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Italian Pages 272 [273] Year 2018
Scriptores ivris Romani direzione di Aldo Schiavone
2
IVLIVS PAVLVS AD EDICTVM LIBRI I-III Giovanni Luchetti Antonio L. de Petris Fabiana Mattioli Ivano Pontoriero
«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER
Scriptores iuris Romani, 2
Scriptores ivris Romani direzione di Aldo Schiavone 2
IVLIVS PAVLVS AD EDICTVM LIBRI I-III Giovanni Luchetti Antonio L. de Petris, Fabiana Mattioli, Ivano Pontoriero
«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER
European Research Council Advanced Grant 2014 / 670436
Scriptores iuris Romani Principal Investigator Aldo Schiavone, Sapienza - Università di Roma Host Institution Sapienza - Università di Roma, Dipartimento di Scienze giuridiche Senior Staff / Comitato editoriale Oliviero Diliberto, Sapienza - Università di Roma Andrea Di Porto, Sapienza - Università di Roma Valerio Marotta, Università di Pavia Fara Nasti, Università di Cassino e del Lazio meridionale Emanuele Stolfi, Università di Siena Direzione della collana Aldo Schiavone Coordinamento editoriale Orazio Licandro, Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro Coordinamento della redazione Fara Nasti Redazione Antonio Leo de Petris, Gianmichele Lucatuorto, Elena Pezzato Volume sottoposto a doppia peer review © Copyright «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER® 2018 ISBN CARTACEO: 978-88-913-1734-6 ISBN DIGITALE: 978-88-913-1735-3 CDD 340.09 1. Paolo, Giulio
SOMMARIO
Premessa
VII
Attribuzioni
VIII
I
INTRODUZIONE A GIULIO PAOLO I. UNA BIOGRAFIA “ENIGMATICA”
3
II. LA FORTUNA DI PAOLO E DEI SUOI LIBRI AD EDICTUM IN ETÀ TARDOANTICA E GIUSTINIANEA
13
III. LA CRONOLOGIA DEI LIBRI AD EDICTUM
27
IV. PAOLO E I COMMENTARI EDITTALI DI EPOCA SEVERIANA: IL LEGAME CON IL PASSATO
37
II TESTIMONIA TRADIZIONE MANOSCRITTA
59
III AD EDICTUM LIBRI I-III FRAGMENTA
64
IV
COMMENTO AI TESTI QUALCHE OSSERVAZIONE DI METODO LIBRO I LIBRO II LIBRO III
93 101
128 146
APPARATI E INDICI Bibliografia
195
Abbreviazioni
230
Giuristi citati
231
Fonti antiche
233
PREMESSA
Il presente volume, il secondo della collana Scriptores iuris Romani* e il primo dedicato alle opere di Giulio Paolo, contiene solo alcuni dei risultati raggiunti da una più ampia ricerca, attualmente condotta dal gruppo di lavoro bolognese da me coordinato, sui libri ad edictum del grande giurista severiano; una ricerca che, giova fin d’ora precisarlo, è stata da tempo intrapresa ed è ancora ben lontana dall’essere conclusa. Gli esordi di questo percorso di indagine si ricollegano alla felice e affascinante iniziativa promossa da Aldo Schiavone e diretta alla creazione di un Corpus Scriptorum iuris Romani, poi diventata anche un progetto finanziato dallo European Research Council. Il lavoro di ricerca sui libri ad edictum di Paolo, iniziato ormai una dozzina d’anni fa, ha, nel corso del tempo, portato alla pubblicazione di alcuni contributi, che possono, per certi aspetti, e, soprattutto, per alcune scelte di carattere palingenetico e di commento, essere considerati “prodromici” rispetto alla scrittura di queste pagine1. La decisione di pubblicare i primi tre libri del commentario paolino, opera, com’è noto, articolata in ben settantotto libri, cui devono essere aggiunti anche i due dedicati all’editto degli edili curuli, oltre a essere imposta dalla mole del lavoro e dalla conseguente necessità di procedere “per blocchi”, trova un’ulteriore giustificazione nel carattere “organico”, e, in qualche modo, meglio “isolabile”, della trattazione in essi contenuta, dedicata, in primo luogo, ad illustrare le previsioni edittali in materia di giurisdizione dei magistrati municipali e del pretore, fino all’editto di ritorsione (E. I-II), cui si aggiunge, a completamento del terzo libro, quella concernente i titoli edittali de edendo (E. III) e de pactis et conventionibus (E. IV). Esprimo, comunque, l’auspicio che, in tempi ragionevolmente brevi, questo primo volume possa essere seguito da un secondo, al momento in fase di stesura avanzata e comprendente i libri dal quarto al decimo. Un vivo e sentito ringraziamento, davvero sincero e niente affatto occasionale, da parte mia e da parte degli altri autori di queste pagine, va ad Aldo Schiavone, sprone costante e sempre prodigo di preziosi consigli e osservazioni, e, insieme a lui, in particolare, a Fara Nasti e a Emanuele Stolfi, che hanno condiviso, e lungamente discusso, nel corso di alcune intense riunioni di lavoro svoltesi a Roma e a Bologna, importanti aspetti della ricerca che stiamo conducendo. g. l. Bologna, ottobre 2018
* 1
Cfr. Schiavone, 2017b, 1 ss.; nonché Id., 2018, VII ss. Luchetti, 2009a, 153 ss.; Id., 2009b, 509 ss.; Id., 2010, 531 ss.; Di Maria, 2013 e Pontoriero, 2013.
VII
ATTRIBUZIONI
Giovanni Luchetti, oltre che della premessa, è autore del saggio sui commentari edittali di epoca severiana, delle osservazioni di metodo e del commento ai primi due libri dell’ad edictum. Antonio Leo de Petris si è occupato della cronologia dell’opera. Fabiana Mattioli è autrice del saggio sulla fortuna di Paolo e dei suoi libri ad edictum in età tardoantica e giustinianea. Sono di Ivano Pontoriero la biografia di Paolo, la raccolta dei Testimonia, l’apparato critico che accompagna i Fragmenta e la loro traduzione, il commento ai frammenti del terzo libro. La responsabilità delle scelte di carattere palingenetico effettuate in questo volume deve essere riconosciuta, per le rispettive parti, agli autori del commento ai testi.
VIII
I INTRODUZIONE A GIULIO PAOLO
I UNA BIOGRAFIA “ENIGMATICA”*
1. Le notizie sulla biografia di Iulius Paulus sono assai scarse, incerte e confuse1. In particolare, come è stato già opportunamente sottolineato dalla critica, devono essere valutate con la massima cautela le tarde testimonianze che possono essere ricavate dal liber de Caesaribus di Aurelio Vittore [T. 4] e dall’historia Augusta [T. 5-8]2. Offrono senz’altro maggiore affidabilità
* Il titolo è stato ispirato da una suggestione scaturita dalla lettura di Syme, 1972, 406 (= 1984, III 863): “the enigmatic Paul”. Sul carattere “enigmatico” della figura del giurista, cfr. anche Schiavone, 2018, 57. 1 Il nome gentilizio Iulius è frequentemente ricordato: oltre a hist. Aug., Alex. Sev. 68.1 [T. 8], cfr. (Paul. 1 quaest.) D. 3.5.33(34); (Paul. 7 quaest.) D. 27.1.32; (Paul. 12 quaest.) D. 40.13.4; (Paul. 17 quaest.) D. 35.2.22pr.; (Paul. 21 quaest.) D. 35.1.81pr; (Idem A. [scil. Iust. A.] Demostheni pp., a. 529) C. 3.28.33.1; (Imp. Iust. A. Demostheni pp., a. 529) C. 6.30.19pr.; (Idem A. [scil. Iust. A.] Iuliano pp., a. 530) C. 2.55(56).5.3(1); (Idem A. [scil. Iust. A.] Iohanni pp., a. 531) C. 6.58.14.1. Cfr. in proposito Berger, 1918, 690; nonché PIR2, IV.3, 244, nr. 453. Iulius Paulus è un nome molto comune, dal quale non è possibile ricavare particolari indizi: v. al riguardo Kunkel, 1967, 245 e nt. 505 (= 2001, 245 e nt. 505). Alcune fonti aggiungono al prenome l’attributo iuridicus: cfr. Cons. 7.3 [T. 9] e Isid., etym. 5.24.30 [T. 10]. È bene osservare che gli ultimi due brani richiamati contengono anche nuclei di pensiero paolino e che la loro inclusione nella raccolta dei Testimonia è sorretta da una consolidata tradizione. La tesi sostenuta da Huschke, 1867, 355, secondo cui, in ragione della fortuna riscossa dalle Pauli Sententiae, nelle regioni occidentali “et ipse Paulus Iuridicus quasi κατ’ ἐξοχὴν cognominaretur” è considerata priva di fondamento da Berger, 1918, 690 s., il quale, richiamando anche Artemid., onir. 4.80 [T. 1] (Παῦλος ὁ νομικός), ritiene che l’attributo sia stato invece impiegato per distinguere il giurista dall’omonimo apostolo. In senso contrario, v. però le osservazioni di Mantello, 1992, 355 s. e nt. 13 (= 2014, I 361 s. e nt. 13), che, in relazione all’impiego del termine νομικός nell’opera di Artemidoro, rileva come l’interpretazione offerta da Adolf Berger manchi “di prospettiva storico-cronologica”. Che il personaggio menzionato da Artemidoro possa essere identificato con Giulio Paolo è stato sostenuto da Tzschirner, 1876, 149 ss. In questo senso, v. anche Krüger, 1912, 227 e nt. 3; Berger, 1918, 690; PIR2, IV.3, 244, nr. 453; Kunkel, 1967, 244 e nt. 501 (= 2001, 245 e nt. 505); nonché Mantello, 1992, 349 ss. (= 2014, I 355 ss.). Esprime tuttavia forti dubbi in proposito, in ragione della possibilità di una risalente datazione dell’opera di Artemidoro, Tapani Klami, 1984, 1832. Sulla testimonianza di Artemid., onir. 4.80, v. anche infra, ntt. 6 e 13. 2 Sull’intenso dibattito storiografico relativo alla Quellenforschung, a partire dalla Enmannsche Kaisergeschichte, v. le analisi di Siniscalco, 1981, 33 ss. e Baldini, 2000, 61 ss.; cui adde Neri, 2017, 13 s. Sul carattere “finzionale” dell’historia Augusta e sulle finalità politiche perseguite dall’autore, cfr. anche Marotta, 2016, 22 ss. Che la vita di Severo Alessandro sia stata redatta prima di quella di Pescennio Nigro, contro l’opinione di Barnes, 1970, 35 s., è sostenuto da Syme, 1970, 315 s. (= 1979, II 796). Sul punto, cfr. anche, con dovizia di argomentazioni, Id., 1980, 78 ss. (= 1984, III 1393 ss.), seguito da Marcone, 2004, 736.
3
Ivano Pontoriero e, non di rado, anche puntuali elementi di verifica, le informazioni contenute nelle fonti giuridiche3. Diversamente da quanto accade con riferimento ad altri giuristi di età severiana, per la ricostruzione della biografia e della carriera di Paolo non disponiamo di alcuna fonte epigrafica. Le incertezze si ripercuotono inevitabilmente anche sulla ricostruzione dei suoi rapporti con il potere imperiale, che risultano, nel complesso, meno decifrabili di quelli intrattenuti da Papiniano e da Ulpiano4. Mentre, come vedremo, appare sicura la sua partecipazione al consilium principis, almeno a partire dalla correggenza di Settimio Severo e di Caracalla e, poi, sotto il principato di Severo Alessandro, i dati della sua biografia non permettono di stabilire se e quando effettivamente ricoprì la prefettura del pretorio, né di valutare l’attendibilità dell’unica testimonianza che, senza dar conto delle motivazioni, narra dell’esilio che gli sarebbe stato inflitto da Elagabalo. Non conosciamo né il luogo né la data di nascita del giurista, così come ignoriamo quelli della sua morte5. È stato comunque ipotizzato – e tale congettura ha riscosso un certo seguito – che Paolo sia nato negli anni compresi tra il 157 e il 1616. La tradizione circa le sue origini patavine non appare fidedegna. Risale infatti solo al quindicesimo secolo l’iscrizione latina che si trova sotto il bassorilievo di Paolo presso il Palazzo della Ragione di Padova7. Lo stile impiegato dal giurista e la sua conoscenza del latino hanno indotto alcuni autori a ritenerlo
3 Per queste avvertenze metodologiche, cfr. Jardé, 1925, 37, nt. 3, che, a proposito delle notizie fornite dalle fonti letterarie sulla carriera di Ulpiano, osserva: “les seules données certaines proviennent des textes juridiques”. È appena il caso di ricordare che risale al 1983 la pubblicazione della dedica rivolta ad Ulpiano dalla città di Tiro (su questo documento e su CIL XI 3587, cfr. la sintesi di Marcone, 2004, 743). Con particolare riferimento all’historia Augusta, v. anche Marotta, 2016, 22 s., il quale evidenzia come le notizie tramandate dal biografo non possano essere valutate “senza un attento esame dei fatti e delle fonti parallele”. 4 Sui cambiamenti e sui percorsi che determinarono, a partire da Settimio Severo, lo spostamento della giurisprudenza “all’interno dell’orbita del potere imperiale”, cfr. Schiavone, 2005, 341 ss. (= 2017, 377 ss.). 5 Mentre Ulpiano ricorda, menzionando le coloniae iuris Italici, di essere originario di Tiro (cfr. [Ulp. 1 de cens.] D. 50.15.1pr.), l’omologa trattazione paolina ([Paul. 2 de cens.] D. 50.15.8) non fornisce alcuna indicazione in proposito. Honoré, 1962, 216 ss., ha ricavato da quest’ultimo frammento argomenti per sostenere che Paolo potesse essere originario di Antiochia di Pisidia, ma v., in senso contrario, le giuste osservazioni di Tapani Klami, 1984, 1830. 6 Così Honoré, 1962, 224 s. Da parte sua, Liebs, 1997, 151, ritiene piuttosto che Paolo sia nato intorno al 160. Non condivide gli argomenti addotti a sostegno di una datazione così risalente Tapani Klami, 1984, 1841, che pensa, invece, all’intervallo tra il 170 e il 175 e, in particolare, al biennio 172-173. L’autore finlandese non accoglie l’ipotesi di Honoré circa la partecipazione di Paolo al consilium principis sotto Settimio Severo, dubitando altresì della possibilità di riferire a Paolo la testimonianza di Artemid., onir. 4.80 (v. supra, nt. 1 e infra, nt. 13). Accolgono la proposta di Honoré, Marcone, 2004, 738 e Murga – Serrano-Vicente, 2004, 204. 7 Cfr. Pisani, 2013, 19 s.: PAULUS PATAVINUS IURISCONSULTOR CLAR HUIUS URBIS DECUS AETERN. L’apparato critico dà conto dei casi in cui il testo adottato da Mommsen nell’editio maior, che qui si segue, tenendo in considerazione la retractatio di Krüger, differisce da quello della littera Florentina. Si sono poi tenute presenti le proposte formulate da Lenel nella Palingenesia iuris civilis e le annotazioni contenute nella dodicesima edizione stereotipa del Digesto (Krüger, 1911). Nei pochissimi casi in cui sono state accolte ulteriori ipotesi di alterazioni testuali tardoantiche e giustinianee, sono stati indicati i riferimenti storiografici. Per le abbreviazioni e i segni diacritici, cfr. Mommsen, 1870.I, LXXXXIV ss.
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FRAMMENTI OTTANTA LIBRI SULL’EDITTO (SETTANTOTTO LIBRI SULL’EDITTO DEL PRETORE. DUE LIBRI SULL’EDITTO DEGLI EDILI CURULI)
Libro I
[In relazione a quanti sono preposti all’amministrazione della giustizia in un municipio, una colonia o un foro (E. I)] [Se qualcuno non abbia obbedito al magistrato giusdicente (E. 1)] 1. D. 2.1.20 (Lenel 83) Si disobbedisce impunemente a chi esercita la giurisdizione al di fuori della propria sfera di competenza territoriale. Lo stesso vale anche se voglia pronunciarsi esorbitando dai limiti della propria giurisdizione. 2. D. 44.7.35 (Lenel 84) In relazione alle azioni onorarie, Cassio afferma che si debba stabilire in questo modo, che quelle reipersecutorie vengano concesse anche dopo l’anno, le rimanenti entro l’anno. Le azioni onorarie poi, che non sono concesse dopo l’anno, non devono essere concesse neppure contro l’erede, in modo che tuttavia gli venga sottratto il lucro, come accade nell’azione di dolo e nell’interdetto per lo spoglio violento e simili. Hanno poi carattere reipersecutorio quelle azioni attraverso le quali perseguiamo ciò che è stato sottratto dal nostro patrimonio, come quando agiamo nei confronti del possessore dei beni del nostro debitore; e parimenti l’azione Publiciana, che è concessa sulla falsariga dell’azione di rivendica. Ma quando si restituisce attraverso la rescissione dell’usucapione, l’azione è circoscritta ad un anno, dal momento che è concessa contro il diritto civile. (1) Nei confronti dei duumviri e delle rispettive comunità cittadine l’azione è concessa anche dopo l’anno in base ai contratti dei magistrati municipali.
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Iulius Paulus 3. D. 47.23.2 (Lenel 85) Si plures simul agant populari actione, praetor eligat idoneiorem. idoneorum F1: idoniorum F2
[Si quis in ius vocatus ad eum, qui in municipio colonia foro iure dicundo praeerit, non ierit sive quis eum vocaverit, quem ex edicto non debuerit (E. 2)] 4. D. 2.5.2 (Lenel 86) Ex quacumque causa ad praetorem vel alios, qui iurisdictioni praesunt, in ius vocatus venire debet, ut hoc ipsum sciatur, an iurisdictio eius sit. (1) Si quis in ius vocatus non ierit, ex causa a competenti iudice multa pro iurisdictione iudicis damnabitur: rusticitati enim hominis parcendum erit: item si nihil intersit actoris eo tempore in ius adversarium venisse, remittit praetor poenam, puta quia feriatus dies fuit. ierit] erit F1PaV – competenti iudice] duumviro Lenel: Krüger – iudice‘pe’multa F – iudicis] eius Lenel: Krüger – puta‘e’ F
5. D. 2.6.1 (Lenel 87) Edicto cavetur, ut [fideiussor iudicio sistendi causa datus] pro rei qualitate locuples detur exceptis necessariis personis: ibi enim qualemcumque accipi iubet: veluti pro parente patrono. fideiussor iudicio sistendi causa datus] vindex Lenel: Krüger
6. D. 2.4.19 (Lenel 89a) Satisque poenae subire eum, si non defendatur et latitet, certum est, quod mittitur adversarius in possessionem bonorum eius. sed si aditum ad se praestet aut ex publico conspiciatur, recte in ius vocari eum Iulianus ait. poena F1 – latit⊢et⊣ F2
7a. D. 2.4.21 (Lenel 89b) Sed etsi is qui domi est interdum vocari in ius potest, tamen de domo sua nemo extrahi debet. uicari Fa – potes Fa – do⊢mo⊣ F – nemo] nomine Fa – ⊢de⊣bet F2
7b. D. 50.17.103 (Lenel 89b) Nemo de domo sua extrahi debet.
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Fragmenta 3. D. 47.23.2 (Lenel 85) Se più agiscano simultaneamente attraverso l’azione popolare, il pretore scelga il più idoneo.
[Se qualcuno chiamato in giudizio non si sarà presentato davanti a colui il quale sarà preposto all’amministrazione della giustizia in un municipio, una colonia o un foro o se qualcuno abbia chiamato chi non avrebbe dovuto in forza dell’editto] (E. 2)] 4. D. 2.5.2 (Lenel 86) Il chiamato in giudizio per qualunque causa deve comparire davanti al pretore o agli altri preposti alla giurisdizione, affinché almeno si sappia, se sussista la relativa giurisdizione. (1) Se qualcuno chiamato in giudizio non sarà comparso, secondo le circostanze del caso sarà condannato dal giudice competente a una multa secondo la sua giurisdizione: si dovrà infatti aver riguardo alla rusticità dell’uomo; poi qualora l’attore non abbia alcun interesse alla comparizione in giudizio dell’avversario in quel tempo, il pretore rimette la pena, per esempio perché si trattò di un giorno festivo. 5. D. 2.6.1 (Lenel 87) È stabilito dall’editto, che il garante sia dotato di sostanze adeguate in ragione della qualità del convenuto, eccezion fatta per le persone in stretti rapporti: in tal caso infatti prescrive che venga accettato quale che sia, come per esempio per l’ascendente o il patrono. 6. D. 2.4.19 (Lenel 89a) È certo che subisca una pena sufficiente, se non si difenda e rimanga irreperibile, poiché l’avversario viene immesso nel possesso dei suoi beni. Ma se permetta di accedere a lui o venga scorto da un luogo pubblico, Giuliano afferma che venga chiamato in giudizio correttamente.
7a. D. 2.4.21 (Lenel 89b) Ma anche se colui che si trova a casa talvolta può essere chiamato in giudizio, tuttavia nessuno deve essere trascinato via dalla sua casa. 7b. D. 50.17.103 (Lenel 89b) Nessuno deve essere trascinato via dalla sua casa.
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Iulius Paulus [De cautione et possessione ex causa damni infecti danda (E. 4?)] 8. D. 39.2.5 (Lenel 90) Praetoris officium est, ut missus in possessionem etiam eam [per longi temporis spatium in suum dominium] capere possit. (1) Si plures sint domini, qui cavere debent, et aliquis non caveat, in portionem eius mittetur. et contra si aliquot sint, qui caveri sibi desiderant, et alius pretiosiores, alius viliores habeat aedes, sive unius domus plures habeant dispares partes: tamen non magnitudine dominii quisque, sed aequaliter mittentur omnes in possessionem. (2) Si et dominus proprietatis et fructuarius desideret sibi caveri damni infecti, uterque audiendus est: nec enim iniuriam sentiet promissor, non plus cuique praestaturus, quam quod eius intersit. eam per longi temporis spatium in suum dominium] usu Lenel: longi temporis spatium in suum dominium Krüger – et alius] eallius F1 – tamen] tatem F1 – s⊢i⊣ et F2 – desiderat F2 – sivi F1 – est bis Fa
9. D. 50.8.9(7) (Lenel 91) Si filius familias volente patre magistratum gesserit, Iulianus existimavit in solidum patrem teneri in id, quod eius nomine rei publicae abesset. existimabit F – abesset om. F1
[De vadimonio Romam faciendo (E. 5)] 10. D. 50.16.2 (Lenel 93) ‘Urbis’ appellatio muris, ‘Romae’ autem continentibus aedificiis finitur, quod latius patet. (1) ‘Cuiusque diei maior pars’ est horarum septem primarum diei, non supremarum. septem] ἑπτά Ῥοπ. secundum codd. meliores, ἕξ B et Ῥοπ. codd. deteriores – diei non bis F1
11. D.50.16.4 (Lenel 94) ‘Nominis’ appellatione rem significari Proculus ait. nominis] FM, nominis vel (vel om. Ca) pecunie YaCa, pecuniae XYbOCb
12. D. 2.12.4 (Lenel 88) Praesides provinciarum ex consuetudine cuiusque loci solent messis vindemiarumque causa tempus statuere. cuius⊢que⊣ F2 – missis Fac – causa del. Mommsen
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Fragmenta [Sulla cauzione e sul possesso che deve essere concesso in ragione del danno temuto (E. 4?)] 8. D. 39.2.5 (Lenel 90) Rientra nell’ufficio del pretore, che colui il quale sia stato immesso nel possesso di una cosa possa anche usucapirla. (1) Se vi siano più proprietari che devono prestare la cauzione, e qualcuno non la presti, chi l’avrà prestata sarà immesso nella sua porzione. E, al contrario, se siano più d’uno coloro i quali chiedono che venga prestata loro la cauzione, e uno abbia un’abitazione di maggior valore, un altro di valore inferiore, oppure se più abbiano parti diseguali di una sola casa, ciononostante ciascuno non sarà immesso nel possesso in considerazione della grandezza della proprietà, ma saranno immessi tutti nel possesso in modo uguale. (2) Se sia il proprietario sia l’usufruttuario chiedano che venga loro prestata la cauzione di danno temuto, l’uno e l’altro devono essere ascoltati: infatti il promittente non soffrirà un pregiudizio, perché non presterà nei loro confronti che quanto risponda all’interesse di ciascuno. 9. D. 50.8.9(7) (Lenel 91) Se il figlio in potestà abbia esercitato una magistratura per volere del padre, Giuliano ritenne che il padre fosse tenuto in solido per quanto a causa della sua condotta fosse venuto meno alla comunità cittadina.
[Sul vadimonio che deve essere prestato da colui che deve comparire a Roma (E. 5)] 10. D. 50.16.2 (Lenel 93) La denominazione di “Urbs” (Urbe) è circoscritta alle mura, mentre quella di “Roma” agli edifici che la circondano, perché si estende più ampiamente. (1) “La parte maggiore di ciascun giorno” è quella delle prime sette ore del giorno, non delle ultime. 11. D. 50.16.4 (Lenel 94) Proculo afferma che attraverso il termine “nomen” (credito) si indica la cosa oggetto della controversia. 12. D. 2.12.4 (Lenel 88) I governatori delle province sono soliti stabilire il tempo per la mietitura e le vendemmie in forza della consuetudine di ciascun luogo.
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Iulius Paulus 13. D. 50.1.26 (Lenel 92a) Ea, quae magis imperii sunt quam iurisdictionis, magistratus municipalis facere non potest. (1) Magistratibus municipalibus non permittitur in integrum restituere aut bona rei servandae causa iubere possideri aut dotis servandae causa vel legatorum servandorum causa. iuberi possidere F – ⊢c⊣au‘t’sa vel F2
14. D. 50.17.105 (Lenel 92b) Ubicumque causae cognitio est, ibi praetor desideratur. 15. D. 50.1.28 (Lenel 83b) Inter convenientes et de re maiori apud magistratus municipales agetur.
16. D. 5.3.4 (Lenel 95) Si hereditatem petam ab eo, qui unam rem possidebat, de qua sola controversia erat, etiam id quod postea coepit possidere restituet.
Liber II [De vadimonio Romam faciendo (E. 5.2)] 17. D. 7.1.4 (Lenel 99) Usus fructus in multis casibus pars dominii est, et exstat, quod vel praesens vel ex die dari potest. in multis casibus Iust. (Gradenwitz): Krüger – pars domino F1: par domini Pa
18. D. 45.1.68 (Lenel 104) Si poenam stipulatus fuero, si mihi pecuniam non credidisses, certa est et utilis stipulatio. quod si ita stipulatus fuero: ‘pecuniam te mihi crediturum spondes?’, incerta est stipulatio, quia id venit in stipulationem, quod mea interest.
19. D. 4.8.1 (Lenel 98) Compromissum ad similitudinem iudiciorum redigitur et ad finiendas lites pertinet. litem F (em. m. 3)
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Fragmenta 13. D. 50.1.26 (Lenel 92a) Il magistrato municipale non può compiere quegli atti che sono più di imperio che di giurisdizione. (1) Non è permesso ai magistrati municipali disporre la restituzione in pristino o ordinare l’immissione nei beni del debitore insolvente o a garanzia della dote o dei legati.
14. D. 50.17.105 (Lenel 92b) Dovunque vi sia cognizione della causa, lì è richiesto il pretore. 15. D. 50.1.28 (Lenel 83) In forza di un accordo tra le parti, si agirà presso i magistrati municipali anche per un affare di maggior valore. 16. D. 5.3.4 (Lenel 95) Se eserciterò l’azione di petizione di eredità nei confronti di chi possedeva un unico bene ereditario, solo sul quale vi era controversia, restituirà anche ciò che iniziò a possedere dopo.
Libro II [Sul vadimonio che deve essere prestato da colui che deve comparire a Roma (E. 5.2)] 17. D. 7.1.4 (Lenel 99) L’usufrutto in molti casi è una parte della proprietà e risulta che può essere concesso o da subito o a partire da un termine. 18. D. 45.1.68 (Lenel 104) Se mi sarò fatto promettere mediante stipulazione il pagamento di una penale, qualora tu non mi abbia prestato del denaro, la stipulazione è certa ed efficace. Poi se mi sarò fatto promettere mediante stipulazione così: “prometti che mi presterai del denaro?”, la stipulazione è incerta, perché nella stipulazione viene in considerazione ciò che è di mio interesse. 19. D. 4.8.1 (Lenel 98) Il compromesso è regolato a somiglianza dei giudizi e serve a porre termine alle liti.
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Iulius Paulus 20. D. 50.17.106 (Lenel 107) Libertas inaestimabilis res est. 21. D. 16.3.6 (Lenel 101) Proprie autem in sequestre est depositum, quod a pluribus in solidum certa condicione custodiendum reddendumque traditur. sequestro F2PVU
[De vadimonio in civitatem provinciamve suam faciendo (E. 6?)] 22. D. 50.16.5 (Lenel 105) ‘Rei’ appellatio latior est quam ‘pecuniae’, quia etiam ea, quae extra computationem patrimonii nostri sunt, continet, cum pecuniae significatio ad ea referatur, quae in patrimonio sunt. (1) ‘Opere locato conducto’: his verbis Labeo significari ait id opus, quod Graeci ἀποτέλεσμα vocant, non ἔργον, id est ex opere facto corpus aliquod perfectum.
23. D. 50.16.7 (Lenel 106) ‘Sponsio’ appellatur non solum quae per sponsus interrogationem fit, sed omnis stipulatio promissioque. 24. D. 7.7.1 (Lenel 100) Opera in actu consistit nec ante in rerum natura est, quam si dies venit, quo praestanda est, quemadmodum cum stipulamur ‘quod ex Arethusa natum erit’. si FVaLUa: is Pa: si is PbVbUb – qu‘a’emadmodum Fa – quod e‘t’x Fa
25. D. 18.5.6 (Lenel 102) Si convenit, ut res quae venit, si intra certum tempus displicuisset, redderetur, ex empto actio est, ut Sabinus putat, aut proxima empti in factum datur.
26. D. 26.5.15 (Lenel 103) In omnem rem [curator] dandus est in eius tutoris locum, qui rei publicae causa afuit: curator] de tutela muliebri Paulum egisse coniecit Lenel – afuit] abiit? Mommsen
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Fragmenta 20. D. 50.17.106 (Lenel 107) La libertà è un bene inestimabile. 21. D. 16.3.6 (Lenel 101) Propriamente poi è depositato presso un sequestratario ciò che da più persone viene consegnato in solido per essere custodito e restituito ad una determinata condizione.
[Sul vadimonio che deve essere prestato da colui che deve comparire nella propria città o provincia (E. 6?)] 22. D. 50.16.5 (Lenel 105) La denominazione di “res” (cosa) è più estesa di quella di “pecunia” (denaro), perché contiene anche ciò che non rientra nel computo del nostro patrimonio, mentre il significato di denaro si riferisce a ciò che si trova nel patrimonio. (1) “Lavoro locato condotto”: Labeone afferma che con queste parole si indica quel lavoro, che i greci chiamano ἀποτέλεσμα (risultato), e non ἔργον (opera), vale a dire un qualche corpo perfezionato dall’opera realizzata. 23. D. 50.16.7 (Lenel 106) Si chiama “sponsio” (promessa solenne) non solo quella che viene posta in essere attraverso la domanda di una promessa solenne, ma ogni stipulazione o promessa. 24. D. 7.7.1 (Lenel 100) L’opera consiste in ciò che è compiuto e non esiste in natura prima che sia decorso il termine in cui deve essere prestata, come quando ci facciamo promettere mediante stipulazione “quello che sarà nato da Aretusa”. 25. D. 18.5.6 (Lenel 102) Se si è convenuto che la cosa venduta, qualora non fosse piaciuta entro un certo tempo, venisse restituita, vi è l’azione da compera, come reputa Sabino, o si concede un’azione in fatto molto vicina a quella da compera. 26. D. 26.5.15 (Lenel 103) Deve essere dato un tutore per ogni affare in luogo di quel tutore che fu assente per un interesse pubblico:
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Iulius Paulus 27. D. 2.1.6 (Lenel 96) et quia nec principaliter ei iurisdictio data est nec ipsa lex defert, sed confirmat mandatam iurisdictionem. ideoque si is, qui mandavit iurisdictionem, decesserit, antequam res ab eo, cui mandata est iurisdictio, geri coeperit, solvi mandatum Labeo ait, sicut in reliquis causis. cui] qui Fac
28. D. 1.16.12 (Lenel 97) Legatus mandata sibi iurisdictione iudicis dandi ius habet.
Liber III
[De iuris dictione (E. II)] [De albo corrupto (E. 7)] 29. D. 2.1.9 (Lenel 108) Si familia alicuius album corruperit, non similiter hic edicitur ut in furto, ne in reliquos actio detur, si tantum dominus, cum defendere voluit, unius nomine praestiterit, quantum liber praestaret: fortasse quia hic et contempta maiestas praetoris vindicatur et plura facta intelleguntur: quemadmodum cum plures servi iniuriam fecerunt [vel damnum dederunt], quia plura facta sunt, non ut in furto unum. Octavenus hic quoque domino succurrendum ait: sed hoc potest dici, si dolo malo curaverint, ut ab alio album corrumperetur, quia tunc unum consilium sit, non plura facta. idem Pomponius libro decimo notat. vel damnum dederunt] glossa (Pampaloni): Krüger
30. D. 47.23.4 (Lenel 109) Popularis actio integrae personae permittitur, hoc est cui per edictum postulare licet. postulari F1
31. D. 9.4.4 (Lenel 110) In delictis servorum scientia domini quemadmodum accipienda est? utrum cum consilio? an et si viderit tantum, quamvis prohibere non potuerit? quid enim si ad libertatem proclamans domino sciente faciat aut qui contemnat dominum? vel cum trans flumen sit servus, vidente quidem, sed invito domino noxiam noceat? rectius itaque dicitur scientiam eius accipiendam, qui prohibere potest: et hoc in toto edicto intel74
Fragmenta 27. D. 2.1.6 (Lenel 96) e poiché né la giurisdizione gli è stata concessa direttamente, né la legge stessa gliela conferisce, ma conferma la giurisdizione delegata. E perciò se chi ha delegato la giurisdizione sia deceduto, prima che l’affare abbia iniziato ad essere gerito da colui al quale la giurisdizione è stata delegata, Labeone afferma che il mandato si sciolga, come nei rimanenti casi. 28. D. 1.16.12 (Lenel 97) Il legato al quale sia stata affidata la giurisdizione ha il diritto di dare il giudice.
Libro III
[Sulla giurisdizione (E. II)] [Sulla corruzione dell’albo edittale (E. 7)] 29. D. 2.1.9 (Lenel 108) Se la servitù di qualcuno abbia corrotto l’albo edittale, non si stabilisce qui, diversamente da quanto avviene nel caso del furto, che non si dia l’azione nei confronti dei rimanenti, se solo il padrone, quando volle assumerne la difesa, abbia prestato a nome di uno solo quanto avrebbe dovuto prestare un libero; forse perché qui, da una parte, si punisce il disprezzo per la maestà del pretore e, dall’altra, si ritengono poste in essere una pluralità di condotte: come quando più servi hanno commesso ingiuria [o arrecato un danno], perché sono state poste in essere una pluralità di condotte, non come nel furto, una. Ottaveno afferma che anche qui si debba sovvenire al padrone: ma ciò può essere affermato, se con dolo abbiano fatto in modo che l’albo venisse corrotto da un altro, perché allora vi è un unico disegno, non una pluralità di condotte. La stessa cosa annota Pomponio nel libro decimo. 30. D. 47.23.4 (Lenel 109) L’azione popolare è accordata alla persona integra, vale a dire a colui al quale è lecito postulare in forza dell’editto. 31. D. 9.4.4 (Lenel 110) Nei delitti commessi dai servi in che modo deve essere considerata la consapevolezza del padrone? Forse con l’intenzione? O anche se abbia solo visto, sebbene non abbia potuto proibire? Che accade infatti se agisca con la consapevolezza del padrone reclamando la propria libertà oppure chi non si curi del padrone? Oppure, trovandosi il servo al di là di un fiume, commetta 75
Iulius Paulus legendum est circa scientiae verbum. (1) Si extraneus servus sciente me fecerit eumque redemero, noxalis actio in me dabitur, quia non videtur domino sciente fecisse, cum eo tempore dominus non fuerim. (2) Cum dominus ob scientiam teneatur, an servi quoque nomine danda sit actio, videndum est: nisi forte praetor unam poenam a domino exigi voluit. ergo dolus servi impunitus erit? quod est iniquum: immo utroque modo dominus tenebitur, una autem poena exacta, quam actor elegerit, altera tollitur. (3) Si detracta noxae deditione quasi cum conscio domino actum sit, qui non erat conscius: [absolutione facta et finito iudicio] amplius agendo cum noxae deditione exceptione rei [iudicatae] summovebitur, quia res in superius iudicium deducta [et finita] est. [donec autem prius iudicium agitatur, licentia agenti est, si eum de scientia domini arguenda paeniteat, tunc ad noxalem causam transire]. contra quoque si cum eo qui scit cum noxae deditione actum sit, amplius in dominum detracta noxae deditione danda actio non est: [in ipso autem iudicio si voluerit et scientiam domini arguere, non est prohibendus]. ad libertatem proclamans] in libertatem adsertus Lenel – condemnat FL – prohiberi F (em. f)L – intellegindum Fa – rei] re‘l’i Fb – transire … qui scit cum bis Fac, cum post scit om. PaV – [ ] Iust. (Eisele; Albanese; Marrone): Krüger
[Quod quisque iuris in alterum statuerit, ut ipse eodem iure utatur (E. 8)] 32. D. 2.2.2 (Lenel 111) Hoc edicto dolus debet ius dicentis puniri: nam si adsessoris imprudentia ius aliter dictum sit quam oportuit, non debet hoc magistratui officere, sed ipsi adsessori. oportu⊢it⊣ ‘ulpianus libro tertio’ non Fb, verba non … assessori post oportuit supplevit, postea delevit F2 – offecere F
33. D. 50.16.8pr. (Lenel 112) Verbum ‘oportebit’ tam praesens quam futurum tempus significat. verbum oportebit F: τὸ ‘ορροrτεβὶτ’ Β – oportet Cuiacius
[De edendo (E. III.9)] 34. D. 50.16.8.1 (Lenel 113) ‘Actionis’ verbo non continetur exceptio. 35. D. 2.13.2 (Lenel 114) Si legatum petatur, non iubet praetor verba testamenti edere: ideo fortasse, quia heredes solent habere exemplum testamenti. abere F (em. f)
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Fragmenta un misfatto, certamente sotto lo sguardo, ma contro la volontà del padrone? E così più correttamente si afferma che debba essere considerata la consapevolezza di chi può proibire: e ciò deve essere ritenuto circa la parola consapevolezza in tutto l’editto. (1) Se il servo di altri abbia agito con la mia consapevolezza e io lo abbia comprato, sarà data contro di me l’azione nossale, perché non sembra che abbia agito con la consapevolezza del padrone, dal momento che io non sono stato padrone in quel tempo. (2) Essendo tenuto il padrone in ragione della consapevolezza, bisogna vedere se debba essere data l’azione anche in nome del servo, a meno che il pretore non volle che si esigesse dal padrone una sola pena. Dunque il dolo del servo rimarrà impunito? Ciò è iniquo: al contrario, il padrone sarà tenuto in entrambi i modi, ma una volta esatta la pena che l’attore avrà scelto, l’altra viene meno. (3) Se detratta la dazione a nossa si sia agito come contro un padrone consapevole, che non era consapevole: [essendo stata disposta l’assoluzione e definito il giudizio,] agendo più tardi con la dazione a nossa sarà respinto attraverso l’eccezione di cosa [giudicata], perché l’affare è stato dedotto [e definito] nel precedente giudizio. [Fino a che poi pende il primo giudizio, è facoltà dell’attore, che si penta di dover dimostrare la consapevolezza del padrone, passare alla causa nossale]. Al contrario, anche se si sia agito contro colui che è consapevole con la dazione a nossa, più tardi non deve essere data l’azione contro il padrone detratta la dazione a nossa[: poi nello stesso giudizio se abbia voluto anche dimostrare la consapevolezza del padrone, non gli dovrà essere proibito]. [Che chi abbia stabilito un diritto nei confronti di un altro, si serva di quello stesso diritto (E. 8)] 32. D. 2.2.2 (Lenel 111) In forza di questo editto deve essere punito il dolo di chi esercita la giurisdizione: infatti, se per l’imprudenza dell’assessore la giurisdizione sia stata esercitata diversamente da come sarebbe stato opportuno, ciò non deve nuocere al magistrato, ma allo stesso assessore. 33. D. 50.16.8pr. (Lenel 112) La parola “oportebit” (occorrerà) si riferisce tanto al tempo presente quanto a quello futuro.
[Sull’esibizione (E. III.9)] 34. D. 50.16.8.1 (Lenel 113) L’eccezione non è ricompresa nella parola “actio” (azione). 35. D. 2.13.2 (Lenel 114) Se si chieda un legato, il pretore non ordina di esibire le parole del testamento: forse per questo motivo, perché gli eredi sono soliti avere copia del testamento.
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Iulius Paulus 36. D. 2.13.5 (Lenel 115) spatiumque ad perferendas eas tribuendum est. 37. D. 2.13.9 (Lenel 117) Quaedam sunt personae, quas rationes nobis edere oportet nec tamen a praetore per hoc edictum compelluntur. veluti cum procurator res rationesve nostras administravit, non cogitur a praetore per metum in factum actionis rationes edere: scilicet quia id consequi possumus per mandati actionem. et cum dolo malo socius negotia gessit, praetor per hanc clausulam non intervenit: est enim pro socio actio. sed nec tutorem cogit praetor pupillo edere rationes: sed iudicio tutelae solet cogi edere. (1) Nihil interest, si successores [aut pater aut dominus] argentarii eiusdem fuerunt professionis: quia cum in locum et in ius succedant argentarii, partibus eius fungi debent. is autem, cui argentarius rationes suas legavit, non videbitur contineri, [quia iuris successor his verbis significatur]: non magis, quam si ei vivus eas donasset. sed nec heres tenebitur, cum nec possideat nec dolo malo fecerit: sed si ei, antequam eas legatario traderet, renuntiatum fuerit, ne ante eas tradat, tenebitur quasi dolo fecerit: item antequam eas tradat, tenebitur. [quod si nihil dolo fecerit, causa cognita legatarius cogendus est edere.] (2) Nummularios quoque non esse iniquum cogi rationes edere Pomponius scribit: quia et hi nummularii sicut argentarii rationes conficiunt, quia et accipiunt pecuniam et erogant per partes, quarum probatio scriptura codicibusque eorum maxime continetur: et frequentissime ad fidem eorum decurritur. (3) Ceterum omnibus postulantibus et iurantibus non calumniae causa petere rationes, quae ad se pertineant, edi iubet. (4) Ad nos enim pertinet non tantum cum ipsi contraximus vel successimus ei qui contraxit, sed etiam si is qui in nostra potestate est contraxit. adm‘o’inistravit F – praetor⊢e⊣ F2 – post verba consequi possumus, per] pre F1 – [ ] Iust. (Longo): Krüger – ei vivus] eius F1 – eas ⊢legatario⊣ F2U: legatario eas P – In par. secundo argentari[i] F2 – per om. F1 – calumnia⊢e⊣ F2 – Post verba edi iubet excidisse talia fere putat Lenel: Edi igitur nobis oportebit, et si filius familias vel servus noster contraxerit
38. D. 12.2.14 (Lenel 119) Quotiens propter rem iuratur, nec parenti nec patrono remittitur iusiurandum: propter rem autem iusiurandum exigitur veluti de pecunia credita, cum iurat actor sibi dari oportere vel reus se dare non oportere. idem est, cum de pecunia constituta iusiurandum exigitur.
39. D. 2.13.7 (Lenel 116) veluti si peregre habere quod primum editum est doceat: vel minus plene editum: vel eas rationes, quas casu maiore, non vero neglegentia perdiderit. nam si eo casu amisit, cui ignosci debeat, ex integro edi iubebit. (1) Haec vox ‘iterum’ duas res significat: alteram, qua demonstraretur tempus secundum, 78
Fragmenta 36. D. 2.13.5 (Lenel 115) e deve essere concesso un termine per la loro consegna. 37. D. 2.13.9 (Lenel 117) Vi sono certe persone, che devono esibirci i conti e tuttavia non sono costrette dal pretore in forza di questo editto. Come per esempio quando un procuratore ha amministrato i beni o i nostri conti, non è costretto dal pretore a esibire i conti per timore di un’azione in fatto: naturalmente perché possiamo conseguire ciò attraverso l’azione di mandato. Anche quando un socio ha gestito gli affari con dolo, il pretore non interviene per mezzo di questa clausola: vi è infatti l’azione a favore del socio; il pretore poi non costringe nemmeno il tutore ad esibire i conti al pupillo: ma si è soliti costringerlo ad esibire in forza dell’azione di tutela. (1) Non rileva se i successori, [o il padre, o il padrone] dell’argentario abbiano esercitato la stessa professione: perché succedendo nella posizione giuridica dell’argentario, devono assumerne i diritti e gli obblighi. Quello poi, al quale l’argentario ha legato i suoi conti, non sembra essere ricompreso, [perché con queste parole si indica il successore nella posizione giuridica]: non di più, che se glieli avesse donati da vivo. Ma neppure l’erede sarà tenuto, quando non li possegga e non si sia adoperato con dolo per cessare di possederli. Ma se gli sia stato intimato, prima di consegnarli al legatario, di non consegnarli, sarà tenuto come se abbia agito con dolo. Parimenti, sarà tenuto prima di consegnarli. [E poi se nulla abbia commesso con dolo, il legatario dovrà essere costretto ad esibire previo svolgimento di un’istruttoria]. (2) Pomponio scrive che non è iniquo che anche i nummulari vengano costretti ad esibire i conti: perché anche questi nummulari come gli argentari confezionano i conti, dal momento che, come ricevono denaro, così lo erogano per partite, delle quali cose la prova è contenuta soprattutto nelle scritture e nei loro codici: e assai frequentemente si ricorre alla loro fede. (3) Del resto ordina che vengano esibiti i conti che li riguardino a tutti coloro che ne facciano richiesta e che prestino anche il giuramento di non richiederli per calunnia. (4) Ci riguardano non solo quando noi stessi abbiamo contrattato oppure siamo succeduti a chi ha contrattato, ma anche se ha contrattato chi è sottoposto alla nostra potestà. 38. D. 12.2.14 (Lenel 119) Ogni volta che si giura sulla causa, non si rimette il giuramento né all’ascendente né al patrono; si esige poi il giuramento sulla causa, per esempio, in relazione al denaro prestato, quando l’attore giura che gli si debba dare o il convenuto di non dover dare. È lo stesso quando si esige il giuramento in relazione all’impegno di pagare una somma di denaro a una determinata scadenza. 39. D. 2.13.7 (Lenel 116) come per esempio se dimostri di avere in un luogo lontano ciò che è stato esibito per la prima volta, oppure che l’esibizione è stata incompleta, oppure che abbia perso quei conti per caso di forza maggiore, ma non per negligenza; se infatti li ha persi per quel caso che si debba scusare, 79
Iulius Paulus quod Graeci δεύτερον dicunt: alteram, quae ad insequentia quoque tempora pertinet, quae Graece dicitur πάλιν, quod ita accipitur ‘quotiens opus erit’. nam potest fieri ut bis editam sibi rationem quis perdiderit: ut verbum iterum pro saepius accipiatur. ‘q’cui F – i⊢terum⊣ F2 – demonstratur f – berbum F1
40. D. 9.2.40 (Lenel 118) In lege Aquilia, si deletum chirographum mihi esse dicam, in quo sub condicione mihi pecunia debita fuerit, et interim testibus quoque id probare possim, qui testes possunt non esse eo tempore, quo condicio extitit, et si summatim re exposita ad suspicionem iudicem adducam, debeam vincere: sed tunc condemnationis exactio competit, cum debiti condicio extiterit: quod si defecerit, condemnatio nullas vires habebit. condicione¯ Fae – esse] ex se F1 – extiterit fPU
[De pactis et conventionibus (E. IV.10)] 41. D. 44.7.38 (Lenel 120) Non figura litterarum, sed oratione, quam exprimunt litterae, obligamur, quatenus placuit non minus valere, quod scriptura, quam quod vocibus lingua figuratis significaretur. littererum F1 – figoratis F – significare‘n’tur F2
42. D. 2.14.2 (Lenel 121) Labeo ait convenire posse vel re: vel per epistulam vel per nuntium inter absentes quoque posse. sed etiam tacite consensu convenire intellegitur: (1) et ideo si debitori meo reddiderim cautionem, videtur inter nos convenisse ne peterem, profuturamque ei conventionis exceptionem placuit. posse firmant B, del. Mommsen – consensu del. Naber
43. D. 2.14.4 (Lenel 122) Item quia conventiones etiam tacite valent, placet in urbanis habitationibus locandis invecta illata pignori esse locatori, etiamsi nihil nominatim convenerit. (1) Secundum haec et mutus pacisci potest. (2) Huius rei argumentum etiam stipulatio dotis causa facta est: nam ante nuptias male petitur, quasi si hoc expressum fuisset, et nuptiis non secutis ipso iure evanescit stipulatio. idem Iuliano placet. (3) Ex facto etiam consultus, cum convenisset, ut donec usurae solverentur sors non peteretur, et stipulatio pure concepta fuisset, condicionem inesse stipulationi, atque si hoc expressum fuisset. conventione sententiam acite F (em. F): tacitae ne scribe, cum sit in BS σιωπηρῶς … συνίστανται – ⊢e⊣sse Fb – rei om. F1 – hoc] noc F (em. f) – in tertio par. petitur F – et] etsi? Mommsen (cf. BS [Steph.] κἂν πούρως τις ἐπερωτήσῃ)
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Fragmenta il magistrato ordinerà che vengano esibiti di nuovo. (1) Questa parola “iterum” (di nuovo) ha due significati: il primo, mediante il quale si indica il tempo seguente, che i greci dicono δεύτερον, l’altro, che attiene anche ai tempi successivi, che in greco si dice πάλιν, che viene inteso così “quante volte sarà necessario”. Infatti può accadere che qualcuno abbia perso il conto che gli è stato esibito per la seconda volta: così che la parola di nuovo venga intesa come più volte. 40. D. 9.2.40 (Lenel 118) In riferimento alla legge Aquilia, se io dicessi che mi è stato distrutto un chirografo, nel quale mi era dovuto del denaro sotto condizione, e io per mezzo di testimoni potessi intanto anche provarlo, testimoni che possono non esserci al momento del verificarsi della condizione, e se esposta la questione sommariamente persuadessi il giudice, dovrei vincere; ma l’esazione della condanna compete allora, quando si sarà verificata la condizione del debito; e perciò, se sarà mancata, la condanna non avrà alcuna efficacia. [Sui patti e sulle convenzioni (E. IV.10)] 41. D. 44.7.38 (Lenel 120) Siamo obbligati non per la forma delle lettere, ma in forza del discorso che le lettere esprimono, poiché sembrò opportuno che ciò che si indica attraverso la scrittura non valesse meno di ciò che si indica attraverso le parole formate con la lingua. 42. D. 2.14.2 (Lenel 121) Labeone afferma che si possa convenire anche con la consegna di una cosa; che si possa anche tra assenti o con una lettera o per mezzo di un messaggero. Ma si ritiene anche di convenire in modo tacito attraverso il consenso: (1) e perciò se io abbia restituito la cauzione al mio debitore, si considera che sia stato convenuto tra noi che io non chiedessi, e sembrò opportuno che egli potesse avvalersi dell’eccezione fondata sulla convenzione. 43. D. 2.14.4 (Lenel 122) Parimenti, dal momento che le convenzioni valgono anche se concluse tacitamente, sembra opportuno che nelle locazioni di abitazioni urbane le cose portate e introdotte siano in pegno a vantaggio del locatore, anche se niente sia stato convenuto espressamente al riguardo. (1) Secondo quanto detto anche un muto può pattuire. (2) Anche la stipulazione posta in essere per costituire la dote fornisce un argomento in tal senso: infatti prima delle nozze si chiede male, come se ciò fosse stato espresso, e non essendo seguite le nozze la stipulazione è nulla di diritto. Questa stessa cosa sembra opportuna anche a Giuliano. (3) Consultato per un caso concreto, essendo stato convenuto che finché fossero stati pagati gli interessi non sarebbe stata richiesta la restituzione del capitale, nonostante la stipulazione fosse stata concepita senza l’apposizione di una condizione, (rispose) che nella stipulazione vi fosse una condizione, come se ciò fosse stato espresso. 81
Iulius Paulus 44. D. 2.14.6 (Lenel 123) Legitima conventio est quae lege aliqua confirmatur. et ideo interdum ex pacto actio nascitur vel tollitur, quotiens lege vel senatus consulto adiuvatur. adiubatur F
45. D. 22.2.7 (Lenel 124) In quibusdam contractibus etiam usurae debentur quemadmodum per stipulationem. nam si dedero decem traiecticia, ut salva nave sortem cum certis usuris recipiam, dicendum est posse me sortem cum usuris recipere.
