che perirono a migliaia di chilometri da casa non rappresentavano che un quinto delle truppe di cui disponeva Roma”2. Maxime Petitjean osserva a ragione come sia più corretto “situare la linea di demarcazione tra pratiche sedentarie e nomadi, II
perché basate su forme di organizzazione sociale radicalmente differenti e non su una distinzione etno-culturale la cui realtà e validità euristica restano da dimostrare”3. Del resto, fu il ricorso all’esperienza e alla pratica di cavalieri alleati e mercenari a garantire la fortuna e la tenuta dei grandi imperi: ad esempio, l’irresistibile avanzata dei Parti nell’impero seleucide dipese anche dall’incapacità dell’aristocrazia di origine macedone di attuare quel processo di integrazione fra Europa e Asia che si attribuiva alla visione lungimirante di Alessandro: la mancata integrazione dell’elemento straniero e barbarico, che Arnaldo Momigliano ha chiamato “l’errore dei Greci”, si rifletteva anche a livello militare. Resta però difficile decodificare il messaggio delle fonti letterarie. Certo, la retorica sull’imbattibilità del dispositivo della legione dovette influire su molte decisioni sbagliate dei comandanti romani; ma in molti casi i Romani sfruttarono efficacemente la cavalleria alleata, e ben prima dell’età tardoantica: basti pensare agli alleati numidi nel corso della seconda guerra punica, o ai cavalieri mauri di Lusio Quieto che permisero a Traiano l’occupazione di quei territori della Dacia che richiedevano l’uso di tecniche di guerriglia. Questa esperienza si evolve del corso del iii secolo, quando sembra cambiare la valutazione di alcune forme di combattimento. Un lungo brano di Erodiano (vii, 5-7) racconta la campagna di Massimino contro i germani, la cui battaglia decisiva ebbe luogo in un territorio palustre. L’imperatore diede l’esempio lanciando per primo il cavallo “sebbene fosse immerso nell’acqua fino alla sommità del ventre e uccidesse i barbari che resistevano”. Massimino “non si accontentò di annunciare con una lettera al Senato e al popolo romano questa battaglia e le sue grandi opere, ma le fece immortalare in un grande dipinto ed esibire davanti al Senato, in modo che i Romani non solo potessero conoscere le sue imprese, ma anche vederle”. Si può osservare il mutamento di prospettiva rispetto ai tradizionali modelli letterari che contrapponevano il modo di combattere dei Romani a quello dei barbari, frutto di un processo di “democratizzazione della cultura” che determina nuovi atteggiamenti nelle fonti narrative, con maggiore apertura rispetto alla visione tradizionale del paesaggio. Come osserva Petitjean, III
anche un autore dichiaratamente conservatore come Vegezio mostra in realtà l’importanza della cavalleria e l’insegnamento tratto dal contatto con i barbari. Infine, Petitjean si sofferma sugli sviluppi tardoantichi e protobizantini dall’arte militare equestre: ridimensionato il “modello occidentale” di Greci e Romani, egli propone altresì di ridimensionare l’idea di un Medioevo occidentale o bizantino basato sulla cavalleria. Questo può dare una luce diversa a trattati degli inizi del vii secolo come lo Strategicon di Maurizio e l’operetta solitamente chiamata De militari scientia, composta all’epoca dei primi scontri con gli Arabi, che da Maurizio dipende in gran parte. Il relativo disinteresse per la fanteria nel De militari scientia non è quindi prova di un mutamento radicale dei modi di combattere, ma dipende più semplicemente dall’identità del suo autore, un anonimo ufficiale di cavalleria che nei suoi “appunti di tattica” si concentrava sull’organizzazione di un contingente di cavalleria, riflettendo su aspetti di natura e tattica e strategica, e soprattutto adattando ai suoi bisogni pratici la grande tradizione dei tattici greci: così, il “silenzio su questioni legate alla fanteria […] potrebbe stare a significare non tanto il suo disuso, per giunta in un breve torno di tempo […] quanto un indizio del fatto che l’anonimo avesse come angolo privilegiato di osservazione la cavalleria, formazione nella quale aveva speso, o stava spendendo, la sua esperienza di comandante”4. In definitiva, la maggiore attenzione riservata al valore strategico della cavalleria era dettata dalla necessità di adeguarsi ai modi di combattere di avversari per i quali le incursioni e gli attacchi a sorpresa erano le pratiche di guerra privilegiate, testimoniando al tempo stesso il valore accordato alla professionalizzazione dell’esercito, che richiedeva abilità, esercitazione e competenza – tutte qualità imprescindibili per un cavaliere – ma anche l’utilizzo di schemi tattici che imponevano l’interazione e la sinergia dei diversi reparti specializzati. Delineando la sua evoluzione nel corso dei secoli, questa sintesi aiuta a comprenderne il continuum. Giusto Traina IV
Introduzione1 A partire dal Rinascimento la disciplina storica ha riflettuto sui criteri obiettivi che consentono di identificare i cambiamenti occorsi tra Antichità e Medioevo. Nessun tema è sfuggito a questo tentativo di giustificare limiti cronologici convenzionali che ancora oggi fungono da riferimento per la ricerca e l’insegnamento. Da un punto di vista politico, l’Antichità vede svilupparsi i primi grandi imperi-mondo prima della frammentazione territoriale causata dalle invasioni barbariche di v-vi secolo. Da un punto di vista culturale, l’Antichità è contrassegnata dall’influenza unificatrice della civiltà greco-romana che, dopo una fase di declino (i cosiddetti “secoli bui”), viene riscoperta in Europa su impulso dell’Umanesimo. Sul piano religioso l’Antichità è politeista mentre il Medioevo è cristiano. Sul piano socio-economico l’Antichità pratica lo schiavismo mentre il Medioevo è feudale. Potremmo moltiplicare all’infinito le considerazioni che, nell’immaginario collettivo, permettono di distinguere in modo tanto netto quanto schematico le due epoche. E la storia militare non è stata trascurata: a partire da Machiavelli generazioni di eruditi hanno fissato una frontiera invalicabile tra l’arte militare degli Antichi e il suo corrispettivo medievale. Uno dei più influenti teorici di questa distinzione è senza dubbio sir Charles Oman che, nel suo History of the Art of War in the Middle Ages (1898), considera l’Antichità come un’epoca dominata dalle forze di fanteria pesante e il Medioevo come un’ “età della cavalleria”, che avrebbe il suo atto di nascita nella battaglia di Adrianopoli contro i Goti (378): “La prima grande vittoria riportata da questa cavalleria pesante [germanica] che si dimostrava così capace di sostituire la fanteria pesante di Roma quale forza decisiva della guerra”2. I sostenitori di questa analisi basata sulla peculiarità dell’epoca antica in materia di pratica bellica la giustificano in vari modi. Poiché al tempo erano ancora ignoti finimenti come la staffa o il 9
ferro di cavallo, l’Antichità sarebbe stata carente da un punto di vista tecnico e non sarebbe riuscita a fornire ai cavalieri i mezzi per combattere in modo efficace. Al massimo si sarebbero sviluppate cavallerie da impiegare nelle azioni di disturbo, incapaci di scontrarsi direttamente con gli avvesari, sia fanti che cavalieri. I cavalli, invece, erano troppo piccoli per sostenere il peso di combattenti armati dalla testa ai piedi e solo nel Medioevo gli equini sarebbero diventati abbastanza grandi da permettere lo sviluppo della cavalleria pesante. Simili tesi sono contenute nei testi della prima metà del xx secolo, come l’influente opera del comandante Lefebvre de Noëttes3. Di recente nuovi studi hanno cercato di chiarire le cause culturali e antropologiche della presunta debolezza delle cavallerie antiche. Per lo storico Giovanni Brizzi, l’Antichità classica era dominata dalla figura del fante pesante - oplita greco o legionario romano – perché il modello stesso della città, fondato sulla partecipazione di tutti i cittadini adulti alla difesa della patria, presupponeva la valorizzazione di questa modalità di combattimento collettivo, a scapito del combattimento di cavalleria, considerato troppo aristocratico e individualista. Alla fine dell’Antichità sarebbero scomparsi “i presupposti, culturali e politici, ideali e sociali, su cui si fondava quel particolare tipo di esercito”. L’Impero romano, aperto all’influenza di schemi di pensiero “orientali”, sarebbe diventato più autoritario, i cittadini si sarebbero trasformati in sudditi e le città avrebbero conosciuto un declino, trascinando con sé l’ideale di cittadino-soldato4. Tutti questi sistemi interpretativi contengono semplificazioni e pregiudizi che possono essere rimessi in discussione alla luce dei recenti studi. Innanzitutto, decenni di ricostruzione di armamenti antichi ed esperimenti pratici hanno confermato che i cavalieri antichi (soprattutto romani) disponevano di accessori per l’equitazione perfettamente efficienti5. Era davvero necessario dimostrarlo, considerato che le fonti letterarie antiche descrivono con chiarezza combattimenti equestri già in età assira? Studi di archeozoologia hanno inoltre messo in evidenza la robustezza dei cavalli, che in alcuni casi potevano portare combattenti muniti di un equipaggiamento molto pesante6. Per finire, si evita oggi di 10
distinguere tra un “modello occidentale di guerra”, fondato sulla fanteria civica, da contrapporre a un modello “orientale”, che privilegerebbe invece la cavalleria7. Greci e Romani disponevano di eccellenti fanti, ma erano anche in grado di mobilitare potenti corpi di cavalleria che talvolta giocavano un ruolo decisivo nelle operazioni militari, praticando azioni di guerriglia o accerchiando le forze nemiche sul campo di battaglia. È bene sottolineare che, dall’inizio dell’età del Ferro, la maggior parte delle comunità politiche antiche erano dominate da aristocrazie equestri (gli hippeis in Grecia, l’ordine equestre a Roma). In queste società il cavallo da guerra era un prestigioso segno di status sociale e solo all’interno di alcune città greche particolarmente egualitarie l’opposizione sociale tra cavalieri e opliti sfociò in una dialettica che sminuiva la cavalleria e esaltava la fanteria. Il rinnovato interesse della storiografia recente verso questi temi ha aperto prospettive interessanti per tutta l’Antichità, piste di ricerca che mi propongo di esplorare in questo saggio. In effetti, se ammettiamo che la cavalleria iniziò ad assumere – almeno occasionalmente – un ruolo militare decisivo già in epoca antica, diventa necessario interrogarsi sulle motivazioni profonde di un simile sviluppo tattico, sulle sue tappe, le sue modalità e le sue conseguenze. Diverse questioni importanti costituiscono l’ossatura di questo saggio. Il primo capitolo torna sulle origini dell’equitazione, definita dal grande storico militare John Keegan “una delle due rivoluzioni più importanti dell’arte della guerra” (prima delle armi da fuoco)8, e cerca di stabilire dove e quando il cavallo sia stato addomesticato per la prima volta e per quali ragioni. Gli equini addomesticati erano cavalcati? Sono stati fin da subito utilizzati a scopi militari? Il lettore si renderà conto che gli scavi archeologici più recenti hanno enormemente contribuito a modernizzare l’approccio verso questo argomento fondamentale. Il secondo capitolo tratta la pratica del combattimento di cavalleria. Non basta infatti che l’uomo monti a cavallo o si serva dell’animale come mezzo di trasporto perché automaticamente si sviluppi una nuova forma di combattimento. Il concetto di cavalleria implica l’esistenza di guerrieri che utilizzano la loro cavalcatura nello scontro, organizzati in unità collettive 11
dotate di una struttura di comando. Quando si è diffusa nel bacino mediterraneo questa forma di combattimento? Quali conseguenze ha avuto sulle modalità di fare la guerra? Quali sono i primi grandi modelli di cavalleria sviluppatisi in contesti sociali diversi? I capitoli successivi, la parte principale dell’opera, sono dedicati al mondo greco e a Roma. Una domanda fondamentale riguarda le più antiche forze montate che si sviluppano in queste aree: si tratta di vere e proprie cavallerie o bisogna invece parlare di opliti a cavallo (cioè fanti che usano i cavalli solo per raggiungere il campo di battaglia), come ha fatto a lungo la storiografia? Che posto occupano i cavalieri in queste società? In cosa lo status sociale influenza le modalità di combattimento? L’obiettivo è dimostrare che anche prima dello sviluppo delle forme di combattimento oplitiche la cavalleria costituiva in Grecia e in Italia una forza socialmente e tatticamente dominante. Il secondo punto su cui viene focalizzata l’attenzione è l’integrazione delle forze militari mediterranee a seguito della costituzione di grandi imperi territoriali, in età ellenistica per il mondo greco e a partire dall’età repubblicana per Roma. Dalle conquiste di Alessandro Magno alla caduta dell’Impero romano d’Occidente, Stati di grandi dimensioni riescono a costituire cavallerie multietniche. La coesistenza di tradizioni diverse all’interno dello stesso apparato militare favorisce gli scambi culturali e permette la nascita di truppe montate altamente polivalenti. L’affermarsi di simili forze di cavalleria a scapito della fanteria costituisce l’ultimo tema dell’opera – forse il più importante: la cavalleria diventò la “regina delle battaglie” in epoca tardoantica? E, se è così, cosa ha determinato questa rivoluzione militare? Il problema della transizione medievale sarà ovviamente al centro della questione.
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Capitolo 1
Prerequisiti del combattimento di cavalleria Studiare la cavalleria antica presuppone l’interrogarsi sulla nascita e sull’evoluzione delle pratiche militari equestri nel mondo mediterraneo. Dal primo addomesticamento dei cavalli nelle steppe euroasiatiche all’irruzione delle popolazioni scitiche nel Vicino Oriente e in Europa, il combattimento di cavalleria si perfeziona fino a diventare una componente fondamentale dell’arte della guerra. Molto prima che la Repubblica romana raggiunga lo status di potenza egemonica, le fondamenta dell’equitazione sono poste. I vari finimenti, le briglie, il morso, la sella – che può essere un semplice tappeto imbottito o un sedile dotato di un’anima rigida – permettono di controllare il cavallo e procurano ai combattenti una mobilità senza precedenti; le armi si modificano di conseguenza: vengono concepiti nuovi archi e nuove spade per i cavalieri. Tutti questi prerequisiti tecnici non compaiono all’improvviso, ma si costituiscono progressivamente a partire dal v millennio a.C. È necessaria una grande quantità di osservazioni ed esperimenti perché il cavallo da sella diventi, all’inizio dell’età del Ferro, un elemento essenziale dell’arte militare. Addomesticare il cavallo Le prime tecniche di allevamento equino sorgono nell’area che si estende tra l’attuale Ucraina e l’attuale Mongolia, dove, a quanto pare, i cavalli domestici vengono anche cavalcati per la prima volta1. Le tappe precise di questa evoluzione sollevano ancora forti dibattiti tra i protostorici. All’interno della letteratura scientifica si contrappongono due punti di vista, o meglio due tendenze maggioritarie. 13
Dopo i lavori pionieristici di Marija Gimbutas, alcuni archeologi ritengono che i Protoindoeuropei combattessero a cavallo già alla fine del v millennio a.C. e che questa caratteristica fu condizione necessaria alla loro espansione militare in Europa e in Medio Oriente2. Altri, come Marsha Levine e Robert Drews, pensano invece che il cavallo venne addomesticato e cavalcato solo molto più tardi e che il mondo antico non conobbe una vera e propria cavalleria prima dell’inizio del i millennio a.C.3. Una posizione intermedia è sostenuta da David W. Anthony, secondo cui alcune popolazioni seminomadi dell’Asia centrale montavano a cavallo già nel v millennio a.C., ma la cavalleria diventò davvero efficace solo con lo sviluppo di archi compositi di piccole dimensioni, all’alba del i millennio a.C.4. Queste divergenze sono strettamente legate ai progressi nelle conoscenze scientifiche determinati dalla scoperta, negli ultimi settant’anni, di nuovi siti archeologici. L’attenzione della comunità scientifica si è inizialmente rivolta al sito di Dereivka in Ucraina. A lungo considerato la culla dell’addomesticamento del cavallo, questo sito, datato al 4000 a.C. ca., ha restituito negli anni ’60 i resti di numerosi cavalli utilizzati a fini alimentari da popolazioni appartenenti alla cultura di Srednij Stog, sviluppatasi nella steppa pontica nel v millennio a.C. Avendo individuato tracce di pratiche di allevamento selettivo, gli archeologi hanno ipotizzato che gli esemplari rinvenuti facessero parte di una mandria domestica5. I segni di usura scoperti sui premolari di uno stallone hanno avvalorato l’ipotesi secondo cui i cavalli di Dereivka sarebbero stati dotati di morso e cavalcati. Ma si trascurava un dettaglio essenziale, ovvero la frequente intrusione, all’interno di siti ben datati, di elementi più tardi. In effetti, nel 1997, la datazione al carbonio 14 ha mostrato che i resti dell’animale non sono anteriori al i millennio a.C. e sono probabilmente coevi alla prima età del Ferro scitica6. La scoperta ha costretto a rimettere in discussione conoscenze che, dagli esiti delle ricerche pubblicate dall’archeologo ucraino Dmytro Telegini, erano date ormai per acquisite. Alcuni studiosi hanno abbandonato l’idea di un addomesticamento precoce dei cavalli nelle steppe ucraine, altri hanno sottolineato che gli abitanti di Dereivka non avevano bisogno di cavalcare per praticare 14
l’allevamento7, o che i resti di equini che presentano tracce di macellazione sono in realtà il risultato della caccia selettiva8. L’ondata di scetticismo è stata rapidamente arginata grazie agli scavi realizzati a partire dagli anni ’80 a Botai, nella steppa del Kazakhistan settentrionale9. Questo sito, fondato attorno al 3500 a.C., ha restituito resti di numerosi equini. L’ossatura dei cavalli di Botai permette di distinguerli morfologicamente dai cavalli allo stato brado attestati nella regione e i premolari di alcuni esemplari presentano tracce di usura causate dall’uso di un morso di materia organica. La datazione di questi reperti è indiscutibile: ci troviamo di fronte ai primi casi certi di cavalli addomesticati, nonché alla prova che l’addomesticamento del cavallo è avvenuto in un luogo imprecisato della steppa euroasiatica tra il 4500 e il 3500 a.C., forse anche prima. Più difficile è definire la questione dell’origine dei cavalli domestici europei. Ci si chiede tra l’altro se le specie occidentali derivino da un lontano antenato steppico o se invece discendano da specie locali allo stato brado. La teoria kurganica sviluppata da Marija Gimbutas suggerisce che a introdurle dalla steppa pontica furono gli invasori indoeuropei. Il fatto che gli spostamenti di mandrie possano essere causati dalle migrazioni umane non ha nulla di inverosimile, ma la comunità scientifica tende sempre più ad accettare l’ipotesi di centri di addomesticamento indipendenti10. In effetti, pur essendo drasticamente diminuita alla fine del Paleolitico, la popolazione equina sembra essersi conservata localmente, soprattutto in Europa orientale e nelle penisola iberica. L’ipotesi di molteplici luoghi d’origine è corroborata dai recenti studi molecolari, che hanno sottolineato la grande diversità genetica dei primi cavalli domestici, elemento che rivela la grande varietà di ceppi fondatori, a meno che l’ininterrotto apporto genetico all’interno delle mandrie da parte dei cavalli selvaggi non sia responsabile di questa differenziazione11. All’epoca in cui i Romani iniziano a estendere la loro egemonia nel bacino mediterraneo, il cavallo domestico è diffuso in tutta Europa. Si tratta di un animale di piccole dimensioni, più minuto dell’Equus caballus, che misura in media 128 cm al garrese, molto al disotto del limite oggi fissato per distinguere i cavalli propriamente detti dai pony12. Sándor Bökönyi individua due principali 15
tipologie di cavalli: una dell’Europa orientale, che raggruppa gli esemplari più grandi, e una occidentale, caratterizzata da stature più modeste e una morfologia gracile13. Ad esclusione della parte di Europa situata a est della linea Venezia-Vienna, in cui l’influenza delle specie di origine steppica è più visibile, si possono rilevare dei contrasti, legati a casi di importazione e allo sviluppo, in alcune regioni dell’Europa meridionale, di pratiche di selezione. Così in Grecia e nella penisola italiana si incontrano cavalli più robusti della media14. Al di fuori di queste regioni privilegiate, recenti studi sulla Gallia, la Germania e le regioni dell’alto Danubio forniscono risultati più modesti: tra i 120 e i 126 cm al garrese alla fine dell’età del Ferro, raramente di più15. Diversi millenni di addomesticamento non hanno alterato in modo significativo il temperamento e la psicologia dei cavalli16. Siamo di fronte a un animale sociale, abituato a vivere in branco; il suo istinto gregario lo spinge a cercare la compagnia dei suoi simili anche al di fuori della vita allo stato brado. La vita collettiva è una garanzia di sicurezza perché permette agli animali di prendersi cura gli uni degli altri e di notare più facilmente la presenza di eventuali predatori. All’interno dei gruppi di cavalli s’instaurano relazioni dominante-dominato: gli stalloni entrano in competizione con gli altri maschi per il controllo delle giumente e in alcuni casi possono battersi per imporre il proprio dominio al resto del branco. Ma i comportamenti aggressivi si limitano di solito alla postura e rimangono rari: allo stato brado il cavallo è una preda che non dispone di altri mezzi di difesa oltre alla grande velocità. Si tratta di un erbivoro sospettoso per natura e pronto a fuggire davanti a qualsiasi minaccia reale o presunta. Il suo comportamento pavido è acuito dalla presenza di elementi inusuali come segnali visivi, uditivi o olfattivi. Non è quindi scontata per il cavallo l’attività bellica, che implica di avvicinarsi al pericolo invece di evitarlo. È necessario un vero e proprio lavoro di condizionamento per familiarizzare l’animale con le sue fonti di paura17. Queste caratteristiche comportamentali non devono essere sottovalutate perché resteranno un elemento essenziale del combattimento di cavalleria per tutta l’Antichità e anche oltre. 16
Cavalcare il cavallo Una cosa è l’addomesticamento, un’altra è l’utilizzo del cavallo a scopi militari. Questo “addomesticamento secondario”, dettato dal desiderio di controllare e utilizzare la velocità dell’animale, non si è necessariamente prodotto in contemporanea al primo18. Nonostante il numero impressionante di lavori sull’argomento, rimane difficile stabilire se i cavalli domestici di Botai e Dereivka venissero cavalcati per i combattimenti. Sappiamo che rispetto agli standard attuali erano animali di piccole dimensioni (tra i 136 e i 144 cm al garrese), troppo piccoli per la guerra? Pare di no, dato che i cavalli degli equites romani non erano molto più grandi. Il carattere rudimentale dei morsi (probabilmente semplici corde confezionate con crini o lacci di cuoio) non impediva un controllo relativamente efficace delle cavalcature. Secondo David W. Anthony gli abitanti della steppa dovettero intuire abbastanza presto che montare a cavallo poteva rivelarsi vantaggioso perché permetteva di controllare una mandria più numerosa e di impossessarsi più facilmente del bestiame delle tribù vicine. La conoscenza dell’equitazione avrebbe rafforzato la competizione sociale all’interno delle comunità di agropastori e contribuito alla formazione di raid intertribali (mounted raiding). Secondo Anthony, i guerrieri impegnati in queste spedizioni traevano profitto dalla rapidità degli animali senza però utilizzarli come piattaforma da combattimento. Lottavano a piedi e rimontavano a cavallo per fuggire, in una prima forma di scontro collettivo associato al cavallo che l’archeologo americano distingue dal vero e proprio combattimento di cavalleria, a suo avviso successivo19. La tesi di Anthony è sicuramente affascinante, ma mancano prove concrete per sostenerla; gli unici elementi determinanti sono forniti da una documentazione iconografica decisamene posteriore. Bisogna infatti attendere la fine del iii millennio a.C. per vedere comparire, in Mesopotamia, le prime rappresentazioni storiche di cavalieri. Un’impronta di sigillo cilindrico, datata 2030 a.C. ca., raffigurante un individuo seduto in modo impacciato sulla sua cavalcatura, documenta il primitivo stadio di sviluppo dell’equitazione nella regione (fig. 1)20. 17
1. Impronta di sigillo cilindrico, Ur 2030 ca. Fonte Owen 1991, p. 270, fig. 1
Le redini, in corda intrecciata o pelo di capra, sono attaccate a un anello da naso; il cavaliere le regge con una sola mano e non servono a guidare l’animale ma piuttosto a fermarlo o rallentarlo. Cinquecento anni dopo, i combattenti a cavallo fanno la loro comparsa in Egitto21: un’incisione su una placca di steatite mostra un cavaliere in atto di brandire le armi al disopra di un nemico prostrato22. L’oggetto risale al regno di Thutmose III (1479-1425 a.C.) ed è coerente con le tracce di importazione di cavalli domestici nella valle del Nilo da parte degli Hyksos23. In effetti, una delle prime testimonianze dell’introduzione dell’Equus caballus in Egitto, lo scheletro di Buhen (Nubia, 1675 a.C. ca.), lascia intravedere una deformazione a livello dell’osso sacro, a conferma che, nella prima metà del ii millennio a.C., i cavalli erano montati allo stesso modo degli asini, molto indietro rispetto al garrese24. Si può citare inoltre una stele egiziana conservata al Museo di Torino su cui è raffigurata la dea Astarte, a cavallo, mentre tende l’arco per tirare su un Nubiano25. Il rilievo costituisce una prova inconfutabile dello sviluppo dell’arcieria a cavallo almeno dalla seconda metà del xv secolo a.C. La presenza di cavalieri nelle armate egiziane del Nuovo Regno è confermata dal rilievo della battaglia di Qadesh a Abu Simbel (1285 a.C. ca.), su cui si distinguono in modo netto alcuni soldati a cavallo26. Studi recenti hanno peraltro dimostrato che, nel corso del ii millennio a.C., anche altre potenze del Vicino Oriente si erano 18
dotate di truppe a cavallo27. Una lettera proveniente dagli archivi di Tell Leilan (xviii secolo a.C.) evoca la scorreria sui monti Sinjar compiuta da un gruppo di sessanta cavalieri28. Altre tavolette cuneiformi rinvenute a Nuzi, risalenti al xv secolo a.C., riportano che l’esercito di Mitanni era composto da fanti, carri e cavalieri29. Infine, i rilievi egiziani del regno di Seti I (1318-1304 ca.) rappresentano combattenti siriaci e ittiti in armi e a cavallo30. L’esatta funzione militare di questi cavalieri levantini è dibattuta: erano solo dei superstiti degli equipaggi dei carri, dei messaggeri o degli esploratori, come suggerito da alcuni studiosi31? Non sembra che la documentazione, al suo stato attuale, corrobori queste ipotesi, anzi appare evidente che la cavalleria, nel senso di componente tattica autonoma delle armate, esistesse già alla fine dell’età del Bronzo. Quindi non deve più essere considerata un’innovazione assira di inizio i millennio a.C.32. Tra il 1500 e il 1000 a.C. si verificano anche i primi tentativi di mettere per iscritto le conoscenze ippologiche. Una serie di tavolette ritrovate a Hattusa, capitale dell’impero ittita, attribuisce a Kikkuli, “maestro di cavalli del paese di Mittani”, un trattato sull’allevamento dei cavalli da guerra33. Il testo, redatto in uno stile conciso e privo di qualsiasi artificio retorico, risale verosimilmente al xv secolo e spiega come nutrire e addestrare i cavalli giorno per giorno. Vengono prescritti alcuni esercizi per abituare l’animale alle andature rapide e alle volte, ma purtroppo l’autore non ne espone l’esatto svolgimento, perciò qualsiasi tentativo di ricostruzione rimane allo stato di ipotesi. L’opera utilizza molti termini tecnici indoari, prova che agli immigrati indoeuropei all’origine della fondazione del regno di Mitanni veniva riconosciuta una particolare esperienza nell’ambito dell’ippologia. Un’altra serie documentaria di poco successiva è stata scoperta a Ras Shamra, sulla costa siriana. Redatte in ugaritico, le tavolette formano un corpus ippiatrico (il più antico ad oggi noto) composto da numerose prescrizioni terapeutiche34. Anche in questo caso i rimedi sono presentati in modo estremamente sintetico e, come per il manuale di Kikkuli, i testi ippiatrici di Ugarit non forniscono nessuna informazione sulle tecniche di equitazione e neppure sull’utilizzo dei carri leggeri che nello stesso periodo si diffondono nella regione. 19
L’equitazione militare compare in Europa in un’epoca più recente. Nel mondo egeo le prime rappresentazioni di cavalieri risalgono attorno al 1300 a.C.35 e le prime scene di combattimento raffiguranti soldati a cavallo sono attestate solo a partire dal secondo quarto del vii secolo a.C.36. Un recente studio sostiene però che già in età micenea si combattesse a cavallo37. La questione è meno chiara per l’Europa centrale e occidentale dominata dai Celti della prima età del Ferro38. Precoci rappresentazioni artistiche di cavalieri – alcune delle quali includono scene di combattimento – sono note in Austria, Slovenia, Italia settentrionale e Svezia, ma la datazione è incerta39. I marcatori archeologici costituiti dagli accessori legati all’equitazione forniscono punti di riferimento più sicuri: la diffusione, tra ix e viii secolo a.C., di morsi di tipo tracio-cimmerio in Europa centrale e in parte dell’Europa occidentale suggerisce che l’utilizzo del cavallo a scopi militari sia stato probabilmente introdotto con le migrazioni di gruppi pre-Sciti in Ungheria e Boemia40. La comparsa, all’interno della cultura di Hallstatt C, di nuove spade più lunghe “ad antenne”, spesso vicine a finimenti nei depositi funerari, e particolarmente adatte ai fendenti, potrebbe avere accompagnato l’introduzione del combattimento di cavalleria: alcuni specialisti la considerano l’arma privilegiata dalle truppe montate che si sarebbero diffuse in Europa nello stesso periodo41. Combattere a cavallo Dall’inizio del i millennio a.C. dal Vicino Oriente e dalla steppa euroasiatica si diffondono nel mondo mediterraneo nuovi equipaggiamenti atti a facilitare il controllo dei cavalli. Proprio in quest’epoca, che precede di vari secoli l’affermarsi della potenza romana, compaiono e si diffondono gli elementi che daranno al combattimento di cavalleria il suo contesto materiale quasi definitivo. Come sottolinea Robert Drews, tali evoluzioni sono contemporanee all’adozione di uno stile di vita completamente nomade da parte delle popolazioni delle steppe pontico-caspiche42. Nuove 20
tecnologie sono adottate da questi gruppi umani che i Greci chiameranno più tardi “Sciti”. Dall’inizio del ix secolo a.C. i morsi in materiale organico vengono progressivamente abbandonati e sostituiti da morsi in bronzo43. Tutti gli esemplari rinvenuti in contesto tracio-cimmerio appartengono alla categoria del filetto con doppio cannone, che è più comodo ma anche più efficace del morso con cannone dritto utilizzato in precedenza e permette un migliore controllo del cavallo grazie all’azione laterale delle redini. Il filetto con doppio cannone resta in auge per la maggior parte dell’età del Ferro e bisogna aspettare il La Tène medio perché in Europa centrale si diffonda un nuovo tipo di morso: quello da briglia44. Apprezzati per la severità e basati sul principio della leva, questi morsi agiscono contemporaneamente sulle barre e sulla mascella inferiore del cavallo. Secondo John Hobby, autore di uno studio sullo sviluppo della cavalleria celtica, si tratta di uno strumento ideale per gli scontri ravvicinati che necessitano di reazioni rapide da parte dell’animale. Sarebbero stati messi a punto da società sedentarie che praticavano un’arte militare molto diversa da quella dei cavalieri delle steppe45. Filetto e morso da briglia verranno in seguito utilizzati nel mondo romano, senza notevoli cambiamenti. La selleria si sviluppa all’incirca nello stesso momento in cui in Europa e in Asia cominciano a diffondersi i morsi in metallo46. I nomadi dell’Asia centrale e orientale sembrano avere inizialmente utilizzato tappeti imbottiti in tessuto e in cuoio. Possiamo osservare queste proto-selle sui bassorilievi assiri di viii e vii secolo a.C.47. Questi oggetti rendono la cavalcata più confortevole e permettono di non sovraccaricare la colonna dorsale del cavallo, ma non riescono a garantire al cavaliere un assetto stabile, come nel caso delle successive selle con anima rigida48. La più antica sella semirigida ad oggi nota risale all’viii secolo ed è stata rinvenuta nel sito di Zaghunluq, nei pressi della città di Cherchen, nella Cina nord-occidentale49. Selle più recenti dello stesso tipo provengono dai kourgan di Pazyryk (Siberia) e sono datate al v-iii secolo50. Da entrambe le parti della spina dorsale del cavallo sono disposti due cuscini di cuoio imbottiti (di solito con pelo di cervo, lana o 21
erba), collegati da archi di legno e osso situati davanti e dietro la seduta – lontana prefigurazione di pomo e arcione. Tali elementi non permettono ancora una cavalcata del tutto stabile, ma sono sufficienti per procurare al cavaliere una certa comodità e sicurezza, come dimostrano gli esperimenti condotti recentemente al Museo dell’Hermitage51. Non sembra che queste selle nomadi siano mai state utilizzate nel mondo greco-romano, ad eccezione forse del Bosforo in una data relativamente tarda52. In effetti l’Europa occidentale ha sviluppato il proprio tipo di sella alla fine del i millennio a.C.. La sella “a corna”, di cui sarà sistematicamente dotata la cavalleria romana nel Principato, viene raffigurata per la prima volta attorno al 40 a.C. su un fregio del mausoleo dei Giulii a Glanum53. Si tratta probabilmente di un’invenzione celtica. La diffusione di finimenti che facilitano la cavalcata testimonia la volontà del cavaliere di controllare meglio il cavallo. Le evoluzioni tecniche sono generate da preoccupazioni di ordine militare e sono accompagnate da innovazioni nel campo dell’armamento, in particolare nella fabbricazione di archi. I primi archi di creazione composita fanno la loro comparsa in Egitto e nel Vicino Oriente nell’età del Bronzo, ma sono inizialmente armi di grandi dimensioni, destinate soprattutto agli equipaggi dei carri54. Bisogna aspettare l’inizio del i millennio a.C. per assistere alla diffusione, nella steppa euroasiatica, di modelli più piccoli (60-80 cm in media), a doppia curvatura e asimmetrici (il flettente inferiore è più corto del flettente superiore, in modo da facilitare l’uso dell’arma a cavallo) (fig. 2). Questo tipo di arco composito riflesso, maneggevole e potente, diventa l’arma per eccellenza dei cavalieri sciti ed è progressivamente adottato dalle vicine civiltà sedentarie della steppa55. Unito all’utilizzo di frecce di forma e dimensioni standard, avrebbe permesso alle truppe montate di diventare davvero efficaci e perfino di soppiantare i carri da combattimento che infatti scompaiono a poco a poco dagli eserciti orientali56. Da questo momento la cavalleria fa il suo ingresso nella storia e comincia a sviluppare il suo potenziale tattico.
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2. Ricostruzione schematica dell’arco scita. Fonte Bord & Mugg 2005, p. 20, fig. 3
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Capitolo 2
I primi sviluppi tattici Il contesto materiale appena evocato lascia affiorare i contorni di una dottrina militare che non conoscerà profondi mutamenti nel corso dei secoli1. Inzialmente le modalità operative delle forze montate vengono verosimilmente influenzate dal modello dei carri da combattimento, forza determinante nei conflitti dell’età del Bronzo2. Una volta affermatasi come elemento tattico indipendente, la cavalleria ha però aperto nuove prospettive nel campo delle arti militari e ha segnato a lungo la fisionomia della guerra. È stato necessario ripensare la scala del combattimento, dotare i guerrieri a cavallo di un’organizzazione e di armi specifiche, tenere in considerazione il temperamento degli animali e le possibilità offerte dalla loro grande mobilità. Questa scienza tattica, che raggiunge un primo apice durante le conquiste di Alessandro Magno e il regno dei Diadochi, è il risultato di evoluzioni durate secoli che hanno contribuito a rendere la cavalleria un’arma pericolosa. Molto presto si distinguono due modelli principali: da una parte il modello degli Stati sedentari che integrano di solito la cavalleria in una logica di scontro diretto e attribuiscono alla fanteria un ruolo predominante; dall’altra, invece, il modello delle potenze nomadi che fanno della cavalleria il cardine delle pratiche belliche e privilegiano la sorpresa operativa e le azioni di disturbo. La cavalleria assira Come abbiamo osservato nel capitolo precedente, l’impero neoassiro (934-612 a.C.) non fu la culla della cavalleria, fu però il primo Stato della storia a dotarsi di un’importante cavalleria regolare, 25
organizzata e polivalente3. I guerrieri a cavallo (pēthallu) fanno la loro comparsa sotto il regno di Tukulti-Ninurta II (890-884 a.C.) e, con il suo successore Assurnasirpal II (883-859 a.C.), diventano un elemento imprescindibile dei bassorilievi che ornano i palazzi di Nimrud. Nel corso dei secoli si può osservare un’evoluzione nelle modalità di combattimento. In un primo momento i cavalieri sono raffigurati in coppia; il combattente principale – di solito un arciere – tira sul nemico, mentre il compagno lo protegge con un largo scudo e tiene le redini dei due cavalli (fig. 3)4, procedimento che ricorda il funzionamento dei carri da combattimento e dimostra che, in origine, gli Assiri concepivano la cavalleria secondo lo stesso modello tattico5. Il cavallo da guerra non è ancora del tutto controllato, ma i combattenti sono sufficientemente abili a realizzare la celebre “freccia del Parto”: l’arciere, al galoppo, ruota su se stesso di 180° e scocca una freccia contro il nemico che lo insegue6.
3. Coppia di cavalieri assiri su un bassorilievo del palazzo di Assurnasirpal II a Nimrud. Fonte Dezső 2012, p. 255, tav. 2
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Nella seconda metà dell’viii secolo si intravedono alcuni miglioramenti. Le coppie scompaiono dai rilievi e i cavalieri operano ormai da soli. Una martingala permette di stabilizzare le redini e di tenere il cavallo sotto controllo, in modo che l’arciere possa utilizzare entrambe le mani per tendere l’arco e tirare, senza bisogno di un altro cavaliere7. Le modalità di combattimento cominciano a diversificarsi: si distinguono principalmente i lancieri e gli arcieri a cavallo, una cavalleria d’urto e una cavalleria per le scaramucce8. La maggior parte dei soldati di entrambe le categorie è inoltre armata di spada. A partire dal regno di Tiglatpileser (745-727 a.C.) alcuni cavalieri portano una corazza e, sui rilievi del palazzo di Assurbanipal (668-631 a.C.) a Ninive, si possono osservare le prime gualdrappe (probabilmente in cuoio) che coprono interamente l’incollatura e i fianchi dei cavalli9. Gli Assiri furono quindi gli inventori della cavalleria pesante, che diventerà in seguito un elemento caratteristico degli eserciti orientali. L’organizzazione degli squadroni di cavalleria resta poco nota, così come lo schieramento tattico usato dai generali assiri, ma i monumenti ufficiali suggeriscono l’esistenza di formazioni regolari con ranghi e file di combattenti10. Uno degli attuali esperti di esercito assiro, Tamás Dezső, ipotizza, sulla base di differenti testimonianze epigrafiche, che lo squadrone fosse composto da 200 combattenti e suddiviso in unità di 50 uomini, mentre le unità della guardia reale erano formate da circa 1.000 combattenti11. In questo stesso periodo si afferma il ruolo tattico e operativo delle truppe montate a scapito dei carri da combattimento che scompaiono dalla documentazione iconografica tra l’viii e il vii secolo12. I motivi di tale scomparsa rimangono oscuri e non è detto che nuove scoperte permettano in futuro di trovare una risposta soddisfacente al problema. Possiamo notare che alla cavalleria sono già attribuite la maggior parte delle missioni che svolgerà anche durante l’Antichità classica: partecipa a scaramucce che precedono la battaglia per preparare lo scontro tra linee di fanteria, sembra particolarmente efficace nell’inseguimento, configurazione in cui viene spesso rappresentata sui rilievi monumentali13, ma sa anche intraprendere manovre di accerchiamento14 e attacchi frontali, 27
perfino contro i fanti, come mostra il racconto epigrafico della battaglia del monte Uauš (probabilmente il monte Sahand, a est del lago di Urmia, nell’Azerbaigian iraniano), vinta nel 714 a.C. dalla cavalleria di Sargon II contro l’esercito urarteo del re Rusa15: Voleva incontrarmi sul campo di battaglia, meditava senza pietà la distruzione dell’esercito dell’Enlil di Assur. In una fenditura di questa montagna aveva disposto in battaglia il suo esercito: di preparazione (al combattimento), di moltiplicazione dei (preparativi) bellici mi informò il mio messaggero. […] Io non inviai i miei guerrieri (in avanti), non riunii il mio esercito, quanti erano a destra o a sinistra non tornarono al mio fianco, non feci attenzione alle retrovie, non temetti la massa delle sue truppe, disdegnai i suoi cavalli: per la grande quantità di guerrieri rivestiti di armature non ebbi nemmeno uno sguardo. Solo con il mio carro personale e i cavalieri che sono al mio fianco, che in paese nemico e ostile non (mi) abbandonano mai, la truppa, lo squadrone di Sinahusur, come un giavellotto impetuoso mi scagliai su di lui, lo sconfissi, lo misi in fuga. Feci del suo (esercito) un’immensa carneficina: i cadaveri dei suoi guerrieri, come malto, sparsi: ne riempii i burroni delle montagne. Il loro sangue nei baratri e nei precipizi come un fiume feci colare […]. I suoi combattenti, sostegno del suo esercito, quelli che portano l’arco o la lancia ai suoi piedi, come agnelli li sgozzai, tagliai loro la testa. I suoi grandi, i consiglieri che stanno davanti a lui, in mezzo al campo di battaglia, spezzai le loro armi, con i loro cavalli li presi, membri della sua famiglia reale, prefetti suoi funzionari e suoi cavalieri feci prigionieri: ruppi le linee nemiche.16
Il brano, tratto dalla relazione dell’ottava campagna di Sargon – la narrazione militare più dettagliata che possediamo per l’epoca assira – contiene informazioni essenziali che vanno a completare le rappresentazioni iconografiche citate. Si deduce che la cavalleria operi ancora in coordinazione con i carri; le due componenti tattiche sembrerebbero schierate alla testa del corpo di spedizione e comandate dal re in persona17. La posizione in avanguardia permette di andare in esplorazione durante la marcia. Per una 28
ragione che ignoriamo, ma che viene camuffata da Sargon II in atto eroico, gli Assiri non aspettano l’insieme dell’esercito, ancora in ordine di marcia, per cacciare le truppe di Rusa stanziate in un vallone del monte Uauš. Le truppe mobili dell’avanguardia sono immediatamente distaccate per scagliarsi contro il nemico che, apparentemente, è colto alla sprovvista o non ha tempo di preparare una controffensiva. L’esercito urarteo viene disperso e inseguito dalla cavalleria assira per sei leghe, fino al monte Zimur. I pochi fortunati scampati al massacro riescono a rifugiarsi sulle alture, impraticabili per i cavalli. Questo esempio mostra che, anche prima della diffusione della sella ad arcione e delle staffe, gli Stati del Vicino Oriente antico fossero capaci di organizzare forze di cavalleria dotate di grande efficacia tattica. Inoltre, è importante sottolineare che le truppe montate dell’impero neoassiro non si mostrano utili solo nelle battaglie campali e nelle scaramucce, ma, a quanto pare, hanno avuto un ruolo chiave anche nel controllo dei vasti territori conquistati dai Sargonidi, che si estendevano dall’Anatolia al Golfo Persico. Le rare testimonianze a nostra disposizione indicano che, grazie alla loro presenza intimidatoria, i cavalieri del “gran re” mantengono nell’obbedienza i popoli tributari, compiono incursioni per devastare il territorio nemico e sono capaci di operare sia in pianura che su terreni accidentati, costituendo un notevole vantaggio rispetto ai carri18. Al di fuori delle campagne militari, i cavalieri assicurano il controllo delle regioni di frontiera e occupano posti fissi, un po’ come capiterà più tardi con le guarnigioni di cavalieri nell’Impero romano19. È difficile conoscere con precisione l’effettivo della cavalleria assira. In un’iscrizione, Shalmaneser III si vanta di potere armare 5.242 cavalieri, senza contare i carri da combattimento20. Per rifornire di cavalli i soldati diventa necessario un servizio di rimonta, centralizzato dallo Stato, il quale ordina regolarmente requisizioni nelle province e negli Stati vassalli dell’impero21. Anche la proporzione di truppe montate nelle armate è elevata. Sui rilievi del palazzo di Sargon II, il 9% dei soldati è costituito da cavalieri, mentre su quelli del palazzo di Sennacherib (704-681 a.C.), la proporzione 29
raggiunge il 13%22. La preminenza di cavalieri in alcune scene di battaglia porta Tamás Dezső a chiedersi se la cavalleria godesse già in quest’epoca di un ruolo tattico fondamentale: “È possibile che nelle battaglie campali la cavalleria sia diventata l’elemento determinante dell’esercito assiro e che gli scontri si siano basati sulla carica della cavalleria pesante assira?”23. Secondo lo studioso l’ipotesi è verosimile e non ci sono dubbi che in epoca neoassira la cavalleria potesse giocare un ruolo decisivo sul campo di battaglia24. La cavalleria achemenide La situazione ha subito una significativa evoluzione in epoca achemenide? Spesso la storiografia moderna, influenzata dal prisma deformante delle fonti greche, ritiene che la cavalleria occupasse un posto di primo piano nello strumento militare persiano25. Conosciamo la celebre formula di Erodoto secondo cui i Persiani insegnavano ai figli soltanto tre cose: montare a cavallo, tirare con l’arco e dire la verità26. Senofonte aggiunge che per un Persiano è un disonore farsi vedere a piedi27. Non bisogna però dare troppo credito a questi giudizi che ci informano più sulla visione che i Greci avevano dei barbari che sulle pratiche militari dei loro vicini orientali. In effetti, come hanno dimostrato François Hartog e François Lissarrague, nelle città dell’Ellade dominate dall’“oplitismo”, l’immagine del cavaliere diventa progressivamente un segno di alterità. Per gli autori di epoca classica il cavaliere-arciere (hippotoxotēs) incarna “l’autre guerrier”, estraneo ai benefici della vita civilizzata, il cui comportamento in guerra è sotto ogni aspetto contrapposto all’etica del combattimento falangitico, l’etica del fante che mantiene la posizione nella linea di battaglia e si scontra frontalmente per mezzo di armi adatte al combattimento ravvicinato28. Non c’è quindi da stupirsi se nelle fonti greche la costruzione dell’identità militare persiana accordi un posto di rilievo all’arcieria e alla cavalleria. Esaminando la documentazione orientale, ci si rende conto già a un primo sguardo che questo giudizio deve essere ridimensionato: 30
tale è almeno il punto di vista espresso di recente da Christopher Tuplin29. Lo studioso sottolinea che nell’iconografia ufficiale il re dei re non viene raffigurato a cavallo e gli attributi della sua sovranità militare sono soprattutto l’arco e la lancia di fanteria30. Aggiunge inoltre che, sul piano numerico, la cavalleria non ha mai costituito l’arma tattica principale degli Achemenidi (i Persiani avrebbero iniziato a montare cavalli da guerra solo a contatto con i Medi, quando Ciro intraprese la conquista del loro regno nel 553-550 a.C.31). Nonostante ciò, si osserva all’epoca un aumento degli effettivi di cavalieri negli eserciti impegnati in spedizioni militari. L’estensione territoriale dell’impero permette ai sovrani di attingere a differenti bacini di reclutamento, all’interno di aree già contraddistinte da una forte cultura equestre. Oltre alle truppe regolari dipendenti dalla corte (come gli huvaka/sungeneis, “parenti” del re, che ammontavano forse a 1.000 o 10.000 uomini), i satrapi, così come i regni e i popoli sottoposti a tributo, sono tenuti a fornire un certo numero di cavalieri a seconda delle circostanze32. Per la prima volta vediamo in azione, su teatri di operazioni militari, forze montate che superano ampiamente la decina di migliaia di uomini33. La composizione degli eserciti schierati sul campo di battaglia riflette tale evoluzione: alla fine dell’epoca achemenide, l’esercito persiano che si contrappone per l’ultima volta alle truppe macedoni a Gaugamela (331 a.C.) è composto per il 20% circa da cavalieri34. Con il moltiplicarsi dei contatti con le popolazioni nomadi ai confini della pianura iraniana, l’equipaggiamento dei cavalieri si perfeziona. Acquisiscono importanza le protezioni corporee35. Le fonti scritte e la documentazione iconografica rivelano l’utilizzo di scudi, gorgiere, gronde e protezioni in metallo per il cavallo: il frontale (prometōpidion), la pettiera (prosternidion), la barda (parapleuridia), i cosciali (paramēridia) coprono quasi interamente l’animale e parte delle gambe del cavaliere36. Questi elementi difensivi aumentano il potenziale delle truppe montate negli scontri ravvicinati e preannunciano la comparsa dei catafratti che saranno una componente di rilievo delle armate seleucidiche37. Anche l’armamento offensivo subisce un’evoluzione38 e si sviluppa, forse per influenza nomade, un nuovo modo di afferrare la lancia: alcune 31
raffigurazioni mostrano per la prima volta cavalieri muniti di lunghe picche tenute con entrambe le mani, ideali per le cariche di sfondamento (fig. 4)39. I Greci li chiameranno “portatori di aste”, kontophoroi, e bisognerà attendere il ii secolo d.C. per vedere la cavalleria romana adottare questa modalità di combattimento caratteristica della steppa. Da parte sua, la cavalleria leggera abbandona l’arco assiro-babilonese in favore dell’arco composito riflesso, più maneggevole ed efficace40. Alcuni guerrieri sono già polivalenti, addestrati sia al combattimento a distanza che al corpo a corpo, come mostra una tavoletta proveniente dagli archivi di Murašû, in cui viene ad esempio evocato un cavaliere con uno scudo, 120 frecce e due lance41.
4. Frammento di fiaschetta in terracotta rinvenuto in Corasmia, fine del IV o III secolo a.C. Fonte Sekunda 1992, 29
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Tutte queste evoluzioni non provocano però grandi cambiamenti in campo tattico. I cavalieri persiani combattono contro altri cavalieri o contro i fanti42. Praticano sia azioni di disturbo a distanza che attacchi frontali, con un’evidente preferenza per la prima forma di combattimento, perlomeno durante la seconda guerra persiana (480-479 a.C.)43. Le fonti letterarie greche forniscono informazioni abbastanza precise sulle modalità di schieramento delle truppe, che sono disposte su più linee di combattimento, di solito due. I soldati incaricati di ingaggiare scaramucce si posizionano davanti alla linea principale, in formazione irregolare, e hanno il compito di disturbare gli avversari. Gli altri cavalieri restano indietro, in ranghi serrati, e portano aiuto alle truppe in prima linea in caso di contrattacco nemico44. Un lettore attento può riconoscere in questa descrizione i lontani antenati di cursores e defensores, truppe d’assalto e truppe di sostegno dell’esercito romano-bizantino (cf. infra cap. 7). In genere, la cavalleria opera nell’avanguardia degli eserciti, anche quando l’avversario è ormai vicino45. Può allora tentare di decidere da sola le sorti della battaglia46 oppure ripiegare verso la fanteria e combattere al suo fianco in uno scontro campale, privilegiando così la cooperazione tattica tra le armi che compongono i corpi di spedizione; in tal caso, si posiziona sulle ali dell’esercito e cerca di seminare il panico tra i nemici con manovre di accerchiamento o aprendo una breccia nei loro ranghi47. Fedele all’antica tradizione assira (più che a un ipotetico modello tattico nomade, di cui poco sappiamo prima dell’epoca mongola), l’organizzazione dei corpi di truppa segue un principio decimale: l’esercito comprende in teoria unità di 10 soldati (dathabam, agli ordini di un dathapatiš), 100 soldati (satabam, agli ordini di un satapatiš), 1.000 soldati (hazarabam, agli ordini di uno hazarapatiš), e 10.000 soldati (baivarabam, agli ordini di un baivarapatiš)48. Il generale di cavalleria è l’asapatiš, in cui, più che un comando tattico autonomo, bisogna vedere una carica legata all’intendenza della cavalleria regolare che dipende dalla corte achemenide. Questo personaggio ha probabilmente autorità sulla rimonta che si rifornisce in parte grazie ai grandi allevamenti della pianura di Nisa in Media, dove fertili pascoli producono le 33
risorse necessarie al sostentamento di cavalli robusti49. In battaglia i Persiani adottano una formazione profonda. Senofonte riferisce che nel 396, durante una scaramuccia nei pressi di Dascilio, sulle rive della Propontide, i Persiani contrappongono ai Greci un fronte di 12 cavalieri e dichiara che il loro squadrone è più profondo di quello dei Greci, disposto su quattro ranghi50; bisogna probabilmente immaginare un dispositivo costituito da dieci ranghi, conformemente al modello attestato per la fanteria, ma ovviamente questo modulo poteva variare a seconda delle circostanze e degli effettivi disponibili. Senza soffermarsi su questioni di organizzazione interna, i tattici greci si limitano a osservare che i Persiani prediligono le formazioni quadrate51. L’esempio dell’impero neoassiro e di quello achemenide mostra che, nel Vicino Oriente, il combattimento di cavalleria ha già raggiunto una forma quasi definitiva nella prima metà del i millennio a.C. Arcieri montati, lancieri e giavellottisti sono incorporati in unità regolari e svolgono tutti i compiti che più tardi i Romani assegneranno a truppe di questo tipo in simili contesti operativi e tattici. Le evoluzioni di cui abbiamo parlato sono in gran parte endogene, ma gli eserciti degli Stati sedentari s’ispirano anche a pratiche innovative introdotte dalle popolazioni nomadi della steppa euroasiatica. I contributi del mondo nomade All’inizio del i millennio, i popoli installati tra il Volga e il Dnepr abbandonano definitivamente la vita sedentaria, si specializzano nell’allevamento e diventano i primi nomadi a cavallo52, ponendo le basi di un’originale civiltà guerriera, fondata sull’uso quasi esclusivo di forze montate, mobili e velocissime. In uno studio pubblicato negli anni ’30 del Novecento il bizantinista ungherese Eugène Darkó ha messo in rilievo questo modello di guerra nomade e la sua influenza sulle civiltà sedentarie del Mediterraneo53. La superiorità delle cavallerie delle steppe è dovuta soprattutto a qualità intrinseche. Tutte le fonti concordano nell’affermare che gli 34
Sciti e i loro successori (Sarmati, Alani, Unni, Avari) sono eccellenti cavallerizzi. Gli uomini liberi cavalcano fin dalla più tenera età e la caccia permette di perfezionare le capacità belliche54. La cavalleria leggera è la principale forza delle armate nomadi55 ed è composta da arcieri montati che dispongono di un armamento altamente performante: l’arco composito riflesso possiede in effetti una gittata superiore a quella degli archi mediterranei classici e garantisce un netto vantaggio nei combattimenti a distanza56. La tattica degli hippotoxotai sciti ricorda le pratiche che i nomadi utilizzano per controllare il bestiame o cacciare le fiere: gli arcieri a cavallo attaccano in massa, spesso in formazione irregolare, simulano la fuga e ruotano su se stessi per lanciare frecce57; il loro principale obiettivo è circondare l’avversario senza lasciarlo avvicinare58. In alcuni casi sono attestati cavalieri pesanti, protetti da capo a piedi da un’armatura di metallo e dotati di lunghe picche, che possono coprire gli arcieri e attaccare frontalmente il nemico fiaccato dai lanci di frecce59. Questo modello di cooperazione tattica tra arcieri a cavallo e soldati corazzati raggiungerà un altissimo grado di efficacia con i Parti, come dimostra la battaglia di Carre del 53 a.C. in cui venne sconfitto Crasso60. All’origine di questa “tattica turanica”61 ci sono sicuramente le peculiarità dello stile di vita delle popolazioni dell’Asia centrale, le quali implicano di rapportarsi alla guerra in un modo molto diverso dalle società sedentarie62. I nomadi sono abituati ad affrontarsi in combattimenti sanguinosi per il controllo dei pascoli, da cui dipende la sopravvivenza di ogni tribù: nel wasteland euroasiatico la guerra è praticata senza limiti, secondo modalità che hanno fatto pensare alla definizione clausewitziana di guerra “assoluta”63. Ai margini delle regioni steppiche, il saccheggio delle comunità che praticano l’agricoltura rappresenta per i nomadi una fonte di sussistenza alternativa e un comodo modo di arricchirsi. Dal vii secolo a.C. gruppi prescitici intravedono questa possibilità e cominciano a compiere incursioni per saccheggiare i ricchi Stati del Vicino Oriente64. Simili scorrerie non sono opera di piccole tribù isolate, ma di vere e proprie confederazioni, spesso costituitesi ad hoc, che funzionano secondo un principio fluido: i gruppi di guerrieri 35
forniti da clan e tribù che accettano di sottomettersi all’autorità di un capo si compongono di volta in volta, a seconda delle circostanze politiche e delle condizioni economiche65. Come dimostrato da Joào Pedro Marques, le grandi spedizioni contro il mondo sedentario hanno un ruolo strutturante, perché i chiefdom sono considerati legittimi solo se funzionano come “società di redistribuzione” e permettono di dirottare verso l’esterno la violenza bellica, non più praticabile contro il vicino nomade confederato66: “Lo sviluppo di una confederazione nomade implica logicamente l’esistenza di un fine bellico o di uno Stato sfruttato (o sfruttabile)”67. L’efficacia delle scorrerie nomadi si basa su vari parametri che non subiranno cambiamenti sostanziali fino alla fine del Medioevo. Di fronte agli eserciti regolari, difficili da mobilitare e assegnati alla difesa di postazioni fisse, i cavalieri delle steppe dispongono del vantaggio della mobilità e dell’iniziativa strategica. È difficile calcolare il loro ritmo di marcia, ma sembra che fosse molto superiore a quello delle truppe sedentarie, costituite soprattutto da fanti e accompagnate dalle lente salmerie. I nomadi si spostano invece soltanto a cavallo e si fanno accompagnare da numerosi cavalli di rimonta, a volte più di quattro per cavaliere68. Quando un animale deve riposarsi, viene subito sostituito con una cavalcatura fresca. Le incursioni somigliano quindi a spostamenti di mandrie69. Gli autori antichi tessono le lodi dei cavalli delle steppe, animali docili ed estremamente robusti, ideali per lunghi tragitti70. I nomadi utilizzano inoltre tecniche che rendono i loro cavalli (abituati ad accontentarsi del pascolo) più resistenti71, per poter percorrere distanze considerevoli in poco tempo e approfittare dell’effetto sorpresa che molto spesso impedisce al nemico di reagire72. Il cavaliere non ha bisogno di caricarsi di approvvigionamenti ingombranti perché beve il latte delle giumente e, in casi estremi, può cibarsi della carne degli animali in sovrannumero. I guerrieri delle steppe non sono avvantaggiati solo in un contesto offensivo, ma anche nella difesa. Nella sua narrazione della spedizione di Dario I contro gli Sciti (513 a.C. ca.), Erodoto descrive per la prima volta la “strategia della terra bruciata”73: i cavalieri nomadi rifiutano lo scontro campale e si lasciano inseguire dall’esercito 36
persiano su lunghe distanze, distruggendo le fonti di approvvigionamento che incontrano sul loro cammino74. Gli invasori sono quindi costretti a separarsi per andare in cerca di viveri e si rendono così vulnerabili agli attacchi improvvisi dei cavalieri nemici75. Quando gli avversari si ricompattano per contrattaccare, gli Sciti abbandonano il combattimento e riprendono la fuga. Stremato, affamato e incapace di costringere gli avversari allo scontro diretto, principalmente perché può attaccare solo obiettivi strategici fissi (e i nomadi, per definizione, non possiedono né coltivazioni né città), l’esercito di Dario è costretto a ritirarsi verso il Danubio, inseguito in modo incalzante dagli Sciti che attaccano la retroguardia76. Il re dei re avrebbe perso così gran parte del suo esercito, senza ottenere il minimo beneficio dalla spedizione. In un celebre passaggio dell’opera erodotea, il re scita Idantirso giustifica con queste parole la decisione di non affrontare i Persiani in uno scontro campale: Quanto a me le cose stanno così, o Persiano: mai per il passato io son fuggito dinanzi a nessuno degli uomini per timore né ora fuggo davanti a te, né ho fatto ora alcunché di diverso da ciò che son solito fare anche in tempo di pace. Per qual motivo poi non vengo subito a battaglia con te, ti spiegherò anche questo. Noi non abbiamo né città né terra coltivata, per le quali, nel timore che siano prese o devastate, con troppa fretta dobbiamo venire con voi a battaglia: ma se fosse necessario giungere rapidamente a questo, noi abbiamo le tombe dei padri. Orsù, trovatele e tentate di profanarle, e saprete allora se combatteremo con voi per le tombe o se non combatteremo. Ma se prima una ragione non ci costringe, non ci scontreremo con te. Questo quanto alla battaglia. Ritengo poi che siano miei sovrani soltanto Zeus mio antenato ed Estia regina degli Sciti. A te invece dei doni di terra e acqua manderò doni tali quali conviene vengano a te: e in risposta del fatto che dicesti di essere mio signore, ti dico di andare in malora.77
Si tratta di un modello di guerriglia difensiva che farà scuola durante tutta l’Antichità e ne trarranno ispirazione anche gli eserciti sedentari. 37
Capitolo 3
L’epoca classica della cavalleria: il modello greco Molti studi recenti hanno mostrato che non bisogna sottovalutare l’importanza della cavalleria nel mondo greco, sia sul piano militare che sul piano simbolico1. Benché la topografia particolarmente accidentata della Grecia costituisse un limite alla superficie di praterie e colture foraggere, in favore di un’agricoltura di sussistenza, e la geografia fisica non si prestasse allo schieramento di ampi contingenti a cavallo, l’equitazione militare era comunque fortemente valorizzata, soprattutto nelle regioni di pianura (Tessaglia, Macedonia e, in misura minore, Beozia) dove l’allevamento (hippotrophia) rappresentava un’attività essenziale dello stile di vita aristocratico. I secoli oscuri (xii-vii secolo) vedono affermarsi i combattenti a cavallo, finché non emerge, tra viii e vii secolo, la città. I progressi nel combattimento di fanteria in epoca arcaica (viii-vi secolo) non hanno notevolmente modificato la situazione. Nella Grecia delle poleis, la classe combattente è composta da ricchi cittadini, proprietari del proprio equipaggiamento; il corpo dei cavalieri forma un’élite sociale e militare, quella degli hippeis (Atene, Eretria, Creta) o degli hippobotai (Calcide)2. Si può quindi parlare con cognizione di causa di un terzo modello, diverso da quello degli eserciti di professione orientali – in cui i cavalieri non sono necessariamente membri della classe dirigente – e da quello del mondo nomade, in cui tutti gli uomini liberi sono per natura cavalieri; un modello con cui si identificherà la Roma dei primi secoli, quello delle piccole comunità sedentarie dominate dalle aristocrazie militari equestri, molto diffuso nel mondo mediterraneo alla metà del i millennio a.C.3.
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Il ruolo degli hippeis nella guerra oplitica Già all’epoca della prima guerra messenica (fine viii secolo a.C.), le cavallerie delle città del Peloponneso sono una componente ben distinta dalla fanteria e non possono essere ridotte a un semplice corpo di “opliti montati”4. Questi contingenti combattono in collaborazione con la fanteria leggera e praticano un’equitazione che Pausania considera a dir poco rudimentale5. Al tempo della guerra lelantina, alla metà del vi secolo a.C, la cavalleria tessala è presentata da Plutarco come una forza autonoma6. I due esempi danno credibilità a un celebre passaggio della Politica di Aristotele in cui leggiamo che, dopo la caduta delle monarchie in Grecia, le élite equestri che costituivano allora il nerbo degli eserciti riuscirono a imporre il proprio regime oligarchico: Così la prima costituzione tra gli Elleni, che succedette alle monarchie, risultò di combattenti e fu, all’inizio, di cavalieri (perché il nerbo e la superiorità di guerra riposavano sui cavalieri e la fanteria pesante senza adeguato coordinamento è inutile e la pratica di queste cose e la tattica non esistevano presso gli antichi, sicché il nerbo era nei cavalieri); ma cresciuti gli Stati e aumentata la forza della fanteria, molte più persone entrarono a far parte della costituzione.7
Nel passo, Aristotele suggerisce che, molto prima dello sviluppo delle falangi oplitiche, gli hippeis avevano sostituito i carri da combattimento di epoca micenea e formavano già una vera cavalleria. Non c’è motivo di ritenere che questa forza militare cessasse di esistere in epoca arcaica, anzi, oltre alle testimonianze letterarie citate, la documentazione iconografica conferma l’esistenza di cavalieri leggeri armati di giavellotti, cavalieri pesanti dotati di tutto l’equipaggiamento oplitico e “dragoni” capaci di scendere da cavallo per combattere come fanti8. Se pure sono esistiti, gli opliti montati non erano evidentemente gli unici a usare il cavallo come mezzo di locomozione. Ovviamente la diversificazione delle modalità di combattimento permetteva alle varie truppe mobili di intervenire in contesti tattici diversi, a fianco della fanteria pesante, 40
il cui ruolo militare e politico si afferma alla fine dei secoli oscuri9. Non è da escludere che lo sviluppo della falange oplitica nel vii secolo – o più tardi se accettiamo le recenti proposte di Hans van Wees10 – abbia contribuito a diminuire l’efficacia della cavalleria contro la fanteria11. Un muro compatto di scudi da cui sporgono lance costituiva senza dubbio un ostacolo deterrente per i cavalli, ma sarebbe errato pensare che gli attacchi frontali fossero l’unica opzione tattica dei combattenti a cavallo. Peter Greenhalgh ha infatti dimostrato che il combattimento in falange permetteva alla cavalleria di affermare il proprio ruolo tattico: “Dal momento che in una battaglia oplitica il successo spettava di solito all’esercito che per primo riusciva a rompere la falange nemica mantenendo intatta la propria, qualsiasi metodo che potesse creare difficoltà alla falange, disgregarne i ranghi o indebolirla era considerato di indubbio valore. Si trattava di una missione a cui ben si adattavano la manovrabilità e la rapidità del cavallo”12. Del resto, non bisogna dimenticare che i cavalieri si rivelano utili in moltissime operazioni che esulano dal contesto della battaglia campale: vanno in perlustrazione, compiono incursioni, assicurano la copertura nelle marce e occupano le posizioni chiave nei teatri di guerra, tutte operazioni che i fanti non sono in grado di svolgere13. Bisogna aspettare il v secolo perché le forze di cavalleria aumentino i propri effettivi e assumano un ruolo davvero importante nei conflitti in Grecia continentale. La guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), pur offrendo un esempio ancora parziale di integrazione della cavalleria nello schema tattico della battaglia oplitica, mostra che il sostegno delle truppe montate è diventato una condizione essenziale per ottenere la vittoria negli scontri campali. Durante il conflitto l’insieme dei belligeranti si accorge che un corpo di opliti non vale granché senza l’aiuto dei cavalieri14. Quando le forze non sono equilibrate, come a Spartolos nel 429, a Solygeia nel 425 o nella battaglia di Anfipoli del 422, la cavalleria riveste un ruolo decisivo e riesce a mettere in fuga la fanteria pesante (aiutata in questa missione dai peltasti, fanti leggeri muniti di piccoli scudi e giavellotti)15. Ma quando le cavallerie avversarie si equivalgono, spesso si neutralizzano a vicenda 41
e a decidere le sorti della battaglia – se decide di intervenire - è la fanteria, come a Megara nel 424 e a Mantinea nel 41816. Sul campo di battaglia la cavalleria svolge varie missioni: si posiziona davanti al nemico durante lo schieramento delle truppe per ostruirgli la vista; può intervenire in soccorso di un fianco minacciato, circondare l’esercito avversario e soprattutto inseguire i nemici in fuga. L’utilizzo di riserve tattiche può condizionare il risultato di uno scontro. Nella battaglia di Delio del 424, il beotarca Pagonda, vedendo la sua ala sinistra in grave difficoltà, distacca parte della cavalleria dell’ala destra e le fa costeggiare una collina per sorprendere alle spalle l’esercito ateniese, mettendolo in fuga17. L’impatto psicologico della cavalleria è quindi adeguatamente apprezzato e sfruttato. Le tendenze che emergono durante la guerra del Peloponneso trovano conferma nella prima metà del iv secolo, periodo in cui Sparta e Tebe si contendono l’egemonia in Grecia in seguito alla sconfitta di Atene. Vengono perfezionate le tattiche di disturbo dei giavellottisti che permettono ormai ai cavalieri di intraprendere azioni distruttive paragonabili a quelle degli arcieri a cavallo orientali. Questa modalità operativa è descritta dettagliatamente da Senofonte, nel narrare l’attacco dei cavalieri siracusani di Dionisio il Vecchio contro l’esercito tebano di Epaminonda nei pressi di Sicione, vicino al golfo di Corinto, nel 369 a.C.: A un tale esercito i cavalieri ateniesi e corinzi non osarono neppure avvicinarsi, vedendo avversari tanto forti e numerosi. I cavalieri di Dionigi invece, malgrado il loro numero esiguo, andavano alla carica in ordine sparso lanciando i giavellotti, pronti però a ritirarsi appena i Tebani rispondevano ai loro colpi, per poi fare dietro front e riprendere subito a bersagliarli. Fra un attacco e l’altro smontavano per concedersi un attimo di pausa, ma se venivano assaliti nel momento in cui erano a piedi, rimontavano prontamente a cavallo e fuggivano; se poi, per inseguirli, alcuni si allontanavano dal grosso dell’esercito, aspettavano che iniziassero a tornare indietro per colpirli alle spalle, infliggendo gravi perdite e costringendo così tutto l’esercito a continue avanzate e ritirate.18 42
La cavalleria leggera di Siracusa sembra eccellere soprattutto nelle scaramucce, ma anche Epaminonda dà prova di un utilizzo molto efficace delle forze montate. Il generale tebano si distingue per la capacità di ottenere grandi successi tattici grazie a una sofisticata coordinazione di manovre di fanteria e cavalleria. Nella battaglia di Tegyra del 375 a.C., caricando gli opliti spartiati in ordine di marcia, la cavalleria prepara la vittoria del battaglione sacro19. Ma è soprattutto nelle battaglie di Leuttra (371 a.C.) e Mantinea (362 a.C.) che gli squadroni di Epaminonda rivelano il loro ruolo determinante nell’esito degli scontri20. L’azione della cavalleria si coniuga con l’adozione dell’ordine obliquo, che permette di utilizzare soprattutto una delle due ali del dispositivo di combattimento (qui la sinistra). Le truppe montate sono schierate a embolon (“sperone”), cioè in formazione profonda, per facilitare lo sfondamento delle linee avversarie e il conseguente accerchiamento. Lo schieramento, descritto da Senofonte, non evoca una formazione triangolare come è stato detto in passato21, ma una colonna d’assalto in cui gli squadroni di cavalleria sono disposti gli uni dietro gli altri, come nelle marce. A Mantinea questa formazione avrebbe permesso di sconfiggere l’ala destra della linea spartana, il cui fianco era protetto dalle alture circostanti22. Come evidenziato da molti storici, questo schema tattico che consiste nell’utilizzare i fanti pesanti per “immobilizzare” l’esercito avversario mentre le truppe a cavallo lo attaccano nei punti vulnerabili sarà un tratto distintivo delle battaglie di età ellenistica23: Alessandro e Annibale saranno tra i maggiori promotori di questa tattica dell’“incudine e il martello”24. Ma in Grecia lo sviluppo delle operazioni di cavalleria sconvolge le abitudini soprattutto in campo strategico. Durante la guerra del Peloponneso, l’invasione dell’Attica ad opera di Sparta e il fallimento della spedizione di Nicia in Sicilia rendono per la prima volta evidente l’importanza delle truppe montate in un contesto di guerriglia difensiva. Alcuni generali rifiutano il confronto diretto e adottano una strategia di logoramento, con incursioni, azioni di disturbo e colpi di mano. Pericle, messo in difficoltà dalle forze lacedemoni di Archidamo, distacca gruppi di cavalieri contro le truppe che saccheggiano l’Attica e pone le basi di un tipo di 43
difesa della città che ritroveremo regolarmente nelle narrazioni di guerra successive25. Gli Antichi hanno perfettamente capito che neutralizzare le truppe montate nemiche significa limitare enormemente la libertà di movimento dell’avversario: chi possiede una cavalleria superiore domina il teatro di operazioni in cui si affrontano i due eserciti. Rivolgendosi alle truppe alla vigilia di uno scontro contro la cavalleria beotica nel 424 a.C., lo stratego ateniese Ippocrate fa osservare: “Se vinceremo non ci sarà più da temere che i Peloponnesiaci, privati della loro cavalleria, invadano la nostra terra: in una sola battaglia, conquistate questa terra e rendete più libera quell’altra”26. La campagna di Sicilia condotta da Atene nel 415 a.C. fornisce un esempio ancora più lampante di questo tipo di strategia27. Non solo Siracusa rifiuta la battaglia campale e costringe Nicia a intraprendere operazioni di assedio, ma riesce quasi ad annientare un corpo di spedizione composto per la maggior parte da fanti utilizzando solo tiratori a cavallo28. Nell’episodio lo squilibrio di forze in campo è particolarmente marcato: sull’isola gli Ateniesi riescono a mobilitare solo una trentina di cavalieri, mentre Siracusa può contare su un effettivo di 1.200 combattenti a cavallo. Nicia integra nel corpo di spedizione numerosi arcieri e frombolieri, proprio per respingere gli attacchi della cavalleria siciliana29. Dopo il primo anno di campagna fa inviare in Sicilia 250 cavalieri e 30 hippotoxotai per compensare lo svantaggio30. Ma nella battaglia di Siracusa del 414 la cavalleria siciliana sgomina l’ala sinistra degli opliti ateniesi, decidendo così le sorti dello scontro31. Il successo tattico è seguito da quello operativo, poiché, durante la ritirata verso la costa, le truppe ateniesi, private della cavalleria e schierate in formazione quadrata, sono incalzate dalla cavalleria nemica a colpi di giavellotti: “Se gli Ateniesi venivano all’attacco, si ritiravano, se quelli si ritiravano, erano loro ad attaccare, piombando soprattutto sulla retroguardia, per vedere se mai si potesse spaventare tutto l’esercito col volgerlo in fuga a piccoli scaglioni”32. L’importanza assunta dalle operazioni di cavalleria alla fine dell’epoca classica si ripercuote sull’evoluzione dell’arte militare. Contribuisce ad esempio ad accrescere il ruolo dei siti fortificati 44
che fungono da base operativa e da soluzione di ripiego per i gruppi incaricati di condurre incursioni o di opporsi a esse33. Provoca inoltre un ampliamento del conflitto nel tempo e nello spazio: poiché i belligeranti hanno ormai la possibilità di vincere (o perlomeno di sottrarsi al nemico) evitando lo scontro frontale, un anno di campagna non è più sufficiente a decidere le sorti di una guerra; gli eserciti tendono quindi a disperdersi per rendere più facile il rifornimento. La mobilità dei cavalli permette di colpire il nemico quando si trova in situazione di inferiorità, conservando però la possibilità di ritirarsi al momento critico34. Per riprendere la terminologia clausewitziana si tratta di una “strategia dal debole al forte” che privilegia gli “obiettivi limitati” rispetto alla ricerca di “grandi vittorie”35. Nell’Ipparchico Senofonte trae da questi insegnamenti una conclusione chiara: “Coloro tuttavia che perseguono la possibilità, senza correre rischi, di infliggere danni a un esercito di gran lunga preponderante devono ovviamente godere di una tale superiorità da apparire essi professionisti dell’equitazione in ambito militare, mentre i nemici dilettanti”36. Se la guerra del Peloponneso fornisce esempi canonici di temporeggiamento strategico o di “difesa mobile”, la tradizione classica conosce anche un modello di controguerriglia efficace. Nell’Anabasi Senofonte descrive dettagliatamente il caso di un corpo di spedizione in marcia che viene incalzato da un esercito di cavalieri37. Dopo la battaglia di Cunassa (401 a.C.), i Diecimila arruolati da Ciro il Giovane per rovesciare Artaserse II si trovano isolati in Asia, senza una cavalleria che possa sostenerli. Le forze montate del comandante achemenide Mitridate cominciano ad attaccare la loro retroguardia e i peltasti non riescono a respingerle efficacemente38. Senofonte, che ha convinto i Greci a disporsi in formazione quadrata per proteggersi, organizza un corpo di frombolieri e cavalieri39. Il quadrato serve da base mobile per contrattaccare gli arcieri a cavallo dell’esercito persiano40. Un procedimento pressoché identico si ritrova in un altro testo di Senofonte, in cui è descritta la marcia di Agesilao in Tessaglia (394 a.C.)41: i cavalieri raggruppati nella retroguardia di una formazione rettangolare, dietro gli opliti, operano delle sortite per sorprendere i corridori tessali nel 45
momento in cui tentano di assaltare l’esercito spartano. La manovra implica l’apertura di intervalli nella linea di fanteria affinché i cavalieri possano passare senza difficoltà42. Questo dispositivo, che ritroveremo in seguito a Roma sotto il nome di agmen quadratum, rimarrà fino all’epoca bizantina il modo migliore di prevenire gli attacchi di un nemico dotato di forze di cavalleria superiori. La cavalleria come espressione del corpo civico Non esiste un unico modello nel mondo classico, perché ogni città possiede la propria tradizione che può accordare uno spazio più o meno importante alla cavalleria43. Tale variabile dipende dalla situazione geografica della polis (i paesi di pianura sono particolarmente propizi all’allevamento dei cavalli), dall’organizzazione del corpo sociale e dal “regime politico” in vigore. I sistemi più “egualitari” (isonomia ateniese, eunomia spartiata) prediligono la fanteria pesante che permette di far partecipare alle operazioni militari e alle battaglie campali una porzione più elevata di cittadini. In queste città gli opliti figurano all’apice della scala dei valori civici. Contadini-soldati idealizzati, che difendono la patria con la punta della loro lancia, “piede contro piede, scudo contro scudo”, questi uomini sono molto diversi dai cavalieri aristocratici, considerati delicati, individualisti e vili (il cavallo non è forse il mezzo migliore per fuggire, senza correre rischi?)44. Ad Atene, per insultare questi hippeis dai modi affettati, viene usato un nomignolo volgare, hippopornoi, “prostituti a cavallo”, come ricordato da Diogene45. A Sparta questa narrazione è talmente potente da far sembrare che nel pieno della “rivoluzione oplitica” la città si sia sbarazzata della cavalleria. Nel v secolo gli hippeis non sono più un vero corpo di cavalleria come ai tempi della prima guerra messenica: formano ormai la guardia dei re spartani e l’élite degli opliti46. Bisogna aspettare il 424 per vedere la potenza laconica dotarsi di un nuovo corpo di 400 cavalieri, nell’intenzione – afferma Tucidide – di contrastare le incursioni ateniesi sulle coste del Peloponneso47. Nel iv secolo questa cavalleria sembra composta 46
da sei morai di un centinaio di combattenti; ogni mora è affidata a un hipparmostēs e l’insieme del contingente è comandato da un ipparco48. Al sistema di valori delle città oplitiche “egualitarie” si contrappone quello delle città o delle confederazioni (koina) dominate da oligarchie equestri; Tessaglia e Beozia sono gli esempi più celebri. In queste regioni di vaste pianure, una parte importante delle terre coltivabili può essere consacrata a coltivazioni foraggere e il cavallo è considerato la figura emblematica del mondo aristocratico. Allevarlo e utilizzarlo per i giochi, la caccia, le parate o la guerra è proprio dello stile di vita dell’élite, caratterizzato dall’habrosunē, il lusso ostentatorio, l’opulenza legata a uno status sociale privilegiato49. Non bisogna tuttavia immaginare che la cavalleria, in qualità di istituzione militare, poggi interamente sul regime della grande proprietà terriera. In Tessaglia l’abbondanza di terre pubbliche permette al koinon di attribuire lotti di terra a cavalieri che ne possiedono soltanto l’usufrutto. Questi klēroi includono un hippoteion di circa 50 pletri (=4,4 ettari), in gran parte riservati all’alimentazione dei cavalli (non più di quattro)50. Perciò nel vi secolo l’esercito tessalo può in teoria mobilitare 5.120 cavalieri su un totale di 15.360 combattenti, una proporzione di 1:2 eccezionale rispetto agli standard dell’epoca51. Anche in Beozia l’organizzazione della cavalleria ricalca quella della confederazione: il territorio è diviso in 11 distretti, ognuno dei quali ha il dovere di fornire all’esercito della lega 1.000 opliti e 100 cavalieri. La cavalleria beotica ammonta quindi in teoria a 1.100 uomini; è comandata da un ipparco federale designato dai beotarchi. Ogni squadrone di 100 cavalieri è diretto da un ipparco associato al distretto corrispondente ed è costituito da due ilai di 50 uomini, comandate entrambe da un ilarca52. Ma è ad Atene che il sistema di arruolamento, l’addestramento e l’organizzazione tattica della cavalleria sono meglio documentati. I testi di Tucidide e Senofonte ci permettono di seguire con relativa precisione l’evoluzione di questo corpo. Dopo essere stato fissato a 96, poi a 300 cavalieri, l’effettivo degli hippeis ateniesi si stabilizza, tra il 447 e il 431, su 1.000 uomini53. All’inizio del iv secolo Atene 47
può inoltre contare su 200 arcieri a cavallo (hippotoxotai), il cui status rimane poco chiaro54. Nelle armate ateniesi le proporzioni sono in genere di un cavaliere ogni dieci fanti, ma nei fatti si constatano grandi variazioni55. L’arruolamento dei cavalieri è principalmente basato sulla ricchezza fondiaria: nell’organizzazione censitaria ateniese solo i pentacosiomedimni e gli hippeis dispongono delle risorse necessarie per allevare e mantenere i cavalli56. Ma anche la condizione fisica costituisce un criterio essenziale. Senofonte traccia il ritratto del cavaliere ideale: Nelle poleis infatti possono far parte della cavalleria coloro che possiedono le ricchezze previste e rivestono un ruolo importante nella città; piuttosto che domare i puledri, è meglio per un giovane prendersi cura della propria forma fisica e, una volta appreso a cavalcare, esercitarsi nell’arte equestre.57
Ogni anno le nuove reclute sono esaminate, forse dagli ipparchi e dai filarchi della città, e l’ispezione, chiamata docimasia, permette l’effettiva integrazione nella milizia civica. Segue una seconda ispezione, atta a valutare lo stato degli animali, la dokimasia tōn hippōn. La mobilitazione dei ricchi cittadini permette di sgravare lo Stato dalle spese che richiederebbero gli allevamenti pubblici. Le fonti suggeriscono tuttavia che, all’inizio del iv secolo, questa modalità di arruolamento tradizionale non fosse più ritenuta sufficiente58. Per garantire la mobilitazione di 1.000 hippeis bisogna ricorrere anche a misure incentivanti. Probabilmente già dalla metà del v secolo vede la luce un sistema di finanziamenti per permettere ai cavalieri di comprare (grazie a un prestito senza interessi, la katastasis) e di mantenere (grazie a un indennizzo, il sitos) i cavalli con maggior facilità. Ai cittadini ricchi viene inoltre richiesto di fornire cavalli da guerra in sovrannumero per equipaggiare i cittadini più poveri che, dopo la guerra del Peloponneso, iniziano a servire nella cavalleria per completarne gli effettivi. L’hippotrophia diventa così una liturgia destinata ad adattare le strutture demografiche, sociali e economiche della polis alle nuove realtà militari che necessitano di disporre di un’importante forza di cavalleria59. 48
Si tratta di una correzione apportata all’organizzazione censitaria soloniana e di un modo di allargare la base sociale per il reclutamento degli hippeis. Nel suo trattato consacrato al comando delle forze montate, l’Hipparchikos (secondo quarto del iv secolo a.C.), Senofonte descrive dettagliatamente l’organizzazione tattica della cavalleria ateniese (fig. 5)60, calcata sulla struttura amministrativa dell’Attica, il territorio controllato da Atene, diviso in tre aree geografiche di dieci trittie ciascuna. Così come i buleuti sono organizzati per tribù (una tribù è composta da tre trittie prese in ciascuna delle tre zone geografiche), la tribù costituisce la base per l’organizzazione della phulē di 100 soldati, unità minima della cavalleria ateniese. Ogni tribù (dieci in tutto) fornisce una phulē comandata da un phularchos. La phulē è suddivisa in dieci dekades di dieci uomini. Ogni dekades è disposta su una fila e dipende da un dekadarchos posizionato in testa alla fila (prōtostatēs). I soldati più esperti hanno il ruolo di serrafile (teleutaioi). Su un piano strettamente aritmetico risulta un quadrato di 10x10 cavalieri, ma, poiché i cavalli occupano più spazio in lunghezza che in larghezza, la phulē ateniese presenta in realtà – in formazione non serrata con un intervallo semplice tra ogni cavaliere – un fronte di circa 15 metri per 40 metri di profondità. Senofonte precisa che ogni phulē può dividersi in due squadroni di 20x5 cavalieri: la formazione tattica prende
5. Schieramento della phulē ateniese, in formazione regolare e in ordine esteso
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allora la forma di un rettangolo più largo che profondo, in modo da potere utilizzare nello scontro una proporzione più importante di cavalieri. In tutto la cavalleria ateniese comprende 10 phulai, agli ordini di due ipparchi, ognuno dei quali è alla guida di uno squadrone di 500 uomini. La costruzione del centauro Senofonte è l’unico autore a informarci sull’esatto funzionamento di una forza di cavalleria greca in epoca classica61. I suoi testi lasciano trapelare una struttura complessa, concepita per trasformare i giovani athenaioi kaloi arruolati dagli ipparchi in cavalieri bellicosi, capaci di compiere manovre e combattere in formazione. Il procedimento inizia con l’addestramento degli animali. I cavalli vengono abituati a portare il morso, a svoltare e a cambiare di mano per mezzo di un esercizio detto heteromēkē pedē (“pastoia allungata”), corrispondente all’esercizio che oggi chiamiamo “otto”62. Le mezze volte possono essere realizzate ad andatura sostenuta, seguendo una larga linea curva (anastrophē), o da fermi, come nel moderno rollback (apostrophē). Quando i cavalli sono abituati a queste figure di maneggio, è il turno dei cavalieri di perfezionarsi nell’equitazione: Accertati i dovuti requisiti nei cavalli, i cavalieri devono esercitarsi a loro volta, in primo luogo perché siano in grado di salire di slancio a cavallo (già molti si sono salvati grazie a tale capacità); in secondo luogo affinché siano in grado di cavalcare su terreni di ogni genere e infatti i conflitti possono svolgersi di volta i volta nei luoghi più diversi. Una volta che sappiano ormai cavalcare, bisogna curare che si esercitino il più possibile nel lancio del giavellotto stando a cavallo e che siano in grado di compiere quant’altro è compito dei cavalieri.63
Con gli esercizi successivi, le giovani reclute imparano a inseguire il nemico, allenandosi a coppie con giavellotti spuntati. Un cavaliere fugge, proteggendosi le spalle con la lancia, mentre l’altro 50
scarica i suoi proiettili al galoppo e cerca di avvicinarsi all’avversario per assestargli una stoccata64. A livello strettamente individuale, la caccia è considerata un’eccellente attività propedeutica alla guerra, ma è soprattutto necessario insegnare ai cavalieri a muoversi in gruppo, mantenendo il proprio rango all’interno della phulē. Senofonte raccomanda all’ipparco di organizzare regolarmente delle uscite con gli squadroni, sia in terreno aperto che in terreno accidentato65. Possono inoltre essere praticate simulazioni di battaglia chiamate anthippasiai, attività dalla forte dimensione ludica che si svolgono di solito nell’ippodromo, in occasione delle Panatenee o delle Olympieia. Partecipano allo spettacolo tutti i dieci contingenti tribali, divisi in due gruppi, ognuno agli ordini del suo ipparco. I cavalieri si sottopongono a una serie di attacchi e contrattacchi: una linea insegue l’altra per poi fare dietro-front ed essere inseguita a sua volta; nel corso della rappresentazione i due gruppi si incontrano e gli squadroni si attraversano66. Questa manovra sembra espressamente destinata ad abituare i cavalli al momento decisivo in cui, nel bel mezzo della mischia, i cavalieri riescono a farsi breccia all’interno della formazione nemica. Ma di solito si limitano a combattere a distanza, senza entrare in contatto con la linea avversaria. Questo procedimento è minuziosamente descritto da Senofonte nell’Ipparchico67: gli squadroni partono al galoppo contro il bersaglio, scaricano i proiettili e fanno rapidamente dietro-front per tornare nelle linee amiche, ripetendo l’operazione per tutto il tempo necessario. L’autore ateniese raccomanda di distaccare da ogni unità un gruppo di quattro o cinque cavalieri tra i più rapidi per attaccare il nemico con maggiore facilità68. Tutti gli arcieri montati sono in grado di compiere questa missione perché di solito operano in avanguardia rispetto al resto della cavalleria69. In scontri simili le fasi di ritirata sono particolarmente pericolose perché, quando gli attaccanti invertono la marcia, i cavalieri nemici possono piombare su di loro. Senofonte non precisa la posizione da cui sono lanciati questi attacchi mobili, ma un passaggio delle Elleniche indica che potevano appoggiarsi a una linea di fanteria, a condizione che questa fosse capace di aprire degli intervalli per lasciar passare i cavalli. 51
L’episodio avviene durante la già menzionata marcia di Agesilao in Tessaglia: la cavalleria spartana, raccolta dietro la retroguardia, esce dalla sua posizione nascosta e attacca violentemente i cavalieri tessali occupati in scontri contro la colonna – i Tessali non hanno il tempo di allontanarsi per mettersi al riparo e sono rapidamente messi in fuga e massacrati70. Nei combattimenti di cavalleria Senofonte consiglia ai comandanti di ingannare il nemico per riuscire ad accerchiarne le truppe; a suo parere il procedimento più efficace consiste nel suddividere ogni squadrone in due sottounità schierate una dietro l’altra. I plotoni posizionati dietro sfuggono alla vista dell’avversario e, quando la battaglia è imminente, possono sfilarsi sul lato (o i lati?) senza essere visti. Colte di sorpresa, le truppe nemiche non hanno il tempo di reagire e si vedono rapidamente minacciate su fianchi e retrovie71. Inoltre è possibile dissimulare tra le file dei cavalieri o dietro di loro contingenti di fanti leggeri abili nella corsa, gli hippodromoi psiloi o hamippoi pezoi, descritti già nel v secolo da Erodoto e Tucidide72. Ogni fante è sul cavallo con un cavaliere o corre accanto a lui attaccandosi alla coda dell’animale, tecnica che osserviamo distintamente su un rilievo conservato nel Museo del Louvre73. Lo stratagemma permette di ottenere un netto vantaggio nei combattimenti di cavalleria, tanto che, secondo Senofonte, una forza di cavalleria privata di questo prezioso sostegno è votata al fallimento nel caso in cui cerchi di attaccare da sola una formazione mista74. Le fonti non precisano però le modalità d’intervento degli hamippoi. Hanno il compito di tenere a distanza i cavalieri nemici grazie alla loro gittata superiore (un lancio di giavellotto è infatti più potente se effettuato dal suolo)? Devono intervenire nella mischia, al fianco degli altri cavalieri? Sono lasciati indietro al momento dell’assalto per poter servire da linea di ripiegamento ai commilitoni, in caso di contrattacco e inseguimento da parte del nemico75? La mancanza di testimonianze precise ci impedisce di stabilirlo. In battaglia i cavalieri greci di epoca classica utilizzano varie armi offensive76. La preferenza è nettamente accordata alle armi inastate usate per colpire di punta o nei combattimenti a distanza. Si distinguono diversi tipi di lance: la lancia di medie dimensioni 52
(doru) è utilizzata principalmente al momento dell’impatto; è munita di un contrappeso che permette al cavaliere di tenere la mano al centro dell’asta, brandendola al disopra della spalla (pollice sul retro) o mantenendola in posizione abbassata, lungo il fianco destro del cavallo (pollice sul davanti). I bersagli possono essere sia cavalieri che fanti. Lance più lunghe, di tipo kamax, sono attestate dalla documentazione iconografica: dotate di un pesante tallone cilindrico, vengono afferrate nel primo terzo dell’asta in modo da aumentare la gittata. Senofonte le giudica però poco maneggevoli e fragili77 e preferisce i solidi giavellotti di corniolo usati dai cavalieri persiani. Questi palta, due per ogni soldato, possono servire sia nel combattimento a distanza che nella mischia. La maggior parte dei cavalieri greci era quindi armata con una lancia e due giavellotti (akontia), prova della ricerca di una certa polivalenza tattica78. In un ideale assalto vittorioso, i proiettili vengono scagliati all’avvicinarsi del nemico, dopodiché la lancia permette di ingaggiare il corpo a corpo. L’assenza di selle ad arcione (i cavalieri greci montano a pelo o su un tappeto più o meno imbottito) e di staffe rende senza dubbio delicate queste operazioni. I combattenti dovevano stare fermi sul cavallo per scagliare i loro colpi con potenza e precisione. Senofonte dà i seguenti consigli: Ma scriverò in breve anche come lanciare dardi con il massimo della forza. Bisogna tirare spingendo in avanti il fianco sinistro, ritraendo il destro e sollevandosi sulle cosce, con il giavellotto puntato un po’ verso l’alto; così il proiettile avrà la potenza e la gittata massime; ma il tiro raggiunge la massima precisione se il giavellotto rimane sempre puntato nella direzione del bersaglio.79
Per il corpo a corpo, il cavaliere greco oltre alle lance usa anche una spada. Può trattarsi di un’arma a lama dritta, come lo xiphos, o di una sciabola a lama ricurva, di solito chiamata machaira o kopis80. Senofonte raccomanda di utilizzare la seconda categoria di spade perché ritiene che i colpi di taglio siano più efficaci delle stoccate81. Possiamo però interrogarci sull’equilibrio dei cavalieri durante questo pericoloso duello, che necessita di inclinarsi sui 53
fianchi del cavallo, soprattutto quando il bersaglio è a piedi. In questa situazione le carenze dell’equipaggiamento equestre si sono di certo rivelate particolarmente debilitanti, anche se i combattenti antichi non potevano percepire il problema con la stessa intensità di un cavaliere abituato agli odierni finimenti. Non sorprenderà constatare che le vere mischie di cavalleria sono rare nelle narrazioni storiche di v e iv secolo82. Una tale reticenza nei confronti dello scontro spiega forse l’apparente leggerezza dell’equipaggiamento difensivo dei cavalieri: nella maggior parte delle rappresentazioni iconografiche, gli uomini portano soltanto un mantello, più raramente una corazza che può essere in bronzo, cuoio o lino, quasi mai lo scudo. La testa è a volte coperta da un elmo a tesa larga; il più diffuso è l’elmo di tipo beotico, caratterizzato da una gronda avvolgente e una grande visiera aperta. Le sue caratteristiche confermano che i colpi di taglio sono considerati un rischio notevole e mostrano inoltre che i cavalieri preferiscono avere visuale e udito sgombri per effettuare le manovre con maggiore efficacia e reattività83.
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Capitolo 4
L’apogeo ellenistico Nelle sue celebri conferenze sull’evoluzione dell’arte della guerra in età ellenistica, lo storico britannico William W. Tarn definisce “età della cavalleria” il periodo dell’espansione macedone in Grecia e in Oriente: le conquiste di Alessandro III (Magno) avrebbero dato inizio a un secolo in cui “la cavalleria era l’arma più importante dell’arte militare ellenistica”1. Prodotto di un’incomparabile erudizione e di una brillante capacità di sintesi, lo studio di Tarn resta sotto molti aspetti un punto di riferimento essenziale per capire gli sviluppi che conoscono in quest’epoca gli eserciti greco-macedoni. La storiografia recente invita tuttavia a ridimensionare i meriti di Filippo II e Alessandro2. La maggior parte delle innovazioni che ha fornito al combattimento di cavalleria la sua configurazione quasi definitiva era infatti già nota ai Greci prima della conquista macedone e non è più possibile sostenere, come faceva Pierre Ducrey nel 1985, che “malgrado il suo senso tattico, Epaminonda non fece mai sostenere gli assalti della falange tebana alla cavalleria, e bisogna attribuire a Filippo II la regolare presenza di quest’arma nei campi di battaglia”3. È vero però che durante le guerre di Alessandro in Asia l’importanza tattica della cavalleria raggiunge l’apice – perché l’ampiezza degli effettivi mobilitati e la diversità delle truppe permettono di compiere manovre offensive di un’efficacia nuova, ma anche grazie alla genialità di Alessandro, che ha perfettamente compreso le potenzialità di tale arma. Filippo II e Alessandro Magno: la cavalleria come arma decisiva Numerosi studi hanno mostrato che la Macedonia antica si distingue in modo abbastanza netto dalla Grecia delle poleis. Si è soliti 55
vedere in questo regno una società pastorale, una terra di allevamento di cavalli, sottoposta alla dominazione quasi “feudale” di ricchi proprietari terrieri, arruolati nella cavalleria del re che li gratifica con il prestigioso titolo di Compagno (hetairos)4. È indubbio che le vaste pianure alluvionali della Bassa Macedonia si prestassero all’hippotrophia, ma nulla indica che l’esercito macedone comprendesse una forte componente di cavalieri prima delle riforme di Filippo II (359336), ed è ancora lecito chiedersi se i cavalieri macedoni appartenessero a una vera nobiltà ereditaria5. Un rapido esame delle fonti rivela che inizialmente questo Stato a nord della Grecia poteva mobilitare solo una limitata quantità di cavalieri: 600 durante la campagna del 358 contro gli Illiri6, un effettivo modesto se paragonato ai circa 5.000 cavalieri di cui dispone la lega tessala nel vi secolo. Benché le nostre conoscenze dei meccanismi di arruolamento in vigore nel regno macedone presentino ancora molte zone d’ombra7, è certo che, all’epoca di Archelao II (409-399), la monarchia argeade disponeva di stazioni di monta8. Questi stabilimenti servivano a equipaggiare i cavalieri macedoni, come sembra suggerire una celebre frase attribuita da vari paremiografi a un soldato di Filippo II (“il cavallo mi porta, il re mi nutre”)9? Ma è vero anche che la cavalleria riuniva gli individui “più illustri” (oi endoxotatoi)10 e che alcuni Compagni dell’esercito di Alessandro III disponevano di una rimonta personale che poteva comprendere anche una decina di cavalli11. Si trattava di una minoranza privilegiata? Queste mandrie furono costituite grazie al bottino delle conquiste in Oriente o provenivano da allevamenti macedoni? La mancanza di testimonianze precise ci impedisce di stabilirlo. È invece certo che le conquiste di Filippo II permisero agli Argeadi di ottenere nuove terre per l’allevamento, spartite tra numerosi soldati, e che questa colonizzazione fondiaria influì sull’aumento di effettivi che si constata tra il 340 e il 33012. Lo storico Teopompo riferisce infatti che attorno al 340 gli hetairoi, in numero di 800, vengono dalla Macedonia, dalla Tessaglia e dal resto della Grecia, e godono di un reddito fondiario superiore a quello dei 10.000 Greci più abbienti13! Alla vigilia della spedizione orientale, Alessandro Magno dispone ormai di una cavalleria di circa 5.000 uomini14. Diodoro Siculo precisa l’origine delle diverse unità che 56
compongono il contingente: 1.800 Macedoni, 1.800 Tessali, 600 Greci e 900 Traci, cavalieri prodromoi e Peoni15. L’elenco – probabilmente tratto dalle Memorie perdute di Tolemeo16 – rivela che nel 334 gli hetairoi non sono più in maggioranza nella cavalleria macedone; gli alleati arruolati in seguito alle vittoriose campagne di Filippo II sono leggermente più numerosi. Tuttavia, i Compagni formano un corpo d’élite ben definito e valorizzato dalle fonti: questi cavalieri pesanti hanno il privilegio di partecipare ai banchetti del re e alle grandi cerimonie pubbliche17; muniti di un elmo di tipo frigio o beotico, una corazza di lino, una lunga lancia da urto (tra due e tre metri) e una spada a un solo taglio, sono addestrati al corpo a corpo, modalità di combattimento in cui, a quanto pare, eccellono18. All’inizio dell’anabasi di Alessandro, gli hetairoi sono suddivisi in sette squadroni (ilai) di circa 200 uomini. Queste unità, organizzate in base all’origine geografica dei soldati, formano due grandi insiemi, le cavallerie di Alta e Bassa Macedonia. L’élite dei Compagni è inserita in una formazione distinta, l’ilē basilikē, guardia personale del re, i cui effettivi ammonterebbero a 300-400 combattenti. Accanto a questa unità d’urto, le fonti segnalano, a partire dalla traversata dell’Ellesponto nel 334, l’esistenza di corpi armati più alla leggera. Come suggerisce il nome, i prodromoi operano nell’avanguardia del corpo di spedizione, sono esploratori (skopoi) particolarmente mobili, che partecipano spesso alle scaramucce precedenti allo scontro campale. Da tempo vengono assimilati ai sarissophoroi, i “portatori di sarissa” più volte menzionati nel contesto della spedizione di Alessandro19, dal momento che gli autori antichi sembrano utilizzare i due termini in modo interscambiabile per designare un unico corpo20, senza tuttavia precisare la natura della picca utilizzata da questi misteriosi cavalieri. Non può infatti trattarsi della famosa sarissa della fanteria macedone (i pezhetairoi), che doveva raggiungere i 5 metri di lunghezza21: un’arma simile non poteva essere maneggiata a cavallo e avrebbe provocato un enorme disordine in uno squadrone che procedeva a velocità sostenuta22. Verosimilmente la sarissa dei prodromoi era più corta, pur superando in lunghezza la lancia degli altri cavalieri macedoni (xyston)23. Anche solo l’esistenza di questo corpo di 57
esploratori può sembrare sorprendente: nell’Antichità i compiti di esplorazione erano di solito affidati a cavalieri equipaggiati per il combattimento a distanza, giavellottisti o arcieri a cavallo. Alessandro incorporò forse nel suo esercito queste unità dopo la vittoria contro Dario III nel 331. Durante le campagne a est dello Zagros, vengono infatti a ingrossare i ranghi della cavalleria macedone dei Dahai (antenati dei Parti), dei Massageti, dei Battriani e dei Sogdiani24. Non sentiamo più parlare di prodromoi-sarissophoroi dopo il 329: questi lancieri-esploratori sembrano essere stati sostituiti dagli hippakontistai e dagli hippotoxotai orientali25. Filippo II e Alessandro non si sono limitati ad allestire un formidabile strumento militare, ma hanno anche manifestato un certo genio tattico nell’esercizio del comando, ispirandosi al modello tebano che nei decenni precedenti aveva dimostrato la propria validità. Tale derivazione si spiega con i contatti diretti: tra il 368 e il 365, il giovane Filippo era infatti stato ostaggio a Tebe, in Beozia, dove, afferma Pompeo Trogo, si era istruito alla scuola di Epaminonda e Pelopida. E Plutarco arriva perfino a definirlo un imitatore di Epaminonda in campo militare26. Lungi dall’essere priva di fondamento, l’affermazione trova riscontro negli eventi successivi. Osserviamo infatti in Filippo una spiccata attitudine per le grandi manovre decisive, che consistono nello scagliare l’élite della cavalleria macedone contro un punto preciso della linea nemica, adottando il celebre “ordine obliquo”. Durante la battaglia che contrappone, nel 358, i Macedoni alle truppe illiriche di Bardylis, Filippo rinforza l’ala destra per attaccare soprattutto il fianco sinistro dell’esercito “barbaro”, considerato più vulnerabile. Mentre la fanteria macedone incalza la linea nemica di fronte, i Compagni compiono un’audace manovra di accerchiamento, che costringe gli Illiri a ripiegare le ali verso l’interno per formare un “quadrato” (plinthion). Incalzato nelle retrovie, assalito da ogni parte, l’esercito di Bardylis finisce per cedere e i fuggiaschi sono inseguiti e massacrati27. Venti anni dopo, nella piana di Cheronea, in Beozia, una manovra simile permette a Filippo II di sconfiggere una coalizione di città greche unitesi su iniziativa di Atene per combattere l’egemonia macedone28. Forte di un esercito di circa 58
30.000 soldati, di cui 2.000 cavalieri, il re prende il comando dell’ala destra e lascia al figlio Alessandro, appena diciottenne, l’ala sinistra. Nel bel mezzo dello scontro, le truppe di Filippo cedono terreno di proposito, costringendo gli alleati greci ad avanzare e ad allungare la linea di battaglia. Si è ipotizzato che questa manovra abbia finito per aprire una breccia nel dispositivo ateniese29. Quel che è certo è che Alessandro riuscì per primo a sfondare la linea nemica30, non sappiamo però con quali truppe e in che modo. Forse ordinò ai suoi hetairoi di infilarsi nell’intervallo che separava due parti dello schieramento nemico, così da prendere alle spalle il battaglione sacro, che fu annientato durante lo scontro31. Avendo imparato dai migliori grazie a suo padre, Alessandro fu in grado di ottenere il meglio dalla sua cavalleria durante le campagne in Oriente. In tutte le grandi vittorie del condottiero macedone, le truppe montate rivestono un ruolo preminente. Già nel 334 i Compagni che operano nell’avanguardia del corpo di spedizione riescono a mettere in fuga la cavalleria persiana posta a guardia del passaggio del fiume Granico e a circondare completamente la fanteria nemica32. L’anno successivo, a Isso, gli hetairoi preparano la vittoria delle falangi, scacciando dal campo di battaglia le truppe dell’ala sinistra di Dario III33. Ma il capolavoro di Alessandro è senza dubbio l’immenso successo tattico ottenuto nella battaglia di Gaugamela, che, nel 331, contrappone per l’ultima volta il corpo di spedizione macedone e l’esercito achemenide34. Nelle vicinanze dell’odierna Erbil, nell’Irak settentrionale, i circa 40.000 fanti e 7.000 cavalieri comandati da Alessandro e dai suoi generali riescono a mettere in fuga una forza asiatica notevolmente superiore in numero, nonostante il rischio di accerchiamento dovuto alla presenza di una potente cavalleria persiana, costituita da contingenti arruolati in tutto l’Impero. Le informazioni di cui disponiamo lasciano scorgere un dispositivo sofisticato35: le falangi dei pezhetairoi sono schierate al centro, gli squadroni di alleati greci sono disposti sulla sinistra, quelli dei Compagni sulla destra; i fianchi sono protetti da due colonne perpendicolari e le retrovie da una seconda linea di battaglia, che, in caso di accerchiamento, ha il compito di operare 59
una contromarcia (fig. 6). Le successive operazioni sono descritte con precisione da Arriano, che riprende la narrazione di Tolemeo, uno dei generali macedoni presenti allo scontro36. Poco prima della battaglia, Alessandro fa avanzare il suo esercito in obliquo, coprendo l’ala sinistra. Dario reagisce distaccando i suoi cavalieri sciti e battriani, con l’intenzione di accerchiare l’ala destra macedone. I reparti di fiancheggiamento posizionati da Alessandro all’estremità della linea di battaglia riescono a contenere l’attacco (fig. 7.1). Dopo aver respinto un’ondata di carri inviati contro l’ala destra, il re macedone inizia a mettere in colonna (keras) le truppe che lo circondano37: si è infatti accorto che nella linea persiana si è aperta una breccia, perché Dario ha continuato a inviare rinforzi per sostenere l’azione della cavalleria contro il fianco destro dell’esercito macedone. La colonna, composta dai Compagni e da alcuni fanti, si infila nella falla38 (fig. 7.2). Segue una mischia violenta da cui le truppe di Alessandro escono vittoriose; l’esercito persiano viene progressivamente messo in fuga. Nella battaglia di Gaugamela il colpo decisivo è stato effettivamente inferto dall’attacco impetuoso degli hetairoi che sono riusciti ad aprire una breccia e a infiltrarsi nel dispositivo nemico, probabilmente come era successo a Cheronea. L’impatto psicologico di
6. Ordine di battaglia dell’esercito macedone a Gaugamela, 331 a.C.
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questa manovra è sottolineato da Arriano: la colonna formata da Alessandro è paragonata allo sperone di una nave (embolon) che distrugge ogni cosa al suo passaggio. Ritroviamo la terminologia usata da Senofonte nella battaglia di Mantinea, durante la quale Epaminonda avrebbe messo in atto una tattica simile. Possiamo quindi concludere che nel iv secolo la formazione di cavalleria che i Greci chiamavano embolon è una colonna d’assalto e non una formazione triangolare, come affermeranno i tattici greci posteriori e, alla loro stregua, i commentatori moderni39. Epaminonda e Alessandro appaiono come i precursori di una dottrina militare che tornerà in auge, in Europa, al tempo delle riforme militari di Federico II di Prussia40. La predilezione di Alessandro Magno per le colonne d’assalto formate da cavalieri si ritrova anche in altri momenti della spedizione, in contesti tattici diversi, ad esempio durante uno scontro contro gli Sciti vicino al fiume Iaxartes (l’odierno Syr Darya, a est del lago d’Aral), nel 32941. Questa volta l’esercito macedone si deve confrontare con la strategia di guerriglia tipica degli eserciti nomadi dell’Asia centrale e non può aprire una breccia nello schieramento di queste forze mobili che evitano lo scontro diretto. Vedendo che la sua avanguardia composta da mercenari e sarissophoroi non è riuscita a obbligare i nemici al corpo a
7. L’ala destra di Alessandro forma l’embolon
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corpo ed è perfino circondata, Alessandro distacca dall’esercito tre ondate successive di cavalieri (fig. 8). La prima ha il compito di provocare l’avversario – benché Arriano non lo precisi esplicitamente, si tratta di sicuro di un’esca per spingere gli Sciti a intraprendere la manovra di accerchiamento. Una seconda ondata deve affiancare i cavalieri nemici che hanno intrapreso l’accerchiamento della prima linea, attaccandoli da dietro. Infine, un terzo assalto fa intervenire gli squadroni disposti in colonna: le due linee perpendicolari hanno il compito di chiudere gli intervalli tra le due linee precedenti, in modo da imprigionare gli Sciti in mezzo a un vasto rettangolo cavo42. L’operazione è un successo. Gli Sciti che non sono stati presi nella rete e massacrati vengono messi in fuga. In questo
8. Battaglia del fiume Iaxartes
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caso le colonne di Alessandro non servono a sfondare l’esercito nemico ma a circondarlo. La battaglia dello Iaxartes si svolge durante l’ultima fase della spedizione di Alessandro, momento in cui la cavalleria macedone raggiunge l’apice e si dimostra in grado di realizzare operazioni di grande complessità, con l’intervento combinato di cavalieri pesanti (hetairoi, catafratti?) e cavalieri leggeri arruolati in Asia. Dal 331 gli elementi iranici e nomadi tendono a diventare predominanti, a mano a mano che le guarnigioni macedoni vengono installate nella parte occidentale dell’impero achemenide e alcuni contingenti di origine europea sono smobilitati43. L’esperienza acquisita da Alessandro nel Vicino Oriente contro i Persiani e, successivamente, in Asia centrale durante la campagna contro Besso – satrapo della Battriana, autoproclamatosi gran re alla morte di Dario III – genera importanti riforme. In particolare, le fonti riferiscono l’istituzione di due suddivisioni all’interno di ogni squadrone di Compagni, i lochoi, presto ribattezzati hekatostuai (“centinaia”)44. Gli squadroni sono poi raggruppati in ipparchie, reggimenti di cui ignoriamo gli effettivi esatti (forse 400 cavalieri, suddivisi in due ilai), quattro secondo Nicholas Sekunda, otto secondo Marek Olbrycht45. Alla stessa epoca una nuova formazione d’élite, l’agēma o “avanguadia”, sostituisce l’antica ilē basilikē46. Il comando generale degli hetairoi è in un primo tempo affidato a Filota, poi, dal 330, a Clito e Efestione. Non sappiamo se gli effettivi subiscano significative variazioni dall’inizio della spedizione asiatica. Plutarco afferma che, alla vigilia della campagna indiana, Alessandro dispone di 15.000 cavalieri di diverse origini, tre volte più numerosi quindi che nel 334, cifra che lascia immaginare la parte occupata dalle truppe non europee47. L’intervento di Alessandro in India, su richiesta del re Tassile che vuole sbarazzarsi del rivale Poro, mostra una forza macedone nettamente riconvertitasi al primato tattico della cavalleria. Le operazioni si svolgono nella regione del Gandhara, nella parte nord-occidentale dell’attuale Pakistan48. In vista dello scontro che deve permettergli di sconfiggere definitivamente l’avversario, Alessandro lascia il grosso dell’esercito nell’accampamento principale e mobilita solo 6.000 fanti e 5.000 cavalieri, con cui attraversa il fiume 63
Idaspe (l’odierno Jhelum) nell’estate del 32649. L’eccezionale proporzione di quasi un uomo a cavallo per fante rivela la fiducia che il condottiero ripone nelle forze montate. Durante gli scontri preliminari nelle vicinanze del fiume, i fanti hanno l’ordine di rimanere in disparte e lasciare che siano le truppe a cavallo a sfidare il nemico50. I ruoli sono scrupolosamente definiti: gli arcieri a cavallo attaccano in prima linea; li seguono da vicino i ranghi serrati dei Compagni che hanno l’ordine di attaccare squadrone per squadrone, senza formare un fronte continuo. Bisogna immaginare una seconda linea in cui si aprono degli intervalli, probabilmente per permettere agli arcieri di ritirarsi, se necessario, dietro la cavalleria pesante. Grazie a questa tattica, i Macedoni ottengono una prima vittoria che obbliga gli Indiani a ripiegare verso il grosso del loro esercito, schierato poco più in là. Mentre Alessandro dispone l’insieme delle truppe in ordine di battaglia, la cavalleria si posiziona contro il fianco destro della falange e viene informata del seguente piano: la maggior parte degli squadroni deve dirigersi contro l’ala sinistra di Poro, per attirare la sua attenzione su quel punto; nel frattempo due ipparchie saranno distaccate sotto il comando di Ceno e accerchieranno l’esercito indiano dall’ala destra. La manovra è un successo: mentre la cavalleria macedone tiene occupato il nemico con ripetuti assalti, Ceno appare dietro l’ala sinistra di Poro; la cavalleria indiana, costretta a combattere su due fronti, è messa in fuga e Alessandro ordina allora alle falangi di intervenire per assestare il colpo di grazia51. Cavallerie e cavalieri all’epoca dei regni ellenistici Il sistema su cui si basava l’organizzazione e il funzionamento della cavalleria macedone al tempo di Alessandro Magno era però temporaneo. Lo dimostrano le evoluzioni nella composizione del corpo di spedizione asiatico: per compensare le perdite e la smobilitazione dei contingenti occidentali si deve ricorrere progressivamente a reclute locali e a mercenari. Quando Alessandro muore prematuramente nel 323 e i suoi generali si disputano il 64
suo impero, i Compagni non tornano a casa ma restano in Oriente. Antipatro, rimasto in Europa come reggente, deve affrontare le sollevazioni delle città greche (si tratta della “guerra lamiaca”, dal nome della città greca di Lamia, in Ftiotide) con un effettivo di soli 600 cavalieri macedoni, parte dei quali evidentemente arruolati in tutta fretta52. Nelle altre aree di antica annessione sorgono rapidamente forze regolari, sul modello lasciato da Filippo II e Alessandro, che dipendono ancora in parte da tradizioni militari locali per organizzazione e composizione. Ma il principio di una cavalleria sovvenzionata dalla monarchia è ormai assodato. Tale sistema costituisce la base della mobilitazione dei principali corpi di truppa, come ad esempio quelli dei grandi eserciti ellenistici. Tuttavia, le città-Stato e le confederazioni continuano a rivestire un ruolo notevole in scala locale, e sono sempre vive le strutture militari ereditate dall’epoca classica. In Macedonia, dove a partire dal decennio 270-260 si stabilisce la dinastia antigonide, la cavalleria rappresenta generalmente il 10% degli effettivi53, proporzione leggermente superiore alla norma vigente durante il regno di Filippo II (tra il 5 e il 7%). Durante la terza guerra macedonica, Perseo è in grado di mobilitare un massimo di 3.000 cavalieri54. Il comando in capo è affidato a un ipparco55 e la cavalleria nazionale si compone sempre di squadroni (ilai), di cui non conosciamo l’effettivo teorico. Esistono forse delle sottounità (oulamoi), volte ad apportare ai reggimenti maggiore flessibilità, ma le fonti non permettono di averne la certezza e bisogna evitare di interpretare in un senso troppo preciso il vocabolario tecnico utilizzato da Tito Livio (alae, turmae) a proposito delle cavallerie greche di età ellenistica56. Contingenti d’élite sono attestati fino alla perdita di indipendenza della Macedonia: le fonti narrative segnalano infatti l’esistenza di un agēma e di uno o più “battaglioni sacri” (sacrae alae), legati alla corte antigonide57. Non troviamo però più alcuna traccia dei prodromoi dell’epoca di Alessandro, forse sostituiti dagli squadroni di paides, “giovani” cavalieri macedoni posizionati in avanguardia (protagma) nello schieramento58. In campagna questa cavalleria regolare è generalmente sostenuta da contingenti alleati, traci o tessali. 65
A lungo si è pensato che la monarchia antigonide si facesse carico dell’equipaggiamento dell’esercito. Basandosi su uno dei frammenti del diagramma (regolamento) di Cassandrea, che ci informa sulle modalità del servizio militare, Miltiades Hatzopoulos ritiene che fosse lo Stato a fornire i cavalli ai cavalieri, “come doveva accadere anche presso i Lagidi e i Seleucidi”; le stazioni di monta reali attestate fin dall’epoca argeade sarebbero servite proprio a tale scopo59. In realtà sembra che la maggior parte dei cavalieri si procurasse da sé un cavallo da guerra; solo alcuni individui privilegiati potevano vantarsi di possedere un animale offerto dal re60. Acquistato sul mercato o ottenuto grazie a un atto di generosità del monarca, il cavallo da guerra era sottoposto a un procedimento di ispezione da parte dell’ipparco. Questa dokimasia tōn hippōn permetteva di approvare gli animali ritenuti adatti al servizio militare e scartare invece quelli che non lo erano. Il diagramma di Cassandrea suggerisce che esistevano due principali rischi: l’ipparco, per compiacenza, poteva ritenere idoneo un cavallo inadatto o decidere, per incompetenza o malevolenza, di respingere un animale valido; in entrambi i casi il colpevole si esponeva al pagamento di una multa destinata a indennizzare il tesoro reale o il cavaliere leso. È facile intuire da queste informazioni che i combattenti a cavallo costituivano ancora una vera e propria aristocrazia equestre, strettamente controllata dal potere reale, che però non centralizzava del tutto le forniture militari. I cavalieri sembrano conservare il prestigioso titolo di hetairoi per tutto il periodo61. Se in Macedonia l’esercito antigonide prospera sulle strutture istituite da Filippo II, l’esercito del regno seleucidico eredita piuttosto le caratteristiche del corpo di spedizione di Alessandro62. Seleuco era stato designato ipparco dei Compagni poco dopo la morte del condottiero macedone63; era perciò in grado di assicurarsi il controllo di questa cavalleria che nei decenni successivi diventò una componente essenziale delle armate dei “re di Siria”. Tuttavia, alla fine della vita di Alessandro, gli squadroni degli hetairoi erano stati ampiamente aperti ai Persiani e forse gli Europei non erano nemmeno più la maggioranza64. A quanto pare la situazione venne 66
rapidamente chiarita. Sotto la dinastia seleucidica l’agēma riunisce le reclute asiatiche, tra cui l’élite equestre dell’antico impero achemenide (principalmente Medi), mentre i coloni macedoni stabilitisi nella parte occidentale del regno si vedono riservare l’accesso agli squadroni dei Compagni, anch’essi riuniti in un unico reggimento, l’ilē basilkē tōn hetairōn65. Queste due unità dell’entourage reale hanno un effettivo di 1.000 soldati e sembrano legate da una relazione basata sulla competizione, conformemente a un principio che ritroveremo molto più tardi nella Roma imperiale66. Altri corpi di cavalleria fanno la loro comparsa all’epoca della rassegna di Dafne del 166: i “cavalieri scelti” (epilektoi hippeis), gli “amici” (philoi), i “cavalieri nisei” (originari della pianura di Nisa, in Media, famosa terra di allevamenti), i “cavalieri delle città” (politikoi hippeis) e i catafratti, una cavalleria interamente corazzata67. È difficile ricostruire l’organizzazione interna di tali reggimenti; Polibio si limita a precisare che le truppe montate di Antioco il Grande (223-187) erano raggruppate in oulamoi (“squadroni”) e in sēmaiai (“insegne”), senza dare cifre68. Supponendo che le informazioni trasmesse dai tattici greci che si sono interessati al funzionamento dell’esercito macedone (Asclepiodoto, Eliano e Arriano) servano a fornirci chiarimenti sull’esercito seleucidico69, potremmo supporre l’esistenza di un modulo di circa 1.000 cavalieri, l’efipparchia (o chiliarchia), a sua volta suddiviso in ipparchie di circa 500 cavalieri e poi in ilai (o oulamoi) di circa 60 soldati70. Ma l’ipotesi non è mai stata provata. In Egitto, nel regno lagide fondato da Tolemeo, figlio di Lago, la cavalleria regolare deriva dai contingenti installati in loco da Alessandro fin dal 33171. I suoi effettivi restano complessivamente stabili per tutto il periodo, mentre la fanteria acquisisce maggiore importanza. Durante la campagna di Tolemeo contro Demetrio Poliorcete nel 312, l’esercito egiziano conta 18.000 fanti e 4.000 cavalieri (18%)72. Nella battaglia di Rafia del 217, i fanti sono ormai 50.000/70.000 per 5.000 cavalieri (6-9%)73. Una ricca documentazione papiracea che utilizza una terminologia militare molto vicina a quella dei tattici greci ci informa sull’organizzazione delle truppe74. La cavalleria lagide prevede delle ipparchie 67
comandate dagli ipparchi, alcuni dei quali portano il titolo di “ipparco dell’epitagma”75. Sono unità formate su base etnica e numerate (almeno dal decennio 230-220): ne troviamo dieci nei papiri76. Un documento menziona molto probabilmente un efipparco, forse a capo di un’efipparchia, raggruppamento di due ipparchie. A un livello inferiore notiamo la presenza di ilarchi ed epilarchi, ma non sappiamo esattamente a cosa corrispondano l’ilē e l’epilarchia. Secondo i tattici si tratterebbe di unità che contavano rispettivamente 64 e 128 cavalieri. Ritroviamo inoltre delle suddivisioni all’interno dell’ilē: il lochos e l’epilochos, affidati rispettivamente a un lochagos e a un epilochagos (32 e 16 soldati?), e la dekania, affidata a un dekanikos (8 soldati?)77. Oltre ai reggimenti ordinari, il re si circonda di due guardie a cavallo, i “cavalieri della corte” (hippeis peri tēn aulēn) e l’agēma78. All’interno dei due regni orientali menzionati, il mantenimento delle forze equestri dipende dallo Stato in modo più stretto che in Macedonia. Nell’impero seleucidico stazioni di monta reali (hippophorbia) sono attestate in Media79 e a Pella-Apamea, dove si trova anche il quartier generale dell’esercito regolare80. La colonia serve da base logistica per le grandi spedizioni del re e riveste forse il ruolo di principale deposito della rimonta81. L’epigrafia rende inoltre nota l’esistenza di comunità tributarie specializzate nella coltura di risorse foraggere, le chortokopikai kōmai, che permettono di nutrire gli animali dell’esercito82. Nei territori lagidi, lo Stato procura ai cavalieri animali e terre per l’allevamento (klēroi) in cambio del servizio militare83. I klēroi riservati agli hippeis misurano in genere tra le 70 e le 100 arure (19-27 ettari); si tratta di poderi abbastanza vasti per mantenere uno o più cavalli. I cavalieri cleruchi sono generalmente di origine macedone, greca o tracia, perlopiù discendenti dei soldati installati in Egitto da Alessandro e Tolemeo84. Con il ii secolo, importanti riforme portano a integrare un numero sempre maggiore di Egiziani nella cavalleria regolare, i machimoi hippeis, che hanno in dotazione appezzamenti più modesti (20 arure). In Egitto, come nel regno seleucidico, i cavalieri non sono esattamente dei professionisti, ma dei katoikoi85, coloni militari che possono essere temporaneamente destinati a una guarnigione o integrati 68
in un’armata per una spedizione – possiamo quindi definirli “riservisti”86. Questi katoikoi hippeis partecipano attivamente alla vita politica ed economica della loro comunità e per questo bisogna distinguerli dai veri professionisti come invece i cavalieri romani tardoantichi molti secoli dopo. Per finire, accanto ai grandi eserciti monarchici sussistono forze militari di minore importanza, direttamente arruolate dalle comunità civiche. Diversi studi recenti hanno mostrato che le città della Grecia continentale e dell’Asia non subiscono passivamente le guerre incessanti dell’epoca, ma conservano in genere le proprie istituzioni e si sforzano di mantenere una milizia, che ha per missione principale la difesa del territorio e dell’autarkeia della polis87. Le norme di arruolamento e di organizzazione possono variare da città in città, ma nella maggior parte dei casi l’hippotrophia-liturgia è la soluzione privilegiata per fornire gli animali. Ad Atene il sistema resta malleabile, dato che la cultura equestre è molto radicata nell’aristocrazia, mentre il controllo pubblico è più rigido a Sparta, dove i ricchi cittadini hanno l’obbligo formale di mantenere un cavallo, ma anche la possibilità di trovare un cavaliere che li sostituisca come combattenti88. L’ispezione degli animali e il comando degli squadroni (ilai) sono di solito affidati a un ipparco, incaricato anche di distribuire la paga89. Nella lega achea e nella lega beotica i figli delle famiglie ricche sono convocati da un ipparco locale che deve a sua volta rispondere all’appello dell’ipparco federale per l’organizzazione degli esercizi collettivi e delle spedizioni militari90. Anche in Asia alcune città attribuiscono importanza alla cavalleria, come nel caso di Tabai, che, nel 189, non esita a lanciare i suoi cavalieri all’assalto dell’esercito consolare di Gneo Manlio Vulsone91, di Colofone, che ha fama di porre fine a un conflitto se supporta gli alleati con la sua potente cavalleria92, e soprattutto di Magnesia del Meandro93, che dispone di un corpo di hippeis abituato a una strana forma di combattimento: Gli abitanti di Magnesia sul Menandro erano in guerra con gli Efesini, e ogni loro cavaliere aveva accanto a sé come sostegno un cane da caccia e un servo armato di lancia. Quando venne il 69
momento di combattere, partirono all’attacco innanzitutto i cani, che gettarono lo scompiglio nelle file nemiche perché erano temibili, feroci e impossibili da avvicinare; quindi fu la volta dei servi, che – precedendo i padroni – scagliarono le lance, e – data la confusione provocata poco prima dai cani – anche la loro azione riuscì molto efficace. Come terzi, infine, mossero all’assalto i cavalieri.94
Dopo i tragici eventi del 323, le narrazioni storiche indicano che la cavalleria riesce a mantenere il primato tattico durante la guerra lamiaca e le guerre dei Diadochi: le truppe a cavallo arrivano perfino a costituire un terzo degli effettivi mobilitati nei corpi di spedizione, situazione che non si verificherà più fino all’epoca bizantina95. Gli esempi delle battaglie della Paretacene (317 a.C.) e di Gaza (312 a.C.) mostrano un’identica volontà di far dipendere l’esito del combattimento dai grandi movimenti offensivi ispirati alla dottrina militare degli anni 330-32096. Tuttavia, nel corso dei secoli successivi, la situazione evolve rapidamente in favore della fanteria. Gli studiosi sono in genere concordi nell’affermare che le forze montate di età ellenistica non sono più l’arma decisiva dei tempi di Filippo II e Alessandro Magno97. La principale modalità d’azione è la scaramuccia. La lunga lancia d’urto è raramente attestata nelle fonti letterarie e nella documentazione iconografica, più spesso sostituita da due giavellotti98. I cavalieri cominciano a portare anche un largo scudo rotondo (a umbo circolare o a spina), sicuramente utile nei combattimenti a distanza, per difendersi dai proiettili lanciati dai nemici, ma anche nelle fasi di ritirata, per proteggersi le spalle dai tiri degli inseguitori99. Tito Livio afferma a questo proposito che, all’epoca della seconda guerra macedonica (200-197 a.C.), la tattica della cavalleria antigonide consiste in “cariche con improvvise fughe”, lanciando proiettili (tela) contro i nemici100. Come spiegare questi cambiamenti dal momento che, come abbiamo visto, la tattica d’urto dei Compagni era uno dei maggiori vantaggi dell’esercito macedone negli anni 330-320? Una parte di risposta risiede forse nel fatto che i belligeranti dispongono ormai di forze complessivamente equilibrate e soprattutto di una potente fanteria pesante, diversamente dai tempi in cui 70
Alessandro combatteva i Persiani, gli Sciti e gli Indiani101. L’utilizzo sempre più diffuso degli elefanti da guerra è un ulteriore elemento da tenere in considerazione: schierati sulle ali o in alcuni punti sensibili del dispositivo di battaglia, questi animali, capaci di terrorizzare i cavalli, agiscono da forza di dissuasione contro le manovre di accerchiamento102. Non bisogna però credere che nel iii secolo a.C. tutte le forze di cavalleria si siano convertite al combattimento a distanza. La stele macedone di Aminta scoperta a Trebenista, vicino al lago di Ocrida, mostra un combattente munito di un equipaggiamento difensivo completo e di una lunga lancia, e porta quindi a ridimensionare le affermazioni di Livio sull’esercito antigonide103. In realtà in questo periodo si aspira a un modello ideale di cavallerie diversificate, composte da unità molto specializzate. I manuali di Asclepiodoto, Eliano e Arriano, probabilmente derivati dal trattato di tattica perduto di Poseidonio di Apamea (135-51 a.C. ca.), distinguono sul piano teorico vari corpi di truppa: i “catafratti” (kataphraktoi), interamente coperti (come anche i loro destrieri) da una barda di metallo, i “portatori di scudi” (thureophoroi), i lancieri (doratophoroi o xystophoroi), i giavellottisti (lonchophoroi, hippakontistai o “Tarentini”) e gli arcieri montati (hippotoxotai)104, categorie che si ritrovano nelle narrazioni storiografiche. I Tarentini forniti dalla colonia spartana di Taranto sono considerati i migliori tiratori a cavallo dell’epoca ellenistica105 e la loro fama è tale che, dal ii secolo a.C., alcune città si dotano del proprio corpo di Tarentini – caso emblematico di qualificativo etnico che finisce per acquisire un’accezione puramente tecnica106. I catafratti si specializzano invece nelle cariche di sfondamento, realizzate per mezzo di una lunga lancia d’urto. Questa cavalleria corazzata, introdotta probabilmente nel corso della spedizione orientale di Antioco il Grande, tra il 210 e il 206107, fa la sua comparsa nell’esercito seleucidico durante la battaglia di Panion nel 200, poi di nuovo in occasione della battaglia di Magnesia nel 190/189108. I trattati tattici ci documentano sulle formazioni di combattimento e sulle manovre eseguite dalle forze montate. Asclepiodoto descrive quattro taxeis (linee di battaglia): il quadrato (tetragōnon), 71
il rettangolo (heteromēkes), il cuneo (embolon) e il rombo (rhomboeides)109. Le prime due formazioni sono associate a Greci e Siciliani e permettono allo squadrone di disporre un fronte regolare; il numero di ranghi e file può variare, ma Asclepiodoto precisa che la profondità dell’unità non ha la stessa importanza che in una formazione di fanteria, perché i cavalli non possono stringersi gli uni agli altri per produrre un effetto di massa compatta. Il cuneo è esplicitamente descritto come una formazione triangolare, costituita da ranghi sempre più stretti, con un unico cavaliere al vertice dell’unità. Se prestiamo fede ai tattici, i Macedoni lo avrebbero copiato dagli Sciti durante il regno di Filippo II e faciliterebbe i cambiamenti di direzione e lo sfondamento della linea nemica. Abbiamo visto che queste informazioni sono da prendere con cautela perché le fonti di iv secolo a.C. usano il termine embolon per descrivere una colonna d’assalto e non un triangolo. Il rombo invece, associato dai tattici alla Tessaglia e costituito dall’unione di due formazioni triangolari, non compare mai nella documentazione narrativa e potrebbe essere anch’esso frutto dell’immaginazione di Poseidonio, presunto fondatore della tradizione e autore di opere sulle figure geometriche110. Sul piano della tattica elementare, dati più certi possono essere ricavati dall’opera di Polibio. L’autore ritiene che uno squadrone di cavalleria (ilē) sia di solito composto da 64 cavalieri e debba essere disposto in profondità su otto file (fig. 9)111. Tra ogni squadrone, raccomanda di prevedere un intervallo sufficientemente largo per eseguire delle conversioni sui due fianchi e, se necessario, fare dietro-front. Nell’esporre l’esempio della cavalleria achea dell’ipparco Filopemene, Polibio descrive queste manovre collettive con un vocabolario estremamente preciso112. Il movimento di un quarto di giro è definito epistrophē, quello di mezzo giro è il perispasmos e quello di tre quarti di giro è l’ekperispasmos. I cavalieri vengono addestrati a fare delle sortite (exagōgē) per fila semplice (lochos) o doppia fila (dilochia), dai fianchi come dal centro della formazione. Devono anche potersi raggruppare per compagnia (oulamos), squadrone (ilē) e reggimento (hipparchia), e formare una linea di battaglia continua (taxis), senza intervalli, schierando in 72
questi ultimi i soldati delle ultime linee della formazione (paragōgē) o uno squadrone posizionato in seconda linea (parembolē). Dopo avere eseguito in massa un movimento di 90° (periklasis), la taxis forma una colonna. Tutte queste informazioni permettono di ricostruire fedelmente l’organizzazione tattica della cavalleria achea. L’ipparchia si compone di varie ilai (quattro come nella lega beotica o otto come nei trattati tattici) e ogni ilē è suddivisa in due
9. Schieramento e manovre della cavalleria achea secondo Polibio
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oulamoi di 32 cavalieri, di quattro file di otto soldati (lochoi) e due doppie file da 16. Nella sezione del testo in cui sono esposte le manovre, viene indicato che il combattimento si svolge di preferenza per oulamoi e che i cavalieri devono essere capaci di attaccare e ritirarsi rimanendo in formazione. I Parti: la scelta esclusiva della cavalleria La posizione dominante acquisita in Asia dagli Stati greci fin dal decennio 320-310 non deve fare dimenticare che in età ellenistica si assiste anche in Oriente alla costituzione progressiva di un vasto impero di origine nomade, il regno dei Parti arsacidi. In seguito a una migrazione, i Parti si sono installati sulle terre precedentemente dominate dai Seleucidi. La loro origine è poco nota e le circostanze dello spostamento continuano a essere oggetto di dibattito. Le versioni contrastanti fornite dagli autori antichi non facilitano per nulla il lavoro degli storici, ma c’è accordo ormai almeno sui punti essenziali: verso il 247 a.C. alcuni nomadi originari della regione situata tra il mar Caspio e il medio corso dell’Oxos, noti con il nome di “Parni”, appartenenti alla nebulosa scitica dei Dahai, approfittano dei disordini che scuotono le satrapie orientali dell’impero seleucidico per conquistare alcuni territori macedoni. Verso il 239-238 i Parni, guidati da un certo Arsace, il loro re, si impossessano dell’antica satrapia achemenide di Partia, poi della vicina Ircania113. Per quasi un secolo restano confinati in quest’area, affrontando gli attacchi dei Seleucidi. Segue, nel ii secolo a.C., una grande fase di espansione, soprattutto sotto i regni di Mitridate I (171-139/8) e Mitridate II (124/3-88/7). A metà del i secolo a.C. i Parti sono padroni dell’antico impero seleucidico ad eccezione della Siria114. Le innovazioni introdotte dai Parti nell’arte della guerra sono un elemento essenziale dell’età ellenistica. Per la prima volta, il Vicino Oriente adotta una dottrina militare che s’ispira davvero alle pratiche nomadi. L’importanza storica di questo processo risiede nel fatto che il modello tattico arsacide continuerà ad avere 74
un’influenza in Iran anche sotto i Sassanidi e ben oltre, durante e dopo la conquista islamica115. Contrariamente ai predecessori achemenidi e seleucidi, i Parti attribuiscono un’importanza decisiva alla cavalleria, “regina delle battaglie” e componente unica della maggior parte dei corpi di spedizione creati dai “grandi re”. Di recente alcuni studiosi hanno tentato di ridimensionare questo apporto, inserendolo in una trama evolutiva greco-macedone. Per Stefan Hauser, a partire dal iii secolo i sovrani seleucidi avevano cercato di accentuare il ruolo della cavalleria e avevano adottato formazioni di arcieri a cavallo e catafratti; sarebbe perciò “molto più convincente vedere l’esercito partico come un ulteriore sviluppo di strutture già esistenti in un ambiente sedentario ampiamente urbano. L’importanza senza precedenti della cavalleria è il risultato della piena assimilazione e dell’applicazione di tattiche moderne”116. L’argomentazione però non convince: gli esempi precedentemente illustrati non permettono di ritenere che, dopo le guerre degli Diadochi, la cavalleria fosse rimasta una forza decisiva negli eserciti ellenistici, ma al contrario. Per questo accetto più volentieri la posizione di Marek Olbrycht che, pur insistendo sull’originalità dello schema di battaglia arsacidico, ritiene che derivasse in gran parte da un’organizzazione sociale e militare di origine scitica117. Diversamente dai Persiani, i Parti sono un “popolo di cavalieri”: la loro organizzazione militare riproduce la struttura sociale di un impero fondato su un sostrato nomade in cui la distinzione tra cavalieri e fanti è un elemento che definisce lo status degli individui118. Questa distinzione, è importante sottolinearlo, non esisteva sotto gli Achemenidi: i nobili persiani erano infatti addestrati a combattere a cavallo, ma potevano formare anche unità di fanteria119. L’iscrizione funeraria di Dario I a Naqsh-e Rostam indica chiaramente che il re eccelleva sia come cavaliere che come arciere e fante120. Niente di tutto ciò vale per i Parti e i loro successori sassanidi. Il ritratto ideale del “re dei re” è quello di un combattente a cavallo, più precisamente il capo della cavalleria corazzata costituita dai nobili catafratti. I grandi rilievi rupestri caratteristici dell’arte monumentale iranica illustrano il valore militare del re attraverso duelli eroici tra lancieri con armamento pesante121. La tradizione 75