46. D. 2.14.11 (Lenel 125a) quia et solvi ei potest. solu⊢i⊣ ei F2
47. D. 2.14.13 (Lenel 125b) Sed [si tantum ad actionem procurator factus sit] , conventio facta domino non nocet, quia nec solvi ei possit. (1) Sed si in rem suam datus sit [procurator] , loco domini habetur: et ideo servandum erit pactum conventum. ‘i’ sed F – si tantum ad actionem procurator factus sit] Iust. (Eisele): Krüger: cum cognitore Lenel – no‘i’n F – ei om. F: αὐτῷ καταβάλλεται B: τῷ τοιούτῳ καταβάλλει προκουράτορι BS (Steph.) – cognitor Lenel
48. D. 2.14.15 (Lenel 125c) Tutoris quoque, ut scribit Iulianus, pactum pupillo prodest. 49. D. 26.7.22 (Lenel 125d) Tutor ad utilitatem pupilli et novare et rem in iudicium deducere potest: donationes autem ab eo factae pupillo non nocent. ad utilitatem pupilli] Iust.? Krüger, qui eadem includit
50. D. 2.14.17 (Lenel 126 [D. 2.14.17pr.-2] + Lenel 127a [D. 2.14.17.3-7]) + D. 2.14.19 (Lenel 127b) + D. 2.14.21 (Lenel 127c) + D. 2.14.23 (Lenel 127d) + D. 2.14.25 (Lenel 127e) Si tibi decem dem et paciscar, ut viginti mihi debeantur, non nascitur obligatio ultra decem: re enim non potest obligatio contrahi, nisi quatenus datum sit. (1) Quaedam actiones per pactum ipso iure tolluntur: ut iniuriarum, item furti. (2) De pignore iure honorario nascitur ex pacto actio: tollitur autem per exceptionem, quotiens paciscor ne petam. (3) Si quis paciscatur, ne a se 82
Fragmenta 44. D. 2.14.6 (Lenel 123) Convenzione legittima è quella che è confermata da una qualche legge. E perciò talvolta da un patto nasce o viene meno un’azione, quando venga rinforzato da una legge o da un senatoconsulto. 45. D. 22.2.7 (Lenel 124) In alcuni contratti anche gli interessi sono dovuti come se fossero stati stipulati. Infatti se avrò dato dieci per un prestito marittimo, affinché, essendo salva la nave, io riceva il pagamento del capitale con interessi di un certo ammontare, deve dirsi che io possa ricevere il capitale con gli interessi. 46. D. 2.14.11 (Lenel 125a) perché si può pagare anche a lui,
47. D. 2.14.13 (Lenel 125b) Ma la convenzione conclusa con il cognitore non nuoce al titolare, perché non è neppure possibile pagare a lui. (1) Ma se sia stato dato un cognitore nel suo interesse, è considerato in luogo del titolare: e perciò il patto convenuto dovrà essere osservato.
48. D. 2.14.15 (Lenel 125c) Anche il patto del tutore, come scrive Giuliano, giova al pupillo. 49. D. 26.7.22 (Lenel 125d) Il tutore nell’interesse del pupillo può sia novare sia dedurre un affare in giudizio: poi le donazioni da lui realizzate non nuocciono al pupillo.
50. D. 2.14.17 (Lenel 126 [D. 2.14.17pr.-2] + Lenel 127a [D. 2.14.17.3-7]) + D. 2.14.19 (Lenel 127b) + D. 2.14.21 (Lenel 127c) + D. 2.14.23 (Lenel 127d) + D. 2.14.25 (Lenel 127e) Se ti do dieci e pattuisco che mi siano dovuti venti, l’obbligazione non nasce per più di dieci: infatti, per mezzo della consegna di una cosa, l’obbligazione non può essere contratta che per quanto sia stato dato. (1) Certe azioni si estinguono di diritto attraverso un patto: come quella di ingiurie, e così pure quella di furto. (2) In relazione al pegno 83
Iulius Paulus petatur, sed ut ab herede petatur, heredi exceptio non proderit. (4) Si pactus sim, ne a me neve a Titio petatur, non proderit Titio, etiamsi heres extiterit, quia ex post facto id confirmari non potest. hoc Iulianus scribit in patre, qui pactus erat, ne a se neve a filia peteretur, cum filia patri heres extitisset. (5) Pactum conventum cum venditore factum si in rem constituatur, secundum plurium sententiam et emptori prodest, et hoc iure nos uti Pomponius scribit: secundum Sabini autem sententiam etiam si in personam conceptum est, et in emptorem valet: qui hoc esse existimat et si per donationem successio facta sit. (6) Cum possessor alienae hereditatis pactus est, heredi, si evicerit, neque nocere neque prodesse plerique putant. (7) Filius servusve si paciscantur, ne a patre dominove petatur, in⊢i⊣uriarum F3 – pignori Fae – ex om. F1 – se] si Fae: re Pa – n‘a’eve F – qui hoc esse] quin prodesse? Mommsen – qui seqq. Iust.? (Longo) – aliena⊢e⊣ F2 – eredi Fa
D. 2.14.19 (Lenel 127b) adquirent exceptionem. idem est et in his, qui bona fide serviunt. (1) Item si filius familias pactus fuerit ne a se petatur, proderit ei, et patri quoque, si de peculio conveniatur
D. 2.14.21 (Lenel 127c) et heredi patris vivo filio: post mortem vero filii nec patri nec heredi eius, quia personale pactum est. (1) Quod si servus, ne a se peteretur, pactus fuerit, nihil valebit pactum: de doli exceptione videamus. et si in rem paciscatur, proderit domino et heredi eius pacti conventi exceptio: quod si in personam pactum conceptum est, tunc domino doli superest exceptio. (2) Nos autem his, qui in nostra potestate sunt, paciscendo prodesse non possumus: sed nobis id profuturum, si nomine eorum conveniamur, Proculus ait: quod ita recte dicitur, si in paciscendo id actum sit. ceterum si paciscar, ne a Titio petas, deinde actionem adversus me nomine eius instituas, non est danda pacti conventi exceptio: nam quod ipsi inutile est, nec defensori competit. Iulianus quoque scribit, si pater pactus sit, ne a se neve a filio petatur, magis est ut pacti exceptio filio familias danda non sit, sed doli prosit. (3) Filia familias pacisci potest, ne de dote agat, cum sui iuris esse coeperit. (4) Item filius familias de eo, quod sub condicione legatum est, recte paciscetur. (5) In his, qui eiusdem pecuniae exactionem habent in solidum, vel qui eiusdem pecuniae debitores sunt, quatenus alii quoque prosit vel noceat pacti exceptio, quaeritur. et in rem pacta omnibus prosunt, quorum obligationem dissolutam esse eius qui paciscebatur interfuit. itaque debitoris conventio fideiussoribus proficiet, videmus F1 – nos] non F1 – profuturam F1 – competit et id Iulianus quoque scr. Rueckerus – danda … filia familias om. F1 – sed doli prodest] Iust. (de Medio): Krüger – in his] PbU: ni his F: nisi is Pa: ἐπὶ τῶν … ἄξιον ἔσται ζητῆσαι Β – pecunia Fa
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Fragmenta per il diritto onorario nasce un’azione da un patto: viene meno poi attraverso un’eccezione, tutte le volte in cui pattuisco di non chiedere. (3) Se qualcuno pattuisca che non si chieda a lui, ma che si chieda all’erede, l’eccezione non gioverà all’erede. (4) Se io abbia pattuito che non si chieda né a me né a Tizio, non gioverà a Tizio, anche se sia diventato erede, perché ciò non può essere confermato da un fatto successivo. Questo scrive Giuliano a proposito di un padre, che aveva pattuito che non venisse chiesto né a lui né alla figlia, essendo la figlia diventata erede del padre. (5) Il patto convenuto concluso con il venditore, se sia stato costituito sulla cosa, secondo l’opinione dei più giova anche al compratore, e Pomponio scrive che noi ci serviamo di questo diritto: ma secondo l’opinione di Sabino, anche se è concepito nei confronti della persona, vale altresì nei confronti del compratore. Egli ritiene che ciò avvenga anche se la successione è realizzata attraverso una donazione. (6) Quando il possessore dell’eredità altrui ha concluso un patto, i più reputano che non nuoccia né giovi all’erede, se (quest’ultimo) abbia evitto. (7) Se il figlio o il servo pattuiscano che non si chieda al padre o al padrone, D. 2.14.19 (Lenel 127b) acquisteranno l’eccezione. Lo stesso si verifica anche nei confronti di coloro i quali servono in buona fede. (1) Parimenti, se un figlio in potestà abbia pattuito che non gli si chieda, gli gioverà, ed anche al padre, se venga convenuto con l’azione relativa al peculio D. 2.14.21 (Lenel 127c) e all’erede del padre essendo il figlio vivo, ma dopo la morte del figlio (non gioverà) né al padre né al suo erede, perché è un patto relativo alla persona. (1) Poi se il servo abbia pattuito che non gli venisse chiesto, il patto non avrà alcun valore. Vediamo in relazione all’eccezione di dolo. E se si pattuisca sulla cosa, l’eccezione di patto convenuto gioverà al padrone e al suo erede; poi se il patto è stato concepito in relazione alla persona, allora rimane al padrone l’eccezione di dolo. (2) Noi, invece, pattuendo non possiamo giovare a coloro i quali sono in nostra potestà: ma Proculo afferma che ciò gioverà a noi, se siamo convenuti in loro nome, la qual cosa è detta così correttamente, se sia stato compiuto ciò nel pattuire. Del resto, se io pattuisca che tu non chieda a Tizio, poi tu intenti un’azione contro di me in suo nome, non deve essere concessa l’eccezione di patto convenuto: infatti ciò che è inutile per quello stesso, non compete neppure al difensore. Anche Giuliano scrive, se il padre abbia pattuito che non si chieda né a lui né al figlio, è preferibile che l’eccezione di patto non venga concessa al figlio in potestà, ma giovi quella di dolo. (3) La figlia in potestà può pattuire di non agire per la dote, quando avrà iniziato ad essere giuridicamente autonoma. (4) Parimenti il figlio in potestà pattuirà correttamente in relazione a ciò che gli è stato legato sotto condizione. (5) In relazione a coloro i quali hanno il diritto di esigere in solido la stessa somma di denaro, o a coloro i quali sono debitori della stessa somma di denaro, ci si chiede fino a qual punto l’eccezione di patto giovi o nuoccia anche ad un altro. E i patti sulla cosa giovano a tutti coloro che ebbero interesse all’estinzione dell’obbligazione di chi pattuiva. E così la convenzione del debitore gioverà ai fideiussori
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Iulius Paulus D. 2.14.23 (Lenel 127d) Fideiussoris autem conventio nihil proderit reo, quia nihil eius interest a debitore pecuniam non peti. immo nec confideiussoribus proderit. neque enim quoquo modo cuiusque interest, cum alio conventio facta prodest, sed tunc demum, cum per eum, cui exceptio datur, principaliter ei qui pactus est proficiat: sicut in reo promittendi et his qui pro reo obligati sunt. alio libri, Lenel: alii Mommsen secundum BS (Steph.) οὔτε τῷ τυχόντι τοῦ πάκτου ἀεὶ διαφέρει, τὸν ἕτερον ὠφεληθῆναι ἀπὸ τοῦ πάκτου˙ ἀλλὰ τότε αὐτῷ διαφέρει – reo Mommsen propter BS (Steph.) ὡς ἐπὶ τῶν δύο ῥέων προμιττένδων καὶ τῶν ἐνεχομένων ὑπὲρ τοῦ ῥέου: eo libri
D. 2.14.25 (Lenel 127e) Idem in duobus reis promittendi et duobus argentariis sociis. (1) Personale pactum ad alium non pertinere, quemadmodum nec ad heredem, Labeo ait. (2) Sed quamvis fideiussoris pactum reo non prosit, plerumque tamen doli exceptionem reo profuturam Iulianus scribit, possit F1 (em. m. 3) – plurumque Fac
51. D. 2.14.27 (Lenel 127f [D. 2.14.27pr.-1] + Lenel 128 [D. 2.14.27.2-10]) Si unus ex argentariis sociis cum debitore pactus sit, an etiam alteri noceat exceptio? Neratius Atilicinus Proculus, nec si in rem pactus sit, alteri nocere: tantum enim constitutum, ut solidum alter petere possit. idem Labeo: nam nec novare alium posse, quamvis ei recte solvatur: sic enim et his, qui in nostra potestate sunt, recte solvi quod crediderint, licet novare non possint. quod est verum. idemque in duobus reis stipulandi dicendum est. (1) Si cum reo ad certum tempus pactio facta sit, ultra neque reo neque fideiussori prodest. quod si sine persona sua reus pepigerit, ne a fideiussore petatur, nihil id prodesse fideiussori quidam putant, quamquam id rei intersit: quia ea demum competere ei debeat exceptio, quae et reo. ego didici prodesse fideiussori exceptionem: non sic enim illi per liberam personam adquiri, quam ipsi, qui pactus sit, consuli videmur: quo iure utimur. (2) Pactus, ne peteret, postea convenit ut peteret: prius pactum per posterius elidetur, non quidem ipso iure, sicut tollitur stipulatio per stipulationem, si hoc actum est, quia in stipulationibus ius continetur, in pactis factum versatur: et ideo replicatione exceptio elidetur. eadem ratione contingit, ne fideiussoribus prius pactum prosit. sed si pactum conventum tale fuit, quod actionem quoque tolleret, velut iniuriarum, non poterit postea paciscendo ut agere possit agere: quia et prima actio sublata est et posterius pactum ad actionem parandam inefficax est: non enim ex pacto iniuriarum actio nascitur, sed ex contumelia. idem dicemus et in bonae fidei contractibus, si pactum conventum totam obligationem sustulerit, veluti empti: non enim ex novo pacto prior obligatio resuscitatur, sed proficiet pactum ad novum contractum. quod si non ut totum contractum tolleret, pactum conventum intercessit, sed ut imminueret, posterius pactum potest renovare primum contractum. quod et in specie [dotis] actionis procedere potest. puta pactam mulierem, ut praesenti die dos redderetur, deinde pacisci, ut tempore ei legibus dato dos reddatur: incipiet dos redire ad ius suum. nec dicendum est deteriorem condicionem dotis fieri per pactum: quotiens enim ad ius, quod lex naturae eius tribuit, [de dote] actio redit, non fit causa dotis deterior, sed formae suae redditur. haec et Scaevolae nostro placuerunt. (3) Illud nulla pactione effici potest, ne dolus praestetur: quamvis si quis paciscatur ne depositi agat, vi ipsa id
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Fragmenta D. 2.14.23 (Lenel 127d) Poi la convenzione del fideiussore non gioverà al debitore, perché non ha alcun interesse a che il denaro non venga chiesto al debitore principale. Anzi, non gioverà nemmeno ai cofideiussori. Non è infatti in qualunque modo interesse di ciascuno, quando la convenzione conclusa con altri giovi, ma allora soltanto, quando attraverso colui al quale è concessa l’eccezione, giovi principalmente a chi ha pattuito: come nei confronti del promittente e di coloro i quali sono obbligati in favore del debitore.
D. 2.14.25 (Lenel 127e) Lo stesso vale nei confronti di due promittenti e di due soci argentari. (1) Labeone afferma che il patto relativo alla persona non riguarda un altro, e allo stesso modo neppure l’erede. (2) Ma sebbene il patto del fideiussore non giovi al debitore, Giuliano scrive che tuttavia il più delle volte gioverà al debitore l’eccezione di dolo, 51. D. 2.14.27 (Lenel 127f [D. 2.14.27pr.-1] + Lenel 128 [D. 2.14.27.2-10]) Se uno dei soci argentari abbia pattuito con il debitore, l’eccezione nuoce anche all’altro? Nerazio, Atilicino e Proculo (ritengono) che non nuoccia all’altro neppure se abbia pattuito sulla cosa: è stato infatti stabilito solamente che l’altro possa chiedere l’intero. La stessa cosa (ritiene) Labeone: infatti l’altro non può neppure novare, sebbene si paghi a lui correttamente; così infatti anche a coloro i quali si trovano in nostra potestà si può pagare correttamente ciò che abbiano dato a credito, sebbene non possano novare. Il che è vero. E lo stesso bisogna dire in relazione a due stipulanti. (1) Se con il debitore sia stato concluso un patto con indicazione di un certo tempo, dopo non giova né al debitore, né al fideiussore. Poi se il debitore si sia accordato, senza prendere in considerazione la sua persona, che non venisse chiesto al fideiussore, certuni reputano che ciò non giovi affatto al fideiussore, sebbene il debitore vi abbia interesse: poiché a quello deve competere solo quell’eccezione che spetti anche al debitore. Io ho imparato che l’eccezione giova al fideiussore: non consideriamo infatti (tanto) che così si acquisti a quello per mezzo di una persona libera, quanto che si venga in aiuto di quello stesso che ha pattuito. E ci serviamo di questo diritto. (2) Chi ha pattuito di non chiedere, dopo ha convenuto di chiedere: il primo patto sarà eliso dal successivo, non certamente di diritto, come si estingue una stipulazione per mezzo di una stipulazione, se ciò è stato concluso, perché nelle stipulazioni è contenuto un diritto, nei patti è riversato un fatto: e perciò l’eccezione sarà elisa dalla replica. Per la stessa ragione accade che il primo patto non giovi ai fideiussori. Ma se il patto convenuto fu tale, da estinguere anche l’azione, come quella di ingiurie, pattuendo dopo di poter agire, non potrà agire. Poiché, da un lato, la prima azione è venuta meno, mentre, dall’altro, il patto successivo è inefficace ad approntare un’azione: infatti l’azione di ingiurie non nasce da un patto, ma dall’offesa. Diremo lo stesso anche a proposito dei contratti di buona fede, se il patto convenuto abbia fatto venir meno l’intera obbligazione, come quella da compera: infatti la precedente obbligazione non viene
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Iulius Paulus pactus videatur, ne de dolo agat: quod pactum proderit. (4) Pacta, quae turpem causam continent, non sunt observanda: veluti si paciscar ne furti agam vel iniuriarum, si feceris: expedit enim timere furti vel iniuriarum poenam: sed post admissa haec pacisci possumus. item ne experiar interdicto unde vi, quatenus publicam causam contingit, pacisci non possumus. et in summa, si pactum conventum a re privata remotum sit, non est servandum: ante omnia enim animadvertendum est, ne conventio in alia re facta aut cum alia persona in alia re aliave persona noceat. (5) Si cum decem mihi deberes, pepigero, ne a te viginti petam: in decem prodesse tibi pacti conventi vel doli exceptionem placet. item si cum viginti deberes, pepigerim, ne decem petam: efficeretur per exceptionem mihi opponendam, ut tantum reliqua decem exigere debeam. (6) Sed si stipulatus decem aut Stichum de decem pactus sim et petam Stichum aut decem: exceptionem pacti conventi in totum obstaturam: nam ut solutione et petitione et acceptilatione unius rei tota obligatio solveretur, ita pacto quoque convento de una re non petenda interposito totam obligationem summoveri. sed si id actum inter nos sit, ne decem mihi, sed Stichus praestetur: possum efficaciter de Sticho agere, nulla exceptione opponenda. idem est et si de Sticho non petendo convenerit. (7) Sed si generaliter mihi hominem debeas et paciscar, ne Stichum petam: Stichum quidem petendo pacti exceptio mihi opponetur, alium autem hominem si petam, recte agam. (8) Item si pactus, ne hereditatem peterem, singulas res ut heres petam: ex eo, quod pactum erit, pacti conventi exceptio aptanda erit, quemadmodum si convenerit, ne fundum peterem, et usum fructum petam, aut ne navem aedificiumve peterem et dissolutis his singulas res petam: nisi specialiter aliud actum est. (9) Si acceptilatio inutilis fuit, tacita pactione id actum videtur, ne peteretur. (10) Servus hereditarius heredi post adituro nominatim pacisci non potest, quia nondum is dominus sit: sed si in rem pactum conventum factum sit, heredi adquiri potest. tentum F1 – etthis F – possit F1 – perigerit Fac – ea] e F1: om. PaV – videtur Haloander : videmurque eo iure uti Mommsen – post. conv. ut pet. bis Fac – tolitur F – si hoc actum est] Iust. (Lenel): Krüger – ⊢ ⊣ in stipul. F2 – exc. eliditur F1: elidetur exceptio P – ⊢quo⊣que F2 – tollere‘t’ littera t primum expuncta, deinde restituta F – agere post possit delevit F2: om. PVU (efficere ante ut add. Ub): lectionem F1 confirmant BS (Steph.) τότε, εἰ καὶ δεύτερον γένηται πάκτον, ἐπιτρέπον κινεῖν τῷ ὑβρισθέντι καὶ ἅπαξ συμφωνήσαντι μὴ κινεῖν, οὐ δυνήσεται τὴν ἅπαξ διὰ τοῦ πάκτου σβεσθεῖσαν κινεῖν ἀγωγήν: facere? Mommsen – ineffic‘i’ax F – quod… et procedere potest] Iust. (Longo): Krüger: rei uxoriae Lenel: actionis ‘i’ proc. F – ut tempore ei legibus dato] Iust. (Longo): Krüger: annua bima trima die Kaser, Burdese – red‘d’ire F: reddire P – nec] ne ea Fa – quotiens enim… suae redditur] Iust. (Longo): Krüger: tribuit ‘a’ de F: rei uxoriae Lenel – agat vi FUb: agat in Pb: agat rei Vb: inc. PaVaUa – continent] continet Fa – item ne] inteme F1 – § 5 item - fin. Iust. (Krüger) – perigerim F – si om. F1 – pati Fa – et pet. bis Fae: καταβολῇ καὶ ἀπαιτήσει καὶ ἀκεπτιλατίονι BS (Cyr.) – unius] in ius F: τοῦ ἑνός BS (Steph.) – [nam ut … exceptione opponenda] Iust. (Eisele): Krüger – convento ‘tamen’ de Fb – [nulla … opponenda] Iust.? (Kalb) – § 7 petenti Wlassak –actum? Mommsen – nisi specialiter aliud actum est] Iust. (Faber): Krüger – p‘r’actione F – pe⊢te⊣retur F2 – servus heredi post ad‘a’ituro F: servus hereditarius heredi futuro PU, adhibito, ut censet Krüger, loco simili 45.3.16, servus hereditario heredi V?: δοῦλος κληρονομιαῖος … μέπω ἀδιτεύσαντι τῷ κληρονόμῷ BS (Cyr.): κληρονομιαῖος οἰκέτης ἀναδιτεύτης τῆς κληρονομίας ἔτι τυγχανούσης BS (Steph.): ὁ κληρονομιαῖος δοῦλος … τῷ μέλλοντι ὑπεισελθεῖν τὴν κληρονομίαν B
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Fragmenta fatta rivivere in forza del nuovo patto, ma il patto sarà efficace per un nuovo contratto. Poi se il patto convenuto non è intervenuto per estinguere l’intero contratto, ma per apportarvi restrizioni, il patto successivo può rinnovare il primo contratto. La qual cosa può accadere anche nel caso dell’azione di dote. Per esempio, se una donna abbia pattuito che la dote venisse restituita subito, pattuisca poi che la dote le venga restituita nel tempo concesso dalle leggi: la dote inizierà a ritornare al proprio regime giuridico. Né deve dirsi che per mezzo di un patto la condizione della dote divenga peggiore: ogni qual volta infatti che l’azione di dote ritorna al regime giuridico che la legge attribuì alla sua natura, la condizione della dote non diventa peggiore, ma viene restituita alla sua forma. Queste cose parvero opportune anche al nostro Scevola. (3) Quello non può essere ottenuto attraverso alcuna pattuizione, che non si risponda per dolo: sebbene se qualcuno pattuisca di non agire con l’azione di deposito, per forza di cose sembri aver pattuito ciò, di non agire per dolo, il qual patto gioverà. (4) I patti, che contengono una causa turpe, non devono essere osservati, come se io pattuisca di non agire per furto o per ingiurie, se li commetterai; è utile infatti temere la pena per il furto o le ingiurie; ma dopo che sono state commesse queste cose possiamo pattuire. Parimenti non possiamo pattuire che io non esperisca l’interdetto per lo spossessamento violento, poiché concerne un interesse pubblico. E insomma, se il patto convenuto sia estraneo ad un affare privato, non deve essere osservato. Prima di tutto infatti bisogna prestare attenzione a che la convenzione posta in essere per un affare o con una persona non nuoccia ad un altro affare o in relazione ad un’altra persona. (5) Se, dovendomi tu dieci, mi sarò accordato di non chiederti venti: sembra opportuno che l’eccezione di patto convenuto o di dolo ti giovi in rapporto a dieci. Parimenti se, dovendomi tu venti, mi sia accordato di non chiedere dieci: sarà fatto in modo, attraverso l’eccezione a me opponibile, che io possa esigere solo i rimanenti dieci. (6) Ma se io, dopo essermi fatto promettere attraverso stipulazione dieci o Stico, abbia pattuito in relazione ai dieci e chieda Stico o dieci: l’eccezione di patto convenuto sarà opponibile per tutto: infatti, come attraverso il pagamento, la richiesta e l’accettilazione di una sola cosa viene estinta l’intera obbligazione, così anche con l’interposizione del patto convenuto di non chiedere una cosa viene meno l’intera obbligazione. Ma se tra noi sia stato concluso ciò, che non mi venissero prestati i dieci, ma Stico, posso agire efficacemente in relazione a Stico, non essendo opponibile alcuna eccezione. Vale lo stesso anche se sia stato convenuto di non chiedere Stico. (7) Ma se tu mi debba genericamente un servo e io pattuisca di non chiedere Stico: certamente quando chiederò Stico mi sarà opposta l’eccezione di patto, se poi chieda un altro servo, agirò correttamente. (8) Parimenti, se dopo aver pattuito di non chiedere l’eredità, chieda singole cose in qualità di erede: in relazione a ciò che sarà stato pattuito, dovrà essere adattata l’eccezione di patto convenuto, allo stesso modo in cui se sarà stato convenuto che io non chiedessi il fondo e chieda l’usufrutto, o che io non chiedessi la nave o l’edificio e, venuti meno questi nella loro integrità, chieda le singole cose, a meno che sia stato concluso qualcos’altro in particolare. (9) Se l’accettilazione fu inutile, sembra che attraverso una tacita pattuizione sia stato concluso che non venisse chiesto. (10) Il servo ereditario non può pattuire nominativamente a vantaggio dell’erede che adisca in un momento successivo: perché costui non è ancora padrone. Ma se il patto convenuto sia stato concluso in relazione alla cosa, si potrà acquistare a vantaggio dell’erede.
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IV COMMENTO AI TESTI
QUALCHE OSSERVAZIONE DI METODO*
1. Prima di addentrarci nell’indagine palingenetica e nel commento dei frammenti superstiti dei libri ad edictum di Paolo, ritengo sia opportuno premettere alcune brevi precisazioni. La prima, credo di tutta evidenza, riguarda il raggio d’azione dell’indagine. Lo studio e la ricostruzione dell’opera di Paolo, così come di qualunque altro commentario edittale, non può infatti non tener conto della ricostruzione dell’oggetto del commento e quindi, in particolare, dei principali tentativi moderni di ricostruzione dell’editto, tra cui ricordo specificamente quello di Adolf Friedrich Rudorff e poi soprattutto – e ovviamente – quello di Otto Lenel, nonché quello più recente di Rafael Domingo, che tuttavia si occupa esclusivamente dei primi tre libri e solo nella parte che lo stesso autore attribuisce al titolo de iurisdictione1. Ciò in particolare non può fra l’altro avvenire senza che venga compiuta “in parallelo” una puntuale analisi strutturale degli altri commentari ad edictum e in particolare, anche in relazione alle fonti a nostra disposizione, dell’altro grande commentario dell’epoca severiana, il commentario ulpianeo. Tale analisi, per quanto destinata in larga misura a rimanere inespressa e, per così dire, nell’ombra, non può infatti non costituire un punto di riferimento continuo per chi voglia occuparsi del commentario paolino, anche tenuto conto delle scelte dei giustinianei, che sappiamo preferirono utilizzare la corrispondente opera del giurista di Tiro per tracciare le linee espositive della pars edictalis. Una seconda avvertenza è di carattere più prettamente metodologico e riguarda, più specificamente, il profilo palingenetico. A questo proposito bisogna ricordare che Lenel, nella sua pur mirabile ricostruzione delle opere della giurisprudenza2, non tenne conto dell’Ordo librorum iuris veteris in compilandis digestis observatus individuato da Bluhme e successivamente
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I nomi dei giuristi antichi e i titoli delle loro opere presenti nelle inscriptiones dei frammenti del Digesto saranno indicati secondo le abbreviazioni usuali tra gli studiosi: così ad esempio (Paul. 7 resp.) per (Paulus 7 responsorum), (Paul. 9 ad Sab.) per (Paulus 9 ad Sabinum), Gai. per Gaius, institutiones e così via. Nel testo e nelle note sarà indicata con F. o [F.] la numerazione dei vari testi nella sequenza dei Fragmenta proposta in questo volume. 1 Cfr. Rudorff, 1869; Lenel, 1927; in precedenza fondamentale anche Id., 1881 (= 1990, I 280 ss.); Domingo, 1992; Id., 1993; Id., 1995). Assai utile altresì Krüger, 1905, 897-904 (Additamenta, III, Libri ad edictum), pubblicato a partire dalla decima edizione stereotipa del Digesto (1905). Ove, di volta in volta, lo si riterrà necessario si terrà altresì conto di alcune più antiche ricostruzioni dell’ordine edittale. Fra queste ricordo in particolare quelle di Perraeus, 1554; di Ranchinus, 1597; di Noodt, 1724; di Heineccius, 1748; di von Weyhe, 1821. 2 Cfr. Lenel, 1889.I e 1889.II, in specie, I, 966-1098 (per i libri ad edictum di Paolo [Paul. 83-849]). Per quanto riguarda specificamente il commentario di Paolo è poi tuttora da tenere in attenta considerazione Cuiacius, 1584.
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Giovanni Luchetti rivisitato da Krüger3. L’indagine di Bluhme, che, come è noto, venne in particolare condotta sui titoli 50.16 e 50.17 della raccolta di iura, è tuttavia a ben vedere essenziale anche ai nostri fini, in quanto permise di accertare che la successione dei frammenti all’interno dei titoli del Digesto segue un ordine costante che non risulta essere altro che quello in cui vennero lette le varie opere dalle quali i frammenti furono tratti, osservazione cui si unisce l’altra, conseguente, secondo la quale, nell’ambito della stessa opera, i frammenti si susseguono nei titoli del Digesto secondo l’ordine progressivo d’origine4. A questa regola di norma Lenel si attiene, ma senza tener conto di un ulteriore aspetto risultante dall’indagine bluhmiana, che appunto trova espressione nell’Ordo librorum iuris veteris in compilandis digestis observatus. La stessa osservazione del susseguirsi dei frammenti ha infatti altresì permesso di ipotizzare con ragionevole fondamento che alcuni gruppi di opere appartenenti allo stesso genere letterario siano state lette non in successione, ma sincronicamente e ciò, come è evidente, per favorirne un immediato coordinamento, valorizzando la scelta che di volta in volta si potesse ritenere più idonea alla luce di tutti i materiali a disposizione dei compilatori. Quanto rilevato risulta essere avvenuto in modo sistematico, ma, per quanto qui direttamente interessa, è del tutto evidente per i commentari edittali in cui è in particolare caratteristico trovare alternati in sequenza frammenti tratti dal commentario ulpianeo, da quello di Paolo e dal commento all’editto provinciale di Gaio5. 2. Dal complesso di questi dati deriva che le sequenze che caratterizzano la collocazione dei frammenti all’interno dei titoli diventano significative testimonianze non solo di come il lavoro venne in concreto svolto, ma anche dell’originaria successione dei frammenti nelle opere da cui erano escerpiti. Possiamo anzi dire che l’ordine Bluhme-Krüger, permettendo in qualche modo di ricostruire a ritroso il percorso delle scelte compiute dai compilatori, costituisce la sola guida sicura – o se si preferisce relativamente sicura – per chi voglia ripercorrere, con piena consapevolezza, le strade già così magistralmente battute dall’indagine leneliana. Senza questo criterio guida, le aggregazioni dei testi, gli avvicinamenti di un testo all’altro e la loro successione possono essere intuiti quasi esclusivamente sulla base di un criterio sostanziale e contenutistico, criterio che tuttavia dimostra a ben vedere tutti i suoi limiti e presenta margini elevati di discutibilità per essere rimesso a scelte inevitabilmente soggettive che, per quanto possano essere condotte con prudenza e lucidità di pensiero, scontano la necessità di
3 Cfr. Bluhme, 1820, 257 ss. e in specie 445 ss. (= 1960, 50 ss., 235 ss., 368 ss. e in specie 371 ss.); v. altresì Krüger, 1905, 874-878 (Additamenta, I, Ordo librorum iuris veteris in compilandis digestis observatus), pubblicato nelle edizioni stereotipe del Digesto, a partire dalla decima. Sulla questione, cfr. anche Honoré, 2010, 14 ss. 4 Per l’importanza a fini palingenetici dell’ordine Bluhme-Krüger v. già Johnston, 1997, in specie 57 s. e 69 s. Quanto all’osservazione secondo cui i frammenti sono collocati nei titoli del Digesto secondo l’ordine di lettura delle opere dai cui furono tratti e, nell’ambito di ciascuna opera, secondo l’originale ordine di collocazione nei libri, cfr. Bluhme 1820, 265 s. (= 1960, 52 s.), che conseguentemente escluse, con convincenti argomentazioni, che l’ordine di successione dei frammenti all’interno dei titoli sia piuttosto da ricondursi a fattori che prescindano dall’ordine di lettura e in particolare che possa essere messo in relazione a scelte compiute a posteriori dai compilatori (cfr. ibidem, 365 ss. e in specie 369 ss. [= 1960, 242 ss. e in specie 244 s.]). 5 Sul punto v. Bluhme, 1820, 282 s. e in specie 447 (= 1960, 61 e in specie 372), nonché la retractatio di Mantovani, 1987, 39 ss. Per quanto specificamente interessa v. anche Krüger, 1905, 875-877. L’osservazione, peraltro comunemente condivisa, è stata recentemente ripresa, proprio per applicarla per exempla alla ricostruzione dell’ordine dei commentari edittali, anche da Rodger, 1997, 160 ss. (e in specie, sul punto, 165 ss.).
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Qualche osservazione di metodo misurarsi con l’ermetica genialità di quelle leneliane. A tal proposito credo si debba, più in generale, mettere sull’avviso chiunque si avvicini a una indagine di tipo palingenetico che discostarsi dalle ipotesi ricostruttive di Lenel richiede in ogni caso – e quindi al di là del metodo seguito – una preventiva, attenta ricostruzione dei motivi, per lo più non resi espliciti, che indussero di volta in volta il grande romanista tedesco a formularle6. Da quanto appena rilevato consegue che anche l’utilizzazione dell’ordine Bluhme-Krüger debba avvenire con la massima cautela e guardandosi con prudente attenzione dall’applicazione di qualsiasi meccanico automatismo laddove appunto, per la ricostruzione palingenetica, non ci si limiti a considerare la successione nei titoli del Digesto dei frammenti appartenenti alla stessa opera, ma si tenga appunto conto anche dell’intrecciarsi di questi ultimi con quelli di un’altra opera che si sa essere stata oggetto di spoglio sinottico con quella che direttamente ci interessa ricostruire. Altrettanto è certamente da dirsi in quelle circostanze in cui l’applicazione del metodo descritto debba avvenire – come inevitabilmente di frequente accade – al di fuori dei titoli esaminati ex professo dal Bluhme per i quali per lo più, come è noto, gli spostamenti editoriali sono in genere più numerosi7. A ciò si deve aggiungere che non sempre i criteri ricostruttivi derivanti dall’applicazione dell’ordine Bluhme-Krüger possono essere d’aiuto per la ricostruzione palingenetica. Mi riferisco in particolare ai frammenti collocati dai compilatori in titoli diversi del Digesto, per lo più fuori dalla sedes materiae, come avviene, per fare un esempio già riscontrabile nei libri iniziali, per i passi del secondo libro attribuiti, secondo la ricostruzione leneliana, all’editto de vadimonio Romam faciendo (cfr. Lenel 96-107) o, sia pure in modo meno evidente per la minore incidenza quantitativa, per quelli del terzo concernenti le previsioni dell’editto de albo corrupto (cfr. Lenel 108-110)8. Altrettanto è a dirsi nel caso in cui gli interventi compilatori di adeguamento del testo hanno indotto a mescolare nello stesso titolo del Digesto trattazioni in origine separate, come avviene, sempre per limitarci a esempi tratti dai libri iniziali, per i frammenti inseriti nell’ottavo e nel nono libro dedicati alla trattazione delle varie figure di rappresentati processuali. In questo caso l’eliminazione della figura del cognitor, sistematicamente sostituita con quella, ancora attuale per i giustinianei, del procurator ad litem, comporta appunto che nel titolo D. 3.3 de procuratoribus et defensoribus le trattazioni, originariamente separate delle varie figure
6 La necessità di ricostruire il percorso delle scelte leneliane è, comunque, nei nostri studi, un presupposto indispensabile rispetto a ogni nuovo progetto di ricostruzione palingenetica. La difficoltà che ne consegue, peraltro, come è noto, resa ardua dalla normale mancanza di esplicitazione dei motivi delle soluzioni adottate da Lenel, è forse un po’ attenuata per il fatto che per la parte iniziale dell’editto abbiamo a disposizione la trattazione di Lenel, 1881, 14 ss. (= 1990, I 280 ss.). 7 L’osservazione, che mi pare debba essere condivisa, è di Johnston, 1997, 58 e 69. Per un’analisi quantitativa delle deviazioni dall’ordine Bluhme-Krüger, che risultano assai ridotte proprio in D. 50.16 e 50.17, cfr. Honoré, 1973, 263 (in specie table 1). Sul punto, per un esame comparativo di alcuni dei principali titoli del Digesto, v., sotto questo specifico profilo, anche Mantovani, 1987, 21. 8 Peraltro, l’utilizzazione dell’ordine Bluhme-Krüger conferma invece in quest’ultimo caso, l’ipotesi che i frammenti ulpianei conservati in D. 9.4.3, D. 9.4.5 e D. 9.4.7 (e necessariamente il primo) fossero posti a commento dello stesso editto de albo corrupto. Ciò, oltre che per motivi di carattere contenutistico, perché il frammento (Ulp. 3 ad ed.) D. 9.4.3 non può che commentare lo stesso editto cui si riferisce (Paul. 3 ad ed.) D. 9.4.4 [F. 31] o un altro precedente. Nello stesso terzo libro, costituisce invece, forse, una deviazione dall’ordine, l’ipotizzata posposizione di (Paul. 3 ad ed.) D. 2.13.9 [F. 37] rispetto a (Paul. 3 ad ed.) D. 2.13.7 [F. 39] (cfr. infra, 155 ss.).
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Giovanni Luchetti di rappresentanti processuali vengano a fondersi e quindi a confondersi9. Proprio attraverso questa chiave di lettura si spiegano alcuni scostamenti dall’ordine Bluhme-Krüger con riferimento a testi (mi riferisco a D. 3.3.32 [Lenel 165], a D. 3.3.36 [Lenel 174] e a D. 3.3.42 [Lenel 167]) che, originariamente certamente riferiti al cognitor, vennero ricollocati dai Compilatori, sulla base di criteri di tipo contenutistico, in un contesto da loro ampiamente riformulato, fra i frammenti originariamente riguardanti gli altri rappresentanti processuali. Ciò detto, e pur tenendo conto di tutte queste cautele, l’utilizzazione dell’ordine BluhmeKrüger costituisce un imprescindibile criterio guida nell’indagine palingenetica dei libri ad edictum, senza l’apporto del quale, come abbiamo già accennato, qualunque nuova ipotesi ricostruttiva, a parità di strumenti utilizzati, si troverebbe probabilmente a dover soccombere di fronte alle soluzioni, per molti versi insuperabili, formulate dallo straordinario intuito di Lenel.
9 In gran parte i frammenti paolini inseriti nel titolo provengono dall’ottavo libro (cfr. D. 3.3.2; D. 3.3.4; D. 3.3.11; D. 3.3.14; D. 3.3.16; D. 3.3.20; D. 3.3.22; D. 3.3.24; D. 3.3.26; D. 3.3.32; D. 3.3.36; D. 3.3.42) e solo tre dal nono (cfr. D. 3.3.41; D. 3.3.43; D. 3.3.45). Si può aggiungere che un unico testo proviene invece dal sesto libro (si tratta di D. 3.3.6).
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PROSPETTO PALINGENETICO RIASSUNTIVO
Per agevolare la consultazione di questo volume, si forniscono i prospetti riassuntivi delle principali proposte palingenetiche relative ai primi tre libri dell’ad edictum paolino: Lenel 1889.I-II
E. I Ad legem municipalem
Krüger 1905 E. 1 Ad municipalem
Domingo 1995
Luchetti-Pontoriero 2018
E. I De iurisdictione
E. I De his, qui in municipio colonia foro iure dicundo praesunt (cfr. Lenel, 1927)
— E. 2 Si quis ius dicenti non obtemperaverit D. 50.1.26 D. 2.1.20 D. 50.1.28 D. 44.7.35 (?) D. 47.23.2 (?) E. 3 E. 2 Si quis in ius vocatus Si quis in ius vocatus etc. non ierit D. 2.5.2 fr. 86 (D. 2.5.2) D. 2.4.19 fr. 87 (D. 2.6.1) D. 2.4.21 = fr. 88 (D. 2.12.4) D. 50.17.103 D. 2.6.1 D. 2.12.4
E. 1 Si quis ius dicenti non obtemperaverit fr. 83 (D. 2.1.20 + D. 50.1.28) fr. 84 (D. 44.7.35) fr. 85 (D. 47.23.2)
E. 1 fr. 60 (D. 2.1.20) fr. 61 (D. 44.7.35) fr. 62 (D. 47.23.2)
E. 2 fr. 63 (D. 2.5.2) fr. 64 (D. 2.6.1)
E. 1 Si quis ius dicenti non obtemperaverit 1 F. (D. 2.1.20) F. 2 (D. 44.7.35) F. 3 (D. 47.23.2)
E. 2 Si quis in ius vocatus etc. F. 4 (D. 2.5.2) F. 5 (D. 2.6.1) F. 6 (D. 2.4.19) F. 7a (D. 2.4.21) F. 7b (D. 50.17.103)
E. 4 De fugitivis
E. 3 (?) De fugitivis
— E. 5 (?) D. 50.16.2
—
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Giovanni Luchetti E. 3 E. 6 De cautione et possessione ex De cautione damni infecti causa damni infecti danda fr. 89 (D. 2.4.19 + D. 39.2.5 D. 2.4.21 = D. 50.17.103) D. 50.16.4 fr. 90 (D. 39.2.5) D. 50.17.105 fr. 91 (D. 50.8.9[7]) D. 50.8.9(7) (?) fr. 92 (D. 50.1.26 + D. 50.17.105) E. 4 De fugitivis — E. 5 (?)
E. 3 fr. 65 (D. 50.1.26) fr. 66 (D. 50.17.105) fr. 67 (D. 50.8.9[7]) fr. 68 (D. 2.4.19) fr. 69 (D. 2.4.21 = D. 50.17.103) fr. 70 (D. 39.2.5)
E. 7 (?)
fr. 93 (D. 50.16.2) fr. 94 (D. 50.16.4) fr. 95 (D. 5.3.4)
D. 5.3.4
E. 6 De vadimonio Romam faciendo fr. 96 (D. 2.1.6) fr. 97 (D. 1.16.12) fr. 98 (D. 4.8.1) fr. 99 (D. 7.1.4) fr. 100 (D. 7.7.1) fr. 101 (D. 16.3.6) fr. 102 (D. 18.5.6) fr. 103 (D. 26.5.15) fr. 104 (D. 45.1.68) fr. 105 (D. 50.16.5) fr. 106 (D. 50.16.7) fr. 107 (D. 50.17.106)
E. 8 De vadimonio Romam faciendo D. 1.16.12 D. 2.1.6 D. 50.16.5pr. D. 26.5.15 D. 45.1.68 D. 50.17.106 D. 16.3.6 D. 18.5.6 D. 50.16.5.1 D. 50.16.7 D. 7.1.4 D. 7.7.1 D. 4.8.1
E. 4 (?) De cautione et possessione ex causa damni infecti danda F. 8 (D. 39.2.5) F. 9 (D. 50.8.9[7])
E. 4 —
E. 5 fr. 71 (D. 50.16.2pr.) fr. 72 (D. 50.16.2.1) fr. 73 (D. 50.16.4) fr. 74 (D. 50.1.28) fr. 75 (D. 2.12.4) fr. 76 (D. 5.3.4) fr. 77 (D. 50.16.5pr.) fr. 78 (D. 50.16.7) fr. 79 (D. 45.1.68) fr. 80 (D. 4.8.1) fr. 81 (D. 7.1.4) fr. 82 (D. 7.7.1) fr. 83 (D. 50.16.5.1) fr. 84 (D. 18.5.6) fr. 85 (D. 16.3.6) fr. 86 (D. 50.17.106) fr. 87 (D. 26.5.15) fr. 88 (D. 2.1.6) fr. 89 (D. 1.16.12)
E. 5 De vadimonio Romam faciendo F. 10 (D. 50.16.2) F. 11 (D. 50.16.4) F. 12 (D. 2.12.4) F. 13 (D. 50.1.26) F. 14 (D. 50.17.105) F. 15 (D. 50.1.28) F. 16 (D. 5.3.4) E. 5.2 De vadimonio Romam faciendo F. 17 (D. 7.1.4) F. 18 (D. 45.1.68) F. 19 (D. 4.8.1) F. 20 (D. 50.17.106) F. 21 (D. 16.3.6) E. 6 (?) De vadimonio in civitatem provinciamve suam faciendo F. 22 (D. 50.16.5) F. 23 (D. 50.16.7) F. 24 (D. 7.7.1) F. 25 (D. 18.5.6) F. 26 (D. 26.5.15) F. 27 (D. 2.1.6) F. 28 (D. 1.16.12)
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Qualche osservazione di metodo E. II De iurisdictione E. 7 De albo corrupto fr. 108 (D. 2.1.9) fr. 109 (D. 47.23.4) fr. 110 (D. 9.4.4) E. 8 Quod quisque iuris in alterum statuerit etc. fr. 111 (D. 2.2.2) fr. 112 (D. 50.16.8pr.) E. III.9 De edendo fr. 113 (D. 50.16.8.1) fr. 114 (D. 2.13.2) fr. 115 (D. 2.13.5) fr. 116 (D. 2.13.7) fr. 117 (D. 2.13.9) fr. 118 (D. 9.2.40) fr. 119 (D. 12.2.14) E. IV.10 De pactis et conventionibus fr. 120 (D. 44.7.38) fr. 121 (D. 2.14.2) fr. 122 (D. 2.14.4) fr. 123 (D. 2.14.6) fr. 124 (D. 22.2.7) fr. 125 (D. 2.14.11 + D. 2.14.13 + D. 2.14.15 + D. 26.7.22) fr. 126 (D. 2.14.17pr.-2) fr. 127 (D. 2.14.17.3-7 + D. 2.14.19 + D. 2.14.21 + D. 2.14.23 + D. 2.14.25 + D. 2.14.27pr.-1) fr. 128 (D. 2.14.27.2-10)
E. II De iurisdictione E. 9 De albo corrupto
E. 6
D. 2.1.9 D. 47.23.4 (?) D. 9.4.4 (?)
fr. 90 (D. 2.2.2)
E. 10 Quod quisque iuris in alterum statuerit
E. 7
D. 2.2.2 D. 50.16.8pr. (?)
fr. 91 (D. 2.1.9) fr. 92 (D. 47.23.4) fr. 93 (D. 9.4.4)
E. 11 De edendo
E. 7 De albo corrupto F. 29 (D. 2.1.9) F. 30 (D. 47.23.4) F. 31 (D. 9.4.4) E. 8 Quod quisque iuris in alterum statuerit etc. F. 32 (D. 2.2.2) F. 33 (D. 50.16.8pr.) E. III.9 De edendo
D. 50.16.8.1 D. 2.13.2 D. 2.13.5 D. 2.13.7 D. 9.2.40 D. 2.13.9 D. 12.2.14
F. 34 (D. 50.16.8.1) F. 35 (D. 2.13.2) F. 36 (D. 2.13.5) F. 37 (D. 2.13.9) F. 38 (D. 12.2.14) F. 39 (D. 2.13.7) F. 40 (D. 9.2.40)
E. 12 De pactis D. 2.14.2 D. 2.14.4 D. 2.14.6 D. 2.14.11 D. 2.14.13 D. 2.14.15 + D. 26.7.22 D. 2.14.17 D. 2.14.19 D. 2.14.21 D. 2.14.23 D. 2.14.25 D. 2.14.27 D. 22.2.7 D. 44.7.38
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E. IV.10 De pactis et conventionibus F. 41 (D. 44.7.38) F. 42 (D. 2.14.2) F. 43 (D. 2.14.4) F. 44 (D. 2.14.6) F. 45 (D. 22.2.7) F. 46 (D. 2.14.11) F. 47 (D. 2.14.13) F. 48 (D. 2.14.15) F. 49 (D. 26.7.22) F. 50 (D. 2.14.17 + D. 2.14.19 + D. 2.14.21 + D. 2.14.23 + D. 2.14.25) F. 51 (D. 2.14.27)
COMMENTO
Libro I [In relazione a quanti sono preposti all’amministrazione della giustizia in un municipio, una colonia o un foro (E. I)] Risulta pacifico che l’editto commentato dai giuristi severiani si aprisse con una serie di previsioni attinenti alla giurisdizione municipale. È peraltro discusso se tali previsioni fossero inserite in un titolo edittale riguardante i magistrati e la giurisdizione municipale o se, piuttosto, si debba ipotizzare l’esistenza di un titolo di portata generale dedicato alla giurisdizione1. L’ordine della trattazione edittale fa, tuttavia, preferire l’ipotesi che un titolo dedicato alla giurisdizione municipale effettivamente esistesse, perché, se è vero che così si “asciuga” il titolo che si ipotizza dedicato in generale alla giurisdizione e se ne divide la trattazione, è altrettanto e ancor più vero che, se così non fosse, risulterebbe assai difficile comprendere come mai ci si occupasse in un unico titolo edittale prima degli interventi pretori relativi all’attività giurisdizionale dei magistrati municipali e, solo in un secondo momento, della giu-
1 Sul fatto, indiscutibile, che la parte iniziale dei commentari all’editto riguardasse i magistrati e la giurisdizione municipale, cfr. per tutti Kaser – Hackl, 1996, 178 e nt. 50. Quanto all’ipotesi dell’esistenza di un apposito titolo edittale, cfr. Lenel, 1881, 16 (= 1990, I 282). Tale ipotesi è ripresa, con riferimento al commentario paolino, in Id., 1889.I, 966 (cfr. anche, per quello ulpianeo, Id., 1889.II, 421), nonché in Id., 1927, 31 e 51. Lo studioso tedesco fu però oscillante circa la rubrica da apporre al titolo che, nell’ultimo sviluppo del suo pensiero (cfr. Id., 1907 e 1927, 51 e nt. 1), ipotizzò essere de his, qui in municipio colonia foro iure dicundo praesunt. Sulle oscillazioni leneliane, sia riguardo alla denominazione del titolo edittale (ad municipalem [Id., 1889.I, 966], ad legem municipalem [Id., 1889.II, 421 e 1247 e Id., 1901, 57 e nt. 1]), sia riguardo all’articolazione e alla denominazione delle singole rubriche (peraltro sostanzialmente stabilizzate a partire dalla prima edizione dell’Editto perpetuo), cfr. Domingo, 1992, 23 ss., che, pur riconoscendo la riferibilità ai magistrati e alla giurisdizione municipale della parte iniziale dell’editto, esclude l’esistenza di un apposito titolo, ipotizzando piuttosto, come già fece Rudorff, 1869, 25, l’esistenza di un unico titolo di portata generale dedicato alla giurisdizione (cfr. ibidem, in specie 28 s.) che corrisponderebbe ai primi due ipotizzati da Lenel. Su quest’ultimo aspetto possibilista, ma incerto, Torrent, 1993, 261 e 266.