orale arsacidica ripresa da Ferdowsi nello Shahnameh, un lungo poema epico composto intorno all’anno Mille, mostra che questa ideologia impregna, a causa di un mimetismo sociale facilmente comprensibile, la nobiltà iranica: l’aristocratico e il suo destriero sono inseparabili anche nei brevi tragitti; i cavalli sono l’orgoglio delle grandi famiglie e accompagnano tutti i momenti importanti della vita degli eroi122. All’interno di quest’“ordine” di cavalieri (asbārān) possiamo distinguere due principali gruppi. Il primo è formato dai nobili o āzādān (gr. aristoi o eleutheroi; lat. nobiles o liberi), probabilmente eredi dell’antica aristocrazia militare parnica, che partecipano all’esercizio del potere politico e occupano gli alti gradi del comando militare. Un’ipotesi affascinante propone di identificarli con i catafratti menzionati nelle fonti greco-romane, tenuti a fornire al gran re contingenti militari arruolati tra i loro sottoposti123, i quali formano il secondo gruppo e, nelle fonti classiche, sono definiti “servitori” o “schiavi” (servi/servitiores). Si tratta in realtà di uomini liberi che servono nell’esercito partico come cavalieri leggeri (arcieri a cavallo). Gennadyj Koshelenko vede in loro i discendenti dei Parni che si sono installati in Iran durante le invasioni della seconda metà del iii e del ii secolo. Con le conquiste, questo gruppo sociale, dipendente dall’aristocrazia corazzata, avrebbe visto affermarsi la propria funzione bellica. La tesi ha convinto la maggior parte degli esperti124, ma è molto difficile immaginare che i dinasti arsacidi si siano privati dell’aiuto delle popolazioni locali e dei regni “clienti”, soprattutto nella parte iranica dell’impero, che disponeva già di una solida tradizione equestre: alcuni cavalieri indigeni furono probabilmente integrati nella clientela militare dei nuovi signori nomadi o usati come rinforzi125. Nei corpi di spedizione riuniti dagli Arsacidi la proporzione di nobili era spesso esigua. Secondo Giustino, dei 50.000 cavalieri che combattono contro Marco Antonio in Media nel 36 a.C., solo 400 sono liberi, sottomessi solo alla sovranità del re dei re126. Una simile distinzione si ritrova nell’opera dello storico ebreo Flavio Giuseppe: durante l’invasione della Giudea nel 40 a.C., Pacoro, figlio del re Orode II (58/7-38), installa a Gerusalemme 76
una guarnigione di 200 “cavalieri” (hippeis), tra i quali si possono individuare dieci “uomini liberi” (eleutheroi), che poco oltre vengono definiti “potenti” (dunatoi) e “padroni degli altri [cavalieri]” (despotai tōn allōn)127. Questi esempi fanno pensare che di solito la percentuale di āzādān all’interno degli eserciti partici fosse tra l’1 e il 5%. Una simile proporzione non coincide del tutto con quanto sappiamo sulla composizione del corpo di spedizione di Surena a Carre nel 53 a.C., quando furono riuniti 1.000 cavalieri corazzati su un totale di 10.000 cavalieri, cioè il 10%128. Questa discrepanza potrebbe indicare che la base sociale dei catafratti non si limitava all’alta nobiltà partica, di conseguenza bisognerebbe ridimensionare l’equazione stabilita da Koshelenko tra i due gruppi; ma potrebbe anche spiegarsi con il fatto che le cifre riportate da Plutarco riguardano solo il seguito militare di Surena e non l’insieme dell’esercito, che comprendeva anche le truppe del satrapo di Mesopotamia Silace. Gli eserciti partici sono presentati dagli storici greco-romani come armate dotate di grande mobilità, vantaggio dovuto all’utilizzo intensivo dei cavalli che procurano ai corpi di spedizione arsacidici un ritmo di marcia molto superiore a quello degli eserciti misti129. Ci si interroga sul ruolo della fanteria in tale sistema: di certo le truppe a piedi potevano difendere città e piazzeforti, come nel caso delle milizie locali che in alcuni casi esistevano in Oriente da tempi antichissimi130; ma nei fatti sembra che la maggior parte delle forze utilizzate nelle spedizioni militari fosse composta esclusivamente da truppe di cavalleria131. A Carre nel 53 a.C., come durante la ritirata di Antonio verso l’Armenia nel 36 a.C., non si parla mai di fanti. Per il secondo episodio Giustino menziona un immenso corpo di spedizione di 50.000 cavalieri, il più grande esercito a cavallo mai riunito prima dell’epoca tardoantica132. Durante la guerra ibero-partica del 35 d.C., “l’intera forza” dell’esercito arsacidico si basa sulla cavalleria (sola in equite vis)133. Inoltre, quando Cassio Dione evoca la battaglia di Rhandeia del 62 d.C., precisa che Vologese I non poteva avvicinarsi alle fortificazioni romane, “per mancanza di soldati pesantemente armati (hoplitōn)” e che il legato Peto temeva “le frecce del barbaro che 77
arrivavano fin dentro il suo accampamento e la cavalleria che appariva dappertutto”134. Sul piano tattico, le modalità di combattimento dei cavalieri parti si iscrivono nel solco delle precedenti esperienze nomadi, ma in più viene accordata nuova importanza all’azione coordinata di cavalleria leggera e cavalleria pesante. Contrariamente agli antenati dahi e parti delle origini, gli Arsacidi di i secolo a.C. sembrano includere nei ranghi della cavalleria solo lancieri corazzati e arcieri a cavallo135. Il ruolo di questi ultimi consiste nello sparpagliarsi attorno al nemico per sottoporlo a incessanti lanci di frecce. In azioni di questo tipo, i cavalieri sembrano privilegiare la quantità alla precisione, tenendosi fuori dalla portata dell’avversario136; se il nemico attacca, gli arcieri si disperdono e continuano a tirare nella fuga (la famosa “freccia del Parto”). Tale sequenza è descritta con precisione da Plutarco a proposito della battaglia di Carre, che contrappone i Parti ai Romani, nella valle del Balikh, in Alta Mesopotamia: I Parti, distanziati, cominciarono a bersagliare con gli archi i Romani da lontano e da tutte le direzioni simultaneamente, senza dare al tiro un bersaglio preciso: la formazione nemica era tanto densa, che neppure a volerlo si sarebbe potuto mandare il colpo a vuoto. I Parti avevano archi potenti e grandi, curvi in modo da scagliare il proiettile con impeto, e i colpi sibilavano con violenza inaudita. In breve la posizione dei Romani divenne critica: a rimanere fermi nella formazione assunta, c’era da farsi ferire tutti quanti; a tentare lo scontro corpo a corpo, non avrebbero potuto ottenere nulla ugualmente, e avrebbero sofferto un danno uguale, giacché i Parti scagliano i dardi anche in fuga e lo sanno fare meglio di chiunque altro popolo, dopo gli Sciti: ed è una cosa sapientissima, questa, di combattere e intanto salvarsi, e di togliere alla propria fuga il suo aspetto disonorevole.137
Contrariamente a quanto suggerisce il racconto di Plutarco, questo tiro di saturazione non rappresenta un pericolo mortale per chi viene colpito, perché, se lanciati da lontano, con una traiettoria parabolica, i dardi perdono una parte non trascurabile 78
dell’energia accumulata al momento di essere scoccati; la potenza d’impatto è ulteriormente ridotta se il bersaglio non è colpito ad angolo retto. A una simile distanza l’armamento difensivo degli opliti greci e dei legionari romani è senza dubbio in grado di resistere in modo efficace alle nubi di frecce scagliate dai cavalieri arsacidi138. I Parti hanno però anche la possibilità di avvicinarsi a meno di 50 metri dal nemico per eseguire un tiro diretto. La manovra è più rischiosa perché i cavalieri si trovano in balia dei giavellotti nemici, ma permette di trafiggere facilmente uno scudo e infliggere colpi offensivi perfino mortali139. Un rilievo in terracotta conservato a Berlino (Museum für Islamische Kunst) mostra un cavaliere partico nell’atto di tirare una freccia in linea retta: la mano sinistra del cavaliere tiene allo stesso tempo l’impugnatura dell’arco e alcune frecce di riserva, mentre la mano destra tende l’arma fino all’orecchio destro. Come rivelano gli esperimenti condotti dall’esperto di ricostruzioni storiche ungherese Lajos Kassai, tale metodo permette di ottenere un’altissima cadenza di tiro in linea retta. Non si riesce a identificare la modalità di impugnatura della corda, ma si tratta probabilmente di una “presa mongola”140. L’effetto immediato delle scariche degli arcieri parti è obbligare il nemico ad adottare una formazione difensiva: i fanti si coprono con gli scudi, sul davanti e al di sopra (è la “testuggine romana”). In assenza di una risposta efficace, la situazione rischia di protrarsi all’infinito, soprattutto se i cavalieri dispongono di un numero quasi illimitato di frecce di riserva (a Carre, gli arcieri a cavallo di Surena erano costantemente riapprovvigionati tramite cammelli)141. Questa pioggia di proiettili ha un effetto catastrofico sul morale delle truppe colpite e può contribuire a creare scompiglio al loro interno, in modo che i catafratti beneficino delle condizioni ideali per intervenire142. La loro modalità di combattimento consiste nell’attaccare in formazione serrata, armati di una lunga picca tenuta con entrambe le mani; se un simile attacco terrificante non basta a mettere in fuga l’avversario, lo obbliga almeno ad abbandonare la formazione compatta per difendersi liberamente, facilitando così il lavoro degli arcieri a cavallo143. Lo scenario più diffuso implica un’alternanaza di cariche e ritirate dei cavalieri 79
corazzati fino a sfondare la linea avversaria. Lo scontro vero e proprio è più raro, soprattutto contro fanterie disciplinate, determinate a resistere. Da questo punto di vista mi rifiuto di concordare con William Tarn e Mariusz Mielczarek, quando affermano che le cavallerie catafratte nascono per permettere alle truppe montate di attaccare frontalmente le falangi greco-macedoni144. L’azione coordinata di arcieri e lancieri implica una disposizione particolare, atta a facilitare l’accerchiamento e gli attacchi alternati. Le fonti non ci permettono di cogliere i dettagli di un simile dispositivo tattico. Per l’assedio di Phraaspa del 36 a.C., Plutarco si limita a precisare che la cavalleria partica si dispone “a mezzaluna” (mēnoeidēs taxis), con le ali avanzate e il centro coperto145. In questo dispositivo gli arcieri montati, dotati di maggiore mobilità, occupano probabilmente le ali, mentre i catafratti sono schierati al centro, come suggerisce l’episodio dello scontro secondario che contrappone, a Carre, le truppe distaccate di Publio Crasso e la cavalleria partica: i catafratti sono disposti di fronte ai Romani, mentre gli altri cavalieri si sparpagliano intorno a loro in formazione irregolare (atakton)146. Bisogna immaginare cavalieri armati alla leggera riversarsi in sciami (tattica dello swarming) contro i fianchi e le retrovie romane, mentre gli squadroni di lancieri corazzati mantengono il regolare ordine di battaglia e attaccano i Romani di fronte. La flessibilità tattica non è l’unico vantaggio delle truppe arsacidiche; anche le migliorie apportate all’armamento sembrano rivestire un ruolo notevole nei successi ottenuti dai Parti su Seleucidi e Romani. Il periodo coincide in effetti con la diffusione di un nuovo modello di arco composito, d’ispirazione nomade: l’arco “unno”147. Un esemplare quasi completo è stato rinvenuto in una tomba della necropoli di Yrzi presso Baghouz148 sull’Eufrate. Si tratta di un arco asimmetrico, relativamente grande (127 cm) rispetto agli archi achemenidi o sciti, con estensioni in osso, finora sconosciute nel Vicino Oriente149, cha apportano un effetto di leva al momento di scoccare la freccia in modo da aumentare la potenza del tiro. È difficile stabile se questo tipo di arco fosse molto diffuso. Frank Brown ha fatto notare che gli archi visibili nelle 80
raffigurazioni di cavalieri parti o sulle monete arsacidiche sono in genere più piccoli e più simili al vecchio tipo scitico150. Anche se Plutarco e Cassio Dione affermano che gli archi utilizzati a Carre fossero molto potenti e di grandi dimensioni, resta difficile valutare in che misura si tratti di un’esagerazione retrospettiva da parte di autori influenzati dal tragico esito della campagna151. Due punti riguardanti l’equipaggiamento dei catafratti meritano di essere approfonditi. Innanzitutto, contrariamente ai loro predecessori achemenidi e seleucidi, i Parti utilizzano selle rigide. Roman Ghirshman e Georgina Herrmann collegano la diffusione in Iran di questo accessorio ai bisogni specifici della cavalleria pesante152. Scavi recenti nella cittadella di Nisa vecchia fondata da Mitridate I (171-139/8 a.C.) confermano che i Parti le conoscevano da tempo: una pittura murale scoperta in uno degli edifici (“il tempio-torre”) raffigura dei cavalieri, alcuni dei quali sembrano in effetti muniti di selle153. Nessuna sorpresa: abbiamo già potuto osservare che i nomadi dell’Asia centrale utilizzavano la sella almeno dall’viii secolo. Le popolazioni insediatesi nella valle dell’Oxos in epoca achemenide usavano probabilmente un modello simile ai reperti di Pazyryk, con due arcate rigide davanti e dietro la seduta154, ripreso probabilmente da Dahi e Parti prima di adottare una sella “a corna” simile alle selle celtiche che fanno la loro apparizione in Europa occidentale nel i secolo a.C.155. È difficile stabilire se gli esemplari orientali ed europei derivino da uno stesso archetipo o se uno si ispiri all’altro; resta però certo che questo tipo di sella permetteva ai lancieri corazzati di combattere con maggiore sicurezza156. L’altro punto notevole riguarda l’armatura dei catafratti. Le poche testimonianze a riguardo indicano un’evoluzione rispetto all’epoca achemenide, in cui si osservano le prime tracce di un appesantimento dell’equipaggiamento dei cavalieri. Le diverse parti che proteggono il combattente e il suo destriero formano un insieme composito, come mostrano i rilievi di Tang-e Sarvak (fine ii-inizio iii secolo d.C.) (fig. 10) e un famoso graffito di Dura Europos (prima metà del iii secolo d.C.) (fig. 11)157. Si può notare l’utilizzo di placche e scaglie in metallo, di tessuti a maglie più 81
10. Catafratto parto, rilievo rupestre di Tang-e Sarvak, fine II-inizio III secolo d.C. Fonte Mielczarek 1993, 123, fig. 9
11. Catafratto-clibanarius, graffito di Dura Europos, prima metà del III secolo. Fonte Eadie 1967, Tav. xi.2
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flessibili delle protezioni lamellari. Anche il cavallo è bardato per mezzo di una gualdrappa coperta di scaglie. Due esemplari tardi di questo tipo di armatura sono stati rinvenuti a Dura Europos158. In un frammento poco citato dei Parthica (narrazione dedicata alla guerra partica di Traiano), Arriano descrive con precisione l’armamentario dei catafratti arsacidi159. La loro corazza ricopre sul davanti il petto, le gambe, le braccia fino alla punta delle dita; sul retro la schiena, la nuca e tutta la testa, dettaglio che suggerisce l’utilizzo di visiere a maschera in metallo. Fermagli posti sui fianchi permettono di legare i due lati dell’armatura. L’insieme è talmente rigido che bisogna fabbricare un’armatura su misura per ogni cavaliere. Anche i cavalli sono interamente ricoperti di ferro “fino agli zoccoli” (mechri tōn onuchōn).
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Capitolo 5
Roma: gli equites Romani e la cavalleria ausiliaria I diversi esempi storici illustrati in queste pagine mostrano che le forze di cavalleria hanno iniziato a diffondersi nel mondo mediterraneo fin dall’inizio del i millennio a.C. L’Italia preromana sembra anch’essa coinvolta da questo movimento: le prime rappresentazioni iconografiche di cavalieri nella penisola risalgono all’viii secolo a.C.1, ma bisogna attendere la fine del vi secolo perché il cavallo sostituisca davvero il carro come simbolo di status dell’aristocrazia guerriera2. Le élite equestri sono particolarmente potenti in Etruria3 e in alcune colonie della Magna Grecia (Sibari, Cuma, Reggio) in cui gli hippobotai (“allevatori di cavalli”) sono riusciti a imporre un potere di natura oligarchica4, ma sono attestate anche in Italia centrale e rivestono forse fin da subito un ruolo politico e militare importante a Roma. La tradizione romana del combattimento di cavalleria La Roma arcaica è un caso tipico di città-Stato dominata da un’aristocrazia equestre5. La tradizione antiquaria fa risalire l’origine della cavalleria romana al regno di Romolo e riferisce i successivi ampliamenti del corpo durante la monarchia, con un’importante evoluzione al momento della cosiddetta costituzione serviana6. Nella nuova organizzazione censitaria attribuita a Servio Tullio, il corpo di cittadini reclutabili, cioè di uomini liberi abbastanza ricchi da possedere il proprio equipaggiamento e partecipare alle attività belliche della città, è suddiviso in cinque classi. I cavalieri, che ammontano a circa 2.400 individui7, costituiscono la prima classe, la più prestigiosa: sono gli equites Romani equo publico, così chiamati 85
perché la loro cavalcatura è finanziata da una tassa pubblica, l’aes equestre8. I cittadini delle rimanenti quattro classi censitarie servono invece nella fanteria. Oggi sappiamo che questo sistema non risale davvero al vi secolo a.C.: alcuni elementi della “costituzione” descritta da autori della fine dell’età repubblicana riflettono realtà più tarde, a volte perfino posteriori al iv secolo a.C.9. Ma ciò non inficia l’informazione essenziale veicolata dalle fonti letterarie e confermata dall’archeologia, ovvero l’esistenza a Roma, fin dall’epoca monarchica, di un’élite equestre, probabilmente costituita da giovani patrizi10. L’ipotesi che, dalla fine del v secolo, esistesse una seconda categoria di equites meno abbienti, privi di cavallo pubblico, è stata avanzata da Claude Nicolet. Narrando l’assedio di Veio (403 a.C.), Tito Livio sottolinea in effetti che alcuni cavalieri romani che non dispongono dell’equus publicus si arruolano nell’esercito romano equis suis, “con il proprio cavallo”11. Ma il senso del passaggio resta poco chiaro. Contro la tesi di Nicolet, Patrick Marchetti ritiene che fossero cittadini in possesso delle qualifiche necessarie per servire nell’ordo equester, ma non ancora arruolati12. L’esatta funzione militare dell’equitatus arcaico resta problematica e dà ancora adito a polemiche. Come per la Grecia di viii-vi secolo, ci si chiede se i cavalli servissero solo come mezzi di trasporto o fossero utilizzati per la battaglia. Notizie letterarie e dati archeologici relativi all’alta età repubblicana rivelano in effetti che a volte i cavalieri romani scendevano da cavallo per combattere al suolo13. Queste testimonianze hanno portato l’archeologo tedesco Wolfgang Helbig, all’inizio del xx secolo, a ipotizzare che gli equites non fossero altro che “opliti a cavallo”14. Ancora di recente, Myles Mc Donnell ha potuto sostenere che a Roma il vero combattimento di cavalleria sorse solo dopo la seconda metà del iv secolo, al momento della censura di Quinto Fabio Rulliano (304 a.C.) e dell’istituzione della transvectio equitum15. Ma molti studiosi hanno contrapposto a questa teoria argomenti convincenti16. Una prima obiezione viene dal buonsenso: abbiamo visto che forze di cavalleria sono attestate in Europa fin dall’inizio dell’età del Ferro e in Grecia l’esistenza di combattenti a cavallo è corroborata da testimonianze iconografiche risalenti al più tardi al vi secolo a.C., 86
per non parlare delle fonti letterarie che ne menzionano i fatti d’armi fin dall’viii secolo a.C. Perché quindi la situazione avrebbe dovuto essere diversa nella parte centrale dell’Italia, che pure era in contatto con culture militari elleniche grazie alla mediazione delle colonie della Magna Grecia17? Una datazione tarda dello sviluppo del combattimento di cavalleria a Roma appare ancor più sorprendente dal momento che esistono prove difficilmente contestabili della presenza, già nel vi secolo, di forze di cavalleria autonome in Campania e in Etruria18. Naturalmente non bisogna prestare troppa fede alle narrazioni militari sulle epoche più antiche. La prima decade di Livio trasmette, sulle battaglie di età arcaica, informazioni ben poco sicure19; in particolare, è accordato un ruolo decisivo ai cavalieri romani, spesso presentati vittoriosi contro le forze di fanteria nemiche20. Secondo Wolfgang Helbig, l’eventualità che truppe montate abbiano potuto, da sole, avere la meglio sulle falangi per mezzo di attacchi frontali sarebbe stata un’invenzione letteraria21: gli annalisti avrebbero deformato una tradizione che attribuiva un ruolo tattico preminente ad aristocratici che combattevano in realtà come opliti: poiché i patrizi usavano i cavalli per spostarsi era facile confonderli con autentici cavalieri22. L’intera dimostrazione si fonda però su un presupposto arbitrario secondo il quale, nell’Antichità, nessuna cavalleria sarebbe stata capace di piegare una forza di fanteria compatta, postulato che è ovviamente contraddetto da numerosi esempi storici. Helbig scriveva in un’epoca in cui le capacità dei cavalieri antichi erano ancora sottovalutate e partiva dal presupposto che una carica di cavalleria fosse necessariamente una realtà fisica, quando invece anche la semplice minaccia dell’urto poteva bastare a sfaldare una massa di fanti23. Del resto, parte della comunità scientifica ritiene oggi, non senza solidi argomenti, che i Romani non adottarono mai la falange oplitica di tipo greco24, perciò non si capisce come questa formazione tattica avrebbe potuto allontanare i cavalieri dai campi di battaglia italici. Se esaminiamo più nel dettaglio la narrazione liviana prestando attenzione alle azioni dell’equitatus, appare evidente che alcuni 87
elementi non concordano con la teoria dello studioso tedesco e che le élite equestri della Roma dei primi secoli potevano benissimo agire come una vera e propria forza di cavalleria. Tito Livio descrive infatti manovre incompatibili con il combattimento falangitico (fig. 12): 1) gli equites attaccano nella prima linea dello schieramento, facendo schermo alla fanteria romana, e cercano così di spezzare l’esercito avversario25; 2) se il primo attacco si rivela infruttuoso, si ritirano tra gli intervalli dei fanti26; 3) con una manovra avvolgente possono allora cercare di accerchiare l’esercito nemico o attaccarlo da dietro mentre le forze di fanteria danno inizio al combattimento27; 4) per finire, quando le truppe nemiche si disperdono, i cavalieri sono incaricati di inseguirle per massacrarle28. Partire dal presupposto che queste manovre fossero eseguite da opliti a cavallo significherebbe ipotizzare che i Romani utilizzassero varie falangi una dopo l’altra e non esitassero a fare combattere i loro cavalieri in condizione di netta inferiorità numerica. Bisognerebbe inoltre immaginare una tecnica di inseguimento quanto meno scomoda, in cui i cavalieri si spostano a cavallo ma smontano per uccidere i fuggitivi, bardati con un equipaggiamento pesante – davvero una situazione senza senso.
12. Ricostruzione schematica dello schieramento della cavalleria romana in epoca arcaica secondo Tito Livio
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Le fonti usate dagli annalisti si riferivano davvero a combattimenti di cavalleria; il problema è sapere se alcuni elementi anacronistici sono confluiti nelle narrazioni giunte fino a noi. Potremmo supporre che Tito Livio, nel suo lavoro di ricostruzione narrativa, sovrapponesse al passato realtà successive, utilizzando quindi in modo artificiale una descrizione topica di combattimento di cavalleria valida per gli ultimi anni della Repubblica. Ma lo schema narrativo che abbiamo evocato per le battaglie arcaiche comprende elementi estremamente peculiari: la tattica che consiste nell’ordinare alla cavalleria di attaccare la fanteria frontalmente per aprire delle brecce nella linea di battaglia non è mai menzionata nei resoconti tardorepubblicani, dato che suggerisce l’esistenza di una tradizione gentilizia che sicuramente voleva assegnare il ruolo migliore alle élite equestri, ma conteneva anche indicazioni realistiche sulla funzione degli equites29. Tale tradizione ha forse perpetuato la memoria di specifiche istruzioni. In ogni caso, questi elementi non sembrano compatibili con l’idea di un equitatus romano completamente composto da opliti. Un’annotazione di Polibio lascia intendere al contrario che, in questo periodo, i cavalieri romani, prima di adottare un equipaggiamento militare greco, erano armati alla leggera30. E uno dei primi soprannomi degli equites, ferentarii, ha la stessa connotazione31. Questa cavalleria autonoma è attestata ininterrottamente per l’epoca arcaica e l’arrivo di formazioni compatte di fanteria pesante non ha sicuramente portato alla sua scomparsa32. L’Ineditum Vaticanum viene regolarmente citato in sostegno della tesi che nega l’esistenza di una vera cavalleria romana prima della fine del iv secolo. Il manoscritto, che riporta una serie di apoftegmata risalenti a un anonimo autore greco (forse Timeo di Tauromenio, storico del iii secolo a.C., secondo la recente ipotesi di Michel Humm)33, riferisce il discorso rivolto da un certo Kaeso a un ambasciatore cartaginese nel 264 a.C., poco tempo dopo lo sbarco del primo corpo di spedizione romano in Sicilia. All’inviato di Cartagine che vanta la superiorità marittima del suo popolo, Kaeso avrebbe risposto che i Romani sono eccellenti allievi e hanno sempre saputo superare i propri maestri: 89
Imitiamo le azioni degli avversari e superiamo in costumi stranieri coloro che li praticavano da tempo. In effetti i Tirrenici ci muovevano guerra combattendo con scudi in bronzo e in falangi, non in manipoli; e noi, modificato l’equipaggiamento e adottate le loro armi, combattendo secondo quelle modalità, sconfiggevamo loro che erano ben abituati al combattimento in falange. Lo scutum sannitico non era una nostra arma tipica e non possedevamo il pilum, ma combattevamo con scudi tondi e lance; né eravamo capaci di combattere a cavallo, ma tutta la forza di Roma, o perlomeno la maggior parte, risiedeva nella fanteria (οὐδ’ ἱππεύειν ἰσχύομεν, τὸ δὲ πᾶν ἢ τὸ πλεῖστον τῆς Ῥωμαικῆς δυνάμεως πεζὸν ἦν). Ma quando entrammo in guerra contro i Sanniti, prendendo come armi il loro scutum e il loro pilum e sforzandoci di combattere a cavallo (ἱππεύειν τε αὑτοὺς ἀναγκάσαντες), con armi straniere ed emulazione riducemmo in schiavitù loro che erano pieni d’orgoglio.34
Basandosi su questo testo, Helbig conclude che i “Romani organizzarono per la prima volta una vera cavalleria” al tempo delle guerre sannitiche35, ma la sua interpretazione pare davvero eccessiva. Il verbo ischuō, seguito da infinito, può significare “essere capace di” o “essere forte” in un campo. Qui l’autore dell’apoftegma si limita a dire che i Romani “erano deboli” in materia di cavalleria perché tutta la forza dell’esercito – o quasi – risiedeva nella fanteria. La sfumatura introdotta da ē to pleiston conferma che anche prima delle guerre sannitiche esisteva una forza distinta dalla fanteria, un’autentica cavalleria, i cui effettivi erano però sicuramente limitati. Si noti che il testo tratta le modalità di combattimento e non lo status sociale delle forze che componevano l’esercito romano: hippeuein può quindi riferirsi solo a un corpo di truppa che combatte a cavallo. In una recensione dei lavori di Helbig pubblicata nel 1907, Edmund Lammert non sbagliava a proporre di vedere in questo estratto il segno di un aumento del numero di cavalieri romani alla fine del iv secolo36. L’ipotesi è confermata da altre testimonianze che lasciano intravedere nella stessa epoca un’importante riforma dell’equitatus. Sappiamo infatti che il sistema delle centurie equestri fu ufficializzato solo nel 312 a.C., durante la censura di Appio Claudio Cieco37. 90
Con questa trasformazione il numero di equites sarebbe triplicato, passando dalle sei centurie patrizie arcaiche a un nuovo effettivo di diciotto centurie, per un totale di 1.800 o 2.400 cavalieri, senza contare l’apporto degli equites Campani, recentemente integrati nell’esercito della Repubblica romana38. Nello stesso anno si svolse la prima recognitio equitum, l’ispezione che permetteva al censore di tenere aggiornata la lista di cavalieri romani39. La transvectio equitum, la grande parata annuale dei cavalieri dentro le mura della città, sarebbe invece stata istituita nel 304 a.C. per celebrare l’identità collettiva del nuovo equitatus aperto anche alla plebe abbiente40. Lasciamo ora la storia istituzionale per concentrarci sull’utilizzo militare di questa cavalleria nelle narrazioni successive. A partire dalla battaglia di Sentinum (295 a.C.), l’opera di Tito Livio diventa più affidabile e permette analisi circostanziate41. Purtroppo i libri dall’XI al XX sono perduti, bisogna quindi aspettare la seconda guerra punica per vedere riaffiorare la cavalleria romana nell’opera liviana. Polibio, Dionigi di Alicarnasso e Plutarco permettono in parte di colmare questa lacuna. In tutte le narrazioni, gli equites Romani partecipano a combattimenti collettivi, ma anche a duelli che li contrappongono a comandanti nemici42. Vari aspetti singolari caratterizzano il loro stile di combattimento. Innanzitutto notiamo una chiara predilezione per il corpo a corpo. Come ha dimostrato Jeremiah McCall, l’ethos aristocratico romano valorizza l’attacco frontale e il combattimento con la lancia43; si fonda su un valore marziale supremo, la virtus, qualità virile per eccellenza che, nell’accezione più antica, qualifica il coraggio aggressivo del combattente eroico, il quale trionfa fisicamente sull’avversario in uno scontro frontale che si conclude generalmente con l’ottenimento delle spoglie e della testa dello sconfitto44. Il combattimento di cavalleria è quindi inteso come una prova individuale in cui si verifica l’onore dell’aristocratico e che non può, in teoria, concludersi con la fuga45. C’è in questa visione una forte tensione all’azione morale, ma anche un ostacolo alla comparsa di una dottrina tattica collettiva. L’altra grande caratteristica della modalità di combattimento degli equites è una conseguenza di quanto descritto: poiché considerano la ritirata un atto vergognoso, i cavalieri romani tendono 91
spesso a scendere da cavallo per proseguire il combattimento a piedi, soprattutto se il nemico non arretra. Non bisogna travisare: il procedimento non denota affatto una carenza nelle tecniche di equitazione romane46, ma si spiega attraverso considerazioni psicologiche – il rifiuto di ritirarsi – e soprattutto pratiche – il cavallo non costituisce una piattaforma sicura per un combattimento statico47. C’è una notevole differenza rispetto alla dottrina collettiva delle cavallerie greche e il contrasto è particolarmente evidente durante la battaglia di Ausculum che contrappone, nel 279 a.C., l’esercito romano di Publio Decio Mure e quello di Pirro re dell’Epiro48. La cavalleria romana spera di sferrare un combattimento corpo a corpo, mentre la cavalleria greca vuole privilegiare “attacchi avvolgenti (perielaseis) e contromarce (exeligmoi)”, cioè un combattimento mobile di lanciatori di giavellotti49. Consapevoli delle intenzioni dell’avversario, i Romani tentano di costringerlo al corpo a corpo attraverso una falsa fuga. Quando i cavalieri greci si lanciano all’inseguimento, gli equites Romani fanno bruscamente dietro-front con i cavalli e smontano per combattere a piedi50. Ma lo stratagemma si rivela fallimentare perché, vedendo che i nemici non arretrano, le truppe di Pirro si dirigono verso la destra e si riorganizzano nelle retrovie per attaccare di nuovo51. Informazioni convergenti sono fornite da Polibio e Tito Livio per le battaglie del Ticino (218 a.C.), di Canne (216 a.C.) e di Athacus (199 a.C.), prova che nel corso del iii secolo a.C. le modalità di utilizzo della cavalleria romana non subiscono cambiamenti fondamentali. A Canne, gli equites Romani sono confrontati ai cavalieri celti e iberi di Annibale52: invece di ritirarsi per tornare poi alla carica “come prevede l’uso”, smontano dai cavalli e danno il via al combattimento corpo a corpo con il nemico53. I Cartaginesi hanno però la meglio e i Romani sono inseguiti senza pietà. La stessa tattica viene utilizzata con maggior successo da Publio Sulpicio Galba contro la cavalleria di Filippo V di Macedonia nel 199 a.C.: I soldati regi si immaginavano che il combattimento si sarebbe svolto nel modo in cui erano avvezzi: cariche della cavalleria alternate a improvvise finte di fuga, ora facendo uso delle armi ora voltando le 92
spalle […]. Tutto questo sistema di combattimento andò sconvolto dall’attacco dei Romani non meno vigoroso che insistente: come se tutto l’esercito fosse impegnato, i veliti dal canto loro, dopo aver scagliato le aste, venivano subito al corpo a corpo con le spade, e la cavalleria, dall’altro, venuta a contatto con il nemico, fermati i cavalli, o combatteva stando in sella o appiedata si univa alla fanteria. Perciò i cavalieri del re, che non sapevano combattere a pie’ fermo, erano nettamente inferiori ai Romani.54
Gli autori antichi concordano quindi nell’affermare che gli equites Romani cercavano strenuamente il corpo a corpo. Si tratta di un topos, forse derivante dalla letteratura greca, probabilmente in origine con connotazione negativa55. Questo non significa che i Romani fossero incapaci di progettare un piano d’insieme sofisticato, attinente a ciò che oggi definiremmo la “grande tattica”. Nella battaglia del Ticino (218 a.C.) vediamo per la prima volta la cavalleria romana disporsi su due linee56; una prima linea è costituita da giavellottisti e cavalieri galli, segue il resto dell’esercito – Romani e alleati italici che Tito Livio descrive più avanti come un confertus equitatus (una “cavalleria in ordine serrato”) – formando una linea di riserva verso cui le truppe di prima linea possono ritirarsi, se messe in fuga dalla cavalleria numidica di Annibale57. Altri esempi rivelano che le modalità di combattimento dei Romani non sono sempre statiche. Pur sforzandosi, per quanto possibile, di non cedere mai terreno, gli equites sono a volte costretti a prestarsi al gioco del gatto e il topo. Nella battaglia di Sentinum (295 a.C.), Tito Livio menziona in effetti varie cariche successive che mettono in fuga la cavalleria romana, nonostante la sua audacia58. Lo stesso accade durante la battaglia di Ilipa nel 206 a.C.: il combattimento di cavalleria che si verifica tra linea romana e linea cartaginese è a lungo indeciso perché le truppe a cavallo di entrambi i campi si respingono a vicenda59. Questi esempi portano a ridimensionare l’immagine caricaturale talvolta associata all’equitatus civico nella letteratura scientifica moderna e lasciano inoltre intravedere meccanismi tattici che diventeranno in seguito caratteristici del combattimento di cavalleria 93
nel mondo romano. Notiamo però che a Sentinum e Ilipa attacchi e contrattacchi non sono esplicitamente integrati in una logica di combattimento basata sulla scaramuccia. I Romani non praticano ancora gli attacchi avvolgenti dei lanciatori di giavellotto greci, ma sono lancieri che combattono in squadroni compatti. In effetti, diverse testimonianze suggeriscono che nel iii secolo a.C. la turma di 30 soldati non è ancora l’unità tattica della cavalleria civica. Le centurie censitarie della classe equestre sono probabilmente anche unità combattenti60. Nel descrivere la transvectio equitum, Dionigi di Alicarnasso dichiara che i cavalieri sfilano “disposti per tribù (phulai) e per centurie (lochoi) […] come se tornassero dalla battaglia”61, analogia che lascia immaginare l’esistenza di unità tattiche di un centinaio di combattenti, non molto funzionali in caso di manovre di disturbo che necessitavano la frammentazione degli effettivi in piccoli gruppi mobili. L’adozione delle tecniche di scaramuccia e l’emergere della guerriglia di cavalleria Nel corso della seconda guerra punica (218-202 a.C.), la cavalleria romana non pratica ancora il combattimento a distanza nel modo delle cavallerie ellenistiche: la modalità operativa privilegiata resta l’attacco frontale. Contro i cavalieri numidi che combattono come i tiratori siracusani e i giavellottisti tarentini di Pirro, gli equites Romani si scagliano in avanti, brandendo la lancia, senza temere di esporsi ai proiettili nemici. Nelle scaramucce tra truppe montate, la tecnica permette a volte di respingere i Numidi fino alle loro fortificazioni62, ma nelle battaglie campali si rivela poco efficace perché i cavalieri romani sono in netta inferiorità numerica63; non possono contare sull’aiuto di una cavalleria leggera per compiere rapide manovre di accerchiamento né per inseguire al galoppo squadroni nemici in rotta. L’attacco in squadroni compatti consente al massimo di conseguire obiettivi tattici limitati, ma si dimostra insufficiente sul piano della grande tattica. La superiorità cartaginese in quest’ambito balza agli occhi64. Sul Ticino (218 a.C.), 94
sulla Trebbia (218 a.C.) e a Canne (216 a.C.), i cavalieri romani sono annientati da truppe montate più numerose e flessibili. Le manovre di accerchiamento compiute dalla cavalleria di Annibale hanno un ruolo cruciale nell’esito degli scontri65. Bisogna aspettare l’integrazione, negli ultimi anni di guerra, di ausiliari africani abituati alle scaramucce per vedere la Repubblica tornare in vantaggio in aperta campagna. Nella battaglia dei Campi Magni (203 a.C.), un assalto coordinato di equitatus italico e cavalleria numida di Massinissa contro le ali dell’esercito cartaginese assegna la vittoria ai Romani66. L’anno successivo, la battaglia di Zama (202 a.C.) è vinta da Scipione grazie all’intervento degli stessi ausiliari numidi contro le retrovie dell’esercito punico67. Gli autori antichi hanno colto il ruolo tattico decisivo rivestito dalla cavalleria durante la seconda guerra punica. Alla fine della narrazione della battaglia di Canne, Polibio insiste sugli insegnamenti che si possono trarre dalla grande sconfitta romana: “Fu la massa dei cavalieri, quella volta come in precedenza, a recare il massimo contributo alla vittoria dei Cartaginesi. E risultò evidente per i posteri che in tempo di guerra è meglio avere la metà dei fanti rispetto ai nemici e un’assoluta superiorità nella cavalleria, piuttosto che affrontare la battaglia con tutte le forze più o meno uguali a quelle dei nemici”68. Saremmo perfino tentati di spingerci oltre: durante la spedizione punica in Italia, la superiorità assicurata ad Annibale dalla cavalleria non è importante solo sul piano tattico, ma ha anche importanti conseguenze strategiche. Già nel 217 a.C. i Romani, inferiori in cavalleria, capiscono che è inutile cercare di ottenere la vittoria in uno scontro campale69. Seguendo il dittatore Quinto Fabio Massimo, decidono di adottare una strategia di difesa mobile, simile a quella di Pericle durante la guerra del Peloponneso. Gli eserciti consolari non sono più utilizzati in terreno aperto, ma cavalleria e fanteria leggera vengono puntualmente distaccate per disturbare i foraggieri avversari70. Poiché è impossibile sconfiggere il nemico in uno scontro risolutivo, bisogna che soccomba da sé, cadendo durante l’approvvigionamento. I senatori non vedono di buon occhio queste azioni che mettono in discussione le abitudini tradizionali. Una fazione influente si 95
raccoglie intorno al magister equitum Marco Minucio Rufo, che caldeggia il mantenimento di una strategia aggressiva, conforme all’etica “cavalleresca” della virtus71. Come suggeriscono i lavori di Everett Wheeler e François Cadiou, questa svolta non deve essere troppo enfatizzata72. La cultura militare romana non è completamente impermeabile a processi tipici della guerriglia e imboscate e stratagemmi sono attestati già molto prima della seconda guerra punica73. Come nel mondo greco la mētis (“l’astuzia”)è considerata qualità costitutiva del buon comandante; la sollertia, il consilium e la prudentia sono caratteristiche connotate positivamente a Roma74. Bisogna però riconoscere che, nella Repubblica, le vittorie in battaglie campali sono molto apprezzate dalle élite dirigenti75. Le strutture collettive e temporanee del potere sono favorevoli alla ricerca di “grandi vittorie” e l’ethos aristocratico è carico di un ideale di virtus che non è solo una parola d’ordine76. La scelta di una strategia difensiva, fondata esclusivamente su azioni di disturbo, obbliga la cavalleria romana a partecipare a operazioni (imboscate, attacchi notturni, raid contro carichi di rifornimenti) in cui non trova, o trova solo in parte, una valorizzazione simbolica, problema ben riassunto da Paul Vigneron: “A un esercito abituato a cercare lo scontro in ogni caso, Fabio Cunctator imponeva marce e contromarce, imboscate e colpi di mano. A dei cavalieri avidi di attacchi brillanti e tornei equestri affidava una missione degna al massimo dei popoli sciti: girare intorno all’avversario e disturbarlo”77. Queste nuove missioni sono accompagnate da modifiche tattiche? La cavalleria romana ha infine adottato le modalità di combattimento dei giavellotisti greci? L’ipotesi è stata avanzata, ma non troviamo nessun indizio di un cambiamento simile durante la seconda guerra punica78. Nelle scaramucce che precedono la battaglia di Ilipa (206 a.C.), i cavalieri romani smontano sempre per affrontare la cavalleria numida79 e l’esempio precedentemente citato della battaglia di Athacus suggerisce che, all’epoca della seconda guerra macedonica, la tattica privilegiata era ancora quella d’urto. In tutto questo periodo, a quanto pare, i Romani si accontentano di espedienti negli scontri con le cavallerie leggere avversarie. Durante 96
l’assedio di Capua del 211 a.C., per respingere gli assalti della potente cavalleria campana, gli equites romani prendono ad esempio in groppa veliti armati con giavellotti, uno per cavaliere. Una volta arrivati in prossimità del nemico, i lanciatori di giavellotto saltano a terra e scaricano i loro proiettili sulla cavalleria nemica che, in pieno scompiglio, è attaccata con successo dagli equites80. Questa tecnica permette di compensare temporaneamente la limitata potenza di fuoco della cavalleria repubblicana81, ma i Romani, probabilmente spinti da una situazione ormai troppo squilibrata, decidono di riformare profondamente il loro modo di combattere. La riforma avvenne tra l’inizio del ii secolo a.C. e la terza guerra punica (149-146 a.C.). Le nuove tecniche di combattimento adottate dagli equites sono chiaramente di ispirazione greca e potrebbero essere un calco del modello etolico: i cavalieri della lega etolica, che combatterono a fianco dei Romani nella seconda guerra macedonica (200-197 a.C.), poi contro di loro nella guerra di Antioco (192188 a.C.), formavano in effetti squadroni flessibili di trenta soldati, molto efficaci nelle scaramucce82. Ma non si possono escludere altre fonti di ispirazione (la cavalleria achea?). Nella sua opera storica, Appiano associa per due volte la nuova modalità di schieramento a Scipione Emiliano, personaggio di cui è noto lo stretto rapporto con Polibio, ipparco della lega achea – il generale romano potrebbe verosimilmente essere all’origine della riforma83. Concretamente i cavalieri romani abbandonano l’attacco compatto in favore di una modalità di combattimento più fluido, basata sulla ripetizione di attacchi avvolgenti. La lancia non viene più usata per il corpo a corpo ma come arma da getto. La nuova meccanica dell’assalto ricorda le descrizioni di Senofonte e Dionigi di Alicarnasso. Ecco la presentazione che ne dà Appiano in occasione dello scontro tra la cavalleria civica e le truppe di Asdrubale il Beotarca, in un luogo indefinito tra Cartagine e Neferis nell’autunno del 149 a.C.: Scipione divise in due gruppi i trecento cavalieri che erano ai suoi ordini e tutti quelli che era riuscito a riunire, poi marciò contro il nemico a passo di corsa: a turno ogni divisione lanciava i giavellotti e si ritirava immediatamente, poi caricava di nuovo in avanti e si 97
ritirava subito. Aveva ordinato ai soldati di agire in questo modo: ogni metà doveva attaccare, sempre a turno, e dopo aver lanciato i proiettili doveva ritirarsi girando come in un cerchio.84
Appiano descrive un gruppo di cavalieri romani schierati su due linee (due “metà”): ogni linea attacca alternatamente, lancia i propri dardi, poi ripiega dietro l’altra (fig. 13). L’esercizio presuppone quindi intervalli tra le formazioni tattiche, qui chiamate merē. Non è difficile intuire chi si nasconde dietro questa espressione: nel capitolo 101 del Libro punico, Appiano precisa che Scipione, in qualità di tribuno militare, aveva ai suoi ordini dieci squadroni (ilai). Dieci squadroni per un totale di trecento soldati significa formazioni tattiche di trenta cavalieri. Si tratta della prima attestazione dell’organizzazione in turmae in una narrazione di battaglia. L’abbandono della divisione in centurie è confermato da Polibio che, nelle Storie, trattando della stessa epoca, descrive con queste parole le unità tattiche dei romani: In questo modo analogo distribuiscono [in ogni legione] anche i cavalieri in dieci squadroni (ilai); da ciascuno di questi scelgono tre comandanti di squadrone (ilarchai) e questi ultimi prendono con sé tre capi di retroguardia (ouragoi). Il comandante di squadrone scelto per primo guida lo squadrone, gli altri due hanno il ruolo di comandanti di decuria (dekadarchoi), e tutti vengono chiamati decurioni (dekouriōnes). Quando il primo non è presente, il secondo prende il suo posto di comandante di squadrone.85
13. Schieramento della cavalleria romana durante la battaglia di Neferis (149 d.C.) secondo Appiano
98
A metà del ii secolo la cavalleria romana è quindi dotata di una nuova organizzazione più flessibile rispetto al passato. La descrizione polibiana suggerisce uno schieramento su tre file, decurioni in testa e optiones (ouragoi) in coda. Possiamo eventualmente concepire l’utilità di una simile formazione nell’ottica delle scaramucce (a turno ogni fila si distacca dalla formazione?), ma cosa ne è dell’attacco frontale? Ancora alla fine dell’età repubblicana viene occasionalmente utilizzato dai Romani e necessita di un largo fronte per costringere la truppa nemica al corpo a corpo con il massimo impatto psicologico e una concreta efficacia. Per questo motivo sembra più logico pensare che la turma fosse disposta in orizzontale, con tre decurioni che aprivano la marcia, davanti al primo rango, tre ranghi di otto cavalieri e tre optiones che chiudevano la marcia, dietro al terzo rango. La documentazione iconografica corrobora l’ipotesi di uno schieramento di tre decurioni in testa allo squadrone: una moneta coniata nel 96 da Lucio Postumio Albino presenta sul verso tre cavalieri che caricano uno accanto all’altro, con lo scudo tondo caratteristico dei cavalieri romani (la parma equestris) e armati di lancia (ad eccezione del cavaliere situato all’estrema destra della formazione, munito di stendardo)86. Si tratta probabilmente dei tre ufficiali alla testa di una turma civica. Per poter rivestire un ruolo efficace in operazioni di guerriglia e trarre insegnamenti dai fallimenti della seconda guerra punica, la cavalleria romana deve aumentare i propri effettivi. Le fonti permettono di constatare un incremento numerico nel ii e nel i secolo. Nel 218 a.C. gli eserciti consolari sono composti da circa 6.200 cavalieri su un totale di 64.000 fanti87; due secoli dopo, nel 36 a.C., se ci si basa sulle informazioni fornite da Appiano e Tito Livio, queste cifre sono state moltiplicate per sette: l’insieme delle forze di Ottaviano e Antonio ammonta a circa 41.000 cavalieri e 250.000 soldati di fanteria88. Responsabile è il nuovo posto occupato dagli stranieri nella composizione delle forze repubblicane, pratica certo non nuova: i Romani hanno preso molto presto l’abitudine di reclamare truppe ai popoli italici alleati. Se prestiamo fede a Polibio, il contributo dei socii nomenque Latinum comprende una parte importante di combattenti a cavallo89. Ma, soprattutto a 99
partire dalla seconda guerra punica, i Romani cominciano a reclutare un numero crescente di soldati extra-italici, gli auxilia externa, provenienti dai popoli dediticii soggetti ad arruolamento forzato da parte di magistrati superiori delle province o reclamati alle potenze amiche e alleate di Roma nell’ambito degli obblighi fissati dai trattati conclusi con il Senato e il popolo romano90. Nel corso del i secolo a.C. le forze arruolate nell’insieme del bacino mediterraneo fanno seriamente concorrenza alla cavalleria romano-italica. Queste evoluzioni legate alla progressiva espansione dell’imperium romanum si riflettono nella composizione dei corpi di spedizione posti sotto il comando dei grandi imperatores tardorepubblicani: fino alle guerre mitridatiche, i vincoli del sistema censitario basato sulla leva dei giovani aristocratici romani e degli alleati (socii) italici abbastanza ricchi per procurarsi un cavallo mantengono gli effettivi di cavalleria a una proporzione inferiore al 10%91. I casi eccezionali si spiegano con l’apporto di contingenti ausiliari, come a Zama, nel 202, quando i 4.000 cavalieri numidi di Massinissa portano il totale delle forze montate di Scipione Africano al 21% (senza di loro, i combattenti a cavallo sarebbero stati solo il 5,6%)92. Un caso particolare è anche quello delle truppe impegnate in Spagna, in cui la proporzione di cavalieri è spesso superiore93: proprio in questa regione si sperimenta una pratica che consiste nel compensare le carenze dell’arruolamento italico ricorrendo ad auxilia externa, soprattutto per la cavalleria. Con le guerre di Cesare, la proporzione di cavalieri negli eserciti romani si fissa tra il 10 e il 16%94. I generali riescono a mobilitare truppe di dimensioni notevoli: fino a 20.000 cavalieri per la guerra di Filippi nel 42 a.C., aumento che si spiega con l’apertura di nuovi bacini di arruolamento in Spagna, Gallia e Asia. Ma bisogna fare in modo che queste forze risultino utili, perché l’utilizzo di una cavalleria numericamente importante impone considerevoli limitazioni logistiche. A questo punto è importante sottolineare che nel i secolo a.C. i Romani familiarizzano con le vaste operazioni di guerriglia di cavalleria che hanno la funzione, durante una campagna, di fiaccare l’esercito nemico costringendolo ad accettare lo scontro campale in condizioni svantaggiose. Questa tattica, di cui abbiamo notato 100
l’efficacia durante la spedizione di Nicia in Sicilia, va ad arricchire il repertorio strategico della guerra romana in un momento in cui si moltiplicano gli scontri con potenze versate in tale arte. Dalla documentazione emergono tre episodi particolarmente significativi. Tra il 112 e il 105, i Romani si scontrano con la potente cavalleria numida di Giugurta e più volte si trovano presi alla sprovvista in circostanze sfavorevoli, senza potere forzare la battaglia. Le azioni di disturbo dei tiratori africani portano a volte l’esercito romano sull’orlo del disastro (nella battaglia del Muthul del 109 e durante la ritirata di Mario verso i quartieri d’inverno nel 106)95. Ma i Romani si trovano contrapposti per la prima volta a grandi eserciti di cavalleria autonomi soprattutto a metà del i secolo a.C. In Occidente, il capo arverno Vercingetorige mette a punto una strategia estremamente originale per respingere le forze di Giulio Cesare, nel contesto della grande rivolta del 53-52. Quindicimila cavalieri galli ricevono l’ordine di attaccare l’esercito romano in ordine di marcia, impedendogli allo stesso tempo di approvvigionarsi nell’area delle operazioni96. La strategia non ottiene il successo sperato perché Vercingetorige è costretto a rinchiudersi nell’oppidum di Alesia e viene sconfitto nell’estate del 52, ma conosce invece un trionfo stupefacente in Oriente, nella “battaglia” di Carre del giugno del 5397, episodio militare già evocato dal punto di vista partico. Mi limito a ricordare i dati essenziali: quando i due eserciti si incontrano lungo il corso del fiume Balikh, lo squilibrio delle forze è tale che in pochi giorni i Parti riescono ad annientare un contingente di più di 40.000 soldati. I Romani sono incapaci di rispondere a distanza, a causa della mancanza, nel loro esercito, di tiratori in numero sufficiente e sono privati della libertà di movimento dai mobili arcieri arsacidi. Contrariamente a quanto è stato avanzato in alcuni studi moderni, questi episodi non hanno determinato una profonda riforma dello strumento militare romano che rimane invece composto prevalentemente da fanti pesanti e non adotta una dottrina strategica basata sull’utilizzo esclusivo di forze montate. Il rafforzamento della capacità di risposta a distanza, attraverso l’integrazione di importanti contingenti di frombolieri o arcieri appiedati, si dimostra 101
sufficiente per lottare contro le tattiche dei cavalieri parti98. Nel i secolo, tuttavia, alcuni generali romani ricorrono occasionalmente alla guerriglia di cavalleria. Questa alternativa allo scontro diretto permette di evitare i rischi se l’esito di una battaglia campale è troppo incerto, o quando uno dei belligeranti vuole risparmiare le forze99. La peculiarità della guerriglia romana sta nel fatto che non implica vere truppe di cavalleria autonome: i cavalieri sono sempre seguiti da vicino dalla fanteria legionaria, con funzione di base di ripiegamento in caso di sconfitta. Nel 49, durante la campagna di Ilerda (l’attuale Lerida) contro i legati pompeiani Afranio e Petreio, Cesare dimostra come, pur rifiutando una battaglia campale, un esercito romano sia in grado di sconfiggere completamente un corpo di spedizione costituito da varie migliaia di soldati100. La minaccia crescente di squilibrio tattico spiega anche perché la distruzione delle forze di cavalleria avversarie diventi un obiettivo strategico prioritario nelle guerre civili. Molto significativi a riguardo sono gli sforzi di Cesare per compensare la schiacciante superiorità numerica della cavalleria pompeiana nella campagna del 48 in Epiro101. Il nuovo volto della cavalleria romana nel I secolo a.C. Tra la guerra contro Giugurta (112-105 a.C.) e il principato di Augusto (27 a.C.-14 d.C.), la cavalleria civica compare sempre più raramente nelle fonti, fino a scomparire definitivamente dalla documentazione all’inizio dell’era cristiana. Sotto il Principato, gli equites legionis non sono più membri dell’ordine equestre ma fanti promossi per merito, la maggior parte arruolati come volontari. Soprattutto sono meno numerosi che in passato, se crediamo all’effettivo di 120 cavalieri per legione riportato da Flavio Giuseppe per la guerra giudaica (66-73 d.C.)102. Le tappe del procedimento che porta all’abbandono del servizio militare da parte dei più abbienti cittadini romani restano oscure, in mancanza di un numero sufficiente di testimonianze esplicite. Di solito si ritiene che la cavalleria censitaria abbia smesso di esistere all’inizio del i secolo a.C., per effetto della “proletarizzazione” dell’esercito indotta dalle 102
“riforme” di Mario103. Gli equites Romani sarebbero stati sostituiti dalla cavalleria ausiliaria, considerata più efficace sul piano militare104 e, contemporaneamente, i giovani cavalieri romani avrebbero trovato nell’amministrazione della giustizia, nella riscossione delle imposte e nelle attività commerciali fonti alternative di ricchezza e prestigio, che li avrebbero allontanati dalla militia105. Di recente questo schema interpretativo è stato fortemente criticato. Oltre a fare notare che le riforme di Mario sono probabilmente esistite solo nell’immaginazione degli studiosi moderni, François Cadiou è riuscito a dimostrare che l’organizzazione censitaria dell’esercito romano è perdurata fino al principato di Augusto e sarebbe quindi infondato supporre che la cavalleria aristocratica scomparve nei decenni precedenti all’era cristiana106. Viene così rimessa in discussione tutta la tradizionale visione della crisi della Repubblica, l’immagine di un regime che avrebbe vacillato sotto i colpi inferti da eserciti privati, formati da volontari professionisti al servizio delle ambizioni degli imperatores. Le prove dell’esistenza della cavalleria legionaria nel i secolo a.C. sono rare, ma non del tutto assenti dalla documentazione. Il 9 agosto del 48, al momento dello scontro decisivo tra le forze di Pompeo e Cesare a Farsalo, gli autori citano esplicitamente la presenza di cavalieri nel campo pompeiano: Frontino evoca una “grande truppa di cavalieri romani” (magna equitum romanorum manus) e Plutarco parla del “fior fiore di Roma e dell’Italia”107. I cavalieri romani combattono anche a Munda, in Spagna, il 17 marzo del 45. L’anonimo autore del Bellum Hispaniense sottolinea infatti che, sui 30.000 morti del campo pompeiano, 3.000 sono cavalieri romani, “di Roma e della provincia”108. Una cifra simile, rapportata al totale delle vittime, può sembrare esagerata, soprattutto stando a quanto sappiamo sul tasso relativamente debole di mortalità dei cavalieri nelle battaglie antiche, ma il punto essenziale è che i cavalieri combattono ancora negli eserciti repubblicani a metà del i secolo a.C. I sostenitori della scomparsa della cavalleria civica considerano gli esempi di Farsalo e Munda eccezioni che confermano la regola: i cavalieri romani sarebbero stati nuovamente mobilitati in un contesto di guerra civile, ma in realtà non 103
servivano più nell’esercito romano come combattenti a cavallo109. Tuttavia il principio di leva delle élite è ben attestato nelle fonti. Nella primavera del 48, il propretore di Hispania Ulterior Quinto Cassio Longino può infatti organizzare un dilectus (termine latino utilizzato per indicare le abituali operazioni di arruolamento) di equites Romani nei distretti e nelle colonie della sua provincia110. Questo non significa che le condizioni della leva nella cavalleria legionaria siano rimaste immutate e che il profilo dei soldati non abbia subito evoluzioni. Tanto per cominciare possiamo notare che dalla metà del ii secolo a.C. vari autori evocano delle difficoltà nelle operazioni di arruolamento degli equites. Nel 151 i giovani aristocratici cercano di farsi dispensare dal servizio militare adducendo pretesti che “era vergognoso riferire, sconveniente indagare, impossibile respingere”111. Un lettore che disponga di esperienza, anche minima, di equitazione intuirà facilmente quale patologia si cela dietro a questa pudica allusione. Sallustio riferisce che, nel 107, Mario, appena eletto console, dovette far fronte a una penuria simile112. È sempre questione di boni (le élite) e il successivo racconto della campagna africana rivela che fu necessario mettere in atto una procedura differente per arruolare il contingente di cavalieri richiesto113. La leva ispanica citata in precedenza non conosce maggiore successo: gli equites convocati da Longino nel 48 sono terrorizzati all’idea di prestare servizio oltremare, al punto che il governatore accetta di esentarli in cambio di una tassa114. Queste difficoltà rivelano una certa evoluzione delle mentalità e contribuiscono forse a spiegare la rarità di occorrenze di cavalieri che combattono nei ranghi delle legioni durante gli ultimi decenni dell’età repubblicana115. Ma l’evoluzione più importante corrisponde alla comparsa di una nuova categoria di cavalieri legionari, distinta dall’ordine equestre, o almeno questo è quanto possiamo intuire da un passaggio sibillino della prima Filippica (2 settembre 44), in cui Cicerone rimprovera al console Marco Antonio di volere creare una decuria di giudici proveniente dal centurionato, senza tenere conto dei criteri censitari abituali che permettevano di accedere alla carica solo a condizione di essere ricchi quanto gli equites romani116. Il celebre oratore deplora una stortura nel funzionamento tradizionale 104
di un’istituzione giudiziaria che di solito tiene conto unicamente di patrimonio e rango (fortuna et dignitas) degli individui, cioè dei criteri legati al census e all’onorabilità. E aggiunge che sarebbe altrettanto scandaloso permettere a chiunque abbia servito nella cavalleria di accedere alle decurie di giudici, senza tenere conto del censo e della dignità legata all’ordine. La formula rivela che nel 44 esistevano cavalieri che non erano equites Romani, cioè che non disponevano di un censo pari o superiore ai 400.000 sesterzi. Secondo Patrick Marchetti, questi equites equis suis non sono altro che i cavalieri italici naturalizzati dopo la guerra sociale (91-88 a.C.)117. La maggior parte degli antichi socii equites non possedeva forse la fortuna e la dignitas necessarie a far parte dell’ordo equester; formavano quindi una cavalleria legionaria di secondo rango e, salvo rare eccezioni, non potevano accedere alle magistrature. L’ipotesi di Marchetti sembra suggestiva perché fornisce un comodo contesto per spiegare il declino del servizio militare tra i cavalieri romani: di fronte al massiccio ingresso di Italici nelle legioni, gli equites romani di “antica stirpe” avrebbero reagito abbandonando progressivamente un servizio militare che li metteva sullo stesso piano degli antichi “alleati”; avrebbero rafforzato l’identità del loro gruppo attraverso l’adozione del censo equestre (da datare, secondo Marchetti, alla fine della guerra sociale), con la costituzione di un vero ordo equester, l’unico atto a fornire ufficiali (ad esempio i tribuni che comandavano i cittadini romani nelle legioni)118 e a sedere nelle decurie di equites. Forse lo Stato romano non voleva concedere all’insieme dei vecchi socii equites i privilegi di cui godeva tradizionalmente la cavalleria romana (la paga degli alleati era a carico delle città contribuenti e i rifornimenti di grano e orzo accordati da Roma erano meno importanti per i socii equites). Tuttavia cavalieri italici che servono in legione sono attestati nella documentazione, ad esempio nella lex Iulia sull’organizzazione dei municipi che accorda loro privilegi superiori a quelli dei fanti119. Il declino dei decem stipendia (i dieci anni di servizio regolamentare) nell’aristocrazia romana e l’emergere della cavalleria italica hanno di certo contribuito a diminuire il prestigio sociale dell’equitatus civico. Mentre i cavalieri sono portati a ricoprire un 105
numero crescente di posti di comando per assicurare l’intendenza di uno strumento militare dagli effettivi più importanti e per costituire lo stato maggiore degli eserciti provinciali120, le legioni estendono la loro area di arruolamento all’insieme dell’Italia e le regole del dilectus sono a volte raggirate a causa dei disordini politici. Svetonio ricorda ad esempio che, quando Cesare entrò in guerra contro Pompeo nel 49, “i centurioni di ogni legione gli fornirono a proprie spese un cavaliere ciascuno”, probabilmente equipaggiando come eques un legionario in ogni centuria121. Questa modalità di arruolamento diventerà la regola nel Principato. Mentre la cavalleria legionaria vede diminuire la sua importanza nel i secolo a.C., la cavalleria ausiliaria conosce uno sviluppo senza precedenti. Nelle fonti romane il termine auxilium serve di solito a designare i soldati extra-italici che combattono a fianco dei legionari ma non hanno lo status di cittadino122. Grazie all’estensione dell’egemonia romana, i contingenti ausiliari vengono ormai reclutati in tutto il bacino mediterraneo. A fianco dei cavalieri numidi, greci e ispanici ben attestati nel ii secolo a.C.123, le fonti iniziano a menzionare Traci, Galli, Germani e Orientali124. Le procedure di arruolamento ricordano quelle dei socii italici: i popoli sottomessi hanno il dovere di fornire un’assistenza militare alla Repubblica, obblighi spesso formalizzati da un trattato diseguale e vincolante o da un trattato di alleanza, che lascia maggiore autonomia ai dirigenti locali. La cavalleria ausiliaria tardorepubblicana attira in genere i giovani aristocratici delle popolazioni tributarie, situazione che non sorprende dato che la maggior parte delle società interessate sono governate da élite equestri125. In Nord Africa, Spagna, Gallia, Germania e nei Balcani, i Romani si trovano di fronte popoli fortemente militarizzati e spesso si limitano a convertire le clientele equestri esistenti in unità ausiliarie126, procedimento che ha il vantaggio di essere molto economico, permettendo a Roma di disporre immediatamente di cavalieri esperti e già equipaggiati. Inoltre è anche politicamente conveniente perché i nobili, separati dalla loro comunità d’origine, possono fungere da ostaggi127. Inizialmente gli ausiliari sono arruolati per la durata di una campagna militare. Una regola tacita stabilisce che possano ritornare 106
nella loro comunità d’origine alla fine della leva, senza essere costretti a diventare mercenari. I governatori, con l’autorizzazione dello Stato, arruolano i contingenti a seconda dei bisogni del momento. Si osserva però un’evoluzione nel corso dell’epoca. Poiché i teatri di operazione sono sempre più lontani e l’utilizzo di alcuni corpi di truppa specializzati può offrire vantaggi tattici, gli imperatores tendono a prolungare il fermo di alcune unità; lo Stato romano fornisce allora i mezzi e l’organizzazione logistica necessari al loro dispiegamento su lunghe distanze. Gli ampi movimenti determinati da simili pratiche rendono le guerre della fine dell’età repubblicana vere e proprie guerre “mondiali” o, più esattamente, guerre “ecumeniche”. Nella prima metà del ii secolo, contingenti numidi sono più volte agli ordini di generali romani contro il regno macedone e il regno seleucidico128, pratica che diventa sistematica nel i secolo a.C., soprattutto a causa della proliferazione di ambiziose imprese militari ai confini dell’impero: durante la campagna partica in Mesopotamia, Crasso dispone di cavalieri galli129; i Galli di Gabinio combattono in Egitto nel 4847, durante il bellum Alexandrinum130; alla battaglia di Filippi nel 42 sono presenti dei Parti131; cavalieri ispani e galli seguono Marco Antonio in Media Atropatene nel 36132. L’esercito romano diventa così un immenso crogiolo in cui si fondono tutte le risorse militari del Mediterraneo antico. Il prolungamento della ferma causato da questi spostamenti, soprattutto durante le guerre civili degli anni 40-30 a.C., è all’origine della progressiva regolarizzazione di parte delle truppe ausiliarie, che nel Principato diventeranno veri e propri reggimenti permanenti. Un primo segno di tale evoluzione si osserva nell’abitudine che hanno gli autori di distinguere diverse categorie di unità ausiliarie. Alcuni squadroni di cavalleria barbara appaiono perfettamente integrati nello strumento militare provinciale e sono accuratamente tenuti separati dai corpi di truppa arruolati per un periodo determinato133. La magistratura di Marco Licinio Crasso in Siria fornisce un chiaro esempio del fenomeno: nel 54 a.C., alla conclusione della prima campagna, il triumviro fa svernare nelle città della Mesopotamia che è riuscito a conquistare 107
1.000 cavalieri insieme alle sue truppe legionarie. Alla fine del 54 o all’inizio del 53 lo raggiunge in Siria il figlio Publio, arrivato dalla Gallia con altri 1.000 cavalieri in rinforzo134. Si tratta di due componenti diverse che potremmo definire “semipermanenti” perché la loro vocazione sembra essere quella di prestare servizio per un certo periodo, se non indeterminato, perlomeno pluriennale. Ma quando inizia la campagna e l’exercitus Syriae attraversa l’Eufrate, Crasso dispone ormai di 4.000 hippeis, cifra che indica che nel frattempo sono state arruolate forze locali per i bisogni specifici della spedizione, di sicuro gli auxilia forniti dal re dell’Osroene Abgar135. Ritroviamo la stessa dicotomia quando Flavio Giuseppe descrive le forze militari di Gaio Sosio, governatore della Siria nel 38 a.C.: “Quasi undici legioni di fanteria e 6.000 cavalieri, senza contare le truppe ausiliari di Siria, i cui effettivi non erano trascurabili”136. I 6.000 cavalieri sono ben distinti dagli alleati reclutati in loco137. Questa cavalleria ausiliaria che definiremo “provinciale” è organizzata secondo norme che tendono ad assimilarla alla cavalleria romana. L’unità tattica di base è la turma di una trentina di soldati. L’esempio meglio documentato è la turma Salluitana (la “turma di Salduba”, odierna Saragozza), uno squadrone di cavalieri ispani che ha il privilegio di ricevere la cittadinanza romana durante l’assedio di Ascoli, il 17 novembre 89 a.C., come ricompensa per i propri meriti138. La tavoletta di bronzo che ci permette di conoscere i dettagli del provvedimento cita i nomi di 30 cavalieri: 27 soldati hanno nomi iberici (Sanibelser, Illurtibas, Estopeles…), gli altri tre hanno un’onomastica latina (Q. Otacilius, Cn. Cornelius, P. Fabius). I beneficiari iscritti sulla placca sono raggruppati secondo il luogo d’origine e tutti i toponimi citati si trovano nelle vicinanze di Salduba, dettaglio che lascia supporre l’esistenza di un sistema di arruolamento organizzato a partire da un centro regionale che raccoglieva i coscritti delle agglomerazioni dipendenti dalla sua autorità. Come precisa l’iscrizione, i cavalieri della turma appartengono al gruppo più ampio degli equites Hispani; possiamo quindi immaginare che il contingente ispano fosse composto da più turmae dello stesso tipo, ognuna delle quali proveniva da un settore geografico preciso, e che questo sistema fosse utilizzato anche in altre province. 108
Un altro aspetto della regolarizzazione della cavalleria ausiliaria consiste nel fatto che i contingenti arruolati nelle province non sono più comandati da connazionali come nel passato, ma da prefetti di cavalleria romani di ordine equestre. Questi ufficiali compaiono tardi nelle fonti139; hanno ai loro ordini i decurioni, che non sembrano Romani di antica stirpe ma piuttosto indigeni romanizzati, in grado di trasmettere ai cavalieri dello squadrone gli ordini espressi in latino nel loro idioma nazionale. L’esempio più famoso è quello dei principi allobrogi Rucillo ed Eco che prestano servizio in Grecia sotto Cesare nel 48140. Nel passaggio del De bello civili che li riguarda, il loro grado non è precisato, ma si tratta probabilmente di decurioni poiché dipendono dal praefectus equitum Gaio Voluseno, che i due tentano di assassinare prima di passare nel campo pompeiano. La turma è l’unica vera unità tattica attestata nelle fonti letterarie tardorepubblicane per la cavalleria ausiliaria della prima metà del i secolo a.C.141. Non sembra che sia esistita nessuna formazione regolare più importante: contrariamente a quanto spesso affermato negli studi moderni142, non è possibile identificare né nel De bello gallico né negli autori pseudocesariani nessuna “ala” di cavalleria (ala equitum), unità creata solo alla fine dell’epoca repubblicana. L’esempio più antico è l’ala Patrui, che compare in un’iscrizione di epoca triumvirale143: probabilmente si tratta già di un reggimento di circa 500 soldati composto da una decina di turmae. È possibile che l’organizzazione di queste unità di cavalleria risalga alla dittatura di Cesare e sia da legare al progetto di spedizione partica del dittatore144. Il sistema di arruolamento ausiliario permette ai Romani di integrare tecniche di combattimento e conoscenze pratiche poco diffuse nella penisola italica. Basandosi sulle tradizioni militari dei popoli sottomessi alla sua egemonia, l’esercito romano diventa più versatile e si dota di una cavalleria polivalente, adatta a diversi contesti tattici. I cavalieri galli, sicuramente i più noti, corrispondono alla tipologia ellenistica dei thureophoroi145; portano uno scudo ovale che copre il busto del cavaliere e il fianco del cavallo, una cotta di maglie con spalliere, un elmo di metallo (di solito composto da un unico pezzo con visiera di rinforzo rivettata e una 109
gronda molto sviluppata), una o più lance e una spada lunga di tipo spatha a fili paralleli. La statua di Vachères e i pannelli scolpiti del mausoleo degli Iulii a Glanum (fig. 14) forniscono una chiara visione d’insieme dell’equipaggiamento di tradizione celtica146. Pur essendo talvolta descritti mentre lanciano proiettili contro gli avversari147, i cavalieri transalpini eccellono anche nello scontro diretto. Durante il grande combattimento di cavalleria che si svolge alcuni giorni prima dell’assedio di Alesia nel 52, i combattenti di Vercingetorige giurano di “attraversare per due volte le linee nemiche”148. In particolare, i Galli dispongono di selle con anima rigida che offrono una grande stabilità per il combattimento con le spade. I Germani, invece, disprezzano questi finimenti, considerandoli segno di mollezza, e preferiscono scendere dal cavallo per continuare il combattimento a terra149, ma ciò non gli impedisce di praticare l’attacco frontale, come durante il secondo combattimento di cavalleria davanti ad Alesia150. Oltre alla cavalleria polivalente, i Romani utilizzano unità di cavalleria leggera, specializzate nelle scaramucce. Gli ausiliari numidi e mauri sono tra i tiratori più stimati dell’epoca151. Questi cavalieri forniti dalle tribù berbere del Maghreb settentrionale cavalcano a pelo e sono armati solo di un piccolo scudo tondo e giavellotti. Una serie di stele rinvenute in Alta Cabilia (le stele di tipo “Abizar”) raffigurano questi combattenti bellicosi con i loro attributi, alcuni dei quali rinviano probabilmente all’esercizio di un potere politico (fig. 15)152. Le immagini, a volte accompagnate da iscrizioni libiche, rappresentano probabilmente i “principi”, intermediari privilegiati tra le comunità locali e il potere romano. La tattica dei cavalieri berberi è simile a quella dei Tarentini di epoca ellenistica e consiste nel riversare sugli avversari una pioggia di frecce153 e ritirarsi appena il nemico tenta di rispondere, per rimettersi subito in formazione e replicare l’operazione154. Non è dissimile inoltre dal modo di combattere degli arcieri a cavallo (equites sagittarii/hippotoxotai) che fanno la loro comparsa negli eserciti romani nel i secolo a.C. Tali unità sono in genere arruolate in Asia e sono attive soprattutto nei teatri di guerra orientali; sono presenti nell’esercito di Pompeo a Farsalo, nell’esercito di 110
Cassio durante le operazioni contro Dolabella e nell’esercito dei cesaricidi a Filippi155, ma anche nelle spedizioni partiche di Crasso e Antonio156: sembra che il loro aiuto venisse particolarmente apprezzato contro gli arcieri a cavallo arsacidi157, ma nessuna fonte ricorda esplicitamente il loro ruolo nel combattimento. Prima della fine del capitolo è importante sottolineare le ripercussioni di queste forme di mobilitazione sulle società provinciali, senza limitarsi al punto di vista romano. In effetti, nonostante la leva possa essere considerata un segno di sottomissione, gli ausiliari traggono anche importanti benefici politici dal servizio prestato nella cavalleria romana. Se si sono schierati dalla parte giusta durante la conquista, gli aristocratici che combattono sotto le insegne repubblicane formano il nerbo delle élite dominanti fortemente valorizzate nel nuovo ordine sociale romano158. Come dichiara Cesare, i suoi due cavalieri allobrogi, Rucillo ed Eco, avevano ottenuto grazie a lui “le più alte magistrature” nella loro città. In Gallia, numerose vestigia archeologiche mostrano il legame tra servizio militare nella cavalleria ausiliaria in età cesariana e prestigio sociale della nuova aristocrazia gallo-romana. L’esempio più celebre è sicuramente il mausoleo dei Giulii a Glanum, eretto da “Sesto, Marco e Lucio Giulio, figli di Gaio, per i loro genitori”, probabilmente in epoca triumvirale. Uno dei rilievi che ornano la base del monumento esalta i fatti d’armi compiuti da Gaio Giulio nella cavalleria ausiliaria di Cesare. L’aristocratico ottenne probabilmente la cittadinanza romana honoris virtutisque causa grazie al servizio prestato nell’esercito del proconsole. Secondo Anne Roth Congès, “questo monumento autocelebrativo […] doveva manifestare con superbia la preminenza di questi aristocratici guerrieri sulle nuove generazioni di cittadini provenienti dalle magistrature municipali grazie al diritto latino”159.
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14. L’equipaggiamento della cavalleria ausiliaria celtica. La statua di Vachères e il pannello nord-est del mausoleo di Glanum. Fonti Pernet 2010, Tav. 83; Roth Congès 2009, 68, fig.5
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15. Stele libiche figurate di Alta Cabillia 1.-Abizar. 2.- Suma 3.- Bou Djemaa. Fonte Laporte 1992, 394, fig. 2
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Capitolo 6
La cavalleria mediterranea sotto il Principato romano Con il principato di Augusto (27 a.C.-14 d.C.) si concretizzano le tendenze già percepibili alla fine dell’età repubblicana1: l’esercito romano cessa di essere una milizia civica e diventa definitivamente un esercito professionista e permanente. I giovani aristocratici non sono più tenuti a garantire un servizio tattico come cavalieri legionari, mentre gli ausiliari, organizzati in reggimenti regolari, formano ormai la sola vera cavalleria di linea dell’Impero. Queste riforme costituiscono una svolta importantissima dal momento che, da un punto di vista teorico, la concezione augustea dell’esercito abolisce il legame secolare tra etica aristocratica e combattimento di cavalleria. Equites e senatori si riservano i vertici del comando o si limitano a esercitare cariche civili. L’incorporazione dei soldati ausiliari all’interno dell’exercitus romanus pone però il problema dell’atteggiamento di Roma nei confronti dei sudditi “barbari”, nonché la questione fondamentale dello sfruttamento delle risorse provinciali da parte del potere conquistatore2. La grande specificità del modello politico imperiale consiste nell’avere permesso la progressiva assimilazione di popolazioni non romane all’interno di un vasto impero-mondo, che favorisce l’integrazione giuridica degli stranieri, la mobilità e gli scambi culturali. La cavalleria del Principato romano può quindi essere definita una cavalleria mediterranea e multietnica, all’interno della quale si verifica una sintesi degli sviluppi tattici precedenti. La progressiva costituzione di una cavalleria permanente e multietnica È difficile conoscere il destino delle forze ausiliarie alla fine delle guerre civili sotto il principato di Augusto. Di certo un gran 115
numero di contingenti è stato smobilitato, ma altri sono rimasti in servizio all’interno di nuovi reggimenti3. Fin dagli inizi del i secolo, l’esercito romano continua a integrare corpi di truppa forniti dai popoli alleati o arruolati nelle province sotto giurisdizione dei governatori. La maggior parte dei cavalieri serve nelle ali (alae), ma la documentazione epigrafica menziona molto presto l’esistenza di cohortes equitatae, composte da un contingente misto di fanti e cavalieri4. L’epoca giulio-claudia (27 a.C.-68 d.C.) segna una tappa intermedia in cui le unità ausiliarie non sono ancora separate dal contesto sociale di origine5. In Gallia come in Germania, la loro sorte sembra intimamente legata a quella dell’aristocrazia militare degli Iulii, che monopolizza il potere locale dall’epoca della conquista cesariana6. Si spiega così perché le fonti letterarie alludano spesso all’estrazione nobile dei cavalieri che servono sotto le insegne romane7. Queste truppe non sono ancora alimentate da un dilectus egualitario, come accadrà in seguito. Il comando è affidato a leader nazionali dotati di cittadinanza romana8. Fin dalla prima metà del i secolo simili unità etniche coesistono forse con reggimenti più compositi, che aderiscono già alla logica di una leva di volontari9. Il processo di regolarizzazione si afferma soprattutto dopo la rivolta del capo batavo Civile (69-70 d.C.), ma ignoriamo se il cambiamento fosse stato deciso in precedenza. Per Konrad Kraft era in gioco soprattutto la sicurezza dell’Impero: le autorità romane erano consapevoli del fatto che le truppe semiregolari operanti vicino al luogo di arruolamento rappresentassero un pericolo perché potevano unirsi alla causa delle popolazioni locali che insorgevano contro Roma10. La questione rimane aperta e forse non è il caso di generalizzare alcuni casi estremi, tuttavia è evidente che, nel corso dei decenni, la maggior parte dei reggimenti ausiliari cambia luogo di guarnigione, inviati in province talvolta lontane le une dalle altre, e che i trasferimenti contribuiscono a spezzare il legame tra luogo di acquartieramento e regione di provenienza dell’unità. Da quando vengono effettuati i trasferimenti, la pratica più diffusa consiste nell’arruolamento regionale, con cui vengono ammesse nelle truppe reclute originarie delle contrade vicine alla 116
guarnigione11. Viene abbandonato il vecchio metodo, che consisteva nel reclamare alle potenze alleate un contingente definito, lasciando loro il compito di procedere all’effettiva leva. Il nuovo procedimento si affida a reclutatori (dilectatores) e si basa forse sui documenti censori elaborati in ogni provincia12. Nella maggior parte dei casi, ad esempio per le truppe cittadine, le autorità romane si accontentano di volontari, aprendo così il mestiere delle armi ai peregrini più umili13. Per molti provinciali il servizio militare nell’esercito imperiale è quindi visto come un’opportunità di mobilità sociale, soprattutto nelle province occidentali, dove prima della conquista romana combattere a cavallo era considerato un privilegio dell’élite. L’analisi delle numerose iscrizioni di cavalieri di ala e di coorte consente di valutare la progressiva perdita del carattere etnico delle unità ausiliarie sotto il Principato14. In età giulio-claudia, gli equites che prestano servizio in unità con base nella loro regione d’origine sono già in minoranza e con i Flavi questa tendenza si rafforza. Per il periodo che va da Antonino Pio a Commodo non è attestato nessun cavaliere con la stessa origo dell’unità in cui presta servizio. Nel corso del tempo si impone la leva regionale, ma è possibile individuare alcuni settori specifici: alcuni popoli si specializzano nella fornitura di soldati ausiliari e inviano reclute in tutto l’Impero, come nel caso dei Traci in età flavia (69-96) o dei Daci dopo le guerre daciche di Traiano (101-106)15. Esistono inoltre eccezioni legate allo status di alcune truppe: già da tempo è stata sottolineata la forte omogeneità etnica delle unità di arcieri16, sempre composte soprattutto da orientali, anche quando vengono spostate di diverse migliaia di chilometri. Le iscrizioni ritrovate a Intercisa, in Pannonia superiore, dove era di stanza la cohors I Hemesenorum sagittariorum equitata – unità arruolata nella regione di Emesa – rivelano l’esistenza, nella regione danubiana, di un’importante comunità siriaca, che ha potuto fungere da bacino di reclutamento per più generazioni17. Un esempio simile è noto in Mauretania Tingitana, con l’ala I Hamiorum sagittariorum18, unità di arcieri a cavallo, inizialmente costituita da soldati originari della città di Hama in Siria, alimentata, pare, da reclute 117
siriane per almeno un secolo, attraverso l’invio di uomini provenienti direttamente dall’Oriente o grazie all’insediamento in loco di una comunità di Orientali19. Dal punto di vista romano – soprattutto per le unità specializzate – il fatto di mantenere questo particolarismo etnico è condizione necessaria per assicurarsi un alto livello di efficacia tecnica. Conosciamo l’identità e i valori di questi cavalieri arruolati ai quattro angoli dell’Impero principalmente grazie ai monumenti funebri rinvenuti nelle vicinanze degli accampamenti o nel luogo in cui si sono installati dopo il congedo. Molti studi hanno dimostrato che dal i secolo d.C. i peregrini incorporati nelle nuove unità permanenti dell’esercito di frontiera adottano il costume romano di farsi inumare al disotto di una stele iscritta, a volte accompagnata da una rappresentazione scultorea20. Monumenti simili si ritrovano soprattutto nelle province renane e in Britannia, e i committenti sono quasi sempre equites auxiliarii21. Di solito il defunto è raffigurato sotto i tratti di un cavaliere eroicizzato, mentre trafigge con la lancia un nemico a terra (fig. 16.a). Particolare cura è dedicata alla rappresentazione dell’equipaggiamento militare che apporta un tocco personale a una composizione abbastanza stereotipata. Nonostante l’utilizzo di una forma plastica ereditata dall’arte ellenistica, i rilievi offrono ai soldati peregrini un modo per esprimere la loro identità sociale, privilegiando i simboli della loro comunità d’origine. Perciò gli elementi che i cavalieri celto-germanici scelgono di fare rappresentare sulle loro tombe nel La Tène tardo sono strettamente legati alla classe guerriera22: il cavallo da guerra segnala l’appartenenza al gruppo dei cavalieri, mentre lo scudiero (calo) che appare a volte in secondo piano è un ulteriore simbolo di ricchezza materiale e di prestigio che ricorda la coppia formata da combattente nobile e scudiero nella società celtica23. Le scene violente in cui si fanno rappresentare i cavalieri rimandano a un’etica aristocratica e individualista del combattimento; non sminuendo l’avversario, che, al contrario, cade di solito di faccia e non subisce passivamente la carica24, il defunto esalta per contrasto il proprio valore – una virtus aggressiva in cui si fatica a scorgere la disciplina celebrata sui monumenti legionari della stessa epoca. 118
Nell’arte funeraria il culto dell’atto eroico si declina in vari modi, a seconda dei criteri propri di ogni cultura militare. I cavalieri celtici si rappresentano come cacciatori di teste, attività attestata molto prima della conquista romana in Gallia, dove la decapitazione riveste una dimensione magico-rituale25. La stele del cavaliere treviro Insus, rinvenuta a Lancaster nel 2006, offre la testimonianza più esplicita del trattamento riservato al corpo dei vinti: sul rilievo che accompagna l’epitaffio, il soldato ausiliario dell’ala Augusta è rappresentato in armi e a cavallo, in atto di brandire la testa di un barbaro (fig. 16.b)26. Forse l’origine del cavaliere non è una coincidenza, dal momento che Cicerone considerava i Treviri incalliti tagliatori di teste e che, in epoca imperiale, esistono altre tracce della sinistra specialità di questo popolo27. Gli “Orientali” (Siriani, Arabi, Parti, Armeni) preferiscono invece fare rappresentare il loro talento di arcieri a cavallo, tema dall’alto valore simbolico nelle culture iraniche e semitiche sottoposte all’influenza partica28. Sulla stele rinvenuta a Magonza, Maris dell’ala Parthorum et Araborum è raffigurato in atto di scoccare diverse frecce (forse tre) contemporaneamente (fig. 16.c)29. Il gesto, che necessitava
16.a La Stele di Romanius, Landesmuseum Mainz. Fonte Speidel 2004, fig. 17.1. 16.b Stele di Insus, Lancaster City Museum. Fonte Bull 2007, 24. 16.c Stele di Maris, Landesmuseum Mainz. Fonte Traina 2013, 280, Abb. 1.
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grande abilità, è strettamente associato all’espressione marziale del potere reale, come rivela un aneddoto raccontato da Cassio Dione: nel 66 d.C., durante il viaggio in Italia di Tiridate, il primo re arsacide dell’Armenia, sarebbero stati organizzati dei giochi a Pozzuoli, durante i quali il re dell’Armenia aveva trafitto due tori “con una sola freccia”, dal suo posto di spettatore30. Nel Principato sono costituiti da cavalieri (del tutto o in parte) quattro principali tipi di unità ausiliarie. Alcune – le ali – sono veri e propri reggimenti montati, altre – le cohortes equitatae – dispongono di un effettivo misto di cavalieri e fanti31. Queste unità possono essere quingenariae (circa 500 soldati) o milliariae (circa 1.000 soldati)32. Un’ala quingenaria è composta da 16 turmae di 31 soldati; un’ala milliaria da 24 turmae a effettivo rinforzato (42 cavalieri). Le coorti quingenariae comprendono quattro turmae di 31 cavalieri e sei centurie di circa 80 fanti, otto turmae e dieci centurie se sono milliariae33. Le unità ausiliarie portano in genere il nome del popolo da cui sono stati inizialmente arruolati i soldati, a volte seguito da un numero, in modo da distinguerle: fin dall’epoca giulio-claudia conosciamo un’ala I Hispanorum, un’ala Pannoniorum I, un’ala II Thracum, ecc. La pratica di dare alle unità il nome del loro primo comandante cade in disuso dopo il regno di Augusto ed è sostituita dall’aggiunta di elementi provenienti dalla nomenclatura imperiale, come per l’ala Augusta Ituraeorum o l’ala Claudia nova. Oltre ai corpi ausiliari, ogni legione comprende un contingente di 120 cavalieri che godono di uno status privilegiato34: si tratta degli eredi dell’antico equitatus censitario, ormai arruolati all’interno della fanteria legionaria, attraverso promozione interna. A differenza dei cavalieri ausiliari, non sembra che i cavalieri legionari fossero organizzati in turmae35, ma dipendevano amministrativamente dalle centuriae della loro “legione madre” (due cavalieri per centuria). Ciò non significa che non avessero nessun ruolo tattico36. Potevano essere comandati da centurioni nell’ambito di operazioni che implicavano combattimenti, ma il loro effettivo ridotto ne limitava sicuramente la capacità di agire in modo autonomo. A quanto pare, gli equites legionis fungevano soprattutto da scorta per i legati37 e forse proprio per questo gli 120
imperatori non ritennero necessario dotarli di una vera gerarchia di ufficiali subalterni. Per finire, ricordiamo la comparsa, a partire dal regno di Adriano (117-138), di unità semiregolari, di solito chiamate numeri38. Il termine ha un significato molto ampio sotto il Principato, perché, oltre a unità etniche, può designare qualsiasi “truppa”, a prescindere dalla nomenclatura regolare, ma, nella sua accezione ristretta, tende a essere riservato a contingenti irregolari (alleati, clienti, dediticii), di cui si vuole perpetuare l’esistenza al di là di una singola campagna o di una guerra. Possono essere sia unità di cavalleria che unità di fanteria. La loro creazione è dovuta alla regolarizzazione e alla crescente uniformizzazione degli auxilia: il numerus offre in effetti un contesto flessibile di integrazione, dal momento che permette alle truppe incorporate di conservare effettivi, gerarchia, lingua, armamento e tecniche di combattimento che non corrispondono ai regolamenti in vigore nelle ali e nelle coorti. Perciò può sembrare inutile definire l’effettivo e le strutture di questi corpi, organizzati in un modo che ci sfugge. Notiamo però che alcuni contingenti potevano evolversi e diventare vere ali di cavalleria: il caso meglio documentato è quello del numerus Palmyrenorum Porolissensium, unità che sotto Decio dà origine a una coorte e a un’ala39. Benché le fonti del Principato restino discrete a proposito della mobilitazione di rinforzi stranieri al servizio di Roma, bisogna sottolineare che la creazione dei numeri etnici non ha fatto scomparire l’altra tradizione di arruolamento che resta una realtà concreta per tutta l’epoca imperiale. Da questo punto di vista non sembra che la situazione abbia subito profondi cambiamenti rispetto all’epoca repubblicana: tutte le spedizioni ai confini dell’Impero richiedono truppe alleate, fornite dalle gentes externae o dai regni amici e alleati di Roma40. Limitatamente alle unità regolari, è possibile fare una stima molto approssimativa degli effettivi della cavalleria imperiale basandosi sui diplomi militari che venivano consegnati ai soldati ausiliari alla fine della leva e certificavano l’accesso allo status di cittadino romano. I documenti, comparsi sotto il regno di Claudio (41-54), sono stati rivenuti in numero considerevole, soprattutto 121
per la prima metà del ii secolo. In ogni diploma, oltre alle clausole giuridiche, il formulario riprende l’elenco delle unità stanziate nella provincia del beneficiario. Utilizzando questi dati è quindi possibile avere una visione d’insieme del numero di unità ausiliarie in servizio in un dato periodo. L’epigrafista Paul Holder ha realizzato un inventario per il regno di Adriano41: 28 legioni, 7 alae milliariae, 81 alae quingenariae, 21 cohortes milliariae equitatae e 175 cohortes quingenariae equitatae, 8 cohortes milliariae peditatae e 75 cohortes quingenariae peditatae, per un totale di circa 77.000 cavalieri e 280.000 fanti, cioè un cavaliere ogni quattro fanti, in sostanziale aumento rispetto all’epoca triumvirale42. La stima vale solo per l’esercito provinciale e non tiene conto delle truppe stanziate a Roma, molto meno numerose. Oltre alle famose coorti pretorie, ognuna delle quali comprende un modesto contingente di cavalieri, già dal regno di Augusto gli imperatori prendono l’abitudine di circondarsi di una guardia a cavallo costituita da soldati peregrini. Queste “guardie del corpo” germane (Germani corporis custodes) arruolate soprattutto tra i Batavi vengono smobilitate da Galba nel 68 e riformate in seguito da Traiano con il nome di equites singulares Augusti43. Da quel momento sono selezionate nell’élite della cavalleria provinciale e il loro effettivo raggiunge forse i 1.000 uomini. Così come i soldati di questa immensa cavalleria mediterranea, anche i cavalli arrivano soprattutto dall’area provinciale. Si tratta di animali di dimensioni piuttosto elevate rispetto agli standard dell’epoca antica. In uno studio che raccoglie l’insieme della documentazione osteologica disponibile, Cluny Johnstone stima un’altezza media di 135 cm al garrese, senza distinguere contesti civili e militari44. Per la stessa epoca, misure più modeste sono rilevate in Germania libera45 e nella steppa euroasiatica46. Dappertutto la conquista romana è accompagnata da un aumento generale delle dimensioni degli equini, legato a pratiche di allevamento selettivo e importazioni. Rose-Marie Arbogast e Patrice Méniel notano che in Gallia i cavalli di età galloromana sono in genere più grandi e più robusti di quelli di fine La Tène47. Joris Peters giunge alla stessa conclusione nella sua ricerca sulle regioni reno-danubiane48, 122
come anche Sándor Bökönyi occupandosi dell’Europa centrale e orientale49. Cluny Johnstone conferma questa tendenza per l’insieme delle province annesse dai Romani, ad eccezione della Britannia che conosce uno sviluppo più tardivo. La studiosa evidenzia inoltre le varianti regionali: i cavalli italici sono i più grandi (138 cm), seguiti dai cavalli renani e danubiani (136 cm); vengono poi la Gallia (134 cm), l’Egitto (132 cm) e la Britannia (131 cm). Queste differenze suggeriscono un rapporto di continuità con le situazioni locali precedenti, di certo legato allo sfruttamento delle riserve indigene. Se prestiamo fede alle cifre esposte, possiamo pensare che ogni anno l’esercito romano integrasse nel circuito militare circa 12.000 nuovi cavalli per sostituire gli animali feriti, malati, troppo vecchi o per equipaggiare i nuovi cavalieri. Nei primi tre secoli dell’Impero coesistono diverse vie di approvvigionamento50. In assenza di istituzioni pubbliche paragonabili alle stazioni di monta reali di epoca ellenistica, di solito l’esercito acquista i cavalli da allevatori installati vicino alle guarnigioni. Scavi archeologici hanno rivelato l’esistenza di aziende che potevano appartenere a soldati congedati, ad esempio in Germania inferiore51. È quindi possibile che una parte del settore fosse controllato da veterani che collaboravano con l’esercito come privati, ma l’ipotesi deve ancora essere dimostrata. I commissari incaricati dell’approvvigionamento ricorrono anche, in modo più eccezionale, a requisizioni pubbliche all’interno delle province. In occasione di una guerra, gli animali sono in genere prelevati nelle vicinanze del fronte. Tacito sottolinea infatti che dopo le campagne germaniche dell’inizio del regno di Tiberio, le Gallie sono “stanche di fornire cavalli”52. Oltre a questi modi di approvvigionamento, l’esercito romano può usufruire dei contributi dei popoli amici e alleati di Roma, nonché dei tributi richiesti alle potenze sconfitte53. Spesso i cavalli costituiscono inoltre una parte importante del bottino direttamente prelevato dai soldati dopo le vittorie campali o in seguito a operazioni di saccheggio54. Sotto il Principato non sembra esistere un’organizzazione centrale incaricata di supervisionare la rimonta dell’esercito55: le unità 123
sono responsabili dell’acquisizione dei propri animali, ma l’insieme delle operazioni sembra affidato agli uffici del governatore. Gli archivi di Dura Europos mostrano infatti che, nella prima metà del iii secolo, il legato di Celesiria è direttamente consultato per simili questioni. Una lettera del 208 indirizzata al comandante della cohors XX Palmyrenorum sagittariorum equitata contiene una lista dei cavalli assegnati e dei nuovi proprietari56. Nella missiva il governatore chiede al suo corrispondente di agire “conformemente alla procedura” (ut mos), suggerendo l’esistenza di un metodo regolamentare fondato su pratiche ben rodate. Come i soldati, anche i cavalli di rimonta subiscono una probatio e, prima di entrare nel circuito militare, vengono ispezionati57. Nella maggior parte dei casi la procedura è sicuramente delegata a funzionari specializzati, come gli stratores di iv secolo, sotto la direzione di un archistrator che dipende dal comes stabuli, responsabile delle forniture di cavalli dell’esercito palatino. Ma questa organizzazione non esiste ancora sotto il Principato ed è difficile sapere chi ne ricopre la funzione nei primi tre secoli dell’era cristiana. Nelle iscrizioni del Principato sono attestati numerosi stratores e in genere si suppone che la loro missione sia già quella attribuitagli in epoca tardoantica, ma nessuna testimonianza permette di averne la certezza. In attesa di essere definitivamente assegnati ai soldati (signati), i cavalli devono essere radunati in depositi di rimonta, domati e addestrati. La corrispondenza dell’ippiatra militare Apsirto ci informa sull’argomento58: scopriamo che l’addestramento di un puledro deve iniziare a due anni, che il ciclo comprende inizialmente esercizi facili, poi, a partire dal terzo anno, esercizi più complicati e regolari. Ciò concorda con le informazioni fornite da Virgilio nelle Georgiche59, dove il poeta augusteo precisa che la prima tappa è la desensibilizzazione (il cavallo viene abituato ai rumori della guerra e alla vista dei combattimenti), il lavoro a piedi (il cavallo impara a seguire il suo educatore che lo tiene per una specie di cavezza, il capistrum) e la scozzonatura, mentre la seconda tappa vede il cavallo – cavalcato – fare evoluzioni in cerchio in un maneggio insieme al suo cavaliere, ad andature differenti. Apsirto aggiunge che il terreno per le esercitazioni non deve avere un suolo troppo 124
profondo per non rischiare di azzoppare l’animale. Il passaggio, come il brano delle Georgiche, suggerisce l’esistenza di cavallerizze o maneggi, simili al gyros scavato sul sito di The Lunt60 o della basilica equestris exercitatoria citata in un’iscrizione di Netherby61. Una stele della Mauretania cesariense conferma che i Romani abituano gli animali da guerra a volte e cambi di mano praticando un esercizio simile all’otto62. Non conosciamo nel dettaglio le altre prove che costituivano questa formazione, ma le fonti letterarie suggeriscono che gli animali erano abituati a nuotare63, a sdraiarsi a comando64 o a rimanere fermi e aspettare il cavaliere smontato per combattere a terra. In generale il soldato è l’unico proprietario dell’equipaggiamento, composto, oltre che dall’animale, da un insieme di elementi che non hanno subito grandi evoluzioni dalla fine dell’epoca repubblicana, come rivela una descrizione di Flavio Giuseppe: I cavalieri portano una grossa spada sul fianco destro e impugnano una lunga lancia, uno scudo è posto obliquamente sul fianco del cavallo, e in una faretra sono riposti tre o più dardi dalla punta larga e grandi non meno delle lance; l’elmo e la corazza sono uguali a quelli di tutti i fanti. L’armamento dei cavalieri scelti che stanno attorno al comandante non differisce in nulla da quello dei cavalieri che formano le ali.65
Circa settant’anni dopo, Arriano fornisce informazioni coerenti: i cavalieri romani portano una lancia lunga (kontos), utilizzata al momento dello scontro, due lance di dimensioni inferiori (lonchai), che possono essere scagliate o maneggiate per colpire di punta, una spada lunga (spathē), uno scudo ovale (thureos), un elmo di ferro, una cotta di maglia e piccoli schinieri66. La descrizione riflette di certo una norma imposta alla maggior parte delle unità imperiali67. Accanto alla cavalleria polivalente esistono, sebbene ancora minoritari, specialisti di diverse modalità di combattimento – arcieri a cavallo, lancieri corazzati68. Il consolidamento delle strutture permanenti dell’esercito, i movimenti di truppe attraverso l’Impero e 125
l’imposizione di esercizi regolamentari fa in modo che le modalità di combattimento caratteristiche delle cavallerie occidentali (italiche, celtiche, germaniche e iberiche) diventino la prassi in tutto il bacino mediterraneo. Le fonti dell’epoca del Principato accordano grande attenzione al lancio del giavellotto: Plinio il Vecchio gli avrebbe consacrato un intero trattato, purtroppo perduto69, e molti imperatori si vantano di eccellere in questa pratica marziale70. L’utilizzo di simili armi da getto è sicuramente facilitato dalla diffusione di selle “a corna” di origine celtica (fig. 17)71. Per scagliare un proiettile con grande potenza bisogna infatti disporre di stabilità, alzarsi sul bacino e coordinare i propri movimenti con quelli del cavallo72. Munita di quattro corna situate sul davanti e sul retro della seduta, la sella romano-celtica consente al soldato movimenti stabili in simili operazioni e rappresenta uno strumento importante in assenza di staffe; è anche molto utile nello scontro diretto, con spada o lancia. Come sottolinea Ann Hyland, aiutandosi con le corna il cavaliere può facilmente chinarsi sui lati per assestare fendenti, senza rischiare di cadere, eventualità che doveva rappresentare un vero problema quando si montava a pelo o su un semplice tappeto73.
17. Ricostruzione di sella a corna realizzata da P. Connolly. Fonte Connolly & van Driel Murray 1991, Tav. VI, A
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La cavalleria alle frontiere: stanziamento e missioni della cavalleria imperiale durante il Principato Il problema della ripartizione dei corpi di truppa all’interno dell’Impero è al centro della celebre controversia sollevata da Edward Luttwak nel 1976 in merito alla “grande strategia” imperiale. In The Grand Strategy of the Roman Empire, l’analista strategico americano afferma che lo stanziamento dell’esercito romano conobbe un’importante evoluzione nel corso del tempo. Le frontiere dell’Impero, pensate inizialmente come spazi di dominazione non ufficiali, al servizio di un progetto espansionistico, sarebbero state progressivamente riorganizzate in un sistema statico di fortificazioni lineari, destinato a impedire le incursioni barbariche in territorio romano74. Numerosi studi hanno messo in luce gli eccessi di questa tesi e suggerito come ridimensionarla75. Non è mio proposito esporli nel dettaglio, ma è importante notare che i segni tangibili della presenza militare romana alle frontiere (guarnigioni, fortificazioni, avamposti) sono prima di tutto il riflesso di una situazione operativa che si cristallizza nel tempo. Ciò che spesso viene considerato come un dispositivo difensivo corrisponde in realtà agli abituali mezzi costruiti dai Romani durante le campagne militari per sconfiggere l’esercito nemico, anche in una dimensione offensiva. D’altronde sarebbe imprudente postulare l’esistenza di una politica frontaliera applicata in modo uniforme dal centro alla periferia perché si trascurerebbe così l’importanza di situazioni locali nell’evoluzione dei confini imperiali, nonché la diversità degli obiettivi geostrategici alla base dell’organizzazione dei distretti militari regionali. Si possono però osservare delle tendenze generali, senza che questo infici la parte di decisionismo insita in simili evoluzioni. Sulla ripartizione, all’inizio dell’età giulio-claudia, dei contingenti di cavalleria influiscono notevolmente le grandi operazioni offensive, soprattutto in Europa76. Già con Augusto, le unità a cavallo di cui è noto il luogo di guarnigione sono stanziate in prossimità delle nuove piazzeforti legionarie, grandi concentrazioni strategiche situate spesso lungo importanti vie d’invasione che devono permettere il rapido intervento dell’esercito in territorio barbarico, 127
nell’ambito di operazioni di rappresaglia o di conquista. Velleio Patercolo descrive ad esempio come, nel 7 d.C., una forza composta da 10 legioni, oltre 70 coorti, 14 ali, 10.000 veterani, più un numero indefinito di volontari e cavalieri alleati, è riunita in un unico accampamento a Siscia (attuale Croazia), in previsione di una campagna contro i Pannoni e i Dalmati insorti77. Alcune piazzeforti come Neuss o Colonia possono ospitare, in baracche temporanee costruite ai margini delle caserme legionarie, i contingenti inviati in rinforzo78. Non bisogna però nemmeno esagerare l’importanza delle minacce esterne. In alcune regioni le truppe ausiliarie sembrano mobilitate soprattutto contro nemici che occupano territori situati all’interno delle province. Solo a partire dall’età flavia le forze di cavalleria iniziano a essere distribuite, in Europa, lungo le linee di confine, senza che sia facile comprendere i motivi di questa nuova disposizione. Nelle due province di Germania le guarnigioni ausiliarie sono ripartite in modo regolare lungo il Reno79, e lo stesso può dirsi delle province danubiane80, mentre la situazione appare diversa in Britannia e in Oriente, dove le fortificazioni sono disposte in profondità e non formano davvero un cordone difensivo81. I dispositivi di frontiera non conoscono sconvolgimenti importanti in età antonina, almeno per quanto riguarda la ripartizione delle forze di cavalleria82. Secondo Massimo Biancardi, la disposizione delle truppe montate lungo il Reno e il Danubio segnala l’affermarsi del ruolo difensivo della cavalleria. Ma lo stanziamento delle ali facilita sempre la costituzione di corpi di spedizione mobili83, e infatti in Germania inferiore le truppe montate si concentrano tra Altkalkar e Colonia, di fronte alla valle della Lippe, importante via d’invasione verso la Germania libera84. Queste considerazioni strategiche non devono offuscare gli altri fattori che influiscono sullo stanziamento delle guarnigioni. Per assicurare la propria sussistenza in tempo di pace, l’esercito imperiale è obbligato a inserirsi in un tessuto economico regionale: deve passare da una modalità di approvvigionamento basata sul saccheggio delle risorse di facile accesso a un sistema di rifornimento regolare, che tenga conto degli equilibri ecologici di ogni 128
provincia85. Tale necessità spiega la progressiva disposizione delle unità in Occidente lungo linee di arroccamento, soprattutto per la cavalleria che deve potere disporre di vaste zone di foraggiamento nei dintorni delle postazioni occupate86. Per questo i fiumi non sono solo barriere naturali, ma servono anche come vie di approvvigionamento87. John C. Mann sottolinea inoltre che la disposizione lungo una linea è funzionale ai compiti “burocratici” dell’esercito, che partecipa alla riscossione delle tasse e deve essere in grado di controllare i movimenti delle popolazioni da un parte all’altra della frontiera88. Ma i vantaggi difensivi di un sistema lineare non devono essere trascurati, anzi ebbero probabilmente primaria importanza nella ricostruzione del limes di Mesia sotto Vespasiano89 e sono teorizzati da Clausewitz che, descrivendo il Kordonsystem, lo ritiene particolarmente adatto alla lotta contro le minacce di bassa intensità90. Inoltre i Romani erano indubbiamente consapevoli dell’efficacia della cavalleria nella difesa di vasti territori, come sottintende un’allusione di Dione di Prusa all’utilità strategica delle truppe montate nei regna orientali91. Analizzando la distribuzione delle truppe romane all’epoca di Adriano, appare chiaro che le diverse province dell’Impero non sono dotate in modo uguale di cavalieri. Può essere interessante interrogarsi sulle ragioni di queste disparità. Ci limiteremo a evocare alcuni casi emblematici, a cominciare dal Norico. Questa provincia dell’arco alpino nordorientale presenta il paradosso di una regione montuosa con un’elevata proporzione di truppe a cavallo92: la guarnigione provinciale è costituita infatti da tre ali quingenariae, due coorti milliariae e quattro coorti quingenariae93, per un minimo di circa 1.500 cavalieri, in realtà più numerosi dal momento che alcune coorti dovevano essere miste. Al contrario, la Pannonia inferiore e la Siria forniscono esempi di province con condizioni topografiche ottimali per il dispiegamento della cavalleria, ma in cui in realtà la fanteria occupa un posto più importante. In Pannonia inferiore sono stanziate una legione, un’ala milliaria, cinque ali quingenariae, due coorti milliariae e 12 coorti quingenariae94. In proporzione il numero di forze di cavalleria è relativamente elevato, ma resta molto inferiore rispetto al Norico. La tendenza è ancora più pronunciata in Siria, 129
dove la guarnigione è composta da tre legioni, un’ala milliaria, sei ali quingenariae e 24 coorti quingenariae95, eppure non si può negare che le pianure del medio Eufrate offrissero un ambiente propizio per le operazioni di cavalleria, come dimostrano le scelte tattiche in caso di guerra nel Vicino Oriente durante il periodo preso in esame96. La conclusione logica di queste osservazioni è che, in una scala macrostrategica, la geografia fisica non incide particolarmente sulla disposizione delle unità di cavalleria. Devono essere quindi privilegiate altre piste. Nel caso del Norico l’importante concentrazione di truppe montate avrebbe soprattutto finalità logistiche: deve permettere il dispiegamento della cavalleria da una parte all’altra del valico della Wachau, sui settori di operazione più importanti, a seconda dei bisogni del momento97. Luttwak non spiega diversamente il ruolo delle grosse formazioni di cavalleria che costituiscono le ali milliariae, “forze di prim’ordine, assegnate alle aree più minacciate e schierate sempre nei punti chiave”; queste forze sono destinate a spostarsi rapidamente sui teatri di guerra in caso di inizio di una campagna militare. Costituiscono un elemento essenziale della forward defence, secondo l’autore opzione strategica privilegiata nell’Impero romano da Vespasiano a Marco Aurelio98. Resta da spiegare il caso della Siria: i Romani ritenevano che il settore di operazioni del Vicino Oriente non richiedesse un’importante forza di cavalleria? La composizione dei corpi di spedizione nella guerra giudaica (66-73) prova però il contrario: la cavalleria occupa infatti un posto di rilievo, circa un quarto degli effettivi99. In realtà, in questa regione, Roma poteva contare sul sostegno immediato dei regni alleati che disponevano di potenti forze montate, abituate alle modalità di combattimento degli avversari parti e arabi. L’analisi dei soli effettivi della cavalleria regolare offre quindi un’immagine distorta della realtà. In epoca antonina l’accampamento permanente costituisce l’ambiente tipico del cavaliere ausiliario. Protetto dal fossato e dai bastioni, contiene le caserme dei soldati, i quartieri del comandante e gli edifici amministrativi dell’unità100. Di solito ogni accampamento è concepito per ospitare una coorte o un’ala, ma capita che truppe diverse siano collocate nello stesso campo. In tempo di pace i soldati 130
sono regolarmente distaccati dal campo principale per occupare postazioni secondarie come avamposti fortificati o torri di avvistamento situati nelle vicinanze del dispositivo di frontiera, a volte in territorio nemico. In Pannonia, ad esempio, sulla via dell’ambra tra Carnuntum e Poetovio, si susseguono forti ausiliari e postazioni minori, spesso alla distanza di una giornata di marcia. Il rinvenimento, su questi siti o nelle immediate vicinanze, di equipaggiamenti e stele di cavalieri prova la presenza, perlomeno temporanea, di soldati a cavallo101. La frammentazione degli effettivi è abbondantemente documentata dagli archivi della cohors XX Palmyrenorum sagittariorum milliaria equitata, il cui quartier generale, nella prima metà del iii secolo, si trovava a Dura Europos102. I papiri conservati mostrano che intorno al 220 sette forti dipendono dalla guarnigione principale: Magdala, Appadana, Barbalissus, Becchufrayn, Birtha, Castellum Arabum e Chafer Avira103. Quando non sono di guardia nelle piazzeforti, i soldati possono assentarsi dal quartier generale. Alcuni sono assegnati alla scorta dell’imperatore, durante il suo passaggio in Oriente104; altri fanno parte della guardia del governatore105, cacciano i leoni, scortano convogli di rifornimenti di grano e orzo, assicurano il rispetto dei confini imperiali; altri ancora formano il personale amministrativo degli uffici del governatore. Inoltre i cavalieri sono gli unici soldati capaci di fornire le staffette e le scorte necessarie al buon funzionamento dell’amministrazione provinciale. Due registri degli effettivi di Dura menzionano rispettivamente 14 e 15 equites dispositi106. Il verbo disponere significa “posizionare a intervalli” e in questo caso rinvia verosimilmente a corrieri disposti in modo regolare sulle grandi vie di comunicazione del limes107. Nel deserto di Berenice, in Egitto, i dispositi sono assegnati ai forti (praesidia) che dipendono dal campo dell’ala Vocontiorum a Koptos108, situati lungo la strada di Myos Hormos per circa 180 km. Grazie agli ostraka rinvenuti nel forte di Krokodilo, conosciamo il nome di tre staffette per il periodo che va da febbraio a marzo 108: Kaigiza, Aistis e Eial. Il primo nome è di origine dacica, il secondo deriva chiaramente dal latino Aestivus, mentre l’ultimo è di origine libica o semitica. Ognuno dei tre uomini è identificato da un numero che lo designa in maniera permanente: 131
Kaigiza è il numero 1, Eial il 2, Aistis il 3. Gli uomini della scorta sono invece chiamati prosecutores e hanno il compito di accompagnare ufficiali o animali e proteggere i convogli di rifornimenti in transito nella regione109. Nella documentazione di Krokodilo questo servizio è chiamato la parapompē. Vengono scortati di praesidium in praesidium dei cammelli, un centurione, un responsabile delle dogane a Myos Hormos, degli asini carichi di paglia e orzo, un dromedario inviato presso il prefetto di Berenice110. I papiri di età romana mostrano che i cavalieri delle guarnigioni di frontiera svolgono anche funzioni di polizia, possono scontrarsi con i briganti e la gestione di una simile minaccia non è priva di rischi. In un registro degli effettivi (pridianum) della cohors I Hispanorum veterana, un eques figura nella lista dei soldati deceduti e accanto al suo nome leggiamo occisus a latron[i]bus, “ucciso dai briganti”111. Ma le province non sono le uniche regioni colpite da questo problema endemico. Nel 206-207, Settimio Severo (allora in campagna in Britannia) deve inviare un importante distaccamento di equites (singulares?) in Italia per porre fine alle attività di Bulla Felix, un capobanda che, secondo Cassio Dione, era riuscito a raccogliere e armare 600 uomini112. Oltre al brigantaggio, la cavalleria può essere incaricata di reprimere i disordini che scoppiano regolarmente nelle grandi città dell’Impero113. L’ala Sebastenorum svolge questo ruolo in Giudea, poco prima dell’inizio della grande rivolta del 66; in particolare viene impiegata per sedare le sollevazioni dei Galilei in Samaria114. Nel caso in cui sia necessario un vero intervento armato, la cavalleria è in grado di organizzare azioni di controguerriglia verso gruppi di ribelli che attaccano di sorpresa. Tacito segnala ad esempio che durante la rivolta dei Clitae in Cilicia (52 d.C.) gli insorti si rifugiano sulle alture per sfuggire alle colonne di cavalieri inviate dal governatore della Siria115. Le province di frontiera dell’Impero romano possono poi essere vittime di incursioni da parte delle popolazioni limitrofe, spesso esplicitamente ricordate, come accade nella documentazione di Krokodilo. All’inizio del ii secolo questo praesidium situato sulla strada tra Copto e Myos Hormos è minacciato dalle popolazioni nomadi del deserto orientale egiziano116. Alcuni raid somigliano a 132
banali operazioni di brigantaggio. Un rapporto datato 10 dicembre 108, trasmesso in copia ai funzionari della regione, descrive un attacco verificatosi presso il Mons Claudianus, dove vengono sfruttate importanti cave117: “ … Caninio decurione (?) dell’ala Apriana. [Il …] del mese di Choiak, 50 (?) cammelli [essendo stati sottratti?] da (?) 18 barbari […] pozzo del (?) Claudiano e li ho inseguiti (o li abbiamo…) [con?] tre cavalieri e dei fanti […] attraverso delle zone impraticabili e li abbiamo combattuti. [È stato ucciso?] Lucrezio Prisco, cavaliere della coorte […], turma di Sosinius; è stato preso a bastonate [un tale], della stessa coorte, turma di Iust [… …] Ma, sorpresi dalla notte […], abbiamo ripiegato nel forte […]”118. In altri casi, invece, gli attacchi prendono la forma di vere e proprie azioni militari. Alcuni ostraka del settembre-ottobre 109 evocano più volte scontri con popolazioni seminomadi119. Il documento più interessante è senza dubbio l’ostrakon gigante detto “dei barbari”, che narra l’attacco al praesidium di Patkoua (probabilmente situato in Bassa Nubia) da parte di 60 predoni, il 13 marzo 118120. Il raid inizia alle 14 e i combattimenti si protraggono fino al calar del sole, per poi riprendere il giorno successivo. Il forte è difeso dai soldati della cohors II Ituraeorum equitata: Cassio Vittore, centurione della cohors II Ituraeorum equitata, Antonio Celere, cavaliere della stessa coorte, ti saluta. Voglio informarti che, il 17 del corrente mese di Phamenōth, sessanta barbari hanno attaccato il forte di Patkoua. Insieme ai compagni che erano con me li ho combattutti dalla decima ora fino alla seconda ora della notte, poi hanno assediato il forte fino all’alba. Quel giorno è stato ucciso Ermogene, fante della centuria di Sereno, sono stati catturati una donna e due bambini, un (altro) bambino è stato ucciso. All’alba del 18 dello [stesso] mese, li abbiamo combattutti e Damanais, cavaliere della centuria di Vittore (la tua) [è stato ucciso]; è stato colpito Valerio Firm [… …] e anche il suo cavallo [… … Un tale] della centuria Proculeiana […] alla sesta ora del giorno.121
Il fatto che le fonti letterarie forniscano poche notizie sulle modalità di intervento della cavalleria imperiale in caso di intrusione 133
di armate barbariche sul suolo romano spiega probabilmente perché le innovazioni dell’Impero tardoantico in materia siano state così esagerate. Tuttavia, i pochi elementi di cui disponiamo mostrano che, sotto il Principato, i mezzi per lottare contro le minacce frontaliere sono pressoché gli stessi che nel Tardo Impero. Le piccole truppe mobili stanziate ai confini delle regioni militarizzate sono sempre le prime a intervenire nell’ambito di operazioni di guerriglia destinate a rallentare il nemico, lasciando così il tempo alle potenti forze di fanteria legionaria di organizzarsi per sferrare l’attacco decisivo122. In caso di incursioni a scopo di saccheggio, in genere i Romani aspettano che i nemici siano carichi di bottino per attaccarli sulla via del ritorno, in modo da costringerli allo scontro e a combattere in condizioni vantaggiose. Nel 50, durante un’incursione dei Catti in Germania superiore, il governatore Publio Calvisio Sabino Pomponio Secondo invia degli ausiliari vangioni e nemeti insieme a cavalieri dell’ala, con il compito di anticipare i predoni e di cogliere di sorpresa i combattenti sparpagliati per foraggiare123. Le minacce di debole intensità sono in genere represse con relativa facilità e solo raramente i barbari riescono a penetrare in profondità in territorio romano. Tuttavia sempre in questo periodo i Romani iniziano a confrontarsi con massicce incursioni di popoli di cavalieri nel settore danubiano, configurazione strategica destinata a diventare determinante in epoca tardoantica. L’esempio più noto è il raid dei Sarmati roxolani in Mesia, nel 69, descritto da Tacito124. Approfittando dell’eccellente mobilità, esaltata da autori come Plinio il Vecchio (contemporaneo ai fatti)125, i Sarmati, in numero di 9.000, attraversano il Danubio e fanno irruzione nella provincia con l’intento di saccheggiarla. L’attacco si verifica in inverno, periodo in cui il fiume è in magra e quindi più facile da attraversare126. La descrizione di Tacito suggerisce che i barbari siano riusciti a far breccia nel sistema difensivo romano e a saccheggiare la Mesia senza incontrare nessuna opposizione significativa. I Romani aspettano il momento opportuno per lanciare la controffensiva: quando i Roxolani si apprestano a riattraversare il Danubio, in ordine sparso e carichi di bottino, incespicando su sentieri scivolosi (fenomeno 134
di rasputitsa legato allo scioglimento delle nevi primaverili), vengono bruscamente attaccati dalla legio III Gallica, accompagnata da ausiliari, tra cui probabilmente una parte importante di cavalieri. Tali circostanze favorevoli permettono alle truppe imperiali di massacrare i saccheggiatori, ma la fortuna non è sempre dalla parte dei Romani. L’anno successivo i Sarmati attraversano di nuovo il Danubio, senza essere visti, precisa Flavio Giuseppe, che insiste inoltre sul carattere “assolutamente imprevedibile del loro attacco”. Innanzitutto neutralizzano le forze romane isolate nelle diverse postazioni di frontiera, per sconfiggere successivamente il governatore della Mesia che marciava contro di loro. Dopodiché possono devastare impunemente tutta la provincia, finché non vengono respinti dal nuovo legato imperiale inviato da Vespasiano, Rubrio Gallo127. L’episodio mostra con chiarezza la porosità del sistema difensivo imperiale, soprattutto contro armate di cavalieri estremamente mobili che operano spesso in inverno. L’Impero non ha altra scelta se non sacrificare temporaneamente la periferia per organizzare controffensive che ottengono risultati solo se le circostanze lo permettono o se i nomadi accettano la battaglia. Una soluzione complementare consiste nell’allearsi con altre tribù nomadi, come i Sarmati iazigi, stanziati nel bacino della Tisza128. Ma le fonti letterarie restano mute a proposito dell’efficacia di tale pratica. Nell’immediato, dopo l’incursione del 69, le autorità imperiali reagiscono fortificando la frontiera danubiana. Giuseppe precisa che Rubrio Gallo stanzia sul Danubio nuove guarnigioni, in modo da rendere la traversata del fiume più difficile per i barbari129, e l’archeologia conferma le sue affermazioni: in effetti, a partire dal regno di Vespasiano, l’esercito di Mesia inizia a disporsi a cordone, da Drobeta (Turnu Severin) al mar Nero, in una serie di postazioni fortificate, con alcune teste di ponte sulla riva settentrionale e con l’appoggio della flotta provinciale130. Una simile disposizione potrebbe suggerire che, oltre ai raid di grandi dimensioni come quello del 68-69, le popolazioni nomadi del Basso Danubio avessero l’abitudine di compiere incursioni più limitate contro le quali un sistema difensivo lineare poteva rivelarsi efficace. 135
Dal campo di addestramento al campo di battaglia Sotto il Principato, l’unità tattica della cavalleria ausiliaria resta la turma; si tratta del “gruppo primario” all’interno del quale il soldato passa la maggior parte del suo tempo, in periodo di pace (sempre relativa) come in guerra. Ogni turma occupa una baracca nell’accampamento permanente e si esercita in gruppo, seguendo una routine militare volta a rafforzare lo spirito di corpo. Nel i secolo d.C. l’organizzazione interna di queste unità ha subito alcuni cambiamenti rispetto al passato: il comando non è più affidato a tre decuriones, ma a uno solo, affiancato da due ufficiali subalterni, il duplicarius e il sesquiplicarius131. Smettono di esistere le decuriae – drappelli di dieci uomini – e gli optiones, che ai tempi di Polibio svolgevano il ruolo di capi di retroguardia132. In teoria una turma è sempre composta da una trentina di soldati (di solito 31, decurione compreso), ma l’organizzazione delle baracche-scuderie costruite durante i primi due secoli dell’era cristiana mostra chiaramente che la cifra poteva essere superiore, in particolare nelle ali milliariae133. Le piante delle baracche forniscono ulteriori informazioni sull’organizzazione delle turmae: nei forti di cavalleria di epoca imperiale ogni doppia stanza costituita da una camerata (contubernium) e una piccola scuderia poteva accogliere tre soldati e altrettanti cavalli134. Sappiamo che in epoca tardoantica il contubernium era una vera e propria suddivisione tattica equivalente a una fila di soldati. Ammettendo che tale principio fosse già osservato durante il Principato, possiamo ipotizzare che la turma fosse disposta su tre ranghi e su almeno nove file (fino a 13 nel caso di ale milliariae). Più difficile è sapere qual era il posto degli ufficiali subalterni. Nei campi ausiliari il decurione, il duplicarius e il sesquiplicarius avevano i propri quartieri, situati alle estremità delle baracche, informazione che depone a favore di una posizione particolare anche all’interno dello schieramento135. Come ha ben dimostrato Michael P. Speidel, tradizionalmente i Romani schieravano gli ufficiali di preferenza in prima linea136. Possiamo quindi ipotizzare che i quadri subalterni prendessero posto davanti al primo rango di cavalieri, extra ordinem. 136
Numerose fonti ci informano con precisione sullo svolgimento degli esercizi di cavalleria nel Principato. L’allenamento era un aspetto fondamentale della formazione delle truppe montate: l’esercito del Principato, permanente e composto da professionisti, doveva assicurare l’addestramento militare dei cavalieri sotto ogni aspetto, dall’arruolamento allo schieramento in battaglia. Secondo Vegezio, i decurioni erano responsabili dell’exercitatio della turma137. Altri ufficiali erano invece incaricati dell’addestramento dell’intera unità; a quanto pare il loro titolo variava a seconda dei corpi di truppa: i cavalieri della guardia imperiale (singulares e pretoriani) e gli equites legionis erano addestrati dai centuriones exercitatores, mentre i cavalieri delle ali dai decuriones exercitatores138. Gli esercizi collettivi si svolgevano regolarmente ed erano di due tipi: tre volte al mese i cavalieri lasciavano l’accampamento per dirigersi, dopo una lunga marcia (ambulatio), in un’area in cui potevano esercitarsi in simulazioni di combattimento e manovre su terreno accidentato. Vegezio parla di un “costume antico” previsto “dalle costituzioni del divino Augusto e di Adriano” e fornisce una descrizione succinta degli esercizi praticati durante queste uscite: Anche i cavalieri, divisi in squadre (turmae) e armati allo stesso modo [dei fanti], percorrevano un tragitto altrettanto lungo mentre facevano le manovre equestri, ora incalzando, ora battendo in ritirata, ora correndo a ripetere l’assalto. Entrambe le formazioni erano fatte esercitare non solo nei campi, ma anche a salire e scendere in terreni montuosi e impervi, affinché durante il combattimento non si potesse presentare nessuna situazione, foss’anche per un evento fortuito, che da bravi soldati non avessero già appreso grazie al continuo esercizio.139
Il brano riecheggia le raccomandazioni di un altro autore, Onasandro, che scrisse un manuale per i comandanti romani dedicato a Quinto Veranio, un senatore morto intorno al 57 d.C. Ugualmente faccia allenare anche la cavalleria, organizzando scontri, inseguimenti, zuffe, scaramucce nelle pianure e ai piedi delle 137
alture e, per quanto è possibile, rasentando anche luoghi aspri; infatti non è possibile dar vita a una carica verso salite scoscese e galoppare giù per chine ripide.140
Nei due brani viene descritta un’unica categoria di esercizi, che comprende prove di inseguimento, salto agli ostacoli e corsa su terreno accidentato. Come ha messo in evidenza Roy Davies, non è possibile compiere simili manovre su un suolo perfettamente piatto, era quindi necessario uscire dall’accampamento per raggiungere un’area dalle caratteristiche topografiche appropriate141. Competizioni solenni, di tutt’altro registro, si svolgevano invece su terreni delimitati e attrezzati (campus), di cui l’archeologia ha conservato traccia142. Si tratta degli “esercizi di cavalleria” (hippika gymnasia) descritti da Arriano nella seconda parte del suo trattato di tattica redatto nel 136143, chiamati in latino decursiones campi,
18. Esercizio di testuggine
138
come suggerisce la grande iscrizione del campus di Lambaesis (che ne espone anche dettagliatamente lo svolgimento)144. Diversamente dall’ambulatio finalizzata ad autentiche manovre collettive, la decursio campi si presenta essenzialmente come una serie di competizioni individuali, volte a permettere ai cavalieri più meritevoli di distinguersi dai commilitoni e ottenere ricompense per le loro prodezze145. Si compone soprattutto di esercizi di tiro, realizzati con proiettili spuntati o con vere lance (lonchai/lanceae). Nelle prime manovre si affrontano due squadre. Una squadra è disposta a “testuggine”146; due cavalieri sono distaccati dalla formazione e fungono da bersaglio (fig. 18). L’altra squadra è schierata di fronte alla prima. A turno i cavalieri della seconda squadra fanno delle sortite, scagliando i proiettili prima sui due bersagli umani, poi contro i cavalieri che caricano dalla prima formazione. La manovra prende così la forma di un doppio attacco circolare, uno in
19. Esercizio di carica cantabrica
139
senso orario, l’altro in senso antiorario. Durante l’esercizio i migliori cavalieri dovrebbero realizzare quello che Arriano chiama – utilizzando un termine di origine celtica – il petrinos, un tiro rovesciato che obbligava il cavaliere a ruotare sul busto in modo da ritrovarsi di fronte alla groppa del proprio cavallo147. Dopo essersi scambiati i ruoli, le squadre si schierano di nuovo una di fronte all’altra e realizzano la famosa “carica cantabrica”. Per i soldati schierati a sinistra della tribuna, l’esercizio consiste nello scagliare una lunga asta di lancia senza lama su un cavaliere della squadra avversaria, cavalcando in cerchio in senso antiorario (fig. 19)148. Le prove successive comprendono competizioni di tiro rapido, tiro al bersaglio, poi altri esercizi che implicano armi particolari: palta (dardi?), frecce lanciate con l’aiuto di una “macchina” (probabilmente una manuballista), pietre scagliate a forza di braccio o con una fionda, poi una specie di duello con una lunga lancia (kontos). L’ultimo capitolo del trattato segnala che Adriano ha fatto adottare alle sue truppe manovre “barbariche”: quelle degli arcieri a cavallo parti e armeni, ma anche le volte e le controcariche dei lancieri sarmati e germani. Sotto il Principato, le grandi imprese di conquista sono meno frequenti che in passato, ma restano importanti, dal momento che si tratta di un elemento essenziale di legittimazione del potere imperiale149. La cavalleria non si limita ad assicurare la protezione dei confini imperiali, ma partecipa anche regolarmente a guerre offensive per cui sono necessari effettivi importanti. Nel i secolo d.C. tutte le unità ausiliarie impegnate in spedizioni sembrano essere mobilitate. La struttura amministrativa del reggimento funge da base alla sua organizzazione tattica150. Ma dal regno di Traiano (98117) gli imperatori prendono l’abitudine di raggruppare dei “distaccamenti”, le vexillationes equitum (dal latino vexillum, “stendardo”), formate a partire dai contingenti provenienti da unità diverse, che sono costituite ad hoc e permettono di selezionare in ogni corpo di truppa gli elementi più adatti al combattimento, evitando però di sguarnire troppo alcuni settori di frontiera, che necessitano di una presenza militare costante151. Si osserva per la prima volta questa pratica durante le guerre daciche del 101-106: le iscrizioni contemporanee indicano che nelle operazioni vengono utilizzati soldati 140
appartenenti a 26 ali diverse e segnalano la costituzione di corpi mobili di cavalieri illirici, britanni e siriani152. Il pridianum della cohors I Hispanorum veterana precedentemente citato spiega forse come erano costituite le vessillazioni: si fa infatti riferimento a 23 cavalieri distaccati “per la spedizione al di là del Danubio”. Nella prima età imperiale cresce l’importanza numerica delle truppe montate negli eserciti impegnati in campagne militari. La porzione di cavalieri raggiunge ormai il 10-25%153 e, in alcuni casi, è stimata al ribasso poiché non disponiamo di cifre precise riguardo alle forze fornite dalle potenze alleate dell’Impero154. Sulla precisione dei dati influisce inoltre il margine di incertezza legato all’eventuale presenza, nei corpi di spedizione, di cohortes equitatae (gli autori antichi si limitano a citare delle “coorti”, senza fornire informazioni sulla loro composizione). Bisogna poi ricordare che l’importanza della cavalleria all’interno di un esercito non lascia necessariamente presagire il suo peso reale durante gli scontri tattici, prova ne è la proporzione eccezionalmente elevata di cavalieri (tra il 27% e il 38% del totale degli effettivi) durante la battaglia del Mons Graupius, in cui combatterono soltanto le truppe ausiliarie, dato che Agricola decise di tenere in riserva le legioni155. Noteremo inoltre che eserciti composti soltanto da cavalieri non sono del tutto assenti dalle fonti. Durante la seconda campagna condotta da Germanico in Germania nel 15, il generale romano divide le sue forze: “Inviò Cecina con quaranta coorti romane, attraverso i Brutteri, al fiume Amisia, per distrarre il nemico, mentre il prefetto Pedone conduceva con sé la cavalleria per le terre dei Frisoni”156. Ma questi distaccamenti rimangono generalmente temporanei e sono motivati da esigenze logistiche più che da considerazioni tattiche. In quest’epoca la dottrina di utilizzo della cavalleria non conosce grandi mutazioni. Finché gli eserciti presenti su un teatro di guerra non sferrano un attacco decisivo, le operazioni si limitano a manovre e combattimenti di ampiezza limitata. I Romani continuano a praticare la guerriglia se ritengono di non disporre delle forze necessarie a vincere una battaglia campale, o quando sono costretti a farlo dalla strategia dell’avversario. È però raro che un corpo di spedizione imperiale rifiuti lo scontro. La tendenza generale 141
è piuttosto la strategia di annientamento: in campagna contro i barbari, i generali romani operano manovre e concentrano le loro forze in modo da distruggere l’esercito nemico nel modo più diretto possibile. Nelle marce, i soldati si dispongono per tradizione in colonne sottili, in modo da avanzare con maggiore facilità, ma rendendosi così più vulnerabili agli attacchi improvvisi157. Il ruolo della cavalleria è proteggere le sezioni più esposte dell’esercito, per questo le truppe montate fanno di solito parte dell’avanguardia: avanzano in testa per proteggere la marcia158 o dietro una cortina di fanti tiratori per contrastare eventuali attacchi a sorpresa159. In questa configurazione i cavalieri operano soprattutto con la fanteria ausiliaria. L’avanguardia appare spesso come un’articolazione indipendente, con il compito di fungere da schermo tra l’esercito nemico e il corpo principale composto dalle legioni e dalle salmerie. Quando il nemico si avvicina, gli equites devono tenerlo impegnato in modo da lasciare ai fanti il tempo di schierarsi in ordine di battaglia. Malmenati, i cavalieri possono allora ripiegare dietro la fanteria per rimettersi in formazione. In alcuni casi la cavalleria copre anche i fianchi dell’esercito e le retrovie, con la stessa funzione160. Non è necessario rivedere in dettaglio le differenti funzioni svolte dalla cavalleria durante le battaglie in terreno aperto, perché durante il Principato non subiscono evoluzioni significative161. Le narrazioni militari dell’epoca mostrano che i combattenti a cavallo intervengono durante le scaramucce preliminari destinate a disturbare il dispiegamento dell’esercito nemico o a eliminarne le truppe mobili162. La cavalleria cerca anche di circondare l’avversario con attacchi laterali e manovre di accerchiamento163. Alcuni corpi di truppa sono tenuti in riserva e possono essere usati contro le minacce inattese164. Infine la cavalleria interviene nell’ultima fase della battaglia, non appena uno dei due eserciti rompe i ranghi e inizia l’inseguimento165. Per svolgere tutte queste missioni, le truppe montate devono essere posizionate e manovrate sul campo di battaglia con accortezza. Gli strateghi dell’epoca ritengono che l’esercito debba essere disposto in funzione del dispositivo nemico. Secondo Onasandro il generale è obbligato a posizionare i cavalieri di fronte ai cavalieri nemici166, ma l’autore ammette che, 142
nella prospettiva di una battaglia campale, di solito conviene posizionarli sulle ali, in modo da potere attaccare l’avversario di fronte e di fianco e coprire un’area più vasta possibile – purché non ci siano altre truppe schierate dietro di loro e ogni ala formi quindi un’unica linea estesa. Nella stessa direzione vanno gli esempi storici citati dagli autori antichi, in cui la cavalleria è di solito schierata sulle ali della linea di fanteria principale, vicino alle coorti ausiliarie che formano la porzione esterna della falange167. Su tutte queste questioni tattiche disponiamo dei chiarimenti forniti da una fonte di eccezione redatta sotto il regno dell’imperatore Adriano (117-138), lo Schieramento contro gli Alani168. Questo breve testo è attribuito dall’unico manoscritto che lo tramanda al legato della provincia di Cappadocia Lucio Flavio Arriano ed espone come l’esercito di Cappadocia si schiera in ordine di marcia e poi in ordine di battaglia durante una campagna contro gli Alani, popoli di cavalieri nomadi venuti dal Caucaso (il contesto storico è probabilmente l’anno 135)169. Arriano dispone di una legione di effettivi completi, la XV Apollinaris, e di un distaccamento della XII legione Fulminata, oltre agli ausiliari e ai contingenti alleati forniti dalle potenze dipendenti da Roma, e spiega con precisione come questi diversi corpi di truppa devono schierarsi e reagire di fronte a un eventuale attacco nemico. Le truppe legionarie formano il centro della linea e sono disposte su otto ranghi, quattro di lancieri (kontophoroi) seguiti da quattro ranghi di giavellottisti (lonchophoroi). Le coorti ausiliarie e i contingenti alleati sono posizionati sulle ali, nelle alture adiacenti al campo di battaglia. La cavalleria è stanziata alle due estremità e dietro la linea di battaglia. Arriano sa di doversi confrontare con un esercito di cavalieri mobili e teme soprattutto l’accerchiamento: per questo, afferma, “quelli [i cavalieri] con giavellotto, lancia, spada o ascia guardino entrambi i fianchi e attendano il segnale”170. La prima fase del combattimento non riguarda la cavalleria, ma offre precisi chiarimenti sulla tattica adottata dalla fanteria romana per contrapporsi a un attacco massiccio di cavalieri pesanti171. Arriano raccomanda ai lancieri (kontophoroi) del primo rango di tenere i kontoi (termine che in questo caso indica probabilmente 143
il pilum del legionario romano) in guardia, in modo che, se il nemico si avvicina, possano colpire i cavalli al petto. Il secondo, terzo e quarto rango di legionari tengono invece la lancia in modo diverso, “come per scagliarla”, quindi al disopra della spalla destra, con il palmo della mano rivolto verso il cielo, per lanciare l’arma al momento opportuno; lo stesso vale anche per i giavellottisti (lonchophoroi) dei ranghi successivi. Se questo tipo di sbarramento non basta a fermare i cavalieri alani, i legionari dei primi tre ranghi hanno l’ordine di unire gli scudi per opporre ai nemici una formazione molto compatta; i soldati di quarto rango scagliano i giavellotti al disopra dei ranghi successivi; quelli di terzo rango fanno lo stesso o, se riescono, colpiscono direttamente i cavalieri e i loro animali. Una volta respinto il nemico, i legionari aprono i ranghi (probabilmente raddoppiando la profondità delle file) e i cavalieri attraversano gli spazi lasciati liberi dai fanti per inseguire i fuggitivi al galoppo: Non tutti gli squadroni – scrive Arriano – ma metà; si schierino per primi quelli che poi caricheranno per primi. L’altra metà segua quelli che stanno caricando, in formazione e senza darsi a un completo inseguimento, così che se la fuga si mantenesse forte possano far seguito al primo inseguimento con cavalli freschi e se si verificasse un movimento laterale possano attaccare quelli che lo stanno effettuando. Allo stesso tempo gli arcieri armeni caricando lancino frecce, così da non consentire un dietro-front ai fuggiaschi, e gli armati leggeri con giavellotti li seguano di corsa; lo schieramento di fanteria non deve più restare sul posto, ma avanzare più velocemente che al passo, così che se si verificasse un qualche tentativo piuttosto forte da parte dei nemici possano di nuovo fare da schermo ai cavalieri.172
Arriano è consapevole che i combattimenti di cavalleria sono per natura imprevedibili (soggetti a frequenti capovolgimenti) e che l’inseguimento deve essere accompagnato da misure di precauzione, per questo raccomanda una divisione di compiti a più livelli. I cavalieri che inseguono il nemico in prima linea possono 144
rompere i ranghi per procedere a gran galoppo e fare il maggior numero di vittime tra i fuggitivi. Questi combattenti operano quasi a livello individuale, come nelle scaramucce descritte da Senofonte nell’Ipparchico173; la loro identità non è precisata da Arriano, ma si tratta senza dubbio degli arcieri a cavallo che formano il decimo rango della linea di battaglia principale e sono i più adatti a insinuarsi rapidamente tra le file dei fanti. Li segue una seconda linea di cavalieri, mantenendo la formazione per ranghi e file, e quindi senza superare il trotto o il piccolo galoppo, con il compito di sostenere la prima linea in caso di contrattacco nemico. I fanti pesanti devono invece avanzare rapidamente nella piana e fornire un rifugio ai cavalieri se questi ultimi hanno bisogno di riorganizzarsi in tutta sicurezza. Questo dispositivo rivela quindi una frammentazione e uno scaglionamento degli effettivi in profondità, dalle truppe più mobili sul davanti alle unità più lente sul retro, dalle più adatte in attacco alle più utili in difesa. I compiti che lo Schieramento contro gli Alani assegna ai cavalieri romani fanno presagire i precetti dello Strategikon dell’imperatore bizantino Maurizio (600 d.C. ca.), il più completo manuale militare di epoca tardoantica. Da questo punto di vista appare significativa l’esistenza di un’autentica ripartizione dei ruoli tattici fra truppe di assalto e truppe di sostegno. Arriano non usa i termini tecnici cursores e defensores che si diffonderanno in epoca bizantina per designare questi due tipi di cavalleria, ma la realtà che designano è ben visibile nei fatti. Allo stesso modo, anche la coordinazione tra una fanteria statica, disposta in formazione “falangitica”, e una cavalleria dotata di armamento e di missioni tattiche diversificate preannuncia gli sviluppi militari di epoca tardoantica.