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Giovanni Luchetti risdizione pretoria vera e propria2. Si può aggiungere che, per la ricostruzione palingenetica del testo del primo libro dell’ad edictum paolino, sembra poter essere di particolare utilità l’impiego dell’ordine Bluhme-Krüger che permette, come vedremo, di proporre alcuni aggiustamenti significativi rispetto alla proposta palingenetica leneliana. [Se qualcuno non abbia obbedito al magistrato giusdicente (E. 1)] F. 1 – D. 2.1.20 Secondo la communis opinio, la trattazione edittale iniziava con la rubrica si quis ius dicenti non obtemperaverit, come noto ricostruita, da Rudorff in poi, sulla base della rubrica di D. 2.3, un breve titolo in cui venne collocato dai compilatori un unico frammento ulpianeo3. Se pure nella sedes materiae della raccolta di iura non ci è dato dunque riscontrare materiali paolini, appare tuttavia ragionevolmente certa – ed è generalmente condivisa – la riconducibilità al commento del nostro editto del testo di D. 2.1.204, un breve passo in cui viene esclusa la vincolatività della giurisdizione di chi non avesse competenza per territorio o che comunque si fosse pronunciato supra iurisdictionem suam, circostanza che, evidentemente, non poteva che impedire l’applicazione dell’editto in questione. La precisazione, posta a commento dell’editto con cui il pretore sanzionava con una azione penale il comportamento di chi non avesse ottemperato alle prescrizioni del magistrato municipale nell’esercizio della propria iurisdictio5, risulta dunque del tutto appropriata
2 Si accoglie pertanto, pur con tutte le cautele del caso, l’ipotesi dell’esistenza di un apposito titolo edittale dedicato alla giurisdizione municipale, accettando la rubrica suggerita da Lenel, 1927, 51 e nt. 1, che, salvo una variante minore, fu già ipotizzata nella prima edizione dell’Editto perpetuo (cfr. Id., 1883, 41 e nt. 1: de iis, qui in municipio colonia foro iure dicundo praesunt). 3 Tale opinione, fatta propria da Lenel, 1881, 17 ss. ([= 1990, I 283 ss.], cfr. anche Id., 1927, 51 s., nonché, per quanto riguarda specificamente il commentario edittale di Paolo, Id., 1889.I, 966), risale appunto già a Rudorff, 1869, 25 s. e, per certi versi, a Cuiacius, 1584, 1 ss., che, non a caso, iniziava la sua opera sul commentario paolino con l’esame del testo di D. 2.1.20. Tale ricostruzione è stata altresì accolta, almeno nella sostanza, anche nella più recente ricostruzione palingenetica proposta da Domingo, 1992, in specie 82 ss. e 1995, 105 ss., che tuttavia esclude in generale – con argomentazioni peraltro a mio avviso non conclusive – la presenza di rubriche relative ai singoli editti (cfr. Id., 1992, in specie 28). Sul punto v. altresì, più ampiamente, Id., 1991, 290 ss. 4 Sul punto, v. Lenel, 1881, 19 (= 1990, I 285); Id., 1889.I, 966 n. 83; Id., 1927, 51 e nt. 4. In senso conforme cfr. anche Krüger, 1905, 897; Domingo, 1992, 83; Id., 1995, 114 (sul testo di D. 2.1.20 v. anche il rapido esame ex professo fornito dallo stesso Domingo, 1992, 77 s.). 5 Per la riferibilità del testo alla giurisdizione municipale, v. già Cuiacius, 1584, 1 ss. Come ebbe a osservare Lenel, 1881, 18 s. (= 1990, I 284 s.), l’intervento pretorio si rendeva necessario a tutela della giurisdizione municipale in quanto i magistrati locali – e particolarmente i duoviri – non potevano imporre la propria iurisdictio: cfr. al proposito (Ulp. 1 ad ed.) D. 2.3.1pr.: Omnibus magistratibus, non tamen duumviris, secundum ius potestatis suae concessum est iurisdictionem suam defendere poenali iudicio. Sul punto, v. in specie, tra gli altri, Kaser, 1963, 179; Torrent, 1970, 122; Simshäuser, 1973, 220. Per quanto più in generale riguarda l’editto in questione cfr. ampiamente Domingo, 1992, 41 ss. (con riferimento a D. 2.3.1pr., in specie 46-49). Per la ricostruzione della formula v. anche Mantovani, 1999, 71 s., che non sembra però essere del tutto convinto del fatto che l’azione fosse concessa a tutela della giurisdizione municipale e non piuttosto di quella pretoria (ma sul punto cfr. invece già Cuiacius, 1584, 2). Peraltro il riferimento ai limiti della giurisdizione dei duoviri in D. 2.3.1pr. non mi sembra comunque creare problemi di fronte all’osservazione che in lex Irnitana, c. 19 viene riconosciuta anche un’autonoma potestà giurisdizionale agli edili municipali (sul punto v. González, 1986, 227): il testo ulpianeo tende infatti a identificare i duoviri con i magistrati municipali e a enunciare una regola che evidentemente si doveva a maggior ragione applicare ai magistrati municipali minori come gli aediles.
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Commento al fine di evidenziare che l’intervento pretorio non avrebbe potuto comunque aver luogo nel caso in cui il magistrato giusdicente avesse esorbitato la propria competenza per materia, per valore o per territorio6. F. 2 – D. 44.7.35 Dal testo ulpianeo di D. 2.3.1.4 – che sappiamo collocato nella sedes materiae della raccolta di iura – apprendiamo che l’azione in questione non poteva essere concessa dopo l’anno, né nei confronti dell’erede7, circostanza questa che rende sufficientemente probabile che nel commento all’editto si quis ius dicenti non obtemperaverit fosse inserita – come del resto già fu sostenuto, ma senza particolari motivazioni esplicite dal Lenel – anche la digressione contenuta in D. 44.7.358, un testo notissimo – nella sostanza da ritenersi genuino9 – in cui Paolo, riprendendo una distinzione che si dice risalente a Cassio Longino10, ricordava che, quanto ai tempi di esercizio delle azioni onorarie, bisognava essenzialmente di-
6 Per quanto riguarda la competenza per valore e quella territoriale dei magistrati municipali, anche con riferimento alla testimonianza di D. 2.1.20, cfr. in specie Domingo, 1996, 175 ss. (e già in precedenza più diffusamente Id., 1993, 26 ss.). Con riferimento alle competenza fissata ratione loci e ratione materiae da lex Irnitana, c. 84 v. anche Simshäuser, 1989, 622 ss. Più in generale, sui limiti alla competenza dei magistrati municipali e sulla variabilità in relazione alle diverse realtà locali, v. anche Kaser – Hackl, 1996, 177 s., 244 e nt. 12. 7 (Ulp. 1 ad ed.) D. 2.3.1.4: Hoc iudicium non ad id quod interest, sed quanti ea res est concluditur: et cum meram poenam contineat, neque post annum neque in heredem datur. Sappiamo inoltre che la formula conteneva la clausola quanti ea res est: cfr. per tutti Lenel, 1881, 21 (= 1990, I 287) e Id., 1927, 51 s. Sulla questione, anche con riferimento a lex Irnitana, c. 48, cfr. altresì Mantovani, 1999, 72 e nt. 291. 8 Sul punto cfr. Lenel, 1889.I, 966, nt. 10, nonché Id., 1927, 51, nt. 4 e 52, nt. 2, che, senza addurre specifiche argomentazioni, ritiene che la discussione paolina sulla durata delle azioni onorarie fosse appunto inserita a commento dell’azione con cui iniziava l’editto. Sulla questione, più o meno nello stesso senso, anche Domingo, 1992, 58 s. e 83 s. nonché Id., 1995, 114, che da parte sua (cfr. Id., 1992, 59) osserva che Paolo: “con ocasión de la primera acción del Edicto – que era anual –, comentara extensamente el tema de la caducidad de las acciones y trajera a colación una acción típicamente municipal come es la de este fragmento”. Si può ancora aggiungere che Krüger, 1905, 897, segnala invece la collocazione del testo a commento dell’editto si quis ius dicenti non obtemperaverit in forma dubitativa. 9 Per la correzione nella frase hae etiam post annum darentur del darentur nel più corretto dentur, correzione che già fu ipotizzata da Siber, 1928, 227, v. tra gli altri, in specie, Amelotti, 1958, 31 (e già prima, Id., 1956, 191). Quanto al probabile intervento giustinianeo nella frase ut tamen-similibus, di cui è spia la qualificazione dell’interdetto unde vi come azione penale onoraria, v. le osservazioni di Rossetti, 1994, 365 s. e nt. 78, che a mio avviso giustamente ritiene il testo sostanzialmente autentico benché parzialmente alterato nella forma con particolare riguardo alla parte in cui sembra appunto confondere il rimedio interdittale con l’actio ex interdicto: sul punto, anche con riferimento a ipotesi più radicali di rimaneggiamento, che tendono ad investire – come del resto in ultima analisi ipotizzò già Lenel, 1927, 112 e 466 – l’intero tratto honorariae-similibus v. tuttavia la stessa Rossetti, 1994, 365 s., nt. 76; si deve altresì aggiungere che per un’ipotesi di un ancor più penetrante intervento compilatorio si è invece orientato Domingo, 1992, 58, che ritiene genuina solo la parte iniziale del testo fino ad annum. 10 Si tratta, come è noto, di un testo assai conosciuto e come tale oggetto di ampio dibattito dottrinale: per un diligente quadro bibliografico faccio rinvio a Rossetti, 1994, 355, nt. 43. Oltre alla letteratura indicata dalla Rossetti che a sua volta si occupa diffusamente del testo (cfr. ibidem, 355 ss.) ricordo, tra gli altri, la trattazione ex professo di Blanch Nougués, 1995, 821 ss., in parte ripresa in Id., 1997, 45 ss. In relazione alla letteratura precedente ricordo altresì Martini, 1966, 71, che da parte sua opportunamente si sofferma sull’uso del verbo definire per sottolineare come, con le parole sic esse definiendum Cassius ait, il giurista intenda “più che altro riferirsi ai termini stessi in cui quel principio è stato formulato”.
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Giovanni Luchetti stinguere due categorie, quella delle actiones quae rei persecutionem habeant e quella delle ceterae actiones11. Solo nel caso delle prime sarebbe stata concessa la possibilità di agire post annum mentre per le altre si prevedeva che potessero essere concesse esclusivamente intra annum12 e che – come sembrerebbe aggiungere Paolo prendendo spunto dalle caratteristiche dell’azione commentata che conteneva una pena in senso stretto – non potessero neppure essere date contro l’erede, salvo che entro il limite dell’arricchimento che quest’ultimo potesse aver ricavato dall’illecito commesso dal de cuius, ipotesi in cui tali azioni diventavano trasmissibili all’erede nell’id quod ad eum pervenit, come avveniva nei casi, espressamente citati a titolo di esempio, dell’actio doli e dell’interdetto unde vi13. Diverso, come ancora rileva il giurista severiano, il trattamento delle azioni onorarie quae rei persecutionem continent a proposito delle quali, esplicitando la nozione di rei persecutio, veniva evidenziato come si trattasse di quelle mediante le quali persequimur quod ex patrimonio nobis abest, fornendo al proposito gli esempi dell’azione data contro il bonorum possessor del debitore esecutato e dell’actio Publiciana che si dice concessa ad exemplum vindicationis, con esclusione tuttavia della Publiciana rescissoria che, consistendo, come è noto, essenzialmente in una in integrum restitutio, veniva al contrario concessa contra ius civile14. Alla luce dell’esegesi appena condotta pare dunque ragionevolmente plausibile ipotizzare che Paolo, argomentando dalla natura dell’azione commentata (penale e come tale annale e
11 Che la distinzione di cui faceva parola Cassio fosse essenzialmente quella tra azioni reipersecutorie e azioni penali è di norma affermato dalla dottrina: sul punto, cfr. Ankum, 1982, 21 s. Per l’uguaglianza di significato delle espressioni rei persecutionem continere e rei persecutionem habere, cfr. Voci, 1998, 40, nt. 212 (in precedenza, più ampiamente, Id., 1939, 100 ss.). Diversamente, sulla scia di un’opinione che fu già di Levy, 1915, 8 ss., v. Albanese, 1964, 114 ss. (= 1991, I 375 ss.) e ancora Id., 1970, 72 ss. (= 1991, I 815 ss.), il quale ha sottolineato piuttosto come la distinzione posta dal testo sia tra azioni che contemplano un fine reipersecutorio e azioni che tale componente non presentano, con ciò ammettendo che nelle prime possano essere ricomprese anche quelle penali che presentino tuttavia anche una componente reipersecutoria. Sul punto, sostanzialmente nello stesso senso, anche Vacca, 1982, 688-689 e Rossetti, 1994, in specie 365 e 370. 12 In parte diversa è come noto l’impostazione classificatoria di Gai. 4.110-111: Quo loco admonendi sumus eas quidem actiones, quae ex lege senatusve consultis proficiscuntur, perpetuo solere praetorem accommodare, eas vero quae ex propria ipsius iurisdictione pendent plerumque intra annum dare. (111) Aliquando tamen et perpetuo eas dat, velut quibus imitatur ius legitimum: quales sunt eae, quas bonorum possessoribus ceterisque qui heredis loco sunt accommodat. Furti quoque manifesti actio, quamvis ex ipsius praetoris iurisdictione proficiscatur, perpetuo datur; et merito, cum pro capitali poena pecuniaria constituta sit. Sul punto, per un quadro di sintesi delle opinioni dottrinali formulate in proposito alla pretesa contrapposizione tra il testo paolino del Digesto e quello gaiano, cfr. Blanch Nougués, 1995, 832 ss. e ancora Id., 1997, 48 ss. Al di là delle diverse finalità e prospettive tra i due testi non mancano comunque a mio avviso alcuni punti di contatto, individuabili nel fatto che in entrambi i casi lo scopo è, in ultima analisi, quello di precisare in via interpretativa quali siano le azioni onorarie che vengono concesse post annum: per Cassio determinante è la presenza del carattere reipersecutorio, per Gaio il fatto che imitino il ius civile. 13 Per il probabile intervento compilatorio nella frase ut tamen-similibus, denunciato in particolare dalla qualificazione dell’interdetto unde vi come azione penale onoraria, circostanza che ben si spiega nel diritto giustinianeo in cui si qualificava come interdictum unde vi quella che ormai era in realtà un’actio extraordinaria (cfr. I. 4.15.8) v. supra, nt. 9. Quanto poi all’actio doli, con riferimento alla possibilità che la regola della sua esperibilità nei limiti dell’arricchimento valesse anche post annum nei confronti dell’autore dell’illecito, v. per tutti Rossetti, 1994, 363. 14 Sulla Publiciana rescissoria e per il relativo quadro bibliografico, mi sia consentito di rinviare a Luchetti, 2004b, 47 ss. e in specie 48, nt. 84 e 50, nt. 87, con riferimento rispettivamente ai dubbi avanzati dalla letteratura meno recente sulla classicità della denominazione dell’azione e circa la genuinità della parte conclusiva di D. 44.7.35pr., nonché al suo carattere annale, tipico, salvo un’eccezione (che è quella dell’actio utilis rescissa capitis deminutione), delle azioni rescissorie.
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Commento intrasmissibile) cogliesse l’occasione per compiere il riferimento all’opinione cassiana che, dal punto di vista del giurista severiano, forniva, in un più ampio quadro classificatorio, la giustificazione del perché dovesse essere escluso l’esercizio della iurisdictio ultra annum nel caso in cui l’azione onoraria non presentasse in alcun modo – come nel caso preso in considerazione – carattere reipersecutorio. Tutto ciò al contrario dell’azione data ex contractu magistratuum municipalium che si sarebbe comunque potuta concedere etiam post annum, circostanza che viene precisata nel § 1, un testo che, forse per un taglio operato dai compilatori, sembra seguire il principium senza una immediata connessione, se non per la comune riferibilità ai magistrati municipali, in questo caso presi in considerazione in quanto investiti della rappresentanza processuale passiva del municipio15. F. 3 – D. 47.23.2 Nello stesso contesto di commento della natura actionis sembra si ponesse anche il frammento riprodotto in D. 47.23.216, in cui si prevedeva una regola da applicare nel caso di esercizio simultaneo dell’azione in questione da parte di una pluralità di soggetti e consistente nella scelta volta a preferire il più idoneo, intendendo per tale chi avesse un interesse personale prevalente e che pertanto, nel caso di specie, potesse dirsi personalmente danneggiato dall’atto lesivo17. Che il riferimento al carattere popolare riguardasse l’azione in questione sembra del resto essere ipotesi avvalorata anche dal tenore dei testi paralleli di D. 47.23.3 e 818, entrambi provenienti dal primo libro del commentario edittale ulpianeo e che a loro volta pare ragionevole riferire proprio al carattere popolare dell’azione penale pretoria rivolta a sanzionare il com-
15 Su questa azione, data piuttosto contro i duoviri, cfr. Lenel, 1927, 99 s. Sul punto v. anche le osservazioni di Domingo, 1992, 58 s. Per un rapido accenno al testo, con riferimento alla rappresentanza processuale – attiva e passiva – dei duoviri rispetto al proprio municipio, cfr. anche, per un sintetico inquadramento, Kaser – Hackl, 1996, 218 e nt. 80. 16 Il testo è inserito in un titolo del Digesto di fattura giustinianea; l’editto del pretore e, conseguentemente, le opere di commento dei giuristi, non davano alla materia delle azioni popolari una sistemazione unitaria e organica: cfr. Soubie, 1960, 67, nt. 4 e Casavola, 1958, 6, nt. 24. 17 Non è in questo caso a mio avviso condivisibile l’opinione di Albanese, 1995, 352, nt. 34, che annovera il testo tra quelli in cui l’aggettivo idoneus farebbe riferimento piuttosto alla solvibilità. Evidentemente nell’azione in questione è in primo luogo maggiormente idoneo chi ha un interesse personale ad agire (cfr. già Cuiacius, 1584, 14) e ciò anche in quanto le azioni penali pretorie erano concepite in modo da concludersi eventualmente con una condanna a favore dell’attore. Del resto, nelle azioni popolari la precedenza di chi avesse un particolare interesse ad agire era prevista per regola generale, cfr. esplicitamente (Ulp. 1 ad ed.) D. 47.23.3.1 (v. nt. successiva). 18 (Ulp. 1 ad ed.) D. 47.23.3: Sed si ex eadem causa saepius agatur, cum idem factum sit, exceptio vulgaris rei iudicatae opponitur. (1) In popularibus actionibus is cuius interest praefertur. (Ulp. 1 ad ed.) D. 47.23.8: Omnes populares actiones neque in heredes dantur neque supra annum extenduntur. Sulla riferibilità dei tre testi – quello paolino e i due ulpianei – al commento dell’editto si quis ius dicenti non obtemperaverit, cfr. Lenel, 1881, 20 (= 1990, I 286), nonché Id., 1927, 51, nt. 3 e 52, nt. 1. Quanto a D. 47.23.2, v. del resto già Cuiacius, 1584, 13 s. Sul punto, anche con riguardo ai passi ulpianei, cfr. altresì le osservazioni di Domingo, 1992, in specie 51 ss., nonché Id., 1995, 105 s. Si deve tuttavia segnalare che nella Palingenesi leneliana i due passi ulpianei sopra citati sono piuttosto posti alla fine del primo libro, segnalandone la collocazione incerta: cfr. Lenel, 1889.II, 423 s., Ulp. 188-189. Nello stesso senso anche Krüger, 897, che, forse con maggiore coerenza rispetto a Lenel, segnala con un punto interrogativo la collocazione di tutti e tre i testi a commento dell’editto si ius dicenti non obtemperaverit.
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Giovanni Luchetti portamento di chi non avesse ottemperato alle prescrizioni del magistrato municipale assunte nell’esercizio della propria iurisdictio19. Diversamente da quanto viene ipotizzato nelle ricostruzioni palingenetiche fin qui tentate – e in quella di Lenel in primis – a una attenta analisi delle fonti non sembrano esservi altri frammenti riconducibili a questo editto. In particolare non pare in alcun modo potersi accogliere l’ipotesi secondo cui sarebbe stato parte del commento anche il testo di D. 50.16.4 [F. 11]20. Ciò perché l’ipotesi di Domingo – poi smentita anche dallo stesso autore che, in un primo tempo, ebbe occasione di formularla21 – è contraddetta dal criterio dello spoglio dei materiali secondo le sequenze bluhmiane, testimoniato in questo caso dalla successione dei testi contenuti in D. 50.16.1-4, in cui i fr. 2 [F. 10] e 3, tratti rispettivamente dai commentari all’editto di Paolo e di Ulpiano, già si riferiscono, con ragionevole certezza, a una trattazione successiva e, probabilmente, come mi sembra plausibile ritenere, alla trattazione dell’editto de vadimonio Romam faciendo22. Più delicata – e pertanto degna di un più attento vaglio critico – appare la questione della riconducibilità all’editto si quis ius dicenti non obtemperaverit di D. 50.1.28 [F. 15], come del resto già volle Lenel che ne pose il testo in stretta connessione con D. 2.1.20 [F. 1]23. Le sequenze bluhmiane ci portano tuttavia quantomeno ad accertare che se il fr. 28 era inserito a
19 Che l’azione fosse a legittimazione popolare sembra del resto plausibile al fine di garantire una efficace tutela della giurisdizione municipale: l’osservazione, che già risale a Lenel, 1881, 20 (= 1990, I 286) e Id., 1927, 51 s., è stata recentemente ripetuta da Mantovani, 1999, 72, nt. 292, che a sua volta ipotizza altresì che il relativo giudizio fosse rimesso a un collegio di recuperatores (cfr. ibidem, 63 e nt. 289): sul punto e per l’opinione che, alla luce della testimonianza di (Paul. 13 ad ed.) D. 4.8.32.7, questa fosse la regola valida per tutti i giudizi a legittimazione popolare, v. ampiamente Danilović, 1974, 13 ss. 20 (Paul. 1 ad ed.) D. 50.16.4: ‘Nominis’ appellatione rem significari Proculus ait. L’ipotesi è stata sostenuta da Domingo, 1992, 79 e 83, che ebbe a porre il frammento in relazione a D. 50.1.28 [F. 15], a suo avviso da collocare a commento della previsione edittale in esame: sul punto e per le difficoltà che incontra questa ultima ipotesi ricostruttiva, cfr. tuttavia quanto si avrà occasione di dire subito infra nel testo e nelle relative note. 21 Cfr. Domingo, 1993, 32, nt. 61, nonché Id., 1995, 116, che ha collocato successivamente il testo di D. 50.16.4 [F. 11] a commento dell’editto sulla competenza giurisdizionale da lui ipotizzato (E. 5) e a suo avviso dedicato a una trattazione in generale di vari aspetti della giurisdizione, con particolare riferimento ai limiti della competenza dei magistrati municipali rispetto a quella del pretore: cfr. sul punto Id., 1993, 11 ss. 22 (Paul. 1 ad ed.) D. 50.16.2: ‘Urbis’ appellatio muris, ‘Romae’ autem continentibus aedificiis finitur, quod latius patet. (1) ‘Cuiusque diei maior pars’ est horarum septem primarum diei, non supremarum. (Ulp. 2 ad ed.) D. 50.16.3: ‘Itinere faciendo viginti milia passuum in dies singulos peragenda’ sic sunt accipienda, ut, si post hanc dinumerationem minus quam viginti milia supersint, integrum diem occupent. veluti viginti unum milia sunt passus: biduum eis adtribuetur. quae dinumeratio ita demum facienda erit, si de die non conveniat. (1) Eius, qui apud hostes decessit, dici hereditas non potest, quia servus decessit. Sul punto, su cui ritornerò infra, 117 ss., nel senso qui sostenuto, cfr. l’ampia e convincente discussione fornita da Rodger, 1997, 166 ss. (con riferimento a D. 50.16.2 v., in particolare, 169 ss.). 23 La connessione, individuata da Lenel, 1889.I, 966, Paul. 83, nonché Id., 1927, 51, nt. 4, è evidentemente di carattere contenutistico visto che D. 50.1.28 fa riferimento alla possibilità che i magistrati municipali esorbitino la propria competenza qualora le parti lo convengano, cfr. (Paul. 1 ad ed.) D. 50.1.28: Inter convenientes et de re maiori apud magistratus municipales agetur. L’ipotesi della connessione fra D. 2.1.20 [F. 1] e D. 50.1.28 fu del resto già avanzata da Cuiacius, 1584, 1, ed è stata accolta, nella letteratura moderna, da Kaser – Hackl, 1996, 178, nt. 49, nonché, in un primo tempo, nell’ambito della sua revisione della prima parte dell’edictum perpetuum leneliano, anche da Domingo, 1992, 45, 78 s. e 83. Successivamente tuttavia D. 50.1.28, in quanto attinente alla giurisdizione convenuta, è stato collocato da Domingo, 1993, 69 ss. e Id., 1995, 116, a commento dell’ipotizzato editto (v. supra, nt. 21) sulla competenza giurisdizionale (E. 5).
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Commento commento dell’editto in questione altrettanto doveva avvenire per il precedente fr. 26 [F. 13]24. Tale ricostruzione interromperebbe però il rapporto di connessione che lo stesso Lenel ebbe a sottolineare tra D. 50.1.26 e D. 50.17.105 [F. 14]25, in quanto la sequenza D. 50.17.102106 esclude che il fr. 105 possa collocarsi, nella ricostruzione dell’opera paolina, prima del fr. 103 ([F. 7b], tratto a sua volta dal primo commentario edittale di Paolo), testo che già si riferiva con ogni probabilità alla trattazione dell’editto relativo all’in ius vocare davanti ai magistrati municipali che immediatamente seguiva. Peraltro, al di là di quanto appena osservato, sembra potersi escludere che lo stesso D. 50.1.28 [F. 15] potesse commentare l’editto in questione, tenuto anche conto del fatto che D. 50.1.27, tratto dal secondo libro del commentario ulpianeo, non può certo collocarsi a commento dell’editto si quis ius dicenti non obtemperaverit, in quanto, per quello che ne sappiamo, l’opera ulpianea era giunta a commentare, già nel corso del primo libro (e probabilmente nella seconda metà), l’editto sulla cautio damni infecti municipale nonché quello de fugitivis26 e che, del resto, non sembra neppure plausibile obiettare che il fr. 27 non sia al suo posto nel relativo titolo del Digesto per essere stato oggetto di uno spostamento editoriale27. Non rimane che la possibilità che il solo testo di D. 50.1.26 fosse posto a commento dell’editto in questione, ma siffatta ipotesi (che tra l’altro non risulta essere mai stata da alcuno formulata) per un verso – come già rilevato – fa venir meno lo stretto legame già ipotizzato da Lenel fra D. 50.1.26 e D. 50.17.105, per l’altro, per quanto non contraddica la sequenza D. 50.1.25-29 – e ciò sempreché non si voglia aderire all’opinione di chi ha di recente ritenuto che il frammento ulpianeo riportato in D. 50.1.25 già si riferisse alla trattazione della cautio damni infecti municipale28 – fa inevitabilmente cadere la connessione – che fu vista da Cuiacio e da Krüger – tra il fr. 26 e il fr. 28, connessione che a sua volta può essere conservata solo ipotizzando che entrambi i testi fossero posti a commento di un editto successivo.
24 (Paul. 1 ad ed.) D. 50.1.26: Ea, quae magis imperii sunt quam iurisdictionis, magistratus municipalis facere non potest. (1) Magistratibus municipalibus non permittitur in integrum restituere aut bona rei servandae causa iubere possideri aut dotis servandae causa vel legatorum servandorum causa. Nel senso che anche D. 50.1.26 fosse posto a commento dell’editto si quis ius dicenti non obtemperaverit si pronuncia infatti Krüger, 1905, 897. Sul punto, v. anche Cuiacius, 1584, 1 e 4 s., che a sua volta colloca D. 50.1.26 in stretta connessione con D. 50.1.28 e D. 2.1.20 [F. 1]. 25 (Paul. 1 ad ed.) D. 50.17.105: Ubicumque causae cognitio est, ibi praetor desideratur. Per la connessione cui si accenna nel testo, cfr. Lenel, 1889.I, 967, Paul. 92, in cui appunto i due frammenti sono collocati sotto lo stesso numero sul presupposto, parrebbe, che la causae cognitio fosse caratteristica tipica degli atti magis imperii quam iurisdictionis, che, in quanto tali, erano riservati alla competenza tendenzialmente esclusiva del pretore. Cfr. anche Id., 1881, 24 e nt. 26 (= 1990, I 290 e nt. 26), nonché Id., 1927, 53 e nt. 3. 26 Sul punto Lenel, 1889.II, 423, Ulp. 185-187 e Id., 1927, 54, che pone i due editti nell’ordine dopo quello relativo all’in ius vocare davanti ai magistrati municipali. Sulla questione le ricostruzioni palingenetiche sono concordi, sul punto v. altresì Domingo, 1995, 52 ss., 107 s. Anche Krüger, 1905, 897, colloca entrambe le previsioni edittali nel primo libro ulpianeo sia pure in ordine invertito rispetto a quello ipotizzato da Lenel (facendo cioè precedere [v. anche infra, nt. 53] l’editto de fugitivis da quello sulla cautio damni infecti). 27 L’ipotesi, segnalata da Krüger, 1911, 892, nt. 14, è stata indicata come erronea da Honoré, 1973, 302. Sul punto v. anche Rodger, 1997, 180, che correttamente segnala, accogliendola, la correzione di Honoré. 28 Cfr. al proposito le osservazioni di Domingo, 1995, 32 ss. e 106; diversamente Lenel, 1889.II, 421, Ulp. 170, che colloca il frammento, insieme ad altri tratti dal primo libro del commentario edittale ulpianeo (cfr. D. 50.8.8[6] e D. 27.8.6), nella parte introduttiva del titolo edittale riguardante i magistrati e la giurisdizione municipale (sul punto, cfr. anche Id., 1927, 51, nt. 1). All’opinione di Lenel si conforma sostanzialmente Krüger, 1905, 897, che colloca il frammento in E. 1 (ad municipalem).
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Giovanni Luchetti [Se qualcuno chiamato in giudizio non si sarà presentato davanti a colui il quale sarà preposto all’amministrazione della giustizia in un municipio, una colonia o un foro o se qualcuno abbia chiamato chi non avrebbe dovuto in forza dell’editto (E. 2)] F. 4 – D. 2.5.2 A quello di cui ci siamo appena interessati seguiva un editto relativo all’in ius vocare davanti ai magistrati municipali, la cui rubrica, differentemente ricostruita dallo stesso Lenel – in un primo tempo si quis in ius vocatus non ierit nei Beiträge, poi si quis in ius vocatus ad eum, qui in municipio colonia foro iure dicundo praeerit, non ierit sive quis eum vocaverit, quem edicto non debuerit nell’Editto perpetuo29 – deriva essenzialmente da quella di D. 2.5 (si quis in ius vocatus non ierit sive quis eum vocaverit, quem ex edicto non debuerit)30. Per opinione generalmente condivisa è riconducibile al commento dell’editto in esame il testo di D. 2.5.2 (che appunto proviene dalla sedes materiae della raccolta di iura)31, da cui si evince indirettamente che il pretore con tale disposizione – prevista come la precedente a tutela della giurisdizione municipale – prometteva un’ulteriore azione di carattere penale che sembra si risolvesse in una sanzione pecuniaria commisurata al valore della lite, da comminarsi – entro il limite di responsabilità dell’id quod interest – contro chi, benché in ius vocatus, non fosse tuttavia comparso davanti al magistrato locale32. Come sembrerebbe risultare dal § 1, l’eventuale sanzione irrogata dal pretore – cui come è noto fa altresì esplicito riferimento Gai. 4.183 a proposito dell’in ius vocare a Roma33 – si sarebbe potuta eventualmente cumulare con la multa che, tenendo conto della personalità (e
29 Cfr. al proposito Lenel, 1881, 21 (= 1990, I 287), cui aderisce Krüger, 1905, 897. Diversamente Lenel, 1927, 52 e nt. 3, che, sulla scorta della rubrica di D. 2.5, ricollegava appunto all’editto in questione anche un’azione contro chi avesse chiamato in giudizio chi invece non si sarebbe dovuto chiamare. Per la conferma come seconda dell’editto pretorio di una previsione relativa all’in ius vocare davanti ai magistrati municipali, v. anche Domingo, 1995, 19 ss. 30 È appena il caso di ricordare che l’editto pretorio affrontava il tema dell’in ius vocare in due diverse sedi, entrambe iniziali: oltre alla disposizione relativa alla giurisdizione dei magistrati municipali ce ne era un’altra (cfr. Lenel, E. 11), che riguardava la giurisdizione del pretore: ciò poteva comportare e spesso comportava ripetizioni nelle opere di commento, cfr. Mantovani, 2005, 177, nt. 77. 31 Sul punto v. in particolare Lenel, 1881, 22 (= 1990, I 288); Id., 1889.I, 967, Paul. 86; Id., 1927, 52 e nt. 5; Krüger 1905, 897, e, più di recente, Domingo, 1995, 21 ss. e 115. 32 È stato sostenuto che il pretore concedesse la prevista actio in factum (cfr., per l’analogo rimedio previsto per l’in ius vocare davanti la pretore, la parte finale di Gai. 4.46: ...Ceterae quoque formulae, quae sub titulo de in ius vocando propositae sunt, in factum conceptae sunt, velut adversus eum, qui in ius vocatus neque venerit neque vindicem dederit; item contra eum, qui vi exemerit eum, qui in ius vocaretur; et denique innumerabiles eius modi aliae formulae in albo proponuntur), nel caso in cui il chiamato, pur avendo mostrato di voler ottemperare all’invito a recarsi in giudizio, vi si fosse poi sottratto: cfr. a questo proposito le osservazioni di Buti, 1984, 295 s., che da parte sua ipotizza (cfr., in specie, 297 s.) che la previsione non si applicasse invece al vocatus che si rifiutasse piuttosto di seguire in ius il vocans o resistesse eventualmente all’uso della forza – ammesso in certi limiti – per condurlo in tribunale, circostanza che rendeva a suo avviso più probabilmente applicabile la missio in bona prevista nei confronti dell’assente o del latitante (cfr., nel caso dell’in ius vocare davanti al magistrato municipale, D. 2.4.19 [F. 6], su cui v. infra, 110 ss.). 33 Gai. 4.183: In summa sciendum est eum, qui cum aliquo consistere velit, in ius vocare oportere et eum, qui vocatus est, si non venerit, poenam ex edicto praetoris committere. Quasdam tamen personas sine permissu praetoris in ius vocare non licet, velut parentes patronos patronas, item liberos et parentes patroni patronaeve; et in eum, qui adversus ea egerit, poena constituitur. Per l’opinione che comunque le formule concesse con l’editto relativo all’in ius vocare davanti ai magistrati locali non si discostassero, se non per la relazione con la giurisdizione municipale, da quelle previste nel caso di inottemperanza dell’in ius vocare davanti al pretore cfr. Lenel, 1881, 23 (= 1990, I 289). Per la piena corrispondenza del rimedio previsto nel caso di mancata comparizione davanti al magistrato locale con le formule – cui fa riferimento Gai. 4.46 – concesse in E. 11 cfr. anche Lenel, 1927, 52 s.
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Commento particolarmente della condizione sociale e della cultura) di chi non avesse ottemperato all’in ius vocare dell’attore34, avrebbe potuto dal canto suo comminare, nei limiti della sua iurisdictio, il iudex competens35, cui, proprio in virtù della chiamata in giudizio, spettava ex quacumque causa l’accertamento della competenza giurisdizionale36. Tutto ciò – aggiunge il testo – salvo comunque la possibilità, sempre riconosciuta al pretore, di remittere poenam, non concedendo al vocans l’azione prevista nei confronti del vocatus che non fosse comparso, qualora l’attore che avesse reclamato l’intervento pretorio non avesse potuto dimostrare – ad esempio quia feriatus dies fuit – il proprio interesse alla comparizione del convenuto37.
34 Sul testo, con riferimento specifico alla rusticitas di chi fosse in ius vocatus, cfr. Mayer-Maly, 1982, 325 s. e 330, che da parte sua ritiene che il frammento abbia subito un taglio tra le parole damnabitur e rusticitati. 35 Per l’ipotesi che l’espressione competenti iudice insieme al successivo iudicis sia interpolata e che l’originale avesse rispettivamente duumviro e eius cfr. Lenel, 1889.I, 967, ntt. 2 e 3, nonché Id., 1927, 52; per un più ampio quadro delle ipotesi interpolazionistiche avanzate al riguardo (anche con riferimento alla possibilità che multa – che però ben si attaglia ai poteri dei magistrati municipali [cfr. lex Irnitana, c. 66, l. 10] – sia stato sostituito in luogo di poena), v. in specie Buti, 1984, 232, nt. 33 e Domingo, 1995, 24 ss. e nt. 21, che peraltro finiscono per accogliere – con la dottrina prevalente – l’unico sospetto di interpolazione che già fu avanzato da Lenel e generalmente condiviso (sul punto v. anche Simshäuser, 1973, 220 ed ivi nt. 125 letteratura riguardo alla possibilità che sia altresì avvenuta nel testo la sostituzione di poena con multa). Per parte mia mi sembra di poter aggiungere che un esame sistematico delle fonti (cfr. Luchetti, 2004a, 128 s., nt. 2) permette tuttavia di dimostrare come l’espressione competens iudex (che forse fa riferimento anche al fatto che non tutti i iudices potevano irrogare multe, ma solo in quanto a ciò competentes, cfr. sul punto le osservazioni di Cuiacius, 1584, 11) sia diffusamente utilizzata quantomeno a partire dall’epoca dioclezianea per indicare l’organo giurisdizionale competente, circostanza che potrebbe far dubitare dell’interpolazione, tenuto anche conto del fatto che, come sappiamo da lex Irnitana, c. 19, non solo i duoviri – che pure talvolta sembrano tout court identificarsi con i magistrati municipali (cfr., per il caso di D. 2.3.1pr., quanto rilevato supra, nt. 5) – ma anche gli aediles avevano una sia pur limitata competenza giurisdizionale. 36 Per l’obbligo del vocatus di recarsi comunque davanti al magistrato municipale anche qualora costui fosse incompetente v. Lenel, 1881, 22, nt. 18 (= 1990, I 288 e nt. 18) e, più di recente, Domingo, 1996, 177. Sul principio processuale secondo cui il giudice davanti al quale fosse compiuta la chiamata in giudizio era comunque quantomeno competente – si trattasse del pretore o del magistrato municipale – ad accertare la giurisdizione ad casum, cfr. anche (Ulp. 5 ad ed.) D. 5.1.5: Si quis ex aliena iurisdictione ad praetorem vocetur, debet venire, ut et Pomponius et Vindius scripserunt: praetoris est enim aestimare, an sua sit iurisdictio, vocati autem non contemnere auctoritatem praetoris: nam et legati ceterique qui revocandi domum ius habent in ea sunt causa, ut in ius vocati veniant privilegia sua allegaturi. Sul testo ulpianeo e sui rapporti con D. 2.5.2, v. Ziegler, 1976, 563 e nt. 44; sul punto anche Simshäuser, 1989, 623 e nt. 18, nonché, in specie, le osservazioni di Domingo, 1995, 22 s., che da parte sua tuttavia ritiene che il frammento paolino si riferisse esclusivamente all’in ius vocare davanti al magistrato municipale e che conseguentemente la menzione del pretore sia stata inserita dai compilatori (sul punto v. però infra, nt. seguente). Con riferimento alla connessione dei due testi in questione con (Paul. 17 ad Plaut.) D. 5.1.24.2, v. altresì Fries, 1963, 64, nt. 31. 37 Sul testo e per il rapporto tra azione penale in factum concessa dal pretore e la sanzione irrogata dal magistrato municipale v. Simshäuser, 1973, 220 s., nonché Zabłocka, 1984, 143. Che l’editto in questione concedesse specificamente un’azione a tutela della giurisdizione municipale nel caso di mancata osservanza dell’in ius vocare e che la sanzione pretoria si aggiungesse eventualmente alla multa irrogata dal magistrato municipale fu affermato anche da Lenel, 1881, 21 s. ([= 1990, I 287 s.], v. altresì Id., 1927, 52). Sul punto appare invece poco perspicuo il ragionamento di Domingo, 1995, 27 e 30, che sembrerebbe piuttosto ipotizzare che la previsione edittale facesse riferimento alla sola sanzione irrogata dal magistrato municipale e che in assenza di comparizione del vocatus non avesse luogo l’applicazione dell’actio in factum adversus eum, qui in ius vocatus neque venerit neque vindicem dederit (cfr. Gai. 4.46), ma piuttosto la missio in bona. Non si capisce tuttavia dove il pretore avrebbe allora dovuto prendere in considerazione la questione nel suo editto, tanto più che lo stesso Domingo non riferisce al commento della previsione in esame il testo di D. 2.4.19 [F. 6] (v. infra, nt. 42) che riguarda il caso, che sarebbe analogo, della missio in bona subita dall’assente o dal latitante, da chi cioè, a differenza di colui che, benché vocatus, non avesse seguito in ius il vocans, si fosse invece sottratto alla stessa in ius vocatio dell’attore.
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Giovanni Luchetti F. 5 – D. 2.6.1 Alla possibilità che il vocatus non si recasse personalmente in giudizio si riferisce anche il testo di D. 2.6.1, in cui, al fine di non incorrere nel sistema sanzionatorio previsto in caso di mancata comparizione38, gli si concede – secondo l’alternativa prospettata in Gai. 4.46 (neque venerit neque vindicem dederit) – la facoltà di nominare un vindex che era gravato dell’obbligo di exhibere il chiamato o – eventualmente – dal compito di difenderlo in iure39. A tale specifico proposito il testo paolino precisava che il vindex dovesse essere di regola locuples pro rei qualitate (v. anche [Gai. 1 ad ed. prov.] D. 2.8.5), vale a dire, in primo luogo, potenzialmente capace di soddisfare l’importo dell’eventuale condemnatio40. Solo in certi casi – e più esattamente qualora si trattasse di necessariae personae e cioè, come si esemplifica subito di seguito, nel caso in cui il convenuto e il vindex fossero legati da un rapporto di parentela o di patronato (cfr., per una più ampia ed articolata enumerazione dei rapporti che davano luogo ad eccezione, anche [Ulp. 5 ad ed.] D. 2.8.2.2) – si poteva fornire un vindex qualiscumque e più esattamente, come ulteriormente si precisa in D. 2.8.2.4, un vindex etiam non locuples e ciò evidentemente in quanto si riteneva che il legame con il vocatus garantisse sufficientemente il vocans in relazione alla successiva comparizione del convenuto41. F. 6 – D. 2.4.19 + F. 7a – D. 2.4.21 = F. 7b – D. 50.17.103 Nonostante la ricostruzione palingenetica leneliana riferisca a questo editto il solo ulteriore testo di D. 2.12.4 ([F. 12], a proposito del quale v. quanto si dirà infra, 112 s.) si deve tuttavia ritenere che all’editto si quis in ius vocatus siano riconducibili altri materiali paolini. In particolare, seguendo un’intuizione del Krüger, più di recente brillantemente sviluppata da Mantovani, appare da attribuire al commento della clausola in esame la coppia di frammenti riprodotti in D. 2.4.19 e 21 (nonché, con riferimento a quest’ultimo, la lex geminata che figura in D. 50.17.103) in cui – in stretta connessione con la previsione edittale commentata (che era ap-
38 Per la connessione con D. 2.5.2 [F. 4] e per la collocazione di D. 2.6.1 a commento dell’editto relativo all’in ius vocare davanti ai magistrati municipali, cfr. le osservazioni di Lenel, 1881, 23, Id., 1889.I, 967, Paul. 87 e Id., 1927, 52, nt. 5; sul punto v. anche Krüger, 1905, 897, e, nello stesso senso, Domingo 1995, 21, 30 s. e 115. Il collegamento tra i due testi fu del resto già notato da Cuiacius, 1584, 11 ss., che appunto collocò D. 2.6.1 subito dopo D. 2.5.2. 39 Che nel testo paolino il riferimento originale fosse al vindex è comunemente ammesso dalla dottrina prevalente sulla base della testimonianza di Gai. 4.46: cfr. per tutti l’ampio quadro argomentativo fornito da Albanese, 1998, in specie 20, 27 e 29. Sul punto, v. anche, per un accenno, in generale Kaser – Hackl, 1996, 178 s. Peraltro non è mancato chi ha sostenuto che già in diritto classico fosse dato piuttosto un fideiussor iudicio sistendi causa: cfr. Tafaro, 1976, in specie 242 s., cui, tra gli altri, aderisce Buti, 1984, 300 e nt. 290 (con ulteriori indicazioni bibliografiche). Va tuttavia osservato che del fideiussor iudicio sistendi causa si occupa specificamente C. 8.40(41).27, una costituzione giustinianea del 531, sul cui contenuto rinvio, per tutti, all’esame fornitone da Bonini, 1968a, 18 s. e nt. 29. 40 Sull’idoneità del vindex e sulla necessità che fosse comunque locuples non tantum ex facultatibus, sed etiam ex conveniendi facilitate (cfr. [Ulp. 5 ad ed.] D. 2.8.2pr.) v., per un ampio e articolato quadro delle fonti, Fernandez Barreiro, 1971, 812 s. 41 Su questo aspetto, sui motivi dell’eccezione e per un esame dei casi in cui alla luce di D. 2.8.2.2 era ammesso di dare un vindex qualiscumque, v. l’ampia discussione proposta da Fernandez Barreiro, 1971, 813 ss. (e ivi rassegna della letteratura precedente). L’interpretazione prospettata non è tuttavia pacifica in quanto parte autorevole della dottrina ritiene piuttosto, argomentando più sul piano logico che su quello delle fonti, che la possibilità di dare un vindex qualiscumque fosse relativa al caso in cui fossero legati da parentela o patronato – e rientrassero pertanto nel novero delle necessariae personae – il vocatus e il vocans, circostanza che imponeva al secondo di accettare comunque il vindex indicato dal primo: sul punto cfr. Lenel, 1927, 69, nt. 8 e Kaser – Hackl, 1996, 225.
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Commento punto quella inerente all’azione concessa contro chi, benché in ius vocatus, non si fosse recato in giudizio) – si prospettano le conseguenze giuridiche che avrebbe potuto subire chi invece, per essere assente o latitante, fosse sfuggito alla stessa chiamata in giudizio dell’attore42. Il testo di D. 2.4.19 fa infatti riferimento alla missio in bona concessa a beneficio dell’attore che non fosse riuscito a in ius vocare la propria controparte e conseguentemente a farla comparire in giudizio. Si trattava appunto di una sanzione, eventualmente temporanea, finalizzata a costituire un mezzo di pressione nei confronti di chi, di fronte all’iniziativa dell’attore, si fosse reso in qualche modo irreperibile. Tale previsione si rendeva necessaria perché tra l’altro, se non in casi eccezionali, non era comunque possibile in ius vocari de domo sua, circostanza che poteva favorire la condotta ostruzionistica di chi appunto volesse sfuggire alla chiamata in giudizio43. Più esattamente la chiamata in ius di chi si trovasse presso il proprio domicilio era concessa, secondo un’opinione che si dice risalire a Giuliano, nel solo caso in cui la persona nei cui confronti si intendesse agire aditum ad se praestet aut ex publico conspiciatur44, vale a dire – sembrerebbe – qualora quest’ultima avesse spontaneamente concesso all’attore di entrare nella propria domus o vi fosse comunque la possibilità per l’attore di compiere la chiamata in giudizio quantomeno intravedendo il convenuto e quindi potendo comunicare con lui dall’esterno45. Ciò peraltro, come conferma il testo strettamente connesso di D. 2.4.21, non escludeva che, anche chi ammetteva entro certi limiti la possibilità di in ius vocare de domo, si conformasse poi a sua volta al divieto assoluto di extrahere de domo sua, cioè di far uso della forza per trar fuori dalla casa il vocatus46.