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Capitolo 7
L’età tardoantica ovvero l’epoca d’oro della cavalleria Tra la metà del iii e la fine del vi secolo, il mondo romano conosce profonde trasformazioni. La pressione esercitata alle frontiere dell’Impero dai nuovi vicini “barbari” genera una serie di crisi militari, alternate a periodi più o meno lunghi di stabilità. In epoca tetrarchica (284-324) e costantiniana (324-363) la potenza romana è interessata da una stagione di riforme che toccano anche l’ambito militare: le legioni sono suddivise, la gerarchia di comando è completamente ridefinita e l’organizzazione della cavalleria imperiale è adattata al nuovo contesto strategico; come per la fanteria, le truppe montate si dividono ormai in frontaliere (limitanei) e unità di intervento regionali (comitatenses). Il nuovo dispositivo facilita la gestione delle minacce esterne e porta alla costituzione di una forma di “difesa in profondità”, all’interno della quale la cavalleria ha un ruolo cruciale come forza di logoramento. Tuttavia l’esercito romano continua ad accordare alla fanteria un ruolo di primo piano, soprattutto negli scontri campali. Alla fine del iv secolo questo equilibrio è brutalmente messo in discussione dall’irruzione di nuove popolazioni nomadi in Europa. Gli Unni e, dopo di loro, gli Avari rendono la cavalleria un’arma estremamente mobile, capace di condurre raid anche dentro i confini dell’Impero, con incredibile rapidità. L’efficacia del “Blitzkrieg” nomade obbliga lo Stato romano-bizantino, ormai privo della pars occidentalis, ad adattarsi traendo ispirazione dalle pratiche steppiche. Le riforme del Tardo Impero: una bipartizione della cavalleria romana? Dopo la morte di Alessandro Severo, ultimo imperatore della dinastia severiana, nel 235, l’Impero romano entra in una fase 147
d’instabilità, a volte designata con il nome di “anarchia militare”. La crisi militare è dovuta principalmente all’affermarsi di due nuove potenze: i Goti, che alla fine del ii secolo si installano in Europa orientale, e soprattutto i Persiani sassanidi, che rovesciano la dinastia arsacide nel 224 e adottano una politica estera bellicosa1. Dopo varie sconfitte, si raggiunge il culmine nel 260, quando l’imperatore Valeriano è sconfitto e catturato dai Persiani a Edessa, la Pannonia viene invasa e la Gallia fa secessione sotto la spinta di un leader ambizioso, Postumo. Per reagire alla situazione di crisi, tra il 260 e il 268 Gallieno, figlio e successore di Valeriano, mette in atto numerose riforme. In seguito ai lavori di Emil Ritterling gli viene attribuita anche la creazione di una riserva strategica di cavalleria stanziata a Milano, concepita per affrontare le minacce esterne in tempi rapidi2. Alcune monete contemporanee celebrano per la prima volta l’equitatus e, nella seconda metà del iii secolo, fanno la loro comparsa nuovi corpi di cavalleria: equites scutarii, equites stablesiani, equites promoti, equites Mauri, equites Dalmatae, equites catafractarii/clibanarii, equites sagittarii… Molte di queste unità si ritrovano nella Notitia dignitatum, documento elaborato nei primi trent’anni del v secolo che elenca le unità regolari dell’Impero romano e contiene tracce delle riforme che, dalla metà del iii secolo, hanno contribuito a ridefinire l’esercito romano3. Secondo Ritterling e i suoi allievi, questa nuova cavalleria d’élite sarebbe stata posta sotto un comando unico, detenuto inizialmente dal generale Aureolo. Ma in questa visione tradizionale si coglie un abbaglio, dato dall’anticipazione di ciò che sarebbe diventato l’esercito imperiale alla fine della sua esistenza (una forza ampiamente riconvertita in arma equestre), unito a un’errata comprensione delle fonti. La tradizione antica che attribuisce ad Aureolo, luogotenente di Gallieno, il comando di “tutta la cavalleria” imperiale4 è riportata da autori attivi non prima del vi secolo e deve essere ritenuta errata. Testimonianze più vicine al iii secolo non lasciano dubbi sul fatto che Aureolo non comandava solo cavalieri, ma anche fanti5. Inoltre truppe montate operavano anche al di fuori dell’Italia agli ordini di altri generali6. Bisogna quindi abbandonare l’idea di una grande riserva centrale sotto il regno di Gallieno. Non è invece da escludere 148
una riforma delle unità esistenti: in effetti, nei territori controllati dal potere imperiale (quelli che non hanno fatto secessione sotto la guida di dinasti opportunisti nel decennio 260-270), le unità ausiliarie tradizionali scompaiono dalla documentazione dopo la metà del iii secolo. Se analizziamo in dettaglio le guarnigioni delle province danubiane, notiamo che, all’inizio del v secolo, nessuna delle 44 ali note nel settore all’epoca di Adriano è sopravvissuta7, scomparsa che coincide con l’apparizione dei nuovi corpi di equites precedentemente menzionati8 e probabilmente non è un caso: le ali e le coorti miste, controllate dall’imperatore ancora nel decennio 260-270, sono state distaccate dalla loro guarnigione per far parte dei corpi mobili, in particolare dell’esercito centrale (comitatus) che, dalla fine dell’età severiana, serviva al fianco degli imperatori. Il carattere permanente acquisito da queste vessillazioni nel corso dell’epoca si accompagna alla creazione di nuove nomenclature9. Sembra legittimo supporre che gli equites scutarii e gli stablesiani abbiano semplicemente sostituito le unità danubiane del Principato; ciò spiegherebbe perché le province periferiche risultano le aree meno toccate dal rinnovamento delle truppe, dato che nella seconda metà del iii secolo non conoscono lo sviluppo di grandi eserciti d’intervento regionali. È però innegabile che nello stesso periodo vengono creati ex novo altri corpi di cavalleria. Il caso degli equites Mauri, ben attestati nelle liste della Notitia dignitarum, fornisce un primo spunto di riflessione10. L’utilizzo di giavellottisti africani era una pratica radicata nel mondo romano, ma con gli imperatori-soldato fanno la loro comparsa nuove truppe scelte, contraddistinte da un forte carattere etnico11. Christine Hamdoune ritiene che queste attestazioni ricorrenti siano da collegare a una politica di alleanze con alcune tribù maure, come i Baquati di Tingitania, portata avanti per tutto il periodo12. Anche le unità di equites Dalmatae potrebbero essere state arruolate in seguito a un vero e proprio programma di reclutamento nel sud dei Balcani13. Fin dal 268 rappresentano un corpo ben identificabile all’interno del comitatus14 e rivestono un ruolo cruciale nella lotta contro i nemici di Roma nei decenni successivi15. Le secessioni di Gallia e Palmira potrebbero spiegare la loro creazione. Quando il 149
territorio controllato dal potere centrale si limita ormai ad Africa, Italia, province danubiane e Grecia (l’area che i Romani dell’epoca chiamano Illyricum) e il crollo del limes germano-retico e le ripetute incursioni di Marcomanni e Goti restringono ancor più le possibilità di arruolamento dell’esercito romano, la Dalmazia, come il Nord Africa, costituisce un bacino demografico relativamente risparmiato dagli eventi e quindi capace di fornire agli imperatori una grande quantità di reclute. Bisogna attendere gli anni Settanta del iii secolo perché l’Oriente e la Gallia ritornino progressivamente nell’Impero e la situazione si stabilizzi da un punto di vista militare. La divisione dell’Impero nel 286 determina la ripartizione degli effettivi a disposizione dei due Augusti, Diocleziano e Massimiano. Le vessillazioni di Dalmatae, scutarii, stablesiani, catafractarii e altri Mauri del vecchio esercito regionale illirico (base del comitatus dioclezianeo) sono suddivise tra i principi che collaborano alla gestione dell’imperium romanum. Oltre a questi squadroni, che possiedono già lo status delle legioni16, Diocleziano favorisce l’organizzazione in ali delle nuove unità della cavalleria di frontiera, arruolate a partire da contingenti barbari durante la crisi militare17. Tuttavia le unità del comitatus schierate alle frontiere conservano il rango di vessillazione per non perdere i privilegi che caratterizzano il servizio nell’esercito al seguito dell’imperatore (l’attribuzione di nuovi quartieri fissi rischiava in effetti di tradursi in un declassamento). Nell’Oriente riorganizzato dopo la guerra persiana di Galerio (297-298), queste unità vengono distinte con cura dalle unità locali (indigenae) attraverso il qualificativo illyriciani (cioè “i cavalieri che hanno servito nell’esercito regionale illirico”, prima di essere stanziati in Oriente)18. Hanno rango superiore rispetto alle ali di cavalleria, mentre sono inferiori ai cunei equitum, un’altra categoria di unità frontaliera nata sotto Costantino I, il cui rango viene specificamente creato per ricompensare i reggimenti che hanno accompagnato il principe cristiano nelle sue vittorie contro i tetrarchi Massenzio e Licinio prima di essere smobilitati nelle province periferiche con il ritorno della pace19. Dopo Diocleziano, l’altro grande riformatore dell’esercito imperiale è di sicuro Costantino. Si deve infatti a lui e ai suoi immediati 150
successori l’istituzione definitiva dell’organizzazione militare tardoantica, basata su una distinzione tra truppe dell’esercito centrale (palatini), truppe di eserciti di intervento regionali (comitatenses) e truppe di frontiera (limitanei). Le prime accompagnano l’imperatore o, almeno, sono stanziate in prossimità del luogo in cui risiede la corte. Le seconde formano l’élite degli eserciti provinciali e sono poste agli ordini dei magistri militum. I limitanei occupano invece le antiche guarnigioni di frontiera affidate a ufficiali di minore importanza, i duces, e non percepiscono i privilegi delle altre formazioni. Tra queste componenti c’è principalmente una differenza di prestigio, legata alle fasi di distaccamento e di smobilitazione appena descritte, ma alcuni storici sono arrivati ad associare ai nuovi status una concezione strategica, come l’idea di “difesa in profondità”, che si sarebbe basata sull’azione coordinata di guarnigioni di frontiera e grandi eserciti di intervento, stanziati nelle città dell’interno delle province20. Conviene sottolineare che nessuna fonte contemporanea espone in modo chiaro una simile ripartizione di ruoli, secondo la quale gli eserciti dei duces sarebbero forze “fisse” e le truppe affidate ai magistri militum eserciti “mobili”. Possono essere fatte solo alcune osservazioni a partire dall’analisi delle testimonianze letterarie, delle iscrizioni e della Notitia dignitatum. In primo luogo i limitanei sono associati ai forti, castra, da cui il nome di castellani (o castrenses) attribuitogli nella documentazione giuridica tardoantica21. Queste costruzioni si trovano di solito nella periferia del territorio imperiale e la cavalleria vi occupa un posto molto più importante che negli eserciti comitatenses. Gli imperatori del iv secolo non hanno quindi voluto circondarsi di riserve di cavalleria capaci di raggiungere rapidamente qualsiasi settore minacciato dell’Impero… e non c’è nulla di sorprendente: oltre al fatto che la presenza di cavalieri al suo interno non rende più “mobile” un esercito di campagna (il ritmo di marcia è dettato dalle salmerie), notiamo che, nella pratica, gli eserciti limitanei formano una prima cortina difensiva contro le minacce esterne – e le truppe a cavallo sono sempre le prime a intervenire in contesto difensivo, sia per le operazioni di ricognizione sia per quelle di guerriglia22. È quindi naturale trovarle principalmente ai margini del territorio 151
imperiale. La seconda osservazione riguarda le unità comitatenses, truppe che hanno il privilegio di essere di guarnigione nelle città, spesso lontano dalle frontiere, ma non necessariamente23. In alcuni casi è attestata una forma di sedentarizzazione, che avvicina quindi queste unità ad altre formazioni di frontiera, ma la collocazione geografica fa sì che agiscano soprattutto come riserve strategiche regionali, dopo i limitanei, se l’Impero subisce un’invasione24. È importante non esagerare troppo la portata di queste evoluzioni. In caso di operazioni offensive in territorio barbarico, i limitanei partecipano alla formazione dei corpi di spedizione a fianco dei comitatenses e la distinzione tende così a scomparire25. Nel iii e iv secolo i Romani privilegiano sempre, per quanto possibile, una strategia aggressiva nei confronti dell’immediata periferia26, ma diventa per loro più difficile misurarsi con le potenze militari che si affermano in quegli anni, come le confederazioni germaniche in Europa (Goti, Franchi, Alamanni…), ma anche i Persiani in Oriente o i nomadi prototurchi che si installano nella steppa pontica nell’ultimo terzo del iv secolo. Gli autori dell’epoca sono convinti che i cavalieri barbari siano tatticamente superiori e ritengono che l’esercito romano debba adattarsi per batterli. Ci furono, a quanto pare, sforzi concreti. Alla fine del iv secolo Vegezio, nella sua Epitoma rei militaris, insiste sull’alto livello di efficacia raggiunto dalla cavalleria romana della sua epoca: “Sull’esempio dei Goti, degli Alani e degli Unni le armi della cavalleria [sono] progredite”27. E proprio per questo motivo lo scrittore militare rinuncia a descrivere nel suo manuale i principi del combattimento di cavalleria, che, secondo lui, non hanno ormai più segreti per nessuno: “Sono molti i precetti che riguardano la cavalleria, ma poiché questa parte della struttura militare ha fatto progressi grazie all’applicazione degli esercizi, al genere delle armi e alla migliore qualità dei cavalli, non credo che vi sia nessuna informazione da raccogliere dai libri, visto che lo stato presente della disciplina è sufficiente”28. In effetti la cavalleria del Tardo Impero non ha più lo stesso volto che aveva all’epoca del Principato. Un rapido sguardo alla documentazione mostra che le unità “orientali” – arcieri montati e cataphractarii/catafractarii (termine che dal iii secolo viene preferito 152
a “catafratti”) – occupano uno spazio molto più visibile nei corpi di spedizione tardoantichi e le fonti letterarie attribuiscono grande importanza a queste unità, definite “temibili” (formidabilis) dallo storico Ammiano Marcellino29. Lo studio della Notitia dignitatum permette di contare una cinquantina di unità di equites sagittarii e 19 reggimenti di cavalieri corazzati, composti a volte da clibanarii, termine di origine iranica che serve a designare la cavalleria corazzata, interamente coperta da un’armatura in metallo (nel latino dell’epoca catafractarius aveva acquisito il significato vago di “cavaliere corazzato” e non informava più sul grado di protezione del cavallo)30. I clibanarii compaiono per la prima volta in un’iscrizione di età tetrarchica, sotto forma di vessillazione di cavalleria31. Le fonti letterarie di iv secolo ne danno descrizioni dettagliate, volte a impressionare il lettore civile. Ecco quella che Giuliano consacra ai cavalieri corazzati di Costanzo II nel 357: Hai infatti ai tuoi ordini un immenso numero di cavalieri, simili a statue montate in sella dalle membra connesse a imitazione della forma umana. Partendo dall’estremità del polso sino ai gomiti, e da lì fin sopra alle spalle, una corazza di strisce metalliche si adatta anche al torace e al dorso del cavaliere; un elmo di ferro ricopre il viso. Lo spettacolo offerto è quello di una statua splendida e rilucente, poiché né gambe, né cosce, né l’estremità dei piedi son lasciate sprovviste di quello stesso tipo di protezione, collegata alla corazza per mezzo di una specie di tessuto composto da fini anelli; non una sola parte del corpo potresti vedere a nudo, essendo anche le mani protette da tale maglia, così fine da adattarsi perfino ai movimenti delle dita. Vorrei poter dare con le mie parole un’immagine chiara di questa armatura, ma forse non ne sono all’altezza; chi desiderasse conoscerle meglio, perciò dovrebbe far in modo di vederle, e non limitarsi ad ascoltarne le descrizioni32.
Il panegirista Nazario descrive dettagliatamente la carica, in occasione della battaglia di Torino del 312, dei temibili clibanarii contro l’esercito di Costantino e l’abile controffensiva adottata dall’imperatore, che consiste nel cedere terreno per accerchiarli33. Quarant’anni 153
dopo ritroviamo dei clibanarii alla battaglia di Strasburgo (357 d.C.), che contrappone l’esercito romano agli Alamanni34. Le testimonianze forniscono informazioni convergenti: il cavaliere porta un’armatura in metallo che lo copre interamente evitandogli di usare lo scudo e maneggia la lancia con entrambe le mani. Anche il cavallo è protetto dalla barda, come affermano Nazario e Libanio35. La tattica dei clibanarii romani è simile a quella dei cavalieri corazzati nomadi e orientali. Disposti in squadroni compatti, possono essere utilizzati contro la cavalleria avversaria, beneficiando del vantaggio offerto dalla lunghezza del contus, come sottolinea Ammiano Marcellino: “[gli Alamanni] sapevano bene che un combattente a cavallo, anche se esperto, scontrandosi con un nostro corazziere a cavallo (difeso sotto le sue lastre di ferro) non è in grado di danneggiarlo: deve infatti tenere con una mano redini e scudo e lanciare l’asta con l’altra”36. Possono anche servire come forza di sfondamento contro la fanteria: “Quando hanno sfondato la schiera avversa – nota Nazario – mantengono continua la loro pressione e, senza che possano essere feriti, sbaragliano senza esitare qualunque ostacolo si opponga”37. Gli autori antichi coprono di lodi queste unità, ma nei fatti la loro efficacia in battaglia sembra più incerta. A Strasburgo i catafrattari di Giuliano si disperdono prima ancora di entrare in battaglia, e per questo saranno sottoposti a una punizione infamante38. Più in generale, i cavalieri pesanti dovevano essere molto goffi perché penalizzati dal peso delle armature e dalla lentezza delle imponenti cavalcature; una volta isolati e disarcionati è facile per i fanti massacrarli39. Diventa quindi necessario farli combattere in stretta correlazione con altre truppe più flessibili, ad esempio gli arcieri a cavallo. Il principio è illustrato dalla battaglia di Mursa (351 d.C.), durante la quale si svolge l’azione vittoriosa degli equites sagittarii e della cavalleria corazzata di Costanzo II descritta da Giuliano: “I nostri cavalieri sommergono [i soldati di Massenzio] con una pioggia di frecce galoppando a distanza, e i corazzati li attaccano ripetutamente con cariche ravvicinate”40. L’esempio è sufficiente a provare che i Romani erano perfettamente in grado di utilizzare entrambe le armi al modo dei Parti, alternando tiro di saturazione e attacchi frontali contro linee nemiche disorganizzate41. 154
Per l’epoca presa in considerazione gli esempi sono però rari ed è importante sottolineare che i catafrattari e i clibanarii costitui scono solo una porzione minoritaria della cavalleria tardoantica, un corpo scelto la cui importanza non deve essere esagerata. Un cambiamento più importante riguarda l’organizzazione interna delle nuove vessillazioni di cavalleria create da Gallieno e i suoi successori. Abbiamo visto che dal ii secolo a.C. i Romani avevano l’abitudine di suddividere le truppe in turmae di circa 30 soldati. Questo modulo, che caratterizza anche la cavalleria del Principato, scompare nelle nuove unità della seconda metà del iii secolo, sostituito dalla centuria di un centinaio di soldati, e l’unità di base dei reggimenti sembra fissarsi attorno ai 300 soldati invece che 50042. Il cambiamento è accompagnato dalla creazione di una nuova gerarchia, che prefigura il tagma (squadrone) bizantino di vi secolo43. Scompaiono i gradi di decurione, duplicarius e sesquiplicarius, sostituiti da nuove posizioni di ufficiali subalterni come gli exarchi, i biarchi e i circitores menzionati dalle fonti44. I biarchi fungono da capifila all’interno di una formazione molto più profonda che in passato, con forse dieci ranghi di cavalieri45. La funzione tattica degli altri ufficiali è più difficile da determinare. In teoria ogni vessillazione è composta da tre centurie. Queste nuove suddivisioni sono guidate dai centenarii (comandanti di una centuria?) e dai ducenarii (comandanti di due centurie? Il centenarius più alto in grado nella vessillazione?), a loro volta agli ordini del comandante (praepositus) dell’unità46. Il passaggio da una formazione poco profonda a una più profonda consente di integrare, all’interno delle file, specialisti di differenti modalità di combattimento. Come nella falange composita dei fanti romani tardoantichi, i primi ranghi sono pesantemente armati e combattono con la lancia, mentre i ranghi successivi sono formati da lanciarii (giavellottisti) o sagittarii (arcieri)47. I cavalieri nomadi di epoca tardoantica: lo scontro con il modello unno Dal vi secolo a.C. il Vicino Oriente e l’Europa non avevano più subito grandi invasioni di popolazioni nomadi. Dopo 155
l’insediamento degli Sciti nella steppa del Ponto, i nuovi arrivati, Sarmati e Alani, non furono in grado di organizzare attacchi ripetuti, su larga scala, contro l’Impero romano. Le fonti menzionano solo azioni circoscritte, come il raid alano del 135. L’irruzione degli Unni nel bacino danubiano nel 376 segna quindi una cesura storica importantissima, il cui principale effetto collaterale fu quello di premere i Goti alle frontiere48: il risultato fu il disastro di Adrianopoli nel 378, con tutto quello che ne seguì. Dalla fine del iv secolo all’inizio del vii secolo, l’Impero romano deve affrontare i ripetuti attacchi di grandi confederazioni nomadi, condotti da immense armate di cavalieri capaci di compiere manovre con incredibile rapidità49. L’arrivo di queste nuove popolazioni rappresenta una minaccia senza precedenti, come sottolinea giustamente John Keegan: Questi popoli di cavalieri erano di tutt’altro tipo. Attila aveva dato prova di potere spostare il centro strategico delle sue offensive – lo Schwerpunkt, secondo la dottrina dello stato maggiore prussiano – dall’est della Francia verso il Nord Italia grazie a spedizioni successive, coprendo oltre ottocento chilometri in un tempo record e operando lungo le linee esterne. Mai in passato era stata intrapresa una manovra strategica di tale ampiezza, né sarebbe stato possibile. Una simile libertà di movimento, a una tale scala, rappresentava il cuore della rivoluzione generata dalla cavalleria.50
Questa “rivoluzione della cavalleria” aveva però radici profonde, dal momento che si basava su due vantaggi che caratterizzavano le armate nomadi da oltre un millennio: la straordinaria mobilità operativa, garantita da una rimonta numerosa e dall’eccezionale resistenza dei cavalli delle steppe, e la superiorità tattica conferita dall’arcieria montata, che permette al combattente di uccidere a distanza evitando di essere ucciso. Nelle Res Gestae di Ammiano Marcellino queste qualità tradizionali dei nomadi delle steppe sono associate agli Unni: A volte, quando sono provocati, [gli Unni] combattono; iniziano 156
la battaglia con schiere a forma di cuneo, le loro urla (di vario tipo) hanno un suono torvo. Agili e imprevedibili nella loro velocità, all’improvviso si disperdono a ragion voluta e , ; corrono qua e là compiendo grandi stragi e non li si vede neppure (data grande dei loro movimenti) quando entrano nel campo nemico né quando lo saccheggiano. Li si potrebbe senz’altro definire combattenti i più energici fra tutti: da lontano combattono infatti con giavellotti connessi (con tecnica mirabile) a ossa aguzze (e non a punte di ferro). Da vicino si scontrano (senza riguardo ) a colpi di pugnale; scagliano lacci con cui legano i nemici (mentre questi comportati dalle spade), togliendo così la possibilità di cavalcare oppure di muoversi a chi resiste e viene a trovarsi con le membra prese al laccio51.
La velocità, l’imprevedibilità delle strategie, le manovre improvvise sembrano quindi caratterizzare in modo particolare gli Unni. Informazioni simili sono fornite da Claudiano e Zosimo. Il primo insiste sulla “mobilità estrema” dei cavalieri, che compiono manovre “senza ordine” e “contrattaccano all’improvviso”52; il secondo aggiunge che gli Unni ignorano come condurre una battaglia campale: “Fanno delle circonvoluzioni, caricano e si ritirano al momento opportuno, tirando frecce dai cavalli”53. Entrambi gli autori ammirano le qualità belliche di questo popolo che non combatte mai a piedi e ignora il combattimento di fanteria54. Eppure già in passato i Romani si erano confrontati con eserciti di cavalieri molto versatili. Qual è allora la differenza? Innanzitutto la qualità dell’equipaggiamento, e soprattutto dell’arco unno55, di grandi dimensioni, come confermato dai ritrovamenti archeologici (i reperti noti misurano tra i 120 e i 160 cm), e munito di estensioni in osso che procurano all’arciere un allungo più importante e consentono di aumentare la forza necessaria a scoccare una freccia (fig. 20). La maggiore lunghezza dell’estensione superiore dà all’arco un profilo asimmetrico particolarmente adatto per l’arcieria montata. Il cavaliere deve in effetti potersi girare su se stesso per mirare bersagli situati alla sua sinistra 157
o alla sua destra, facendo passare il flettente inferiore dell’arma da una parte all’altra dell’incollatura del cavallo. Il corpo dell’arco è invece costituito da una struttura di legno, rinforzata da tendini e corno solo a livello dei flettenti, in modo da renderli più flessibili; l’impugnatura che, al contrario, deve essere il più rigida possibile, è munita di vari rinforzi in osso. Queste placche riducono la vibrazione dei flettenti dopo lo scocco della freccia e permettono di ottenere una grande precisione nel tiro diretto a corta distanza. Gli archi unni sono utilizzati con frecce di grandi dimensioni a tre alette, di forma romboidale. Sono più pesanti, meno maneggevoli degli archi “scitici”, ma sono anche più potenti e hanno una gittata superiore56. Unni e Avari non combattono solo con gli archi: al momento dello scontro utilizzano anche spade e lance e in alcuni casi si proteggono con armature e corazze57. Alcuni guerrieri delle steppe sono quindi veri e propri cavalieri polivalenti, equipaggiati per il combattimento a distanza come per lo scontro diretto58. La descrizione di Ammiano Marcellino suggerisce che possono passare da una modalità di combattimento all’altra a seconda delle circostanze. Anche l’autore dello Strategikon afferma che gli Avari vanno in battaglia armati di lancia (kontarion) e arco (toxon) e “usano l’uno o l’altra a seconda dei bisogni”59. Richard Van Nort ritiene che una simile polivalenza sia all’origine dei successi tattici degli Unni, perché prima di loro i cavalieri della steppa e dell’Iran avrebbero tenuto separate componente leggera e componente pesante all’interno delle loro armate60, ma questa affermazione è contraddetta da numerose testimonianze iconografiche risalenti ai primi tre secoli della nostra era, che mostrano come, prima dell’arrivo degli Unni, il modello del lanciere-arciere con protezioni pesanti fosse già noto a Sarmati, Alani e Persiani61. Presso gli Unni l’efficacia dei kontophoroi era forse maggiore grazie all’adozione di nuove selle con un’anima in legno, munite di due arcate avvolgenti (fig. 21), ma è difficile sapere se questo finimento procurava una seduta più stabile rispetto alle tradizionali selle “a corna” e se deve essere considerato un’innovazione importante62. 158
20. Ricostruzione schematica dell’arco unno scoperto nel 2008 nella tomba di Shombuuziinbelchir. Fonte Reisinger 2010, 58, fig. 36
21. Ricostruzione di selle unne in legno. Fonte Bóna, p. 127, 205-6 fig. 123
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Le cavallerie delle steppe di v-vi secolo non combattono in orde disordinate, ma sono dotate di una catena di comando. Negli squadroni esiste una gerarchia di ufficiali superiori e subalterni che sembra riflettere lo status degli individui all’interno della confederazione tribale63; pur essendo poco nota, possiamo intravederla in occasione del banchetto alla corte di Attila a cui assiste Prisco nel 44964 e la ritroviamo nelle unità alleate unne dell’esercito di Giustiniano (527-565). Procopio menziona infatti, a proposito della campagna africana di Belisario del 533, una formazione di 6.000 cavalieri “massageti”, agli ordini di due ufficiali (Sinnion e Balas)65, e cita inoltre, in occasione di uno scontro, un sottufficiale a capo di “un piccolo reparto di soldati, il quale godeva il privilegio, ereditato dai suoi padri e dai suoi antenati, di affrontare i nemici per primo fra tutti gli Unni”66. Sembra quindi che i combattenti di illustre origine servissero di preferenza in prima linea, informazione che verrà confermata successivamente dal missionario francescano Giovanni da Pian del Carpine a proposito dei Mongoli67. Ma, diversamente da Romani e Persiani, Unni e Avari privilegiano la formazione senza ranghi né file, in ordine sparso, chiamata drungus68 nella letteratura militare tardoantica. L’insieme di tutti questi fattori – qualità dell’armamento, disciplina, gerarchia e organizzazione tattica – rende i guerrieri nomadi di epoca tardoantica avversari particolarmente temibili. Le fonti dell’epoca menzionano spesso la distruzione di interi corpi di spedizione romani da parte di armate unne o avare69. Ma Unni e Avari si distinguono dai loro predecessori soprattutto a livello delle operazioni e della strategia di teatro. Nel capitolo 2 abbiamo visto che il raid finalizzato al saccheggio era la modalità operativa abituale degli eserciti nomadi. Tali incursioni, per essere efficaci, necessitavano di grande rapidità e di solito mobilitavano un numero limitato di combattenti; solo eccezionalmente gli effettivi potevano raggiungere una cifra vicina alla decina di migliaia di cavalieri. Ma se massicci raid di eserciti di cavalleria – come l’incursione sarmatica del 69 d.C. – appaiono episodi occasionali durante il Principato, per gli Unni e i loro successori si tratta di una modalità operativa sistematica. L’estrema regolarità con cui operano è testimoniata 160
dalla cronaca delle incursioni nomadi che colpiscono il territorio imperiale durante il v e il vi secolo: in quest’arco di tempo si contano non meno di una trentina di invasioni70! Le regioni più duramente colpite sono le province del Medio e Basso Danubio. L’Oriente “asiatico” si colloca al secondo posto, ma non sembra essere vittima di grandi invasioni al tempo dell’egemonia avara. Contro questi nemici nomadi, l’Impero perde qualsiasi iniziativa strategica: il suo territorio viene penetrato in profondità, i suoi forti e le sue città sono distrutti, le campagne saccheggiate, gli eserciti sgominati. Le armate nomadi arrivano più volte alle porte della nuova capitale, Costantinopoli. L’ampiezza geografica di alcuni attacchi (quelli del 395, 517, 540, 558 e 584) è indizio dell’estrema mobilità degli eserciti nomadi. Dal suo eremo di Betlemme, Girolamo descrive la folgorante rapidità degli Unni nel 39571: Ci fu recata improvvisamente e da diverse parti la triste notizia, che mise tutto l’Oriente nella più profonda costernazione: dall’estremità della palude Meotide, tra i ghiacci del Tanai e la crudele nazione dei Massageti, nel luogo in cui, nel monte Caucaso, le Porte di Alessandro servono da riparo contro questi popoli selvaggi, orde di Unni avevano fatto irruzione e correvano dappertutto sui loro cavalli agili recando ovunque la strage e la morte. Non c’erano allora truppe in quelle zone, perché la guerra civile teneva occupata in Italia l’armata romana. […] Costoro prevenivano con una marcia precipitata la fama appena sparsa della loro irruzione, e comparivano di sorpresa. […] Correva la notizia che questi barbari marciassero su Gerusalemme, mossi dalla speranza di potervi fare un grosso bottino. Venivano intanto riparate le muraglie della città, trascurate durante la pace. Antiochia era assediata e la città di Tiro, per ritirarsi nella sua antica isola, era giorno e notte occupata a tagliare quell’istmo che la unisce al continente. In tale pericolosa circostanza fummo noi pure obbligati ad equipaggiare dei vascelli e a tenerci pronti sopra la spiaggia per prevenire l’irruzione dei nemici. E sebbene il mare fosse pressoché di continuo agitato, temevamo assai meno di naufragare che di cadere tra le mani di quei barbari.72 161
In effetti i Romani restano inermi di fronte all’attacco e non hanno il tempo di riunire un esercito e farlo intervenire73. Per gli eventi del 592 il ritmo di marcia delle colonne nomadi può essere stimato con relativa precisione grazie alle informazioni fornite da Teofilatto Simocatta74. Dopo avere attraversato la Sava all’altezza di Sirmium, il khaghan degli Avari Baian distacca una parte delle truppe verso la Mesia. Bastano cinque giorni perché l’avanguardia si sposti da Sirmium (Sremska Mitrovica) a Bononia (Vidin), coprendo cioè circa 350 km, se consideriamo il tragitto più diretto che passa da Viminiacum, Taliata e Dorticum. Si tratta di un ritmo medio di 70 km al giorno, forse di più, in un territorio nemico disseminato di forti, impossibili da evitare su alcuni tronconi dell’itinerario (ad esempio all’altezza delle Porte di Ferro, una gola tra le catene dei Balcani e dei Carpazi). Nello Strategikon l’imperatore Maurizio espone la chiave di questa mobilità operativa, spiegando, a proposito dei popoli “sciti”: Li seguono un gran numero di cavalli maschi e femmine, sia per fornire cibo sia per dare l’illusione di massa. Non si accampano all’interno di fortificazioni come i Persiani e i Romani, ma rimangono divisi per clan e tribù fino al giorno della battaglia; i loro cavalli pascolano sempre, sia in estate che in inverno.75
Ovvero i nomadi possono spostarsi ad andatura sostenuta perché dispongono di una rimonta molto numerosa e di cavalli abituati a fare a meno di concentrati (orzo, avena, leguminose); in questo modo possono facilmente cogliere di sorpresa gli avversari, ottenere successi tattici contro eserciti impreparati e impossessarsi di postazioni fortificate76. Da questo punto di vista risulta illuminante il vocabolario utilizzato da cronachisti e storici. Nel 395 gli Unni piombano nell’Oriente romano in modo “inatteso”, “precedendo con la loro velocità la notizia [dell’arrivo]”77. Nel 570 o 571 causa della sconfitta del comes Tiberio è, secondo Teofane il Confessore, un attacco “imprevisto” degli Avari78. Riguardo la campagna del 584, Teofilatto sottolinea che i barbari attaccano Singidunum di sorpresa, mentre la città è senza protezione e gli abitanti stanno 162
mietendo i campi fuori dalle fortificazioni79. Aggiunge poi che gli Avari riescono, in seguito al loro successo, a prendere con facilità anche altre città vicine perché il loro attacco è “imprevisto” e “contrario alle aspettative”80. L’anno successivo Teofilatto insiste ancora sul “carattere repentino dell’invasione”81. Si potrebbero citare ancora molti esempi per dimostrare la capacità dei nomadi di età tardoantica di sfruttare l’effetto sorpresa su una scala geografica a volte molto estesa. Ma bisogna tenere conto anche delle dimensioni degli eserciti che si spostano di centinaia di chilometri in pochi giorni. Anche da questo punto di vista si rilevano evoluzioni: gli effettivi che può mobilitare Attila negli anni 440-450 sono ben superiori rispetto a quanto visto durante le incursioni nomadi del Principato, prova dell’alto grado di unificazione politica raggiunto con la costituzione del suo “impero”82. Nell’ambito della campagna del 451, il Chronicon Paschale (che si basa sulla narrazione perduta di Prisco, un testimone contemporaneo) parla di varie decine di migliaia di combattenti83, e le confederazioni successive non sono da meno. Nel 520 il comandante degli Unni Sabiri Zilgbi pone 20.000 dei suoi uomini al servizio dei Persiani contro i Romani84. Nel 527 gli Unni Sabiri agli ordini della regina Boarex ammontano a 100.000 guerrieri85; alleati dei Romani, annientano un esercito di 20.000 unni alleati dei sassanidi86. Nel 550-551 il comandante kutriguro Chinalion invade l’Illirico con 12.000 uomini87. Un passaggio dello Strategikon conferma che, alla fine del vi secolo, gli “Sciti” (cioè “i nomadi delle steppe”) possono organizzare armate di oltre 20.000/30.000 cavalieri88. Una simile importanza numerica, associata ai rapidi spostamenti, permette a Unni e Avari di combattere in situazione di superiorità tattica assoluta. È però importante sottolineare gli effetti paradossali di un metodo operativo che, con i suoi successi folgoranti, arriva rapidamente a distruggere le condizioni stesse della propria riuscita. Una prima considerazione riguarda gli obblighi logistici legati al mantenimento di vasti eserciti di cavalleria a ovest dei Carpazi. Il mondo mediterraneo antico non dispone infatti di pascoli in abbondanza e l’insediamento di popoli di cavalieri all’interno dell’Impero romano sfocia inevitabilmente in conflitti tra agricoltori sedentari e 163
pastori nomadi89. In un celebre saggio pubblicato nel 1981, Rudi Lindner dimostra che l’installazione degli Unni nella grande pianura dell’Ungheria li ha condotti in parte ad abbandonare lo stile di vita nomade, poiché l’Alföld non poteva sostentare i cavalli con i suoi pascoli90. Le conclusioni dello studioso sono state ridimensionate da studi più recenti91, ma rimane il fatto che le condizioni ambientali dell’Europa sono molto meno favorevoli della steppa euroasiatica allo sviluppo di un’economia pastorizia di tipo nomadico e che, a causa dell’enorme fabbisogno di acqua e piante da foraggio, i nomadi non possono condurre campagne in alcune regioni dell’Impero dopo la metà dell’estate. In secondo luogo, le confederazioni militari unne e avare hanno progressivamente inglobato popolazioni sedentarie (Eruli, Gepidi, Goti, Sciri, Slavi…) che combattono essenzialmente a piedi92. All’epoca di Attila i corpi di spedizione unni sono quindi diventati grandi eserciti misti, più lenti e prevedibili93: gli Unni dispongono di corpi di fanteria, macchine da guerra, salmerie; mettono sotto assedio le città e si sono quindi in parte convertiti ai procedimenti classici della guerra mediterranea94. Il carattere sedentario di queste operazioni li costringe ad abbandonare un’arte militare basata esclusivamente sulla cavalleria, di cui viene sfruttata al massimo la mobilità95. L’effetto di livellamento riduce lo squilibrio tra i belligeranti e permette ai Romani di ottenere di nuovo successi tattici in aperta campagna, come dimostra la battaglia dei Campi Mauriaci, che vede la vittoria del magister militum Ezio nel 45196. Il declino romano e la nuova stagione bizantina Il ridimensionamento del bilancio delle incursioni unne può dare l’ingannevole impressione di un progressivo attenuarsi della minaccia nomade, ma bisogna tenere conto anche degli effetti indiretti di questi attacchi che hanno smosso le popolazioni germaniche insediate ai confini dell’Impero dando così inizio alle “grandi invasioni”97. Mentre in Occidente lo Stato romano scompare progressivamente per lasciare il posto ai regni barbarici che 164
si costituiscono in Italia e negli antichi territori provinciali, in Oriente l’Impero riesce a prolungare la propria esistenza per un altro millennio, con Costantinopoli come nuova capitale. L’epoca protobizantina vede svilupparsi un’autentica civiltà militare equestre grazie ai contatti tra le popolazioni sedentarie e i nomadi che, a ondate successive, occupano le steppe dell’Europa orientale. La moltiplicazione di conflitti e di scambi, l’arruolamento crescente di rinforzi da parte dei Romani, la “democratizzazione” della cultura sulla scia dei grandi disastri militari del Tardo Impero formano un terreno propizio per il fiorire di un’arte della guerra relativamente nuova98. Questa epoca d’oro della cavalleria supera le frontiere dell’Impero romano e fa del cavaliere-arciere una figura preminente dell’ambiente dell’uomo mediterraneo nel v e vi secolo, punto di collegamento tra l’Europa romano-bizantina e l’Estremo Oriente cinese attraversato da simili sconvolgimenti: la pietra angolare di ciò che il sinologo David A. Graff ha di recente definito il “modello euroasiatico della guerra”99. Nel nuovo mondo romano-barbarico sorto nel v secolo, questi sconvolgimenti influiscono innanzitutto sulle conoscenze e sulle tecniche. Sulla spinta di autori che hanno prestato servizio nell’esercito romano, a volte a contatto con cavalieri nomadi assoggettati all’Impero, si perfeziona la medicina veterinaria antica100. L’ippiatria non è più soltanto una scienza teorica ma diventa una vera professione basata sull’osservazione, sulla conoscenza empirica delle ferite, dei traumi e delle malattie che possono colpire gli equini. Vengono riunite grandi collezioni di testi, come quella definita dagli studiosi moderni Corpus Hippiatricorum Graecorum101. I Romani studiano gli usi di nomadi e Orientali102 e a volte ne adottano i procedimenti terapeutici, i metodi di addestramento o gli accessori di equitazione. Alla fine del iv secolo la sella unna ad arcata sostituisce la sella “a corna” romano-celtica103. Successivamente, nel corso del v-vi secolo, la cavalleria romana adotta il filetto ad aste, che permette di controllare il cavallo con maggiore precisione104. E, soprattutto, a partire dal vi secolo si diffonde in Europa la staffa105: questo strumento di metallo, utilizzato nella Cina settentrionale fin dall’inizio del iv secolo, si diffonde in Occidente grazie 165
ai nomadi dell’Asia centrale – non gli Avari, come è stato a lungo sostenuto, ma piuttosto gruppi di Unni o Bulgari106. I lavori moderni hanno forse accordato troppa importanza a questo anello di ferro attaccato alla sella del cavallo. Lynn White jr. riteneva che la sua adozione da parte dei Franchi era all’origine dello sviluppo della cavalleria e del feudalismo in Europa107. In realtà il nuovo strumento non ha favorito la nascita di nuovi metodi di combattimento in epoca tardoantica, né ha contribuito a rendere la cavalleria la “regina delle battaglie” durante il periodo medievale108. La sella romano-celtica era abbastanza efficace per permettere ai cavalieri di compiere tutte le operazioni che li avrebbero caratterizzati nel Medioevo e nell’età moderna. La staffa ha semplicemente consolidato questa situazione di fatto. Innegabilmente si tratta di un accessorio utile per la pratica dell’arcieria montata, perché mantiene in equilibrio il cavaliere che deve prendere la mira al trotto o al galoppo; offre inoltre una migliore stabilità laterale per i combattimenti ravvicinati con la spada109 e soprattutto permette al cavaliere di montare in sella più facilmente. Fino al v secolo la pratica più diffusa consiste nel farsi aiutare da un servo – i cavalieri più abili possono saltare direttamente sul cavallo, come fa il comandante foederatus Teodorico Strabone nel 481110, ma questo metodo scompare progressivamente dalla documentazione nel vi secolo. Bisogna aspettare lo Strategikon, quindi la fine del vi secolo, perché le staffe facciano la loro comparsa nella letteratura militare. Più volte l’autore del trattato menziona una parte dell’equipaggiamento del cavaliere chiamata skala. Nella descrizione dedicata ai finimenti del cavaliere ordinario, possiamo leggere: “Le selle devono avere tappeti spessi e grandi; le briglie devono essere adattate [ai cavalli]; due skalai di ferro devono essere attaccati alla sella”111. In nessun momento Maurizio si sofferma sui vantaggi procurati da tale accessorio, che si limita a citare.
Parallelamente a queste evoluzioni, l’esercito romano-bizantino si adatta a far fronte alla nuova minaccia nomade, pur continuando a funzionare sulla base dell’organizzazione creata da 166
Costantino112. Le truppe regolari sono sempre suddivise tra forze d’intervento, destinate a servire in prossimità dell’imperatore (palatini) o nell’ambito di grandi eserciti regionali (comitatenses), ed eserciti di frontiera (limitanei)113. Tre corpi di cavalleria acquisiscono visibilità a partire dal v secolo: i foederati, i bucellarii e gli optimates. I primi, eredi dei corpi ausiliari del passato, sono posti agli ordini di un comes foederatorum e costituiscono, all’interno dell’esercito romano del vi secolo, vere e proprie unità regolari, che bisogna distinguere dai contingenti alleati propriamente detti (ethnikoi)114. I secondi, pur appartenendo all’esercito regolare (sono infatti stipendiati dallo Stato), forniscono la scorta privata degli ufficiali superiori; i loro effettivi possono raggiungere diverse migliaia di soldati, cifra che dimostra che non si tratta di semplici guardie del corpo ma di un’autentica formazione militare115. Per finire, gli optimates (i “migliori”, i “nobili”) sono contingenti scelti forniti dalle popolazioni barbariche occidentali, attestati dall’ultimo quarto del vi secolo. In origine i combattenti di queste unità sono gli aristocratici goti arruolati da Tiberio II nel 574-575; sono accompagnati dai loro scudieri e rispondono agli ordini di un taxiarchos116. Più tardi questi corpi entreranno, in massa o in parte, nella composizione del seguito militare imperiale creato da Eraclio (610-641): l’opsikion117. Negli eserciti impegnati in spedizioni militari tra v e vi secolo, la cavalleria occupa un posto molto più importante che in passato. Composto attorno al 600, lo Strategikon dell’imperatore Maurizio raccomanda di costituire corpi di spedizione formati da un terzo di cavalieri e due terzi di fanti118. L’autore ammette che la proporzione delle truppe montate può eventualmente scendere a un quarto del totale degli effettivi, ma in un altro capitolo fornisce l’esempio di un esercito composto da 24.000 fanti (67%) e 12.000 cavalieri (33%), numeri che dimostrano che il primo ordine di grandezza era ritenuto la norma119. Gli esempi storici che incontriamo nelle fonti letterarie di vi secolo confermano queste prescrizioni teoriche e a volte assegnano alla cavalleria uno spazio ancora maggiore120. I generali bizantini iniziano infatti a mobilitare con regolarità grandi eserciti di cavalleria completamente autonomi121; si tratta anche 167
di più di una decina di migliaia di cavalieri che agiscono insieme sullo stesso teatro di operazioni con obiettivi strategici diversi, che vanno dalla devastazione del territorio nemico alla distruzione degli eserciti avversari. Quella che, dall’inizio dell’epoca classica, era considerata una specificità nomade diventa così in età tardoantica una modalità operativa diffusa. Una simile evoluzione è di certo legata ai fattori contingenti elencati nei capitoli precedenti: alla fine del vi secolo, la cavalleria “scita” (ovvero unno-avara) svolge la funzione di “esercito paradigmatico”, per riprendere la terminologia elaborata da John Lynn che descrive così il ruolo catalizzatore rivestito da alcune potenze militari nel processo di evoluzione storica delle tecniche belliche122. Perfino i Germani orientali sarebbero influenzati dalle pratiche steppiche, dato che le fonti menzionano spesso armate vandale e ostrogote di soli cavalieri123. La mobilitazione di questi grandi corpi di spedizione equestri è un’opzione esaminata dai trattati militari di epoca bizantina: nella prima parte del manuale, l’autore dello Strategikon descrive un kaballarikos stratos, un esercito costituito unicamente da truppe montate124. La descrizione fornisce informazioni di primaria importanza perché molto precisa e accompagnata da diagrammi esplicativi aggiunti dall’autore del trattato. Uno degli schemi mostra l’insieme dell’esercito schierato su due linee principali, seguite da una linea di riserva (fig. 22): la prima linea ha un ruolo offensivo e la missione di attaccare l’esercito nemico; la seconda serve da linea di sostegno e deve potere accogliere nei suoi intervalli i cavalieri della prima linea in caso di sconfitta. Sullo schema possiamo contare 113 squadroni (tagma), per un totale di quasi 35.000 soldati125. Come qualsiasi modello teorico il diagramma esposto nello Strategikon deve essere interpretato con cautela, perché non è certo che rispecchi fedelmente la realtà. Diversi indizi lasciano tuttavia presagire che la fonte d’ispirazione dell’autore sia un modello storico, forse perfino un documento prodotto a scopi pratici. Si fa infatti riferimento a vari corpi di truppa ben attestati in Oriente alla fine del iv secolo: vessillazioni, foederati, Illyriciani e optimates. Alcuni elementi del diagramma (le posizioni del generale e del suo luogotenente nel dispositivo di battaglia; la 168
22. Esercito di cavalleria presentato in Maurizio, Strat., III, 8. Fonte Mazzucchi 1981, 116-117
tripartizione della prima linea; lo schieramento di truppe da imboscata a fianco della linea principale; la presenza di foederati al centro) possono perfino permettere di collegare lo schema tattico a un contesto preciso, quello della campagna del 586 condotta dal generale Filippico contro i Persiani, contrassegnata dalla vittoria romana nella battaglia di Solachon126. Componente ormai onnipresente della guerra di vi secolo, la cavalleria impone una forte impronta all’arte militare tardoantica. Per lottare contro le incursioni di popoli di cavalieri, i Romani abbandonano progressivamente i dispositivi difensivi a cordone (limites) per fortificare i territori all’interno dell’Impero127. Le piazzeforti si moltiplicano e fungono sia da rifugio per le popolazioni civili sia da basi per l’organizzazione di contrattacchi mobili128. In questo nuovo paesaggio di guerra caratterizzato da una maggiore “profondità strategica”, la fisionomia delle operazioni militari sembra essere profondamente cambiata: le battaglie campali sono più rare, i belligeranti si limitano il più delle volte a schierare eserciti 169
di cavalieri, occasionalmente sostenuti da forze di fanteria. In alcune narrazioni di campagne militari possiamo inoltre osservare una nuova ripartizione dei ruoli: mentre la fanteria si limita a difendere forti e città, le truppe montate diventano la principale arma tattica che agisce in aperta campagna. Gli spazi aperti, puntellati di fortezze, diventano una no-man’s land inospitale in cui i fanti si avventurano raramente, con il rischio di essere attaccati da cavalieri installati nelle basi fortificate. Tale dottrina militare è efficacemente messa in scena da Procopio, nel racconto della battaglia della porta Salaria dell’inverno del 357: Belisario, incaricato di difendere Roma contro gli Ostrogoti di Vitige, organizza una sortita contro gli assedianti. All’inizio vorrebbe utilizzare solo cavalieri, ritenendo che la fanteria non debba combattere lontano dalle mura della città, ma alla fine si lascia convincere del contrario da due ufficiali. Durante lo scontro la cavalleria bizantina, sconfitta, riesce a rifugiarsi nel perimetro dell’Urbe, ma i fanti sono quasi tutti massacrati nella ritirata129. Per fornire le risorse necessarie alla pratica di questa nuova forma di guerra, lo Stato romano-bizantino riorganizza la sua infrastruttura militare tenendo maggiormente conto dei bisogni della cavalleria imperiale. La rimonta è posta direttamente sotto controllo della corte che ingaggia degli stratores incaricati di ispezionare gli animali acquistati da fornitori privati130. In parallelo sono creati grandi allevamenti imperiali131, segnalati già nel 364 in una lettera di Libanio al responsabile delle proprietà imperiali nella provincia di Cappadocia: il retore siriano ci informa che il suo corrispondente agisce in qualità di “responsabile dei cavalli” e per questo supervisiona gli “allevatori”132. Non viene precisato se i cavalli in questione siano destinati all’esercito, ma una risposta è fornita da Claudiano che, in un poema composto nel 404 in onore di Serena, nipote di Teodosio I, afferma che, prima di diventare magister militum, Stilicone fu responsabile degli allevamenti imperiali in Cappadocia e del dilectus dei cavalli133. Questi versi permettono di stabilire che la funzione del comes stabuli sacri era precisamente quella di supervisionare il reclutamento di cavalli destinati all’esercito134. Gli allevamenti imperiali sono attestati in Asia minore 170
ma anche in Tracia, vicino a Perinto, dove sono acquartierate le scholae palatinae, la guardia a cavallo dell’imperatore. Durante le guerre di Giustiniano in Occidente (527-565), i cavalli di queste stazioni di monta sono inviati verso i teatri di operazioni in Africa e in Italia135. Per il trasporto oltremare vengono utilizzate speciali imbarcazioni, le hippagines136. Attraverso i procedimenti descritti, il potere imperiale riesce a imporre un migliore controllo della qualità dei cavalli, ma viene potenziato anche l’addestramento dei cavalieri137. Oltre ai regolari esercizi a cui sono sottoposte le truppe di frontiera e su cui abbiamo pochi dettagli, gli eserciti ricevono una formazione generale all’inizio di ogni stagione militare138. La conoscenza delle tecniche di combattimento nomadi acquista importanza: se all’epoca di Vegezio solo un terzo o un quarto delle reclute si allena a tirare con l’arco139, nel vi secolo lo Strategikon esige che tutte le reclute romane, fino ai quarant’anni di età, si procurino un arco e imparino a servirsene140. I trattati di età protobizantina accordano una particolare importanza all’arcieria montata. Secondo l’imperatore Maurizio, i cavalieri romani devono sapere tirare al galoppo, davanti, dietro, a destra e a sinistra, utilizzando la presa “mongola” che prevede che la corda venga tesa con l’incavo del pollice e permette di imporre al dardo una potenza massimale. Dopo avere rapidamente scaricato un paio di frecce, i cavalieri devono essere in grado di deporre gli archi nel fodero e impugnare una lancia (sospesa alle spalle) per attaccare il nemico141. Queste tecniche richiedono un allenamento individuale intenso, in diversi ambiti, e solo dopo anni di pratica consentono al cavaliere di raggiungere un alto livello di efficacia e polivalenza: Adesso invece i nostri arcieri – scrive Procopio – vanno in battaglia indossando la corazza e protetti da schinieri fino al ginocchio. Al loro fianco destro pende la faretra e a quello sinistro la spada. Ve ne sono inoltre di quelli che portano una lancia e sulle spalle un piccolo scudo, privo d’impugnatura, ma che tuttavia ripara tutt’intorno il viso e il collo. Per di più cavalcano benissimo e sono anche capaci, facendo roteare rapidamente il cavallo, di lanciare senza difficoltà i 171
dardi da ambedue le parti e di inseguire i nemici colpendoli mentre fuggono. Tendono poi il nervo dell’arco all’altezza della fronte, fin presso l’orecchio destro, e scoccano la freccia con tale forza da uccidere sempre chi si trova a tiro, né vi è scudo o corazza in grado di sostenerne l’urto. Ma c’è pur sempre chi [Procopio allude agli scrittori nostalgici, che rimpiangono i tempi del primato tattico della fanteria pesante], non tenendo minimamente conto di questi fatti, venera e ammira i tempi passati e non apprezza il progresso. Nessuna circostanza, comunque, può alterare il fatto che nelle guerre che sto per raccontare avvennero azioni di grande valore, quanto mai degne di essere celebrate.142
In questo passaggio Procopio descrive il combattente ideale della sua epoca, il cavaliere arciere lanciere143. Questa sintesi di mobilità, impatto e potenza di fuoco sembra ispirarsi a un modello steppico144 e costituirebbe perfino un elemento distintivo dell’arte “eurasiatica” della guerra nei secoli vi-vii, dalla Cina dei Tang all’Impero bizantino: in un recente libro, David Graff non esita a sostenere l’idea di una globalizzazione degli armamenti e delle tattiche all’epoca in questione145. Naturalmente, nel prologo, Procopio ha in mente soprattutto i bucellarii e gli ufficiali superiori dell’esercito bizantino, con cui tra l’altro è stato in contatto in qualità di segretario, assessor, di Belisario146. All’interno delle unità ordinarie la situazione è spesso più complicata (e meno brillante!). Lo Strategikon descrive minuziosamente l’organizzazione degli squadroni (tagmata) che formano lo scheletro della cavalleria romano-bizantina147: ogni tagma è costituito da tre ecatontarchie o centurie per un totale teorico di 310 uomini; i cavalieri sono di solito schierati su dieci ranghi di profondità; se i soldati dei primi quattro ranghi sono equipaggiati con archi (con in più lance e scudi nei primi due ranghi), quelli dei ranghi successivi possono combattere “con ciò che sanno utilizzare”148. Solo i capifila o dekarchoi sono armati pesantemente – i loro cavalli sono muniti di protezioni supplementari, che coprono la testa e il petto dell’animale149. Nello Strategikon la posizione degli ufficiali dello squadrone è indicata sui diagrammi che precisano l’organizzazione del tagma (fig. 23). Il vessillifero 172
(bandifer) si colloca davanti alla fila di mezzo della centuria centrale. Il comandante in capo (tribunus o comes) è posizionato alla sua sinistra. Lo strumentista (bucinator) dietro di lui150.
23. Schieramento del tagma di cavalieri secondo lo Strategikon
Più tagmata formano una brigata (moira); tre brigate formano una divisione (meros); più divisioni (merē) formano una linea di battaglia (parataxis); ogni divisione è composta da una brigata di defensores, schierata al centro, e due brigate di cursores, disposte sulle ali151. Lo Strategikon descrive le rispettive funzioni delle due componenti: “Sono chiamati cursores coloro che avanzano al galoppo oltre la linea di battaglia e piombano rapidamente sul nemico mentre batte in ritirata; defensores coloro che li seguono, senza partire al galoppo né rompere la formazione, ma marciando in buon ordine, come per vendicare i cursores nel caso in cui questi siano costretti a ritirarsi”152. Capiamo così che i cursores sono le truppe d’assalto, incaricate di infliggere perdite considerevoli quando il nemico arretra nello scontro iniziale, mentre i defensores servono soprattutto come forza dissuasiva contro un’eventuale nuova offensiva. Maurizio consiglia di riservare le funzioni di cursores alle truppe “etniche”, cioè i contingenti stranieri, considerati più efficaci in questo tipo di manovre in ordine sparso153. Inoltre 173
ritiene che tre o quattro unità addette alle imboscate debbano essere disposte su ogni lato della formazione di battaglia per impedire al nemico di lanciare un attacco a sorpresa contro il fianco sinistro dell’esercito, ma anche per tendere imboscate dal lato destro, se il terreno si presta154. Anche in questo caso i contingenti stranieri, disposti in formazione irregolare, sono considerati i più adatti a svolgere missioni che presuppongono mobilità e reattività155. Le truppe etniche negli eserciti protobizantini sembrano molto numerose. Lo Stato romano utilizzava le popolazioni straniere dalla fine dell’età repubblicana, ma pare che dal iv secolo venga superata una nuova soglia, a causa delle perdite umane dovute alle sconfitte, della crisi delle finanze imperiali e, forse, della crescente impopolarità della professione militare156. Non tutti i contingenti etnici sono necessariamente integrati nell’esercito romano grazie a un trattato che ne fa dei foederati ed è ormai sinonimo di insediamento di intere popolazioni nei confini dell’impero157; esistono ancora esempi di corpi di dediticii agli ordini di generali romani. Prigionieri o rifugiati barbari, entrati sotto il dominio romano in condizioni sfavorevoli, sono a volte inseriti in reggimenti di cavalleria regolari158. Tutti questi corpi di truppa hanno in comune il fatto di fornire all’Impero specialisti di modalità di combattimento particolari, alcune delle quali prevedono conoscenze tecniche gelosamente custodite o un ethos guerriero difficile da integrare nelle formazioni regolari. Gli Unni e i popoli apparentati forniscono i contingenti di arcieri montati più efficaci, equipaggiati con un potente arco composito rinforzato159. I Mauri e i Saraceni sono eccellenti cavalieri leggeri, armati principalmente di lance, e a volte accompagnati nei loro spostamenti rapidi da camelidi160. La nobiltà armena fornisce lancieri corazzati (nizakawork’), efficaci nelle cariche di sfondamento e nelle ritirate improvvise161. Per finire, i Germani servono in unità di cavalleria equipaggiate più alla leggera ma addestrate al combattimento ravvicinato, con lancia e spada, forma di lotta che non esitano impiegare dopo l’urto se il nemico non cede subito162. Come in passato, la ricerca di un’asimmetria tra i belligeranti 174
continua a condizionare la dottrina di utilizzo delle diverse forze suppletive: i Romani tentano in genere di sfruttare le lacune dei loro avversari, schierando corpi di truppa che possano approfittare delle loro debolezze163. Vediamo ad esempio nel vi secolo degli hippotoxotai “massageti” schierati in Occidente contro i Vandali e gli Ostrogoti che non praticano l’arcieria montata e sono molto vulnerabili nel combattimento a distanza164. I cavalieri germanici, soprattutto Goti e Longobardi, sono invece usati in Oriente contro i Persiani, che hanno una scarsa predisposizione al combattimento ravvicinato165. Tale principio di differenziazione tattica non è solo empirico, ma è soggetto a una vera e propria teorizzazione nello Strategikon166. In fin dei conti, la chiave dell’efficacia della cavalleria romano-bizantina (e forse della sopravvivenza dell’Impero bizantino) risiede nella capacità di trarre vantaggio dalle diverse tradizioni militari del mondo mediterraneo. Questo modello estremamente versatile corrisponde al giusto mezzo tra la dottrina militare dei cavalieri nomadi (che privilegia manovre rapide in formazione irregolare) e quella della cavalleria sassanide (che limita l’inseguimento dell’avversario per non turbare l’ordine delle formazioni)167. Non si tratta però di una totale novità e sembra anzi il risultato dei successivi sviluppi che l’organizzazione tattica della cavalleria romana ha attraversato dalla fine dell’età repubblicana.
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Conclusione La speranza, alla fine di questo saggio, è di essere riuscito a dimostrare il ruolo preminente della cavalleria nelle guerre dell’Antichità. Tra la formazione del Nuovo Regno egiziano e la caduta dell’Impero persiano, l’esercito equestre comincia ad affermarsi nei teatri di guerra mediterranei e sviluppa tutte le caratteristiche che conserverà fino alla sua scomparsa. L’Assiria e l’Impero achemenide sono le prime potenze a dotarsi di forze montate numericamente importanti e polivalenti. Queste truppe ereditano in gran parte il ruolo dei carri leggeri, ma sono più mobili, più versatili e soprattutto molto meno costose. Dal v secolo a.C. la Grecia inizia a sperimentare forme di forte coordinazione tra fanteria pesante e cavalleria. Emerge una vera scienza tattica: la cavalleria copre le parti vulnerabili della falange, attacca il nemico sul fianco e da dietro, assesta a volte il colpo decisivo per la vittoria; dà inizio ai combattimenti con scaramucce preliminari e li conclude con l’inseguimento. Tale dottrina militare non mette in discussione il primato della fanteria pesante, che costituisce sempre la principale forza degli eserciti. Solo i nomadi delle steppe eurasiatiche riescono, grazie a un insieme di fattori economici, sociali e ambientali, a porre le basi di un’arte bellica originale, fondata sull’utilizzo di armate di cavalleria autonome e altamente mobili. Dopo un primo apogeo delle tecniche equestri in epoca ellenistica, i Romani non apportano sostanziali innovazioni, ma l’estensione e la durata della loro dominazione permettono di unificare e perfezionare le tecniche esistenti. L’Impero bizantino, che all’orizzonte del vi secolo fa della cavalleria la sua principale forza aggressiva, è il diretto erede di questa lunga tradizione e delle esperienze accumulate. La cavalleria ha quindi segnato profondamente la guerra antica e non serve aspettare l’inizio del Medioevo per vedere affermarsi il ruolo tattico e operativo delle forze montate, che infatti riescono a ottenere successi importanti e intervengono in contesti tattici 177
molto vari già alla fine dell’epoca assira. Sul piano tattico non sono affette da nessuna carenza rilevante e l’assenza di staffe non costituisce un ostacolo al combattimento ravvicinato. Dovunque si sviluppi, la cavalleria ricopre un ruolo di primo piano nell’evoluzione delle culture militari. È l’arma delle manovre di elusione, dell’imboscata, del massacro dei fuggitivi: una vera e propria “iena del campo di battaglia”1, che le fonti classiche associano volentieri a una forma di guerra selvaggia, estranea ai codici del combattimento eroico. Da questo punto di vista la guerra del Peloponneso e la seconda guerra punica forniscono gli stessi insegnamenti: chi possiede una cavalleria superiore e rinuncia alle convenzioni agonistiche dello scontro campale può ottenere la vittoria per logoramento, sfinendo il nemico senza combatterlo frontalmente. Si trova così sconvolta tutta una scala di valori e non bisogna lasciarsi ingannare dal discorso sviluppatosi in Grecia (e in misura minore a Roma) in reazione a queste evoluzioni, discorso che non riesce del tutto a celare il posto acquisito dalle truppe mobili nelle guerre dell’epoca. Da questo punto di vista, mi sembra assolutamente caricaturale opporre un modello occidentale di guerra, incentrato sulla battaglia campale e il combattimento di fanteria, a un modello orientale, che sarebbe caratterizzato dalle manovre di elusione e dal movimento. Sarebbe più giusto situare la linea di demarcazione tra pratiche sedentarie e nomadi, perché basate su forme di organizzazione sociale radicalmente differenti e non su una distinzione etno-culturale la cui realtà e validità euristica restano da dimostrare. Gli effetti decisivi dell’utilizzo del cavallo in ambito militare portano a chiedersi se la nozione di rivoluzione militare sia pertinente per l’Antichità. Il concetto è stato reso popolare dagli storici modernisti, in origine per sottolineare le conseguenze della diffusione delle armi da fuoco in Occidente tra il 1550 e il 16502. Il suo campo di applicazione è stato a lungo discusso, come anche la natura dei cambiamenti che designa: militari, sociali, politici, culturali ed economici, ma oggi la comunità scientifica riconosce ampiamente il suo valore sul piano epistemologico3. Vari studiosi hanno proposto di applicare l’idea di rivoluzione militare ad altri 178
momenti storici, parlando ad esempio di “rivoluzione oplitica” per identificare i cambiamenti verificatisi in Grecia all’inizio dell’epoca arcaica4, ma bisognerebbe limitare l’uso di questo termine a mutazioni più importanti, che hanno influenzato in modo duraturo la realtà del combattimento e contraddistinto aree più estese. Già prima dello sviluppo degli eserciti oplitici esistevano unità di fanteria disciplinate e la tattica della falange non si è sviluppata molto al di là del mondo greco e delle aree limitrofe. Non si può dire lo stesso della cavalleria, che potenzia in modo esponenziale la mobilità dei combattenti e diventa un fattore così essenziale per la vittoria che, una volta incontratala, un esercito è costretto a creare delle forze montate. Le società che acquisiscono questa tecnica di combattimento ne sono radicalmente sconvolte: lo sviluppo dell’equitazione militare è all’origine del nomadismo nella steppa euroasiatica; nelle società rimaste sedentarie sorgono ovunque élite di cavalieri nella prima metà del i millennio a.C. – e la cavalleria feudale non sarà altro che l’ultima incarnazione occidentale di questo processo5. L’estensione cronologica di questa rivoluzione militare – la prima che la storia abbia mai conosciuto – rimane ancora in parte misteriosa. Probabilmente continueremo a interrogarci sul periodo di circa tre millenni che separa l’addomesticamento del cavallo dalla diffusione del combattimento di cavalleria nel Vicino Oriente e in Europa. È possibile che prima di una certa data l’equitazione militare non abbia raggiunto un livello di efficacia soddisfacente, perché i cavalli non erano abbastanza robusti o perché i finimenti non erano sufficientemente performanti oppure perché il grado di organizzazione delle unità non era abbastanza sviluppato. Hanno potuto influire anche alcuni fattori culturali. Come sottolinea David Anthony, i carri da guerra godevano di antica fama in Mesopotamia, ancora prima dell’arrivo dei cavalli domestici (erano all’epoca muniti di ruote piene e trainati da asini)6. Probabilmente il prestigio del carro come elemento di espressione dello status regale ritardò in queste regioni lo sviluppo della cavalleria. In una lettera indirizzata nel 1775 a.C. al re Zimri-Lin, il prefetto del palazzo di Mari gli sconsiglia di montare a cavallo: “Il mio signore 179
monti solamente su un carro o su mule e onori il suo capo regale”7. Ma il lasso di tempo che separa le prime grandi incursioni delle popolazioni scite, lo sviluppo della cavalleria assira e la comparsa delle prime aristocrazie equestri in Europa è in realtà relativamente breve sulla scala dell’Antichità. In definitiva, come per la maggior parte delle rivoluzioni che hanno interessato le società antiche, è stato necessario un insieme di condizioni favorevoli perché la situazione cambiasse davvero e le nuove pratiche attecchissero. Il rapporto di forza che si stabilisce da allora tra fanti e cavalieri è sottoposto a variazioni che portano, alla fine dell’Antichità, al trionfo dei secondi. Ma questo cambiamento non deve essere esagerato, dal momento che riflette una tendenza antica. Fin dall’epoca di Alessandro Magno e i Diadochi, la cavalleria occupa un posto importante in Macedonia, Grecia e Asia e assume il ruolo di principale forza decisionale. Pur essendo relegata in secondo piano in epoca ellenistica, conosce ancora qualche momento di gloria sotto il comando di Annibale e di alcuni generali romani. La storia dell’Impero romano è anche la storia della lenta affermazione di quest’arma, che permette di vincere le battaglie, controllare vasti territori e sorvegliare efficacemente le frontiere. Mai la cavalleria è stata così importante in Europa occidentale come sotto il dominio di Roma. In fin dei conti l’Oriente romano-bizantino ha soltanto ereditato questa scienza tattica, in un momento in cui le incursioni dei popoli nomadi rendevano necessaria la sua stabilizzazione. In quest’area l’epoca medievale sarà contrassegnata dal primato tattico della cavalleria, mentre le cose andranno diversamente in Occidente, dove la fanteria resterà il nerbo delle armate germaniche, anche dopo la “mutazione feudale” che non sconvolgerà profondamente le abitudini belliche. Così come l’Antichità non fu l’età della fanteria come a molti piace pensare, le ricerche attuali sul Medioevo invitano a non lasciarsi ingannare dall’onnipresente figura del cavaliere, che cela solo superficialmente un’arte della guerra in realtà abbastanza simile a quella dell’epoca antica8.
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Note
Prefazione 1 2 3 4
Tuplin 2010b; cf. infra, p. 31. Hanson 2001, p. 27. Infra, p. 178. I. Eramo, Appunti di tattica, Besançon 2018, p. 39.
Introduzione 1
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NdT: Dove non specificato, ho provveduto alla traduzione dei testi greci e latini tenendo conto delle scelte dell’autore. Nella maggior parte dei casi, gli autori antichi sono citati seguendo il sistema di abbreviazioni utilizzato dall’Oxford Classical Dictionary. Riferimenti completi, edizioni critiche e traduzioni esistenti sono riportati a fine volume. I grandi corpora di riferimento (CIL, RIC…) sono citati secondo le abbreviazioni usuali. Oman [1924], I, 14. Un punto di vista simile si trova in Delbrück [1990], II, 269; Altheim 1953, 295-296; Garlan 1972, 115; Bivar 1972, 273. Lefebvre des Noëttes 1931. Brizzi 2002, soprattutto 189-191. Si veda in particolare Connolly 1987 e 1988 sulla selleria romana. Hyland 1990, 67; Dixon & Southern [1997], 171-172. Alludo alla celebre teoria di V.D. Hanson: si veda soprattutto Hanson 2001 e le critiche di Lynn 2003, 12-20; Heuser & Porter 2014. Keegan 1993, 47.
Capitolo 1 1
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Sull’argomento in generale: Azzaroli 1985, cap. ii; Arbogast 2002, cap. 2; Drews 2004, cap. 2; Anthony 2007, cap. 10; Kelekna 2009, cap. 2. Gimbutas 1997. Levine 1990; Drews 2004. Quest’ultimo è tuttavia più prudente sulla questione dell’addomesticamento, cf. p. 14: “Non è impossibile che il loro addomesticamento sia iniziato sul corso inferiore del Dnepr già nel 4000 a.C”. Anthony et al. 2006; Anthony 2007, cap. 10; Anthony & Brown 2011. Questa concezione è sostenuta in una recente sintesi sulla storia delle relazioni uomo-cavallo che aspira a diventare un punto di riferimento: Kelekna, 2009, 28-39. Telegin 1986. Anthony & Brown 2000, 75. Drews 2004, 23. Levine 1990, 738-739; Arbogast 2002, 19-20. Olsen 2003; Anthony et al. 2006. Arbogast 2002, 23; Bendrey 2012. Jansen et al. 2002; Vilà et al. 2006; Olsen 2006. Audouin-Rouzeau 1994, 6. Negli scavi condotti a Dereivka e a Botai le dimensioni riscontrate vanno dai 136 ai 144 cm al garrese, si veda Anthony & Brown 2011, 133.
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Bökönyi 1974, 250-255. Ibid., 257; Lubtchansky 2005, 31-36. Arbogast 2002, 44-45; Johnstone 2004, 76. Sulla psicologia dei cavalli e le implicazioni nel combattimento: Hyland 1990, 66-67 e Willekes 2016, 26-29. Xen., Peri hipp., 2, 5: “Il palafreniere sarà inoltre incaricato di condurlo in mezzo alla folla e vicino a immagini e rumori di ogni genere. E se il puledro ha paura di qualcosa, bisogna mostrargli, senza arrabbiarsi ma calmandolo, che non c’è nulla di temibile”. Si veda anche Pl., Resp., 413 d, Varro, Rust., II, 7, 12 e Verg., Georg., III, 182-184. Negli eserciti napoleonici si sparava vicino alle scuderie in cui si trovavano i puledri per abituarli al rumore delle armi: Muir 1998, 112. Nell’Antichità le tecniche per desensibilizzare i cavalli erano particolarmente utili per evitare che si imbizzarrissero alla vista di altri animali, soprattutto elefanti e cammellidi: cf. e.g. Ps.-Caes., BAfr., 72, 4-5; Ael., NA, 11, 36. Digard 2004, 45. Anthony et al. 2006, 147-152; Anthony & Brown 2011, 154-156. Owen 1991. Nel suo studio R. Drews ignora questa documentazione egiziana e ritiene che la più antica rappresentazione di un cavaliere in armi si trovi sull’ortostato scolpito di Tell Halaf (Siria) di x secolo a.C.: cf. Drews 2004, 68. Si veda Ward 1902, 55, tav. 3 e Schulman 1957, 264. Meeks 2005. Raulwing & Clutton-Brock 2009, 9 e fig. 6. Leclant 1960, 23-28, tav. I A. Schulman 1957, 267. Beal 1992, 190-198; Vita 1995, 75 e s.; Lafont 2000, 211, 218 e s.; Vidal 2006, 699-702. Eidem 2011, 80-81 (lettera 11). Starr 1939, I, 54. Azzaroli 1985, 43. Schulman 1957, 271; Littauer & Crouwel 1979, 96; Gabriel 2009, 64-65, 72-73. Sui rilievi di Kadesh, tre dei cavalieri sono identificati da un’iscrizione come “esploratori dell’esercito del faraone”. Si tratta tuttavia dell’opinione più diffusa: Sulimirski 1952, 448; Yadin 1963, I, 5; Harmand 1973, 111; Littauer & Crouwel 1979, 68; Keegan 1993, 177; Dalley 1995; Ferrill [1997], 70 e 73; Digard 2004, 50; Archer 2010, 70. Traduzione e commento in Starke 1995 e Masson 1998. Pardee 1985. Una statuetta raffigurante un cavaliere è stata scoperta a Micene (cf. Worley 1994, 9, fig. 2.1): il personaggio tiene nella mano destra un oggetto che potrebbe essere un’arma. Per altri esempi contemporanei si veda Kelder 2012, 2-8. Si veda Schweitzer 1969, 224, fig. 122: su una fibula piatta scoperta a Tebe e conservata nel museo nazionale di Atene vediamo un cavaliere che abbatte un nemico. Kelder 2012. In genere gli studiosi accettano però l’ipotesi dell’esistenza del combattimento di cavalleria fin dall’inizio dell’ Hallstatt, o dalla fine dell’età del Bronzo: Piggott 1965, 177-181; Powell 1971, 5; Osgood 1998, 40-42; Hobby 2001, 397-398; Wileman 2014, 112-115. Su queste rappresentazioni si veda Hobby 2001, 354-371. Secondo Drews 2004, 72 un’incisione rupestre di Tegneby (Bohuslän, Svezia), raffigurante otto cavalieri muniti di lance e scudi, dovrebbe essere situata nel secondo quarto del i millennio a.C. Ma J. Ling, specialista di questo tipo di stele ritiene che l’incisione risalga probabilmente al 300 a.C. (email del 9/4/2015: “L’incisione rupestre può essere datata su basi comparative rispetto agli scudi dei cavalieri alla fase del La Tène e, più specificatamente, al 300 a.C. ca.”). Hobby 2001, 290-305.
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Cowen 1967, 416-420; Hobby 2001, 310. Più prudente: Beylier 2012, 30-31. Drews 2004, 73. Si veda anche Kelekna 2009, 63. Su questi morsi e i vantaggi che procurano: Dietz 2006. Sui morsi organici dell’età del Bronzo: Drews 2004, 83-85. I morsi in metallo non devono essere ritenuti una condizione tecnica indispensabile allo sviluppo del combattimento di cavalleria. In epoca romana eccellenti combattenti a cavallo come i Mauri e i Numidi cavalcavano senza briglie, utilizzando una semplice bacchetta per indicare i cambiamenti di direzione, e un collare-freno (una correggia che, passando sotto l’incollatura, preme sull’arteria trachea) per costringere l’animale a rallentare. Cf. Vigneron 1968, I, 103-105 e Hamdoune 1999, 69-76. Azzaroli 1985, 120-121. Hobby 2001, 442-449 e 474. Sulla questione si veda Vigneron 1968, I, 81-4. Drews 2004, 81-2; Dezső 2012, 24. Gaebel 2002, 47. Al tempo di Senofonte anche i Persiani utilizzano selle di stoffa di questo tipo: Xen., Cyr., VIII, 8, 19. Linduff & Olsen 2010. Rudenko 1970, 129-132, tav. 1-2; Kelekna 2009, 85-86, fig. 3.7. Stepanova 2016. I Traci li hanno forse presi dagli Sciti, ma rimane una congettura fondata su un’interpretazione ottimistica della pittura murale “del cavaliere” della tomba regale di Sveštari, datata al iii secolo a.C. (Chichikova 2012, 47, fig. 66; Stoyanov in Valeva et al. 2015, 432). In epoca classica i Greci utilizzavano barde volte a stabilizzare la seduta del cavaliere. Questi ephippia vengono spesso evocati da Senofonte, ma è difficile sapere se erano dotati di una vera e propria anima solida (Vigneron 1968, I, 82-3). Secondo Delebecque 1950, 172, si trattava di “autentiche selle”. Bishop 1988, 87, fig. 19. Sulle selle “romano-celtiche”, si veda Connolly 1987 e Feugère 1993, 175-179. Su questi archi detti “triangolari”, molto diffusi nel Vicino Oriente prima dell’apparizione della potenza persiana, si veda Miller, McEwen & Bergman 1986, 182-191 e Zutterman 2003, 122-132. Brentjes 1995/1996, 187-198; Lebedynsky 2001 a, 154-159; Zutterman 2003, 134, 140-142, 144-145; Bord & Mugg 2005, 18-24. Grazie alla diversità dei materiali impiegati per la fabbricazione (legno, corno, tendini, osso), garanzia di una migliore resistenza e di una maggiore elasticità dei flettenti, gli archi compositi sciti possono essere più piccoli degli archi semplici, pur conservando una grande potenza di scocco, perfino superiore agli altri archi. Non sono però ancora muniti di estensioni in osso (syāt), attaccate all’estremità dei flettenti, come più tardi negli archi partici, sassanidi e unni. Anthony et al. 2006, 152; Anthony 2007, 124. La tesi di Anthony secondo cui archi come quelli dell’età del Bronzo, con ampiezza di oltre un metro, erano necessariamente di difficile utilizzo da parte di cavalieri e non avrebbero rappresentato nessun vantaggio sul piano tattico mi sembra però assolutamente contestabile. Abbiamo visto che esistono rappresentazioni egiziane di arcieri a cavallo risalenti al ii millennio a.C. Peraltro sappiamo che gli archi compositi di tipo “unno” erano in genere di dimensioni superiori ai 140 cm di lunghezza, ma ciò non toglieva nulla alla loro efficacia, al contrario: cf. Reisinger 2010, 42.
Capitolo 2 1
Si vedano le conclusioni del luogotenente G.T. Denison alla fine della sua monumentale storia della cavalleria: Denison 1877, 507-512. Non sorprende che nella sua opera Le guerre di Cesare, in cui vengono esposte all’inizio le differenze fondamentali tra guerra antica e guerra moderna, Napoleone I si concentri sulla fanteria senza dire nulla dell’evoluzione del combattimento di cavalleria: cf. Lemaistre 1860, 379-389. Da questo punto di vista l’idea di “lunga antichità della guerra” proposta da L. Loreto sembra corrispondere perfettamente con la storia della cavalleria: Loreto 2006, part. ii.
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L’invenzione del carro leggero, facilitata dalla comparsa della ruota a raggi, risale all’inizio del ii millennio a.C. Secondo R. Drews, la folgorante diffusione di tale innovazione fino all’Europa settentrionale e all’Asia mostra che all’epoca cavalcare i cavalli poneva ancora grossi problemi, altrimenti le forze di cavalleria avrebbero conosciuto la stessa sorte (Drews 2004, cap. 3). D. Anthony non è d’accordo e ritiene che le tecniche e gli equipaggiamenti non erano ancora abbastanza avanzati da permettere un utilizzo efficace del cavallo come piattaforma mobile da combattimento (Anthony & Brown 2011, 154-156). Sull’utilizzo militare dei carri, che non è argomento di questo studio, si veda da ultimo: Archer 2010 e i contributi raccolti in Veldmeijer & Ikram 2013. Sulla cavalleria assira in generale: Malbran-Labat 1982, 59-75; Noble 1990; Mayer 1995, 456460; Fales 2010, 117-126; Nadali 2010, 132-133; Dezső 2012, 13-53. Littauer & Crouwel 1979, 134-135. In un recente studio Archer 2010 arriva perfino a suggerire che la cavalleria non ha fatto altro che prolungare e migliorare l’antica funzione tattica dei carri. Rostovtzeff 1943, 180. La prima attestazione di questa tecnica si trova su un sigillo proveniente da Assur che rappresenta una caccia al toro e può essere datato al ix-viii secolo a.C. Come ha mostrato A. Ivantchik, non si tratta di un oggetto isolato: anche su altri sigilli mesopotamici della stessa epoca, così come su cinture in bronzo urartee di viii-vii secolo, si incontrano rappresentazioni del “tiro alla partica”. Cf. Ivantchik 2008. Noble 1990, 65. Dezső 2012, 21-23. Ibid., 19-20. La pettiera in bronzo rinvenuta nel 1974 a Hasanlu (800 a.C. ca.) prova però che i cavalli da sella potevano essere equipaggiati con protezioni di metallo: cf. Winter 1980, 3-4 (che cita anche paralleli visivi sul fregio di Assurnasirpal a Nimrud). Dezső 2012, 46. L’unità tattica di base della cavalleria assira era composta da 50 soldati: ibid., 51. Ibid., 27. Ibid., 20. Nadali 2010, 128-129. Scurlock 1997, 506-509; Nadali 2010, 131 (battaglia di Til-Tuba, 664 a.C.). Scurlock 1997, 498-503 (che propone un’interpretazione molto libera del testo); Dezső 2012, 49. Traduzione adattata di Thureau-Dangin 1912, r. 132-138 Si veda anche ibid., r. 320-321: “Con solo il mio carro personale e un migliaio dei miei arditi cavalieri, gli arcieri, gli uomini (armati di) scudo e lancia, i miei valorosi guerrieri esperti nel combattimento, misi in ordine, poi partii”. Malbran-Labat 1982, 63-70; Nadali 129. Secondo Archer 2010, 71, sarebbe la principale ragione dell’abbandono dei carri da parte degli Assiri. È possibile, ma conviene non sovrastimare troppo questo fattore. L’esito della battaglia del Monte Uauš mostra che i cavalli erano in difficoltà sui terreni montuosi, usati naturalmente come rifugio dai fanti. Cf. Thureau-Dangin 1912, r. 22. Malbran-Labat 1982, 70-72. Fales 2000, 52. Id. 2010, 124. Dezső 2012, 19. Ibid., 47. Ibid., 50. Delbrück [1990], I, 67; Brosius 2006, 58; Kelekna 2009, 120-126. Hdt., I, 136. Xen., Cyr., IV, 3, 22. Hartog 1980, part. i; Lissarrague 1990, cap. v e vi. Tuplin 2010 b. Ibid., 104-107. Xen., Cyr., IV, 3, 3. Tuplin 2010 b, 153-156. La lista di forze che Serse avrebbe portato in Grecia nel 480 a.C. mostra
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che i cavalieri erano forniti quasi esclusivamente dai popoli di quello che oggi chiameremmo “Iran”: Persiani, Sagartiani, Medi, Cissiani, Battriani, Caspi (Hdt., VII, 84-86). Cf. e.g. Xen., Cyr., VIII, 3, 16-17 (40.000 cavalieri) e Diod., XVI, 40, 6 (30.000 cavalieri). Le cifre provenienti dalle fonti greche devono però essere accolte con cautela: cf. Tuplin 2010 b, 151-153. 18% secondo Curt., IV, 12, 13; 20% secondo Iust., XI, 12, 5 e Diod., XVII, 39, 4. Head 1992, 35-39; Gabrielli 2006, 29-34; Casabone & Gabrielli 2007. Le barde erano destinate soprattutto agli attacchi dei carri: Xen., Cyr., VI, 4, 1. Sull’origine dei catafratti si veda Rubin 1955 e, di recente, Potts 2012. Vari indizi lasciano supporre che questa cavalleria corazzata si è sviluppata nella zona di contatto tra le popolazioni sedentarie del nord della piana iraniana e quelle, nomadi, che vivevano a nord dell’Oxos. Hdt., I, 215 menziona in particolare l’utilizzo, da parte dei Massageti, di protezioni per il petto dei cavalli e la prima rappresentazione di barda in metallo ad oggi nota proviene da KhumbuzTepe in Corasmia (Nikonorov 1997, II, 4, fig. 4 g: iv o inizio del iii secolo a.C.). Ma i precedenti assiri sopra menzionati non devono essere trascurati. Head 1992, 31-4. Gabrielli 2006, 82, fig. 34 a e b (sigillo persiano, vi-iv secolo a.C.); Sekunda 1992, 29 (frammento di fiaschetta in terracotta trovato in Corasmia, fine del iv o iii secolo a.C.). Zutterman 2003, 138-144, 149. Gabrielli 2006, 30. Sul registro inferiore di un sarcofago di Clazomene (500 a.C. ca.) possiamo scorgere cavalieri muniti di gōrytos (custodia contenente arco e frecce) in atto di brandire la spada per attaccare gli opliti: Nefedkin 2006, 9, fig. 13. Per esempi provenienti dall’opera di Senofonte: Blaineau 2010, 533. Hdt., IX, 49. Nefedkin 2006, 11 esagera l’ampiezza dei cambiamenti che, secondo lui, hanno influenzato il modo di combattere della cavalleria achemenide in seguito alle guerre persiane: i Persiani avrebbero praticamente abbandonato l’arcieria montata per adottare quasi esclusivamente il modello della cavalleria pesante. Un esempio tratto dall’Anabasi di Senofonte basta a provare che gli arcieri a cavallo restavano una componente importante delle armate persiane alla fine del v secolo: cf. Xen., Anab., III, 3, 10. Si vedano anche le critiche di Blaineau 2010, 532. La descrizione più dettagliata di questa tattica si trova in Xen., Cyr., I, 4, 17-24. In questa narrazione estremamente romanzata l’autore descrive un raid dell’esercito assiro in territorio medo e la risposta del re Astiage, il nonno di Ciro II. È molto probabile che, per la descrizione di queste manovre di cavalleria, Senofonte si sia ispirato a ciò che aveva potuto vedere durante la spedizione dei Diecimila. Cf. Nefedkin 2006, 7-8. Xen., Anab., IV, 3, 3 (battaglia del fiume Centrite, 401 a.C.); Arr., Anab., I, 14, 4 (battaglia del Granico, 334 a.C.). Xen., Hell., IV, 8, 18-19; Polieno, VII, 14, 3. Xen., Cyr., VII, 1, 3 (battaglia di Thymbra, 547/546 a.C.); Id., Anab., I, 8, 5; Diod., XIV, 22, 5; Frontino, Str., II, 3, 6 (battaglia di Cunassa, 401 a.C.). Nella battaglia di Gaugamela (331 a.C.) il grosso della cavalleria persiana è disposto sulle ali ma il centro del dispositivo adotta un ordine misto, con alternanza di squadroni e battaglioni di fanteria: Arr., Anab., III, 11, 3-8. Sekunda 1992, 5-6. Azzaroli 1985, 176-179; Gabrielli 2006, 22-28. Le rappresentazioni figurative di cavalli achemenidi, parti e sassanidi mostrano animali dalla muscolatura molto sviluppata, la cui morfologia doveva essere adatta a portare pesanti carichi. M. Gabrielli pensa che i cavalli nisei misurassero tra i 148 e i 150 cm al garrese, ma si tratta di una pura congettura. Xen., Hell., III, 4, 13-14. Asclep., 7, 4; Ael., Tact., 18, 5; Arr., Tact., 16,9. Sulla “trasformazione nomade” e le sue conseguenze militari si veda Marques 1988 e Lebedynsky 2003, 19. I motivi di questa svolta importantissima sono stati e continuano a essere oggetto di vive polemiche, riassunte in Digard 2004, 51-52. Tutto il problema consiste nel sapere se l’adozione di forze di cavalleria da parte degli Stati sedentari spinse i popoli della steppa ad adattare il loro stile di vita o se la cavalleria si sviluppò prima nel mondo nomade,
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per effetto di nuove condizioni sociali, economiche e ambientali. Darkó 1935 e 1937. Hdt., IV, 22, 46 e 112. Cf. Lebedynsky 2001 a, 100-107. Un quadro sintetico in: Sulimirski 1952 e Karasulas 2004. Cf. supra. Karasulas 2004, 23 sottolinea che gli archi nomadi, in contesto di competizione, potevano avere una gittata massima di più di 500 m, ma che in battaglia la loro gittata era più modesta: “una gittata effettiva di circa 575 piedi (175 m) era più verosimile e, a una distanza di 200 piedi (50-60 m), si può prevedere una precisione letale.” Si veda anche Medinger 1933 e Bord & Mugg 2005, 24. Sulla formazione a “cuneo” degli Sciti: Asclep., 7, 3; Ael., Tact., 18, 4; Arr., Tact., 16, 6. Si vedano i commenti di Rance 2004, 124-125. In origine si trattava probabilmente di una formazione per scaramucce, privilegiata dalle truppe leggere. Sul tiro all’indietro: Rostovtzeff 1943; Ivantchik 2008. E.g. Arr., Anab. 4, 4, 6-7 (battaglia dello Iaxartes, 329, a.C.). Sulla cavalleria catafratta e il suo metodo di combattimento: Mielczarek 1993; Nikonorov 1998. M. Olbrycht pensa che la coordinazione dei due tipi di cavalleria venne utilizzata per la prima volta durante la campagna di Alessandro in Asia centrale (329 a.C.), quando il Macedone si scontrò con la cavalleria battriano-sogdiana di Spitamene, sostenuta dalla cavalleria nomade dei Dahai e dei Massageti: cf. Olbrycht 2010, 197-198. Si veda Sampson 2008, cap. vi e Traina [2011], cap. iii. Da Tūrān, termine persiano che indica le terre situate a nord dell’Oxos, dove, secondo Darkó, si sarebbero sviluppate le tattiche di disturbo dei cavalieri nomadi. Marques 1988, 86, in opposizione alle teorie di P. Briant che vedeva nel carattere predatorio attribuito alle società nomadi un “miraggio” prodotto dall’ideologia aggressiva degli Stati sedentari (Briant 1982), parla di “un legame genetico e storico tra guerra e nomadismo delle steppe euroasiatiche”. Si tratta oggi del punto di vista più ampiamente accettato, come mostra di recente il libro di R. Drews sul “militarismo” dei pastori nomadi indoeuropei: Drews 2017. Keegan 1993, 181 e 213. Si veda Clausewitz, De la guerre, I, 1, 6. Drews 2004, 104-105. Lebedynsky 2003, 27-29. Marques 1988, 92-93: “L’organizzazione socio-politica orienta l’aggressione verso gli Stati sedentari perché i chiefdom sono nebulose instabili costrette, per conservarsi, a trasformare la guerra interna in guerra esterna”. Ibid., 93. Sarmati: Amm., XVII, 12, 3 (due a tre cavalli per cavaliere). Mongoli e Cumani nel xiii secolo: Giovanni da Pian del Carpine, Historia Mongolorum, VIII, 10 (quattro a cinque cavalli); Robert de Clari, La conquête de Constantinople, ed. Lauer, p. 64 (dieci a dodici cavalli). Si veda Chaliand 1995, 133-134. Forse i cavalieri sciti avevano già a disposizione numerosi cavalli di rimonta: cf. Rudenko 1970, 119. Cass. Dio, XL, 15, 3 (Parti); Maurizio, Strat., XI, 2, 31-2 (nomadi “sciti” in generale). Si veda Sinor 1972, 171-172. Le condizioni di vita estreme della steppa euroasiatica, sommate alla selezione naturale, hanno di certo contribuito a produrre animali particolarmente resistenti e frugali. Cf. Arr., Cyn., 23, 2-4 e Veg., Mulom., III, 6, 2-5. Plinio, HN, VIII, 65; XXV, 43-4. Cavalli che si nutrono solo di pascoli, sia in estate che in inverno: Maurizio, Strat., XI, 2, 35. Secondo Plinio il Vecchio i cavalieri sarmati erano capaci di percorrere 150 miglia, ovvero 222 km, in una sola corsa senza interruzioni, cf. HN, VIII, 65. Si veda anche Amm., XVII, 12, 3. Su questo episodio e il suo significato culturale nel mondo greco: Hartog 1980, cap. 2. La spedizione in sé è spesso percepita come esempio archetipico della guerriglia difensiva e di conseguenza paragonata alla campagna di Russia di Napoleone I, ad esempio in Fol & Hammond 1988, 238. Per un approccio critico della spedizione e del racconto di Erodoto cf. Tuplin 2010 a (con bibliografia precedente).
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Hdt., IV, 121-125. Id., IV, 128. Id., IV, 136-142. Id. IV, 127 (trad. A. Izzo d’Accinni). Su questa strategia difensiva si veda anche Hdt, IV, 46. Le modalità operative descritte da Erodoto a proposito dei nomadi non sembrano subire variazioni in epoca tardoantica se prestiamo fede a Maurizio, Strat., XI, 2.
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Bugh 1988; Spence 1993; Worley 1994; Gaebel 2002; Blaineau 2015. Greenhalgh 1973, 78; Lubtchansky 2005, 23-26; Schäfer 2005, 233 e n. 10. Mondo celtico: Brunaux 2004, 30-31, 57 e 66-68. Iberia: Quesada Sanz 2005. Tracia: Webber 2003. Alludo alla celebre teoria dell’archeologo tedesco W. Helbig, secondo la quale in epoca arcaica gli hippeis non costituivano una vera cavalleria: il combattente arrivava sul campo di battaglia a cavallo, accompagnato dal suo scudiero, poi smontava per prendere posto nella falange di fanti. Cf. Helbig 1904. Contra Alföldi 1965 e 1967; Garlan 1972, 111; Greenhalgh 1973, 135 e s.; Worley 1994, 21-23; Schäfer 2005, 235. Paus., IV, 7, 5 e soprattutto 8, 12. Sui proto-hippeis spartiati: Figueira 2006, 67-68. Plut., Amat., 17, 760 e-f. Arist., Pol., 1297 b, 17-24 (trad. R. Laurenti). Si veda anche ibid., 1289 b, 36-40. Sul significato storico del passaggio, cf. Alföldi 1965, 29. Worley 1994, 35. Per una visione d’insieme della documentazione relativa all’epoca arcaica, con vari esempi supplementari, cf. Schäfer 2005. Ibid., 236. Cf. van Wees 2000 (non prima della fine del vi secolo a.C.). È l’opinione più diffusa, cf. e.g. Kromayer & Veith 1928, 93; Adcock 1957, 14; Vigneron 1968, I, 245-247; Garlan 1972, 112. Contra Delbrück 1910. Greenhalgh 1973, 78. Seguito da I. Spence, che sottolinea che la cavalleria restava un’arma efficace contro la fanteria oplitica: cf. Spence 1993, 102-117, specialmente 103. Ibid., 126-151. Cf. Bugh 1988, cap. 3; Worley 1994, cap. 5 e Gaebel 2002, cap. 6. Thuc., II, 79 (Spartolos); IV, 42-44 (Solygeia); V, 6-10 (Amphipolis). Id., IV, 72-73 (Megara); V, 66-73 (Mantinea). Id., IV, 96. E Worley 1994, 96 conclude: “L’uso della cavalleria da parte di Pagonda era innovativo e tatticamente brillante e mostrava una coordinazione che sarebbe diventata il segno distintivo di Filippo II e Alessandro III di Macedonia”. Xen., Hell., VII, 1, 20-21 (trad. M. Ceva). Plut., Pelop., 17, 2. Worley 1994, 141-150. Devine 1983, 210-211. Xen., Hell., VII, 5, 22-25; Diod., XV, 84-86. Su questa battaglia: Delbrück [1990], 169-171; Hammond 1959, 507-509; Anderson 1970, 221-224; Worley 1994, 146-150. Si veda in particolare Delbrück [1990], 167: “I primi a concepire la tattica di collaborazione tra le due armi non furono i Macedoni, ma Epaminonda”. Gaebel 2002, cap. 12 e 15. Ober 1985; Spence 1990 (ripreso in Id. 1993, 127-133); Hunter 2005. Thuc., IV, 95, 2 (trad. F. Ferrari). Sull’importanza della cavalleria in questa spedizione: Gaebel 2002, 101-108. Thuc., VII, 78, 1-82, 3. Id., VI, 22, 1. Id., VI, 94, 4.
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Id., VII, 6, 2-3. Id., VII, 79, 5 (trad. F. Ferrari). Ober 1985, 177-181 (che parla di una “strategia di difesa di cavalleria/guarnigione”); Spence 1990, 92 e 106. Cf. Xen., Hipp., 4, 17 (trad. Petrocelli): “E se, mentre i nemici sono in marcia verso qualche destinazione, un contingente più debole delle truppe resti isolato ovvero per ardire si allontani, questo dato non va trascurato; spetta sempre al più forte dare la caccia al più debole”. Si veda in particolare Clausewitz, De la guerre, VI, 5 e VII, 2. Xen., Hipp., 8, 1 (trad. Petrocelli). Anderson 1970, 115-116; Gaebel 2002, cap. 7; Lee 2007, cap. 6. Xen., Anab., III, 3, 6-10. Ibid., III, 2, 36 e 3, 16-20. Ibid., III, 4, 1-5; IV, 3, 22; VI, 5, 27-28. Id., Hell., IV, 3, 2-8; si veda anche Ages., 2, 2-4. Il procedimento non è direttamente descritto da Senofonte, ma probabilmente era correntemente utilizzato dagli eserciti greci dell’epoca. Cf. Plut., Pelop., 17, 2 (ordini dati da Pelopida al suo esercito prima della battaglia di Tegyra): “E subito impartì l’ordine alla cavalleria di trasferirsi al completo dalla coda in testa alla colonna per attaccare. Intanto serrava in una piccola schiera gli opliti, che erano trecento complessivamente […]” (trad. C. Carena). La falange macedone sapeva anche praticare una manovra di apertura dei ranghi: cf. Arr., Anab., I, 1, 8. Per uno sguardo d’insieme sulla questione: Spence 1993, cap. 1. L’ideologia del combattimento oplitico è perfettamente illustrata dai poemi di Tirteo: per il passaggio citato si veda in particolare Eleg., 11, 31-32. Immagine negativa del cavaliere: Archil., fr. 93; Plut., Mor., 210 f. Sulla “marginalizzazione” attraverso l’immagine degli hippeis: cf. Lissarrague 1990, 217-231. Si veda anche Lubtchansky 2005, 51. Ateneo, Deipn., XIII, 565 c. Su questa transizione e le possibili cause: Worley 1994, 26 e Figueira 2006, 67-70. Thuc., IV, 55, 2 Spence 1993, 3. Kurke 1992. Un’iscrizione recentemente pubblicata ha considerevolmente migliorato la nostra conoscenza di questo sistema: Tziafalias & Helly 2013. Ringrazio J. Clément per aver portato alla mia attenzione questo documento. Helly 1995, 193-211. Spence 1993, 19-22; Worley 1994, 61-63. Per lo status quaestionis, si veda Blaineau 2015, 204-210. Si trattava di cittadini ateniesi, di mercenari stranieri o di schiavi pubblici? Si veda Plassart 1913, 204-212. Blaineau 2015, 213-214, tab. 6. Cf. Arist., Pol., 7, 4 con Spence 1993, 180-181. Xen., Peri hipp., 2, 1. Si veda in particolare Xen., Hipp., 1, 2 e 9-11. Su tutte queste questioni, cf. Blaineau 2015, 220-233. Xen., Hipp., 2, 2-5. Per un’analisi esaustiva, cf. Blaineau 2010, 389-443 (su cui ci si basa in questo capitolo). Xen., Peri hipp., 3, 5 e 7, 13-4. Si veda Blaineau 2010, 342-355. Id., Hipp., 1, 5-6 (trad. C. Petrocelli). Ibid., 8, 10. Ibid., 1, 20. Ibid., 3, 11-13. Cf. Bugh 1988, 59-60 e Blaineau 2010, 437-441. Ibid., 8, 23-25. La manovra, che sembra qui implicare una mezza fila, è descritta da Polibio con l’espressione
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“uscita per fila e doppie file” (exagogē kata lochous kai dilochia): Plb., X, 23, 4. Xen., Mem., III, 3, 1. Id., Ages., 2, 2-5; cf. Hell., IV, 3, 4-9. Id., Hipp., 8, 17-18. Hdt., VII, 158, 4 (hippodromoi psiloi siracusani); Thuc., V, 57, 2 (hamippoi beotici). Sugli hamippoi in generale: Vigneron 1968, I, 249-251; Sekunda 1986, 53-54; Spence 1993, 21 e 58-60; Gaebel 2002, 139-140. Spence 1993, tav. 10 (iv s. a.C.). Xen., Hipp., 5, 6. Per altre occorrenze nell’opera storica dell’autore: si veda Hell., IV, 5, 16 e V, 4, 40. Senofonte si limita a precisare che gli hamippoi devono rimanere dietro i cavalieri prima di uscire all’improvviso per attaccare il nemico frontalmente: Hipp., 8, 19. Ma il passaggio suggerisce che questa manovra mira innanzitutto all’impatto psicologico. Sulla questione si veda Snodgrass 1967, 104-109; Sekunda 1986, passim; Spence 1993, 49-65; Gaebel 2002, 29; Blaineau 2010, 417-430. Xen., Peri hipp., 12, 12. Si veda anche Id., Hell., III, 4, 14. Blaineau 2010, 418 (contra Spence 1993, 54). Xen., Peri. hipp., 12, 13. Su queste armi si veda Quesada Sanz 1994 che rifiuta di attribuire a questi termini un senso troppo restrittivo. Xen., Peri hipp., 12, 11-12. Per una valutazione generale del potenziale dei cavalieri greci nelle azioni d’urto, cf. Spence 1993, 102-217. Sugli elmi beotici e gli aspetti pratici del loro utilizzo cf. Fraser 1922.
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Tarn 1930, 1 e 11. Si veda in particolare Worley 1994, 153 e Gaebel 2002, 10. Ducrey 1985, 104. Sulla cavalleria macedone in generale: Tarn 1948, 154-167; Hammond & Griffith 1979, 408-414; Ducrey 1985, 93-96; Hammond 1989, 104-106 e 123-126; Spence 1993, 26-27; Worley 1994, cap. 7; Hammond 1998; Sekunda 2010, 452-454 e 467-470. L’istituzione dei Compagni risale probabilmente al regno di Alessandro I (498-454 ca.): Kallêris 1987 (seguito da Sekunda 2010, 447). Contra Noguera Borel 2007, 106-110: Alessandro II (369-368). Su questo aspetto si vedano le osservazioni di Hammond 1989, 54-55. Diod., XVI, 4, 3. L’autore probabilmente riporta qui il totale dei cavalieri di cui disponeva Filippo II: cf. Hammond 1989, 124. Sulla questione fa il punto Noguera Borel 2006. Thuc., II, 100, 2 (con Brunt 1976, 152) Hatzopoulos 2001, 43 (seguito da Sekunda 2013, 66), ma tale interpretazione non convince uno degli specialisti attuali di cavallerie ellenistiche (J. Clément, comm. pers.). FGrH, 72 F 4 (Anassimene di Lampsaco). Curt., VII, 1, 32-35. E.g. Diod., XVI, 34, 5. Si veda Hammond & Griffith 1979, 411-412 e 661: l’origine di numerosi squadroni (ilai) di Compagni rinvia direttamente ai territori annessi da Filippo II, ad esempio in Calcidica e nella regione di Anfipoli. FGrH, 115 F 224-5b. Le informazioni di cui disponiamo divergono nei dettagli: Callistene riporta 40.000 fanti e 4.500 cavalieri (Plb., XII, 19, 1 = FGrH, 124 F 5); Tolemeo un po’ più di 30.000 fanti e 5.000 cavalieri (FGrH, 138 F 4); Aristobulo 30.000 fanti e 4.000 cavalieri (FGrH, 139 F 4); Anassimene di Lampsaco 43.000 fanti e 5.500 cavalieri (FGrH, 72 F 29). Discussione dettagliata delle cifre in Brunt 1963, 32-36.
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Diod., XVII, 17, 4. Marsden 1964, 25. Hammond 1989, 55-56. E.g. Arr., Anab., I, 15, 5. La lunghezza della lancia dei Compagni è stata oggetto di numerose speculazioni, in particolare da parte di M.M. Markle (cf. Markle 1977 e 1978), che propone una stima di 4,5 m. La sua proposta è contestata da Sekunda 2001, 37-40 e Gaebel 2002, 168-172, che respingono l’idea secondo cui la “sarissa di cavalleria” sarebbe stata l’arma tipica dei Compagni. Brunt 1963, 27-28; Gaebel 2002, 172-179. Confrontare Arr., Anab., I, 14, 1; 6; III, 12, 3 e Curt., IV, 15, 13. Noguera Borel 1999, 840. Per un approccio sperimentale si veda Connolly 2000 (con le osservazioni complementari di Sidnell 2006, 82). Gaebel 2002, 168-169. È possibile che questa lunga lancia venisse maneggiata con due mani, in modo che non bisognasse afferrare l’asta dal centro. Arr., Anab., V, 11, 3 e 12, 2; Curt., VIII, 14, 5; IX, 2, 24 e 34. Arr., Anab., III, 24, 1; V, 12, 2; 16, 4. La scomparsa dei sarissophoroi potrebbe essere legata alla loro sconfitta ad opera degli arcieri a cavallo sciti durante la battaglia dello Iaxartes nel 329 (cf. infra): essendosi accorto che i suoi lancieri leggeri non potevano rivaleggiare con gli hippotoxotai dotati di una gittata ben superiore, Alessandro sarebbe stato costretto ad abbandonare questi corpi di truppa. Sulla probabile origine iranica degli hippakontistai: Olbrycht 2011, 75-82. Iust., VI, 9, 7; Plut., Pelop., 26, 5. Su questo soggiorno e le sue implicazioni: Hammond 1997. Diod., XVI, 4, 3-7; Frontino, Str., II, 3, 2. Contrariamente a un’opinione ampiamente condivisa (e.g. Hammond 1998, 406), nulla indica che durante questa battaglia i Compagni realizzarono uno sfondamento né che s’infilarono in una breccia aperta dalla fanteria. Diod., XVI, 86, 1-6; Plut., Alex., 9, 2; Pelop., 18, 5; Frontino, Str., II, 1, 9; Polieno, Str., IV, 2, 2-7. In generale su questa battaglia: Hammond 1973, cap. 16; Hammond & Griffith 1979, 596-603 e soprattutto Corvisier 2012, cap. 4. Sul ruolo della cavalleria nello specifico: Worley 1994, 159162; Gaebel 2002, 154-156; Sears & Willekes 2016. Hammond 1973, 546. Diod., XVI, 86, 4 usa il verbo rhēgnumi, che significa “spezzare, rompere per crearsi un passaggio”. Mi rifiuto di credere, sulla base della testimonianza di Plut., Alex., 9, 2, che la cavalleria macedone abbia potuto distruggere, con un attacco frontale, un’unità di opliti in formazione compatta. Il passaggio è ambiguo e proviene da una tradizione encomiastica che non può avere un peso determinante nella ricostruzione degli eventi. Si veda in questo senso Ma 2008, 73-74, n. 13. Contra Sears & Willekes 2016 che ritengono che questo tipo di attacco fosse una specialità degli hetairoi; ma i due autori forniscono come parallelo per l’Antichità solo un riferimento erroneo alla battaglia di Magnesia (190/189 a.C.). Più prudente Corvisier 2012, 87 che suppone che il battaglione sacro venne annientato con “attacchi in successione”. La mia ipotesi è che i soldati tebani furono massacrati dalla cavalleria di Alessandro dopo lo sfondamento del fronte greco. Diodoro precisa infatti che i soldati intorno al giovane principe spezzarono la “continuità delle linee nemiche”, espressione che suggerisce un’azione iniziale indirizzata contro un punto della linea di battaglia che non corrisponde all’estremità dell’ala destra, dove si è soliti situare il battaglione sacro. Arr., Anab., I, 14 (con Fuller 1958, 147-154). Ibid., II, 8-11 (con Fuller 1958, 154-162). Su questa battaglia: Delbrück [1990], 210-219; Griffith 1947; Tarn 1948, 182-190; Burn 1952, 85-91; Fuller 1958, 163-180; Marsden 1964; Devine 1975 e 1986; Hammond 1980, 138-150. Arr., Anab., III, 11, 8-12, 5. Ibid., III, 13-14. Ibid., III, 14, 1. Ibid., III, 14, 2. La maggior parte degli storici ha immaginato un gigantesco “cuneo”, di cui mal si comprende
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l’utilità a una tale scala: Marsden 1964, 57 (“gigantesco cuneo”); Devine 1983, 214-216 (“la forma complessiva della formazione sarebbe approssimativamente un Λ, con le unità costituive disposte lungo le due aste del Λ”); Gaebel 2002, 175 (un “delta”). Sulle formazioni di cavalleria nei tattici greci, cf. il paragrafo successivo. Si veda Nosworthy 1990, 172 (che illustra l’esempio della battaglia di Hoehenfridberg, 1745 d.C.). Arr., Anab., IV, 4. Su questa battaglia si veda Fuller 1958, 239-241 (con una diversa ricostruzione). Arr., Anab., IV, 4, 7. L’aggettivo orthia utilizzato da Arriano per designare questo schieramento in linea verticale è un sinonimo di epi kerōs, “in colonna”: e.g. Arr., Tact., 26, 1. Olbrycht 2007. Arr., Anab., III, 16, 11 e VI, 27, 6. Ibid., IV, 24, 1. Si veda Sekunda 2010, 453; Olbrycht 2007, 313-315. Ibid., V, 13, 4. Plut., Alex., 66, 5. Tarn 1948, 190-198; Fuller 1958, 180-199; Hammond 1980, cap. viii. Arr., Anab., V, 14, 1. Ibid., V, 14, 2-15, 1-2. Ibid., V, 16-7. La mia ricostruzione dello svolgimento della battaglia dell’Idaspe diverge sostanzialmente da quella solitamente proposta, soprattutto per quanto riguarda la manovra di Ceno, che alcuni commentatori non fanno passare dietro la linea di battaglia indiana (Tarn 1948, 194-197; Fuller 1958, 192-197; Hammond 1980, 211-214). Seguo quindi l’opinione di Hamilton 1956, tranne che per un dettaglio: il distaccamento di Ceno non ha sconfitto la cavalleria dell’ala destra indiana prima di inseguirla fino all’ala sinistra, cavalcando dietro la linea di Poro. Tutta la cavalleria dell’ala destra indiana era già stata spostata sull’ala sinistra da Poro che temeva l’attacco dell’ala destra macedone. Ceno si limita a costeggiare il fianco destro dell’esercito nemico, allora completamente sguarnito. Diod., XVIII, 12, 2. I lavori di riferimento sull’argomento sono Hatzopoulos 2001, 32-54 e Sekunda 2012 a, 8-13. Si veda anche Id. 2013, cap. 4. Liv., XLII, 51, 9 (rivista militare di Cirro, 171 a.C.); Plut., Aem., 13, 4 (battaglia di Pidna, 168 a.C.). Plb., XVIII, 22, 2 (battaglia di Cinoscefale, 197 a.C.). Ritroviamo forse la stessa posizione nel diagramma di Cassandrea: Hatzopoulos 2001, 40. Si veda l’interessante tentativo di Sekunda 2013, 68-69, che propone di identificare un oulamos di 50 soldati sulla base della narrazione liviana consacrata ai preliminari della battaglia di Kallinikos (Kallikynos ?), nel 171 a.C.: Liv., XLII, 57, 6-8. La dimostrazione è valida solo per i cavalieri traci dell’esercito di Perseo, ma ci sono buone probabilità che le conclusioni si possano applicare anche alla cavalleria macedone. In tal caso bisognerebbe ipotizzare l’esistenza d’ilai di 100 cavalieri, costituite da due oulamoi. Denominativo che si incontra talvolta al singolare (Liv., XLII, 66, 5), talvolta al plurale (Id., XLII, 58, 9 e XLIV, 42, 2-3). Ci sono quindi logicamente varie unità, per un totale teorico di 400 cavalieri (cf. Plb., IV, 67, 6). Cf. Diod., XIX, 28, 3 e 29, 5, con Hatzopoulos 2001, 35-36 (che suppone che in tempo di pace assicurassero anche la sorveglianza dei confini della chōra). Hatzopoulos 2001, 43-47 (seguito da Noguera Borel 2006, 231). Clément 2014, 95-96. Hatzopoulos 2001, 34. Contra Sekunda 2013, 47-49. Sulla cavalleria seleucidica: Bar-Kochva 1976, 67-75; Sekunda 1994, cap. 4. Diod., XVIII, 3, 4. Olbrycht 2007, 317-318. Si veda ad esempio Liv., XXXVII, 40, 5 e 11 (dove le due unità sono ben distinte). Sull’equivalenza tra hetairoi e ilē basilikē/ala regia, confrontare Liv., XXXVII, 40, 11 e App., Syr., 32, 164. Su questo “principio” della “Doppeltruppe”, che ha attraversato i secoli, cf. Speidel 1994 a, 73.