42 Cfr. Krüger, 1905, 897 e ora appunto l’articolata dimostrazione fornita da Mantovani, 2005, 145 ss. Tale ipotesi ricostruttiva fu seguita in un primo tempo anche da Lenel, 1881, 23 e nt. 22 (= 1990, I 289 e nt. 22), ma poi – senza esplicita motivazione – abbandonata. Diversamente infatti – e in particolare per la collocazione dei frammenti in questione a commento dell’editto relativo alla cautio damni infecti municipale (su cui v. infra, 113 ss.) – Lenel, 1889.I, 967, Paul. 89 e Id., 1927, 52, nt. 5 e 53, nt. 3, successivamente seguito anche da Domingo, 1995, in specie 21, nt. 10, 44, nt. 111 (v. anche 33 e 115). 43 Sulla regola generale – enunciata in (Gai. 1 ad leg. XII Tab.) D. 2.4.18 – che escludeva la chiamata in ius di chi si trovasse presso il proprio domicilio cfr. Kaser – Hackl, 1996, 66 e 221, nonché, per limitarmi ad alcuni contributi specifici relativamente recenti, Garbarino, 2004, 231 ss.; Licandro, 2004, 395 ss.; Mantovani, 2005, 147 ss. 44 Più esattamente Giuliano affermava che in tali circostanze l’in ius vocari sarebbe avvenuto recte: cfr. sul punto brevemente Cannata, 1993, 22, che rileva come il recte sia da collegare a vocari e non ad ait. Nello stesso senso v. altresì le convincenti argomentazioni di Mantovani, 2005, 153, nt. 26. 45 Sull’uso del verbo praestare nell’espressione aditum ad se praestet, cfr. Cannata, 1993, 22. Per i comportamenti ammessi, cfr. Mantovani, 2005, 153, che, quanto alla prima ipotesi prospettata (si aditum ad se praestet), ritiene che l’espressione faccia riferimento a un ingresso autorizzato del vocans nella casa del vocatus “anche se può sorgere qualche dubbio sulla portata del consenso richiesto”, potendosi dubitare al proposito se si faccia riferimento a un atteggiamento con cui il vocatus lascia la porta di casa aperta a tutti o se piuttosto abbia autorizzato specificamente l’ingresso del vocans e – in questa circostanza – sapendo o meno delle intenzioni del vocans (v. ibidem, nt. 27). Quanto alla seconda espressione (aut ex publico conspiciatur) diversamente Licandro, 2004, 432 s., che ritiene piuttosto che essa si riferisca al caso in cui fosse possibile in ius vocare in luoghi pubblici o comunque aperti al pubblico. Nel senso qui sostenuto – che trova a mio avviso convincente conferma nel testo connesso di D. 2.4.21 che fa a sua volta riferimento a un vocatus che si trovava domi e non in un luogo pubblico – sta però una tradizione interpretativa che risale a Cuiacius, 1584, 9, ora nuovamente confortata dall’articolata discussione di Mantovani, 2005, 154 e nt. 28. 46 Sul divieto di extrahere il vocatus de domo sua, cfr. tra gli altri il quadro fornito da Blecher, 1975, 281. Più in generale, per lo stretto rapporto tra il potere del pater familias e l’ambito domestico entro il quale tale potere si esercitava e per la conseguente inviolabilità della domus, cfr., anche con riferimento a D. 2.4.21, in particolare de Robertis, 1983, 173 e Plescia, 1987, 267 e nt. 4.
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Giovanni Luchetti Alla luce di tale ricostruzione la connessione individuata da Lenel tra D. 2.4.19 e 21 da una parte e D. 39.2.4.5 dall’altra – un testo quest’ultimo tratto dal primo libro del commentario edittale ulpianeo, senz’altro da collocarsi a commento dell’editto sulla cautio damni infecti municipale47 – appare fuorviante, benché basata sulla corrispondenza testuale tra la frase de domo sua nemo extrahi debet, che chiude D. 2.4.21, con un’altra, di analogo tenore, contenuta in D. 39.2.4.5 (non extrahi de domo sua), espressioni che, in entrambi i casi, escludono che il convenuto possa essere estratto con la forza dalla propria casa. Tale collegamento – che pure fu già notato dal Cuiacio, che da parte sua ebbe tuttavia a riferire D. 2.4.19 alla missio in possessionem bonorum concessa contro l’indefensus48 – risulta infatti a ben vedere fondato su elementi che non vanno oltre l’apparenza formale, poggiando tra l’altro sull’erronea identificazione di denuntiare domum e in ius vocare de domo, circostanza cui, come è stato osservato, si deve aggiungere che la missio in possessionem subita da colui che non presti la cautio damni infecti riguarda il solo bene che minaccia il danno e non l’intero patrimonio, come avviene invece nel caso del debitore assente che non sia difeso in giudizio49. Se pare dunque ragionevole ritenere che tutti i frammenti fin qui considerati facessero parte del commento all’editto in questione non altrettanto sembra potersi affermare per il testo di D. 2.12.4 [F. 12] che Lenel poneva come ultimo tra quelli superstiti attinenti alla previsione in esame, sottolineandone in particolare il collegamento con la chiusa di D. 2.5.2.1 [F. 4] (puta quia feriatus dies fuit)50. Tuttavia il testo paolino segue nel titolo 2.12 della raccolta di iura un passo ulpianeo tratto dal secondo libro del commentario edittale che tratta dello stesso argomento (cfr. D. 2.12.3), testo che Lenel attribuisce invece al commento di un editto successivo e più precisamente a quello de vadimonio Romam faciendo. Ora, se questa ultima ricostruzione è attendibile (e sembra ragionevolmente esserlo anche alla luce di lex Irnitana c. 49, in specie ll. 40-42, che dimostra come la questione delle ferie giudiziarie si ponesse in
47 Su tale editto v. infra, 113 ss. Sul collegamento di cui si fa parola nel testo cfr. Lenel 1889.I, 967, nt. 6 e Id., 1927, 53, nt. 3. L’ipotesi formulata da Lenel risulta sinteticamente ripresa – direi piuttosto acriticamente – da Domingo, 1995, 21, nt. 10. 48 Cfr. Cuiacius, 1584, in specie 9, che, pur appunto riferendo il testo di D. 2.4.19 alla missio in possessionem bonorum concessa contro l’indefensus, tuttavia contestualmente accoglie – in termini invero non del tutto perspicui – il collegamento dei due testi paolini con quello ulpianeo di D. 39.2.4 e con la cautio damni infecti. 49 Per queste osservazioni e per una ricostruzione della procedura prevista a tutela del danno temuto, con particolare riferimento alla denuntiatio che l’attore era tenuto a effettuare per mettere in guardia il convenuto assente in iure dell’imminente missio in possessionem (ex primo decreto), nel caso in cui non fosse stata prestata la cautio, cfr. l’ampio quadro fornito da Mantovani, 2005, 163 ss. 50 D. 2.12.4: Praesides provinciarum ex consuetudine cuiusque loci solent messis vindemiarumque causa tempus statuere. Cfr. Lenel, 1889.I, 967 e nt. 5, Paul. 88, nonché Id., 1927, 52, nt. 5, in cui si evidenzia altresì il collegamento con (Ulp. 4 de omn. trib.) D. 2.12.1pr.: Ne quis messium vindemiarumque tempore adversarium cogat ad iudicium venire, oratione divi Marci exprimitur, quia occupati circa rem rusticam in forum compellendi non sunt. Nello stesso senso cfr. anche Krüger, 1905, 897. L’ipotesi formulata da Lenel è stata in un primo tempo seguita anche da Domingo, che tuttavia successivamente (cfr. Id., 1995, 21, nt. 12) ha piuttosto ritenuto che i testi di D. 2.12.3 e 4 (per il passo paolino di D. 2.12.4 v. anche ibidem, 116 e nt. 396) facessero parte del commento allo stesso editto, inquadrandoli tuttavia entrambi in quello – da lui ipotizzato – sulla competenza giurisdizionale (E. 5).
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Commento stretta connessione con il vadimonium)51, l’ordine dello spoglio dei materiali secondo le sequenze bluhmiane ragionevolmente esclude che D. 2.12.4 possa riferirsi al commento di un editto precedente a quello cui si riferisce 2.12.3 e ciò – a maggior ragione – anche tenuto conto dell’identità di argomento trattato, circostanza questa che rende meno plausibile un – sia pure possibile – rimaneggiamento editoriale dell’ordine dei frammenti nel titolo del Digesto. Si tratta di una circostanza che appare da approfondire ulteriormente, ma qui basterà dire che risulta ipotesi a mio avviso nel complesso convincente quella di ritenere che entrambi i frammenti si riferiscano allo stesso editto e più esattamente – come è ragionevole ipotizzare – a quello de vadimonio Romam faciendo52. [Sulla cauzione e sul possesso che deve essere concesso in ragione del danno temuto (E. 4?)] F. 8 – D. 39.2.5 All’editto relativo all’in ius vocare davanti ai magistrati municipali faceva seguito quello contraddistinto dalla rubrica de cautione et possessione ex causa damni infecti danda53 il cui esatto
51 Quanto alla collocazione di (Ulp. 2 ad ed.) D. 2.12.3 (Solet etiam messis vindemiarumque tempore ius dici de rebus quae tempore vel morte periturae sunt. morte: veluti furti: damni iniuriae: iniuriarum atrocium: qui de incendio ruina naufragio rate nave expugnata rapuisse dicuntur: et si quae similes sunt. item si res tempore periturae sunt aut actionis dies exiturus est. [1] Liberalia quoque iudicia omni tempore finiuntur. [2] Item in eum, qui quid nundinarum nomine adversus communem utilitatem acceperit, omni tempore ius dicitur) a commento dell’editto de vadimonio Romam faciendo, cfr. Lenel, 1881, 36 (= 1990, I 302), e Id., 1889.II, 425, Ulp. 206; più in generale v. anche Id., 1927, 55, nt. 3. Sulla questione delle ferie giudiziarie e sulla sua stretta connessione con il vadimonium, rinvio alle osservazioni di Domingo, 1993, 59 ss. 52 Con riferimento alla collocazione originaria dell’attuale testo di D. 2.12.4 [F. 12], avrò occasione di ritornare più diffusamente infra, 121 ss. Nel senso qui ipotizzato faccio per intanto in particolare rinvio, alle articolate, convincenti osservazioni già formulate da Rodger, 1997, 186 s. 53 Che il rapporto di successione fra i due editti sia quello indicato nel testo è ampiamente condiviso. Qualche dubbio, a mio avviso, permane sull’eventuale possibilità che tra l’editto relativo all’in ius vocare e quello relativo alla cautio damni infecti si interponesse quello de fugitivis (Lenel, E. 4). La questione non può essere risolta alla luce del commentario di Paolo, di cui non ci è conservato nulla che sia riferibile a quest’ultimo editto, che secondo Lenel, 1927, 54, in quanto ricostruibile attraverso le testimonianze del commentario edittale ulpianeo, si collocava appunto, nella trattazione dei giuristi severiani e quindi nell’ordine edittale che essi commentavano, immediatamente dopo quella relativa alla cautio damni infecti municipale (seguendo Rudorff, 1869, 27 ss.). Peraltro, è al proposito da osservare che Krüger, 1905, 897, colloca, a differenza di quanto avviene nella ricostruzione leneliana, l’editto de fugitivis tra quello si quis in ius vocatus non ierit e quello de cautione damni infecti. Quest’ultima ipotesi (al di là di una probabile precedenza cronologica dell’editto de fugitivis: sulla datazione dei due editti, cfr. Domingo, 1995, 49 ss. e 64) presenta a mio avviso una maggiore coerenza sistematica e può forse trovare conforto in un indizio che può ricavarsi dalla lettura dei frammenti paolini estratti dal primo libro del commentario edittale (e soprattutto da D. 50.1.26 [F. 13]). In particolare se è certamente vero che sia l’editto sulla cautio damni infecti municipale che quello de fugitivis prevedevano sanzioni nei confronti del magistrato negligente riguardo a un obbligo impostogli dal pretore (per tale collegamento, cfr. Domingo, 1995, in specie 64) e che pertanto i due editti dovevano ragionevolmente essere contigui, è altrettanto vero – e non è in contraddizione con l’assunto precedente – che l’editto sulla cautio damni infecti municipale, concedendo al magistrato di compiere atti riconducibili all’imperium riguardo ai quali, per tal motivo, era di norma incompetente in assenza di delega (v. infra, nt. 55), si poneva altresì probabilmente in uno stretto rapporto di continuità con qualche disposizione successiva e in particolar modo con l’editto de vadimonio Romam faciendo, nel quale si faceva riferimento ai casi in cui, per l’incompetenza del magistrato municipale, si sarebbe dovuto comunque far ricorso all’intervento del pretore, casi tra i quali, stando a quanto affermato in D. 50.1.26 – che credo non si riferisse all’editto sulla cautio damni infecti municipale –, si annoveravano appunto anche tutti quelli che presupponevano l’imperium magistratuale ed erano pertanto di competenza pretoria.
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Giovanni Luchetti contenuto non è facilmente ricostruibile nel dettaglio non fosse altro per il fatto che i compilatori giustinianei unificarono in D. 39.2 de damno infecto et de suggrundis et proiectionibus una disciplina che nell’editto pretorio era dispersa in ben tre diversi luoghi (oltre a quello in esame, v. anche E. 175 e E. 292)54. Per quanto qui più direttamente interessa si può osservare che la rubrica in questione riguardava un editto con cui il pretore attribuiva ai magistrati municipali il potere – esorbitante la loro iurisdictio – di pretendere la cautio damni infecti e, qualora questa non fosse prestata, di concedere al richiedente la relativa missio in possessionem damni infecti nomine rispetto al bene da cui appunto temeva il danno. Vi si prevedeva altresì, corrispondentemente, un’azione contro i magistrati che fossero risultati negligenti nell’esercizio dei poteri così delegati, azione che avrebbe potuto comportare una condanna a pagare una somma pari al pregiudizio subito dall’istante per il fatto che la cautio non fosse stata prestata55. All’editto in questione pare certamente riconducibile D. 39.2.5 (che proviene dall’apposita sedes materiae)56, un testo che si riferisce specificamente alla missio in possessionem damni infecti nomine prevedendo innanzi tutto che solo colui che ne avesse beneficiato ad opera del pretore – che, come è noto, era competente in via esclusiva a concedere la missio in possessionem ex secundo decreto – potesse acquistare con l’uso la proprietà sul bene nel cui possesso fosse stato immesso57. Di seguito vi si stabiliscono inoltre alcune regole di carattere generale valevoli nel caso di pluralità di soggetti cui fosse imposto di prestare la cautio (qui cavere debent) o che potessero sollecitarla (qui caveri sibi desiderant)58. Si precisa al proposito (§ 1) che in caso di pluralità di proprietari tutti dovessero comunque subire la missio in possessionem e che qualora al contrario il provvedimento fosse stato
54 Quanto al tenore della rubrica, v. Lenel, 1927, 53 e, già in precedenza, Id., 1881, 24 (= 1990, I 290). Sul punto, nello stesso senso, cfr. anche Rudorff, 1869, 27 ss. Diversa, ma senza che ciò comporti differenze sul piano sostanziale, la ricostruzione ipotizzata da Lenel, 1889.I, 967 (de damni infecti cautione etc.). Sul punto, con riferimento alla sola cautio, v. anche la rubrica proposta da Krüger, 1905, 897 (de cautione damni infecti). Quanto alla disciplina riassunta dai compilatori in D. 39.2 va rilevato che l’editto in questione riguardava la competenza dei magistrati locali, mentre E. 175 la giurisdizione pretoria; E. 292 conteneva invece le formule delle cautiones ed era pertanto in qualche modo comune a entrambe. 55 Sul punto e sul tenore complessivo della previsione edittale, cfr. Lenel, 1881, 24 (= 1990, I 290), che sottolinea, quanto al primo aspetto, come i magistrati municipali senza un’espressa delega pretoria (cfr. [Ulp. 1 ad ed.] D. 39.2.1: Cum res damni infecti celeritatem desiderat et periculosa dilatio praetori videtur, si ex hac causa sibi iurisdictionem reservaret, magistratibus municipalibus delegandum hoc recte putavit) non avrebbero potuto concedere la missio in bona ex primo decreto e ciò in virtù del fatto che si trattava nel caso di un atto riconducibile piuttosto all’imperium che alla iurisdictio: cfr. (Ulp. 1 ad ed.) D. 2.1.4: Iubere caveri praetoria stipulatione et in possessionem mittere imperii magis est quam iurisdictionis. A questo proposito, sul contenuto e i limiti della delega pretoria, cfr. in specie Simshäuser, 1973, 218. Sui poteri delegati ai magistrati locali v. peraltro già Cuiacius, 1584, 5 s. Sugli atti di competenza dei magistrati municipali v., fra gli altri, anche Nörr, 2001b, 75 ss. e in specie 84 (= 2012, 105 ss. e in specie 116). 56 Sul punto la dottrina è concorde: cfr. in proposito Lenel, 1881, 24 (= 1990, I 290); Id., 1889.I, 967, Paul. 90; Id., 1927, 53, nt. 3; Krüger, 1905, 897; più di recente, Domingo, 1995, 32 ss. e 115 s. 57 Sul punto, per l’interpretazione del testo, v. Cuiacius, 1584, 6 s. La precisazione appare nel contesto del tutto pertinente in quanto il pretore si riservava l’immissione definitiva nel possesso ad usucapionem; come è stato recentemente ribadito da Mantovani, 2005, 162 e nt. 47, al magistrato non spettava infatti la missio ex secundo decreto, né l’actio in factum, né l’ordine ex causa decedere ex possessione, cfr. in proposito (Ulp. 1 ad ed.) D. 39.2.4.3-4. 58 Per l’interpolazione per longi temporis spatium in suum dominium al posto di usu, generalmente ammessa dalla dottrina e accolta da Lenel 1889.I, 967, nt. 7, cfr., per un più ampio quadro bibliografico, gli autori indicati da Levy – Rabel, 1935a, 81.
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Commento emanato a beneficio di più soggetti, costoro fossero tutti immessi nel possesso in parti uguali e non in proporzione al danno che ciascuno potesse subire in relazione al diverso valore del bene che gli fosse appartenuto o alla diversa quota di proprietà che eventualmente vantasse59. Infine (§ 2) si prevede la possibilità che fossero comunque immessi nel possesso sia il proprietario che l’usufruttuario nei limiti dell’interesse di ciascuno – cioè nell’id quod actoris intersit – e pertanto comunque senza danno per chi si trovasse a subire il provvedimento in questione60. F. 9 – D. 50.8.9(7) Sembra poi – anche se con qualche maggiore incertezza – che al commento di questo stesso editto appartenesse anche il testo di D. 50.8.9(7) che fa riferimento alla responsabilità dell’avente potestà, nel caso in cui il figlio che avesse assunto una magistratura volente patre, avesse, con i propri comportamenti, in qualche modo compromesso il patrimonio municipale; si tratta di circostanza evidentemente diversa e per certi versi più grave rispetto a quella in cui il figlio avesse invece semplicemente mancato ai doveri del suo ufficio e in particolare avesse mancato di esigere, laddove necessario, la prescritta cautio, ipotesi da cui peraltro è comunque plausibile ritenere che Paolo abbia preso spunto per compiere la precisazione riferita in D. 50.8.9(7)61. Nel caso prospettato, secondo l’opinione giulianea, che – è forse opportuno rilevarlo – ricorre per la seconda volta nei pochi frammenti iniziali del commentario paolino che ci sono pervenuti (cfr. in precedenza la citazione presente in D. 2.4.19 [F. 6]), il pater familias avrebbe dunque dovuto rispondere in solidum – e quindi pienamente e illimitatamente – a differenza del caso della semplice negligenza rispetto alla clausola edittale commentata, circostanza che – a quanto sembrerebbe doversi ritenere – avrebbe piuttosto circoscritto la responsabilità paterna nei limiti del peculio62.
59 Sul testo di D. 39.2.5.1, sul principio dell’aequaliter mittere e per le ragioni della sua enunciazione, v. in particolare l’ampia discussione di Branca, 1937, 154 ss. (con ulteriore indicazione di fonti). 60 Sulla previsione di D. 39.2.5.2, v. in specie Kaser, 1935, 211 e nt. 24, nonché Medicus, 1962, 270. Sul punto, più in generale, v. anche le osservazioni di Tafaro, 1975, 74 s. e 89 s., ntt. 33-34. 61 Si deve ricordare che il testo di (Ulp. 1 ad ed.) D. 27.8.6 si riferisce invece al magistrato negligente che abbia mancato di esigere la cautio rem pupilli salvam fore. Sulla controversa questione della trasmissibilità agli eredi della relativa azione, questione risolta in senso positivo da un rescritto di Antonino Pio contro le divergenti opinioni di Giuliano e di Marcello, cfr. anche (Ulp. 3 disp.) Fragm. Argent. IIb verso, su cui, con riferimento alle diverse opinioni riguardo al regime dell’azione, v. Gomez-Iglesias, 1992, 269 ss. Si deve aggiungere che Lenel, 1889.II, 421, Ulp. 172, colloca D. 27.8.6 nell’introduzione al titolo edittale riguardante i magistrati e la giurisdizione municipale (sul punto cfr. anche Id., 1927, 51, nt. 1), ma secondo Domingo, 1995, 35 ss. e 106, anche tale testo sarebbe da collocare a commento dell’editto relativo alla cautio damni infecti municipale, in quanto sarebbe possibile che originariamente i poteri delegati dal nostro editto riguardassero non solo la cautio damni infecti, ma anche le altre cautiones e in particolare quella relativa alla protezione del patrimonio pupillare. 62 Il testo, come vide già Lenel, 1881, 28 (= 1990, I 294), appare infatti da porre in stretta relazione contenutistica con quello di (Ulp. 36 ad ed.) D. 27.8.1.17, che al contrario ammetteva, citando a sua volta l’opinione di Giuliano, che il pater familias rispondesse de peculio indipendentemente dal fatto che il figlio avesse ottenuto la carica municipale con o senza il suo consenso, nel caso in cui non avesse curato che fosse prestata la cautio rem pupilli salvam fore o che fosse prestata in maniera adeguata (v. anche [Ulp. 29 ad ed.] D. 15.1.3.13, con riferimento alla conforme opinione di Papiniano). Peraltro, sulla più grave responsabilità paterna nel caso prospettato da D. 50.8.9(7), v. in breve, anche con riferimento al testo di (Ulp. 2 opin.) D. 50.4.3.5, Kaser, 1986, 37 e nt. 139.
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Giovanni Luchetti Con il testo appena considerato si conclude la rassegna dei frammenti del commentario paolino imputabili alla previsione edittale relativa alla cautio damni infecti municipale. È invece da escludere – per quanto già detto – l’appartenenza al commento dell’editto de quo della coppia D. 2.4.19 [F. 6] e 21 [F. 7a], nonché del testo di D. 50.16.4 [F. 11] per la circostanza – anche questa già evidenziata – che, nella sequenza D. 50.16.1-4, i fr. 2 [F. 10] e 3 già si riferiscono, con ragionevole certezza, alla trattazione dell’editto de vadimonio Romam faciendo. Sia pure con qualche maggiore cautela, pare da escludere l’appartenenza al commento dell’editto in questione anche di D. 50.1.26 [F. 13] e D. 50.17.105 [F. 14]63. A questo proposito va sottolineato che il fatto che D. 50.17.105 non potesse essere collocato nel commento relativo all’editto sulla cautio damni infecti municipale sembra con ragionevole certezza accertabile alla luce dell’esame dell’ordine bluhmiano, che ci permette di notare che, nella sequenza D. 50.17.102-106, il fr. 104 (tratto dal secondo libro del commentario edittale ulpianeo) già si riferiva, con ogni probabilità, alla trattazione dell’editto de vadimonio Romam faciendo, circostanza questa che porta ad escludere che il fr. 105 possa collocarsi a commento di un editto precedente e fa venir meno il collegamento ipotizzato da Lenel fra D. 50.17.105 e D. 39.2.4.4 in relazione al divieto imposto ai magistrati municipali di ordinare la missio in possessionem ex secundo decreto64. Sulla base dell’esame della sequenza D. 50.1.25-29, non può del resto non cadere anche la possibilità che, come vorrebbe lo stesso Lenel, il testo di D. 50.1.26 seguisse nella ricostruzione del commentario paolino all’editto quello di D. 50.1.28 [F. 15]65. Rimane semmai il dubbio che D. 50.1.26 si riferisca all’editto in esame e che il fr. 28 fosse collocato a commento di un editto successivo66. L’ipotesi da un lato – come si è detto – fa però venir meno lo stretto collegamento già ipotizzato da Lenel fra D. 50.1.26 e D. 50.17.105 e, per quanto non contraddica forse la già citata sequenza D. 50.1.25-29, non sembra da preferire rispetto all’altra possibile che vuole piuttosto i tre frammenti tutti parte del commento a un unico editto, necessariamente posto dopo quello sulla cautio damni infecti municipale in quanto D. 50.1.28 e D.
63 Che tali testi siano stati invece escerpiti dal commento all’editto relativo alla cautio damni infecti municipale fu sostenuto da Lenel, 1881, 24 e nt. 26 (= 1990, I 290 e nt 26), che successivamente ne sottolineò la stretta relazione, cfr. Id., 1889.I, 967, Paul. 92. Sul punto v. anche Id., 1927, 53 e nt. 3. La scelta palingentica leneliana è ancora accolta da Domingo, 1995, 33 e 115. Cfr. anche Krüger, 1905, 897, sia pure con riferimento al solo D. 50.17.105. 64 Per tale collegamento, cfr. Lenel, 1881, 24 (= 1990, I 290), nonché Id., 1927, 53 e nt. 6. Sulla collocazione di D. 50.17.105 ritornerò infra, 125 s. Si può qui intanto osservare che D. 50.17.104, essendo tratto dal secondo libro del commentario ulpianeo, si riferiva a un editto certamente posteriore a quello qui considerato che era ancora commentato nella parte finale del primo. A ciò si aggiunga che la sequenza D. 50.17.102-106, in quanto inserita nel titolo D. 50.17, risulta particolarmente attendibile ai nostri fini per essere proprio tale titolo uno di quelli in cui le deviazioni dall’ordine sono in assoluto meno frequenti. 65 Così infatti Lenel, 1889.I, 967, Paul. 92 (D. 50.1.26) e 966, Paul. 83 (D. 50.1.28). L’incongruenza fu notata da Krüger, 1905, 897, il quale infatti ipotizzò che entrambi i frammenti provenisero dal commento dell’editto si quis ius dicenti non obtemperaverit (contro questa ipotesi v. però supra, 106 s.). 66 Il contenuto di D. 50.1.26 del resto ben potrebbe adattarsi al commento dell’editto sulla cautio damni infecti e sulla eventuale relativa missio in possessionem, dato che si trattava, come è noto, di atti magis imperii quam iurisdictionis (v. supra, nt. 55), che come tali erano appunto preclusi, in mancanza di delega pretoria, ai magistrati municipali, cfr. D. 50.1.26: Ea, quae magis imperii sunt quam iurisdictionis, magistratus municipalis facere non potest. (1) Magistratibus municipalibus non permittitur in integrum restituere aut bona rei servandae causa iubere possideri aut dotis servandae causa vel legatorum servandorum causa.
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Commento 50.17.105 sono entrambi collocati nelle rispettive sequenze di seguito a due frammenti tratti dal secondo libro del commentario all’editto ulpianeo67. [Sul vadimonio che deve essere prestato da colui che deve comparire a Roma (E. 5)] Secondo la ricostruzione leneliana all’editto de fugitivis – che tuttavia a mio avviso forse precedeva e non seguiva quello sulla cautio damni infecti municipale – avrebbero fatto seguito una o più disposizioni edittali non più ricostruibili, ma riferibili comunque, a loro volta, alla giurisdizione municipale68. Le uniche disperse tracce sarebbero sopravvissute nei tre frammenti del primo commentario edittale di Paolo che Lenel non riusciva ad attribuire a nessuna delle trattazioni relative agli editti precedenti (D. 50.16.2 [F. 10], D. 50.16.4 [F. 11] e D. 5.3.4 [F. 16]) e che appunto poneva – dopo tutti gli altri – alla fine del primo libro69. La soluzione del problema, la risposta alle questioni poste, ma non risolte da Lenel sta probabilmente nella necessità di superare l’opinione dell’autore tedesco laddove, nella propria proposta palingenetica, da un lato tendenzialmente escludeva che la trattazione relativa allo stesso editto potesse articolarsi su due diversi libri, dall’altro individuava la trattazione dell’editto de vadimonio Romam faciendo nel secondo, il che, coerentemente con le premesse, impediva che del vadimonio si parlasse già nella parte finale del primo70. Peraltro l’ipotesi
67 Sul punto v. infra, 123 ss. Rodger, 1997, 175 ss., li colloca tutti e tre a commento dell’editto sul vadimonium, cui riporta anche (Gai. 1 ad ed. prov.) D. 50.1.29, che fu invece posto da Lenel, 1889.I, 189, Gai. 53, a commento dell’editto si quis ius dicenti non obtemperaverit (sul punto cfr. anche Lenel, 1927, 51 e nt. 5). L’ipotesi che D. 50.1.26 si riferisse all’editto sulla cautio damni infecti municipale e che D. 50.1.28 fosse invece posto a commento di un editto successivo è invece sostenuta da Domingo, 1995, 115 s., che tuttavia, seguendo Lenel, conserva D. 50.17.105 accanto a D. 50.1.26, soluzione questa che, come abbiamo visto, è però comunque a sua volta incompatibile con l’ordine Bluhme-Krüger. 68 Cfr. Lenel, 1889.I, 967 ss.; Id., 1927, 54 s. In precedenza lo stesso Lenel ebbe piuttosto a ipotizzare che all’editto de fugitivis seguisse, a chiusura del primo libro di Paolo, una rubrica ad edictum Hadriani con cui il pretore – come nel caso della delega di competenze in materia di missio in possessionem damni infecti nomine – avrebbe autorizzato i magistrati locali a compiere la missio dell’erede testamentario ex edicto divi Hadriani: cfr. Id., 1881, 31 ss. (= 1990, I 297 ss.). Per quanto riguarda la possibilità che l’editto de fugitivis potesse precedere e non seguire quello sulla cautio damni infecti municipale, v. quanto osservato supra, nt. 53. 69 Per tale ultima scelta ricostruttiva, cfr. già Cuiacius, 1584, 13 ss., che ai tre frammenti peraltro aggiungeva D. 47.23.2 [F. 3], testo per la cui collocazione nel commento all’editto si quis ius dicenti non obtemperaverit v. però supra, 105 s. Sostanzialmente nello stesso ordine di idee di Lenel si pose successivamente anche Krüger, 1905, 897, che a sua volta collocava sotto due distinte rubriche, entrambe incerte, sia D. 50.16.2 che D. 5.3.4, mentre diversamente avveniva per D. 50.16.4 che veniva piuttosto posto a commento dell’editto sulla cautio damni infecti municipale (sul punto cfr. tuttavia supra, 106). Domingo, 1993, 26 s., 31 s., 43, 57 e Id., 1995, 116, ha a sua volta ritenuto che i tre frammenti fossero parte – insieme ad altri – di un contesto unitario, individuato però dall’autore spagnolo nel commento dell’editto (E. 5) a suo avviso dedicato a una trattazione in generale di vari aspetti della giurisdizione, con particolare riferimento ai limiti della competenza giurisdizionale dei magistrati municipali rispetto a quella del pretore (sul punto, per una critica alla ricostruzione leneliana, v. specificamente Id., 1992, 28 ss.). 70 Quanto al primo aspetto cfr., in generale, Lenel, 1927, 542. Per quanto riguarda l’editto de vadimonio Romam faciendo e in particolare per la collocazione del relativo commento nel secondo libro del commentario paolino, cfr. Id., 1927, 55 s. (cfr. anche Id., 1889.I, 968). Sul punto v. già ampiamente anche Id., 1881, 35 ss. (= 1990, I 301 ss.). Si deve qui ulteriormente osservare che, benché la formulazione della rubrica sia congetturale, la dizione è comunemente accettata già da Rudorff, 1869, 26; anche Domingo, 1993, 54 ss., che pure esclude in generale la presenza di rubriche relative ai singoli editti (cfr. Id., 1992, 28 e, più ampiamente, in precedenza, Id., 1991, 290
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Giovanni Luchetti ricostruttiva leneliana, già messa in discussione all’indomani della sua prima formulazione, può forse essere definitivamente rivista alla luce di alcune recenti indagini che inducono a ritenere plausibile che già alla fine del primo libro del suo commentario Paolo si fosse occupato dell’editto de vadimonio Romam faciendo71, cioè di quell’editto che regolamentava la possibilità che il convenuto davanti a un magistrato locale per una causa che esorbitasse i suoi limiti di competenza72 si impegnasse, prestando un apposito vadimonium (e quindi attraverso una stipulazione che prevedesse in caso di inosservanza il pagamento di una penale in denaro commisurata al valore della causa), a presentarsi a Roma in un luogo stabilito, in un certo giorno e a una certa ora al fine di sottoporre appunto la questione controversa all’attenzione del pretore, prevedendo che l’indebito rifiuto potesse essere sanzionato attraverso la concessione di un’azione penale73. Più in particolare Rodger, attraverso una meticolosa analisi della sequenza D. 50.16.2-4 da lui condotta anche alla stregua del criterio ricostruttivo costituito dall’ordine Bluhme-Krü-
ss.), non discute che vi fossero nell’editto specifiche previsioni relative al vadimonium Romam, pur ipotizzando tuttavia che a tale vadimonium non fosse dedicato un editto indipendente, ma semplici clausole collocate nell’ambito dell’editto sulla giurisdizione da lui ipotizzato (E. 5) e qui già più volte richiamato: sul punto e per la possibilità che vi fossero anzi due diverse clausole sul vadimonium Romam, cfr. Domingo, 1993, 34. 71 Tale ipotesi, formulata originariamente da Girard, 1904, 140 ss., è ora ripresa con ricchezza di argomentazioni e con un’ampia disamina testuale da Rodger, 1997, 160 ss. Sul punto, v. anche, nello stesso senso, Johnston, 1997, 65 e nt. 43, che a sua volta ritiene che Paolo si occupasse del vadimonium sia nella parte conclusiva del primo libro che nel secondo (almeno nella prima parte, visto che per la seconda propende invece per l’ipotesi che anche il commentario paolino contenesse un’introduzione al titolo edittale de iurisdictione, analoga a quella ipotizzata da Lenel per il commentario ulpianeo). 72 Per l’obbligo del convenuto di presentarsi comunque davanti al magistrato municipale, anche qualora quest’ultimo fosse privo di giurisdizione ad casum, cfr. (Paul. 1 ad ed.) D. 2.5.2pr. [F. 4]: Ex quacumque causa ad praetorem vel alios, qui iurisdictioni praesunt, in ius vocatus venire debet, ut hoc ipsum sciatur, an iurisdictio eius sit. Sul principio processuale – attestato anche da (Ulp. 5 ad ed.) D. 5.1.5 – secondo cui il giudice davanti al quale fosse compiuta la chiamata in giudizio era comunque competente – si trattasse del pretore o del magistrato municipale – ad accertare la giurisdizione, cfr., con specifico riferimento al testo paolino, quanto detto supra, 108 s. 73 Sulla natura di tale vadimonio, cfr. in sintesi Domingo, 1993, 54 s., che sottolinea come si trattasse di un vadimonio processuale, in quanto appunto prestato in iure alla presenza del magistrato. Sul punto, per la distinzione tra Ladungs- o Zitationsvadimonium e Vertagungs- o Dilationsvadimonium, v. in specie Giménez-Candela, 1982, 126 ss. Sul vadimonium Romam, v. altresì Metzger, 2000, 157 ss. Quanto al fatto che il convenuto si impegnasse a presentarsi a Roma non necessariamente davanti al pretore, ma semplicemente in un luogo concordato per poi recarsi davanti al magistrato, v. in specie Wolf, 1985, 62 ss.; cfr. anche Cloud, 2002, 161 ss., il quale a sua volta ritiene che il vadimonium Romam fosse un particolare tipo di Ladungsvadimonium giudiziale e che in quanto tale non richiedesse l’impegno del convenuto di presentarsi davanti al pretore, ma appunto solo a Roma in un luogo stabilito. Una testimonianza esplicita riguardo a tale vadimonium è quella di lex Rubria de Gallia Cisalpina, c. 21, ll. 21-24: … quo minus in eum, quei ita vadimonium Romam ex decreto eius, quei ibei i(ure) d(eicundo) p(raerit), non promeisserit aut vindicem locupletem ita non dederit, ob e(am) r(em) iudicium recup(eratorium) is, quei ibei i(ure) d(eicundo) p(raerit), ex h(ac) l(ege) det iudicareique d(e) e(a) r(e) ibei curet, ex h(ac) l(ege) n(ihilum) r(ogatur). Il testo fa riferimento al vadimonium Romam imposto ex decreto (ma la testimonianza non sembra valere appieno sotto questo profilo per l’età del principato postadrianeo, cfr. infra, ntt. 97 e 100) dal magistrato locale incompetente (per il testo e il suo commento cfr. in specie Bruna, 1972, 34 ss. e 182 ss.). Con riferimento al diverso vadimonium da prestare in provincia e volto a garantire la comparizione davanti al tribunale del governatore (cioè il vadimonium in eum locum in quo is erit, qui ei provinciae praeerit), cfr. anche lex Irnitana, c. 84, ll. 20-23: …et omnium rerum q(uae) [s(upra) s(cripta) sun]t de vadimonio promittendo in eum lo[cum q]uo is erit qui ei provinciae praerit, futurusve esse videbitur eo die in quem ut vadimonium promittatur postulabitur, IIvir(i) qui ibi i(ure) d(icundo) praeerit… (testo su cui v. in particolare le osservazioni di Burton, 1996, 217 ss., nonché di Wolf 2000, 53 e nt. 151 [con discussione della bibliografia precedente]).
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Commento ger74, ha dimostrato che i primi due frammenti paolini sopra riprodotti non possono che ragionevolmente far parte per la loro collocazione – e per lo stesso tenore di D. 50.16.2 [F. 10] e 3 – proprio del commento all’editto sul vadimonio75. F. 10 – D. 50.16.2 Per il fr. 2 valgono soprattutto considerazioni di carattere contenutistico e appunto la contiguità con il successivo fr. 3 che già Lenel riteneva parte del commento ulpianeo all’editto de vadimonio Romam faciendo76; si deve infatti al proposito notare che D. 50.16.2 contiene nel suo principium77 una definizione per differentiam volta a fissare in via interpretativa il diverso valore semantico da attribuire al termine Roma rispetto a quello di urbs78, circostanza che ben si adatta all’idea che qui il giurista volesse spiegare, sia pure su un piano essenzialmente teorico, quale fosse la differenza concettuale tra i due termini e come il primo (Roma) – forse presente nell’editto79 – avesse significato più ampio riferendosi a tutto il territorio edificato della città,
74 Sulla questione, con riferimento ai testi in esame, v. specificamente Rodger, 1997, 165 s.; sul punto, cfr. altresì Johnston, 1997, in particolare 57 s. e 69 s. 75 Sul punto – per il superamento dei dubbi di Lenel – v. l’ampia discussione fornita da Rodger, 1997, 166 ss. Per quanto specificamente riguarda D. 50.16.4, cfr. anche Johnston, 1997, 63, nt. 35. Quanto invece a D. 50.16.2 l’idea che commentasse l’editto sul vadimonium non è certo nuova: cfr., nella letteratura più risalente, ad esempio Rudorff, 1869, 26 e Girard, 1904, 143 s. Per quanto specificamente riguarda D. 50.16.2.1, v. anche Domingo, 1993, 57 e Id., 1996, 179. 76 Cfr. (Ulp. 2 ad ed.) D. 50.16.3: ‘Itinere faciendo viginti milia passuum in dies singulos peragenda’ sic sunt accipienda, ut, si post hanc dinumerationem minus quam viginti milia supersint, integrum diem occupent. veluti viginti unum milia sunt passus: biduum eis adtribuetur. quae dinumeratio ita demum facienda erit, si de die non conveniat. (1) Eius, qui apud hostes decessit, dici hereditas non potest, quia servus decessit. Per la collocazione del frammento cfr. Lenel, 1889.II, 425 e 426, Ulp. 205 e 209, nonché Id., 1927, 56. Sul punto, cfr. anche, in precedenza, Id., 1881, 36 e 42 (= 1990, I 302 e 308). Per una opinione analoga, v. altresì Domingo, 1993, 58 s. (anche con riferimento a [Gai. 1 ad ed. prov.] D. 2.11.1). 77 Sul testo di D. 50.16.2pr. e per un’analisi del suo contenuto cfr. in specie Murga, 1975, 43 e nt. 7; Id., 1978a, 300 e nt. 17; Id., 1978b, 105 e nt. 29. Per l’ipotesi che in D. 50.16.2pr. le parole quod latius patet abbiano carattere glossematico cfr. Behrends, 1971, 257 nt. 171. 78 Che si tratti di una definizione per differentiam è stato a mio avviso giustamente sostenuto da Marrone, 1994, 593 (= 2003, I 539). Per una sfumatura diversa, v. Martini, 1966, 292, nt. 412, che annovera il testo tra quelli che non conterrebbero vere definizioni, ma sarebbero: “relativi in qualche modo al significato d’un termine”. Sul punto, sulla distinizione tra urbs e Roma, in termini sostanzialmente analoghi, v. anche (Marcell. 12 dig.) D. 50.16.87: Ut Alfenus ait, ‘urbs’ est ‘Roma’, quae muro cingeretur, ‘Roma’ est etiam, qua continentia aedificia essent: nam Romam non muro tenus existimari ex consuetudine cotidiana posse intellegi, cum diceremus Romam nos ire, etiamsi extra urbem habitaremus. La distinizione tra Roma e urbs Roma ritorna ancora in (Paul. 4 ad Sab.) D. 33.9.4.4: Si ita legetur ‘penum, quae Romae sit’, utrum quae est intra continentia, legata videtur an vero ea sola, quae est intra murum? et quidem urbes fere omnes muro tenus finiri, Romam continentibus, et urbem Romam aeque continentibus. 79 Che almeno uno o entrambi i termini fossero presenti nell’editto fu ipotizzato già da Rudorff, 1869, 26 e da Girard, 1904, 143 s. La distinzione fatta nel testo esclude tuttavia, a mio avviso, che il passo commenti le parole edittali urbis Romae, così come, invece, ritiene Domingo, 1993, 26 s., che le vorrebbe inserite nell’editto sulla competenza giurisdizionale da lui ipotizzato (E. 5) (per altri casi in cui i termini urbs e Roma risultano affiancati, v. peraltro Id., 1993, 88 e Id., 1996, 176 e 182). D’altra parte si può aggiungere che non sembra attinente alla questione qui esaminata il testo di Prob., de notis iuris fragmenta 6.20 (v. FIRA, II, 458) che parrebbe a sua volta far riferimento all’espressione urbis Romae (V.R.): sul punto cfr. le osservazioni di Rodger, 1997, 169, nt. 44, di cui peraltro non mi sembra invece di poter condividere l’idea che qui Paolo stesse commentando la rubrica dell’editto sul vadimonio (cfr. Id., 1997, 170 s. e 173).
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Giovanni Luchetti a differenza del secondo (urbs), volto a indicare piuttosto – secondo l’antico significato del vocabolo – quella parte della città racchiusa all’interno delle mura80. Nel medesimo ordine di idee sembra porsi anche il § 1 dello stesso D. 50.16.2, che risulta rivolto a fornire l’interpretazione delle parole cuiusque diei maior pars, espressione che, come è noto, si riscontra anche in lex Irnitana, c. 85, ll. 36-37 e c. 86, ll. 22-23, con riferimento alla modalità della pubblicazione di atti giuridicamente rilevanti (editto del governatore, liste dei giudici) a fini di pubblicità81. In quest’ottica – come è stato sostenuto ed è generalmente ammesso – la circostanza che si precisi come con tale espressione si facesse riferimento alle prime sette ore del giorno (cioè alle ore della mattina fino alle 13 circa) è probabilmente in qualche modo, a sua volta, da mettere in relazione con la pubblicazione di regole attinenti alla prestazione del vadimonium, come potevano essere, ad esempio, quelle sui tempi minimi concessi al convenuto per recarsi a Roma o quelle relative ai tempi feriali fissati dal calendario giudiziario82. F. 11 – D. 50.16.4 Se il fr. 2 [F. 10] appare dunque nel suo complesso connesso alla trattazione del vadimonium per ragioni essenzialmente contenutistiche, al fr. 4 sembra a sua volta dover toccare lo stesso destino, ma prevalentemente in ragione di un dato formale e cioè della sua collocazione dopo il fr. 3, circostanza che comporta, in virtù dell’applicazione del criterio ricostruttivo derivato dall’ordine Bluhme-Krüger, che D. 50.16.4 non possa commentare un editto precedente a quello de vadimonio Romam faciendo, ma neppure uno successivo per essere da un lato, come D. 50.16.2, escerpito dal primo libro del commentario paolino, dall’altro sul presupposto, accettato da Lenel, che ancora nel secondo libro il giurista severiano commentasse lo stesso editto sul vadimonio83.
80 La questione di cui si dà conto in D. 50.16.2pr. appare dunque attinente al tema del vadimonium, anche se non riguarda probabilmente il calcolo delle distanze, come fu invece sostenuto da Girard, 1904, 143 s. e nt. 1, ma è forse da connettere al fatto che il convenuto si impegnava appunto a presentarsi a Roma in un certo luogo e in una certa data, benché, come sottolineato da Rodger, 1997, in specie 172 s., il problema risulti in questi termini di rilievo prevalentemente teorico. Diversamente Lenel, 1881, 33 s. (= 1990, I 299 s.), che esclude ogni collegamento del testo con il commento dell’editto sul vadimonio, ma sulla base dell’erronea convinzione che l’impegno assunto dal convenuto avesse per oggetto di presentarsi davanti al pretore e non semplicemente a Roma, in un qualunque luogo pattuito (sul punto v. supra, nt. 73). 81 Diversamente, per l’opinione che il testo abbia a che fare con l’orario in cui il convenuto si impegnava a comparire davanti al pretore, v. Rudorff, 1869, 26 s. e Girard, 1904, 144. Che l’espressione faccia riferimento alla pubblicità degli atti fu intuito tuttavia già da Lenel, 1881, 33 (= 1990, I 299). Sul punto, per l’opinione che sia da porre in relazione con gli annunci pubblici, cfr. in particolare Domingo, 1993, 57 e Id., 1996, 179, nonché, successivamente, Rodger 1997, 174. 82 Sul punto, cfr. le osservazioni e le ipotesi formulate da Rodger, 1997, in specie 174. Che il testo di D. 50.16.2.1 facesse riferimento a qualche particolare disposizione in materia di pubblicazione fu del resto già ipotizzato da Lenel, 1927, 54, nt. 13. 83 Quanto all’impossibilità di collocare D. 50.16.4 a commento di un editto precedente, v. quanto detto supra 106 e 117 ss., con riferimento alle diverse ipotesi formulate da Krüger, 1905, 897, che lo pose a commento dell’editto sulla cautio damni infecti municipale e Domingo, 1992, 79 e 83, che invece ebbe a collocarlo a commento dell’editto si quis ius dicenti non obtemperaverit (ma per una diversa ipotesi ricostruttiva, v. anche, successivamente, Id., 1993, 32 nt. 61 e Id., 1995, 116). Quanto all’applicazione nel caso di specie del criterio dell’ordine bluhmiano, v. altresì Rodger, 1997, 168.
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Commento Il breve passo – dalla cui lettura risulta assai difficile inferire con qualche sicurezza il contesto in cui era originariamente collocato – si sofferma, facendo riferimento all’opinione di Proculo, sull’ampiezza di significato del termine nomen, circostanza che fa ragionevolmente pensare che il vocabolo – che sappiamo utilizzato con le più varie valenze semantiche e che nel contesto di riferimento è in qualche modo indicato come sinonimo di res – si incontrasse a sua volta nell’editto sul vadimonio, forse – ma qui si tratta davvero di un’ipotesi del tutto congetturale – con riguardo alla definizione di elementi che sappiamo rilevanti al fine della fissazione della competenza, come quelli del valore della controversia, in relazione alla possibilità che quest’ultima avesse appunto per oggetto crediti derivanti da obbligazioni o più specificamente da contratti (nomina) o cose corporali (res)84. F. 12 – D. 2.12.4 È possibile che in stretta connessione con il commento delle parole edittali il giurista si soffermasse anche sul fatto che talvolta il vadimonium non poteva essere imposto perché doveva ritenersi esclusa la legittimità della in ius vocatio. In questo quadro dello stesso commento all’editto de vadimonio Romam faciendo sembrerebbe aver fatto parte anche D. 2.12.4, relativo alla fissazione del tempus messis vendemiarumque nelle province e ciò nonostante la diversa opinione di Lenel che ebbe piuttosto a collocarne il testo a commento dell’editto relativo all’in ius vocare davanti ai magistrati locali, sottolineandone in particolare il collegamento con la chiusa di D. 2.5.2.1 [F. 4] (…puta quia feriatus dies fuit)85. L’ipotesi qui sostenuta appare avva-
84 Sul termine nomen, che nel contesto di D. 50.16.4 assumerebbe il significato di credito, cfr. Domingo, 1992, 79. Sul punto v. già Cuiacius, 1584, 16, che – pur riferendo il testo al commento dell’editto relativo all’in ius vocare davanti ai magistrati municipali – ipotizza che con il termine nomen si individui la res in quanto oggetto dell’obbligazione. Sulla sostanziale sinonimia che assumono nel contesto i due vocaboli, v. anche Lenel, 1881, 33 (= 1990, I 299). Si può aggiungere che la circostanza sembra trovare qualche conforto in (Paul. 2 ad ed.) D. 50.16.5pr. [F. 22] (‘Rei’ appellatio latior est quam ‘pecuniae’, quia etiam ea, quae extra computationem patrimonii nostri sunt, continet, cum pecuniae significatio ad ea referatur, quae in patrimonio sunt) e soprattutto in (Ulp. 3 ad ed.) D. 50.16.6pr. (‘Nominis’ et ‘rei’ appellatio ad omnem contractum et obligationem pertinet), testi collocati secondo Lenel rispettivamente a commento dell’editto de vadimonio Romam faciendo e nell’introduzione al titolo edittale de iurisdictione (cfr. Id., 1889.I, 968, Paul. 105 e Id., 1889.II, 427, Ulp. 215), ma che probabilmente, nel loro ritornare sul significato da attribuire ai termini res e nomen, vanno attribuiti, se non al commento dello stesso editto sul vadimonio (così, un po’ semplicisticamente, Girard, 1904, 144; che i tre testi facessero parte del commento allo stesso editto è ora sostenuto anche da Domingo, 1993, 31 ss., che li colloca tutti nel commento all’editto sulla giurisdizione da lui ipotizzato [E. 5]), al commento di un provvedimento edittale analogo o comunque connesso a quello sul vadimonio e in cui ricorrevano forse gli stessi termini. Per tentare di meglio contestualizzare il testo di D. 50.16.4 si può aggiungere che in lex Irnitana, c. 84, l. 1 si utilizza il termine res per fare riferimento generico alle azioni e alle situazioni rispetto alle quali si stabiliva un limite quantitativo di competenza. Fossero o meno i due termini inseriti nei verba edicti, si può dunque immaginare che i giuristi sentissero il bisogno di dire che erano nel caso specifico equivalenti indicando entrambi, benché forse sotto diversi profili, l’oggetto della controversia. 85 Sul testo di D. 2.12.4, cfr. brevemente Schmiedel, 1966, 31. Per la collocazione a commento dell’editto sull’in ius vocare, cfr. Lenel, 1881, 23 (= 1990, I 289); Id., 1889.I, 967 e nt. 5, Paul. 88, nonché Id., 1927, 52, nt. 5, in cui si evidenzia altresì il collegamento con (Ulp. 4 de omn. trib.) D. 2.12.1pr.: Ne quis messium vindemiarumque tempore adversarium cogat ad iudicium venire, oratione divi Marci exprimitur, quia occupati circa rem rusticam in forum conpellendi non sunt. Il ragionamento dello studioso tedesco appare dunque sufficientemente chiaro: l’azione penale pretoria prevista contro chi in ius vocatus non si fosse recato davanti al magistrato (sul punto, con riferimento a D. 2.5.2.1 [F. 4], v. supra, 108 s.) non avrebbe potuto trovare applicazione – salvo che non si trattasse di materie escluse (cfr. infra, ntt. 86 e 88) – nel caso in cui si fosse agito nel tempus messis vindemiarumque e quindi in un periodo di ferie giudiziarie.
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Giovanni Luchetti lorata dal fatto che già lo stesso Lenel ipotizzava che all’editto sul vadimonio si riferisse il frammento parallelo di D. 2.12.3, in cui Ulpiano enumerava i casi in cui la iurisdictio poteva essere esercitata in via di eccezione anche nei periodi di ferie giudiziarie, circostanza questa che vale a dimostrare in concreto come l’editto sul vadimonio dovesse prestare occasioni di discussione anche in relazione al tempus messis vindemiarumque86. A ciò si può aggiungere che tale ipotesi ricostruttiva sembra ora avvalorata anche alla luce della testimonianza fornita da lex Irnitana, c. 49 – in specie ll. 40-42 – in cui si precisa che nel tempus messis vendemiarumque non poteva essere neppure imposto il vadimonium, salvo che non si trattasse appunto di materie escluse dalla normale osservanza del calendario giudiziario, circostanza questa che conferma come la questione delle ferie giudiziarie stabilite per lo svolgimento delle attività agricole si ponesse in effetti in stretta connessione con il nostro tema87. Si tratta più precisamente di un breve testo in cui Paolo, forse nell’ambito di un excursus dedicato a spiegare le modalità dell’individuazione del periodo delle ferie presso i singoli organi giudiziari, fa riferimento alla competenza dei governatori provinciali in relazione alla fissazione delle date dei raccolti e delle vendemmie – appunto variabili secondo i luoghi e gli usi locali – e per la conseguente determinazione dei periodi in cui non si poteva amministrare la giustizia nella provincia, salvo che non ci si trovasse in presenza di materie espressamente escluse da tale limitazione88 o non intervenisse un diverso accordo delle parti
86 Quanto alla collocazione di (Ulp. 2 ad ed.) D. 2.12.3 (Solet etiam messis vindemiarumque tempore ius dici de rebus quae tempore vel morte periturae sunt. morte: veluti furti: damni iniuriae: iniuriarum atrocium: qui de incendio ruina naufragio rate nave expugnata rapuisse dicuntur: et si quae similes sunt. item si res tempore periturae sunt aut actionis dies exiturus est. [1] Liberalia quoque iudicia omni tempore finiuntur. [2] Item in eum, qui quid nundinarum nomine adversus communem utilitatem acceperit, omni tempore ius dicitur) a commento dell’editto de vadimonio Romam faciendo, cfr. Lenel, 1881, 36 (= 1990, I 302) e Id., 1889.II, 425, Ulp. 206; più in generale, v. anche Id., 1927, 55, nt. 3. L’ipotesi formulata da Lenel è stata in un primo tempo seguita anche da Domingo, che tuttavia successivamente (cfr. Id., 1995, 21, nt. 12) ha ritenuto che i testi di D. 2.12.3 e 4 (per il passo paolino di D. 2.12.4, v. anche Id., 1995, 116 e nt. 396) facessero parte del commento allo stesso editto, inquadrandoli tuttavia entrambi in quello – da lui ipotizzato – sulla competenza giurisdizionale (E. 5). 87 Sulla questione delle ferie giudiziarie e sulla sua stretta connessione con il vadimonium – con particolare riferimento a lex Irnitana, c. 49, ll. 40-42 (…Inque eos dies vadimonia fieri, nisi de iis rebus de quibus Romae messis vindemiaeve causa rebus prolatis ius dici solet, ne sinunto…) – rinvio alle osservazioni di Domingo, 1993, 57 ss. Più in generale sul testo di lex Irnitana, c. 49, che prevedeva che i decurioni fissassero con decreto il periodo dei raccolti e delle vendemmie e che, sulla base di tale decreto, almeno uno dei duoviri emanasse un editto in cui si stabiliva tra l’altro che in tale periodo dovesse cessare ogni attività pubblica, con la sola esclusione delle attività giudiziarie comunque permesse a Roma anche durante tali periodi, v. La Rosa, 1989, 71. Sul punto, con riferimento specifico alla durata del periodo delle ferie giudiziarie fissato ai sensi di lex Irnitana, c. 49 e alle modalità del computo, cfr. anche, per alcune osservazioni, Honoré, 1988, 1436. 88 Sull’esclusione di alcune materie dalla normale osservanza del calendario giudiziario – circostanza cui fa riferimento anche lex Irnitana, c. 49, ll. 36-37 e ll. 40-42 – cfr., oltre al già citato testo di D. 2.12.3 (v. supra, nt. 86), con riferimento ai casi in cui era esclusa la dilazione, anche (Ulp. 4 de omn. trib.) D. 2.12.1.2 (Sed excipiuntur certae causae, ex quibus cogi poterimus et per id temporis, cum messes vindemiaeque sunt, ad praetorem venire: scilicet si res tempore peritura sit, hoc est si dilatio actionem sit peremptura. sane quotiens res urguet, cogendi quidem sumus ad praetorem venire, verum ad hoc tantum cogi aequum est ut lis contestetur, et ita ipsis verbis orationis exprimitur: denique alterutro recusante post litem contestatam litigare dilationem oratio concessit) e, per un elenco analitico delle singole materie che potevano essere appunto oggetto di causa anche durante il tempus messis vendemiarumque, (Ulp. 5 ad ed.) D. 2.12.2 (Eadem oratione divus Marcus in senatu recitata effecit de aliis speciebus praetorem adiri etiam diebus feriaticis: ut puta ut tutores aut curatores dentur: ut officii admoneantur cessantes: excusationes allegentur: alimenta constituantur: aetates probentur: ventris nomine in possessionem mittatur, vel rei servandae causa, vel legatorum fideive commissorum, vel damni infecti: item
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Commento interessate89. Se dunque da un lato la materia trattata ben si adatta a ipotizzare che il frammento sia stato escerpito dal commento all’editto sul vadimonium, dall’altro – a conferma di ciò – l’ordine dello spoglio dei materiali secondo le sequenze bluhmiane dovrebbe ragionevolmente far escludere che D. 2.12.4 possa riferirsi invece – come ipotizzato da Lenel – al commento di un editto precedente a quello cui si riferiva anche D. 2.12.3. Tale osservazione pare a maggior ragione plausibile anche tenuto conto dell’identità di argomento trattato dai due testi e della loro evidente contiguità, circostanza questa che rende a mio avviso allo stato delle fonti non probabile un sia pur possibile rimaneggiamento editoriale dell’ordine dei due frammenti nel già travagliato titolo 2.12 del Digesto, rimaneggiamento che, dopo l’inserimento dei due “passi iniziali” di D. 2.12.1 (che proviene dalla massa Sabiniana) e 2 (tratto dal quinto libro all’editto di Ulpiano), posti come spesso avviene a mo’ di introduzione alla materia trattata, avrebbe altresì comportato un’ulteriore deviazione dall’ordine bluhmiano. Tale deviazione – che appunto non mi sentirei di sostenere e che comunque allo stato della dottrina non risulta essere stata fino ad ora mai ipotizzata – sarebbe stata realizzata in questo caso attraverso la posposizione del fr. 4 rispetto al fr. 3 in quanto eventualmente giustificata dall’opportunità di non interrompere la continuità – peraltro creata artificialmente dai compilatori e non certo originaria – tra quest’ultimo e il fr. 2. Tutto ciò è in astratto possibile, ma – come accennato – si tratta a ben vedere di un terreno troppo instabile e insicuro per sostenere che D. 2.12.4 possa essere stato posto a commento di un editto precededente a quello sul vadimonio ed eventualmente – come per ragioni esclusivamente contenutistiche volle Lenel – a commento di quello sull’in ius vocare davanti ai magistrati locali90. Del commento all’editto de vadimonio Romam faciendo, nonostante una diversa communis opinio, avvalorata anche in questo caso dalla diversa proposta ricostruttiva leneliana, sembra facessero altresì parte D. 50.1.26 [F. 13], D. 50.1.28 [F. 15] e D. 50.17.105 [F. 14]91. Per gli ultimi due, alla luce dell’esame delle sequenze D. 50.1.25-29 e D. 50.17.103-106, si deve infatti escludere – in ragione dell’applicazione del criterio Bluhme-Krüger – che potessero essere posti a
de testamentis exhibendis: ut curator detur bonorum eius, cui an heres exstaturus sit incertum est: aut de alendis liberis parentibus patronis: aut de adeunda suspecta hereditate: aut ut aspectu atrox iniuria aestimetur: vel fideicommissaria libertas praestanda). Con riferimento alla riforma introdotta dall’oratio divi Marci, cfr. in specie Palazzolo, 1991, 91 s. Sul contenuto dell’oratio, che dichiarava invalida la sentenza di un giudice emanata durante il tempo delle ferie giudiziarie e che fissava altresì nel numero di duecentotrenta i dies iudiciarii, ricordando esplicitamente, a quanto pare, che tali non potevano essere considerati quelli che erano appunto destinati ai raccolti e alle vendemmie, cfr. anche d’Ors, 1983, 48 s. 89 Cfr. (Ulp. 77 ad ed.) D. 2.12.6: Si feriatis diebus fuerit iudicatum, lege cautum est, ne his diebus iudicium sit nisi ex voluntate partium, et quod aliter adversus ea iudicatum erit, ne quis iudicatum facere neve solvere debeat, neve quis ad quem de ea re in ius aditum erit iudicatum facere cogat. Quanto alla possibilità di un diverso accordo delle parti che coinvolgesse anche il iudex o i recuperatores, v. anche lex Irnitana, c. 49, ll. 37-40: …res iudicari per eos dies nisi inter omnes quos inter it iudicium erit et iudicem reciperatoresve eorum conveniet, ne sinunto… 90 In senso sostanzialmente conforme a quanto qui sostenuto, cfr. Rodger, 1997, in specie 186 s. Sulla struttura del titolo 2.12 del Digesto, cfr. Honoré, 1973, 286. 91 Con riferimento specifico ai tre testi e con riguardo alle diverse ipotesi ricostruttive formulate dalla dottrina e in particolare da Lenel – che, come è noto, ebbe a collocarli nel commento all’editto si quis ius dicenti non obtemperaverit (D. 50.1.28) e in quello sulla cautio damni infecti municipale (D. 50.1.26 e D. 50.17.105) – cfr. supra, 106 s.
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Giovanni Luchetti commento di un editto precedente92, mentre per il primo – pur in presenza di possibili collocazioni diverse – l’ipotesi qui formulata è l’unica che permette di salvare il rapporto di connessione con D. 50.1.28 e soprattutto con D. 50.17.105 di volta in volta individuato da chi si è occupato della ricostruzione palingenetica del commentario edittale di Paolo93. Quanto al loro contenuto si tratta di testi che in qualche modo hanno tutti a che fare con la definizione dei limiti della giurisdizione municipale (D. 50.1.26 e D. 50.17.105) e con la loro eventuale deroga pattizia (D. 50.1.28). A questo proposito va qui ricordato che la giurisdizione dei magistrati locali, oltre a incorrere in specifici e diversificati limiti per valore94, ne trovava altri, non solo in relazione alle materie oggetto del giudizio (cfr. per un elenco lex Irnitana, c. 84, ll. 6-16)95, ma anche con ri-
92 Cfr. supra, 107. A questo proposito, v. peraltro già ampiamente Rodger, 1997, 175 ss. Per quanto riguarda D. 50.17.105 cfr. altresì Johnston, 1997, 63 s., nt. 35. Quanto a D. 50.1.28 (ma l’osservazione vale a maggior ragione per D. 50.1.26) un unico elemento potrebbe contraddire l’ipotesi ricostruttiva qui prospettata: mi riferisco alla collocazione di D. 50.1.29, tratto dal primo libro all’editto provinciale di Gaio, testo comunemente attribuito alla trattazione relativa all’editto si quis ius dicenti non obtemperaverit (cfr. Lenel, 1889.I, 189, Gai. 53; Krüger, 1905, 897; Domingo, 1992, 80 e 84; Id., 1995, 119). L’obiezione pare però superabile perché, proprio alla luce del criterio dello spoglio dei materiali secondo le sequenze bluhmiane, sembra preferibile ritenere che anche il fr. 29 si riferisse alla trattazione del vadimonio (sul punto, cfr. le argomentazioni di Rodger, 1997, 182). 93 Quanto allo strettissimo rapporto che intercorre tra D. 50.1.26 e D. 50.17.105, cfr. per tutti Lenel, 1889.I, 967, Paul. 92. Sulla connessione tra D. 50.1.26 e 28, v. invece Krüger, 1905, 897, il quale ipotizzò che entrambi i frammenti fossero posti a commento dell’editto si quis ius dicenti non obtemperaverit. Sul punto, v. anche Cuiacius, 1584, 1 e 4 s., che a sua volta colloca D. 50.1.26 in stretta connessione con D. 50.1.28 e D. 2.1.20 [F. 1]. Va qui rilevato che D. 50.1.26 potrebbe in realtà appartenere – in ragione del criterio dell’ordine Bluhme-Krüger – al commento di uno qualunque degli editti iniziali, visto che segue il solo fr. 25, che Lenel, 1889.II, 421, Ulp. 170, colloca, insieme ad altri tratti dal primo libro del commentario edittale ulpianeo (cfr. D. 50.8.8[6] e D. 27.8.6), nella parte introduttiva del titolo riguardante i magistrati e la giurisdizione municipale (sul punto, cfr. anche Id., 1927, 51, nt. 1). A questo proposito, cfr. tuttavia anche le osservazioni di Domingo, 1995, 32 ss. e 106, che da parte sua pone invece D. 50.1.25 nella trattazione della cautio damni infecti municipale. 94 Sui limiti per valore della competenza dei magistrati municipali e sulla loro variabilità, cfr., con riferimento ai dati ricavabili dal fragmentum Atestinum, l. 6 ss. (10.000 sesterzi) e dalla lex Rubria de Gallia Cisalpina, c. 21, ll. 16 e 18-19 (15.000 sesterzi), in specie Torrent, 1972, 458 ss.; più in generale v. anche Kaser – Hackl, 1996, 177 s. Nella letteratura posteriore al ritrovamento della lex Irnitana (cfr. c. 84, ll. 1-6: 1.000 sesterzi) che si occupava a sua volta ex professo dell’argomento, v. altresì, tra i molti, in particolare d’Ors, 1983, 29 e nt. 26; Galsterer, 1987, 200 s.; Simshäuser, 1989, 622 e 643 ss.; Rodger, 1990, 147 ss.; Wolf, 2000, 33 ss., in specie 37 ss. (con riferimento a lex Irnitana, c. 84, ll. 4-6), e 48 ss. (con riguardo alla competenza per valore fissata nel fragmentum Atestinum e nella lex Rubria). Quanto all’ipotesi mommseniana riguardo alla possibilità che il fragmentum Atestinum e la lex Rubria (cioè il frammento veleiate) possano appartenere alla stessa legge, v., in senso favorevole, le osservazioni di Laffi, 1986, 19 ss., che spiega la diversità del limite imposto alla competenza per valore ai magistrati locali nei frammenti atestino e veleiate con la diversa natura delle controversie cui i diversi limiti si riferivano (cfr. Laffi, 1986, 25); di opinione diversa sul punto Torrent, 1970, 156 ss. (e ancora Id., 1972, in specie 461 ss.) e Bruna, 1972, 308 ss., nonché, sia pure escludendo la validità di alcuni argomenti addotti in precedenza contro l’appartenenza dei due framenti alla stessa legge, Luraschi, 1983, 292, nt. 129. 95 Sul punto, con riferimento specifico alla competenza ratione materiae dei magistrati del municipio di Irni così come risulta fissata da lex Irnitana, c. 84, ll. 6-16, v., per un accurato esame delle materie escluse dalla competenza giurisdizionale dei magistrati locali, Wolf, 2000, 40 ss. Sul punto, in precedenza, brevemente anche d’Ors, 1983, 29 s. Quanto alla competenza per materia dei magistrati locali alla luce della testimonianza della lex Rubria de Gallia Cisalpina (cc. 20-23), cfr. invece Laffi, 1986, 24. Per l’esclusione delle azioni infamanti, dei processi di libertà e dei processi d’ingenuità, v. Simshäuser, 1973, 198 ss. Un elenco di azioni non rientranti nelle competenze dei magistrati locali è fornito anche da d’Ors, 1984, 2575 ss.
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Commento ferimento alla possibilità che l’intervento richiesto rientrasse tra quegli atti magis imperii quam iurisdictionis (in particolare stipulationes praetoriae, restitutiones in integrum e missiones in possessionem) che, in quanto tali, erano di norma riservati a quella causae cognitio pretoria che, a quanto pare, si risolveva in un esame della causa caratterizzato per il fatto di dare luogo a una valutazione discrezionale da parte del magistrato96. F. 13 – D. 50.1.26 + F. 14 – D. 50.17.105 Più precisamente D. 50.1.26 fa riferimento agli atti magis imperii quam iurisdictionis e, con specifico riguardo alle restitutiones in integrum e alle missiones in possessionem, nega ai magistrati locali il potere di compierli97. In stretta connessione D. 50.17.105 afferma a sua volta che la causae cognitio che sappiamo appunto tipica degli atti magis imperii quam iurisdictionis – anche se di essi forse non esclusiva e peraltro da essi a quanto pare non sempre richiesta – dovesse essere per regola generale riservata al pretore98.
96 Per questo specifico significato dell’espressione causae cognitio, cfr. ampiamente Martini, 1960, 44 ss. La classificazione degli atti magis imperii quam iurisdictionis risale, come è noto, alla giurisprudenza severiana: per un quadro delle fonti, v. Mancuso, 1997, 360, nt. 63. Peraltro, quanto al tardo formarsi del “catalogo” degli atti magis imperii quam iurisdictionis, cfr., con specifico riferimento a (Ulp. 1 ad ed.) D. 2.1.4 e appunto (Paul. 1 ad ed.) D. 50.1.26, per tutti Pugliese, 1963, 119 ss., che rileva come il termine iurisdictio si riferisse tuttavia, “in senso volgare e atecnico”, anche agli atti che più propriamente venivano considerati tecnicamente estrinsecazioni dell’imperium (sul punto, nello stesso senso, v. altresì Peppe, 1988, 30). Su D. 2.1.4 e D. 50.1.26, testi assai conosciuti dalla dottrina e come è noto assai tormentati, v. anche, tra gli altri, Kaser, 1966, 244 e Spagnuolo Vigorita, 1990, 115 e 123, cui rinvio anche per un’ipotesi ricostruttiva circa il formarsi della categoria nella giurisprudenza severiana (cfr. Spagnuolo Vigorita, 1990, 125). Su quest’ultimo aspetto v. altresì, in precedenza, anche le osservazioni di Luzzatto, 1965, 123 ss. In particolare sulla formula magis imperii quam iurisdictionis e sulla struttura logico-argomentativa di D. 50.1.26 ricordo anche le osservazioni di Raggi, 1965, 100 ss., che sottolinea – a mio avviso correttamente – come il testo, lungi dal presentare intenti definitori, sia appunto semplicemente funzionale a escludere la competenza dei magistrati locali quanto ai cosiddetti rimedi pretori (o quantomeno a compiere alcuni di essi). 97 Per quanto tuttavia riguarda la missio in possessionem ex primo decreto e per la relativa delega ai magistrati locali cfr., in relazione all’editto sulla cautio damni infecti municipale, supra, 114 s. Peraltro, secondo un diffuso orientamento, l’esclusione non troverebbe invece applicazione nell’epoca precedente e in particolare in epoca tardo-repubblicana, in cui sembra fosse quantomeno ammesso che i magistrati locali facessero uso delle stipulationes praetoriae: cfr. sul punto, per un quadro di sintesi, Simshäuser, 1989, 646 s. e, in precedenza, Id., 1973, 205 ss. e 225 ss. La circostanza è plausibile, ma per quanto riguarda la possibilità dei magistrati locali di imporre il vadimonium (cfr. lex Rubria de Gallia Cisalpina, c. 21 e lex Irnitana, c. 84: v. supra, nt. 73) e la cautio damni infecti (v. in specie lex Rubria de Gallia Cisalpina, c. 20, su cui Bruna, 1972, 77 ss., nonché, con riferimento alla particolare procedura ivi richiesta che prevedeva che fosse semplicemente accordata al danneggiato una actio ficticia ex stipulatu, come se la cautio fosse stata effettivamente prestata, Laffi, 1986, 30) si può osservare che erano comunque casi in cui, per quanto non sia del tutto chiaro allo stato delle fonti se il relativo potere fosse conferito dalla legge o fosse inerente alla magistratura (cfr. rispettivamente Bruna, 1972, 77 s. e Simshäuser, 1973, 210), vi era comunque – benché ciò sia in effetti attestato con certezza solo per l’epoca successiva dai commentari di epoca severiana – una delega nell’editto del pretore (e dei governatori). Che a tale potere di delega facciano del resto riferimento anche D. 2.1.4 e D. 50.1.26 è sostenuto – invero con qualche arditezza – da Domingo, 1993, 65 ss. 98 Sul complesso rapporto tra causae cognitio pretoria e atti magis imperio quam iurisdictionis, cfr. in specie Martini, 1960, 46 ss., che al proposito sottolinea come da un lato vi siano atti magis imperii quam iurisdictionis che non richiedono una causae cognitio, dall’altro come vi siano invece anche casi in cui il provvedimento pretorio per quanto subordinato a causae cognitio non possa comunque, per ciò solo, essere annovarato tra quelli magis imperii quam iurisdictionis.
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Giovanni Luchetti Il cerchio sembra dunque chiudersi in un quadro in cui i due testi appaiono saldarsi – come del resto ben vide Lenel – in una logica e stringente consequenzialità. Ci sono degli atti che di norma i magistrati municipali non possono compiere e che – almeno a quanto risulta dalle testimonianze di Paolo e Ulpiano per l’epoca del principato postadrianeo –, salvo esplicita delega (v. il caso della cautio damni infecti municipale e della eventuale concessione della missio in possessionem ex primo decreto), possono essere compiuti solo dal pretore. Anche per questi specifici atti il magistrato locale aveva, nei confronti di chi fosse di fronte a lui convenuto, esclusivamente la possibilità di imporre attraverso un’apposita stipulazione pretoria – a sua volta esplicitamente prevista nell’editto – un vadimonium99 che, per quanto riguarda in particolare i municipi italici, era appunto posto a garanzia dell’impegno di recarsi a Roma in un luogo e in una data prestabiliti per sottoporre la questione alla causae cognitio pretoria100. F. 15 – D. 50.1.28 Peraltro i limiti di valore e di materia imposti di volta in volta alla giurisdizione municipale potevano di norma essere superati in virtù di un accordo delle parti, accordo che tuttavia non veniva per lo più esplicitato, ma era considerato insito nel comportamento di colui che, in ius vocatus davanti al magistrato municipale, non avesse sollevato la questione di competenza, rimettendosi pertanto alla decisione del tribunale locale101. Tale possibilità, che risulta
99 Cfr. (Paul. 1 ad ed.) D. 2.5.2pr. [F. 4]: Ex quacumque causa ad praetorem vel alios, qui iurisdictioni praesunt, in ius vocatus venire debet, ut hoc ipsum sciatur, an iurisdictio eius sit. Sul punto v. Simshäuser, 1989, 623 e nt. 18, che opportunamente sottolinea come l’in ius vocare davanti al magistrato municipale costituisse comunque il normale presupposto per imporre al convenuto di prestare il vadimonium. Su questo specifico aspetto, cfr. anche le osservazioni di Wolf, 2000, 53 e, già in precedenza, Id., 1985, 61 s., nt. 9, cui rinvio anche per la definizione delle caratteristiche della relativa stipulazione pretoria che sembra prevedesse una pena in caso di mancata comparizione (cfr. Id., 1985, 61 e 67). 100 In base a lex Rubria de Gallia Cisalpina, c. 21, ll. 21-24 (per il testo v. supra, nt. 73) colui che non avesse ottemperato all’ingiunzione di promettere un vadimonium (o non avesse dato, in alternativa, un vindex idoneo) sembrerebbe essere stato esposto a subire un’azione penale municipale davanti a dei recuperatores: cfr. sul punto in particolare Simshäuser, 1973, 218 ss., che tuttavia – coerentemente con i dati complessivamente risultanti delle fonti che escludono che i magistrati locali avessero la facoltà di tutelare la propria giurisdizione con un’azione penale, cfr. (Ulp. 1 ad ed.) D. 2.3.1pr. – precisa che tale potere fu attribuito ai magistrati municipali al più tardi fino al principato adrianeo. Sul punto, anche con riguardo a Prob., de notis iuris fragmenta 6.63 (v. FIRA, II, 459) che fa riferimento all’espressione vadimonium fieri iubere (V.F.I.), cfr. altresì Domingo, 1993, 55 ss. 101 Su D. 50.1.28 e, più in generale, sulla possibilità di deroga pattizia ai limiti della competenza per valore e per materia dei magistrati locali (v. anche – per quanto qui più direttamente interessa – [Ulp. 2 ad ed.] D. 5.1.1), cfr. in specie Ziegler, 1976, 560 s. Per un tentativo – invero poco convincente – di circoscrivere la portata della disposizione enunciata in D. 50.1.28 alla possibilità di derogare i soli limiti per valore, cfr. invece l’isolata posizione di Domingo, 1992, 78, che sottolinea come al contrario la norma di lex Irnitana, c. 84, ll. 17-18 avesse invece, a suo avviso, un più esteso raggio di applicazione. Per l’opinione contraria (cfr. nt. successiva) e per l’ipotesi che D. 50.1.28 nella sua ampia portata derogatoria si riferisca comunque, in quanto enunciazione contenuta a commento dell’editto del pretore, ai soli municipi italici, cfr. in specie le osservazioni di Wolf, 2000, 57. Sul punto, nello stesso ordine di idee, per l’ipotesi che l’enunciazione contenuta in D. 50.1.28 si riferisca altresì ad un’epoca in cui non era iniziata la decadenza delle autonomie locali e che anzi possa risalire all’epoca della stessa lex Rubria (e quindi al I secolo a.C.), cfr. anche Laffi, 1986, 25. Peraltro che il consenso delle parti fosse per lo più implicito è da tempo sottolineato dalla più autorevole dottrina, cfr. in particolare Pugliese, 1963, 165 s. e Torrent, 1972, 459. Sul punto, v. anche Simshäuser, 1973, 198 s.; Id., 1989, 645 e nt. 125 (con ampia indicazione della bibliografia), nonché Ziegler, 1976, 559.
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Commento del resto a sua volta ammessa anche da fragmentum Atestinum, ll. 4-6 e da lex Irnitana, c. 84, ll. 17-18, permetteva al convenuto di evitare di far ricorso al vadimonio e consentiva altresì alle parti di sottrarsi alla giurisdizione del pretore (o, nel caso delle province, a quella del governatore), con evidenti effetti benefici sia per la conseguente compressione della durata dei tempi processuali, sia per la minore onerosità dei costi da affrontare102. F. 16 – D. 5.3.4 All’editto in questione doveva riferirsi infine anche il terzo frammento che Lenel riteneva di collocazione incerta, un testo in cui, con riferimento all’hereditatis petitio103, si trova precisato che il convenuto in giudizio non avrebbe dovuto limitarsi a restituire ciò che possedeva al momento dell’esercizio dell’azione e su cui pertanto verteva originariamente la controversia, ma anche tutto ciò che dell’eredità avesse posseduto successivamente (eventualmente anche dopo la litis contestatio)104. Si tratta di un passo che, pur nella sua asciuttezza, sembrerebbe dunque porre la questione del momento in cui dovesse avvenire la fissazione del valore della causa in relazione alle particolari caratteristiche dell’azione. Tale circostanza, dati i limiti che a tal proposito incontrava la competenza dei magistrati municipali – che peraltro sappiamo assai variabili da municipio
102 Cfr. fragmentum Atestinum, ll. 4-6: …sei is, a quo petetur quomve quo agetur, d(e) e(a) r(e) in eo municipio colonia praefectura iudicio certare … Sulla portata della clausola inserita in lex Irnitana, c. 84, ll. 17-18 (…de his re[bus etia]m, si uterque, inter quos ambigeretur, volet…), cfr. in specie Wolf, 2000, 34 ss. e 45 ss., che – nel ribadire alcune competenze esclusive del governatore – limita la capacità derogatoria della disposizione alle cause di norma interdette ai magistrati locali (cfr. ll. 6-16), fermo restando comunque il limite assoluto dei 1000 sesterzi (sul punto, cfr. anche Id., 2000, 56 s.). Sulla circostanza che la deroga convenzionale ai limiti di competenza dei magistrati locali riguardasse anche le azioni infamanti, cfr. d’Ors, 1984, 2581. Per l’ipotesi che la facoltà di deroga convenzionale delle parti riguardasse altresì il limite per valore di 1000 sesterzi, v. invece Rodger, 1990, 148 ss., che tuttavia riferisce tale possibilità alla clausola successiva (ll. 18-20: …de ceteris quo[que o]mnibus de quibus privatim agetur neque in iis prae[iudici]um de capite libero futurum erit…), cui Wolf non attribuisce invece in questo senso particolare valore (v. in specie Wolf, 2000, 51 s.). Sulla più ampia portata della facoltà derogatoria ammessa da lex Irnitana, c. 84, cfr. anche, fra gli altri, Simshäuser, 1989, 622 s. e 644 s., che peraltro ribadisce l’impossibilità di deroga convenzionale nel caso che si disputasse de capite libero. Quanto alla diversa e dubbia questione circa l’eventuale possibilità delle parti di accordarsi per trasferire a Roma un processo relativo a una controversia che rientrasse nella normale competenza dei magistrati locali, v. quanto osservato da Laffi, 1986, 25, che ammette che le parti potessero accordarsi in questo senso, escludendo tuttavia che l’attore potesse costringere il convenuto a difendersi a Roma. Sul punto, per l’esclusione che potesse in tal caso essere imposto il vadimonium, cfr. Wolf, 2000, 53. 103 Così la dottrina quasi unanime: v. peraltro già Lenel, 1889.I, 968 nt. 1. Nel senso che il frammento si riferisca invece all’interdetto quorum bonorum e non all’hereditatis petitio, cfr. Domingo, 1993, 43, che a sua volta, come detto (v. supra, nt. 69), colloca il testo a commento dell’editto da lui ipotizzato sulla competenza giurisdizionale (E. 5). Su D. 5.3.4 e per la sua riferibilità all’hereditatis petitio, cfr. tuttavia, tra gli altri, Kaser, 1981, 114, nt. 131. In particolare il testo pone la questione della legittimazione passiva alla hereditatis petitio del possessor pro possessore: in senso negativo e per l’opinione che il testo si riferisca all’azione contro il possessor pro herede, v. Di Paola, 1954, 10, nt. 34. 104 La stessa soluzione è nella sostanza prospettata anche in (Gai. 6 ad ed. prov.) D. 5.3.41pr. (Si quo tempore conveniebatur possessor hereditatis, pauciores res possidebat, deinde aliarum quoque rerum possessionem adsumpsit, eas quoque victus restituere debebit, sive ante acceptum iudicium sive postea adquisierit possessionem...) e in (Ulp. 5 ad ed.) D. 5.4.1.1 (Qui hereditatem vel partem hereditatis petit, is non ex eo metitur quod possessor occupavit, sed ex suo iure: et ideo sive ex asse heres sit, totam hereditatem vindicabit, licet tu unam rem possideas, sive ex parte, partem, licet tu totam hereditatem possideas). Quanto al perché il convenuto soccombente dovesse restituire anche ciò che non avesse posseduto inizialmente, cfr. Biondi, 1954, 396 ss., che spiega tale particolarità con il fatto che l’hereditatis petitio era azione rivolta a dimostrare la qualità di erede dell’attore e che con essa si agiva conseguentemente per l’intera hereditas, anche se l’azione fosse stata appunto in concreto finalizzata al recupero di una sola res hereditaria.
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Giovanni Luchetti a municipio –, avrebbe potuto determinare questioni interpretative di non poco momento e forse analoghe a quelle che appaiono poste in relazione all’actio familiae erciscundae e all’actio communi dividundo in D. 10.2.55, testo volto per parte sua a precisare che, in caso di estrema difficoltà di procedere alla divisione, il giudice avrebbe eventualmente potuto aggiudicare a uno solo dei comproprietari l’intero e che peraltro Lenel, in quanto inserito nel secondo libro del commentario all’editto ulpianeo, non ebbe difficoltà a porre in relazione proprio alla trattazione del vadimonium105. Può essere insomma che quello dell’hereditatis petitio fosse un caso particolare per il quale non essendo ben chiara la linea di demarcazione tra la competenza dei magistrati locali e quella del pretore si rendeva opportuna qualche precisazione: è cioè, a mio avviso, ragionevolmente plausibile ritenere che Paolo, considerato il fatto che l’hereditatis petitio era azione rivolta a dimostrare la qualità di erede dell’attore e che con essa si agiva conseguentemente per l’intera hereditas, ritenesse necessario porre la questione della fissazione del valore della causa e, conseguentemente, della competenza a giudicarla, qualora si fosse agito contro chi possedesse una singola res hereditaria, ma che, tuttavia, si fosse successivamente trovato a possederne altre per le quali sarebbe stato ugualmente tenuto all’obbligo di restituzione106.
Libro II Come sappiamo, secondo la ricostruzione leneliana, l’intero secondo libro del commentario ad edictum di Paolo sarebbe stato dedicato all’analisi dell’editto de vadimonio Romam faciendo. La trattazione, a noi nota in questa parte per lo più solo attraverso digressioni del commento, avrebbe così coerentemente concluso l’esame dell’ipotizzato titolo edittale dedicato alla giurisdizione municipale107.
105 (Ulp. 2 ad ed.) D. 10.2.55: Si familiae erciscundae vel communi dividundo iudicium agatur et divisio tam difficilis sit, ut paene inpossibilis esse videatur, potest iudex in unius personam totam condemnationem conferre et adiudicare omnes res. Quanto alla collocazione del testo, cfr. Lenel, 1889.II, 425, Ulp. 195. Sul punto, cfr. anche, in precedenza, Id., 1881, 42, nt. 71 (= 1990, I 308, nt 71). Sul contenuto di D. 10.2.55 e sulla sua riferibilità alla questione della determinazione del valore della causa con specifico riferimento alla disciplina dell’actio familiae erciscundae e dell’actio communi dividundo, cfr. Rodger, 1997, 183. 106 Diversamente, Lenel, 1889.I, 968, nt. 1, avanzò piuttosto dubitativamente l’ipotesi che proprio per questa sua peculiarità l’hereditatis petitio non sarebbe comunque potuta rientrare tra le competenze dei magistrati municipali, appunto per l’impossibilità di definirne anticipatamente il valore, stanti i limiti a questo proposito imposti alla giurisdizione municipale. Per la mancanza nelle fonti di indizi di tale esclusione, v. però le osservazioni di Rodger, 1997, 183. Per la possibilità che invece – come qui sostenuto – la questione rilevasse ai fini della competenza e che a tal proposito trovasse soluzione – e qui rimarrei più incerto – sulla base del principio secondo cui petitio hereditatis formatur ex persona actoris, non ex persona rei sive possessoris e che, pertanto, la competenza fosse determinata dal valore di quanto richiesto al momento dell’esercizio dell’azione, cfr. Cuiacius, 1584, 13. 107 Sulla questione, cfr. Lenel, 1927, 55 s., nonché Id., 1881, 35 (= 1990, I 301), che appunto sottolinea come solo per una parte dei frammenti sia possibile ricostruire una connessione diretta con la prescrizione edittale sul vadimonium. Sotto questo profilo, si può anzi notare che Lenel rinuncia a dare un ordine ai dodici frammenti conservatici attraverso il Digesto, mantenendo l’ordine di successione che si incontra appunto nella raccolta di iura (e ciò salvo l’inversione di D. 1.16.12 [F. 28] e D. 2.1.6 [F. 27]): cfr. Id., 1889.I, 968. Del resto è quanto già fece (senza l’inversione dei frammenti tratti dai primi due libri del Digesto) anche Cuiacius, 1584, 18 ss., che a sua volta, a partire da D. 7.1.4 [F. 17], rinunciò a proporre – salvo alcune eccezioni (cfr. infra, nt. 127, nt. 136 e nt. 158) – qualunque ipotesi di ricostruzione palingenetica (cfr. ibidem, 21).
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Commento L’opinione di Lenel è stata peraltro messa in discussione da Domingo, il quale ha ipotizzato che il secondo libro continuasse la trattazione – iniziata secondo l’autore spagnolo già nel primo – dei limiti della competenza giurisdizionale dei magistrati municipali in relazione a quella del pretore (E. 5) e che l’analisi dedicata al vadimonium fosse piuttosto inserita in tale più articolata trattazione108. La diversa scelta palingenetica si riflette anche sull’ordine di collocazione dei materiali che, nella ricostruzione di Domingo, è assai diverso rispetto a quello – ispirato dal prudente criterio della conservazione dell’ordine di successione che si incontra nella raccolta di iura – in precedenza definito da Lenel109. Entrambe le principali ricostruzioni proposte risultano a ben vedere e per diversi motivi non soddisfacenti. Quella di Lenel soprattutto perché residui della trattazione sul vadimonium sono, come abbiamo visto, identificabili nella parte conclusiva del primo libro, mentre nessuno dei frammenti del secondo, come del resto ammetteva lo stesso autore tedesco, appare direttamente riconducibile alle parole dell’editto in questione110. Quella di Domingo perché, unificando tra l’altro materiali non sempre omogenei, rende quantitativamente assai squilibrata la scelta di Paolo (ma anche di Ulpiano) di dedicare una trattazione tanto ampia (in entrambi i casi oltre un libro) a un unico argomento, consistente oltre tutto nel commento a un editto dedicato a disciplinare aspetti disparati della giurisdizione, con particolare riferimento ai limiti della competenza giurisdizionale dei magistrati municipali rispetto a quella del pretore, editto la cui presenza – nonostante gli sforzi dell’autore spagnolo – rimane allo stato delle fonti indimostrata e nel complesso, a mio avviso, assai poco convincente111. Ma torniamo a Lenel. L’indagine contenutistica dei frammenti superstiti del secondo libro del commentario paolino non vale di per sé a escludere la loro attinenza al commento dell’editto de vadimonio Romam faciendo, cui potrebbero in effetti – non senza qualche difficoltà almeno in taluni casi – essere per lo più effettivamente ricondotti. Peraltro all’esame dei testi i rilievi all’ipotesi leneliana sopra formulati rimangono intatti e anzi risultano più stringenti per il fatto che appare singolare che – come avviene in D. 50.16.4 [F. 11] e 5pr.
108 Per per un quadro dei raggruppamenti tematici che sarebbero stati oggetto di commento in tale contesto, cfr. Domingo, 1993, in specie 23-25; quanto alla trattazione del vadimonium, v. lo stesso autore, ibidem, 54 ss., che, pure escludendo in generale la presenza di rubriche edittali – cfr. Id., 1992, 28 e, più ampiamente, Id., 1991, 290 ss. – e quindi negando l’esistenza della rubrica immaginata dal Lenel, non discute che vi fossero nell’editto specifiche previsioni relative al vadimonium Romam: sul punto v. già supra, nt. 70. 109 Cfr. sul punto Domingo, 1995, 116 s., che – differentemente da Lenel (cfr. supra, nt. 107) – così propone di ordinare i frammenti del secondo libro del commentario paolino: D. 50.16.5pr.; D. 50.16.7; D. 45.1.68; D. 4.8.1; D. 7.1.4; D. 7.7.1; D. 50.16.5.1; D. 18.5.6; D. 16.3.6; D. 50.17.106; D. 26.5.15; D. 2.1.6; D. 1.16.12. Si può aggiungere che, pure in un quadro aderente alla sistematica prospettata da Lenel, un diverso e più risalente tentativo di ordinare i frammenti all’interno del libro fu proposto anche da Krüger, 1905, 897: D. 1.16.12; D. 2.1.6; D. 50.16.5pr.; D. 26.5.15; D. 45.1.68; D. 50.17.106; D. 16.3.6; D. 18.5.6; D. 50.16.5.1; D. 50.16.7; D. 7.1.4; D. 7.7.1; D. 4.8.1. 110 A questo proposito cfr. supra, 117 ss. Quanto al secondo aspetto v. Lenel, 1927, 55 s. e, più in particolare, Id., 1881, 35 (= 1990, I 301). 111 Sul punto, per una critica alla ricostruzione del Domingo, rinvio alle osservazioni di Torrent, 1993, 260 ss. È appena il caso qui di ricordare che secondo Lenel, 1927, 56 ss., l’editto pretorio avrebbe piuttosto contenuto un titolo dedicato alla giurisdizione, cui sarebbero invece da ricondurre le rubriche edittali de albo corrupto (E. 7) e quod quisque iuris in alterum statuerit, ut ipse eodem iure utatur (E. 8).
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Giovanni Luchetti [F. 22] – il giurista tornasse in punti diversi (ed in più in libri diversi) a commentare la parola res con riferimento alla stessa previsione edittale112. A mio modo di vedere la testimonianza di D. 50.16.5 (che sembra appunto nuovamente commentare le parole edittali), unita al fatto che al commento dei verba edicti sembra dedicato anche un frammento ulpianeo del terzo libro contiguo nel Digesto e che, non a caso, si occupa ancora una volta dell’appellatio ‘nominis’ et ‘rei’ e del suo significato (cfr. [Ulp. 3 ad ed.] D. 50.16.6), deve indurre a ipotizzare che nel secondo libro paolino fosse contenuta la trattazione di due diverse disposizioni113. La prima non può essere altro che la continuazione di quella del vadimonium Romam faciendo, la seconda, di cui si conserverebbe come primo frammento superstite quello di D. 50.16.5 (e cui sembrerebbe corrispondere nella trattazione ulpianea D. 50.16.6), potrebbe essere, a mio avviso, quella relativa al vadimonium previsto in relazione al ius domum revocandi, un privilegio riconosciuto a chi si trovasse temporaneamente a Roma per ragioni previste dall’ordinamento, con particolare riferimento, almeno in origine, ai legati ivi inviati rei publicae causa, ma estesa successivamente ad alcune altre situazioni114. Più precisamente chi, trovandosi in queste condizioni, fosse stato convenuto in giudizio poteva cioè chiedere che la controversia – purché fosse insorta antecedentemente all’incarico e, salvo il caso specifico dei legati, riguadasse rapporti che avessero avuto origine in civitate sua vel intra provinciam – fosse sottratta alla iurisdictio pretoria e che il relativo processo si svolgesse piuttosto davanti ai ma-
112 Ciò sia pure tenendo conto che D. 50.16.4 sembra più precisamente soffermarsi sull’ampiezza di significato del termine nomen in rapporto a quello di res, mentre D. 50.16.5pr. è piuttosto inteso a sottolineare la maggior ampiezza di quest’ultimo rispetto al termine pecunia: sul rapporto tra i due testi, che comunque presentano in comune la circostanza di definire – sia pure in relazione a due diversi poli dialettici – il valore semantico del sostantivo res, v. infra, 139 ss. Il fatto che le opere di commento presentassero non infrequentemente ripetizioni – cfr. al proposito quanto osservato da Mantovani, 2005, 177, nt. 77 – non giustifica comunque, a mio modo di vedere, che ciò avvenisse a distanza tanto ravvicinata e con riferimento allo stesso editto. 113 Mi sembra insomma plausibile ritenere che (Ulp. 3 ad ed.) D. 50.16.6, commentando a sua volta dei verba edittali (‘Nominis’ et ‘rei’ appellatio ad omnem contractum et obligationem pertinet. [1] Verbum ‘ex legibus’ sic accipiendum est: tam ex legum sententia quam ex verbis), debba essere posto all’inizio del terzo libro del commentario del giurista di Tiro, a sua volta in corrispondenza, a mio modo di vedere, dell’esame e della trattazione di una nuova previsione dell’editto. La collocazione del testo all’inizio del terzo libro è condivisa, pur in quadro ricostruttivo complessivamente diverso da quello qui ipotizzato, da Domingo, 1993, 31 ss., mentre, come è noto, Lenel, 1889.II, 427, pone piuttosto il frammento a conclusione dell’introduzione al titolo edittale de iurisdictione. 114 L’ipotesi che si susseguissero nell’editto due diverse previsioni in materia di vadimonium in relazione alla giurisdizione locale non è del tutto nuova. A parte la vecchia ipotesi ricostruttiva di Girard, 1904, 143, il quale ritenne che una trattazione del ius domum revocandi e del relativo vadimonium fosse posta dai giuristi in appendice al commento all’editto de vadimonio Romam faciendo, ma senza che ciò comportasse – a quanto pare – l’esistenza di un’autonoma previsione edittale, è da segnalare nella dottrina moderna l’opinione di Rodger, 1997, 190 ss., che ha piuttosto sostenuto come, a fianco di quello relativo al vadimonium Romam, vi fosse un altro editto che avrebbe riguardato la prestazione di un vadimonium “to other places”, con particolare riferimento al caso in cui il rinvio della trattazione della causa avvenisse davanti tribunale del governatore provinciale. Si tratterebbe cioè del vadimonium in eum locum in quo is erit, qui ei provinciae praeerit di lex Irnitana, c. 84, ll. 20-23: …et omnium rerum q(uae) [s(upra) s(cripta) sun]t de vadimonio promittendo in eum lo[cum q]uo is erit qui ei provinciae praerit, futurusve esse videbitur eo die in quem ut vadimonium promittatur postulabitur, IIvir(i) qui ibi i(ure) d(icundo) praeerit… (testo su cui v., in particolare, le osservazioni di Burton, 1996, 217 ss., nonché di Wolf, 2000, 53 e nt. 151 [con discussione della bibliografia precedente]). L’ipotesi così come formulata dallo studioso britannico, per quanto meritevole di attenzione, incontra una difficoltà a mio avviso difficilmente superabile nel rilevare che di tale vadimonium si sarebbe dovuto ragionevolmente occupare non l’editto del pretore, ma piuttosto l’editto provinciale.
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Commento gistrati del domicilio d’origine115. Del resto dell’esistenza di una trattazione dedicata in limine edicti al ius domum revocandi e al corrispondente vadimonium si conserva ampia testimonianza nel commentario ulpianeo che di tale tema si occupa in un lungo frammento (cfr. [Ulp. 3 ad ed.] D. 5.1.2.3-8)116 da cui risulta, fra l’altro, che in relazione al ius domum revocandi l’attività rilevante da cui poteva sorgere la controversia riguardo alla quale si sarebbe potuto esercitare il diritto in questione era, a quanto sembrerebbe, indicata con il verbo contrahere117. In questo quadro rimane tuttavia incerta la ricostruzione della successione dei frammenti nell’ambito del commento paolino e la loro riconduzione al commento delle due previsioni qui ipotizzate. La questione appare particolarmente delicata, in quanto ammesso, come qui si sostiene, che accanto alla trattazione relativa al vadimonium Romam ne seguisse un’altra relativa al vadimonium da prestare in relazione all’esercizio del ius domum revocandi molti dei frammenti esaminati, proprio per la “specularità” dei due temi, si adattano potenzialmente a essere riferiti all’una e all’altra trattazione. Pur muovendoci dunque nel campo necessariamente insicuro delle congetture è peraltro a mio avviso possibile ipotizzare che a commento dell’editto de vadimonio Romam faciendo si collocassero – in un rapporto di continuità con alcuni frammenti del primo libro – alcuni passi che potrebbero anzitutto ancora riguardare problematiche relative alla fissazione del valore della causa (questo potrebbe essere il contesto in cui si inseriva ancora il discusso testo di D. 7.1.4 [F. 17])118, nonché le modalità di prestazione del vadimonium mediante verborum obligatio (mi riferisco in particolare a D. 45.1.68 [F. 18]) e i limiti della sua efficacia (si può immaginare che a questo proposito venisse in considerazione il riferimento al compromissum conservato in D. 4.8.1 [F. 19])119.
115 Su tale privilegio, che fu variamente esteso e precisato dalla giurisprudenza, è ancora utile Kipp, 1910, 58 s. Sul punto v. anche Albanese, 1972, 209 s. (= 1991, II 1133 s.). Per un quadro di sintesi, cfr. altresì Pugliese, 1963, 157 s. 116 Cfr. Lenel, 1889.II, 426 s., Ulp. 213 e 214, che tuttavia poneva le varie parti del testo nell’introduzione del titolo edittale de iurisdictione; diversamente, come già ricordato, Girard, 1904, 143, che accenna all’ipotesi che proprio con il ius domum revocandi si concludesse, pur ancora nell’ambito del commento all’editto de vadimonio Romam faciendo, la parte della trattazione edittale dedicata alla giurisdizione municipale. 117 Cfr. (Ulp. 3 ad ed.) D. 5.1.2.3-5: Legatis in eo quod ante legationem contraxerunt... (4) Omnes autem isti domum revocant, si non ibi contraxerunt, ubi conveniuntur. ceterum si contraxerunt ibi, revocandi ius non habent: exceptis legatis, qui licet ibi contraxerunt, dummodo ante legationem contraxerunt, non compelluntur se Romae defendere, quamdiu legationis causa hic demorantur... (5) Item si extra provinciam suam contraxerunt, licet non in Italia, quaestionis est, an Romae conveniri possint. et Marcellus in eo solo privilegio eos uti domum revocandi, quod in civitate sua vel certe intra provinciam contraxerunt... Cfr. anche (Paul. 17 ad Plaut.) D. 5.1.24pr.: Non alias in eos, quos princeps evocavit, Romae competit actio, quam si hoc tempore contraxerint, nonché (Paul. 13 ad ed.) D. 4.8.32.9: ...qui utique nullo modo dubitabunt, si de ea re in legatione compromisit, quam in legatione contraxit... 118 Quanto alla continuità tematica con i frammenti che erano inseriti nel primo libro, intendo riferirmi, in particolare, al testo paolino in cui si precisava che i limiti di valore e di materia imposti di volta in volta alla giurisdizione municipale potevano comunque essere superati anche in virtù di un accordo delle parti (D. 50.1.28 [F. 15]) e, soprattutto, a quello relativo alla fissazione del valore della causa nel caso fosse intentata un’hereditatis petitio (D. 5.3.4 [F. 16]): sul punto v. supra, in specie 126 ss. 119 Quanto agli ultimi due testi, questa mi sembra l’ipotesi migliore, se non altro perché l’editto relativo al vadimonium Romam faciendo prestava al giurista la prima occasione utile per intavolare questioni che pure si sarebbero potute riproporre nella discussione di una eventuale seconda previsione edittale sul vadimonium e ciò benché si debba sempre tener presente che le opere di commento non rifuggivano da ripetizioni qualora il testo commentato ne offrisse l’occasione (v. supra, nt. 112). L’ipotesi ricostruttiva qui prospettata implica che al commento dello stesso editto vada riportato – per la necessità di rispettare l’ordine Bluhme-Krüger – anche (Ulp. 2 ad ed.) D. 45.1.67: per la connessione tra i due testi cfr. Lenel, 1881, 42 (= 1990, I 308).
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Giovanni Luchetti A questi si aggiungono quegli altri che appaiono, direttamente o indirettamente, riferibili a materie per cui era esclusa la competenza dei magistrati locali e per le quali era dunque necessario fare appunto rinvio alla giurisdizione del pretore, come nel caso delle cause che riguardassero la libertà (D. 50.17.106 [F. 20]) o dei giudizi che comportassero l’infamia (D. 16.3.6 [F. 21])120. Intendo insomma dire che si può forse ipotizzare – sia pure con tutta la prudenza dovuta all’estrema difficoltà della ricostruzione palingenetica della successione dei frammenti del secondo libro del commentario di Paolo e nella consapevolezza dell’assoluta opinabilità di qualunque proposta possa essere in proposito formulata – che, dopo quanto già detto nel primo libro relativamente al vadimonium Romam, con riferimento al commento dei verba edicti, all’incompetenza dei magistrati locali a compiere atti magis imperii quam iurisdictionis e ai limiti della loro competenza per valore, il giurista si occupasse, dopo aver concluso la trattazione di quest’ultimo tema, delle modalità di prestazione del vadimonium e dei limiti della sua efficacia, cogliendo inoltre l’occasione dell’analisi delle materie escluse dalla iurisdictio dei magistati locali (e cioè delle causae liberales e dei giudizi che comportassero l’infamia), per compiere a quel proposito una serie di digressioni tematiche. [Sul vadimonio che deve essere prestato da colui che deve comparire a Roma (E. 5.2)] F. 17 – D. 7.1.4 In questo quadro dovrebbe dunque anzitutto inserirsi un testo notissimo e assai controverso – e palingeneticamente qui collocabile ipotizzando che la questione considerata rilevasse in relazione alla definizione dell’oggetto della causa e, conseguentemente, del suo valore – in cui l’usufrutto viene considerato come pars dominii121. Si tratta di un passo per lo più ritenuto scarsamente attendibile per la ricostruzione del pensiero paolino in quanto, così come ci è pervenuto122, è apparso da un lato in contraddizione con la diversa testimonianza di (Paul.