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Plb., XXX, 25, 8-9. Non sappiano nulla sui Nisei, eccetto che servivano nell’esercito macedone già al tempo della campagna indiana di Alessandro: Arr., Anab., VI, 2, 3. I politikoi hippeis erano forse forniti dalle élite delle città del regno prive dello status macedone (Sekunda 1994, 24), ma potrebbe trattarsi anche di forze arruolate nelle città greche sottomesse all’egemonia macedone. Non sappiamo nulla sugli epilektoi. Plb., X, 49, 7. Ipotesi avanzata da Sekunda 1994, 5-10 e Id. 2001, 128-130. Ael., Tact., 20, 2; Arr., Tact., 18: una ilē = 64 cavalieri; una epilarchia = 128 cavalieri; una tarantinarchia = 256 cavalieri; una hipparchia = 512 cavalieri; una ephipparchia = 1.024 cavalieri; un telos = 2.048 cavalieri; un epitagma = 4.096 cavalieri. Asclep., 7, 10-1 descrive le stesse formazioni senza indicare gli effettivi teorici. Si veda di recente Fischer-Bovet 2014, 123-313. Diod. XIX, 80, 4. Plb., V, 65 (con Fischer-Bovet 2014, 80). Su queste questioni si veda Van’t Dack 1988, 52-55. Non bisogna prestare fede alle ipotesi di ricostruzione proposte da Fischer-Bovet, che postula un alto grado di continuità tra la cavalleria di Alessandro e quella dei Lagidi e non tiene conto delle norme descritte dai tattici greci. Sarebbe a dire a capo di un corpo di circa 4.000 cavalieri, simile a quello descritto da Asclepiodoto nel suo trattato (cf. supra), o si tratta semplicemente di un’indicazione che conferma che la cavalleria lagide era chiamata epitagma? P. Oxy., XLIX, 3482 (73 a.C.). Ciò suggerisce che l’epitagma lagide (perlomeno nel i secolo a.C.) fosse composto da più ipparchie di quello dei tattici greci che ne citano solo otto. Queste suddivisioni non compaiono nella trattazione che i tattici riservano alle truppe montate. Tuttavia la dekania è evocata per la fanteria, cf. Asclep., 2, 2: secondo l’autore si tratterebbe di un termine che era un tempo utilizzato per designare una fila di fanti. Sekunda 2012 b e Fischer-Bovet 2014, 148-153. Un papiro menziona due cavalieri appartenenti a una ilē basilikē (SB, XVI, 12221; metà del iii secolo a.C.), ma potrebbe trattarsi di uno degli squadroni della cavalleria aulica. Plb., V, 44, 1; X, 27, 2. Strab., XVI, 2, 10. Bar-Kochva 1976, 28. L’organizzazione dell’esercito seleucidico farebbe in tal caso pensare a quella dell’esercito bizantino, con la sua famosa base logistica di Malagina, situata al centro di un vasto complesso di allevamenti imperiali: Bréhier [2015], 299-300 e 302. IGIAC, 80 bis. P. Tebt., III, 843 (con Clément 2014, 97-98). Per uno studio approfondito di questo contesto sociale: Scheuble-Reiter 2012. La documentazione sul tema è molto meno abbondante in Siria che in Egitto; si veda tuttavia Diod., XXXIII, 4a (Larissa). Sänger 2016, 99. Ma 2000; Boulay 2014. Xen., Hell., 6, 4, 10-11. Secondo Plut., Philop., 7, 4, gli hippotrophoi della lega achea erano riusciti a ottenere lo stesso privilegio. Su quest’ultimo punto si veda l’iscrizione dell’ipparco beota Pompida: IG, VII, 2426 (170-150 a.C. ca.). Confederazione achea: Plb., X, 22-24; Plut., Philop., 7, 3-7. Confederazione beotica: Étienne & Roesch 1978. In entrambi i casi l’ipparco locale ha autorità su vari squadroni (quattro nel koinon beotico) forniti da un distretto composto da una o più città. È plausibile che ogni squadrone si componesse di una cinquantina o sessantina di soldati. Liv., XXXVIII, 13, 11-13. Strab., XIV, 1, 28. Heraclid. Lemb., Excerpta Politiarum, 51 = FGrH, 218, F 22. Ael., VH, 14, 46 (trad. C. Bevegni).
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Gaebel 2002, cap. 13; Scheuble-Reiter 2014. Paretacene: Diod., XIX, 27-28. Antigono Monoftalmo dispone di 28.000 fanti, circa 5.000-6.000 fanti leggeri e 8.500 cavalieri (20%). L’ala sinistra e la falange sono inizialmente sbaragliate dalle truppe di Eumene di Cardia. Ma riesce infine a ristabilire il rapporto di forza in suo favore ordinando agli squadroni dell’ala destra di sfondare il dispositivo avversario attraverso una breccia aperta durante l’inseguimento. Gaza: Diod., XIX, 82-84. L’esercito di Demetrio Poliorcete conta 12.800 fanti e 5.000 cavalieri (28%). Quest’ultimo cerca evidentemente di ottenere la vittoria grazie alla potente forza montata, che ammassa sull’ala sinistra. Il fallimento dell’operazione e il successo della cavalleria tolemaica ribalta la situazione e provoca la disfatta dell’esercito di Demetrio, senza che le falangi abbiano l’occasione di intervenire. Diodoro segnala che, durante lo scontro, una parte della cavalleria lagide sferra un attacco in colonna (orthias tais eilais), in perfetto stile alessandrino (cf. Diod., XIX, 83, 4 con Devine 1984, 40, n. 38). 97 Si veda ad esempio Tarn 1930, 26-28. 98 Appiano afferma che, durante la battaglia di Magnesia (190/189 a.C.), i Compagni sono equipaggiati alla leggera (kouphoi): App., Syr., 32. 99 Si veda e.g. la cista funeraria conservata al Museo di Kilkis: Hatzopoulos 2001, tav. i-ii. 100 Liv., XXXI, 35, 3. 101 Tarn 1930, 66-69; Gaebel 2002, 216-229. Durante l’ultima battaglia della guerra lamiaca la cavalleria tessala riesce a distruggere completamente quella di Antipatro, ma è chiaramente incapace di sconfiggere le sue falangi. La fanteria greca viene cacciata dal campo di battaglia e i Greci sono costretti ad abbondonare la competizione (Diod., XVIII, 17). 102 Gaebel 2002, 227-228, 291, 295-299. 103 Juhel 2010. Durante la battaglia di Magnesia del 190/189, la cavalleria di Antioco riesce sempre a sfondare l’ala sinistra della fanteria legionaria romana, prova che la dottrina tattica di Alessandro non è stata dimenticata: App., Syr., 34. 104 Asclep., 1, 3; Ael., Tact., 2, 11-13; Arr., Tact., 4. 105 Launey 1987, I, 601-604; Sekunda 1994, 20-21; Nefedkin 2006; Fields 2008. Attestazioni negli eserciti dei Diadochi: Diod., XIX, 29, 2 (317 a.C.); 39, 2; 82, 2 (un centinaio di cavalieri suddivisi in tre eilai, i.e. circa 33 cavalieri per squadrone); Plb., XVI, 18, 7; Liv., XXXVII, 40, 13 (ultima apparizione nella battaglia di Magnesia del 190/189). 106 Si veda di recente Bugh 2011 (che insiste sul fatto che la distruzione di Taranto nel 209 da parte dei Romani avrebbe causato la progressiva scomparsa dei contingenti “etnici”). Tarantinoi e tarantinarchi sono attestati a Tebe, Tespie, in Tessaglia e ad Atene in epoca ellenistica. Sul modo di combattere dei Tarentini, cf. Diod., XIX, 29, 1-2: sono abili nelle imboscate (enedrai), non sono fatti per lo scontro frontale (kata stoma), ma praticano azioni di disturbo a distanza (phugomachia), in ordine poco denso (araios), in un susseguirsi di conversioni (metabolai). 107 Tarn 1930, 76; Bar-Kochva 1976, 74. 108 Plb., XVI, 18, 6-8; Liv., XXXV, 48, 3; XXXVII, 40, 5 e 11. Non sappiamo se queste unità erano composte da reclute orientali, nella fattispecie Parti. È più probabile che i re seleucidi abbiano organizzato le proprie unità corazzate, munendo i cavalieri di un equipaggiamento composito, di cui possiamo intravedere alcuni elementi sul fregio di armi del tempio di Atena Polias a Pergamo e su una statuetta siriana conservata al Louvre. Si veda Mielczarek 1993, 67-72. Per una descrizione letteraria dell’equipaggiamento dei catafratti ellenistici: Ael., Tact., 2, 11 (il corpo del cavaliere e del cavallo è protetto da un’armatura, thorax); Arr., Tact., 4, 1-2 (il cavaliere porta una corazza di scaglie, in lino o corno e cosciali, paramēridia; il cavallo porta la barda, parapleuridia, e un frontale, prometōpidion). 109 Asclep., 7, 2-9. Si veda anche Ael., Tact., 18, 1-19, 1; Arr., Tact., 16, 1-7; 17, 1-5. 110 Cf. Proclus, In prim., p. 169-172 (ed. G. Friedlein). Su questo punto si veda la mia dimostrazione negli atti del convegno Hellenistic Warfare 4 in corso di stampa. 111 Plb., XII, 18, 3-4 (si veda Ael., Tact., 19, 10). Asclep., 7, 4 afferma anche che di solito la fila di otto soldati era la norma nelle cavallerie greche. 112 Plb., X, 23, 1-8. 95 96
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Strab., XI, 9, 2-3; Iust., XLI, 1, 1-11 e 4, 6-10. Di recente fanno il punto sulla questione Olbrycht 2003, 71-77 e Lerouge 2007, 12-15. 115 Ancora una volta si rinvia all’eccellente analisi di Tarn 1930, 72 e s. Si veda anche Bivar 1972. 116 Hauser 2006, 304. Si veda anche Id. 2005, 178-181. 117 Olbrycht 2003, 92-97. Sull’origine orientale dei catafratti, cf. Iul. Val., Res Gestae Alex. Mac., I, 35: cataphractis viros […] quod armaturae genus orientis invenio est (con Mielczarek 1993, 52). 118 Si veda ad esempio Iust., XLI, 3, 4; Cass. Dio, XL, 15, 2; Hdn., VI, 5, 4. 119 Hdt., I, 136 e VII, 41; Xen., Cyr., I, 2, 9-11; Strab., XV, 3, 18-19. Su questo punto le osservazioni avanzate da Tuplin 2010 b hanno tolto all’argomentazione di Hauser gran parte del suo valore perché non è più possibile ritenere la cavalleria l’arma principale degli eserciti achemenidi. 120 Ibid., 128. 121 Per l’epoca partica possiamo citare i rilievi di Hung-e Azhdar, Sar-e Pol, Behistun e Tang-e Sarvak. Cf. Kawami 2013. Queste rappresentazioni, che non sempre riportano l’effigie del gran re, rivelano una riproduzione del modello della gloria equestre presso i dinasti locali. 122 Horn 1907. 123 Koshelenko 1980, 184. 124 Si veda in particolare Olbrycht 2003, 77-89 e Traina [2011], 69-72, che prolungano efficacemente il modello stabilito da Koshelenko. Contra Hauser 2006, 304-308. 125 Come i cavalieri arabi di Alchaidamos, re dei Rambei della Siria nord-orientale, che accompagnano Surena in occasione della campagna di Carre, nel 53 a.C.: Cass. Dio, XL, 20, 1 e XLVII, 27, 3. Si veda anche il caso del piccolo esercito controllato da Zamaris, un notabile ebreo di Babilonia, sotto il regno di Fraate IV (38-3/4 a.C.): Ios., AI, XVII, 23-28. Inoltre gli Arsacidi mobilizzavano regolarmente mercenari nomadi, saka e sarmati: Iust., XLII, 1, 2; Tac., Ann., VI, 33, 2-3 e 36, 3. 126 Iust., XLI, 2, 6. 127 Ios., AI, XIV, 342 e 349. 128 Plut., Cras., 21, 7. 129 Cass. Dio, XL, 15, 3. 130 Id., XL, 15, 2. A questo proposito, un fante munito di lancia e scudo oblungo compare su un rilievo della fortezza di Zahhak. Secondo Olbrycht 2016, la maggior parte di queste unità erano fornite dai regni vassalli, tribù di montagna o milizie civiche. 131 L’unica eccezione si trova nella Cronaca di Arbela, in cui si parla di un esercito di 20.000 fanti arruolato nel 136 d.C. da Vologese II per reprimere una rivolta in Media Atropatene (Chron. Arb., 3 [ed. Kawerau p. 27]). Ma l’affidabilità di questa fonte siriaca di epoca tarda è discutibile. 132 Iust., XLI, 2, 6 (Plut., Ant., 44, 2 evoca 40.000 cavalieri). 133 Tac., Ann., VI, 34, 1. 134 Cass. Dio, LXII, 21, 2. 135 Pare che ai tempi di Alessandro le armate nomadi dell’Iran nord-orientale comprendessero ancora dei lanciatori di giavellotto; una tattica utilizzata dai Dahai consisteva nel montare a due su un cavallo, scendere a turno e creare scompiglio nei ranghi della cavalleria nemica (Curt., VII, 7, 32). Un affresco della vecchia cittadella di Nisa (Turkmenistan), una delle prime capitali arsacidiche, rappresenta numerosi cavalieri nomadi armati di lance corte in mezzo ad arcieri montati: Pilipko 2000, 78, tav. ii.1; Invernizzi 2011, 202, fig. 16-17. 136 Oltre all’esempio della battaglia di Carre citato infra, si veda Tac., Ann., VI, 35, 1 che insiste sulla gittata superiore degli hippotoxotai partici durante una scaramuccia con gli arcieri a cavallo sarmati. 137 Plut., Cras., 24, 4-5 (trad. C. Carena). 138 Goldsworthy 1996, 185. 139 Utilizzando una ricostruzione di arco “sassanide” (variante dell’arco “unno”) realizzata da E. McEwen, M. Junkelmann mostra che a corta distanza le frecce possono trafiggere una cotta di maglia, una placca di metallo e uno scudo (Junkelmann 1992, III, 171). 140 Coulston 1985, 345, fig. 39. 141 Plut., Cras., 25, 1 142 Su questo corpo di truppa dell’esercito arsacidico: cf. Mielczarek 1993, 51-64. 113 114
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Plut., Ant., 45, 3; Cass. Dio, XL, 22. Tarn 1930, 73: “La cavalleria non poteva attaccare i lancieri armati pesantemente. Ma se mettiamo un lanciere armato pesantemente su un cavallo, anch’esso corazzato, e allunghiamo la lancia, allora la cavalleria può attaccare qualsiasi cosa”. Mielczarek 1993, 90: “I catafratti erano la risposta dei cavalieri orientali […] alla falange macedone. Furono creati come un tipo di cavalleria in grado di contrapporsi alla fanteria macedone.” 145 Plut., Ant., 39, 3. 146 Plut., Cras., 25, 4. 147 Sugli archi partici in generale si veda Bord & Mugg 2005, 35-40. L’appellazione arco “unno” è impropria. Oggi si pensa che questi archi compositi con estensione furono adottati dagli Xiongnu di Asia centrale nel iii-ii secolo a.C. (Gorbunov & Tishkin 2006; Hall 2006). 148 Brown 1937. 149 Coulston 1985, 240-241. 150 Brown 1937, 7-9. Studiando la stessa documentazione iconografica, Bord & Mugg 2005, 39 parlano di “ arco a doppia curvatura molto simile all’arco scita che però supera per dimensioni”. 151 Si veda Plut., Cras., 18, 3 e Cass. Dio, XL, 22, 4-5, che insistono sulla qualità degli archi partici, la loro dimensione e la loro forza. Ciò concorda con il profilo dell’arco di Yrzi, ma rimaniamo scettici di fronte alle spettacolari proprietà che Plutarco e Cassio Dione attribuiscono a quest’arma. Contra Sampson 2008, 119-120, che ipotizza, senza però dimostrarlo, che Surena migliorò la fabbricazione di archi e frecce. Riguardo le frecce dei Parti, Plut., Cras., 25, 5 parla di “punte ritorte”: un esemplare corrispondente a questa descrizione, munito di una punta anti-estrazione, è stato forse rinvenuto in Kurdistan (Bord & Mugg 2005, 40, fig. 13). 152 Ghirshman 1973; Herrmann 1989, 763-772. 153 Pilipko 2000, 78 e tav. i.2. 154 Si veda il cavaliere rappresentato sulla fiaschetta in terracotta di Koi-Krylgan-kala (fine del iv-inizio del iii secolo a.C.): Ghirshman 1973, 102. 155 La più antica rappresentazione iconografica giunta fino a noi è datata da G. Herrmann (1989, 768) al i secolo d.C. (ma questo non impedisce all’autore di postulare che tali selle “a corna” venissero utilizzate già molto prima dai catafratti partici). 156 Connolly & Van Driel-Murray 1991, 45. 157 Mielczarek 1993, 119, fig. 6 e 123, fig. 9. Per un’analisi approfondita dell’equipaggiamento difensivo rappresentato sul graffito di Dura: cf. Wójcikowski 2013. 158 James 2004, 113-114, note 449-452. Queste protezioni sono composte da due pannelli di tessuto rettangolare su cui sono cucite file di scaglie in metallo. I fiancali sono legati da una larga banda di cuoio lunga tutta la spina dorsale dell’animale. Un’apertura ovale permette di fissare la sella e un triangolo di scaglie protegge la base della coda dell’animale. Sulla barda II, due estensioni permettono di attaccare i due fiancali all’altezza del petto del cavallo. 159 Arr., Parth., fr. 20. 143 144
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Lubtchansky 2005, 39. Bisogna tuttavia aspettare il secolo successivo per vedere comparire rappresentazioni di cavalieri armati. Si veda la decorazione dipinta della celebre œnochoé di Tragliatella, risalente al vii secolo: ibid., 184, fig. 100, due cavalieri armati di scudo e lance. Ibid., 124 (per la Campania). Nonostante ciò, l’autore riconosce che tombe di cavalieri sono presenti in Italia già alla fine del ix secolo a.C.: cf. ibid., 38. La questione è oggetto di discussioni (si veda Jannot 1986, 132: “In epoca arcaica e almeno fino all’inizio del v secolo la cavalleria non sembra godere di un particolare prestigio sociale”), ma il dibattito non sembra definitivamente chiuso da Lubtchansky 2005, cap. 6 e 7 (in particolare 175178, 194 e 224-225). Ibid., cap 2 e 4. Una viva polemica ha opposto, nei decenni 1960-1970, A. Alföldi a A. Momigliano riguardo
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l’importanza sociale della cavalleria romana in epoca arcaica: cf. Alföldi 1952, 1965 e 1967; Momigliano 1966 e 1969. Momigliano rifiutava di vedere nel patriziato un’aristocrazia equestre e pensava che si trattasse in origine di un’“aristocrazia di capi di fanteria supportati dai loro clientes” (1966, 23). Tale asserzione non contraddice l’idea (oggi unanimemente accettata) che in Italia centrale il cavallo da guerra fosse sia il simbolo di un’élite sociale (aristocrazia terriera) che di una classe di età (quella degli iuvenes). E anche se i patrizi comandavano truppe di opliti dopo la giovinezza, il combattimento di cavalleria restava appannaggio dello strato superiore della classe combattente. Si veda Nicolet 1966, 15. Sotto il regno di Romolo, i cavalieri sono 300, suddivisi in tre centurie che corrispondono alle tre tribù originarie (Ramnes, Tities, Luceres). Ogni curia (30 in totale, 10 per centuria) fornisce dieci cavalieri. Tarquinio Prisco avrebbe raddoppiato il numero dei cavalieri e delle centurie, con ormai tre centurie priores e tre centurie posteriores. Queste sei centurie sarebbero alla base dei sex suffragia creati da Servio Tullio, cioè le sei centurie censitarie più ricche, chiamate forse anche procum patricium. Su questo effettivo, cf. Nicolet 1966, 113-123. In realtà gli equites godevano di un doppio finanziamento, l’aes pararium, che comprendeva un sussidio per il cavallo (aes equestre) e uno per il foraggio (aes hordearium). Cf. Nicolet 1966, 36-45. L’aes equestre veniva versato al momento dell’acquisto del cavallo mentre l’aes hordearium veniva concesso regolarmente ai cavalieri in tempo di guerra. I due sussidi sono distinti dal triplex stipendium, che doveva permettere ai cavalieri di ingaggiare uno o più scudieri durante le campagne militari. Cf. Marchetti 1978, 198-204. In particolare, questo sistema non può essere precedente alla monetizzazione dell’economia romana, che non si verifica prima del iv secolo. Cf. Nicolet 1962, 467 e Id. 1966, 15-23. La somma di 400.000 sesterzi richiesta per far parte dell’ordine equestre vale soprattutto per il i secolo. Gli autori che descrivono il sistema serviano tra iii e ii secolo a.C. evocano solo un census maximus, quello della prima classe (da cui provengono le centurie equestri), equivalente a 100.000 asses sextantarii. Cf. Marchetti 1978, 210-219. Lubtchansky 2005, 257-265. Liv., V, 7, 5 e 10-13. Si veda Nicolet 1966, 49-55. Nella storiografia moderna, questi cavalieri sono chiamati anche equites equo privato, ma tale denominazione costituisce un hapax che si trova solo in Liv., XXVII, 11, 14. Marchetti 1978, 222-235, secondo cui tutta la cavalleria civica apparteneva alle 18 centurie equestri (i.e. tutti i cavalieri servivano di norma equo publico) e, prima del i secolo a.C., non esisteva uno specifico censo equestre. La dimostrazione si basa su una lezione particolare di Liv., V, 7, 13, la cui esattezza non può essere provata. In assenza di un argomento decisivo, è più prudente considerare questo punto di vista un’ipotesi. Si veda Demougin 1988, 773-774, n. 39. Liv., II, 20, 10; III, 62, 8; IV, 38, 3. Iconografia: Lubtchansky 2005, 79-81 (placche di Serra di Vaglio, 580-570 a.C. ca.). Helbig 1904 e 1905. L’idea ha sedotto molti studiosi: Kromayer & Veith 1928, 256-257; Adcock 1940, 6; Momigliano 1966 e 1969; Ilari 1971; Martino 1980. McDonnell 2006, 186-187. Lammert 1907; Delbrück [1990], I, 256-257 e 267-268; Wiesner 1944; Alföldi 1952, 1965 e 1967; Saulnier 1980, 109-114 e 117-118; Richard 1986; Lubtchansky 2005, 262. Si vedano a proposito le osservazioni di Nicolet 1969, 127. La ceramica etrusca fornisce ad esempio raffigurazioni di scontri a cui partecipano cavalieri: Adam 1995, 73, n. 6 e 8. I dati concordano con le fonti letterarie che rilevano l’intervento di cavalieri etruschi e campani nei numerosi teatri di operazioni dal vi al iii secolo. Campani: Diod., XIII, 44, 1; XI, 1, 5; XIII, 80; XIV, 8, 5; 9, 2; 15, 3; 58, 2; 61, 4; Liv., X, 29, 12; XXIII, 4, 8; XXII, 13, 2; XXIII, 46, 11. Alla stessa conclusione porta anche il racconto di Dionigi di Alicarnasso sulla battaglia che nel 524 a.C. contrappone Cuma e gli Etruschi: VII, 4, 1 (la storicità del racconto è negata da Welwei 1971 ma accettata da Lubtchansky 2005, 130-132). Sulle fonti della tradizione annalistica riguardanti l’età romana arcaica, cf. Cornell 1995, 1-18.
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Sul metodo storiografico usato da Livio nella prima decade: Forsythe 1999. Liv., I, 30, 10; 37, 3; II, 20, 10-11; 43, 7; 49, 10-11; III, 62, 8-9; 70, 4-9; IV, 19, 5; VI, 13, 3; VIII, 30, 6-7; X, 5, 7; 41, 9. Helbig 1904, 192. Ibid., 193. Si veda Ardant du Picq [2004], 157-163 (“cavalleria contro fanteria”). Si veda Armstrong 2016, cap. 3 (con bibliografia precedente). Liv., I, 30, 11; II, 43, 7; III, 70, 4 e 9; IV, 18, 5 e 7; 47, 2; VI, 29, 2; 32, 8; VII, 33, 8; X, 41, 9. Se seguiamo Livio, la manovra ha l’obiettivo, se non di mettere in fuga le truppe nemiche, almeno di permettere ai cavalieri di aprirsi un passaggio attraverso gli intervalli nella liena di battaglia avversaria: Id., III, 70, 4; VII, 33, 9; VIII, 30, 6. Questo tipo di attacco ricorda gli sfondamenti operati dalla cavalleria macedone di Filippo II e Alessandro III. Si veda ad esempio Liv., X, 5, 6 e 41, 9. Il procedimento porta a volte scompiglio nella fanteria romana: Id., X, 14, 15. Id., I, 37, 3; II, 49, 11. Id., IV, 47, 4; VI, 13, 4; 32, 9; X, 41, 11. Nella battaglia del lago Regillo (496 a.C.) gli equites, smontati per aiutare la fanteria, rimontano in sella per l’inseguimento: Id., II, 20, 12. Si veda anche Delbrück [1990], I, 257: “È vero che tutti i duelli e combattimenti del primo libro di Livio devono essere considerati assolutamente mitici, ma la preponderanza generale del combattimento di cavalleria spicca a tal punto che vi si può scorgere un riflesso della realtà”. Plb., VI, 25, 3. In effetti è proprio questo equipaggiamento leggero che permetteva agli equites di scendere facilmente da cavallo: McCall 2002, 30. Si veda in particolare Varro, Ling., VII, 57 e i commenti di Pedroni 2010, 355-356. Da questo punto di vista non ritengo necessario distinguere, come propone Garlan 1972, 112, tra “due periodi successivi, il primo contrassegnato dalla preminenza militare, sociale e politica della cavalleria, il secondo corrispondente alla formazione di armate oplitiche” durante il quale “si sarebbe spezzato il legame effettivo […] tra cavalleria e aristocrazia nel mondo romano” (posizione ripresa da Saulnier 1980, cap. vi e Levi 1991). Humm 2007. Dalla loro pubblicazione nel 1892 ad opera di H. von Arnim, i frammenti erano tradizionalmente attribuiti a Fabio Pittore. Cf. Humm 2007, 302-303 con trad. fr. Helbig 1904, 191. Si veda anche Id., 1905, 270. Lammert 1907, 616. Humm 2005, 146-166. Liv., VIII, 11, 16. Diod., XX, 36, 5. Si veda Nicolet 1966, 71. Liv., IX, 46, 15; Val. Max., II, 2, 9; Plinio, H.N., XV, 4. Contra Dion. Hal., VI, 13 che situa l’istituzione della cerimonia nel 496 a.C., all’indomani della vittoria romana nella battaglia del lago Regillo. Ma per Massa-Pairault 1995, 43, “il tema della fondazione della transvectio equitum nel v secolo dipende verosimilmente da un motivo di propaganda gentilizia dei Postumii”. Cornell 1995, 361. Su questi duelli, si veda in particolare Oakley 1985 e (per un approccio letterario limitato all’opera di Tito Livio) Fries 1985. McCall 2002, in particolare cap. iv e v. È ora possibile fare riferimento all’eccellente studio di M. McDonnell sull’argomento. Si veda in particolare McDonnell 2006, 63. I comportamenti “vergognosi” sono un motivo sufficiente di pubblica riprovazione (nota censoria) per i membri dell’ordine equestre: cf. Val. Max., II, 9, 8. Contra Lefebvre des Noëttes 1931, 216-226. A riguardo può essere utile confrontare la situazione romana con quella descritta dall’imperatore Maurizio per i popoli germanici nel vi secolo d.C. In effetti, un passaggio dello Strategikon lega saldamente il costume che consiste nello smontare da cavallo all’onore marziale e al rifiuto
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di ritirarsi. Cf. Strat., XI, 3, 4-10. Su questa battaglia l’analisi di Lévêque 1957, 375-404 rimane la più completa. Dion. Hal., XX, 2, 1. Arriano utilizza anche il termine exeligmos per indicare un modo di combattimento caratterizzato dal rifiuto dello scontro diretto, in cui i cavalieri lanciano i giavellotti per poi ritirarsi. Cf. Arr., Anab. III, 15, 2. Dion. Hal., XX, 2, 2. Ibid. La formula utilizzata da Dionigi di Alicarnasso per descrivere questa manovra (καὶ δι´ ἀλλήλων ἐξελίξαντες περιεδίνουν τοὺς ἵππους αὖθις ἐπὶ τὸ μέτωπον, “ed essendosi ritirati gli uni attraverso gli altri fanno di nuovo girare i cavalli verso il fronte”) lascia intendere che la cavalleria greca si era disposta su due linee: gli squadroni di prima linea caricavano, poi si ritiravano attraverso gli intervalli della seconda linea che attaccava a sua volta, e così via. Ritroviamo esattamente lo stesso meccanismo, con un vocabolario simile, nella descrizione fornita da Appiano sul modo di combattere della cavalleria di Scipione Emiliano nella metà del ii secolo a.C., cf. infra. Su questa battaglia, si veda Delbrück [1990], I, 315-335; Lazenby 1978, 78-85; Daly 2002. Plb., III, 115, 3. Il passaggio è travisato da McCall 2002, 37: “Polibio riteneva la pratica di smontare in battaglia contraria alla regolare norma equestre (κατὰ νόμους). Come vedremo non è del tutto vero. Non di rado la cavalleria civica combatteva a piedi”. Il nomos qui citato è la norma del combattimento di cavalleria secondo un osservatore greco, non la norma romana. Liv., XXXI, 35, 3-6 (trad. C. Vitali). Polibio, grande sostenitore della dottrina militare della cavalleria achea, considera “barbaro” il modo di combattere dei Romani: Plb., III, 115, 2. Su questa battaglia, si veda Lazenby 1978, 52-53; Brizzi 1984, 142; Le Bohec 1996, 170-171, fig. 25. Plb., III, 65, 5; Liv., XXI, 46, 5 e 9. Id., X, 28, 6-10. Plb., XI, 22, 9; Liv., XXVIII, 14, 8-13. Contra Wiesner 1944, 65-67 e 98-99 (la cavalleria è sempre stata organizzata in turmae). In genere la tradizione relativa all’equitatus più antico suddivide la cavalleria in centurie. Solo Varrone e Festo, in note lessicografiche fantasiose, fanno risalire la turma all’organizzazione della cavalleria romulea. Secondo i due autori, turma verrebbe dal latino terima, perché ognuna delle tre tribù forniva tre decine di cavalieri: Varro, Ling., V, 91; Festo, s.v. turma (ed. Lindsay p. 484). Questa etimologia poco verosimile (cf. de Vaan 2008, 634) non è conciliabile con l’effettivo di 300 cavalieri riferito dall’insieme delle fonti per l’inizio del regno di Romolo: Liv., I, 13, 8; Dion. Hal., II, 2 e 16; Plut., Rom., 20, 1; Serv., apud Aen., IX, 368; Iohan. Lyd., Mag., I, 9. Significativamente, Dionigi di Alicarnasso (che fa riferimento all’opera perduta di Valerio Anziate) assegna il comando dei 300 celeres (nome arcaico dei cavalieri romani) a un hēgemōn e tre centurioni (hekatontarchoi), che avevano ai loro ordini altri ufficiali (decurioni a capo di ogni decuria?): Dion. Hal., II, 13, 3. Dion. Hal., VI, 13, 4. Mommsen 1889 a, 125, sospettando un errore del copista, corregge phulas (“tribù”) con ilas (“squadroni”). A suo avviso Dionigi evocava inizialmente dei cavalieri suddivisi in turmae e decurie. La correzione non sembra necessaria (si veda a tal proposito Demougin 1988, 252-253). Le phulai corrispondono probabilmente qui ai sex suffragia, le sei centurie fornite dalle tre “tribù” di Roma. Per quanto riguarda i lochoi, designerebbero le dodici centurie equestri create alla fine del iv secolo a.C. al momento dell’implementazione dell’equitatus. Sull’equivalenza lochos/centuria, cf. Dion. Hal., IV, 18, 1. Plb., III, 45, 1-3; Liv., XXI, 29, 1-4; App., Hisp., 25 (scaramuccia sul Rodano nel 218 a.C.). Si veda anche Plb., XI, 21, 1-5 (combattimento di cavalleria precedente alla battaglia di Ilipa, 206 a.C.). Circa 10.000 cavalieri punici contro 4.000 cavalieri romani in occasione dell’invasione dell’Italia nell’inverno del 218 a.C.: Liv., XXI, 55, 6. 10.000 contro 6.000 nella battaglia di Canne (216 a.C.): Plb., III, 113, 5 e 114, 5. Denison 1877, 57-74; Gaebel 2002, cap. 15; McCall 2002, 98. Plb., III, 101, 11 afferma che
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Annibale riponeva grandi speranze nella cavalleria. Ticino: Plb., III, 65, 10; Liv., XXI, 46, 7. Trebbia: Plb., III, 73, 6-7; Liv., XXI, 55, 9. Canne: Plb., III, 116, 6; Liv., XXII, 48, 5-6. Plb., XIV, 8, 8; Liv., XXX, 8, 7. Plb., XV, 14, 7-8; Liv., XXX, 35, 1-2. In questa battaglia i Romani dispongono per la prima volta di una cavalleria numericamente superiore (6.000 cavalieri contro 4.000), grazie all’apporto dei 4.000 cavalieri numidi di Massinissa: Plb., XV, 5, 12; Liv., XXX, 29, 4. Plb., III, 117, 4-5 (trad. M. Mari) . Si veda anche Id., IX, 3, 9 (trad. M. Mari): “A me sembra che abbia contribuito alla condotta dei due schieramenti il fatto – da entrambi constatato – che il corpo dei cavalieri di Annibale era la causa sia delle vittorie cartaginesi, sia delle sconfitte romane.” Polibio lo afferma esplicitamente: i Romani rifiutano di avventurarsi nella pianura e dare inizio ai combattimenti per paura della forte cavalleria nemica (Plb., III, 92, 7). Id., III, 90, 1-5; 102, 2-4; Liv., XXII, 12, 9-10; 15, 5-10; Plut., Fab., 5, 2. Vengono inoltre devastate le praterie e le riserve di foraggio per affamare i cavalli punici: Plb., IX, 4, 3. Su questo punto si veda Erdkamp 1998, 127-128. Plb., III, 90, 6. G. Brizzi ha insistito su questa “etica cavalleresca” dell’aristocrazia romana e sulle sue conseguenze sulla conduzione della guerra: si veda Brizzi 1989. Anche Marco Claudio Marcello era tra i sostenitori della strategia aggressiva: si veda McDonnell 2006, 223-224. Wheeler 1988; Cadiou 2013. Esempi e riferimenti in Wheeler 1988, 52, n. 5. Non bisogna fidarsi della propensione delle fonti letterarie ad accusare di crudeltà i nemici di Roma: i Romani non hanno il monopolio dei comportamenti eroici e non esitano a ricorrere agli espedienti della guerriglia quando lo ritengono necessario. Liv., XXII, 39, 20-22 (consigli di Fabio Massimo a Lucio Emilio Paolo). Frontino, Str., I, 3, 3 nota che la strategia di Fabio gli valse la fama di grande generale. I valori di prudenza e temporeggiamento erano considerati dai Romani complementari alla virtus, cf. Plut., Fab., 19, 4. Contra Brizzi 1999, 42. Rosenstein 1990, 95; Lendon 2005, 203. Questa concezione avrebbe avuto un ruolo importante nella rappresentazione collettiva dell’identità romana: cf. Plb., XIII, 3, 7 e soprattutto Liv., XLII, 47, 5-6. Sulla questione: Achard 1994. Vigneron 1968, I, 262 Denison 1877, 68-69 attribuisce una riforma dell’armamento e della tattica dell’equitatus al giovane Publio Scipione. Tale disposizione non compare né in Polibio né in Tito Livio. Plb., XI, 21, 4. Liv., XXVI, 4, 3-10; Val. Max., II, 3, 3; Oros., IV, 18, 11. Questo exemplum potrebbe essere all’origine di una raccomandazione di Vegezio, cf. Mil., III, 16, 5-7: “Se i cavalieri sono inferiori nel numero, devono secondo il costume antico unirsi a loro velocissimi fanti armati di scudi leggeri, addestrati proprio a questa tattica e chiamati un tempo velites. Adottato questo espediente, non importa con quanto impeto giungano i cavalieri nemici, comunque non potranno eguagliare la schiera mista. Tutti gli antichi generali escogitarono questo solo rimedio, di addestrare cioè giovani soldati, eccellenti corridori, e di porli ognuno tra due cavalieri come fanti e muniti di scudo leggero, spada e giavellotto” (trad. M. Formisano). Plb., VI, 25, 3-11 segnala che alla sua epoca la cavalleria legionaria aveva un armamento simile a quello dei cavalieri greci. Non condivido l’opinione di McCall 2002, cap. 3 (soprattutto p. 43) che suppone, senza argomenti decisivi, che tale equipaggiamento venne adottato durante la seconda guerra punica. Eadie 1967, 163 propende piuttosto per l’inizio del ii secolo a.C. (contesto della guerra contro Antioco). Cavalieri etolici: Plb., XVIII, 19, 9-12; Liv., XXXV, 34, 9-12; 35, 18-19. Oulamoi di 30 cavalieri: Liv., XXXV, 7, 4. Polibio sottolinea che la cavalleria eolica era considerata superiore agli altri Greci “nella cavalleria, negli scontri parziali e individuali” (Plb., XVIII, 22, 5). App., Pun., 103 (149 a.C.); Hisp., 88 (133 a.C.). Polibio era amico e mentore di Scipione Emiliano, cf. Champion 2004, 17-18. Era probabilmente al suo fianco durante la terza guerra
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punica: cf. Arr., Tact., 1, 1. App., Pun., 103. Si veda anche Id., Hisp., 88. Plb., VI, 25, 1-2 (trad. M. Mari). Una nota lessicografica di Varrone suggerisce che questa organizzazione della cavalleria civica era ancora in vigore a metà del i secolo a.C.: Varro, Ling., V, 91. RRC, 335, 9. Liv., XXI, 17, 2-3. App., BC, V, 127; Liv., Per., 130. Plb., VI, 26, 7: i socii forniscono un contingente di fanteria pari a quello dei Romani, ma l’effettivo di cavalleria è il triplo di quello degli equites Romani. Cf. Benseddik 1982, 12. Le fonti che coprono la fine dell’età repubblicana sono più precise. Sembrano stabilire una distinzione tra ausiliari “regolari”, arruolati in ambito provinciale, e contingenti di cavalleria forniti dagli alleati. Cf. App., BC, IV, 99 (discorso di Cassio al suo esercito prima della seconda battaglia di Filippi, 42 a.C.): “Per quanto riguarda la cavalleria e le navi, le superiamo ampiamente, e lo stesso vale per le truppe alleate (summachois) dei re e delle nazioni fino ai Medi e ai Parti”. Plb., II, 24, 3 (eserciti mobilitati contro i Galli, 225 a.C.); App., Hisp., 14 (esercito di Publio Cornelio Scipione in Spagna, 218 a.C.); Plb., III, 113, 5 (battaglia di Canne, 216 a.C.); Id., X, 6, 7 e 9, 6; Liv., XXVI, 42, 1 (esercito di Publio Cornelio Scipione in Spagna, 209 a.C.); App., Hisp., 76 (esercito di Quinto Pompeo in Spagna Citeriore, 141 a.C.); Plut., Sert., 12, 2 (esercito di Sertorio ed esercito senatorio inviato contro di lui in Spagna, 80-72 a.C.); App., Mith., 72; Plut., Luc., 8, 5 (esercito di Lucullo contro Mitridate, 73 a.C.); ibid., 97 (esercito di Pompeo contro Mitridate, 66 a.C.). Plb., XV, 5, 12; Liv., XXX, 29, 4. E.g. App., Hisp., 61 (esercito di Gaio Vetilio in Spagna Ulteriore, 147 a.C.): 10.000 fanti (88,5%); 1.300 cavalieri (11,5%). Caes., BG, I, 7, 2; 10, 3; 15, 1 (esercito di Cesare in Gallia, 58 a.C.); Id., BC, I, 39, 2; 41, 1; 85, 6 (esercito di Cesare in Spagna, 49 a.C.); ibid., I, 39, 1 (esercito di Afranio e Petreio in Spagna, 49 a.C.); ibid., III, 4; 84; 88-89; App., BC, II, 70 (battaglia di Farsalo, 48 a.C.); Ps.-Caes., BAfr., 12, 3 (esercito di Cesare in Africa, 47-46 a.C.); App., BC, II, 110 (esercito riunito da Cesare in Illiria, 44 a.C.); ibid., IV, 88 (battaglia di Filippi, 42 a. C.); ibid., V, 50 (esercito di Lucio Antonio e Fulvia durante la guerra di Perugia, 41 a.C.); Ios., AI, XIV, 469; BI, I, 346 (esercito di Gaio Sosio, governatore della Siria, 38 a.C.); App., BC, V, 116 (totale degli effettivi militari presenti in Sicilia durante la guerra contro Sesto Pompeo, 36 a.C.); Plut., Ant., 37, 4 (totale delle truppe romane di Marco Antonio alla vigilia della guerra contro i Parti, 36 a.C.); ibid., 61, 1-4 (eserciti di Marco Antonio e Ottaviano alla vigilia della battaglia di Azio, 31 a.C.). Già Harmand 1967, 41 aveva constatato un aumento della cavalleria ausiliaria negli eserciti di quest’epoca (e insisteva in particolare sulla tappa delle guerre pontiche). Si veda ad esempio Sall., Iug., 50, 4-6 e Oros., V, 15, 11-17. Si veda in particolare Caes., BG, VII, 14, 2-4, in cui Vercingetorige espone gli obiettivi di questa strategia: “Li informò che era opportuno adottare una tattica di guerra diversa da quella seguita fino ad allora: bisognava impiegare ogni mezzo per impedire ai Romani i rifornimenti di viveri e di foraggi; ciò era facile per essi che avevano tanta cavalleria, data anche la stagione. I nemici non potevano tagliare il foraggio nei prati, ma erano costretti ad andarlo a cercare nei granai e nei fienili delle case, distaccando piccoli gruppi che i cavalieri galli potevano ogni giorno distruggere.” (trad. F. Brindesi). Concezione ripetuta a VII, 64, 1-2. Ciò che definiamo la “battaglia” di Carre è in realtà una serie di scaramucce condotte dalla cavalleria partica contro un corpo di spedizione romano che si frammenta dopo la sconfitta del 9 giugno. Per una visione della campagna di Crasso limitata alla sola storia militare, cf. Sampson 2008 e Sheldon 2010, cap. iii. Cf. Plut., Ant., 41, 6-7, 42, 1 e Cass. Dio, XLIX, 26, 2 per la campagna partica di Antonio del 36 a.C. Sulla gittata delle fionde: cf. Griffiths 1989, 261-265 e Goldsworthy 1996, 186. Cf. Frontino, Str., I, 10, 1-2.
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Caes., BC, I, 63-64 e 78-80. Sul ruolo della cavalleria in questa battaglia: Veith 1906, 260-274; Vigneron 1968, I, 270-272; Junkelmann 1991, II, 119-125. 101 Su questa campagna si veda Veith 1920. Cesare dispone inizialmente di 15.000 fanti e 500 cavalieri, cf. Caes., BC, III, 2, 2. Poco dopo lo sbarco in Epiro è raggiunto da altri 800 cavalieri (ibid., III, 29, 2). Effettivi derisori in confronto ai 7.000 cavalieri di Pompeo (ibid., III, 4, 3). Come in Gallia contro Vercingetorige nel 52, Cesare riesce a rinchiudere l’esercito nemico in una piazzaforte, a Dyrrachium. Questo blocco rischia di annientare completamente la cavalleria pompeiana che non dispone di approvvigionamenti sufficienti. Cesare stesso riconosce che lo scopo era impedire a Pompeo di raccogliere foraggio e rendere la sua cavalleria inutilizzabile per la battaglia (Caes., BC, III, 42, 3). Si veda Vigneron 1968, I, 272-274 e Erdkamp 1998, 129. 102 Ios., BI, III, 120. Si veda Pavkovič 1991, 27-35. 103 Il punto della questione si trova in Cadiou 2016, con bibliografia precedente. 104 Questa prospettiva si ritrova ad esempio in Marquardt [1891], 154-155 e Dixon & Southern [1997], 21. Da parte sua Cheesman 1914, 16-18 mette in discussione il limitato effettivo della cavalleria censitaria, che le avrebbe impedito di rivaleggiare con forze montate più importanti. 105 McCall 2002, cap. 6 e 7 (l’idea non ha nulla di originale dal momento che veniva già avanzata nel 1761 da Charles Le Beau nella sua opera sulla legione romana). Si vedano a proposito la maggior parte dei contributi raccolti in Blösel & Hölkeskamp 2011. 106 Cadiou 2018. 107 Frontino, Str., IV, 7, 32; Plut., Pomp., 64, 1. Si veda Cass. Dio, XLI, 55, 2 che sottolinea come nei ranghi di Pompeo si trovavano molti senatori e cavalieri e App., BC, II, 82 che afferma che nello scontro sarebbero morti circa 40 cavalieri romani. 108 Ps.-Caes., BHisp., 31, 10. 109 Si veda McCall 2002, 102 e 106. 110 Ps.-Caes., BAlex., 56, 4. 111 Plb., XXXV, 4, 3 e 6. 112 Sall., Iug., 86, 2-3. 113 Ibid., 95, 1. 114 Ps.-Caes., BAlex., 56, 4. 115 Nel De bello gallico, Cesare menziona numerosi combattimenti di cavalleria. L’identità delle truppe che partecipano a queste operazioni non viene sempre precisata. Quando lo è, si tratta invariabilmente di soldati ausiliari. A BG, I, 15, 1, il proconsole dichiara peraltro che all’inizio del suo primo anno di campagna, nel 58, disponeva solo della cavalleria fornita dalla Gallia transalpina e dagli Edui. 116 Cic., Phil., I, 20. 117 Marchetti 1978, 235-238. 118 Suolahti 1955, 149-156 nota in effetti che la maggior parte dei junior officers attestati in epoca augustea vengono ancora da Roma e dalle regioni di antica romanizzazione (Lazio, Campania, Etruria). 119 CIL, I², 593 = ILS, 608. Questi cavalieri italici si ritrovano nelle narrazioni militari su questo periodo: Caes., BC, I, 24, 2; Ps.-Caes, BHisp., 10, 1-2; Plut., Pomp., 57, 5; App., BC, V, 14, 138. 120 Questi bisogni superavano di sicuro il centinaio di tribuni legionari evocati da Nicolet 1969, 129 per l’anno 54 a.C. Wrobel 2009, 98-104 sottolinea che per i decenni 40-30, dovevano essere stati mobilitati tra i 200 e i 450 tribuni per guidare le legioni, senza contare i praefecti equitum, i prefetti a capo delle forze di fanteria ausiliaria e i prefetti incaricati di comandare le forze navali che conoscono un incredibile sviluppo durante l’età triumvirale. 121 Svet., Caes., 68, 2. 122 Varro, Ling., V, 90; Liv., XXII 37, 7-8; Festo, s.v. auxiliares (ed. Lindsay p. 16). 123 Numidi e Mauri: Hamdoune 1999, part. i. Ispani: Quesada Sanz 1998 (tabella ricapitolativa delle attestazioni della cavalleria iberica nelle fonti romane negli annessi). A mia conoscenza non esiste nessuno studio d’insieme dedicato ai cavalieri ausiliari greci. 124 Riferimenti in Marquardt [1891], 156 e Saddington 1982, cap. ii e iii. Sugli ausiliari galli: Pernet 2010. 100
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Sicilia: Liv., XXIX, 1, 3. Iberia: Id., LX, 47, 10. Gallia: Caes., BG, V, 5, 3 e 6, 5. Getuli: Ps.-Caes., BAfr., 56, 1. 126 Quesada Sanz 2005, 107. Sull’apprendistato equestre nel mondo celtico: Roymans 1990, 40; Brunaux 2004, 37-40; Martini 2013, 56-57. 127 E.g. Caes., BG, VI, 5, 2. L’utilità di questo procedimento è indirettamente confermata da Cesare quando nota che il ritorno dei nobili nelle loro città d’origine favoriva i complotti contro Roma. Si veda anche Liv., XL 47, 10 e App., Hisp., 48 per esempi di ostaggi iberici. 128 Hamdoune 1999, 40-45. 129 Plut., Cras., 17, 7. 130 Ps.-Caes., BAlex., 17, 3; 29, 4. 131 Iust., XLII, 4, 7. 132 Plut., Ant., 37, 3; 41, 5. 133 Su questo punto si veda Speidel 2016, 84-85. 134 Plut., Cras., 17, 7. 135 Ibid., 20, 1. Osroeni: Id., Cras., 21, 1 e Cass. Dio, XL, 20, 3; 23, 1. 136 Ios., BI, I, 346. Si veda anche Id., AI, XIV, 469. 137 Plut., Ant., 37, 4 si spinge oltre descrivendo la composizione dell’esercito di Marco Antonio alla vigilia della spedizione partica del 36 a.C. poiché distingue una cavalleria di 10.000 Iberi e Celti, “uniti ai Romani”, dagli “altri popoli” che hanno fornito 30.000 uomini, cavalieri e le truppe leggere. 138 ILS, 8888 = CIL, I², 709 = ILLRP, 515. ILS, 8888 = CIL, I², 709 = ILLRP, 515. Cf. Criniti 1970; Roldán Hervás 1986; Amela Valverde 2000; Pina Polo 2003; Meyer 2013, 18-21. 139 Il primo praefectus equitum attestato nelle fonti potrebbe essere Gaio Flavio Fimbria, così designato da Vell. Pat., II, 24, 1, in occasione della sua rivolta contro il suo generale, il console Lucio Valerio Flacco, nell’86, a Bisanzio. Ma è un caso molto dubbio, in particolare perché Liv., Per., 82 gli attribuisce il rango di legato (si veda anche Oros., VI, 2, 9) e Strab., XIII, 1, 27 quello di questore. Un esempio più sicuro è fornito da Liv., Per., 91, per l’anno 76 a.C. 140 Caes., BC, III, 59-60. 141 Caes., BG, VI, 8, 5; VII, 45, 1; 80, 6; 88, 1; VIII, 7, 1; 16, 1; 18, 2-3; 19, 1-2; 28, 2; Id., BC, III, 38, 3-4; 93, 4; Ps.-Caes., BAfr., 14, 2; 18, 4; 29, 1 e 3; 39, 1; 40, 2; 41, 2; 75, 4; 78, 3-4; Ps.-Caes., BHisp., 6, 4; 14, 2; 23, 6; 26, 1. 142 Fröhlich 1889, I, 40-41; Marquardt [1891], 157; Rice Holmes 1911, 579; Kromayer & Veith 1928, 393; Harmand 1967, 47; Rambaud 1969, 652-653. Contra Birley 1978, 258-259. 143 CIL, IX, 733 = ILS 2499. Cf. Speidel 1980, 212. 144 Si veda App., BC, IV, 115, in cui sembra essere questione di ali di cavalleria nell’ambito della campagna di Ottaviano e Antonio contro i cesaricidi nel 42. 145 Sull’armamento degli auxilia galli, cf. Harmand 1967, 81-88, da aggiornare con Pernet 2010. Sui cavalieri iberici, con equipaggiamento simile, cf. Quesada Sanz 2005. 146 Vachères: Barruol 1996. Glanum : Roth Congès 2009, 68, fig. 5. 147 Caes., BG, I, 46, 1 (cavalieri di Ariovisto); V, 57 e 58 (cavalieri treviri). 148 Ibid., VII, 66, 7. 149 Ibid., IV, 2, 3-4. 150 Ibid., VII, 80, 6: durante la battaglia i Germani di Cesare attaccano i Galli dei rinforzi “in ordine serrato” (confertis turmis), dispositivo che ovviamente non si confà alle manovre di disturbo. 151 Hamdoune 1999, 69-93. 152 Laporte 1992; Camps et al. 1996/1998. 153 App., Pun., V, 26; Luc., Phars., IV, 680-683; Serv., apud Aen., VII, 732 Oros., V, 15, 11 e 15. 154 Sall., Iug., 101, 4. 155 Caes., BC, III, 4, 5 (hippotoxotai siriani di Antioco di Commagene); App., BC, IV, 11, 59, 63 e 88; Str., XVI, 2, 10; Iust., XLII, 4, 7 (arcieri montati arabi, medi e partici). Durante la battaglia di Filippi, pare che i cesaricidi attendessero un contingente di cavalieri partici in rinforzo che però non arrivò in tempo: App., BC, IV, 133; Flor., Epit., II, 19, 4; Cass. Dio, XLVIII, 24, 125
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4-5. Su questo problema si veda Lerouge 2007, 87 e Wheeler 2016, 183-184, che pensano che si debbano distinguere questi rinforzi dai Parti che furono effettivamente presenti alla battaglia. Contra Saddington 1982, 18. 156 Osroeni: Plut., Cras., 21, 1 e Cass. Dio, XL, 20, 3; 23, 1. Armeni; Plut., Cras., 19, 1; Ant., 37, 3; 50, 4. 157 Ibid., 50, 5-6. 158 Cf. Drinkwater 1978; Roymans 1996, 24-27; Woolf 1998, cap. 2. 159 Roth Congès 2009, 59. L. Pernet trae le stesse conclusioni dallo studio delle tombe con armi della Gallia Celtica dopo la conquista romana. Cf. Pernet 2010, 175: “Tutte dimostrano la volontà di mettere in evidenza un potere ricevuto molto probabilmente dalle mani del conquistatore romano, per i servizi resi in guerra. Queste tombe segnalano nel territorio e nella coscienza dei contemporanei la costruzione di un’identità e di un potere nuovi ereditati dal conquistatore”.
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Sulle riforme militari di Augusto, cf. Raaflaub 1980; Keppie [1998], cap. 6; Cosme 2007, 76-80; Speidel 2009 b; Id. 2016. La problematica dell’incorporazione delle truppe ausiliarie rappresenta il filo conduttore del recente lavoro di I. Haynes sugli auxilia della prima età imperiale: Haynes 2013. Come l’ala Atectorigiana, attestata sotto Augusto: CIL, XIII, 1041 = ILS, 2531 = AE, 1888, 51. T. Mommsen ha dimostrato in modo convincente che l’unità deve essere messa in relazione con Atectorix, aristocratico aquitano il cui nome figura su monete galliche in bronzo dagli anni 50-30. Cf. Maurin 1981, 262-279 e fig. 279-280; Callegarin et al. 2013, 212. CIL, X, 4862 = ILS, 2690. Si veda a proposito Kraft 1951, 38-39. Drinkwater 1978, 828-831. E.g. Tac., Ann., II, 11, 3 e III, 42, 3. Id., Hist., IV, 12, 4 e 18, 4. Roymans 1996, 24 pensa in particolare alle alae Gallorum preflavie: “Queste formazioni ‘Galliche’ erano probabilmente arruolate individualmente, su base volontaria, diversamente dalle formazioni ‘nazionali’ della Renania, la cui leva si basava su accordi con le varie civitates.” L’epigrafia lo conferma. Ritroviamo ad esempio nell’ala Gallorum Longiniana: un Remo, un Eduo, un Biturigo e un Ispano (CIL, XIII, 2615; CIL, XIII, 8092-4). Kraft 1951, 39. Contra Haynes 2013, 121-122 che ridimensiona la questione sottolineando che le autorità imperiali non hanno cercato di attenuare l’omogeneità etnica dei reggimenti spostandoli sistematicamente in province lontane: tali evoluzioni sono determinate da circostanze puntuali. Cheesman 1914, 79; Kraft 1951, 62-63. Non significa però che si svilupparono centri di arruolamento puramente “locali”: Haynes 2013, 121-134. L’applicazione di questo processo in regioni abituate a organizzare liberamente le operazioni di arruolamento e a servire localmente agli ordini di capi nazionali è spesso all’origine di gravi tensioni. È la causa principale della sollevazione delle tribù traciche nel 26 d.C. Tac., Ann., IV, 46, 1-2 sottolinea che i Traci temevano di essere uniti ad altri soldati e separati dalla loro terra d’origine. Forni 1953, 28-29 (con riferimenti). Ma anche la leva forzata è attestata. La corrispondenza di Plinio rivela chiaramente questa diversità di modalità di arruolamento: mostra che i corpi di truppa dell’esercito imperiale (numeri) possono accogliere volontari (voluntarii), coscritti (lecti) o individui pagati da questi ultimi per sostituirli (vicarii). Cf. Plin., Ep., X, 30. Cf. Gallet 2012, il cui catalogo si limita alle iscrizioni trovate nella parte occidentale dell’Impero. Traci: Ibid., 90 e 108. Daci: Cuvigny 2005, 3-4; 54-58; 166. Si veda principalmente Cheesman 1914, 82-84. L’idea era già stata suggerita da von Domaszewski 1895, 52 ed è stata in seguito ripresa dalla maggior parte dei lavori sugli auxilia: van de Weerd
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& Lambrechts 1938, 234-237; Kraft 1951, 63; Holder 1980, 121; Țentea 2012, 50 e 84. Cichorius 1900, col. 295; Țentea 2012, 48-52. Contra Haynes 2013, cap. 9, ma di recente fa il punto sulla questione Wheeler 2015, 8-10. L’unità non è riportata nella RE. Cf. Spaul 1994, 140-141. Si veda la documentazione raccolta in Hamdoune 1997 e Rebuffat 1998. Schleiermacher 1984 ha stilato un catalogo dei rilievi con effigie di cavalieri, non più aggiornato a causa delle recenti scoperte. Hope 2000, 165 nota che non sono particolarmente apprezzate dai cavalieri legionari che preferiscono le scene più “civili” di banchetto funebre. Si veda a proposito Martini 2013, 21, che sottolinea come nell’area tribale trevira le stele funerarie scolpite e i rilievi di combattimento di cavalleria compaiono nel momento in cui le tombe di cavalieri – espressione privilegiata dello status guerriero del defunto sotto La Tène finale – cominciano a scomparire. Si veda in particolare Haynes 2013, 266 e Martini 2013, 45. L’esistenza di giovani fanti, con la funzione tattica di accompagnare i cavalieri in battaglia, è attestata nel mondo celtico preromano (Pérez-Rubio 2015) e nella Germania libera (Tac., Ger., 6, 4). Ferris 2000, 159-160. Il punto sulla questione in Petitjean [in corso di stampa]. RIB, 3185 (fine del i secolo d.C.). Cf. Bull 2007. Cic., Fam., VII, 13, 2 (con Shotter 2007); Kremer 2009, 42-77. Sui re e gli eroi arcieri nella tradizione iranica, cf. Knauth 1975, 104-106 e Traina [2011], 75-76. Cf. Coulston 1985, 237, fig. 31 e Traina 2013, 279, fig. 1 Cass. Dio, LXIII, 3, 2. Le questioni relative all’organizzazione di queste unità sono state ampiamente discusse: si veda in particolare Cheesman 1914, 26-30; Holder 1980, 30-34; Dixon & Southern [1997], 23-30; Bartoloni 1995; Hodgson & Bidwell 2004, 134-136; Colombo 2009. La prima unità ausiliaria milliaria compare in un’iscrizione datata 81 d.C. ca. (CIL, VI, 31032 = ILS, 1418: ala Flavia milliaria). Cf. Birley 1966, 55. Per Holder 1980, 5-8, si deve a Vespasiano la creazione delle unità milliariae. Secondo Kennedy 1985, è più plausibile Corbulone. In ultimo Morin 2003 afferma che la creazione delle unità milliariae risale al regno di Claudio, sulla base però di vaghe supposizioni e senza il minimo argomento decisivo. La nostra principale fonte per questi effettivi teorici è il trattato di castrametazione dello Pseudo-Igino; ci basiamo qui sui dati relativi all’organizzazione interna degli accampamenti ausiliari. Cf. Petitjean 2016, 493-494. Pavkovič 1991. Breeze 1969, 53-55; Speidel 1987; Pavkovič 1991, 36 e s. Ancora di recente, cf. Rankov in Sabin et al. 2007, II, 38. Contra Pavkovič 1991, 94-103 e Speidel 1994 b. Si veda in particolare Tac., Ann., IV, 73, 2 e CIL, III, 4480 = ILS, 2307. Speidel 1994 b, 37; Tac., Ann., XIV, 32, 3; Arr., Acies, 4. Su questi corpi di truppa si è concentrata un’abbondante bibliografia: Cheesman 1914, 85-90; Rowell 1936; Mann 1954; Callies 1964; Speidel 1975; Southern 1989; Le Roux 1986; KerneisPoly 1996; Reuter 1999. Il dibattito sul senso del nome numerus e sulle realtà militari che designa è riassunto in Hamdoune 1999, 161-165. CIL, III, 908; ILS, 9472. Si veda Saddington 1970, che si limita però all’inizio del Principato. Holder 2003. Per ulteriori dettagli cf. Petitjean 2016, 493-495. Su queste unità: Rankov 1994 e Speidel 1994 a. Johnstone 2004, 269, tab. 6.26. I mezzi sono in genere più elevati nei contesti specificatamente militari: Nobis 1973, 251 (Krefeld-Gellep/Gelduba); Hamilton-Dyer 2001, tab. 9.8 (Mons Claudianus); Cuvigny 2012, I, 171-172 (Didymoi). Lauwerier & Robeerst 2001, 277: altezza media di 132 cm al garrese per gli allevamenti situati
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a nord del limes della Germania inferiore. Si veda Caes., BG, IV, 2, 2 e Tac., Ger., 6, 3. Gál 2010, 217, Tab. 5; Bartosiewicz 2011, 130. Arbogast 2002, 44-45. Peters 1998, 148-159 e Tab. 19. Bökönyi 1974, 262-266. Hyland 1990, 77 e 1993, 27-28. Groot 2008 e 2011. Tac., Ann., II, 5, 3. Cf. e.g. Cass. Dio, LXXI, 11, 2 e HA, Aur., 26, 9. HA, Aur., 10, 2. Si veda anche P. Lond., 2851, col. ii, r. 20. Sulla rimonta, si veda Davies 1969. P. Dura, 56 = RMR, 99. Cf. P. Dura, 56A (avec ChLA, IX, 397 = RMR, 75). CHG, I, 375-6 = Hipp. Berol., 116. Verg., Georg., III, 179-208. Hobley 1969; Dixon & Southern [1997],116-117, fig. 56. Si veda anche Tab. Vindon., 43. RIB, 978. CIL, VIII, 21034, con Speidel 1996 e Lassère in Le Bohec 2003, 94, n. 46. Ps-Caes., BAlex, 29, 4; Tac., Agr., 18, 5; Hist., IV, 12, 3; Ann., XIV, 29, 3; Veg., Mil., I, 10, 4 e III, 7, 6; CIL, III, 3676 = ILS, 2558. Cf. Horsmann 1991, 127-132; Speidel 1991 e 1994 a, 122-123. Cass. Dio, XLIX, 30, 4. Ios., BI, III, 96-97 (trad. G. Vitucci). Arr., Tact., 4, 7-9. L’iconografia e l’archeologia confermano questa immagine del cavaliere imperiale. La maggior parte delle armi rinvenute su siti militari dell’epoca del Principato corrispondono grossomodo alla classificazione incontrata presso gli auxilia occidentali della fine dell’età repubblicana: Bishop 1988, 67-84; Bishop & Coulston [2006], 76-83 e 120-123; Junkelmann 1992, III, cap. ii. Solo gli elmi evolvono in modo notevole, con la comparsa di nuove tipologie più coprenti e più adatte al combattimento di cavalleria; si tratta dei tipi “Weiler” e “Guisborough”. Cf. Stephenson 2003, cap. 3. Mielczarek 1993, 73-75; McAllister 1993; Renoux 2006. Plin., HN, VIII, 65, 162. E.g. Plin., Pan., 13, 1-2; HA, Hadr., 26, 2-3. Connolly 1987; Hyland 1990, 130-144. Id. 1993, 172. Ibid., 157. Luttwak 1976, 191-194. Nella visione di Luttwak, il sistema difensivo alle frontiere (preclusive defence) non è stato concepito nell’ottica di fermare attacchi importanti. Si trattava soprattutto di un dispiegamento strategico destinato a sedare minacce di bassa intensità, soprattutto le incursioni a scopo di saccheggio che, secondo l’autore americano, erano molto frequenti all’epoca. Mann 1979; Millar 1982; Isaac [1992]; Whittaker 1994 e 2004. Alföldy 1962, 268 e 270 (Dalmazia); Id. 1968, 144 (Germania inferiore); Biancardi 2004, 158159 (Germania inferiore e Germania superiore); von Schnurbein in Reddé et al. 2006, 29-34. Vell. Pat., II, 113, 1. A Neuss, si veda il caso dell’accampamento ausiliario D, di epoca tiberiana (Hanel in Reddé et al. 2006, 340-344). Alcune forze ausiliarie potevano essere ospitate in campi legionari: a NimegaHunerberg (Franzen 2009, 1260-1; si veda anche il caso dell’accampamento G a Neuss, che potrebbe essere stato il luogo di guarnigione della legio XVI Gallica e dell’ala Gallorum Picentiana). Si veda Biancardi 2004, 158 e 160. Mócsy 1974, cap. 4 e fig. 59-60; Radman-Livaja 2012, 172-179; Ivanov 2012. Britannia: Biancardi 2004, 153-154. Oriente: Isaac [1992], cap. iii. Meritano però di essere menzionati due principali cambiamenti. In Britannia la costruzione del
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vallo di Adriano porta a redistribuire una parte della cavalleria provinciale secondo una logica lineare (Biancardi 2004, 35-39). Nella Dacia conquistata da Traiano la presenza militare è più generalizzata, a causa della particolare topografia della provincia e della necessità di pacificare territori di recente annessione (Gazdac 1997). 83 Alföldy 1968, 158-159; Luttwak 1976, 66. 84 Biancardi 2004, 158. 85 Whittaker 2004, 12. 86 Due costituzioni di iv secolo indicano che i soldati potevano raccogliere foraggio in un raggio di 20 miglia dall’accampamento, cf. CTh., VII, 4, 7 e 9. 87 Whittaker 2004, 9. 88 Mann 1974, 512-513. 89 Ios., BI, VII, 94. 90 Clausewitz, De la guerre, VI, 22. Si veda anche Luttwak 1976, 66 e Delbrück [1990], II, 151-155. 91 Dio Chrys., Or. 32, 43. 92 Sulla presenza militare romana in questa provincia, cf. Alföldy 1974, 143-152. 93 Holder 2003, 108-109 e 123-124. Sappiamo con certezza che una delle due coorti milliariae, la cohors I Aelia Brittonum, era equitata (CIL, V, 6995). Tra le coorti quingenariae solo la cohors II Thracum porta questo titolo (RIB, I, 797). 94 Holder 2003, 106-107 e 122-123. Le due coorti milliariae, la cohors III Batavorum e la cohors I Brittonum, sono equitatae (Biancardi 2004, 104 e 106). Tra le coorti quingenariae solo le cohortes I Alpinorum (CIL, III, 3315), I Noricorum (AE, 1960, 19), II Alpinorum (CIL, III, 03646), III Alpinorum (RHP, 245), VII Breucorum (CIL, III, 15148), I Belgarum (CIL 03, 14630) hanno con certezza questo status. Ne risulta un minimo di sei coorti quingenariae miste. 95 Holder 2003, 115-117 e 129. In questa provincia la rarità delle iscrizioni militari impedisce di sapere quali coorti erano equitatae. 96 Coulston 1986. 97 Il Norico si trova proprio alla giuntura dei teatri di operazioni contro Quadi e Marcomanni: cf. Alföldy 1974, cap. 9. A proposito del ruolo strategico del governatore della provincia, Alföldy osserva (ibid., 143): “In collaborazione con l’esercito della Rezia, doveva mantenere la comunicazione tra i due grandi eserciti settentionali del Reno e in Pannonia”. 98 Luttwak 1976, 87. 99 Ios., BI, II, 500-502 e III, 65-69. 100 Sugli accampamenti ausiliari nello specifico, si veda Campbell 2009. 101 Mráv 2010/2013. 102 James 2004, 16-25; Edwell 2008, 119-146. 103 P. Dura, 100 e 101 = RMR, 1 e 2. 104 P. Dura, 100, con Christol [2006], 54. 105 Si veda lo studio esaustivo di Speidel 1978 (Nr. 63 e 64 per i papiri in questione). Gli archivi di Dura confermano che gli equites singulares consularis non formavano un’unità distinta, ma un contingente costituito da soldati distaccati dalle unità madri. 106 P. Dura, 100 e 101 = RMR, 1 e 2. 107 Davies 1989, 59. Cf. Liv., XXXVII, 7, 11; Tac., Agr., 43, 4. 108 Cuvigny 2005, cap. i. 109 Davies 1989, 62-63. 110 Cuvigny 2005, 7. 111 P. Lond., 2851 = ChLA, III, 219 = RMR, 63, col. ii, r. 10. 112 Cass. Dio, LXXVI, 10. Si veda Speidel 1994 a, 63. 113 MacMullen 1966, cap. v; Fuhrmann 2012, 82 e s. 114 Ios., BI, II, 58; 63; 74; 236; 260. 115 Tac., Ann., XII, 55, 2. 116 Cuvigny 2003, II, 327-329 e 351-352. 117 O. Krok., 6. Cf. Cuvigny 2005, 35-37.