120 Si può ricordare che alle cause infamanti fanno ripetutamente richiamo anche alcuni frammenti superstiti del secondo libro del commentario ulpianeo: v. D. 50.17.104, D. 44.7.36 e D. 47.12.1 e probabilmente anche, sia pure implicitamente, D. 12.1.10. Quanto alle causae liberales v. invece, nello stesso commento ulpianeo, D. 44.2.1 (su cui cfr. Lenel, 1881, 37 s. [= 1990, I 303 s.]). Il rispetto dell’ordine Bluhme-Krüger implica, in particolare, che il fr. 104 fosse posto necessariamente a commento dell’editto de vadimonio Romam faciendo, visto che a commento di quest’ultimo doveva essere posto il fr. 105 (che fa ancora parte del primo libro del commentario paolino: v. supra, 123 ss.). Ciò comporta ragionevolmente che tutti i frammenti che fanno riferimento, direttamente o indirettamente, ai giudizi infamanti fossero originariamente posti a commento dell’editto sul vadimonium Romam. 121 Sul punto, cfr. Scialoja, 1928, 279 s., che affronta la questione della collocazione del testo, precisando che le modalità della prestazione del vadimonium (cui secondo l’autore il testo appunto si riferiva) potevano variare in relazione alla natura della lite, con particolare riferimento, nel caso di specie, al fatto che la controversia vertesse o meno sul diritto di proprietà. Forse potrebbe venire al proposito in considerazione Gai. 4.185: Fiunt autem vadimonia quibusdam ex causis pura, id est sine satisdatione, quibusdam cum satisdatione, quibusdam iureiurando, quibusdam recuperatoribus suppositis, id est, ut qui non steterit, is protinus a recuperatoribus in summam vadimonii condemnetur; eaque singula diligenter praetoris edicto significantur. In questo senso, v. già Lenel, 1881, 40 (= 1990, I 306). Allo stesso contesto tematico dovevano appartenere anche i testi “paralleli” di (Ulp. 2 ad ed.) D. 13.6.9 (nemo enim commodando rem facit eius cui commodat) e di (Ulp. 2 ad ed.) D. 19.2.39 (Non solet locatio dominium mutare). 122 Il testo è considerato una “cattiva epitome” da Marrone, 1961, 13, nt. 23, il quale tuttavia esclude un rimaneggiamento con l’intento di mutarne la sostanza. Per un quadro della letteratura che ha ritenuto il testo non genuino, rinvio a Bretone, 1962.I, 185 e nt. 98, il quale da parte sua ritiene interpolate le parole est et, ipotizzando
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Commento 21 ad ed.) D. 50.16.25pr., dall’altro con la tendenza riscontrata nella scienza giuridica del tardo principato a configurare l’usufrutto come res incorporalis e a superare conseguentemente la più antica idea che potesse appunto configurarsi come pars dominii (o pars rei)123. Peraltro l’effetto limitativo che l’espressione in multis casibus produce rispetto all’asserzione secondo cui usus fructus… pars dominii est rende, a mio avviso, ragionevolmente plausibile la genuinità di un testo124 in cui l’assimilazione tra usufrutto e dominium appare da porre in riferimento al contesto in cui si inseriva e sostanzialmente rispondere a una concezione essenzialmente pratica dell’istituto125. F. 18 – D. 45.1.68 Alle modalità di prestazione della verborum obligatio si riferisce specificamente D. 45.1.68, in cui viene presupposta la distinzione in materia di stipulationes tra quelle aventi per oggetto una pena (e quindi un certum consistente in una somma di denaro) e quelle altre – si prospetta espressamente il caso in cui il promittente si fosse impegnato a prestare genericamente del denaro senza che venisse prevista una pena in caso di mancato adempimento – che, avendo invece per oggetto un incertum, erano piuttosto quantificabili dal giudice nell’id quod interest126. Come dimostra il confronto con (Ulp. 47 ad Sab.) D. 2.5.3, la mancata esplicita stipulazione di una pena – e quindi di un certum – poteva porsi in relazione specifica proprio alla presta-
che il testo paolino (v. ibidem, 184 ss.) intendesse rilevare che l’usufrutto continua in taluni casi a far parte della proprietà dato che la sua costituzione può anche prevedere un termine iniziale (ex die dari potest). Sul punto, con specifico riferimento ai sospetti che si sono appuntati sulla espressione in multis casibus, cfr. anche Levy – Rabel, 1929, 92 e Id., 1935b, 120. 123 Cfr. (Paul. 21 ad ed.) D. 50.16.25pr.: Recte dicimus eum fundum totum nostrum esse, etiam cum usus fructus alienus est, quia usus fructus non dominii pars, sed servitutis sit, ut via et iter: nec falso dici totum meum esse, cuius non potest ulla pars dici alterius esse. hoc et Iulianus, et est verius. Per il superamento della controversa dottrina dell’usufrutto come pars rei da parte dei “classici più recenti”, che l’avrebbero ritenuta inconciliabile con la concezione dell’usufrutto come res incorporalis, cfr. in specie Marrone, 1961, 12 ss. Peraltro, la dottrina dell’usufrutto come pars domini o rei è stata considerata da Grosso, 1958, 65 ss., come espressione di una valutazione empirica del contenuto economico dell’usufrutto – di quell’uti frui sottratto al dominus che è invece normale contenuto del diritto di proprietà – piuttosto che una costruzione rilevante sul piano dogmatico, poi superata nel quadro di uno sviluppo storico progressivo per la reazione al primitivo avvicinamento al diritto di proprietà. 124 Sul punto, cfr. Arangio-Ruiz, 1951, 510, che osserva come Paolo, posta appunto la limitazione in multis casibus, ben potesse guardare all’usufrutto sotto profili quanto meno distinti, avvicinandolo, ma solo per certi aspetti, alla proprietà. Per un tentativo di superare l’aporia tra i due testi paolini, v. anche le osservazioni di Tafaro, 1972, 197, il quale ipotizza che le diverse asserzioni in essi contenute non dovessero “avere un valore generale, ma essere limitate ai casi concernenti le fattispecie esaminate dal giurista (omesse dai Compilatori, nella stesura tramandataci dei passi)”, rilevando altresì (cfr. ibidem, 196 ss.) come l’idea che l’usufrutto potesse essere considerato come pars rei trovi riscontro anche altrove nel pensiero di Paolo in alcune situazioni specifiche, con particolare riferimento a quanto affermato in (Paul. 29 ad ed.) D. 13.7.18.1, in materia di datio pignoris e in (Paul. 6 ad Sab.) D. 23.3.4, in tema di datio dotis. 125 Cfr., a questo proposito, Grosso, 1958, 68. Si può peraltro aggiungere che secondo l’opinione di Marrone, 1961, 13 e nt. 23 – che reputa il testo rimaneggiato, ma senza che ne sia stata alterata la sostanza (v. supra, nt. 122) – vi sarebbe stato nell’originale paolino al più un accostamento analogico tra usufrutto e pars rei, ma non una vera e propria assimilazione. 126 Sul testo, cfr. in specie Cannata, 1995, 404, che sottolinea come il passo paolino esponga le “conseguenze pratiche” della divisio generale enunciata in (Paul. 12 ad Sab.) D. 45.1.2pr.: Stipulationum quaedam in dando, quaedam in faciendo consistunt. Sulla circostanza che di norma la prestazione del vadimonium fosse accompagnata da una stipulazione penale, cfr. per tutti Knütel, 1976, 35 s.
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Giovanni Luchetti zione di una stipulazione processuale127. Qualora appunto ciò fosse avvenuto avrebbe comportato, in linea con quanto riferito dal frammento paolino riprodotto in D. 45.1.68 e secondo la citata opinione di Celso, la possibilità di agire per un incertum quantificato dal giudice in relazione alla valutazione dell’id quod interest dello stipulante128. F. 19 – D. 4.8.1 Un altro passo che pare poter venire qui in considerazione è invece dedicato specificamente al compromissum. Il testo, che è stato da taluni sospettato129, è volto a evidenziare l’affinità tra iudicium e compromissum130, sottolineando come quest’ultimo – di cui è peraltro nota la natura convenzionale – fosse volto a fissare i termini della controversia in maniera non dissimile da quanto avveniva nei giudizi ordinari con la litis contestatio e conseguentemente a porsi, in
127 Cfr. (Ulp. 47 ad Sab.) D. 2.5.3: Cum quis in iudicio sisti promiserit neque adiecerit poenam, si status non esset: incerti cum eo agendum esse in id quod interest verissimum est, et ita Celsus quoque scribit. Del resto, Cuiacius, 1584, 27, collega il testo di D. 45.1.68, insieme a quelli di D. 4.8.1 [F. 19] e di D. 50.16.5pr. [F. 22] (ibidem, 21 e 28), a una ipotizzata trattazione della cautio iudicio sisti. Che il testo di D. 2.5.3 si riferisca peraltro al vadimonium è comunemente affermato dalla dottrina moderna: cfr. per tutti Giménez-Candela, 1982, 137 s. e Cannata, 1995, 405; sul punto, più in generale, v. anche Pugliese, 1963, 368 ss. Tuttavia, diversamente, per la classicità della cautio iudicio sisti, v. Tafaro, 1976, 239 ss. e Lemosse, 1995, in specie 62 s. Quanto alla possibilità di una cautio sine poena che venisse prestata da un garante, v. anche (Ulp. 77 ad ed.) D. 45.1.81pr.: Quotiens quis alium sisti promittit nec adicit poenam, puta vel servum suum vel hominem liberum, quaeritur, an committatur stipulatio. et Celsus ait, etsi non est huic stipulationi additum ‘nisi steterit, poenam dari’, in id, quanti interest sisti, contineri. et verum est, quod Celsus ait: nam qui alium sisti promittit, hoc promittit id se acturum, ut stet. Sui due testi e sulla loro stretta connessione, cfr. le osservazioni di Sanguinetti, 1999, in specie 203, che peraltro li ritiene entrambi riferibili al vadimonium. Sul punto, per l’opinione che nel caso di D. 45.1.81pr. non si trattasse tuttavia di un vadimonium – in questo senso, invece, tra gli altri, v. Lenel, 1927, 515, nt. 7; cfr. anche Id., 1889.II, 869, nt. 1 –, ma piuttosto della promessa del garante in relazione al fatto altrui, consistente appunto nella presentazione in giudizio del terzo v. Giménez-Candela, 1982, in specie 139. Sul punto, cfr. anche Tafaro, 1976, 248, nt. 53, che a sua volta rileva come Ulpiano paia “aver teorizzato che siccome nella promessa del fatto altrui si assumeva l’impegno a prestare allo stipulator (attore nel caso di specie) l’id quod interest, essa in sostanza si sarebbe tradotta nella promessa del fatto proprio (appunto il risarcimento del danno derivato allo stipulator) e quindi era da ritenere valida”. 128 Sul significato del richiamo all’id quod interest in D. 2.5.3, cfr. Medicus, 1962, 271, il quale ritiene che faccia riferimento al libero apprezzamento del giudice in relazione al pregiudizio causato all’attore dalla mancata comparizione del convenuto; sul punto v. anche Tafaro, 1980, in specie 132 ss., che sottolinea, altresì, come il criterio dell’id quod interest non configgesse con il quanti ea res erit tipico dell’actio ex stipulatu. Per l’opinione che infatti l’actio prevista nel passo ulpianeo fosse non un’azione in factum – v. Lenel, 1904, 239 e nt. 1 –, ma un’actio ex stipulatu rivolta a reclamare un incertum, cfr. Giménez-Candela, 1982, 138. 129 Cfr., a questo proposito, Steinwenter, 1953, 127. Dubbi generici esprime ancora Ziegler, 1971, 47, che peraltro reputa sostanzialmente genuina la chiusa et ad finiendas lites pertinet. Sul punto, per la sostanziale classicità del testo, anche con riferimento all’analogia di funzione tra iudicium e compromissum, v. però le osservazioni di Talamanca, 1958, 19. Si può notare che il tenore letterale di D. 4.8.1 è riecheggiato, in termini scarsamente consapevoli della struttura del procedimento arbitrale in epoca classica, in (Idem A. [scil. Iustinianus] Iuliano pp., a. 530) C. 3.1.14.1: ...vel qui ex recepto (id est compromisso, quod iudicium imitatur) causas dirimendas suscipiunt... 130 Taluno ha voluto piuttosto mettere il testo in relazione alla stipulatio e più precisamente alla valutazione del suo valore al fine della determinazione della competenza: sul punto, cfr. le osservazioni di Domingo, 1993, 44. Peraltro, se è vero che il compromissum si realizzava mediante stipulationes, non mi sembra che dalla lettura dell’essenzialissimo passo conservatoci nella raccolta di iura possa plausibilmente ricavarsi l’idea che il contesto in cui esso era originariamente inserito fosse rivolto a escludere – come potrebbe ricavarsi da (Gai. 1 ad ed. prov.) D. 2.1.11pr. e come ipotizza l’autore spagnolo – che ai fini della determinazione della competenza per valore l’actio ex compromisso fosse suscettibile di cumulo con l’azione che fosse scaturita dal rapporto controverso.
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Commento quanto presupposto del successivo procedimento arbitrale, come strumento per la soluzione dei conflitti131. Sembra dunque a questo proposito potersi ragionevolmente ipotizzare che il testo fosse inserito, come del resto ben vide Lenel, in un quadro in cui si precisava che sarebbe venuta meno l’efficacia del vadimonium nel caso in cui tra le parti fosse appunto intervenuto un compromissum, che in analogia (e in alternativa) al iudicium tendeva appunto a sua volta alla soluzione della controversia132. F. 20 – D. 50.17.106 La competenza dei magistrati locali era esclusa con riferimento alle causae liberales, in quanto, come appunto ci dice Paolo in D. 50.17.106, la libertà è un bene di valore inestimabile133. Non ci troviamo di fronte a una semplice enunciazione di un principio ideale, quanto piuttosto a una constatazione concreta in relazione all’indefinibilità della causa liberalis rispetto ai limiti di valore della giurisdizione municipale134. Benché oggetto del processo di libertà sia l’uomo stesso, la libertà in sé non è dunque suscettibile di valutazione economica e proprio per questo motivo – probabilmente si spiegava – ogni discussione che la riguardasse non poteva essere oggetto della giurisdizione municipale. F. 21 – D. 16.3.6 La competenza dei magistrati locali, così come nel caso delle causae liberales, era di norma esclusa, indipendentemente da ogni limite di valore, anche nel caso delle actiones famosae135.
131 Quanto ai limiti di tale affinità, cfr. Buigues Oliver, 1990, 210 s., che sottolinea come tra i due procedimenti (quello formulare culminante con la litis contestatio e quello arbitrale) possa rinvenirsi “una cierta similitud entre los fines” essendo il “compromissum un medio de solucionar conflictos”. Appare da escludere, invece, che vi fossero schemi fissi di compromissum, corrispondenti a quelli dei iudicia del procedimento formulare: sul punto, per l’individuazione del significato della forma verbale redigitur e contro la diversa opinione di La Pira, 1932, 209 e Id. 1938, 301, cfr. per tutti Talamanca, 1958, 18 s. 132 Sul punto, v. Lenel, 1881, 39 (= 1990, I 305), che, con riferimento all’effetto della transactio sulla cautio vadimonio sisti (v. supra, nt. 127), fa menzione anche di (Ulp. 74 ad ed.) D. 2.11.2pr.: Non exigimus reum iudicio sisti, si negotium, propter quod iudicio sisti promisit, fuerit transactum: sed hoc ita, si prius id negotium transactum sit, quam sisti oporteret. ceterum si postea transactum est, exceptio doli opponi debet: quis enim de poena promissa laborat post negotium transactum? cum etiam transacti negotii exceptionem putaverit quis nocere, quasi etiam de poena transactum sit, nisi contrarium specialiter partibus placuerit. Nello stesso senso, cfr. anche Ziegler, 1971, 47. 133 Per quanto riguarda l’esclusione delle causae liberales dalla competenza dei magistrati locali in relazione alla testimonianza di Lex Irnitana, c. 84, ll. 8-9, cfr. Wolf, 2000, 42. 134 Per tale osservazione, v. già Watson, 1991, 435 s. Qualcosa di simile è affermato da Labeone, in (Venul. 15 stip.) D. 46.8.8.2: …quia aestimatio libertatis ad infinitum extenderetur... Su quest’ultima testimonianza, cfr. in specie Schiavone, 2005, 230 s. e 270 (= 2017, 259 e 302). Altrove la libertà è considerata omnibus rebus favorabilior ([Gai. 15 ad ed. prov.] D. 50.17.122); sul punto e sul valore inestimabile della libertà, v. anche PS. 5.1.1. Per un parallelismo, sotto il profilo qui prospettato, tra libertas e res sacrae (cfr. [Ulp. 68 ad ed.] D. 1.8.9.5: Res sacra non recipit aestimationem), v. Medicus, 1969, 80. 135 Per la connessione, sotto il profilo dell’esclusione dalla giurisdizione municipale, tra cause infamanti e causae liberales, cfr. Isid., etym. 15.2.10: ...Nam liberales et famosissimae causae, et quae ex principe proficiscuntur, ibi non aguntur... Sul punto, con riferimento al testo isidoriano, cfr. in specie Torrent, 1972, 452 s. Per l’esclusione delle azioni infamanti dalla competenza dei magistrati locali, v. Simshäuser, 1973, 198 ss. Con riferimento alla testimonianza di fragmentum Atestinum, ll. 1-4 e di Lex Irnitana, c. 84, ll. 9-16, cfr. anche d’Ors, 1984, rispettivamente 2578 s. e 2580 ss. Sul punto, con particolare riferimento all’elenco presente in Lex Irnitana, c. 84, ll. 9-16, v. altresì la trattazione di Wolf, 2000, 42 ss.
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Giovanni Luchetti Nell’ambito della trattazione di tali azioni sembrerebbe potersi collocare D. 16.3.6, un breve testo che riguarda specificamente il sequestro e che nella raccolta di iura è inserito, a mo’ di excursus, insieme a pochi altri (cfr. in specie D. 16.3.5 e D. 16.3.7, nonché D. 16.3.12.2, D. 16.3.17 e D. 16.3.33), nel titolo depositi vel contra136. Vi si sottolinea come il sequestratario – esattamente come il depositario – fosse tenuto in ordine alla custodia e alla restituzione della cosa137, evidenziando altresì tuttavia come nel sequestro sia la consegna – che è fatta a pluribus in solidum (e quindi non come nel deposito di cosa comune pro rata) – sia la restituzione dovessero avvenire certa condicione, vale a dire in base alle clausole pattuite dalle parti in relazione alla struttura del sequestro che, presupponendo l’esistenza di una controversia, implicava che alla soluzione di quest’ultima la cosa sequestrata venisse restituita alla parte vincitrice138. Il contesto in cui tali precisazioni si ponevano era dunque forse rivolto – come da taluni è stato avvertito – a far rilevare analogie e differenze tra deposito e sequestro e, in particolare, che l’azione in factum concessa contro il sequestratario non era infamante, a differenza di quella prevista contro il depositario139. [Sul vadimonio che deve essere prestato da colui che deve comparire nella propria città o provincia (E. 6?)] Alla previsione relativa al vadimonio da prestare in relazione all’esercizio del ius domum revocandi140 sembrano innanzi tutto da attribuire quei passi volti a commentare termini ed espres-
136 Per quanto riguarda la trattazione del sequestro nell’ambito del titolo 16.3 della raccolta di iura, la cui intelaiatura è ricavata dal trentesimo libro del commentario edittale ulpianeo, v. in specie Evans-Jones, 1978, 254 s. Sulla collocazione di D. 16.3.6, v. anche Mayer-Maly, 1968, 188. Si deve peraltro notare che al deposito era invece dedicato – probabilmente nello stesso contesto della trattazione delle azioni infamanti – un passo ulpianeo riprodotto in (Ulp. 2 ad ed.) D. 12.1.10: Quod si ab initio, cum deponerem, uti tibi si voles permisero, creditam non esse antequam mota sit, quoniam debitu iri non est certum (v. supra, nt. 120). Che entrambi i testi siano da ricollegare alla trattazione delle azioni infamanti fu già ipotizzato da Lenel, 1881, 37 (= 1990, I 303). Nello stesso senso, più di recente, cfr. Domingo, 1993, 49. Diversamente Cuiacius, 1584, 25, il quale ipotizzò piuttosto che il testo, insieme ad altri (e più esattamente D. 50.16.7 [F. 23] e D. 50.17.106 [F. 20]: cfr. ibidem, 29), si collegasse a una trattazione delle cautiones iudiciariae (in specie della cautio iudicatum solvi e della cautio rem pupilli salvam fore). 137 La vicinanza delle due figure è del resto altresì sottolineata dall’impiego dell’espressione proprie autem in sequestre est depositum. Su questo aspetto e per la caratterizzazione della custodia come causa del contratto di deposito cfr., anche con riferimento a PS. 2.12.3-4 e (Ulp. 30 ad ed.) D. 16.3.1pr., in particolare Metro 1966, 129 ss. 138 Sulle differenze sotto questo profilo tra deposito e sequestro, cfr. in specie le osservazioni di Maschi, 1973, 414 ss., che tra l’altro giunge a sospettare la frase proprie autem in sequestre est depositum, che a suo modo di vedere non rispecchierebbe la netta differenziazione classica delle due figure. Sul punto, sulle caratteristiche del sequestro e sulla varia casistica prospettata nelle fonti giuridiche, v. anche Broggini, 1963, 43 s. Quanto al significato di condicio come clausola che nel caso di specie era volta a modificare diritti e obblighi derivanti dallo schema tipico del deposito, v. Di Salvo, 1969, 188. 139 In questo senso – e più specificamente per l’ipotesi che il testo paolino sia da riconnettere all’esclusione del carattere infamante dell’actio ex sequestro – cfr. Domingo, 1993, 49. Per l’origine e lo sviluppo della categoria delle azioni infamanti e per la definizione del relativo elenco, alla luce delle fonti giuridiche ed epigrafiche, v. d’Ors, 1984, in specie 2586 ss. 140 Quanto alla rubrica edittale, si può immaginare che facesse riferimento alla possibilità che il rinvio della trattazione della causa avvenisse alla giurisdizione del governatore provinciale o dei magistrati locali: l’alternativa è indirettamente prospettata in (Ulp. 3 ad ed.) D. 5.1.2.5: ...et Marcellus in eo solo privilegio eos uti domum revocandi, quod in civitate sua vel certe intra provinciam contraxerunt... Si può aggiungere che, come risulta da (Ulp. 3 ad ed.) D. 5.1.2.6, la decisione circa l’effettiva possibilità di esercitare il ius domum revocandi era rimessa al pretore causa cognita: Sed si dubitetur, utrum in ea quis causa sit, ut domum revocare possit nec ne, ipse praetor debet causa cognita statuere...
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Commento sioni che forse era dato riscontrare nel testo edittale (mi riferisco a D. 50.16.5 [F. 22] e 7 [F. 23])141. A questi probabilmente facevano seguito quegli altri che – a mio modo di vedere – erano rivolti a sottolineare come, per l’applicazione del beneficio, la lite dovesse riguardare i rapporti radicati nel luogo d’origine che rientrassero nella competenza della giurisdizione locale e rispetto ai quali l’attività rilevante da cui sorgeva la controversia – indicata in senso lato con il verbo contrahere – poteva comunque risolversi, oltre che in un contrahere in senso stretto (D. 18.5.6 [F. 25]), anche in un agere (D. 7.7.1 [F. 24]) o in un gerere (D. 26.5.15 [F. 26], un frammento in cui è significativo che si faccia specificamente menzione della necessità di sostituire un tutore absens rei publicae causa). Ciò pare poter trovare sostegno nella possibilità che la stessa la definitio labeoniana conservata in (Ulp. 11 ad ed.) D. 50.16.19, che sembrerebbe fosse inserita nel primo libro del commentario edittale del giurista di epoca augustea142, si
141 La circostanza mi sembra plausibile, quantomeno per le definizioni di res e di sponsio contenute, rispettivamente, in D. 50.16.5pr. e in D. 50.16.7. Del resto, la soluzione prospettata porta con sé di conseguenza che nello stesso contesto fosse collocata anche la definizione di opus locatum conductum presente in D. 50.16.5.1 (salvo che non si vogliano ipotizzare spostamenti del § 1 compiuti dai compilatori [v. infra, nt. 158]). Si può aggiungere che, a mio modo di vedere, dello stesso commento alla previsione relativa al ius domum revocandi doveva far parte anche il testo ulpianeo di D. 50.16.6 (v. supra, nt. 113, che interrompe – è vero – la successione dei passi paolini (e in particolare la continuità tra il fr. 5 e il fr. 7), ma lo fa per privilegiare la sequenza 50.16.4-6, tutta composta da testi che ruotano essenzialmente intorno alla definizione di res. Ciò comunque – è bene notarlo – avviene rispettando sostanzialmente l’ordine Bluhme-Krüger, dato che il fr. 6 non è anteposto al fr. 4, che sappiamo relativo al commento dell’editto de vadimonio Romam faciendo (cfr. supra, 117 ss.). Si superano così anche le obiezioni avanzate contro la ricostruzione leneliana da Johnston, 1997, 65, che, ipotizzando che i due testi paolini facessero parte del commento all’editto sul vadimonium Romam e che il passo ulpianeo fosse parte dell’introduzione al successivo titolo de iurisdictione, si pone invece in contrasto con l’ordine Bluhme-Krüger. 142 Cfr. (Ulp. 11 ad ed.) D. 50.16.19: Labeo libro primo praetoris urbani definit, quod quaedam ‘agantur’, quaedam ‘gerantur’, quaedam ‘contrahantur’: et actum quidem generale verbum esse, sive verbis sive re quid agatur, ut in stipulatione vel numeratione: contractum autem ultro citroque obligationem, quod Graeci συνάλλαγμα vocant, veluti emptionem venditionem, locationem conductionem, societatem: gestum rem significare sine verbis factam. Sui dubbi circa la collocazione palingenetica della definitio labeoniana è necessario anzitutto ricordare la prudente presa di posizione di Lenel, 1889.I, 502, nt. 3: “tractatur apud Ulpianum 11 ad edict. edicti clausula ‘quod metus causa gestum erit’. sed incertum est, an Labeonis definitio ad idem edictum sit referenda”. La collocazione dell’intervento classificatorio labeoniano è stata peraltro fatta oggetto di numerose ipotesi. Quella forse più accreditata è che la definitio del gestum, dell’actum e del contractum si collocasse appunto, come il frammento ulpianeo in cui è contenuta, a commento della norma pretoria sul metus (E. 39), in un contesto in cui quest’ultima e quelle immediatamente successive avrebbero trovato, all’epoca in cui l’opera di commento di Labeone fu redatta, una collocazione anticipata rispetto a quella che sappiamo avevano nell’editto successivamente commentato dai giuristi severiani. Sul punto, per l’opinione che il titolo edittale de in integrum restitutionibus, che si apriva con l’editto quod metus causa gestum erit, seguisse immediatamente, nella redazione dell’editto commentato dal giurista di età augustea, la rubrica edittale de pactis et conventionibus (E. 10), cfr. in particolare Bretone, 1993, 30 ss. In questo senso in precedenza anche Schiavone, 1971, 50, il quale ipotizzò, in alternativa, che in D. 50.16.19 il riferimento al primo libro del commentario all’editto di Labeone sia il risultato di un errore paleografico. Peraltro che la definitio labeoniana fosse collocata a commento dello stesso editto preso in considerazione da Ulpiano è opinione che – nonostante la cautela di Lenel – risale, pur in una forma meno meditata e meno attenta alle vicende dell’editto, alla dottrina romanistica meno recente: v. al proposito Betti, 1915, 12, che a sua volta ebbe tuttavia a proporre che il frammento ulpianeo si dovesse collocare piuttosto nell’ambito del commento all’editto de capite minutis (E. 42): sul punto, per l’accoglimento di quest’ultimo punto di vista, v. Tondo, 1995, 375 e 376, nt. 18. Su questa e su altre ipotesi circa la possibilità di collocare il testo ulpianeo a commento di editti diversi da quello sul metus (e in specie di quelli de dolo malo [E. 40] e de minoribus XXV annis [E. 41]) o in alternativa, insieme ad esso, ad alcuni di quelli immediatamente successivi (e cioè de minoribus XXV annis e de capite minutis) – cfr. in quest’ultimo senso Schiavone, 1971, 49 ss. – v. per tutti il quadro riassuntivo fornito da Albanese, 1972, 194 ss. (= 1991, II 1118 ss.).
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Giovanni Luchetti occupasse dell’agere, del contrahere e del gerere proprio in relazione al ius domum revocandi e, più esattamente, con riferimento all’individuazione della attività da cui poteva sorgere la controversia riguardo alla quale si sarebbe potuto esercitare il diritto in questione143. Del resto, anche ammettendo come vide già Lenel che l’origine del ius domum revocandi vada ricercata nella lex Iulia de iudiciis privatis144, non pare esservi ragione di escludere che l’istituto trovasse nell’editto una menzione esplicita già all’epoca del primo principato e che conseguentemente da un lato potesse fornire a Labeone uno spunto per un autonomo discorso definitorio, dall’altro permettere, ai giuristi severiani, di diffondersi a loro volta nel commento delle varie implicazioni inerenti al significato del termine contrahere – e per connessione di quelli di agere e di gerere – in tema di ius domum revocandi, con riferimento specifico alle materie che fossero oggetto della competenza dei magistrati municipali145.
143 Mi riferisco all’ipotesi formulata da Albanese, 1972, 207 ss. (= 1991, II 1131 ss.). Più precisamente, secondo l’autore, quella del ius domum revocandi era del resto la prima occasione che si presentava al giurista augusteo di definire e illustrare la portata del contrahere che, nello specifico contesto edittale (o nel contesto comunque richiamato dall’editto [v. infra, nt. successiva]), veniva inteso, a quanto appunto sembrerebbe, con estrema larghezza, tanto da indurre il giurista augusteo a fornire una definitio linguisticamente rigorosa che valesse a distinguerlo rispetto alle attività più propriamente illustrate dall’agere e dal gerere (cfr. Albanese, 1972, 224 ss. [= 1991, II 1148 ss.]). Non si può dire peraltro che l’ipotesi ricostruttiva dello studioso palermitano abbia incontrato particolare consenso nella dottrina successiva: critici sul punto Santoro, 1983, 162 ss. e Bretone, 1993, 36 s. In un rapporto dialettico con essa si pone anche Melillo, 1979, 54 ss. (= 1982, 470 ss.). Tra le diverse ipotesi ricostruttive merita ancora una segnalazione particolare quella formulata da Santoro, 1983, in specie 165 ss., secondo cui Labeone, come risulta dal testo di D. 50.16.19, avrebbe effettivamente formulato la sua definitio nel primo libro del suo commento edittale e, più precisamente, nell’ambito del commento all’editto de pactis et conventionibus (o, secondo l’autore palermitano, de pactis conventis: cfr. ibidem, 167 e ntt. 32 e 33). In questo senso v., tra gli altri, anche Schiavone, 1991, 155 ss. (sulla questione, cfr. comunque Id., 2005, 283 [= 2017, 316]). Meno attendibile nel suo tentativo di dimostrazione, ma ugualmente meritevole di menzione, appare l’ipotesi formulata da Fernández Barreiro, 1969, 157 ss., che collega la definitio labeoniana contenuta in D. 50.16.19 al duplice editto sull’editio rationum imposta agli argentarii e a loro favore (E. 9). Sul punto, nello stesso senso, anche d’Ors, 1976a, 29, nonché Id., 1981, 247, nt. 54. Un accenno va infine all’ipotesi formulata da Sargenti, 1987, 36 s. (= 2011, 1179 s.), che collega piuttosto la definitio labeoniana all’editto de negotiis gestis (E. 35), nonché a quella – un po’ eterodossa – avanzata da Bona, 1990, 365 s., il quale ritiene che Labeone possa aver premesso nel suo commento un elenco di definizioni dei termini più significativi ricorrenti nel testo edittale. 144 Cfr. in questo senso Lenel, 1927, 56; sul punto, oltre ad Albanese, 1972, in specie 208 e nt. 22, 213 (= 1991, II 1132 e nt. 22, 1137), che rimane incerto circa la possibilità che il privilegio sia stato introdotto dalla lex Iulia o piuttosto direttamente dal pretore attraverso la creazione del relativo vadimonium, v., nel senso che la previsione del ius domum revocandi sia con ogni probabilità ascrivibile alla lex Iulia iudiciorum privatorum, altresì Santoro, 1983, 163 e nt. 21 e Bretone, 1993, 37. Peraltro la connessione fra la previsione edittale e la legge sembra trovare conforto nel già ricordato testo di D. 50.16.6.1: Verbum ‘ex legibus’ sic accipiendum est: tam ex legum sententia quam ex verbis. La circostanza farebbe dunque pensare che le parole ex legibus comparissero nell’editto e si riferissero all’introduzione legislativa della previsione relativa al ius domum revocandi. Per un ulteriore richiamo alla lex Iulia nello stesso terzo libro ulpianeo, v. anche D. 5.1.2.1, in cui vi si fa riferimento per la possibilità di deroga convenzionale alla competenza del pretore e per le relative modalità e limiti: Convenire autem utrum inter privatos sufficit an vero etiam ipsius praetoris consensus necessarius est? lex Iulia iudiciorum ait ‘quo minus inter privatos conveniat’: sufficit ergo privatorum consensus. proinde si privati consentiant, praetor autem ignoret consentire et putet suam iurisdictionem, an legi satisfactum sit, videndum est: et puto posse defendi eius esse iurisdictionem. 145 Per quanto da non mettersi immediatamente in relazione con la trattazione del ius domum revocandi è, a questo proposito, particolarmente significativa la testimonianza di (Ulp. 2 ad ed.) D. 17.2.32: Nam cum tractatu habito societas coita est, pro socio actio est, cum sine tractatu in re ipsa et negotio, communiter gestum videtur. Il testo, che per la collocazione nel secondo libro del commentario ulpianeo non può che riferirsi alla trattazione del vadimonium Romam, è – nel distinguere, in relazione ai dubbi che potevano insorgere circa l’effettiva costituzione di una societas, ciò che può dirsi contractum da ciò che è, invece, semplicemente gestum – indice evidente dell’influenza che la definitio labeoniana esercitava sulla trattazione che facevano i giuristi severiani di questa parte dell’editto.
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Commento Nulla d’altra parte testimonia, allo stato delle nostre conoscenze, che l’editto commentato da Labeone fosse in questa parte strutturalmente diverso da quello che avevano a disposizione i giuristi dell’epoca successiva146 e nulla ci può indurre a ritenere che il privilegio non fosse noto al giurista protoclassico (ne aveva infatti conoscenza già il contemporaneo Mela: cfr. [Ulp. 3 ad ed.] D. 5.1.2.6)147. A questo stesso contesto dovevano infine probabilmente ricondursi anche le digressioni in materia di iurisdictio mandata che Lenel ritenne di poter giustificare con il fatto che la previsione edittale sul vadimonium Romam implicasse il rinvio al magistrato effettivamente dotato di giurisdizione148. Quanto qui sostenuto mi sembra da preferire alle altre ipotesi fin qui formulate, in quanto il ius domum revocandi a sua volta implicava il rinvio del giudizio a un magistrato che fosse comunque effettivamente dotato della competenza a giudicare nel luogo in cui il titolare del diritto aveva il proprio domicilio149. F. 22 – D. 50.16.5 Sembra dunque dover venire a questo proposito in primo luogo in considerazione il fr. 5 del titolo 50.16 del Digesto. Tale testo è collocato subito dopo un frammento che abbiamo visto appartenere al primo libro dello stesso commentario paolino, in cui il giurista si era brevemente soffermato, facendo riferimento all’opinione di Proculo, sull’ampiezza di significato del termine nomen150. Anche nel caso ora considerato, Paolo sembra commentare alcune parole edittali e più esattamente, a quanto parrebbe, il termine pecunia e l’espressione opere
146 Ciò tanto più per il fatto che (Ulp. 1 ad ed.) D. 11.4.1.5 è testimone (cfr. Lenel, 1889.I, 502, Ulp. 6) della circostanza che Labeone nello stesso primo libro del commentario edittale si occupava dell’editto de fugitivis. Non posso peraltro qui soffermarmi in maniera più approfondita sulla vexata quaestio circa il grado di stabilità acquisito dall’editto nel corso del I secolo d.C. (per un accenno v. supra, 53, nt. 68); sul punto, per un quadro delle opinioni contrapposte, faccio rinvio all’ampia analisi fornita da Giachi, 2005, 259 ss. (con ampie indicazioni bibliografiche, cfr. in specie 259, nt. 3 e 4). 147 Cfr. (Ulp. 3 ad ed.) D. 5.1.2.6: Sed si dubitetur, utrum in ea quis causa sit, ut domum revocare possit nec ne, ipse praetor debet causa cognita statuere... sed utrum nuda cautione an satisdato, Marcellus dubitat: mihi videtur sola promissione, quod et Mela scribit: alioquin compelletur iudicium accipere quam invenire eos qui satis pro eo dent. Sul fatto che Labeone conoscesse il privilegio in questione, cfr., anche sulla scorta di (Ulp. 12 ad ed.) D. 4.6.28.4, Albanese, 1972, 215 (= 1991, II 1139). 148 Cfr. Lenel, 1881, 38 (= 1990, I 304). Per la difficoltà di ricondurre alla trattazione del vadimonium Romam i testi paolini sulla iurisdictio mandata, nonché il testo ulpianeo sui poteri del proconsole (cfr. [Ulp. 2 ad ed.] D. 1.16.16: Proconsul portam Romae ingressus deponit imperium), v. tuttavia Rodger, 1997, 190 s. Al contesto qui ipotizzato si riferiva anche il testo già ricordato di (Ulp. 3 ad ed.) D. 5.1.2.1 in materia di giurisdizione convenuta (v. supra, nt. 144). È appena il caso di ricordare che alla giurisdizione convenuta si riferiva anche (Paul. 1 ad ed.) D. 50.1.28 [F. 15], ma in sede di commento all’editto de vadimonio Romam faciendo: cfr. supra, 123 ss. 149 In particolare, l’ipotesi qui sostenuta mi sembra da preferire a quella avanzata dal Domingo, 1993, 69, che ha, invece, ritenuto che le disposizioni in questione siano piuttosto da connettersi all’esclusione della possibilità di esigere il vadimonium Romam nel caso in cui la giurisdizione fosse stata delegata allo stesso magistrato locale. L’ipotesi del Rodger, 1997, 191 e 195, circa la possibilità che i due testi paolini siano stati invece tratti dal commento all’editto sul vadimonio previsto per il rinvio della trattazione della causa davanti tribunale del governatore provinciale, cade invece di fronte alla difficoltà di ritenere che una tale previsione – forse immaginabile nell’editto provinciale – potesse essere contenuta nell’editto pretorio (cfr. supra, nt. 114). 150 Cfr. (Paul. 1 ad ed.) D. 50.16.4 [F. 11]: ‘Nominis’ appellatione rem significari Proculus ait. Su tale testo, in cui il termine res è affiancato a nomen che gli viene in sostanza assimilato, v. supra, 120 s.
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Giovanni Luchetti locato conducto. Nel principium il giurista torna dunque – dopo quanto appunto già aveva fatto nel testo conservatoci in D. 50.16.4 [F. 11] – sul significato di res151, per sottolinearne, questa volta, la maggior ampiezza rispetto al termine pecunia, in quanto riferibile, a differenza di quest’ultimo, anche a quelle cose che extra computationem patrimonii nostri sunt152. Segue, riportata nel § 1, ma senza che possa essere individuata una diretta connessione con quanto precede, la famosa definizione labeoniana di opus locatum153, un concetto che la giurisprudenza precedente – e segnatamente Quinto Mucio e Alfeno (cfr. rispettivamente D. 34.2.34pr. e D. 19.2.31) – sembra ignorasse154 e che, nel contesto in cui è inserita, pare rivolta a spiegare la distinzione tra locatio operis e locatio operarum, attraverso la prospettazione dell’antitesi verbale ἀποτέλεσμα–ἔργον155, precisando al proposito come ciò che i greci designavano con il primo termine – cioè il risultato conseguente a una attività compiuta – dovesse essere reso con la perifrasi ex opere facto corpus aliquod perfectum156. Sulla base di questo assunto, almeno secondo
151 Sul punto, come sappiamo, ritorna altresì un frammento ulpianeo del terzo libro del commentario ad edictum (D. 50.16.6pr.), che segue immediatamente nella raccolta di iura i due testi paolini e che, confermando la tendenziale assimilazione presente in D. 50.16.4, dichiara l’appellatio rei, così come l’appellatio nominis, pertinente ad omnem contractum et obligationem. 152 Peraltro altrove il termine pecunia è considerato – in un’accezione più ampia – sinonimo di res: cfr. Gai. 3.124: ...appellatione autem pecuniae omnes res in ea lege significantur. Itaque et si vinum vel frumentum aut si fundum vel hominem stipulemur, haec lex observanda est. (Herm. 2 iur. epit.) D. 50.16.222: ‘Pecuniae’ nomine non solum numerata pecunia, sed omnes res tam soli quam mobiles et tam corpora quam iura continentur. V. anche (Ulp. 49 ad Sab.) D. 50.16.178pr.: ‘Pecuniae’ verbum non solum numeratam pecuniam complectitur, verum omnem omnino pecuniam, hoc est omnia corpora: nam corpora quoque pecuniae appellatione contineri nemo est qui ambiget. Sul punto cfr. Bürge, 1982, 156 e nt. 111. Sul rapporto tra le nozioni di pecunia, patrimonium e res nella riflessione della giurisprudenza romana v. le osservazioni di Melillo, 1978, 67 ss. (= 2000, 69 ss.). Si può aggiungere che nella lex Iulia peculatus l’espressione pecunia sacra, religiosa publicave, indipendentemente dalla questione dell’eventuale sinonimia rispetto a res – sul punto e per le differenti posizioni a riguardo, v. Gnoli, 1974, 201, nt. 144, con discussione della letteratura –, sembrerebbe attestare, a differenza di quanto viene affermato nel nostro testo, un uso di pecunia riferito anche a ciò che è extra computationem patrimonii nostri. 153 Sul testo, cfr. Schiavone, 1987, 174 s.; in precedenza, Id., 1971, 82 s.; cfr. altresì Trisciuoglio, 1998, 76 ss. Sulle caratteristiche della definizione, v. anche le osservazioni di Martini, 1966, 137 ss. e in specie 147, che la pone tra quelle che presentano natura “interpretativa”. Sul punto, v. altresì Carcaterra, 1966, 211 e 216 s. 154 Su quest’aspetto, v. in particolare gli studi di Amirante, 1959, 65 ss. Sul tema, cfr. anche, per alcune precisazioni riguardo alla definizione labeoniana, Id., 1967, in specie 56 e 58. Con riferimento alle ascendenze aristoteliche della costruzione del giurista augusteo, cfr. anche Tondo, 1979, 55 s. Diversamente, in senso critico, Thomas, 1971, 674 s., e, già in precedenza, ugualmente contro l’idea di una formazione progressiva del concetto di opus locatum, Id., 1963, 348 s. 155 Per la tendenza di Labeone a utilizzare nell’argomentazione giuridica termini della lingua greca e per un censimento dei casi in cui, nelle fonti conservateci, ciò avviene, cfr. Wubbe, 1982, 243, nt. 12. Nel caso di specie, sulla contrapposizione ἀποτέλεσμα–ἔργον, v. Biscardi, 1989b, 163 ss. – in precedenza cfr. anche, per alcuni accenni, Id., 1971, 361 e Id., 1989a, 97 –, che sottolinea in particolare come il termine greco ἀποτέλεσμα assuma, nella contrapposizione a ἔργον, il significato di risultato e come la definizione di opus locatum, proprio in quanto destinata a risolversi in tale confronto verbale, possa essere considerata una definizione “per differenza” (ibidem, 168). Peraltro, sul punto v. anche Martini, 1998, 411, che, pur muovendosi nel quadro dell’impostazione generalmente ammessa (v. infra, nt. seguente), sottolinea la sua perplessità rispetto alla definizione labeoniana, rilevando come spesso il termine greco ἔργον alluda a sua volta al risultato. Sul punto, cfr. del resto Wubbe, 1982, 246 e 250, il quale ritiene che in realtà la distinzione labeoniana riguardi l’attività coronata da successo (opus = ἀποτέλεσμα) e non il suo risultato materiale (ἔργον). 156 Ciò almeno secondo l’impostazione tradizionale, secondo cui la chiusa id est si riferisce ad ἀποτέλεσμα e le parole non ἔργον si inseriscono nel discorso a mo’ di inciso. Diversamente sul punto Wubbe, 1982, 246, che evi-
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Commento la dottrina dominante, il principale obbligo del conductor operis risiederebbe dunque proprio nel completamento dell’opus inteso come corpo nuovo – e perfectum – e non piuttosto, come da altri è stato invece sostenuto, nella semplice attività lavorativa rivolta alla perfectio dell’opera157. Ciò rilevato, gli esatti contesti in cui nell’editto si poteva far riferimento, rispettivamente, al termine pecunia e all’espressione opere locato conducto rimangono allo stato delle nostre conoscenze di difficile individuazione158. Peraltro, si può forse almeno congetturare che la definizione dei rapporti terminologici tra res e pecunia fosse funzionale al fatto che nel testo edittale si faceva probabilmente uso, corrispondentemente a quanto avviene nella lex Rubria de Gallia Cisalpina (cfr. c. 22, ll. 27-28), del termine pecunia nella sua accezione più comprensiva, con riferimento cioè non solo al denaro (con riguardo al valore della causa), ma anche – e allo stesso fine – alle altre res che potevano essere oggetto della controversia, con una valenza semantica tanto ampia da ben giustificare che venisse posta la questione – sia pure per escluderla sotto lo specifico profilo considerato – della eventuale sinonimia dei due termini messi a confronto159. F. 23 – D. 50.16.7 Probabilmente da mettere in relazione con il commento delle stesse parole edittali è del resto anche il breve testo di D. 50.16.7160. Nel passo – che costituisce uno dei rari casi in cui, ancora
denzia piuttosto la connessione sintattica tra la chiusa id est e il non ἔργον che immediatamente la precede, giungendo alla conclusione che il testo non ponga la distinzione tra locatio operis e locatio operarum, ma piuttosto si limiti a dire che opus è l’attività che non deve confondersi con l’oggetto materiale che ne può conseguire, cioè appunto l’opus perfectum ex opere factum. Riporta invece le argomentazioni contenute in D. 50.16.5.1 alla distinzione tra locatio operis e locatio operarum, Stoop, 1998, 20, che, peraltro, non sembra rendersi conto delle diverse posizioni dottrinali esistenti in proposito, richiamandosi congiuntamente alle interpretazioni contrapposte di Biscardi e di Wubbe (cfr. ibidem, 20, nt. 102). 157 Oltre a Wubbe, 1982, 243 ss., cfr. anche Pinna Parpaglia, 1983, 147 ss., nonché Vigneron, 1993, 511 s. 158 Puramente congetturale è la proposta palingentica relativa a D. 50.16.5.1 formulata da Biscardi, 1989b, 170, il quale ritiene che il testo sia da mettere in relazione con la formula dell’actio locati conducti. Nello stesso senso Trisciuoglio, 1998, 78 s., che tuttavia riferisce l’ipotesi alla sola definitio labeoniana. Diversamente Lenel, 1881, 43 (= 1990, I 309), secondo cui la definizione di opus locatum conductum avrebbe avuto riguardo alle locazioni pubbliche di costruzione concluse dai magistrati municipali, per le cui controversie sarebbe stato a suo avviso – onde assicurare una buona amministrazione – competente il pretore. Incerto, ma in un quadro volto ad accettare la collocazione di D. 50.16.5 nell’ambito del secondo libro del commentario paolino all’editto, Wubbe, 1982, 243, nt. 11. Congetturale è anche l’ipotesi di Cuiacius, 1584, 28 s., secondo cui il testo di D. 50.16.5.1 avrebbe considerato l’editto quod quisque iuris in alterum statuerit, ut ipse eodem iure utatur (E. 8), mentre l’inscriptio rifletterebbe dunque il contesto da cui era tratto il solo pr., cui il § 1 sarebbe stato aggiunto pur appartenendo a un libro successivo (il terzo). 159 Cfr. lex Rubria de Gallia Cisalpina, c. 22, ll. 27-28: ...et sei ea res erit, de qua re omnei pecunia ibei ius deicei iudiciave darei ex h(ac) l(ege) o(portebit)... Con riferimento al testo e in particolar modo al significato da attribuire alle parole omnei pecunia nella lex Rubria v., anche con riferimento a D. 50.16.5pr., Laffi, 1986, in specie 40 ss. Su lex Rubria de Gallia Cisalpina, c. 22, ll. 27-28, cfr. anche Bruna, 1972, 211 ss. 160 Per l’ipotesi prospettata nel testo, v. già Lenel, 1881, 39 (= 1990, I 305), che, nel quadro della sua ricostruzione rivolta, come è noto, a ipotizzare che nel secondo libro del commentario edittale di Paolo ci si occupasse dell’editto relativo al vadimonium Romam, osserva che l’obligatio verborum con cui il convenuto si impegnava a prestare il vadimonium era appunto indicata nell’editto come sponsio. L’opinione leneliana è ripresa da Arangio-Ruiz, 1962, 206, nt. 21, che, a sua volta, sottolinea come le obligationes verborum processuali si chiamassero appunto sponsiones, mostrando tuttavia di preferire l’ipotesi – che fu formulata già dall’Alibrandi, ma che non sembra trovare rispondenza nella ricostruzione della parte iniziale dell’editto – secondo cui “nei capitoli introduttivi dell’Editto si facesse menzione delle sponsiones tertiae e dimidiae partis di Gai. IV 171”.