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Ibid., 36. O. Krok., 47. 120 O. Krok., 87 (in particolare r. 27-44). Cf. Cuvigny 2005, 135-154. 121 Ibid., 150. 122 Tale schema si trova fin dall’età augustea, durante i raid in Gallia di Sigambri, Usipeti e Tencteri nel 17-16 a.C.: Cass. Dio, LIV, 20, 4-5 (con Vell. Pat., II, 97, 1). Si veda anche Svet., Aug., 23, 1 e Tac., Ann., I, 10, 4. 123 Tac., Ann., XII, 27, 2-3. 124 Id., Hist., I, 79. Si veda Coulston 2003. Sui contatti tra Roma e i Sarmati in generale, si veda Sulimirski 1970, 130-137 e 164-182; Batty 2007, 356-365; Lebedynsky [2014], cap. 6. Sulla pratica della guerra presso i Sarmati: Mielczarek 1993, 95-102; Lebedynsky [2014], cap. 16. 125 Plinio, HN, VIII, 65; XXV, 43-44. 126 Coulston 2003, 416, suppone che fosse perfino gelato (si veda Cass. Dio, LIV, 36, 2). Le cavallerie nomadi erano molto efficaci in inverno perché i loro cavalli erano abituati a scavare nella neve per cercare l’erba da mangiare, cf. Sinor 1972, 178-179. 127 Ios., BI, VII, 90-93. 128 Tac., Hist., III, 5, 1. 129 Ios., BI, VII, 94. 130 Batty 2007, 444-446; Whately 2016, cap. 5. 131 Ps.-Hyg., De mun. castr., 16; CIL, VI, 225 = 30720 = ILS, 2186 = Denkm., 56. Sulla gerarchia (Rangordnung) della cavalleria ausiliaria sotto il Principato: von Domaszewski 1908, 47-56; Breeze 1969, 54-55. 132 Degli optiones equitum sono noti in epoca imperiale, ma si tratta più verosimilmente di aiutanti del comandante dell’unità: si veda di recente Frei-Stolba 2003, 5-6. 133 Veg., Mil., II, 14, 1-2 riporta 32 equites, escluso il decurione per un totale quindi di 33 soldati per turma . Ma l’autore afferma di descrivere l’organizzazione della cavalleria legionaria quando turmae e decurioni non sono mai attestati in questo tipo di unità. Ciò rende la sua testimonianza molto sospetta. Ps.-Hyg., De mun. castr., 27 porta piuttosto alla conclusione che l’effettivo teorico della turma era di 31 soldati, decurione incluso. Le dimensioni delle baracche in alcuni forti ausiliari potrebbero suggerire che l’effettivo delle turmae poteva anche essere superiore, ad esempio nelle alae: si veda Scholz 2009, 46 e s. (Heidenheim/ala II Flavia milliaria); Reddé et al. 2006, 265-266 (Dormagen/ala Noricorum), Kandler & Stiglitz 1997, 76 (Carnuntum IV/ala I Thracum Victrix), Fassbinder et al. 2007, 96 (Pförring / ala I Flavia singularium). 134 Hodgson & Bidwell 2004, 133; Scholz 2009, 64. 135 Hodgson & Bidwell 2004, 134. Posto che corrisponde a quello dei centurioni nelle baracche di fanteria. 136 Speidel 2000. Si veda anche Goldsworthy 1996, 182. 137 Veg., Mil., II, 14, 5. 138 Horsmann 1991, 84-90. 139 Veg., Mil., I, 27, 1 e 3-4 (trad. M. Formisano). 140 Onas., Str., 10, 6 (trad. C. Petrocelli). 141 Davies 1989, 102. 142 Id. 1968, 77-81. 143 Arr., Tact., 32-44. Traduzione italiana: Sestili 2011, 94-119. Francese: Leroy 2017, 88-97. Sul contesto di redazione dell’opera: Wheeler 1978. 144 CIL, VIII, 2532 = CIL, VIII, Suppl., 18042. Si veda anche Veg., Mil., II, 22, 4. 145 L’argomento è trattato da una bibliografia importante: si veda in particolare Garbsch 1978, 35-37; Lawson 1980; Hyland 1993; Junkelmann 1996; Busetto 2015. 146 Per una ricostruzione più fedele alla descrizione di Arriano, cf. Junkelmann 1996, 58-62. 147 Dottin 1920, 278 fa derivare petrinos dal gallo pedrain, che significa “groppa”. Sulle difficoltà pratiche che implica la realizzazione del petrinos: Hyland 1993, 131. 148 Questo esercizio non è ancora stato ricostruito fedelmente negli studi precedenti: Lawson 1980, 118 119
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179-180 e Hyland 1993, 133-141 fanno entrambi incontrare i cavalieri in senso inverso quando il testo di Arriano presuppone che al momento dello scontro si costeggiassero. 149 Mattern 1999. 150 E.g. Ios., BI, III, 64-69. 151 Sulle vessillazioni in generale, cf. Saxer 1967 e di recente Faure 2012. 152 CIL, XI, 393 = ILS, 2739; CIL, III, 4466; CIL, XVI, 164. Si veda Strobel 1984, 80-154 e MateiPopescu & Ţentea 2006. 153 Colombo 2009. Si veda più di recente Petitjean 2016, 502-506. 154 Nel caso dell’esercito riunito a Siscia nel 7 d.C., Vell. Pat., II, 113, 1 evoca, oltre alle truppe regolari, la “numerosa cavalleria reale” di Rhoemetalces, senza ulteriori dettagli. 155 Tac., Agr., 35, 2: 8.000 fanti ausiliari e tra 3.000 e 5.000 cavalieri. Cf. Ogilvie & Richmond 1967, 78-79 e 271; Maxwell 1990, 43. 156 Tac., Ann., I, 60, 2 (trad. C. Giussani). 157 Kromayer & Veith 1928, 546-548; Le Bohec 1989, 136-139; Goldsworthy 1996, 105-111; Gilliver 1999, 38-48. 158 Tac., Ann., I, 51, 2 (ordine di marcia di Germanico nel 14 d.C.). Si veda Onas., Str., 6, 7. 159 Nell’ordine di marcia di Vespasiano in Galilea nel 67 i cavalieri dell’avanguardia sono preceduti dai tiratori ausiliari e dagli arcieri incaricati di respingere le improvvise incursioni dei nemici e di ispezionare luoghi propizi per le imboscate, cf. Ios., BI, III, 116. Idem in BI, V, 47 (ordine di marcia di Tito nel 70): Giuseppe situa davanti alla colonna romana i contingenti reali e alleati costituiti da cavalieri e fanti leggeri. 160 In avanguardia e nelle retrovie dell’esercito: Tac., Ann., II, 16, 3 (ordine di marcia di Germanico nel 16); ibid., XII, 16, 1 (ordine di marcia dei Romani nel Bosforo nel 49); Ios., BI, III, 115-126 (ordine di marcia di Vespasiano nel 67). In avanguardia, nelle retrovie e sui fianchi dell’esercito: Arr., Acies, 1-10 (ordine di marcia di Arriano contro gli Alani nel 135). 161 La bibliografia sull’argomento si limita a Dixon & Southern [1997], 140-147 e Gilliver 1999, 110-112. Informazioni supplementari si trovano in Hyland 1990, 165-167 e Junkelmann 1991, II 127-130. 162 Tac., Agr., 36, 3; Hist., II, 41, 2; IV, 33, 2; Ann., IV, 73, 2. 163 Ios., BI, II, 519; Tac., Agr., 37, 1; Hist., V, 18, 3-4; Ann., III, 46, 3; Arr., Acies, 30-31. 164 Tac., Agr., 37, 1; Hist., II, 24, 3. 165 Ios., BI, III, 17; Tac., Agr., 37, 3; Hist., II, 15, 2; Arr., Acies, 27-29. 166 Onas., Str., 16. 167 Tac., Ann., II, 52, 4; XIII, 38, 4; XIV, 34, 2; Hist., II, 24, 3; III, 21, 2. Non significa che la cavalleria si trovi sempre sui fianchi della linea di battaglia, capita molto spesso che anche delle truppe montate siano posizionate nelle retrovie, per servire da forze di riserva. 168 Si veda in particolare Arr., Acies, 11-30 (traduzione italiana: Belfiore 2012; francese: Lalanne 2014). 169 Wheeler 2004 a, 309, n. 1. 170 Arr., Acies, 21 (trad. S. Belfiore). 171 Ibid., 15-8, 25-6. Su questa formazione “falangitica”, cf. Bosworth 1977, 238-246; Wheeler 1979 e 2004 b. 172 Ibid., 27-9. 173 Xen., Hipp., VIII, 23-25.
Capitolo 7 1
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Per un’analisi specificatamente militare della “crisi” di iii secolo: Le Bohec 2009. Per gli aspetti cronologici: Christol [2006]. Ritterling 1903, in particolare 345-346. Questo punto di vista è stato ampiamente accettato negli studi successivi: Grosse 1920, 15-18; Alföldi 1927; Alföldi 1959; Eadie 1967, 168; Hoffmann 1969, I, 1; Luttwak 1976, 185; Simon 1980; Speidel 1994 a, 150; Carrié & Rousselle 1999, 135. A mia conoscenza, solo Le Bohec 2006, 73 si è davvero opposto all’idea di uno sviluppo della cavalleria
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nel iii secolo. Il punto sulla questione si trova in Petitjean 2016. Sulla datazione della Notitia dignitatum e le difficoltà poste da tale fonte, cf. Jones 1964, 347-358; Hoffman 1969/1970, I, 25-53; Brennan 1996; Zuckerman 1998; Kulikowski 2000. Si veda in particolare Zos., I, 40, 1 e Zon., XII, 25, 601. Aurelio Vittore (di cui Ritterling ignorava la testimonianza) sottolinea che Aureolo aveva ai suoi ordini le legioni di Rezia: Aur. Vict., Caes., 33, 17, informazione forse confermata da Zon., XII, 25, 602, Syncell., Chron., 467, 26-27 e Theod. Scut., Chron., 38, 20-21. Importanti forze di cavalleria operavano nei Balcani al momento della rivolta di Aureolo nel 267, prova che non poteva essere il comandante di tutte le forze montate di Gallieno. Su questo punto si veda Ibeji 1991, 62. Confrontare Holder 2003, 132-5 e Roxan 1976. In Pannonia i primi equites scutarii occupano forse l’accampamento di Intercisa fin dagli anni 260. Secondo Fitz 1972, 122-126, la loro unità prende il posto della cohors I Emesenorum che scompare nello stesso momento. Cf. RIU, 1205. Per ulteriori dettagli: Petitjean 2016, 507-514. Hamdoune 1999, 203-207. Nel 216 e nel 218 alcuni Mauri partecipano alle guerre partiche di Caracalla e Macrino: Cass. Dio, LXXVIII, 32, 1; Hdn, IV, 15, 1. Li ritroviamo al servizio di Alessandro Severo poi di Massimino contro i Germani: Hdn, VI, 7, 8; VII, 2, 1; HA, Max., 11, 7. Partecipano all’invasione dell’Italia nel 238 (Hdn, VIII, 1, 3; Zos., I, 15, 1), sconfiggono i Carpi sotto Filippo l’Arabo (Zos., I, 20, 2) e fanno parte dell’esercito orientale di Valeriano nel 260 (Pietro Patrizio, F 173; questa presenza è forse confermata dall’iscrizione trilingue di Shapur I, cf. Loriot 2006, 334). Zosimo li cita in occasione della campagna di Aureliano contro Palmira nel 272 (Zos., I, 52, 4) e ritroviamo dei Mauri seniores agli ordini di Traiano Muciano, probabilmente sotto Probo (IGBulg., III/2, 1570). Cf. Rebuffat in Kazanski & Vallet 1993, 77-81. Speidel 1975, 225-226; Scharf 2001 a; Speidel dans Johne 2008, 679 e s. Il carattere propriamente dalmata di queste unità è messo in dubbio da alcuni storici, secondo i quali la Dalmazia non era in grado di fornire un’importante quantità di cavalieri (si veda in particolare Dziurdzik 2017 a e b). Tuttavia, in epoca tardoantica, questa regione aveva fama di produrre eccellenti cavalcature militari (Veg., Mil., III, 6, 3). HA, Gall., 14, 4; 14, 9; Zos., I 40, 2. Id., I, 43, 1-2 e 52, 3-4. CI, X, 55, 3 e VII, 64, 9; AE, 1937, 232. Cf. Barbero [2009], 88 e Colombo 2008, 137 e n. 106. Cf. ND Or., passim. Ritterling pensava che gli equites illyriciani erano stati posti di guarnigione in questa regione dell’Impero in seguito alla campagna vittoriosa di Aureliano contro Palmira. Tale ipotesi sembra poco probabile. La presenza degli Illyriciani in Oriente segue in effetti una logica di ripartizione legata alla suddivisione amministrativa tetrarchica, con l’installazione di un gruppo di equites mauri illyriciani, di equites scutarii illyriciani, di equites promoti illyriciani e di equites dalmatae illyriciani in ogni ducato. Carrié 1993, 131; Carrié & Rouselle 1999, 621-628; Carrié & Janniard 2000, 322; Petitjean 2016, 522-525. Un articolo precursore di T. Mommsen è all’origine di questo paradigma: il grande storico ritiene che Diocleziano abbia cercato di sviluppare un esercito a due velocità, formato – da una parte – da truppe mobili, con il compito di costituire i corpi di spedizione, e – dall’altra parte – da truppe sedentarie, incaricate della difesa di settori frontalieri ben definiti e presentate come una milizia di contadini-soldati di scarso valore (Mommsen 1889 b). Questa tesi, criticata da alcuni studiosi (Carrié 1986, 458-460; Carrié & Janniard 2000, 322; Le Bohec 2007), è stata accettata da gran parte della comunità scientifica, ad esempio da E. Gabba e E. Luttwak che le hanno associato l’idea di “difesa in profondità” (Gabba [1974], 55-56; Luttwak 1976, cap. iii). Jones 1964, III, p. 192-193, n. 51.
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E.g. Amm., XVIII, 8, 2-4 (guarnigione di Amida). Per esempi più tardi, si veda Ps.-Giosué, 59 (guarnigione di Carre); Ps.-Zach., Chron., IX, 5, a e 6, c (guarnigione di Martyropolis). Cf. Jones 1964, II, 660-661; Elton 1996, 209; Pringle [2001], 79-80. Lewin 2004. Si vedano, tra le altre prove, la presenza del dux Osrhoenae Secundinus nell’ordine di marcia di Giuliano in Assiria nel 363 (Amm., XXIV, 1, 2), la mobilitazione delle truppe ripenses del Basso Danubio durante la spedizione di Valente contro i Goti nel 367 (Zos., IV, 11, 1) e la cooperazione tra truppe ducali di Fenicia/Palestina e truppe del magister militum per Orientem in occasione della rivolta di Mavia nel 377-378 (Soz., HE, VI, 38, 2-3). Janniard 2001, 352; Heather 2000 e 2010. Veg., Mil., I, 20, 2 (trad. C. Petrocelli). Ibid., III, 26, 34 (trad. M. Formisano). Amm., XVI, 12, 7. Su questa rivalutazione della cavalleria in epoca tardoantica, cf. Petitjean 2014. Non sottoscrivo la teoria di Mielczarek 1993, 10-11 (ripresa da Nikonorov 1998, 135 e Soria Molina 2011, 75-77) secondo cui l’utilizzo tattico dei catafratti (in colonne serrate contro la fanteria) differirebbe da quello dei clibanarii (a cuneo contro la cavalleria). Oltre al fatto che si poggia su argomenti fallaci (nella battaglia di Strasburgo i clibanarii di Giuliano non furono schierati a cuneo), questa ipotesi dogmatica contraddice qualsiasi idea di flessibilità tattica e induce a un’interpretazione lessicale unitaria di una documentazione sparsa su più di sei secoli, che rinvia a eserciti molto diversi. I sostantivi cataphractus/catafractarius denotano soltanto un tipo di armamento difensivo particolarmente coprente, indipendentemente da qualsiasi considerazione tattica. Possono designare sia lancieri corazzati, sia ufficiali subalterni che non combattono con il contus (Zuckerman 1994), fanti pesanti (Ios., BI, V, 350), marinai (Veg., Mil., IV, 44) e perfino dei meharisti (Hdn, IV, 14, 3; 15, 2; P. Beatty. Panop., 2, r. 28-29). Peraltro, contrariamente a quanto sembra ritenere M. Mielczarek, nelle fonti i catafrattari sono spesso associati a truppe di arcieri montati (Hdn, VIII, 1, 3; Amm., XVI, 2, 5-8; 12, 7; XXV, 1, 13; XXV, 3, 4; Veg., Mil., III, 16), nulla permette quindi di affermare che solo i clibanarii erano in grado di agire in coordinazione con unità di questo tipo. Sull’etimologia iranica del termine vd. Eramo 2018 b. AE, 1984, 825. Iul., Or., 1, 30 (trad. I. Tantillo). Pan. Lat., X (IV), 22, 4-24, 7. Amm., XVI, 12, 22. Pan. Lat., X (IV), 22, 4; Lib., Or., 18, 206. Si veda anche Id., Or., 59, 69-70. In un passaggio di dubbia autenticità storica, l’autore dell’Historia augusta suggerisce che l’armamento di questi clibanarii romani fosse lo stesso dei clibanarii persiani, cf. Alex., 56, 5. Amm., XVI, 12, 22 (trad. G. Viansino). Pan. Lat., X, 23, 4 (trad. D. Lassandro). Giuliano li fece vestire con abiti femminili e trascinare per l’accampamento prima di espellerli, ritenendo che per dei soldati questa punizione fosse peggio della morte (Zos., III, 3, 4-5). Amm., XVI, 12, 22; Heliod., Aeth., IX, 18, 2. Iul., Or., 2, 60A. Sullo scontro si veda più in generale Iul., Or., 1, 35D-38A; Or., 2, 57B-58A e 59C-60B; Zos., II, 45-53; Zon., XIII, 8. Contra Vigneron 1968, 311-312. Maurizio, Strat., III, 2. Cf. Petitjean 2016, 498-499. Sull’argomento: Grosse 1920, 112; Jones 1973, II, 634 e III, 193-194, n. 57; Hoffmann 1969, I, 79-81; Speidel 2005; Rocco 2012, 233-236. La testimonianza più esplicita è fornita da un insieme frammentario di iscrizioni appartenenti in origine allo stesso monumento (funerario? trionfale?) scoperto a Beştepe, in Romania, e databile all’ultimo terzo del iii secolo: CIL, III, 14214 (24) = IGLR, 272. Si veda anche Hier., Contra Ioh. Hierosolym., 19. AE, 1951, 30 = IK, 27, 101. Su centenarii e ducenarii, cf. Speidel 2005, 206-207 e n. 13 e 14. Questi ufficiali prendono il
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posto degli antichi centurioni. Non ci si stupirà quindi di trovare l’ufficiale subalterno di un’unità di catafractarii rappresentato su una stele funeraria sotto i tratti di un arciere a cavallo: CIL, XIII, 3493 = Espérandieu, V, 3941. Esempi di equites lanciarii (cavalieri armati di giavellotti) sono attestati tra gli equites promoti (Drew-Bear 1981, 104; CIL, VI, 32965 con Speidel 1994 a, n. 136). Oltre a lanciarii e sagittarii (cf. Veg., Mil., II, 14, 7), la cavalleria legionaria contava degli equites loricati et contati (lancieri corazzati) che combattevano in prima linea: cf. Veg., Mil., II, 6, 3; 14, 7; III, 16, 1; 17, 9. Sulle origini degli Unni, la loro etnogenesi, le circostanze del loro arrivo nella steppa pontica, si veda in ultimo: de la Vaissière 2015. Sull’argomento, si consulti in ultimo Janniard 2015 (Unni) e Curta 2016 (Avari). Keegan [2014], 188. Amm., XXXI, 2, 8-9 (trad. G. Viansino). Claud., In Ruf., I, 330-331. Zos., IV, 20, 4. Amm., XXXI, 2, 6; Sidonio, Carm., 2, 261-6; Agazia, V, 18, 10; Maurizio, Strat., XI, 2, 67-70. Contra Lindner 1981, 5-12 che suppone che, dopo essersi insediati in Pannonia, gli Unni si convertirono progressivamente alla guerra di fanteria. Ma si basa su un argomento ex silentio (il fatto che le fonti letterarie non precisino sempre se i combattenti nomadi sono cavalieri) e non tiene conto delle testimonianze – assolutamente chiare – che abbiamo citato. Esiste una curiosa eccezione, che non è rilevata da Lindner, in Agazia, III, 17, 5: “I mercenari unni chiamati Sabiri avevano dei distaccamenti di fanteria presso i Romani, non meno di duemila uomini”. Si veda anche Teofilatto, VII, 13, 8: nel 598, il khagan degli Avari “riunisce la sua fanteria pesante”, ma può benissimo trattarsi di rinforzi slavi e gepidi che in quello stesso anno partecipano alla campagna degli Avari contro l’Impero bizantino. Del resto non possiamo escludere che nel corso del vi secolo gli appellativi hoplitēs/hoplitikon, tradotti con “fante pesante/fanteria pesante”, avessero acquisito il senso più generico di “uomo in armi”/”corpo d’armata”. Werner 1956, 46-50; Maenchen-Helfen 1973, 221-228; Coulston 1985, 242-244; Anke 1998, 55-65; Lebedynsky 2001 b, 176-180; Bóna 2002, 117-121 e 196-198; Bord & Mugg 2005, 50-58; Hall 2006; Kazanski 2012, 193-194. La grande capacità offensiva di quest’arma e le sue proprietà balistiche dovevano spingere gli Unni a privilegiare il tiro di precisione a corta gittata rispetto al tiro parabolico a lunga distanza. Secondo Kazanski 2012, 194, una faretra poteva contenere dalle 20 alle 30 frecce. Cf. ibid., 194-195: le spade unne (rinvenute in grandi quantità) hanno una lunga lama appuntita a doppio taglio, che permette di colpire di punta e di taglio; le lance (rare nei rapporti di scavo) hanno una punta a fiamma triangolare allungata. Sulle armi per il combattimento ravvicinato degli Avari, si veda in ultimo Csiky 2015 (che nota in particolare l’utilizzo di lance a due mani come il contus e la comparsa di sciabole a un solo taglio, con la lama leggermente ricurva). Le parti di armatura in metallo sono soprattutto associate ai contesti avari, che vedono in particolare affermarsi le protezioni lamellari: Nagy 2005, 135-148. Su questo punto si veda Curta 2008, 310-314. Maurizio, Strat., XI, 2, 24-29. Van Nort 2007, 109. L’autore si basa in particolare sulla placca in osso del kurgan II di Orlat, su cui sono rappresentati cavalieri pesantemente corazzati equipaggiati con archi, lance e spade. Ma la datazione dell’artefatto pone da tempo problemi d’interpretazione. Si veda in ultimo Lebedynsky [2014], 260, che propone di datarlo al i secolo a.C. o ai primi secoli d.C.. La stele di Artemidoro, rinvenuta a Kerch e datata i secolo d.C. raffigura un kontophoros sarmato-bosforico equipaggiato con un arco composito (Istvánovits & Kulscár 2001, 154, fig. 11.11; si veda anche ibid., fig. 11.4 [vaso di Kosika]). Anche i lancieri corazzati dei grandi rilievi sassanidi di Firuzabad e Naqsh-e Rostam sono equipaggiati con archi (Mielczarek 1993, 125-126, fig. 10-11). Una pittura murale di Dura Europos della metà del iii secolo d.C. raffigura cavalieri persiani armati di contus e di ampie faretre (James 2004, 42, fig. 22). Werner 1956, 50-53; Lebedynsky 2001 a, 197-198; Bóna 2002, 126-129.
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Jin Kim 2013, 57-58. Priscus, fr. 13, 1, r. 28-50. Procop., Bell., III, 11, 12-13. Procop., Bell., III, 18, 13 (trad. M. Craveri). Giovanni da Pian del Carpine, Historia Mongolorum, VI, 4-5: gli individui più ricchi formano la cavalleria corazzata dei primi tre ranghi della linea di battaglia. Amm., XXXI, 2, 8-9; Maurizio, Strat., XI, 2, 41 e 54. Cf. Rance 2004. Come durante l’invasione del 447: Marcellinus Comes (Chron., s.a. 447, 5) fa allusione a una battaglia perduta da Arnegisclo contro Attila nei pressi del fiume Utus in Dacia Ripensis e Teofane Confessore (Chron., AM. 5942, 102 = Priscus, fr. 9, 4) sottolinea che i generali romani furono “completamente sconfitti”. Nel 493, il magister militum per Illyricum Giuliano viene ucciso in una battaglia notturna contro alcuni “Sciti” (Marc. Com., Chron., s.a. 493, 1). Un’altra grande vittoria è riportata dai Bulgari contro Aristo, magister militum per Illyricum, sul fiume Tzurta, nel 499: nella battaglia muoiono 4.000 Romani (sui 15.000 mobilitati) (Marc. Com., Chron., s.a. 499, 1). Nel 570 o nel 571 gli Avari infliggono pesanti perdite all’esercito del comes excubitorum Tiberio (Evagr., HE, V, 11; Men. Prot., 15, 5; Teofane, Chron., AM. 6066, 247). Nel 586 ottengono una nuova vittoria in Tracia contro i generali Casto e Ansimuth (Teofilatto, II, 11, 14-12, 4), poi nel 592 contro l’esercito di Prisco a Heraclea (ibid., VI, 5, 8-9) e nel 598 contro l’esercito di Comenziolo fra Iatrus e le montagne balcaniche (ibid., VII, 13, 9-14, 9). Maenchen-Helfen 1973, part. ii; Whitby 1988, part. ii. Su questa invasione: Greatrex & Greatrex 1999. Hier., Ep., 77, 8 (trad. O. Olcese modificata). La guerra civile di cui si parla nel brano è quella che nel 395 contrappone Stilicone a Rufino. Altre testimonianze insistono sull’incredibile celerità degli Unni: e.g. Amm., XXXI, 3, 1-8; Max. Tur., Hom., 94. I due esempi rivelano però che gli Unni potevano essere rallentati quando erano carichi di bottino. A proposito dell’attacco del 395, lo Pseudo-Giosué rimprovera il prefetto del pretorio Rufino e il magister militum per Orientem Addeo perché non furono capaci di fermare l’invasione (cf. Ps.Giosué, 8). Addeo avrebbe perfino rifiutato di affrontare gli Unni in battaglia campale quando si trovava a Edessa con il suo esercito. Cf. Euphemia, 4-12 (Burkitt 1913, 130-134). Teofilatto, VI, 4, 6. Maurizio, Strat., XI, 2, 31-35. Su questo punto: Luttwak [2010], 48; Nikonorov 2010, 273; Janniard 2015, 255. Sembra però eccessivo considerare questa modalità operativa un’invenzione degli Unni. Ammiano Marcellino descrive qualcosa di simile a proposito di Sarmati e Quadi. Cf. Amm., XVII, 12, 1-3. Hier., Ep., 77, 8. Teofane, Chron., AM. 6066 (p. 247). Teofilatto, I, 4, 1. Ibid., I, 4, 4. Ibid., I, 8, 11. Su questo punto si veda Luttwak [2010], 49. L’esagerazione di Giordane, secondo cui l’esercito di Attila era formato da 500.000 uomini (Iord., Get., 35, 182), non deve essere presa alla lettera, tuttavia rivela l’importanza eccezionale degli effettivi che Attila era in grado di mobilitare agli occhi dei contemporanei. Chron. Pasch., s.a. 450 (p. 587) = Priscus, fr. 21, 1. Teofane, Chron., AM. 6013 (p. 167). Ibid., AM. 6020 (p. 175). Ibid., AM. 6020 (p. 175). Procop., Bell., VIII, 18, 15. Maurizio, Strat., IX, 5, 33-35. Come mostrano le circostanze dello scoppio della guerra del 466: cf. Priscus, fr. 49 e MaenchenHelfen 1973, 166. Lindner 1981, 14-15. Si veda prima di lui Sinor 1972, 181-182.
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Nikonorov 2010, 275-258; Janniard 2015, 262. Tra i numerosi esempi si vedano: Ps.-Aur. Vict., Epit., 48, 5; Soz., HE, IX, 5; Priscus, fr. 2 e 11, r. 241-262; Sid. Apoll., Carm., 7, 319-325; Zos., IV, 34, 6; Iord., Get., 24, 126; 38, 198-200; 50, 259261; Malalas, XVIII, 129; Teofilatto, I, 7, 1; 8, 4; VI, 2, 12; 3, 9-4, 4; 11, 5. 93 Nikonorov 2010, 274-275; Janniard 2015, 260-262. 94 Elton 1996, 82-86; Nikonorov 2010, 282-283; Janniard 2015, 262. 95 Lindner 1981, 10. 96 Iord., Get., 38, 197-40, 212. 97 Si riconosce qui la “teoria del domino”, resa celebre dall’opera di E. Gibbon e difesa ancora oggi da W. Goffart e P. Heather: cf. Heather 2005 e Goffart 2006. La storiografia tedesca preferisce la nozione di Völkerwanderung (“migrazione dei popoli”). 98 Sull’atteggamento più aperto dell’Impero tardoantico nei confronti delle artes barbarorum: Traina 1993, 285-290. Sulla “democratizzazione della cultura”: cf. Mazzarino 1960 (con AnTard 9, 2001). In uno studio di grande importanza storiografica, Rance 2005 ridimensiona tali cambiamenti che sono stati in genere esagerati in passato. 99 Graff 2016, cap. 7. 100 Lazaris 2007. Non aderisco però alle tesi di questo autore sulla datazione dei primi ippiatri greci. 101 Doyen-Higuet 1984; McCabe 2007. 102 Cam et al. 2017. 103 Si veda in particolare Werner 1956, 50-53 e Bishop & Coulston [2006], 227. Questo tipo di sella è rappresentato per la prima volta, in contesto romano, sulla colonna di Teodosio I a Costantinopoli (386-393/4 d.C.): Becatti 1960, tav. 78-80. 104 Lebedynski 2001 b, 199. Secondo Akhmedov 2001, l’origine di questo tipo di morso è steppica. I Romani l’avrebbero adottato a contatto con gli Unni. 105 Lebedynsky 2001 b, 199-200; Lazaris 2005 e 2011, 259-269; Ivanišević & Bugarski 2012. 106 Sull’argomento, cf. Shuvalov 2014. 107 White 1969, cap. i. 108 Bachrach 1970; Settia 1985; Bennett 1995; Morillo 1999. 109 Lazaris 2012 b, 17. 110 Evagr., HE, III, 25. 111 Maurizio, Strat., I, 2, 40-42. In un capitolo successivo l’autore aggiunge che gli ambulanzieri devono sospendere le due staffe sul lato sinistro della sella per potere issare più facilmente i feriti in groppa al cavallo: ibid., II, 9, 22-28. 112 Sull’organizzazione dell’esercito imperiale nel vi secolo: Aussaresses 1909, 9-19; Müller 1912; Delbrück [1990], II, 339-349; Ravegnani 1988, 29-39; Treadgold 1995, 87-98; Haldon 1999, 6771; Syvänne 2004, 31-33. Sulla cavalleria nello specifico: Rance in ERA, I, s.v. “Cavalry: Late Empire”, p. 179-186. 113 CI, I, 27, 2, 1-8 (534 d.C.). 114 Aussaresses 1909, 15-16 (che parla di “una specie di legione straniera sotto il controllo dell’esercito nazionale regolare”); Haldon 1984, 100-101; Zuckerman 2004, 166-167. 115 Aussaresses 1909, 14-15; Grosse, 1920, 283-291; Jones 1964, II, 666-667; Haldon 1984, 101-102; Schmitt 1994; Zuckerman 2004, 167-168; Sarris 2006, 162-175. 116 Aussaresses 1909, 16. Origini: cf. Evagr., HE, V, 14, con Haldon 1984, 96-100. Organizzazione: Maurizio, Strat., I, 3, 23-25 e II, 6, 29-30. 117 Haldon 1984, 173. 118 Maurizio, Strat., XII, A, 7, 9-12. 119 Ibid., XII, B, 8-9 e 13. 120 E.g. Procop., Bell., III, 11, 2 (con Pertusi 1968, 636 e Pringle [2001], app. 1). 121 Su questo punto si veda Syvänne 2004, 40. 122 Cf. Lynn 1996, 510. 123 Sui Vandali d’Africa si veda Procop., Bell., III, 8, 27. Sugli Ostrogoti, cf. Malchus, fr. 18, 2, r. 51-52. 91 92
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Si veda anche Procop., Bell., V, 11, 28. Cf. Lebedynsky 2001 b, cap. 3, che parla di “sarmatizzazione delle tecniche militari” dei popoli germanici orientali (p. 67). I Persiani avevano invece adottato da tempo il paradigma degli all-cavalry armies, ereditato dai Parti. Per due esempi dell’epoca, cf. Procop., Bell., I, 17, 1 (531 d.C.: 15.000 cavalieri) e soprattutto Men. Prot., fr. 23, 1, r. 27-29 (578 d.C.: 20.000 cavalieri, di cui 12.000 cavalieri persiani e 8.000 cavalieri saraceni e sabiri ). Ma questo non impedì loro di mobilitare anche eserciti misti. Cf. Syvänne 2004, 330-335. 124 Maurizio, Strat., II-III. 125 Mazzucchi 1981, 116-117. Cf. Syvänne 2004, 74-75. 126 Teofilatto, II, 3, 1-4, 14. Su questa battaglia, cf. Syvänne 2004, 446-448 e recentemente Kotłowska & Różycki 2015. 127 Questa evoluzione è ben visibile nel libro IV del De aedificis di Procopio, in cui l’autore descrive la politica di costruzioni militari di Giustiniano. 128 Su questa “alleanza” tra fortezza e cavaliere: Settia 1998. 129 Procop., Bell., V, 28, 21-29, 44. Sullo scontro, cf. Hodgkin 1875, 218-224. Per altri esempi, cf. Ps.Giosué, 51 e Ps.-Zach., Chron., IX, 2, b. 130 Amm., XXIX, 3, 5 riporta la dissavventura dello strator Costanziano, che si trovava in Sardegna per selezionare delle cavalcature militari: Valentiniano I lo avrebbe fatto lapidare perché aveva preso l’abitudine di scambiare i cavalli selezionati per l’uso militare con altri animali di qualità mediocre. 131 Si veda Jones 1964, II, 768-769 e III, 248, n. 4. 132 Lib., Ep., 1174. 133 Claud., Serena, 190-193. 134 Su questa carica, cf. Scharf 1990. 135 Procop., Bell., III, 12, 6 e VIII, 27, 4. 136 Men. Prot., fr. 23, 1, r. 24-25. Si veda anche Philost., HE, III, 4. 137 In generale fare riferimanto a: Ravegnani 1988, 54-58 e 62-63; Rance 2000; Syvänne 2004, 4247; Rance, s.v. “Training: Late Empire”, in ERA, III, 1012-1014. 138 Si veda ad esempio Agazia, II, 1, 2. Per il vii secolo: Mir. S. Anast. Pers., 135. 139 Veg., Mil., I, 15, 2. 140 Maurizio, Strat., I, 2, 28-34. 141 Ibid., I, 1, 9-20. Syr. Mag., Strat., 44, 18-23. 142 Procop., Bell., I, 1, 12-16 (trad. M. Craveri). 143 Su questo modello: Koehn 2013. La sincerità di Procopio in questo passaggio è stata messa in dubbio da Kaldellis 2004/2005, che ritiene che l’opera dello storico nasconda un secondo fine. Contra Petitjean 2014. 144 Secondo Syvänne (2004, 39; sulla base di Veg., Mil., I 20 e II, 14), il modello sarebbe stato fornito già nel iv secolo dalle forze di cavalleria di Goti, Alani e Unni. Per altri (e.g. Darkó 1937, 128-129; Bivar 1972, 287), deriverebbe invece da un’influenza avara. In effetti, nel suo trattato, Maurizio menziona più volte gli Avari come fonte d’ispirazione (cf. Strat., I, 2, 19-20, 37-38, 4647 e 60-61; II, 1, 20-21; IX, 2, 11-12), per non parlare del fatto che attribuisce a questi nomadi un equipaggiamento molto simile nella sezione su di loro (XI, 2, 24-29). 145 Graff 2016, cap. 3. 146 Cf. Rance 2005, 428 e Id., s.v. “Cavalry: Late Empire”, in ERA, I, 185. 147 Su questo modulo, si veda Aussaresses 1909, 20-32 e Syvänne 2004, 133-135. 148 Maurizio, Strat., I, 5, 8-10 e VII, B, 17, 12. 149 Ibid., I, 2, 35-39; Syr. Mag., Strat., 17, 12-16. 150 Maurizio, Strat., III, 2 e Mazzucchi 1981, 113-115. 151 Maurizio, Strat., II, 2, 10-12. 152 Ibid., I, 3 26-30. Si veda anche ibid., III, 12, 5-10: “Se i nemici sono messi in fuga, i cursores devono lanciarsi all’inseguimento, caricando al galoppo fino all’accampamento nemico. I defensores devono seguirli rimanendo in formazione, senza restare indietro, in modo che, se il nemico fa dietro-front e i cursores non possono sostenere il combattimento corpo a corpo, questi ultimi
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possano rifugiarsi dietro i defensores e riorganizzarsi.” Ibid., II, 6, 33-35. 154 Ibid., II, 5, 3-10. 155 Ibid., II, 6, 33-35. 156 Bréhier [2015], 272-273; Jones 1964, II, 668; Teall 1965; Carrié 1995, 50-59; Elton 1996, 91-94. Contra Maspero 1912, 50, n. 1; Grosse 1920, 279; Stein [1959], 237. Non bisogna fidarsi di una tradizione storiografica che fa risalire troppo indietro nel tempo le origini del fenomeno, reso a torto responsabile della fine dell’Impero romano d’Occidente. Cf. Carrié 2016, 488. 157 Carrié 1995; Scharf 2001 b; Zuckerman 2004, 166-167; Sartor 2016. 158 Teofane, Chron., AM. 6032 (p. 219). 159 Procop., Bell., V, 27, 27. Per un elenco dei contingenti unni arruolati dai Romani nel corso di v-vi secolo: Janniard 2015, 210-211. 160 Arabi: Hier., Vita Malchi, 4, 2 con Syvänne 2004, 401-403 e Wolińska & Filipczak 2015, 157203. Mauri: Procop., Bell., III, 8, 28; IV, 10, 9-10; IV, 11, 19; IV, 11, 27 con Syvänne 2004, 398-400. 161 Sulla cavalleria pesante armena: Adontz 1970, 218-227 (effettivi e organizzazione) e 355356 (infrastruttura sociale); Dédéyan 1997; Syvänne 2004, 412-414; Janniard 2005, 530-533. Contingenti alleati: Charanis 1961, 200-202; Dédéyan 1987. 162 Germani in generale: Maurizio, Strat., XI, 3 con Lebedynsky 2001 b, cap. 3 e Syvänne 2004, 367-389. Vandali: Procop., Bell., III, 8, 27. Goti: ibid., V, 16, 11; V, 18, 6; V, 18, 10; V, 27, 27-28. 163 Rance, s.v. “Cavalry: Late Empire”, in ERA, I, 184. 164 Procop., Bell., III, 11, 11-12; V, 27; VI, 1, 4-10; VIII, 19, 6-7. 165 Ibid., II, 18, 24. 166 Maurizio, Strat., VII, A, pr., 25-27 e 32-34. 167 Si veda a proposito Syvänne 2004, 158-159, 192 e 420. 153
Conclusione 1 2 3 4
5
6 7 8
L’espressione è di Vigneron 1968, I, 254. Roberts 1956 (e la risposta di Parker 1988). Rogers 1995. Per una recente sintesi sull’argomento, si veda Henninger 2003. Snodgrass 1980, 101-109. Altri storici hanno cercato di promuovere l’idea di una rivoluzione militare tra la fine della guerra del Peloponneso e la morte di Alessandro: questa mutazione avrebbe riguardato principalmente l’ambito della tattica e avrebbe portato gli eserciti greco-macedoni a diversificare i corpi di truppa, accordando più spazio alla fanteria leggera e alla cavalleria. Cf. Rahe 1980 e Ferrill [1997], cap. 5. Per un interessante saggio sulle origini della “chevalerie” in cui si privilegia la lunga durata: Barthélemy 2012. Anthony et al. 2006, 152. ARM, VI, 76. I lavori di B.S. Bachrach hanno ampiamente contribuito a diffondere questa idea: cf. Bachrach 1970, 1988 e 2001. Molto utile si rivela anche Morillo 1999.
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Indice generale Abgar (re dell’Osroene), 108 Abizar (stele di tipo), 110 Arbogast (Rose-Marie), 122 Adriano, 121-22, 129, 137, 140, 143, 149 Adrianopoli (battaglia di), 9 Aes equestre, 86 Afranio (Lucio), 102 Agēma, 63, 65, 67, 68 Agesilao II di Sparta, 45, 52 Agricola (Gneo Giulio), 141 Ala I Hamiorum sagittariorum, 117 Alani, 35, 143, 152, 156, 158 Ala Patrui, 109 Ala Sebastenorum, 132 Ala Vocontiorum, 131 Alamanni, 152, 154 Alesia (assedio di), 101, 110 Alessandro Magno, 12, 25, 56, 61, 64, 70, 180 Alessandro Severo, 147 Ammiano Marcellino, 153-54, 156, 158 Anastrophē, 50 Anfipoli (battaglia di), 41 Annibale, 43, 93-93, 95, 180 Anthippasia, 51 Anthony (David W.), 14, 17, 179 Antioco il Grande, 67, 71 Antipatro (generale macedone), 65 Antonio (Marco), 76-77, 99, 104, 107, 111 Apamea sull’Oronte, 71 Apostrophē, 50 Appiano di Alessandria, 97-99 Apsirto, 124 Archelao II di Macedonia, 56 Archidamo II di Sparta, 43 Arcieri a cavallo (gr. hippotoxotai / lat. equites sagittarii), 18, 22-3, 26, 27, 30, 35, 42, 45, 48, 51, 58, 64, 71, 75-76, 78-79, 80-1, 11011, 117, 119, 125, 140, 145, 152, 154, 156-9, 165-6, 171-2, 174 Arco: assiro-babilonese, 22, 32, composito riflesso, 22-3, 32, 35, di Yrzi, 80, unno, 80, 157, 159
Aristotele, 40 Arriano di Nicomedia, 60-62, 67, 71, 83, 125, 138, 140, 143-45 Arsace I di Partia, 74 Artaserse II, 45 Asapatiš, 33 Asbārān, 76 Asclepiodoto, 67, 71-72 Ascoli (assedio di), 108 Asdrubale il Beotarca, 97 Assurbanipal, 27 Assurnasirpal II, 26 Athacus (battaglia di), 92, 96 Attila, 156, 158, 163-64 Augusto (Gaio Giulio Cesare Ottaviano), 102-3, 115, 120, 122, 127, 137 Aureolo, 148 Ausculum (battaglia di), 92 Avari, 35, 147, 158, 160, 162-63, 165 Āzādān, 76-77 Baivarabam, 33 Bardylis, 58 Battriani, 58, 60 Belisario, 160, 170, 172 Beozia, 39, 47, 58, Besso (satrapo della Battriana), 63 Biancardi (Massimo), 128 Bökönyi (Sándor), 15, 123 Bononia, 162 Botai, 15, 17 Brizzi (Giovanni), 10 Brown (Frank), 80 Bucellarii, 166, 172 Buhen (cavallo di), 18 Bulgari, 165 Bulla Felix, 132 Caccia, 15, 35, 47, 51, 69 Cacciatori di teste, 119 Cadiou (François), 96, 103
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Calcide, 39 Campania, 87 Campi Magni (battaglia dei), 95 Campi Mauriaci (battaglia dei), 164 Canne (battaglia di), 92, 95 Capistrum, 124 Capua (assedio di), 97 Carica cantabrica, 140 Carre (battaglia di), 35, 77-78, 81, 101 Carro da guerra, 19, 22, 25-9, 40, 60, 85, 177, 179, 180 Cassandrea (diagramma di), 66 Cassio Dione, 77, 81, 120, 132 Catafratti, 31, 63, 67, 71, 75-83, 148, 150, 152, 154-5 Catti, 134 Cavalleria: achea, 69, 72-4, achemenide, 30-4, armena, 119, 140, 144, 174, assira, 25-30, ateniese, 39, 42-4, 46-50, beotica, 44, 47, 69, campana, 87, 91, 97, cartaginese, 94-6, egiziana, 18, etolica, 97, gallica, 93, 101, 106-11, 119, indiana, 64, ittita, 19, lagide, 67-8, macedone, 55-66, 71, micenea, 20, mitannica, 19, numidica, 94-6, 100-1, 106-7, 110, partica, 74-83, peona, 57, saracena, 174, sassanide, 158, 160, 175, scita, 34-7, 60-2, 71-2, seleucidica, 66-7, siracusana, 43-4, spartana, 46-7, tessala, 47, tracia, 57, 65, 106 Cavalleria romana repubblicana: armamento, 89, 99, 109-11, effettivi, 85, 91, 99-100, modo di combattimento, 86-9, 91-5, 97-8, organizzazione, 85-6, 94, 1089, reclutamento, 85-6, 99-100, 104-6, schieramento, 99, scomparsa della cavalleria censitaria, 102-6, 115 Cavalleria romana imperiale: accampamento, 130-1, addestramento, 137-40, armamento, 125-6, disposizione strategica, 127-30, effettivi, 121-2, modo di combattimento, 142-5, organizzazione, 120-1, reclutamento, 115-8 schieramento, 136, stele funerarie, 118-120 Cavalleria romano-bizantina: addestramento, 171, armamento, 152-5, 171-2, disposizione strategica, 151-2, 169, effettivi, 167, modo di combattimento, 171-3, organizzazione,
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147-51, 155, 166-7, reclutamento, 149, 174, schieramento, 172-3 168-9 Cavallo: andatura, addestramento, 50, 124-5, 165, addomesticamento, 13-5, allevamento, 34, 39, 46-47, 56, 68, 123, 170, desensibilizzazione, 124, morfologia, 15-6, 122-3, psicologia, 16, steppico, 36, 162, sviluppo dell’equitazione, 17-20 Celti, 20, 21, 119 Ceno (generale macedone), 64 Census equester, 105 Cesare (Gaio Giulio), 100-3, 106, 109, 111 Cheronea (battaglia di), 58, 60 Chiliarchia, 67 Chinalion, 163 Cicerone (Marco Tullio), 104, 119 Cieco (Appio Claudio), 90 Ciro, 31 Ciro il Giovane, 45 Civile (Gaio Giulio), 116 Claudiano, 133, 157, 170 Claudio, 121, 137 Clibanarii, 148, 153-55 Clito, 63 Cohors I Hemesenorum sagittariorum equitata, 117 Cohors I Hispanorum veterana equitata, 132, 141 Cohors II Ituraeorum equitata, 133 Cohors XX Palmyrenorum sagittariorum equitata, 124 Colofone, 69 Colonia, 128 Comes stabuli, 124, 170 Comitatenses, 147, 151-52, 166 Corpus Hippiatricorum Graecorum, 165 Costantino I, 150 Costanzo II, 153-54 Crasso (Marco Licinio), 35, 107-8, 111 Crasso (Publio Licinio), 80 Cuma, 85 Cunassa (battaglia di), 45 Cuneus equitum, 150 Cursores, 33, 145, 173 Dafne (rassegna militare di), 67 Dahai, 58, 74 Dalmati, 128, 148-50
Dario I di Persia, 36, 75 Dario III di Persia, 58-59, 63 Darkó (Eugène), 34 Dascilio (battaglia di), 34 Dathabam, 33 Davies (Roy W.), 138 Decem stipendia, 105 Defensores, 33, 145, 173 Dekania, 68 Delio (battaglia di), 42 Demetrio Poliorcete, 67 Dereivka, 14, 17 Dilochia, 72 Diocleziano, 150 Diodoro Siculo, 56 Dione di Prusa, 129 Dionigi di Alicarnasso, 91, 94, 97 Dionisio il Vecchio, 42 Dokimasia tōn hippōn, 48, 66, 69 Doratophoroi, 71 Doru, 53 Drews (Robert), 14, 20 Drobeta (Turnu Severin), 135 Drungus, 160 Ducrey (Pierre), 55 Duplicarius, 136, 155 Dura Europos, 81-83, 124, 131 Edessa (battaglia di), 148 Efestione, 63 Efipparchia, 67-68 Elefanti da guerra, 71 Eliano Tattico, 67, 71 Embolon, 43, 61, 72 Epaminonda, 42-43, 55, 58, 61 Epilarchia, 68 Epilektoi hippeis (regno seleucidico), 67 Epilochos, 68 Epistrophē, 72 Epitagma, 68 Equites dispositi, 131 Equites equo publico, 85 Equites equis suis, 86, 105 Equites illyriciani, 150, 168 Equites legionis (Alto Impero romano), 115, 120, 137 Equites promoti, 148 Equites scutarii, 148-49
Equites singulares Augusti, 122 Equites stablesiani, 148 Eraclio, 167 Erodoto, 30, 36, 52 Etruria, 85, 87 Exagōgē, 72 Ezio, 164 Farsalo (battaglia di), 103, 110 Federico II di Prussia, 61 Ferdowsi, 76 Ferentarii, 89 Filippi (battaglia di), 100, 107, 111 Filippico, 168 Filippo II di Macedonia, 55-58, 65-66, 70, 72 Filippo V di Macedonia, 92 Filopemene, 72 Filota, 63 Flavio Giuseppe, 76, 102, 108, 125, 135 Foederati, 166, 168, 174 Formazione tattica: in colonna, 43, 61-2, irregolare, 35, 80, 160, 173, 175, profonda, 34, quadrata, 34, 44, 49, 71-2, rettangolare, 49, 72, romboidale, 72, triangolare, 72 Forward defence, 130 Franchi, 152, 165 Freccia del Parto, 26, 78 Frondolieri, 44-45 Gabinio (Aulo), 107 Galba (Publio Sulpicio), 92, 122 Gallieno, 148, 155 Gallo (Rubrio), 135 Gandhara, 63 Gaugamela (battaglia di), 31, 59-60 Gaza (battaglia di), 70 Germanico (Giulio Cesare), 141 Germani corporis custodes, 122 Ghirshman (Roman), 81 Giavellottisti a cavallo (gr. hippakontistai/ lonchophoroi), 58, 71, 143-44 Gimbutas (Marija), 14-15 Girolamo (San), 161 Giugurta, 101-2 Giuliano, 153-54 Giustiniano, 160, 170 Goti, 9, 148, 150, 152, 164, 174 Graff (David A.), 165, 172
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Granico (battaglia del), 59 Greenhalgh (Peter), 41 Guerra del Peloponneso, 41-43, 45, 48, 95, 178 Guerra di Antioco, 97 Guerra giudaica, 102, 130 Guerra ibero-partica, 77 Guerra lamiaca, 65, 70 Guerra lelantina, 40 Guerra macedonica (seconda), 70, 96-97 Guerra macedonica (terza), 65 Guerra oplitica, 40 Guerra partica di Traiano, 83 Guerra persiana di Galerio, 150 Guerra punica (seconda), 91, 94-97, 99, 100, 178 Guerra sociale, 105 Guerre daciche, 117, 140 Guerre dei Diadochi, 70 Guerre messeniche, 40, 46 Guerre persiane, 33, 150 Guerriglia di cavalleria, 37, 43-5, 94, 100, 101, 102, 132, 134, 151 Gyros, 125 Habrosunē, 47 Hamippoi, 52 Hartog (François), 30 Hatzopoulos (Miltiades), 66 Hauser (Stefan), 75 Hazarabam, 33 Hekatostuai, 63 Helbig (Wolfgang), 86-87, 90 Hetairoi, 56-57, 59-60, 63, 66 Heteromēkē pedē, 50 Hippeis (Grecia classica), 11, 39-40, 46-49 Hippeis peri tēn aulēn (regno lagide), 68 Hippika gymnasia, 138 Hippobotai, 39, 85 Hippoteion, 47 Holder (Paul), 122 Humm (Michel), 89 Hyksos, 18 Hyland (Ann), 126 Iaxartes (Syr Darya), 61, 63 Idantirso, 37 Idaspe (battaglia dell’), 64 Ilē (formazione tattica macedone), 68, 72-73 Ilē basilikē, 57, 63, 67
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Ilipa (battaglia di), 93-94, 96 Illiri, 56, 58 India / Indiani, 63-64, 71 Indoeuropei, 15, 19 Ineditum Vaticanum, 89 Intercisa, 117 Ipparchia, 73 Ippiatria, 165 Ippocrate di Atene, 44 Ippologia, 19 Ircania, 74 Isso (battaglia di), 59 Johnstone (Cluny), 122-23 Kaeso, 89 Kamax, 53 Kassai (Lajos), 79 Katastasis, 48 Katoikoi hippeis, 69 Keegan (John), 11, 156 Kikkuli, 19 Kontophoroi, 32, 143, 158 Kontos, 125, 140 Koptos, 131 Koshelenko (Guennadi), 76-77 Kraft (Konrad), 116 Krokodilo, 131-32 Lambaesis, 139 Lammert (Edmund), 90 Lefebvre de Noëttes (Richard), 10 Lega achea, 69, 97 Lega beotica, 69, 73 Lerida (battaglia di), 102 Leuttra (battaglia di), 43 Libanio, 154, 170 Limes, 129, 131, 150 Limitanei, 147, 151-52, 166 Lindner (Rudi), 163 Lochos, 68, 72 Longino (Quinto Cassio), 104 Longobardi, 174 Luttwak (Edward), 127, 130 Lynn (John), 168 Macedonia, 39, 55-57, 65-66, 68, 180 Machaira, 53
Machiavelli, 9 Machimoi hippeis, 68 Magnesia del Meandro, 69 Magnesia del Sipilo (battaglia di), 71 Mann (John C.), 129 Mantinea, 418 a.C. (battaglia di), 42 Mantinea, 362 a.C. (battaglia di), 43 Marchetti (Patrick), 86, 105 Marco Aurelio, 130 Mario (Caio), 101-4 Martingala, 27 Massageti, 58, 160-61, 174 Massimo (Quinto Fabio), 95 Massinissa, 95, 100 Maurizio (imperatore bizantino), 145, 162, 16667, 171, 173 Mausoleo dei Giulii (Glanum), 22, 111 Medi, 31, 67 Megara (battaglia di), 42 Méniel (Patrice), 122 Mētis, 96 Mielczarek (Mariusz), 80 Milano, 148 Mitridate I di Partia, 74, 81 Mitridate II di Partia, 74 Mongoli, 160 Mons Claudianus, 133 Mons Graupius (battaglia di), 141 Monte Uauš (battaglia del), 28-29 Morso: da briglia, 21, filetto, 21, 165, organico, 14-5, 17, tracio-cimmerio, 21 Munda (battaglia di), 103 Murašû (archivi di), 32 Mure (Publio Decio), 92 Mursa (battaglia di), 154 Muthul (battaglia del), 101 Myos Hormos, 131-32 Nazario, 153-54 Neferis (battaglia di), 97 Nerone, 120 Neuss, 128 Nicia, 43-44, 101 Nicolet (Claude), 86 Nimrud (bassorilievi di), 26 Nisa (pianura di), 33, 67 Nisa (città partica), 81 Nizakawork’, 174
Nomadismo, 14, 20, 34, 179 Notitia dignitatum, 148, 151, 153 Numerus, 121 Numerus Palmyrenorum Porolissensium, 121 Nuzi, 19 Olbrycht (Marek), 63, 75 Oman (Charles), 9 Onasandro, 137, 142 Opliti montati, 40, 86-9 Opsikion, 167 Optimates, 166-68 Optio, 99, 136 Ordine equestre (lat. ordo equester), 11, 85-6, 104, 105, 109 Ordine obliquo, 43, 58 Orode II di Partia, 76 Oulamos, 72 Pacoro, 76 Pagonda, 42 Palatini, 151, 166 Panion (battaglia di), 71 Paragōgē, 73 Paretacene (battaglia di), 70 Paramēridia, 31 Parapleuridia, 31 Parapompē, 132 Parembolē, 73 Parma equestris, 99 Parti / Parni, 35, 58, 74-76, 78-81, 101, 107, 119, 154 Patkoua, 133 Peltasti, 41, 45 Pericle, 43, 95 Periklasis, 73 Perispasmos, 72 Perseo di Macedonia, 65 Persiani sassanidi, 148 Peters (Joris), 122 Petreio (Marco), 102 Petrinos, 140 Pezhetairoi, 57, 59 Phraaspa (assedio di), 80 Phulē (ateniese), 49, 51 Pirro, 92, 94 Plinio il Vecchio, 126, 134 Plutarco, 40, 58, 63, 77-78, 80-81, 91, 103
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Polibio, 67, 72, 89, 91-92, 95, 97-99, 136 Politikoi hippeis (regno seleucidico), 67 Pompeo Magno (Gneo), 103, 106, 110 Pompeo Trogo, 58 Poro (re indiano), 63-64 Porta Salaria (battaglia della), 170 Poseidonio di Apamea, 71-72 Postumo, 148 Pozzuoli, 120 Presa mongola, 79 Prisco, 133, 158, 163 Probatio equitum, 124 Prodromoi, 57-58, 65 Prometōpidion, 31 Prosternidion, 31 Protoindoeuropei, 14 Qadesh (battaglia di), 18 Quadrato di fanteria (gr. plinthion / lat. agmen quadratum), 45, 46, 58 Rafia (battaglia di), 67 Ras Shamra, 19 Recognitio equitum, 91 Reggio, 85 Rhandeia (battaglia di), 77 Rimonta, 29, 33, 36, 56, 68, 123-24, 156, 162, 170 Ritterling (Emil), 148 Rivoluzione militare, 178-79 Rucillo, 109, 111 Rufo (Marco Minucio), 96 Rulliano (Quinto Fabio), 86 Rusa, 28-29 Sabino Pomponio Secondo (Publio Calvisio), 134 Sallustio, 104 Sargon II, 28-29 Sarissophoroi, 57-58, 61 Sarmati, 35, 134-35, 155, 158 Satabam, 33 Schieramento contro gli Alani, 143, 145 Scholae palatinae, 170 Scipione Africano (Publio Cornelio), 100 Scipione Emiliano (Publio Cornelio), 97 Sciti, 21, 35-37, 61-62, 71-72, 78, 155, 162-63 Scudiero (lat. calo), 118,167 Sekunda (Nicholas), 63
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Seleuco I Nicatore, 66 Sella: a corna, 22, 126, di Pazyryk, 21-2, di Zaghunluq, 21, partica, 81, unna, 158-9 Sēmaia, 67 Sennacherib, 29 Senofonte, 30, 34, 42-43, 45, 47-53, 61, 97, 145 Sentinum (battaglia di), 91, 93-94 Servio Tullio, 85 Sesquiplicarius, 136, 155 Settimio Severo, 132 Shalmaneser III, 29 Sibari, 85 Sicilia (spedizione ateniese in), 43-44, 89, 101 Sicione (battaglia di), 42 Silace (satrapo di Mesopotamia), 77 Singidunum, 162 Siracusa (battaglia di), 43-44 Sirmium, 162 Siscia, 128 Sitos, 48 Siyāt, 80 Socii (alleati italiani), 100, 106 Sogdiani, 58 Solachon (battaglia di), 168 Solygeia (battaglia di), 41 Sosio (Gaio), 108 Spade ad antenne, 20 Spartolos (battaglia di), 41 Speidel (Michael P.), 136 Staffa, 165-66 Stilicone, 170 Strasburgo (battaglia di), 153-54 Strategia: della terra bruciata, 36, di annientamento, 142, di difesa in profondità, 147, 151, di difesa mobile, 45 Strategikon, 145, 158, 162-63, 166-68, 171-75 Stratores, 124, 170 Surena, 77, 79 Tabai, 69 Tacito, 123, 132, 134 Tagma (unità di cavalleria bizantina), 155, 168, 172 Tarentini, 71, 110 Tarn (William W.), 55, 80 Tassile, 63 Tattica: dell’incudine e il martello, 43, dello swarming, 80, turanica, 35
Tegyra (battaglia di), 43 Telegini (Dmytro), 14 Tell Leilan, 19 Teodorico Strabone, 166 Teodosio I, 170 Teofilatto Simocatta, 161 Teopompo (storico), 56 Tessaglia, 39, 45, 47, 52,56, 72 Testuggine (formazione di fanteria romana), 79 Thureophoroi, 71, 109 Tiberio, 123, 162 Tiberio II, 167 Ticino (battaglia del), 92-94 Tiglatpileser, 27 Timeo di Tauromenio, 89 Tiridate I di Armenia, 120 Tito Livio, 65, 70, 86-93, 99 Tolemeo (Soter), 57, 60, 67-68 Torino (battaglia di), 153 Traiano, 83, 117, 122, 140 Transvectio equitum, 86, 91, 94 Trebbia (battaglia della), 95 Treviri, 119 Tucidide, 46-47, 52 Tukulti-Ninurta II, 26 Tuplin (Christopher), 31 Turma, 65, 94, 98-99, 108-9, 120, 133, 136-37, 155 Turma Salluitana, 108
Voluseno (Gaio), 109 Wheeler (Everett), 96 White jr. (Lynn), 165 Xiphos, 53 Xyston, 57 Xystophoroi, 71 Zama (battaglia di), 95, 100 Zilgbi, 163 Zimri-Lin, 179 Zosimo, 157
Unni, 35, 147, 152, 156-65, 174 Vachères (statua di), 110 Valeriano, 148 Vandali, 174 Van Nort (Richard), 158 Vegezio, 137, 152, 171 Veio (assedio di), 86 Veliti, 93, 97 Velleio Patercolo, 128 Vercingetorige, 101, 110 Vespasiano, 129-30, 135 Vexillationes equitum, 140 Vigneron (Paul), 96 Virgilio, 124 Virtus, 91, 96, 118 Vitige, 170 Vologese I di Partia, 77
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Finito di stampare nel mese di novembre 2018 dalla tipografia Priulla Srl – Palermo