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Giovanni Luchetti nella raccolta di iura, è dato riscontrare l’uso del termine sponsio – si precisa che, benché l’uso in questione fosse da porre in relazione con la interrogatio sponsus161, si poteva tuttavia riconoscere ad esso un’espressività semantica assai più ampia, dovendosi intendere il termine – da gran tempo convenzionalmente utilizzato per indicare le obligationes verborum processuali – come rivolto a indicare in generale ogni obbligazione verbale (omnis stipulatio promissioque), precisazione questa che risultava tanto più opportuna se si pensi al fatto che alla verborum obligatio con cui il convenuto si impegnava a prestare il vadimonium potevano essere eventualmente chiamati anche dei peregrini162. F. 24 – D. 7.7.1 In questo quadro sembrano potersi inserire anche un paio di passi che fanno riferimento ad alcune questioni in materia di obbligazioni riguardo alle quali potevano, tra l’altro, forse sorgere dubbi interpretativi circa l’effettiva competenza a giudicarne da parte degli organi della giurisdizione locale anche in considerazione dei limiti per materia e per valore ad essa imposti163. In questo senso, un possibile dubbio circa la stessa possibilità di agire in giudizio sembra risolto in D. 7.7.1 in cui, con riferimento alle obbligazioni da stipulazione (quindi rispetto ad un agere secondo la definitio labeoniana di D. 50.16.19), si precisa che non potevano né essere adempiute, né essere giudizialmente richieste prima che la prestazione promessa fosse risultata possibile, in quanto il suo oggetto fosse venuto compiutamente a esistenza. L’opera, in quanto consistente in un atto o in un comportamento, non viene dunque in essere (non è cioè in rerum natura), se non a partire dal momento in cui viene compiuta e realizzata164. Tale visione realistica – che è propria della giurisprudenza più matura – sembra conseguentemente poter implicare che le operae in quanto tali non potessero essere immediatamente suscettibili di valutazione economica165. Ciò – nel caso prospettato dal giurista severiano – doveva valere
161 Su quest’aspetto, cfr. Magdelain, 1980, 220. Sulle rare ricorrenze dei sostantivi derivati dal verbo spondeo nel Digesto, cfr. anche Arangio-Ruiz, 1962, 206 s. Quanto alla normale eliminazione nel Digesto del termine sponsio e alla sua conservazione, invece, in D. 50.16.7, cfr. Levy, 1907, 402, il quale – discutibilmente – ritiene che il testo facesse riferimento alla sponsio come obbligazione del debitore principale. 162 Su D. 50.16.7, anche con riferimento all’uso del termine sponsio per indicare le obligationes verborum processuali, cfr. in specie le osservazioni di Bruna, 1972, 69 s. È appena il caso di osservare che l’unilateralità della stipulatio implica il presupposto che, benché la promessa avesse per oggetto la comparizione del convenuto, fosse comunque implicito l’obbligo della presenza anche dell’attore. Del resto, quanto al fatto che i vadimonia prestati in iure avanti al magistrato fossero compiuti mediante stipulazioni pretorie, v. Cloud, 2002, 161. 163 Sul punto, con riferimento specifico alla competenza ratione materiae dei magistrati del municipio di Irni così come risulta fissata da lex Irnitana, c. 84, ll. 6-16, v., per un accurato esame delle materie escluse dalla competenza giurisdizionale dei magistrati locali, Wolf, 2000, 40 ss. Sul punto, in precedenza, brevemente anche d’Ors, 1983, 29 s. Quanto alla competenza per materia dei magistrati locali alla luce della testimonianza della lex Rubria de Gallia Cisalpina, cc. 20-23, cfr. invece Laffi, 1986, 24. Sui limiti per valore, cfr. in particolare supra, 124, nt. 94. 164 Cfr. anche (Ulp. 43 ad Sab.) D. 38.1.9pr.: Operae in rerum natura non sunt. Sul punto v., per un accenno, Kaser, 1980, 135 e nt. 203. Sul significato da attribuire alle espressioni in rerum natura esse o stare per rerum natura, cfr. Didier, 1981, 231 e nt. 192 (cui rinvio per l’ampia indicazione delle fonti). Che si tratti di espressioni che si riferiscono a ciò che esiste e che pertanto alludano alla materiale esistenza, v. anche Maschi, 1937, 65 ss. 165 Su questo aspetto e per la diversa posizione dei veteres, v., con riferimento all’antica controversia tra Quinto Mucio e Servio Sulpicio in materia di societas, in specie Behrends, 1984, 204 s. Quanto al fatto che le operae nella concezione che si riscontra nei giuristi di epoca severiana non costituissero valori attualmente disponibili, dovendosi escludere, conseguentemente, una loro immediata valutazione economica, cfr. Id., 1981, 187 e 193 ss.
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Commento specificamente per la stipulatio ‘quod ex Arethusa natum erit’ in cui, in un qualunque momento anteriore alla nascita, l’oggetto della stipulatio – e cioè il nascituro – non può certo a tale stregua ritenersi esistente166. F. 25 – D. 18.5.6 Il secondo testo è quello di D. 18.5.6, che si riferisce invece alla compravendita (quindi a un contrahere in senso stretto) conclusa con pactum displicentiae, precisando che non era opinione da tutti condivisa quella di Sabino, il quale aveva sostenuto che il patto potesse essere fatto valere mediante l’azione contrattuale167. Paolo – che non sembra prendere posizione al proposito – ricorda dunque anche il diverso orientamento che privilegiava il riconoscimento della spettanza piuttosto di un’actio in factum proxima empti, di una azione concessa cioè a somiglianza dell’azione tipica del contratto consensuale di compravendita168. Al proposito si può osservare che la questione prospettata trova corrispondenza in D. 19.5.20pr. un testo ulpianeo che riecheggia una quaestio labeoniana che, con riferimento a una fattispecie analoga – in cui peraltro si privilegiava il momento della datio ad experiendum piuttosto che quello della vendita già avvenuta –, veniva risolta dal giurista severiano negando o quanto meno mettendo in dubbio la possibilità di esperire l’azione contrattuale e ipotizzando piuttosto che potesse essere concessa nella fattispecie un’actio praescriptis verbis169.
166 Ciò peraltro implica che la mancata ricomprensione del nascituro nell’ambito delle res humanae indichi semplicemente il suo stato fisiologico, senza che in ciò si debba necessariamente scorgere un accenno alla sua condizione giuridica: cfr. Balestri Fumagalli, 1983, 342 s. Sulla questione, anche con specifico riferimento al testo di D. 7.7.1, v. in precedenza, ampiamente, Maschi, 1937, 67 ss. 167 Sul testo di D. 18.5.6, cfr. Burdese, 1985, 24, 51 e 64; Sargenti, 1987, 64 s. (= 2011, 1207 s.). Quanto alla posizione di Sabino v. anche Apathy, 1994, 115 e nt. 97, nonché particolarmente Gallo, 1995, 78 s. Per l’affermarsi in generale nella giurisprudenza severiana della soluzione che prevedeva una diffusa esperibilità dell’azione contrattuale, v. altresì Thomas, 1979, 418. Peraltro, come sottolinea Gallo, 1995, 77 s., sembra risalire proprio alla giurisprudenza severiana il prevalere dell’orientamento che, nello specifico, voleva che il pactum displicentiae fosse fatto valere mediante l’actio ex empto. 168 Questa era una sola delle soluzioni alternative prospettabili e, anzi, da qualcuno è stata considerata frutto di interpolazione: cfr. Thomas, 1979, 417 s.; perplessità sono avanzate anche da d’Ors, 1975, 597. Per un quadro della letteratura interpolazionistica, cfr. Levy – Rabel, 1929, 327 s.; che il testo, benché manomesso, sia stato soltanto accorciato è però sostenuto da Wesel, 1968, 167 s., il quale esclude che nella fattispecie potesse essere invece concessa un’actio praescriptis verbis. Che il testo sia stato solo accorciato dai giustinianei è sostenuto anche da Gallo, 1995, 75 ss., secondo cui entrambe le soluzioni prospettate sarebbero state presenti nell’originale paolino, che avrebbe richiamato una discussione presente nella giurisprudenza del primo principato e, forse, al suo tempo non ancora del tutto sopita. 169 Cfr. (Ulp. 32 ad ed.) D. 19.5.20pr.: Apud Labeonem quaeritur, si tibi equos venales experiendos dedero, ut, si in triduo displicuissent, redderes, tuque desultor in his cucurreris et viceris, deinde emere nolueris, an sit adversus te ex vendito actio. et puto verius esse praescriptis verbis agendum: nam inter nos hoc actum, ut experimentum gratuitum acciperes, non ut etiam certares. Che la questione posta da Labeone sia riconducibile anche al fatto che appunto la vendita non veniva prospettata come perfetta (circostanza evidente nelle parole deinde emere nolueris) è sostenuto da Sargenti, 1987, 64 s. (= 2011, 1206 s.), il quale cautamente ipotizza che il giurista di epoca augustea risolvesse la questione prospettata prevedendo la concessione dell’actio doli. Sul punto, cfr. però Flume, 1976, 325, secondo cui la soluzione prescelta da Labeone, per quanto non espressamente tramandata, si sarebbe risolta nella concessione dell’azione contrattuale. In senso contrario, su quest’ultimo punto, cfr. Gallo, 1995, 80, il quale, a sua volta, ipotizza che Labeone prospettasse la concessione dell’actio doli; cfr. anche Id., 1992, 206 s. Peraltro, che si possa intravedere un contrasto tra Sabiniani e Proculiani è escluso da Wesel, 1968, 168.
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Giovanni Luchetti F. 26 – D. 26.5.15 Si tratta di un testo che riguarda la datio tutoris170 e che Lenel ritiene connesso alla necessità di assegnare un tutore (o eventualmente un curatore speciale) ai fini della prestazione del vadimonium Romam171. Peraltro, come attestano le fonti, la datio tutoris rientrava normalmente nelle competenze dei magistrati municipali172 e sarebbe pertanto plausibile ritenere che il giurista, come nel caso dei due testi provenienti dal secondo libro del commentario ulpianeo (D. 26.1.10 e D. 46.6.8), se ne occupasse laddove il testo edittale commentato (che doveva comunque essere quello relativo al vadimonium Romam) forniva l’occasione di compiere una digressione in ordine alle materie rimesse alla giurisdizione municipale173. Tuttavia il testo paolino sembra appartenere a un contesto diverso, riferendosi a quella datio tutoris speciale che interveniva nel caso in cui dovesse essere sostituito il tutor absens rei publicae causa, vale a dire proprio la situazione tipica di chi poteva di norma far valere il ius domum revocandi. F. 27 – D. 2.1.6 Alcuni altri testi, come sappiamo, riguardano infine la iurisdictio mandata, le facoltà connesse e i suoi eventuali limiti174. Deve essere preso innanzi tutto in considerazione un testo che nella raccolta di iura risulta strettamente collegato a quello giulianeo che lo precede (D. 2.1.5),
170 Per l’interpolazione di curator in sostituzione dell’originario tutor – avvalorata dal testo di (Cels. 11 dig.) D. 26.5.11 (Curator pupillo vel pupillae non datur, si tutor eorum afuerit) – cfr. in specie Lenel, 1889.I, 968, nt. 9. Sul punto v. anche Levy – Rabel, 1931, 126. Nella dottrina recente v. altresì Domingo, 1993, 53. Sembra confermare l’interpolazione anche (Paul. 10 resp.) D. 26.1.12. 171 Al proposito – sempre con riferimento alla datio tutoris – v. anche (Ulp. 2 ad ed.) D. 26.1.10: Etiam non municeps tutor dari potest, dummodo municipi detur. Per quanto riguarda la cautio rem pupilli salvam fore richiesta a chi fosse nominato per il compimento di atti specifici, cfr. (Ulp. 2 ad ed.) D. 46.6.8: Et si ad species curator datus sit, rem salvam fore stipulatio interponetur. Per l’ipotesi che si tratti di testi che siano tutti da mettere in relazione con l’obbligo gravante sul magistrato municipale di nominare un tutore (o eventualmente un curatore speciale) qualora fosse richiesta la promessa del vadimonium Romam, v. Lenel, 1881, 39 (= 1990, I 305). 172 Cfr. in proposito lex Salpensana e lex Irnitana c. 29, lex Ursonensis sive Coloniae Genetivae Iuliae c. 109; nonché TH2 D13 e TH2 88+58. V. anche (Ulp. 36 ad ed.) D. 26.5.3: Ius dandi tutores datum est omnibus magistratibus municipalibus eoque iure utimur, sed illum, qui ab eodem municipio vel agro eiusdem municipii est (cfr. altresì [Ulp. 3 disp.] D. 27.8.2; [Ulp. 36 ad ed.] D. 27.8.1pr.; [Paul. 16 ad Plaut.] D. 26.5.19pr.-1; [Ulp. 13 ad Sab.] D. 38.17.2.23; [Diocl. et Max., a. 294?] C. 5.75.5). Su tale competenza dei magistrati municipali, v. Grelle, 2006, 411 ss., nonché Sciuto 2007, 349 ss. Con particolare riferimento al c. 29 della lex Irnitana, cfr. anche d’Ors, 2001, 5 ss. (con riferimento a lex Ursonensis sive Coloniae Genetivae Iuliae c. 109, cfr. in specie 52 ss.) e Mainino, 2006, 369 ss. Per un quadro d’insieme della legislazione romana in tema di tutela, rinvio anche all’indagine storico-ricostruttiva fornita da Nörr, 2001a, 1 ss. (= 2012, 31 ss.). 173 Per questa ipotesi, cfr. già Domingo, 1993, 53 s., che peraltro – tenendo conto della natura infamante dell’actio tutelae – evidenzia altresì la possibilità, a mio avviso meno probabile, che dell’argomento si parlasse piuttosto in relazione alle azioni precluse alla giurisdizione municipale. È vero che l’argomento era affrontato da Paolo (v. supra, 132 e 135 s., con riferimento a D. 16.3.6 [F. 21] e a D. 50.17.106 [F. 20]) e che delle azioni infamanti si occupava anche “in parallelo” il commento ulpianeo (cfr. D. 50.17.104; D. 44.7.36; D. 47.12.1 e forse anche, più indirettamente, D. 12.1.10), ma mi sembra più convincente ritenere che i giuristi che commentavano l’editto si occupassero ex professo della datio tutoris, in quanto appunto competenza dei magistrati locali. 174 Sull’argomento cfr., per una sintesi, Kaser – Hackl, 1996, 188 s.; per un quadro dettagliato delle fonti e della letteratura, v. altresì in particolare Fanizza, 1994, 303 ss. Con riferimento alla trattazione dei commentari edittali, v. inoltre Domingo, 1993, 64 ss.
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Commento passo quest’ultimo in cui veniva posto il principio generale secondo cui poteva essere delegata la giurisdizione che venisse esercitata dal mandante suo iure, ma non quella che venisse invece detenuta alieno beneficio175. Il testo paolino, fatto dunque cenno, nel nuovo contesto in cui è inserito, a quali fossero i casi in cui si doveva di norma escludere la possibilità di mandare iurisdictionem (in quanto attribuita da una legge o da un provvedimento imperiale) è volto a precisare, affermando di rifarsi a un’interpretazione labeoniana, che, in caso di iurisdictio mandata, i poteri delegati venissero meno qualora fosse deceduto il mandante prima che colui al quale la giurisdizione fosse stata delegata avesse cominciato a esercitarla e ciò analogamente a quanto avveniva nel rapporto di mandato privatistico176. F. 28 – D. 1.16.12 Peraltro in un altro testo paolino del secondo libro del commentario edittale, riprodotto questa volta in D. 1.16.12, si afferma che al legato cui sia stata affidata la giurisdizione dal proconsole è concessa anche la datio iudicis, benché in un altro testo dello stesso giurista severiano (D. 5.1.12.1), che conferma la facoltà del legato di dare iudicem, si aggiunga che la datio iudicis era competenza attributa al proconsole dalla legge177. Il coordinamento di quest’ultimo testo con quanto detto in D. 2.1.6 [F. 27] sembra ottenersi dunque o ipotizzando che sia intervenuto un apposito provvedimento imperiale di concessione (in questo senso potrebbe intendersi, se riferita alla delega al legato, l’espressione nec ipsa lex defert, sed confirmat mandatam iurisdictionem) o, altrimenti, ritenendo piuttosto che la datio iudicis fosse inerente alla qualità di mandatario generale della iurisdictio, circostanza che conferiva al delegato, che certamente era capace della datio iudicis formulare, anche quella cognitoria che di fatto, nella pratica, doveva confondersi con la prima178.
175 (Iul. 1 dig.) D. 2.1.5: More maiorum ita comparatum est, ut is demum iurisdictionem mandare possit, qui eam suo iure, non alieno beneficio habet. Sul testo giulianeo, cfr. in specie Fanizza, 1994, 312. Peraltro, come evidenzia la stessa autrice (cfr. ibidem, 350 ss.), fu ammessa la possibilità di delega (uso qui e nel testo una terminologia comunemente utilizzata, benché i termini latini mandare e delegare abbiano valenze semantiche diverse, che si ripercuotono sui “significati che questi due termini sviluppano all’interno delle istituzioni giuridiche e all’interno della disciplina dei rapporti tra i soggetti investiti delle funzioni giudiziarie” [v. ancora Ead., 1994, 330 e nt. 76, con letteratura]) anche in talune circostanze in cui il potere delegato non poteva dirsi esercitato suo iure dal delegante: si tratta dei casi che riguardano la datio tutoris (D. 26.5.1) e la cognitio de suspectis tutoribus (D. 26.10.1.4). 176 Un ulteriore principio in questo senso lo si può leggere in (Paul. 18 ad Plaut.) D. 1.21.5pr.: Mandatam sibi iurisdictionem mandare alteri non posse manifestum est. Sul testo, cfr. in particolare Fanizza, 1994, 349. 177 (Paul. 17 ad ed.) D. 5.1.12.1: Iudicem dare possunt, quibus hoc lege vel constitutione vel senatus consulto conceditur. lege, sicut proconsuli. is quoque cui mandata est iurisdictio iudicem dare potest: ut sunt legati proconsulum. item hi quibus id more concessum est propter vim imperii, sicut praefectus urbi ceterique Romae magistratus. Quindi la datio iudicis è prerogativa di chi ne abbia ricevuto facoltà dalla legge, da un senatoconsulto o da costituzioni imperiali. v. anche (Ulp. 1 de appell.) D. 49.3.1.1: Ab eo, cui quis mandavit iurisdictionem, non ipse provocabitur: nam generaliter is erit provocandus ab eo cui mandata est iurisdictio, qui provocaretur ab eo qui mandavit iurisdictionem. Sul punto, con riferimento ai due testi e alle regole in essi enunciate, v. le osservazioni della Fanizza, 1994, 327 ss. 178 Per questa alternativa, cfr. le osservazioni di Spagnuolo Vigorita, 1990, 155 s., nt. 91, il quale rileva altresì che nei procedimenti cognitori – nonostante l’origine delegata di gran parte dei poteri giurisdizionali (cfr. Kaser – Hackl, 1996, 460 e nt. 3) – la facoltà di delega, di norma preclusa al mandatario, non era impedita a chi ne era stato investito e ne era considerato in sostanza il vero titolare. Per l’ipotesi che la posizione di Paolo sia riconducibile piuttosto a un’impostazione volta al superamento di ogni distinzione tra iurisdictio e atti non giurisdizionali
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Ivano Pontoriero
Libro III [Sulla giurisdizione (E. II)] [Sulla corruzione dell’albo edittale (E. 7)] Il terzo libro si apriva con la trattazione delle previsioni contenute nel titolo edittale dedicato alla giurisdizione del pretore, che secondo la ricostruzione generalmente accolta e solo in tempi relativamente recenti posta in discussione dalle ricerche condotte da Rafael Domingo, aveva inizio con l’editto de albo corrupto179. L’autore spagnolo ha, in particolare, sostenuto che quest’ultimo fosse preceduto dall’editto quod quisque iuris in alterum statuerit, ut ipse eodem iure utatur. La motivazione fornita è che il contenuto dell’editto di ritorsione presenterebbe una relazione più stretta con le previsioni concernenti i magistrati municipali rispetto all’editto de albo corrupto180. L’argomento non assume, tuttavia, valore probante: la stessa struttura dell’editto, come è stato più volte messo in luce, dipende essenzialmente da ragioni storiche e non presenta affatto il carattere di sistematica organicità che l’autore spagnolo intende invocare a sostegno delle proprie convinzioni181. L’ordine espositivo seguito dal Digesto, per quanto quest’ultimo non assuma un valore decisivo, potendo anzi riflettere, come a volte accade, tentativi di sistemazione posteriori, induce, in assenza di diverse e più sicure indicazioni provenienti dalle fonti, a seguire la ricostruzione tradizionale. L’opinione più risalente trova infatti conforto nella successione del titolo D. 2.2 quod quisque iuris in alterum statuerit, ut ipse eodem iure utatur al titolo D. 2.1 de iurisdictione, in cui sono in parte confluite le testimonianze giurisprudenziali sull’editto de albo corrupto182. La storiografia più risalente escludeva, sulla base di (Ulp. 3 ad ed.) D. 2.1.7.3, che l’azione scaturente da quest’ultimo editto potesse avere carattere nossale183. La risposta all’interrocon la conseguenza di considerare passibili di delega le facoltà del proconsole indipendentemente dalla loro natura e provenienza, v., con riferimento a (Paul. 50 ad ed.) D. 40.2.17 in materia di manomissioni, in specie Fanizza, 1994, 353 ss. 179 Sul punto, v. Cuiacius, 1584, 30; Rudorff, 1869, 31 s.; Lenel, 1889.I, 969; Id., 1927, 57, e, da ultima, Tuccillo, 2018, 1. Diversamente Domingo, 1995, 81 ss. e 117. Per un inquadramento di carattere generale, v. altresì Pontoriero, 2013, 7 ss. 180 Cfr. Domingo, 1995, 81 s. La relazione individuata trova fondamento nella congettura, che suscita forti riserve, di un’originaria destinazione dell’editto di ritorsione ai soli magistrati municipali (v. in particolare 71 ss.). La tesi di Domingo è stata ripresa e sviluppata da Sixto, 2006, 943 ss. In senso contrario, cfr. però Paricio, 1996, 72 s.; Masi Doria, 2011, 423 ss. (= 2015, 58 ss.) e Tuccillo, 2018, 26 ss. 181 V. Lenel, 1927, 16 ss., che sottolinea come ragioni di carattere storico abbiano influenzato sia il contenuto sia la struttura dell’editto. È appena il caso di ricordare che è dato individuare una stretta relazione anche tra le disposizioni dell’editto de albo corrupto e quelle dell’editto di ritorsione. Per questa osservazione, v. Paricio, 1996, 72 e 74, che evidenzia, inoltre, la possibilità, da non escludere allo stato delle nostre conoscenze, che l’editto de albo corrupto sia stato emanato prima dell’editto di ritorsione e, forse, anche prima della lex Aebutia: ciò giustificherebbe anche la precedenza della collocazione delle relative previsioni nel sistema dell’editto. 182 Se è vero che l’esame delle inscriptiones dei frammenti giurisprudenziali non ostacola il tentativo di ricostruzione proposto dall’autore spagnolo (cfr. Domingo, 1995, 81), non bisogna dimenticare l’importante ruolo di guida svolto dalla successione dei titoli nel Digesto. Sul punto, v. Lenel, 1927, 7. 183 Cuiacius, 1584, 30; Noodt, 1724, 49; Ferrini, 1887, 349 e nt. 2 (= 1929, II 132 e nt. 2). Di tutt’altro avviso è Albanese, 1967, 132, nt. 28 (= 1991, I 496, nt. 28). Sulla questione, v. anche Pontoriero, 2013, 13 e nt. 18.
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Commento gativo sulla nossalità dell’azione si ripercuote, inevitabilmente, sulla ricostruzione palingenetica dei grandi commentari dei giuristi severiani. In particolare, per quanto concerne la collocazione di D. 9.4.3, D. 9.4.5, D. 9.4.7, tutti provenienti dal terzo dei libri ad edicutm ulpianei, nonché del frammento (Paul. 3 ad ed.) D. 9.4.4 [F. 31]. A favore della riconduzione di tali testimonianze al commento dell’editto de albo corrupto si è pronunciato Lenel, dopo lunga e prudente riflessione184. Tale ricostruzione, generalmente accolta, è stata revocata in dubbio da Fernand de Visscher e da Teresa Giménez-Candela, ma con argomentazioni che non appaiono condivisibili185. È possibile dunque affermare che l’azione scaturente dall’editto avesse carattere nossale186. Il tema della nossalità delle azioni emerge per la prima volta nel sistema dell’editto proprio con le previsioni contenute nella clausola de albo corrupto: ciò giustifica l’ampiezza della trattazione dei giuristi severiani al riguardo187. Deve essere ancora ricordato in questa sede che i frammenti (Ulp. 3 ad ed.) D. 9.4.3 e (Paul. 3 ad ed.) D. 9.4.4 [F. 31] permettono di ipotizzare fondatamente che l’editto de albo corrupto contenesse un riferimento testuale alla nozione di scientia domini, evidentemente allo scopo di limitare l’applicazione del regime nossale alla sola ipotesi del dominus insciens188. Per quanto concerne il profilo della ricostruzione palingenetica del commento paolino all’editto de albo corrupto, la successione dei frammenti nell’ordine D. 2.1.9 [F. 29], D. 47.23.4 [F.30] e D. 9.4.4 [F. 31] rimane alquanto incerta. Anche Krüger, riproducendo l’ordine della palingenesi leneliana, esprime dei dubbi in proposito189. Trattandosi di frammenti che provengono da diversi titoli del Digesto, non soccorre l’impiego del criterio delle sequenze bluhmiane. Considerazioni di carattere contenutistico potrebbero forse in-
184 Lenel, 1889.I, 969 e nt. 1; Id., 1889.II, 428 s. e nt. 5 (le testimonianze ulpianee vengono qui richiamate, precedute dall’asterisco che indica separazione dalla rubrica precedente [cfr. Praef., IV], con l’annotazione “Fr. 224226 quo pertineant, in incerto est. Cf. autem Lenel, § 7”); Id., 1927, 57. 185 Cfr. de Visscher, 1947, 497, nt. 22 e 569, nt. 5, che ha ipotizzato la riferibilità dei frammenti (Ulp. 3 ad ed.) D. 9.4.3; (Paul. 3 ad ed.) D. 9.4.4; (Ulp. 3 ad ed.) D. 9.4.5; (Ulp. 3 ad ed.) D. 9.4.7, al titolo de edendo. Risultano essere, tuttavia, decisive, in senso contrario, le osservazioni di Albanese, 1967, 133 s. e nt. 30 (= 1991, I 497 s. e nt. 30). Giménez-Candela, 1980, 124 s., sottolinea: “que no ofrece seguridad la pertenencia de estos fragmentos a la rubrica de albo corrupto”. L’autrice ritorna sulla questione in Ead., 1981, 142 s. e 406 s., dove giunge alla conclusione di ritenere “más probable que los textos que se han querido relacionar con esta acción penal (scil. actio de albo corrupto) tengan sentido dentro de una conexión más general del título edictal de iurisdictione”. I dubbi della Giménez Candela sono giudicati “assai vaghi” da Stolfi, 2002.II, 74 e nt. 8. 186 Il primo paragrafo del commento tradito da (Ulp. 3 ad ed.) D. 2.1.7 chiarisce come le previsioni dell’editto trovino applicazione anche alle personae potestati subiectae e di entrambi i sessi (cfr. D. 2.1.7.1: Servi quoque et filii familias verbis edicti continentur: sed et utrumque sexum praetor complexus est [Sono ricompresi nelle parole dell’editto anche i servi e i figli in potestà: ma il pretore, inoltre, vi ha incluso entrambi i sessi]). Sul carattere nossale dell’azione, cfr. in particolare Albanese, 1967, 132 e nt. 28 (= 1991, I 496 e nt. 28). 187 V. in proposito Levy, 1918, 159; Albanese, 1967, 134 (= 1991, I 498); Domingo, 1995, 91; Marrone, 2003, 170 (= 2003, II 843). 188 (Ulp. 3 ad ed.) D. 9.4.3: In omnibus noxalibus actionibus, ubicumque scientia exigitur domini, sic accipienda est… [In relazione a tutte le azioni nossali, ogniqualvolta venga considerata la consapevolezza del padrone, deve essere intesa così…]. (Paul. 3 ad ed.) D. 9.4.4.: In delictis servorum scientia domini quemadmodum accipienda est… Sul punto, v. Albanese, 1967, 134 (= 1991, I 498), e, ampiamente, Domingo, 1995, 92 ss. 189 Sulla posizione espressa da Lenel, v. supra, nt. 184. Cfr. Krüger, 1905, 897: D. 2.1.9, D. 47.23.4 (?), D. 9.4.4 (?).
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Ivano Pontoriero durre a ipotizzare un più stretto collegamento tra D. 2.1.9 [F. 29] e D. 9.4.4 [F. 31], ma, in mancanza di ulteriori riscontri, mi sembra opportuno non modificare l’ordine di successione comunemente accolto. F. 29 – D. 2.1.9 Nel frammento in esame, Paolo si sofferma sull’ipotesi in cui la condotta oggetto di riprovazione venga posta in essere da un gruppo di schiavi appartenenti ad un solo dominus (Si familia alicuius album corruperit)190. Nella fattispecie, diversamente da quanto previsto dall’editto si familia furtum fecisse dicetur (non similiter hic edicitur ut in furto), non si dispone che non venga data l’azione nei confronti degli altri compartecipi (ne in reliquos actio detur), se il dominus, avendo voluto assumerne la difesa, abbia pagato a nome di uno solo quanto avrebbe dovuto pagare un uomo libero (si tantum dominus, cum defendere voluit, unius nomine praestiterit, quantum liber praestaret)191. Secondo il giurista severiano, tanto rigore dipende, forse, dal fatto che viene punita dall’editto de albo corrupto l’offesa arrecata alla maiestas praetoris e si ritengono posti in essere una pluralità di illeciti (fortasse quia hic et contempta maiestas praetoris vindicatur et plura facta intelleguntur), come si verifica quando più schiavi abbiano commesso ingiuria o arrecato un danno (quemadmodum cum plures servi iniuriam fecerunt vel damnum dederunt)192. La motivazione fornita è che anche in queste ipotesi viene commessa una pluralità di illeciti, non uno solo come avviene nel caso del furto (quia plura facta sunt, non ut in furto unum)193. Paolo ricorda anche l’opinione contraria di Ottaveno, secondo la quale sarebbe stato, piuttosto, necessario sovvenire al padrone (Octavenus hic quoque domino succurrendum ait)194. L’originaria portata dell’opinione di Ottaveno viene, tuttavia, circoscritta da Paolo alla sola ipotesi in cui gli schiavi si fossero dolosamente adoperati, affinché l’albo pretorio venisse corrotto da un altro (sed hoc potest dici, si dolo malo curaverint, ut ab alio album corrumperetur). Secondo Paolo, in quest’ultima ipotesi, vi sarebbe un unico disegno, non una pluralità di illeciti (quia
190 Per il significato del termine familia, cfr. già Cuiacius, 1584, 30: “Familia, id est, grex servorum, qui sub unius domini potestate sunt”. 191 Ulpiano dà conto delle ragioni dell’introduzione dell’editto si familia furtum fecisse dicetur in (Ulp. 38 ad ed.) D. 47.6.1pr. Cfr. inoltre (Paul. 7 ad Plaut.) D. 9.4.31. Sull’editto, v. Lenel, 1927, 335. 192 Per il riferimento alla maiestas praetoris, v. le osservazioni di Stolfi, 2002.II, 78 e nt. 26. Più in geneale, con riferimento alle cariche magistratuali, cfr. d’Aloja, 2011, 131 ss. Un ulteriore impiego del termine maiestas da parte del giurista, con riferimento all’imperium del pretore, si trova in (Paul. 14 ad Sab.) D. 1.1.11. 193 Che la condotta ingiuriosa posta in essere da più schiavi integrasse una pluralità di illeciti risulta anche da (Gai. 13 ad ed. prov.) D. 47.10.34. È, invece, probabilmente frutto di una glossa il richiamo all’ipotesi del danneggiamento (vel damnum dederunt): cfr., sul punto, Krüger, 1911, 47 e nt. 1, che richiama in nota i risultati delle ricerche di Muzio Pampaloni (il quale giunse, tuttavia, alla conclusione di ritenere interpolata la testimonianza paolina, v. Pampaloni 1900, praecipue 48 ss. [sul punto, v. anche infra, nt. 195]). Per il danneggiamento, un diverso regime è attestato da (Gai. 7 ad ed. prov.) D. 9.2.32pr. e (Ulp. 38 ad ed.) D. 47.6.1.2. Una diversa interpretazione è proposta da Balzarini, 1969, 369, che, richiamando l’impiego di quaesitum est in (Gai. 7 ad ed. prov.) D. 9.2.32pr., ipotizza sia sorta una controversia giurisprudenziale sul punto. 194 Sulla riflessione scientifica di Ottaveno, cfr. Ferrini, 1887, 332 ss. (= 1929, II 113 ss.).
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Commento tunc unum consilium sit, non plura facta)195. Identico rilievo nei confronti dell’opinione di Ottaveno era stato in precedenza formulato, stando al commento del giurista severiano, da Pomponio (idem Pomponius libro decimo notat)196. F. 30 – D. 47.23.4 Il frammento, collocato dai compilatori all’interno del titolo D. 47.23 de popularibus actionibus, si sofferma sul carattere popolare dell’azione scaturente dalla violazione delle prescrizioni contenute nell’editto. Paolo, trattando della legittimazione attiva all’esercizio dell’actio de albo corrupto, afferma che è concesso proporre l’azione alla persona integra (Popularis… permittitur). L’esercizio dell’azione non spetta, dunque, agli infami197. Più problematica è l’interpretazione del successivo inciso esplicativo (hoc est… postulare licet). La storiografia più risalente ha dubitato della genuinità di questa seconda parte del frammento, sulla base della considerazione che la categoria delle persone prive dello ius postulandi non coincide – avendo quest’ultima una portata ben più ampia – con quella delle persone infami198. È merito di Max Kaser aver evidenziato, invece, come proprio nel rinvio alle previsioni in materia di ius postulandi, in assenza di una specifica disposizione edittale in tal senso, sia dato individuare l’apporto dell’interpretazione giurisprudenziale199. L’esercizio dell’azione sarebbe dunque spettato a chi fosse stato in grado di postulare200. F. 31 – D. 9.4.4 La riflessione paolina sul tema della nossalità dell’azione scaturente dall’editto de albo corrupto è testimoniata da questo frammento, collocato dai compilatori sotto il titolo D. 9.4 de noxalibus actionibus201. Il principium, come abbiamo visto, permette di ipotizzare che le pre-
195 Pampaloni, 1900, 48 ss., ha ritenuto del tutto inverosimile che il commento di Paolo giustificasse la mancata estensione analogica delle previsioni dell’editto si familia furtum fecisse dicetur alla fattispecie del danneggiamento, motivando quia plura facta sunt, non ut in furto unum. Di natura emblematica sarebbe anche la successiva spiegazione quia tunc unum consilium sit, non plura facta. Secondo l’interpretazione offerta dall’autore, l’originale scrittura paolina avrebbe negato l’applicazione delle previsioni dell’editto si familia furtum fecisse dicetur al delitto di albo corrotto, accostando quest’ultimo al delitto di ingiurie: entrambi avrebbero avuto, infatti, carattere “personale” e, dunque, insuscettibile di dar vita alla figura del c.d. “delitto collettivo” (sul punto, cfr. in particolare 46 s.). In ciò risiederebbe la ragione del dissenso del giurista dall’opinione in precedenza formulata da Ottaveno. Distinguendo tra la semplice complicità e la correità, il giurista severiano avrebbe inoltre affermato che, trattandosi di delitti di carattere personale, sarebbe stato possibile applicare solo nella prima ipotesi le disposizioni dell’editto si familia furtum fecisse dicetur. 196 È difficile determinare il contesto originario dell’opinione espressa da Pomponio. L’indicazione libro decimo non si accorda, infatti, né con l’ordine delle materie dei libri ad edictum, né con quello dei libri ad Sabinum del giurista antoniniano. Cfr. sul punto Lenel, 1889.II, 154 e nt. 1; nonché Stolfi, 2002.I, 500. 197 Il luogo corrispondente dei Basilici riconosce la legittimazione attiva a coloro i quali siano ἔντιμοι. Cfr. Bas. 60.32.8 (= Scheltema – van der Wal, A VIII, 2938): Τὰς ϕυλαττούσας τὸ τοῦ δήμου δίϰαιον ἀγωγὰς οἱ ἔντιμοι ϰινοῦσιν οἱ ϰαὶ συνηγορεῖν δυνάμενοι [Esercitano le azioni popolari le persone onorevoli, che possono anche assumere la difesa in giudizio]. Sul punto, cfr. Fadda, 1894, 70. In questo senso, v. anche Kaser – Hackl, 1996, 284, nt. 9. 198 Fadda, 1894, 70. L’autore fondava la propria tesi anche sulle osservazioni, di carattere più generale, formulate da Eisele, 1886, 18 e nt. 1, secondo cui l’impiego didattico del Digesto e del Codice avrebbe indotto i compilatori ad inserire incisi esplicativi. 199 Cfr. a questo proposito Kaser, 1956, 249 s.; Casavola, 1958, 106, nt. 275. 200 Sul punto v. Miglietta, 2009, 697 s. 201 Per la derivazione edittale della rubrica di D. 9.4, v. Soubie, 1960, 45. Secondo la ricostruzione di Lenel, 1927, 159, la relativa previsione avrebbe sanzionato con la concessione di un’azione la condotta del dominus che avesse negato di avere in potestà lo schiavo o che avesse dolosamente cessato di averlo in potestà.
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Ivano Pontoriero visioni dell’editto de albo corrupto contenessero un riferimento testuale alla nozione di scientia domini202. Nonostante i sospetti di non genuinità, più volte avanzati, soprattutto a causa della forse eccessiva ridondanza delle numerose proposizioni interrogative ivi contenute e di alcune – anche solo pretese – scorrettezze formali, la testimonianza fornisce importanti elementi di conoscenza utili a ricostruire il tenore dell’editto e il relativo dibattito giurisprudenziale203. Il giurista si chiede in che modo sia da intendere la scientia domini, quando vengano posti in essere delitti da parte di schiavi (In delictis servorum… accipienda est?)204. Le alternative prospettate – la trattazione lascia trasparire l’esistenza di un vivace dibattito giurisprudenziale sul punto – spaziano dall’accoglimento di una interpretazione particolarmente restrittiva, che identifica la scientia con l’istigazione posta in essere dal dominus (utrum cum consilio?), all’opposta soluzione di ritenere, invece, sussistere la scientia anche in caso di semplice conoscenza da parte del padrone dell’illecito commesso dallo schiavo, non accompagnata dalla concreta possibilità di impedirne la realizzazione (an et si viderit tantum, quamvis prohibere non potuerit?)205. Ci si interroga, dunque, sul trattamento di ipotesi accomunate proprio dalla mancanza in capo al dominus della concreta possibilità di prohibere la commissione dell’illecito: lo schiavo pone in essere la condotta mentre rivendica la propria libertà, o manifestando disprezzo nei confronti del padrone (quid enim… contemnat dominum?), o, contro la volontà di quest’ultimo, che pure ha modo di vedere, agisce mentre si trova sull’altra sponda di un fiume (vel cum… noxiam noceat?)206. Paolo afferma, conclusivamente, che la parola scientia debba essere intesa come la possibilità di impedire la commissione dell’illecito e che tale interpretazione dovrà essere impiegata anche in relazione a tutte le altre previsioni dell’editto (rectius itaque… scientiae verbum)207.
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Cfr. anche (Ulp. 3 ad ed.) D. 9.4.3. Sul punto, v. supra, 147 e nt. 188. Cfr. Albanese, 1967, 160 s. (= 1991, I 524 s.). 204 L’incipit del frammento, per il suo tenore generalizzante (In delictis servorum…), potrebbe essere frutto di un intervento compilatorio, funzionale ad un più agevole inserimento del brano nella trama espositiva di D. 9.4, ma non è da escludere che anche l’originale paolino avesse analoga portata: in questo senso deporrebbe, anzi, la presenza, nello stesso principium, delle parole in toto edicto. Sul punto, cfr. le osservazioni di Albanese, 1967, 160 s., nt. 69 (= 1991, I 524 s., nt. 69). 205 Secondo Albanese, 1967, 161 (= 1991, I 525), i termini della disputa giurisprudenziale sarebbero stati costituiti dalla contrapposizione tra quanti avrebbero ritenuto sussistere la scientia domini solo in caso di istigazione da parte del padrone e, quanti, invece, avrebbero piuttosto accolto una nozione più ampia, ritenendo sussistere la scientia quando il dominus, pur avendo potuto impedire la commissione del delitto da parte del sottoposto, non lo avesse fatto. 206 Lenel, 1889.I, 969 nt. 2, sostituisce ad libertatem proclamans con in libertatem adsertus. È molto probabile, infatti, che i compilatori, in conseguenza della riforma introdotta con la costituzione (Imp. Iust. A. Menae pp., a. 528) C. 7.17.1, abbiano eliminato l’originario riferimento all’adsertio in libertatem. Sulla riforma giustinianea e sull’attività di interpolazione sistematica da essa originata, cfr. Franciosi, 1961, 179 ss. Per una diversa interpretazione, v. tuttavia d’Ors, X. 1977, 126 nt. 88. 207 La presenza del sintagma rectius itaque, un tempo sospettata da Beseler, 1913, 105, è stata invece valorizzata da Albanese, 1967, 160 nt. 66 e 161 (= 1991, 524, nt. 66 e 525), come significativo indizio dell’esistenza di un dibattito giurisprudenziale circa la portata della nozione di scientia domini. L’orientamento di Paolo sulla nozione di scientia domini risulta anche da altri testi della compilazione: si tratta, segnatamente, di (Paul. 6 ad ed.) D. 2.10.2; (Paul. 10 ad Sab.) D. 9.2.45pr.; (Lab. 2 pith. a Paul. epit.) D. 47.2.92(91); (Paul. 39 ad ed.) D. 50.17.50. 203
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Commento È bene ricordare che da tale interpretazione del termine scientia non appare discostarsi Ulpiano, come è dato evincere da (Ulp. 18 ad ed.) D. 9.4.2.1 e (Ulp. 3 ad. ed.) D. 9.4.3. La storiografia ha evidenziato come l’emanazione della lex Aquilia de damno e la relativa interpretatio giurisprudenziale abbiano sicuramente contribuito all’elaborazione di una nozione così ampia di scientia domini208. Nel primo paragrafo del frammento, Paolo applica il principio secondo cui il dominus sciens è tenuto sine noxae deditione. Se lo schiavo altrui abbia posto in essere la condotta con la scientia di chi, in un momento successivo, lo abbia acquistato (Si extraneus servus… eumque redemero), sarà data nei confronti di quest’ultimo solo l’azione nossale. La motivazione fornita è che non si riterrà che lo schiavo abbia agito con la consapevolezza del padrone, dal momento che l’acquirente non era ancora dominus al momento della commissione dell’illecito (quia non videtur… dominus non fuerim)209. Nel secondo paragrafo, si affronta il problema del concorso tra l’azione diretta e quella nossale. Il giurista si pone l’interrogativo se debba essere concessa anche quest’ultima, nell’ipotesi in cui il dominus risulti essere tenuto in ragione della propria scientia (Cum dominus… videndum est)210. Si esclude che possa avere luogo un concorso cumulativo tra le due azioni (nisi forte… altera tollitur)211. Al tema del concorso tra l’azione diretta e quella nossale è dedicato anche il successivo paragrafo, che prende innanzitutto in considerazione l’ipotesi in cui qualcuno abbia agito con l’azione diretta contro il padrone dello schiavo, sul presupposto, rivelatosi poi infondato in giudizio, della sussistenza della scientia domini (Si detracta… erat conscius)212. All’azione nossale successivamente intentata contro il dominus potrà essere opposta l’exceptio rei iudicatae vel in iudicio deductae (absolutione facta… finita est)213.
208 Sul punto, cfr. Vacca, 1982, 705 s. Assumono rilievo in proposito le testimonianze di (Ulp. 42 ad Sab.) D. 9.2.44; (Paul. 10 ad Sab.) D. 9.2.45pr. e (Paul. 39 ad ed.) D. 50.17.50. 209 Si tratta di una soluzione simmetrica a quella adottata da (Ulp. 18 ad ed.) D. 9.4.2.1. Cfr. Albanese, 1967, 164 (= 1991, I 528). 210 Sulla questione si sofferma anche (Ulp. 18 ad ed.) D. 9.4.2.1. Dalla trattazione di quest’ultimo brano è possibile ricostruire la contrapposizione tra la posizione celsino-ulpianea, volta ad escludere la configurabilità di una responsabilità nossale del dominus sciens, e l’opposta soluzione prospettata da Giuliano, che ammette invece il ricorso ad entrambe le azioni contro il dominus, probabilmente in concorso cumulativo. 211 La critica, a partire da Faber, 1618, 922 s., ha dubitato della genuinità di D. 9.4.4.2-3. Cfr. anche Krüger, 1911, 165 e nt. 3; nonché Kaser – Hackl, 1996, 616 s. e nt. 22. È stato in particolare evidenziato come la proposizione nisi forte praetor unam poenam a domino exigi voluit si presenti formalmente isolata dal contesto della trattazione, mentre la soluzione all’interrogativo prospettato, che esclude il concorso cumulativo tra le azioni (una autem… altera tollitur), sarebbe poco coerente con le premesse del ragionamento (ergo dolus… dominus tenebitur). Sul punto, cfr. anche le osservazioni di Albanese, 1967, 165 e nt. 78 (= 1991, I 529 e nt. 78). Sul regime di concorso alternativo attestato da D. 9.4.4.2, cfr. Vacca, 1982, 708. Per l’ipotesi che le richiamate premesse del ragionamento (ergo dolus… dominus tenebitur) conservino l’eco di un orientamento giurisprudenziale favorevole al cumulo, cfr. in particolare Marrone, 2003, 166 e nt. 29 (= 2003, II 840 e nt. 29). 212 In questo senso, v. Albanese, 1967, 166 (= 1991, I 530). Che nel luogo in esame conscius venga usato come sinonimo di sciens è stato ribadito, contro le osservazioni di Tilli, 1977, 29 ss., da Marrone, 2003, 160 s., nt. 14 (= 2003, II 836, nt. 14). 213 Le parole absolutione facta et finito iudicio, come pure le successive et finita, non appartengono all’originale scrittura paolina (cfr. Eisele, 1889, 54; Ferrini, 1889, 417, nt. 1; Krüger, 1911, 165 e nt. 4). L’impiego dell’espressione res in superius iudicium deducta allude, infatti, all’effetto preclusivo della proposizione di una nuova lite de eadem re,
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Ivano Pontoriero Il brano che stiamo esaminando contiene a questo punto anche la precisazione – dai più e a ragione ritenuta estranea all’originale dettato paolino – che rientra pur sempre nell’insieme di facoltà riconosciute all’attore, pentitosi della scelta dell’azione diretta precedentemente effettuata, di optare per l’azione nossale, prima della definizione del giudizio pendente (donec autem… causam transire)214. Una diversa soluzione viene, infine, prospettata per la fattispecie, diametralmente opposta, in cui sia stata dapprima intentata l’azione nossale contro il dominus sciens e si desideri, in un secondo momento, agire con l’azione diretta: in quest’ultima ipotesi il giurista afferma che l’azione non debba essere concessa (contra quoque… non est)215. La conclusione del paragrafo precisa – in modo corrispondente a quanto già visto supra per la diversa ipotesi in cui l’attore abbia prima intentato l’azione diretta – che non deve essere precluso, all’attore che lo desideri, dedurre nel giudizio nossale già instaurato la scientia domini (in ipso… est prohibendus)216.
derivante dal compimento della litis contestatio. Tale concezione è profondamente diversa e incompatibile con quella, successivamente affermatasi, che attribuisce l’effetto preclusivo della proposizione di una nuova lite alla res iudicata. Non appare pertanto condivisibile l’esegesi di Tilli, 1977, 29 ss. Nella più recente letteratura, cfr. in particolare le osservazioni di Marrone, 2003, 162 ss. (= 2003, II 837 ss.). Più in generale, con riferimento all’effetto preclusivo della litis contestatio e per l’evoluzione del diritto giustinianeo (testimoniata significativamente da I. 4.13.5 e dalla sistematica interpolazione – che è possibile riscontrare anche nel brano che stiamo esaminando – di exceptio rei iudicatae in luogo di exceptio rei iudicatae vel in iudicio deductae), cfr. per tutti Marrone, 1965, 158 ss. 214 Tale precisazione, come pure quella successiva in ipso… non est prohibendus, con cui si conclude il frammento, è stata appuntata dalla critica (cfr. Eisele, 1889, 55; Ferrini, 1889, 417, nt. 1; Krüger, 1911, 165 e nt. 4). Nel processo formulare, infatti, la possibilità di optare per l’esercizio di un’altra azione prima della definizione del giudizio sarebbe stata preclusa dalla litis contestatio. D’altro canto, ipotizzando che il giurista facesse, piuttosto, riferimento ad una fase precedente alla contestazione della lite, tali precisazioni risulterebbero del tutto scontate (cfr. Albanese, 1967, 166 s. [= 1991, I 530 s.]). È stato inoltre rilevato che ad una fase successiva alla litis contestatio farebbe pensare – qui e nella conclusione del frammento – l’impiego del termine iudicium. In questo senso, v. Marrone, 2003, 170 s. (= 2003, II 843 s.). Deve anche essere ricordato che, sulla base della formulazione del testo corrispondente di Bas. 60.5.4.3 (= Scheltema – van der Wal, A VIII, 2775), è stata sostenuta la tesi secondo cui in diritto giustinianeo la mutatio libelli sarebbe stata sempre possibile fino all’emanazione della sentenza da parte del giudice (cfr. Provera, 1960, 100 ss.; in senso critico v. tuttavia le osservazioni di Zilletti, 1965, 133 ss., che rileva, piuttosto, come la possibilità di modificare la domanda venga ammessa in siffatta ipotesi in ragione “dell’eadem res che è a base dell’una e dell’altra azione” [135]; nonché Negri, 1988, 264 ss.). 215 La diversa soluzione prospettata – rispetto a quella, già considerata supra, della concessione dell’exceptio rei iudicatae vel in iudicium deductae nel caso di previo esperimento dell’azione detracta noxae deditione – ha fatto dubitare della genuinità del brano (cfr. Levy, 1918, 164 ss.; Albanese, 1967, 167 s. [= 1991, I 530 s.]). L’ipotesi di quest’ultimo autore, secondo il quale l’ordine in cui venivano esperite le azioni avrebbe potuto assumere rilevanza “in considerazione del fatto che l’azione sine noxae deditione era giudicata in solidum (e cioè, per un ‘di più’…), mentre quella nossale non lo era” (168, nt. 81), è stata ripresa e sviluppata, con argomenti nuovi, da Marrone, 2003, 174 ss. (= 2003, II 847 ss.). Dopo aver ricordato la tendenza di Paolo ad ammettere, diversamente dagli altri giuristi classici, l’azione per la differenza nel caso di azioni penali in concorso, Matteo Marrone ha, tuttavia, evidenziato come il frammento oggetto di analisi prenda in considerazione un caso “di azione nossale solo istituita, ‘contestata’, a prescindere dall’esito” (175). La conseguente difficoltà a determinare l’interesse dell’attore e la misura della differenza – si sarebbe infatti dovuto tenere conto in anticipo di variabili non predeterminabili, come la scelta del dominus di noxae dedere, anziché pagare integralmente la pena – avrebbe indotto il giurista severiano a negare che la relativa formula processuale potesse essere concessa. La soluzione del diniego dell’azione troverebbe, quindi, giustificazione nell’inidoneità dell’exceptio rei iudicatae vel in iudicium deductae a paralizzare l’azione detracta noxae deditione – che ben potrebbe essere qualificata de alia re – intentata per la differenza. In questo senso, v. anche Fercia, 2008, 117, nt. 28. 216 Anche la conclusione del frammento, come la già esaminata precisazione donec autem… causam transire, deve essere ritenuta non genuina. Sul punto e per la bibliografia, cfr. supra, nt. 214.
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Commento Per concludere, è importante rilevare che, mentre Paolo e Ulpiano accolgono un’identica nozione di scientia domini, come mancata proibizione del compimento di un illecito, che si sarebbe potuto invece impedire, le posizioni dei due massimi giuristi severiani divergono per quanto concerne il tema del concorso tra l’azione diretta e l’azione nossale. Mentre Ulpiano sembra negare, sulla scia di Celso, la possibilità di un concorso, Paolo riconosce l’esperibilità di entrambi i rimedi217. Il concorso tra le azioni era stato, in precedenza, ammesso da Giuliano, probabilmente come concorso cumulativo. L’orientamento di Paolo appare, invece, diverso e ispirato, piuttosto, al criterio del concorso elettivo218. [Che chi abbia stabilito un diritto nei confronti di un altro, si serva di quello stesso diritto (E. 8)] La trattazione proseguiva con il commento dell’editto quod quisque iuris in alterum statuerit, ut ipse eodem iure utatur219. La palingenesi leneliana pone in successione D. 2.2.2 [F. 32] e D. 50.16.8pr. [F. 33]. Si noti: il solo principium di quest’ultimo frammento, mentre il primo paragrafo dovrebbe essere invece riferito, secondo la ricostruzione del romanista tedesco, che mi sembra preferibile (cfr. il commento ai F. 33-34), alla trattazione relativa alle prescrizioni edittali sull’obbligo di effettuare l’editio actionis. F. 32 – D. 2.2.2 Il frammento in esame è l’unico inserito dai compilatori nella sedes materiae di D. 2.2. Il giurista afferma che in forza dell’editto deve essere punita la condotta dolosa del magistrato giusdicente (Hoc edicto… ius dicentis puniri)220. Se la iurisdictio venga esercitata in modo difforme da quanto sarebbe stato opportuno, a causa della condotta imprudente dell’adsessor, ciò non deve nuocere al magistrato, ma allo stesso assessore (nam si… ipsi adsessori)221. Il diverso e più gravoso regime che caratterizza la posizione degli assessori, chiamati a rispondere della propria imprudentia, rispetto a quella del magistrato, trova fondamento
217 Una diversa interpretazione del pensiero ulpianeo è fornita da Casavola, 1976, 151 (= 1980, 34 [= 2011, 27]) e Vacca, 1982, 707 nt. 85. L’adesione di Ulpiano alla tesi di Giuliano deriverebbe dalla parte finale di (Ulp. 18 ad ed.) D. 9.4.2.1 (nos autem… probatur). Ma tale conclusione sembra contrastare con il rilievo di Ulpiano in D. 9.4.2pr.: Si servus sciente domino occidit, in solidum dominum obligat, ipse enim videtur occidisse…, che appare, invece, del tutto coerente con il dictum celsino nam servum nihil deliquisse contenuto nel primo paragrafo e con l’ulteriore passaggio dominus suo nomine tenetur, non servi. Sul punto, cfr. Albanese, 1967, 149 s. (= 1991, I 513 s.), che adduce come ulteriori testimonianze quelle di (Ulp. 23 ad ed.) D. 9.3.5.10 e (Ulp. 3 ad ed.) D. 9.4.5. 218 A tale ultimo proposito, è stato sottolineato da Vacca, 1982, 708, come la soluzione di Paolo rifletta: “l’orientamento generale della giurisprudenza di quest’epoca, che tende ad accentuare il carattere patrimoniale delle azioni penali private”. 219 Cuiacius, 1554, 33; Noodt, 1724, 49; Rudorff, 1869, 32; Lenel, 1889.I, 969; Id., 1927, 58 s. La diversa ricostruzione proposta da Domingo, 1995, 81 ss., non sembra fondata su argomenti tali da indurre ad abbandonare l’opinione tradizionale (cfr. supra, 146). Per un’introduzione di carattere generale alle previsioni contenute nell’editto, v. Pontoriero, 2013, 43 ss. e, nella più recente letteratura, Tuccillo, 2018, 15 ss. 220 La diversa interpretazione di Domingo, 1995, 81, che arriva ad ipotizzare una forma di responsabilità obiettiva gravante sui magistrati municipali, è priva di fondamento (cfr. in senso contrario le osservazioni di Paricio, 1996, 73 s.). 221 Cfr. Lévy-Bruhl, 1926, 72 ss. e Tuccillo, 2018, 58 ss.
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Ivano Pontoriero nella considerazione che, di regola, solo i primi sono in possesso di specifiche competenze giuridiche222. Sembra a questo proposito opportuno sottolineare che, nel silenzio delle previsioni edittali sul punto, l’estensione dell’ambito di applicazione dell’editto quod quisque iuris in alterum statuerit, ut ipse eodem iure utatur agli adsessores che abbiano agito con colpa costituisce senz’altro un prodotto originale dell’interpretatio giurisprudenziale223. La riflessione scientifica della giurisprudenza sulle previsioni dell’editto porta alla creazione di una regola nuova, volta a meglio garantire l’efficienza e la correttezza dell’amministrazione della giustizia. È possibile – ma non siamo in grado di affermarlo con certezza, in ragione della mancanza di ulteriori testimonianze delle fonti – che l’enucleazione di tale regola sia da ascrivere proprio alla riflessione scientifica paolina224. F. 33 – D. 50.16.8pr. Il brano è stato collocato dai compilatori sotto il titolo D. 50.16 de verborum significatione. Il commento del giurista si sofferma sul lemma edittale oportebit, precisando che l’impiego di quest’ultimo fa riferimento tanto al presente, quanto al futuro (Verbum ‘oportebit’… significat). Il primo paragrafo del frammento definisce, invece, il significato del lemma edittale actionis: ‘Actionis’ verbo non continetur exceptio. Questo dato ha indotto gli autori più risalenti a ritenere D. 50.16.8pr. originariamente collocato a commento di previsioni contenute nel successivo titolo edittale de edendo. Jacques Cujas ipotizzò, in particolare, che il giurista stesse prendendo in considerazione le formule delle azioni oggetto dell’editio225. Più tardi, Guillaume Ranchin,
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Sul punto cfr. Cuiacius, 1584, 33 s.; Lévy-Bruhl, 1926, 72 ss.; nonché Tuccillo, 2018, 54 ss. Domingo, 1995, 71 e nt. 246, partendo dall’ipotesi secondo la quale l’editto avrebbe originariamente avuto riguardo alla giurisdizione municipale, ritiene che Paolo abbia preso in considerazione gli adsessores a seguito dell’estensione dell’ambito di applicazione dell’editto alla giurisdizione esercitata dai governatori provinciali. 224 Non bisogna infatti dimenticare l’interesse di Paolo verso il ruolo degli adsessores, testimoniato dalla pubblicazione di un de officio adsessorum liber singularis (cfr. Dell’Oro, 1960, 257 ss.). Di tale opera ci sono pervenuti solo quattro frammenti: D. 1.22.1, D. 1.18.21, D. 3.3.73, D. 5.1.55 (Lenel, 1889.I, 1143). Nel primo, posto dai compilatori in apertura del titolo D. 1.22 de officio adsessorum, Paolo ricorda che gli adsessores sono iuris studiosi. Per una valutazione d’insieme della cospicua produzione scientifica paolina rivolta agli apparati della burocrazia imperiale, v. per tutti Maschi, 1976, 685 s. 225 Il tentativo di restituzione dell’editto di Perraeus, 1554, 4, non affronta la questione, perché include sotto la rubrica de edendo solo le previsioni relative agli argentarii. Cfr. Cuiacius, 1584, 45 s.: “Et ita, quod ait initio hujus legis, verbum oportebit, tam praesens quam futurum tempus significat, facile liquet, pertinere ad formulas editarum actionum ex edicto praetoris”. L’editio, in particolare, sarebbe stata validamente effettuata tanto con il ricorso nell’intentio alla forma verbale oportet quanto con l’utilizzo di quella oportebit: “Haec actio forte in personam, quae edi solet hoc modo, quod te mihi ex illa causa, puta ex causa locati, conducti, dare facere oportet, si ita edatur, quod te mihi dare facere oportebit, tantundem potest, nec perperam edita intellegitur”. Tale principio, tuttavia, aggiunge il giurista culto, non avrebbe potuto trovare applicazione alle stipulazioni convenzionali, “quae strictius accipiuntur”. A conforto di quest’ultima affermazione, Cuiacio richiamava le testimonianze di (Paul. 18 ad ed.) D. 45.1.76.1, (Paul. 9 ad Plaut.) D. 45.1.89, (Paul. 2 quaest.) D. 45.1.125. Deve essere altresì ricordato che lo stesso autore nelle Recitationes solemnes ad libros quinquaginta Digestorum esprimeva la sua decisa approvazione per la proposta di emendazione oportet, in luogo di oportebit, formulata dall’umanista ferrarese Celio Calcagnini (cfr. Cuiacius, post. 1590, 462). Di tale proposta danno ancora conto Mommsen, 1870.II, 934 e Krüger, 1911, 909, nt. 10. I Basilici confermano la lezione oportebit testimoniata dalla littera Florentina. Cfr. Bas. 2.2.8 (= Scheltema – van der Wal, A I, 22): Τὸ ‘ορροrτεbὶτ’ τὸν ἐνεστῶτα ϰαὶ τὸν μέλλοντα χρόνον δηλοῖ. Τῆς ἀγωγῆς τὸ ὄνομα οὐ δηλοῖ τὴν παραγραϕήν [Il verbo ‘oportebit’ indica il tempo presente e quello futuro. La denominazione di azione non indica l’eccezione]. 223
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Commento seguito sul punto da Gerard Noodt, ritenne, invece, di poter ravvisare in D. 50.16.8pr. il commento di un lemma delle previsioni concernenti l’editio instrumentorum226. La dottrina successiva ha proposto anche un’ipotesi diversa, inserendo il lemma oportebit nella ricostruzione della previsione edittale relativa all’editio actionis227. È merito di Otto Lenel aver dimostrato come tali ipotesi risultino inaccettabili. Riguardo alla posizione di quanti avevano ritenuto che il lemma oportebit fosse contenuto nella previsione relativa all’editio actionis, il romanista tedesco ha osservato che, così argomentando, si finirebbe con l’ammettere che Paolo avesse formulato nel suo commento l’osservazione secondo la quale il pretore avrebbe richiesto il rispetto delle proprie prescrizioni, sia al momento della propositio magistratuale, sia per il futuro228. Il brano paolino contenuto in D. 50.16.8pr. riacquista, invece, un significato plausibile e giuridicamente pregnante, se collocato, come Lenel ipotizza, a commento dell’editto quod quisque iuris in alterum statuerit, ut ipse eodem iure utatur. In questo caso, il giurista severiano avrebbe fatto allusione, attraverso il riferimento al praesens tempus, alla possibilità di avvalersi immediatamente – e non solo in futuro – delle disposizioni dell’editto, anche a fondamento della concessione di un’exceptio229. L’adesione alla tesi di Lenel, secondo cui D. 50.16.8pr. sarebbe riferibile al commento dell’editto quod quisque iuris in alterum statuerit, ut ipse eodem iure utatur, mentre il successivo paragrafo D. 50.16.8.1 [F. 34] avrebbe, invece, avuto riguardo alle previsioni edittali sull’obbligo di effettuare l’editio actionis, rende necessario supporre che il frammento paolino sia stato sottoposto dai commissari di Giustiniano a pesanti tagli al momento dell’inserimento nel titolo D. 50.16 de verborum significatione. Tale ipotesi appare ragionevolmente sostenibile, soprattutto in considerazione della funzione ordinante assunta all’interno della compilazione dai titoli conclusivi D. 50.16 de verborum significatione e D. 50.17 de diversis regulis iuris antiqui. Essi contengono, infatti, come ben sappiamo, una serie di definizioni e regole, spesso di agevole comprensione e di pronta memorizzazione, destinate, in un certo qual modo, a fungere da principi generali del sistema230. [Sull’esibizione (E. III.9)] Il titolo edittale de edendo è articolato, secondo la ricostruzione proposta da Lenel, in due sezioni, probabilmente prive di specifiche rubriche231. La prima pone a carico di chiunque intenda agire in giudizio l’obbligo di procedere all’editio actionis, la seconda si rivolge specificamente agli argentarii.
226 Ranchinus, 1597, 5: Actionem, qua quisque agere volet, itemque instrumenta, quibus in iudicio uti oportebit, adversario edere cogam sine die et consule. Noodt, 1724, 66: Itemque instrumenta quibus in judicio uti eum oportebit, adversario edere cogam sine die et consule. In senso critico nei confronti di questo orientamento, v. Lenel, 1927, 60 e nt. 2. 227 Heineccius, 1748, 334 s., che propone la seguente ricostruzione: Qua quisque actione apud me uti volet, eam illum edere adversario oportebit. Così anche Rudorff, 1869, 33: Qua quisque actione agere volet, eam edere oportebit. 228 Cfr. Lenel, 1927, 60. 229 Cfr. Lenel, 1927, 60 e nt. 3. 230 Sul valore e sulla funzione di D. 50.16, v. Marrone, 1994, 583 ss. (= 2003, I 529 ss.). 231 Lenel, 1927, 59.
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Ivano Pontoriero Al commento della clausola edittale concernente l’editio actionis è riconducibile il brano contenuto in D. 50.16.8.1 [F. 34], mentre il frammento D. 2.13.2 [F. 35] prendeva in considerazione le previsioni relative all’editio instrumentorum. Le ulteriori testimonianze riguardano la sezione edittale concernente gli argentarii. Trovano qui collocazione i brani contenuti in D. 2.13.5 [F. 36] (sull’editto concernente l’obbligo degli argentarii di rationes edere: [Ulp. 4 ad ed.] D. 2.13.4 pr.), D. 2.13.7 [F. 39] (sull’editto relativo alla richiesta di editio da parte dell’argentarius e alla reiterazione della richiesta: [Ulp. 4 ad ed.] D. 2.13.6.8), nonché D. 2.13.9 [F. 37], D. 9.2.40 [F. 40] e D. 12.2.14 [F. 38]. Notevoli problemi suscita la palingenesi di D. 2.13.9, perché considerazioni di carattere contenutistico inducono a ritenere il frammento posto a commento della previsione edittale sull’obbligo degli argentarii di rationes edere: D. 2.13.9pr.-2 sembra infatti rivolto ad individuare le persone sottoposte all’applicazione dell’editto. Il criterio formale non soccorre in merito alla collocazione dei frammenti D. 9.2.40 e D. 12.2.14. Ragioni di carattere contenutistico mi hanno indotto ad ipotizzare che D. 12.2.14 sia stato originariamente posto in successione a D. 2.13.9: la menzione del iusiurandum de calumnia imposto al richiedente l’esibizione delle rationes argentariae avrebbe offerto al giurista lo spunto per una digressione sul iusiurandum in iure. Al commento della formula dell’azione poteva, infine, essere dedicato D. 9.2.40. Uno spunto in tal senso è offerto dalla menzione della fattispecie del danneggiamento nel commento alla formula contenuto in (Gai. 1 ad ed. prov.) D. 2.13.10.3. F. 34 – D. 50.16.8.1 Il brano è posto a commento della clausola edittale concernente l’obbligo di effettuare l’editio actionis232. Il giurista si sofferma sul significato del lemma edittale “azione”, precisando che quest’ultimo non comprende l’eccezione. La precisazione paolina è perfettamente coerente con la natura stragiudiziale dell’editio actionis presa in considerazione dall’editto. L’editio ha ad oggetto lo schema formulare, che non contiene ancora – e non può ancora contenere – l’exceptio. Quest’ultima sarà, solo eventualmente, concessa dal pretore al convenuto nella fase in iure233. Era dedicato alla definizione del significato di azione anche un brano escerpito dal quarto libro del commentario ulpianeo, successivamente collocato dai compilatori nel titolo D. 44.7 de obligationibus et actionibus234. Una più ampia comprensività viene, peraltro, riconosciuta dalla giurisprudenza romana al termine actio nell’interpretazione dell’editto de dolo malo235.
232 (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.13.1pr.-1. Sul carattere stragiudiziale dell’editio actionis presa in considerazione dall’editto, v. Lenel, 1894, 374 ss. (= 1990, II 187 ss.); Id., 1927, 60 e nt. 5. Per un quadro d’insieme e la discussione della letteratura sul tema, cfr. Pontoriero, 2013, 61 ss. 233 Pugliese, 1950, 10; Fernández Barreiro, 1969, 60 s.; de Castro-Camero, 2006, 122. 234 (Ulp. 4 ad ed.) D. 44.7.37. Cfr. Lenel, 1889.II, 429 e nt. 1; Id., 1927, 59 e nt. 15. Su quest’ultimo brano v. Stolfi, 2002.II, 79 ss. 235 Cfr. (Ulp. 11 ad ed.) D. 4.3.1.4. Sesto Pedio avrebbe, in particolare, subordinato l’esperibilità dell’actio de dolo all’impossibilià di avvalersi, oltre che di un’actio, anche di un interdictum o di un’exceptio. Sull’interpretazione estensiva cui venne sottoposto da parte della giurisprudenza l’editto che introdusse l’actio de dolo (cfr. D. 4.3.1.1), v. Albanese, 1961, 176 ss.; nonché Brutti, 1973.I, 21. Per un quadro d’insieme del ricco dibattito giurisprudenziale risultante dai commenti all’editto de dolo malo, v. Stolfi, 2002.I, 362 ss. Sulla citazione di Pedio da parte di Ulpiano e sui rapporti di quest’ultima con la contigua citazione dell’opinione di Pomponio, cfr. le osservazioni della Giachi, 2005, 23 ss. e 374 ss.
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Commento F. 35 – D. 2.13.2 Il frammento è posto a commento delle previsioni concernenti l’editio instrumentorum236. Quest’ultima non riguarda i verba testamenti: gli eredi, infatti, sono soliti essere in possesso di una copia dell’atto contenente le dichiarazioni di ultima volontà del de cuius (ideo… exemplum testamenti)237. La motivazione con cui si conclude il brano ha suscitato sospetti di non autenticità, che devono, tuttavia, essere notevolmente ridimensionati, in ragione della piena e perfetta rispondenza della spiegazione con la funzione informativa dell’editio238. Sono state assunte posizioni diverse per quanto concerne l’individuazione dei documenti da sottoporre all’editio. Jean Charles Naber ha sostenuto che l’editio instrumentorum avesse originariamente avuto riguardo solo ai crediti nascenti da stipulatio239. Si spiegherebbe in tal modo il riferimento al solenne negozio verbale presente in (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.13.1.4: Edere non videtur qui stipulationem totam non edidit [Non si considera esibire chi non ha esibito l’intera stipulazione]. La tesi di Naber, ritenuta poco persuasiva da Otto Lenel, è stata riconsiderata e sviluppata con argomenti nuovi da Giovanni Pugliese240. Il romanista italiano ha, tuttavia, in prosieguo di tempo, cambiato opinione, riconoscendo, sulla base della testimonianza di (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.13.1.3, che l’editio instrumentorum avesse una portata generale241. F. 36 – 2.13.5 I commissari di Giustiniano hanno strettamente collegato il frammento alla trattazione di (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.13.4, concernente la previsione edittale che obbliga gli argentari a rationes edere242. Il brano ulpianeo, che commenta i lemmi edittali argentariae mensae exercitores edent
236 Cfr. Lenel, 1927, 59 e nt. 17; Pugliese, 1950, 12; Id., 1963, 361; Cannata, 1982, 141. Per un inquadramento della trattazione contenuta in (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.13.1.2-4, cfr. Pontoriero, 2013, 70 ss. 237 Cuiacio richiama, a commento della regola enunciata da Paolo, in ragione dell’identica finalità perseguita di scoraggiare richieste ingiustificate o vessatorie, la previsione pretoria sul iusiurandum de calumnia imposto al richiedente l’esibizione delle rationes argentariae attestata da (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.13.6.2. Cfr. Cuiacius, 1584, 34. La dottrina più antica riteneva che il pretore non avesse dettato una disposizione specifica concernente l’editio dei verba testamenti (cfr., oltre al commento di Cuiacio appena richiamato, Noodt, 1724, 66; nonché Heineccius, 1748, 336 e nt. h). Di diverso avviso è, invece, von Weyhe, 1821, 157. Ipotizza che le parole si legatum petatur, non e verba testamenti edere siano lemmi edittali Rudorff, 1869, 25. Sembra orientato a ritenere che l’editto contenesse una previsione al riguardo anche Lenel, 1927, 60. In senso contrario, v. Pugliese, 1950, 14. La ricostruzione dell’editto proposta da Fernández Barreiro, 1969, 112 ss., non contiene una previsione relativa all’editio dei verba testamenti. 238 Ritengono la motivazione non genuina Beseler, 1913, 84; de Sarlo, 1935, 156; Fernández Barreiro, 1969, 75 s. 239 Cfr. Naber, 1922, 26 s. 240 Lenel, 1927, 59 e nt. 17. Per la riconsiderazione della tesi di Naber e la formulazione di nuova proposta, cfr. ampiamente Pugliese, 1950, 12 ss. Quest’ultimo autore, rilevando preliminarmente come un riferimento alla stipulatio fosse contenuto anche in D. 2.13.1.2 (...nam dies solutionis sicuti summa pars est stipulationis... [...infatti il termine per l’adempimento, come la somma, è parte della stipulazione...]), ha sottolineato il contrasto tra il tenore generalizzante di D. 2.13.1.3 e la testimonianza di (Paul. 3 ad ed.) D. 2.13.2. Sulla base di queste premesse, Giovanni Pugliese ha ipotizzato che nel processo formulare le previsioni concernenti l’editio instrumentorum non avessero una portata generale, ma fossero limitate “ai documenti di stipulatio e forse di altri contratti”, precisando altresì che l’editio instrumentorum avrebbe probabilmente avuto lo scopo di: “far specificare il fondamento di una petitio astratta relativa a una certa pecunia o a una certa res”. 241 Cfr. Pugliese, 1963, 361 ss.; seguito da Cannata, 1982, 141. Ritengono che il dovere di instrumenta edere abbia una portata generale anche d’Ors, 1968, 94 e Fernández Barreiro, 1969, 73 ss. 242 L’editto concernente l’obbligo degli argentarii di rationes edere è testimoniato da (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.13.4pr.-1. Sulla laudatio edicti, cfr. Petrucci, 1991, 163 s.; Id., 2002, 146 s.; Id., 2007, 172 s.; cui adde Coppola Bisazza, 2008, 130.
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Ivano Pontoriero (D. 2.13.4.2-5), affronta, in particolare, il caso di un argentario, che, esercitando la propria attività in un luogo, venga richiesto di esibire i conti in un altro luogo (D. 2.13.4.5). Il frammento paolino afferma che dovrà essere concesso all’argentario un intervallo di tempo per la trasmissione della documentazione243. Il commento di Ulpiano agli stessi lemmi edittali argentariae mensae exercitores edent prosegue in (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.13.6pr.-1244. F. 37 – D. 2.13.9 Sotto il profilo palingenetico, suscita maggiori difficoltà D. 2.13.9. L’analisi della struttura del titolo D. 2.13 de edendo e considerazioni di carattere contenutistico inducono a ritenere D. 2.13.9 posto a commento della previsione edittale sull’obbligo degli argentarii di rationes edere tradita da (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.13.4pr.245. Per quanto concerne il primo aspetto è necessario prendere le mosse da un’osservazione formulata da Carlo Longo: “un esame, anche superficiale, del nostro titolo ‘de edendo’, mostra che esso fu dai giustinianei costruito, prendendo a base, come di solito avviene nelle Pandette, i libri ad ed. di Ulpiano”246. L’autore formula altresì l’ipotesi – di particolare interesse anche ai fini della nostra analisi – che: “gli stralci dei corrispondenti libri ad ed. di Paolo e Gaio siano in alcune parti stati contratti e riassunti per evitare ripetizioni”. In effetti, i commissari di Giustiniano utilizzarono – per dare conto dell’obbligo degli argentarii di rationes edere e delle previsioni concernenti la richiesta di editio dell’argentarius e la reiterazione della richiesta – i frammenti D. 2.13.4 e D. 2.13.6, inserendo, a mo’ di complemento e strettamente collegati alla precedente trattazione ulpianea, i frammenti paolini D. 2.13.5 [F. 36] e D. 2.13.7 [F. 39]. In sede di analisi esegetica di D. 2.13.9, lo stesso Carlo Longo ha avuto poi modo di sottolineare come quest’ultimo assumesse, nel sistema della compilazione, “una posizione indipendente”247. Dal punto di vista contenutistico, è necessario osservare come D. 2.13.9pr.-2 sia rivolto a individuare le persone sottoposte all’applicazione dell’editto248. Il giurista esordisce ricordando che vi sono alcune persone tenute ad esibire i conti, che, tuttavia, non sono soggette alle previsioni dell’editto (Quaedam sunt… per hoc edictum compelluntur)249.
243
Cfr. de Castro-Camero, 2006, 122. Per un esame di questa catena di testi, cfr. Pontoriero, 2013, 75 ss. 245 Diversamente da quanto proposto da Lenel, 1889.I, 970 e da Krüger, 1905, 897. Il primo fa seguire D. 2.13.9 (Lenel 117) a D. 2.13.7 [F. 39] (Lenel 116). Il secondo inserisce tra D. 2.13.7 e D. 2.13.9 il frammento D. 9.2.40 [F. 40], sulla cui collocazione palingenetica, v. infra, 162 s. 246 Longo, 1901, 168. 247 Longo, 1901, 171: “nella compilazione aveva una posizione indipendente, e, pur riportandosi alle disposizioni pretorie, non presentava un legame esteriore visibile con le parole dell’editto”. 248 Lenel, 1927, 63; nonché Longo, 1901, 168. In questo senso, v. anche de Castro-Camero, 2006, 122, secondo la quale: “D. 2.13.9 también se ocupa de la comunicación de cuentas, en concreto, de quienes estaban obligados a hacerla”. 249 Cfr. Longo, 1901, 168: “il sistema adottato qui da Paolo, era quello di enumerare le persone che non andavano soggette alla speciale azione in factum relativa alla editio rationum, per poi passare alle altre che erano contenute nelle parole dell’Editto argentariae mensae exercitores”. Si noti ulteriormente che la trattazione paolina contenuta in D. 2.13.9pr.-2 corrisponde tematicamente a quella ulpianea di D. 2.13.4.2-5 e D. 2.13.6pr.-1, anch’essa dedicata al commento dei lemmi edittali argentariae mensae exercitores edent. Che Paolo stesse commentando proprio queste ultime parole sembra risultare, inoltre, dall’uso dell’espressione is autem, cui argentarius rationes suas legavit, non videbitur contineri nel primo paragrafo del frammento. 244
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Commento Paolo esemplifica mettendo in evidenza che quando un procurator ha amministrato i nostri affari e i nostri conti, non è costretto dal pretore all’esibizione per il timore di un’azione in factum: naturalmente perché possiamo ottenere questo risultato attraverso l’azione di mandato (veluti cum… per mandati actionem)250. Non sono inoltre soggetti all’applicazione dell’editto il socio e il tutore, perché anche nei confronti di costoro sono dati specifici rimedi: l’actio pro socio e l’actio tutelae (et cum… cogi edere)251. Il primo paragrafo prende in considerazione la posizione dei successori dell’argentarius. Non assume rilevanza alcuna che i successori abbiano esercitato la medesima professione (Nihil interest… eiusdem fuerint)252. Dal momento che succedono nella posizione giuridica di quest’ultimo devono assumerne gli obblighi (quia cum… fungi debent)253. Non sono invece soggetti all’editto coloro i quali abbiano ricevuto i conti dall’argentario per legato o donazione (is autem… eas donasset)254. Ma non è tenuto neanche l’erede, qualora
250 Si è molto discusso circa i rapporti tra mandato e procura. Fondamentale, sul punto, per l’inquadramento dei diversi orientamenti giurisprudenziali e il superamento delle posizioni talvolta aprioristiche espresse dalla critica interpolazionistica è Watson, 1961, 36 ss. Come ricorda l’autore, D. 2.13.9pr. è l’unico brano paolino a concedere l’actio mandati contro il procurator omnium bonorum. Per l’opinione secondo la quale il riferimento alla concessione dell’azione di mandato sarebbe senz’altro spurio, v. Serrao, 1947, 127. 251 Il riferimento del brano all’actio pro socio, essendo la responsabilità sanzionata dall’editto concernente l’editio rationum degli argentarii limitata al solo dolo, è stato un tempo addotto a sostegno della tesi secondo cui analogo regime di responsabilità sarebbe stato applicato anche alla responsabilità del socio. In realtà, come è stato osservato da Talamanca, 1990, 825, nt. 443, il brano di Paolo non prova nulla in tal senso. Sulla questione, v. ampiamente Santucci, 1997, 203 ss. Per il superamento della tesi che riteneva la responsabilità del socio limitata al solo dolo, cfr. anche Id., 2003, 382 ss. Deve essere inoltre rilevato come la riflessione scientifica paolina escluda l’applicazione delle previsioni dell’editto a soggetti diversi dagli argentari – e dai nummulari – non sulla base di un’interpretazione letterale, ma in ragione della constatazione dell’esistenza di rapporti giuridici diversi, nei quali trovano fondamento diverse forme di tutela: cfr. sul punto Giomaro, 1977, 58 ss.; nonché Stolfi, 2002.II, 487. 252 Che le parole aut pater aut dominus siano state interpolate è stato sostenuto con dovizia di argomentazioni da Longo, 1901, 165 ss. Della proposta del romanista italiano tiene conto Krüger, 1911, 56 e nt. 7. Sul punto, v. anche Bonfante, 1905, 535. Per una diversa proposta di restituzione del tenore originario del brano cfr., tuttavia, Ambrosino, 1945, 102 ss. Quest’ultimo autore ritiene che la coerenza dell’argomentazione del giurista possa essere recuperata conservando le parole aut pater aut dominus ed eliminando, invece, la motivazione, sulla quale v. infra, nella nota successiva, quia cum in locum et in ius succedant argentarii, partibus eius fungi debent. Ritiene, invece, che le parole aut pater aut dominus costituiscano un glossema Scherillo, 1974, 108. 253 Per il significato dell’espressione in locum et in ius, v. le osservazioni di Bonfante, 1894, 175 s.: “‘In locum et ius’, è quasi una figura di ἓν διὰ δυοῖν per la formula attuale ‘posizione giuridica’. Anzi veramente caratteristico è il fatto che il concetto della ‘successione giuridica’, che noi moderni applichiamo a ogni trasferimento di diritti, sia dai Romani limitato all’eredità e che significhi precisamente il succedere nei ‘commoda et incommoda’ dell’eredità deferita”. Sul punto, v. anche Bonfante, 1905, 537. 254 Per l’espunzione delle parole quia iuris successor his verbis significatur, v. Longo, 1901, 169 ss. e Krüger, 1911, 56 e nt. 7. Secondo Carlo Longo, l’interpolazione avrebbe una finalità didattica: “si riduce alla spiegazione del valore del termine ‘successores’ allo scopo di limitarne la portata ad una sola delle categorie di persone che il concetto più lato di successione che i compilatori hanno, comprenderebbe” (174). A sostegno della propria ricostruzione l’autore ricorda la formulazione di I. 2.10.11: Legatariis autem et fideicommissariis, quia non iuris successores sunt… In senso adesivo nei confronti dell’opinione espressa da Carlo Longo, v. Scherillo, 1974, 109. Sul testo delle Istituzioni, che dà conto di un’innovazione introdotta con una costituzione non contenuta nel Codice, v. ampiamente Luchetti, 1996, 219 ss. Deve essere ancora ricordato che, secondo Longo, 1901, 168, l’autem presente nel brano denuncerebbe un taglio effettuato dai compilatori: “l’autem non si spiega senza una precedente enumerazione di persone ‘quae videntur contineri’”.
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Ivano Pontoriero non possegga i conti e non si sia dolosamente adoperato per cessare di possederli (sed nec… nec dolo malo fecerit). Sarà invece tenuto, come se si fosse adoperato dolosamente per cessare di possederli, l’erede che abbia consegnato i conti al legatario dopo aver ricevuto l’intimazione di non consegnarli (sed si… quasi dolo fecerit). Parimenti, l’erede sarà tenuto prima di consegnare i conti al legatario (item antequam… tenebitur). Il periodo conclusivo del paragrafo contiene l’affermazione – della cui genuinità si è dubitato – secondo cui, se l’erede non abbia agito con dolo, il legatario potrebbe essere costretto all’esibizione, previo svolgimento di un’istruttoria (quod si… est edere)255. Nel secondo paragrafo, Paolo ricorda l’opinione espressa da Pomponio, secondo la quale non sarebbe stato iniquo costringere anche i nummulari ad esibire i conti (Nummularios… scribit). La motivazione è che anche i nummularii, come gli argentarii, redigono i conti, dal momento che ricevono denaro e lo erogano per partite. La prova di queste cose è contenuta nelle loro scritture e nei loro libri contabili e molto frequentemente si fa ricorso al loro affidamento (quia et… ad fidem eorum decurritur)256. Che Paolo stesse commentando la clausola dell’editto concernente l’obbligo degli argentarii di rationes edere, sembra apparire ulteriormente dall’esame del terzo e del quarto paragrafo del frammento. Nel terzo paragrafo Paolo ricorda che il pretore ordina che vengano esibiti i conti loro pertinenti a tutti i richiedenti disposti a prestare il giuramento de calumnia, mentre il quarto paragrafo si sofferma sul requisito della pertinenza. Il giurista precisa che tale requisito sussiste non solo quando chiede l’esibizione chi ha concluso il contratto o chi è succeduto a chi ha concluso il contratto, ma anche quando il contratto è stato concluso da chi è soggetto alla potestà di chi formula la richiesta di esibizione (Ad nos enim… est contraxit)257. Esiste, dunque, un forte collegamento contenutistico tra D. 2.13.9.3-4 e la trattazione ulpianea di D. 2.13.6.2 e 5. Le considerazioni che precedono rendono plausibile avanzare il dubbio che la collocazione del frammento all’interno del titolo D. 2.13 de edendo devii dall’ordine Bluhme-Krüger. Diversamente argomentando, dovremmo, invece, ritenere il frammento posto a commento della formula dell’azione. Quest’ultima ipotesi appare meno probabile, in ragione dei rilievi di carattere contenutistico sopra formulati, ma non deve essere del tutto esclusa. Appare dunque possibile ipotizzare, sia pure con una certa cautela, che nell’originaria struttura del commentario paolino il brano contenuto in D. 2.13.9 precedesse D. 2.13.7 [F.
255 Per l’espunzione della frase quod si nihil dolo fecerit, causa cognita legatarius cogendus est edere, v. già Faber, 1604, 161, seguito, con ulteriori argomentazioni, da Longo, 1901, 170. Sul punto, v. anche Krüger, 1911, 56 e nt. 7. 256 Si sofferma sui caratteri dell’interpretazione di Pomponio ai verba edicti Stolfi, 2002.II, 485 ss. Quest’ultimo autore mette in luce come l’interpetazione del giurista del secondo secolo muova dalla considerazione della ratio dell’intervento pretorio, per ampliarne l’ambito di applicazione al di là del suo tenore letterale. Emanuele Stolfi sottolinea anche la diversità tra l’approccio di Pomponio e l’interpretazione ai verba edicti data dal pressoché coevo Gaio ([Gai. 1 ad ed. prov.] D. 2.13.10.1). Da tale diversità emergerebbe anche, da parte di quest’ultimo: “una minore capacità di cogliere le peculiarità della prassi economica e i suoi più recenti sviluppi (giusta l’emersione, se vogliamo, di quell’‘arcaismo gaiano’ documentato anche in svariate forme e contesti), così come uno stile interpretativo diverso, che, fattosi più defilato rispetto ad una lunga tradizione, individua nella lettera dell’editto un ostacolo insormontabile” (490). Sull’apporto di Pomponio, v. anche Meissel, 2004, 158. 257 Cfr. Lenel, 1889.I, 970, nt. 1, ipotizza che all’inizio del quarto paragrafo siano venute meno parole come: Edi igitur nobis oportebit, et si filius familias vel servus noster contraxerit. Per questa ipotesi v. anche Longo, 1901, 168 e nt. 2.
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Commento 39], dedicato alla diversa clausola edittale concernente la richiesta di editio proveniente dall’argentarius e la reiterazione della richiesta. La trattazione di quest’ultima occupa, nel commentario ulpianeo, una posizione successiva (D. 2.13.6.8-10), rispetto all’analisi dedicata all’obbligo degli argentarii di rationes edere (D. 2.13.4; D. 2.13.6.1-7). Più complesso appare il rapporto tra D. 2.13.9 e D. 2.13.5 [F. 36]. Se si volesse accedere all’ipotesi formulata circa la posizione affatto indipendente assunta da D. 2.13.9 all’interno della compilazione, non sarebbe possibile impiegare fruttuosamente il criterio formale dell’ordine Bluhme-Krüger e sostenere, quindi, con una certa sicurezza, che D. 2.13.5 precedesse nell’originaria trattazione paolina D. 2.13.9. Il fondato sospetto che quest’ultimo possa aver subito consistenti tagli al momento dell’inserimento nel Digesto, mi induce a non escludere del tutto la possibilità che D. 2.13.5 sia stato escerpito da una più ampia trattazione sulla clausola edittale di cui è rimasta appunto traccia in D. 2.13.9. F. 38 – D. 12.2.14 Deve essere ora valutata la collocazione palingenetica di D. 12.2.14. È verisimile ipotizzare che il giurista, commentando la previsione edittale concernente il giuramento de calumnia imposto dal pretore al richiedente l’esibizione delle rationes argentariae, effettuasse una digressione, della quale è sopravvissuto il frammento tradito da D. 12.2.14258. Veniva così precisato da Paolo che il iusiurandum in iure poteva essere deferito – a differenza di quello de calumnia – all’ascendente e al patrono (Quotiens… iusiurandum)259. La spiegazione del giurista continua ricordando che il iusiurandum in iure può essere deferito esercitando l’actio certae creditae pecuniae, quando l’attore giura che gli si debba dare o il convenuto giura di non dover dare, o quando si agisca con l’actio de pecunia constituta (propter rem… de pecunia constituta iusiurandum exigitur)260. Le ricostruzioni palingenetiche di Lenel e di Krüger collocano D. 12.2.14 come ultimo frammento della trattazione paolina relativa al titolo de edendo261. La scelta appare essere dettata, in mancanza di più sicuri riscontri, dalla posizione occupata dal frammento all’interno del Digesto.
258 La congettura avanzata permette di superare il rilievo critico mosso da Biondi, 1913, 16 e nt. 5, nei confronti dell’opinione di Lenel, 1889.I, 970, nt. 3, che richiama, a proposito di D. 12.2.14, i brani riportati in (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.13.6.2 e (Paul. 3 ad ed.) D. 2.13.9.3. L’ipotesi di una digressione della trattazione paolina è resa probabile dalla constatazione che con la previsione edittale concernente l’obbligo degli argentarii di rationes edere veniva verosimilmente per la prima volta in considerazione il tema del giuramento. 259 Un diverso regime è attestato per il iusiurandum de calumnia in (Paul. 14 ad ed.) D. 2.8.8.5; (Ulp. 10 ad ed.) D. 12.2.16; (Ulp. 26 ad ed.) D. 12.2.34.4; (Ulp. 10 ad ed.) D. 37.15.7.3-4; (Ulp. 53 ad ed.) D. 39.2.13.14. Sul punto, v. ampiamente Glück, 1810, 274 e 363 ss. (= 1905, 271 e 373 ss.). Nella letteratura successiva, cfr. Biondi, 1913, 16 e nt. 4; nonché Amirante, 1954, 56 e nt. 29. 260 L’ambito di applicazione del iusiurandum in iure è oggetto di discussione. Per la tesi di un’originaria limitazione ai crediti di certa pecunia, cfr. Biondi, 1913, 13 ss. Quest’ultimo studioso ha, dunque, escluso che il veluti de pecunia credita di D. 12.2.14 possa avere un valore esemplificativo (16). In senso contrario, v. tuttavia Amirante, 1954, 55 ss., che ritiene applicabile tale giuramento anche alla condictio certae rei. Sul punto, cfr. anche le osservazioni di Pugliese, 1950, 174 ss., che ritiene probabile una limitazione originaria alle controversie pecuniarie. Per un riesame del problema e la formulazione della tesi secondo cui sarebbe opportuno distinguere tra un iusiurandum certae pecuniae e un iusiurandum non certae pecuniae, v. ora de Castro-Camero, 2006, 173 ss. e 240 ss.; nonché Varvaro, 2008, 166 ss., secondo il quale il giuramento decisorio avrebbe potuto trovare applicazione nei giudizi in cui non fosse in contestazione il quantum debeatur. 261 Lenel, 1889.I, 970 s.; Krüger, 1905, 897.
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Ivano Pontoriero Il collegamento dei contenuti con l’editto relativo all’obbligo degli argentarii di rationes edere, che conteneva, appunto, la previsione sul iusiurandum de calumnia del richiedente, potrebbe indurre a ritenere che D. 12.2.14 sia stato originariamente scritto in successione a D. 2.13.9 [F. 37]262. F. 39 – D. 2.13.7 Il giurista commenta l’editto relativo alla richiesta di editio da parte dell’argentarius e alla reiterazione della richiesta263. Il frammento è stato strettamente collegato dai compilatori alla trattazione di (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.13.6.10, concernente il caso di chi chieda di nuovo l’esibizione dei conti264. Ulpiano precisa in proposito che l’esibizione potrà essere ordinata solo nel caso in cui sussista una giusta causa. Il frammento paolino ricorda una serie di causae che giustificano la reiterazione della richiesta di editio. L’esibizione potrà essere richiesta nuovamente quando si dimostri di avere in un luogo lontano ciò che è stato esibito la prima volta, o nell’ipotesi in cui la prima esibizione sia stata incompleta, oppure, quando si chieda l’esibizione di quei conti che siano andati perduti per causa di forza maggiore, non per negligenza (veluti si… neglegentia perdiderit)265. Il pretore, infatti, ordinerà di nuovo l’esibizione dei conti che siano andati perduti per un caso che si debba scusare (nam si… edi iubebit)266. Nel primo paragrafo, Paolo si sofferma sul significato del lemma edittale iterum. Il giurista osserva che questa parola può assumere due significati: il primo, che corrisponde a quello della parola greca δεύτερον, indica semplicemente il tempo seguente. L’altro, che corrisponde a quello del termine greco πάλιν, ha riguardo anche ai tempi successivi, vale a dire, ogni volta che sarà necessario267. Il giurista rileva che può anche accadere che qualcuno abbia perso il conto che gli è stato esibito per la seconda volta e che, dunque, si intenda la parola iterum nel senso di più volte (nam potest… saepius accipiatur). F. 40 – D. 9.2.40 Paolo tratta il caso della cancellazione di un chirografo recante l’obbligazione, sottoposta a condizione, di pagare del denaro (In lege Aquilia… debita fuerit). La soluzione prospettata dal frammento è stata ritenuta interpolata, ma con argomentazioni che non appaiono del tutto
262 Lenel, 1889.I, 970, nt. 3, richiama il collegamento tematico del frammento con (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.13.6.2 e D. 2.13.9.3. 263 (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.13.6.8. 264 (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.13.6.10: Nec iterum postulanti edi praetor iubet, nisi ex causa: [Né il pretore ordina che si faccia l’esibizione nei confronti di chi formuli di nuovo la richiesta, a meno che non sussista una giusta causa:]. 265 Sul casus maior, cfr. Voci, 1990, 125 e nt. 5. 266 Secondo de Robertis, 1983.I, 512, si tratta di un’ipotesi di restitutio in integrum. 267 Sul brano e, più in generale, sull’impiego di grecismi nella scrittura paolina, cfr. le osservazioni di Kalb, 1890, 137, che giunge alla conclusione di negare che una “gräzisierende Latinität” possa essere ritenuta peculiare del giurista. È, invece, tratto caratteristico della riflessione di Paolo l’impiego di moduli argomentativi diairetici e, in particolare, della διαίρεσις εἰς σημαινόμενα. Cfr. (Paul. 14 ad Sab.) D. 1.1.11, che ha dato vita ad una cospicua letteratura: Martini, 1966, 277 ss.; Maschi, 1976, 694 ss.; Talamanca, 1977a, 227 ss.; Mantello, 1992, 351 e nt. 4 e 357 s. (2014, I 357 e nt. 4); Schiavone, 2005, 367 e 492, nt. 23 (= 2017, 405 s. e 548, nt. 23); Stolfi, 2006, 146 ss.; Nörr, 2007, 540 ss. (= 2012, 556 ss.).
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Commento convincenti268. È stata infatti dimostrata, nonostante la contraria opinione sia ancora largamente diffusa, l’ammissibilità della sentenza condizionale269. Fornendo la prova testimoniale del credito, tenuto conto del fatto che i testimoni potrebbero non esserci più al momento del verificarsi della condizione, sarà possibile ottenere la condanna del convenuto (et interim… debeam vincere)270. Quest’ultima, tuttavia, potrà trovare esecuzione solo a seguito del verificarsi della condizione (sed tunc… condicio extiterit)271. In caso contrario, la condanna non avrà alcuna efficacia (quod si… nullas vires habebit)272. È possibile ipotizzare che questo frammento sia stato originariamente scritto a commento della formula dell’azione. Un riferimento alla fattispecie del danneggiamento è contenuto in (Gai. 1 ad ed. prov.) D. 2.13.10.3, a proposito dell’azione, d’altra parte, l’omologo commentario ulpianeo si chiudeva proprio con la trattazione ad formulam ([Ulp. 4 ad ed.] D. 2.13.8 e [Ulp. 4 ad ed.] D. 2.13.13)273. Ipotizzando che anche il commentario paolino contenesse una trattazione relativa alla formula – come quella attestata dai frammenti ulpianei D. 2.13.8 e 2.13.13 – potremmo pensare ad una originaria collocazione in questa sede di D. 9.2.40274. [Sui patti e sulle convenzioni (E. IV.10)] Dal punto di vista palingenetico, è possibile osservare che tutti i rimanenti frammenti del terzo libro sono contenuti in D. 2.14 de pactis, tranne D. 22.2.7 [F. 45], D. 26.7.22 [F. 49], D. 44.7.38 [F. 41]275. Considerazioni di carattere contenutistico giustificano pienamente la scelta di Lenel di
268 Beseler, 1910, 79 s., si limitava ad osservare: “Esse eo tempore quo condicio extitit von einem zukünftigen Zeitpunkte gesagt, summatim und condemnationis exactio competit sind sehr bedenklich. Zur Sache: der Text scheint vom Kläger außer dem strikten Beweise der bedingten Schuld den summarischen Beweis der Wahrscheinlichkeit des Bedingungseintritts zu erforden, was unsinnig ist, und die am Schlusse verordnete bedingte Nichtigkeit des Urteils ist eine wenigstens im klassischen Rechte ganz unglaubhafte Rechtsfigur”. L’ipotesi formulata da Beseler è segnalata da Krüger, 1911, 161 e nt. 19 e accolta unanimemente: cfr. Vassalli, 1914a, 260 ss.; Id., 1918, 27 s.; Biondi, 1921, 242 ss.; Valditara, 1992, 245 ss. 269 La testimonianza fondamentale in materia è costituita da (Ulp. 1 de appell.) D. 49.4.1.5. Per l’esegesi del brano, cfr. Vassalli, 1918, 9 ss. L’autore non giunge a riconoscere, tuttavia, la genuinità della soluzione paolina contenuta in (Paul. 3 ad ed.) D. 9.2.40. Per l’opinione secondo cui la sentenza condizionale in diritto romano classico non sarebbe stata ammissibile, cfr. Valditara, 1992, 246 ss.; Kaser – Hackl, 1996, 371 e nt. 11, 610 e nt. 34. Sulla testimonianza ulpianea, v. soprattutto De Giovanni, 1989, 98 s. e Marotta, 2005, 160 s. 270 La riflessione sulla possibilità che i testimoni vengano a mancare nella fase di pendenza della condizione ricorre nella produzione scientifica paolina: (Paul. 9 ad Sab.) D. 47.2.32. Anche questo frammento, tuttavia, è stato ritenuto interpolato. Cfr., per tutti, Valditara, 1992, 247. 271 Cfr., sul punto, Cannata, 1992, 399, secondo cui la condizione si riferirebbe “all’efficacia della sentenza come titolo esecutivo”. 272 La dottrina, ritenendo il brano interpolato, si è a lungo interrogata circa l’originaria portata della soluzione paolina. Per una rassegna delle diverse posizioni, cfr. Valditara, 1992, 249. 273 Lenel, 1889.I, 970, nt. 2, segnala l’affinità tematica tra D. 9.2.40 e D. 2.13.10.3. Per la struttura del commentario ulpianeo, v. Id., 1889.II, 431, che inserisce i frammenti D. 2.13.8 e D. 2.13.13 sotto la rubrica ad formulam; più ampiamente Id., 1927, 62 ss. Sui commenti giurisprudenziali alla formula dell’azione, cfr. Pontoriero, 2013, 90 ss. 274 Krüger, 1905, 897, antepone, invece, D. 9.2.40 a D. 2.13.9 [F. 37]. 275 Sui brani paolini posti a commento dell’editto de pactis et conventionibus e per la loro palingenesi, cfr. Lenel, 1889.I, 971 ss.; nonché Id., 1927, 64, nt. 8.
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Ivano Pontoriero collocare D. 22.2.7 [F. 45] di seguito a D. 2.14.6 [F. 44]. L’affermazione ampiamente comprensiva di D. 2.14.6, secondo cui interdum ex pacto actio nascitur vel tollitur, rende plausibile ritenere che il prosieguo della trattazione facesse riferimento al prestito marittimo, in cui era possibile per il creditore pretendere in via d’azione il pagamento di interessi solo pattuiti (D. 22.2.7)276. Anche per la palingenesi di D. 26.7.22 [F. 49] soccorre il collegamento tematico con D. 2.14.15 [F. 48]277. La trattazione dell’efficacia del patto concluso dal tutore, contenuta in quest’ultimo frammento, rende probabile che il giurista dedicasse qualche cenno ai poteri del tutore (D. 26.7.22). Infine, ulteriori considerazioni di carattere contenutistico sembrano giustificare la collocazione palingenetica di D. 44.7.38 [F. 41] prima di D. 2.14.2 [F. 42]. Paolo ricorda l’opinione di Labeone, secondo cui è possibile convenire attraverso la consegna di una cosa, o, tra assenti, per lettera o messaggero, soffermandosi quindi sulle convenzioni concluse tacitamente (D. 2.14.2pr.: sed etiam tacite consensu convenire intellegitur), alle quali è dedicato anche il successivo commento di D. 2.14.4 [F. 43], prima di passare alla trattazione relativa alla legitima conventio contenuta in D. 2.14.6278. Appare dunque probabile che la trattazione di D. 44.7.38, dedicata al valore dei documenti scritti che vengono redatti in occasione del compimento di una stipulatio, precedesse quella contenuta in D. 2.14.2. Il commento all’editto de pactis et conventionibus offre ad Ulpiano l’occasione per sviluppare un’articolata e originale riflessione sui contratti, incentrata sulla valorizzazione dell’elemento consensualistico e ispirata a concezioni di impronta giusnaturalistica279. Non siamo in grado di stabilire se l’omologa trattazione paolina contenesse una così ampia – e altrettanto originale – esposizione delle dottrine contrattualistiche elaborate dalla giurisprudenza romana dei due secoli precedenti. Il titolo D. 2.14 è, comunque, molto ricco di materiali provenienti dal terzo libro dell’ad edictum di Paolo, che costituisce, in relazione ai temi dell’efficacia e della trasmissibilità dei patti, la principale fonte da cui hanno attinto i compilatori. I dati in nostro possesso permettono di evidenziare alcune importanti differenze, di carrattere sistematico e contenutistico, ma anche alcune significative, e non trascurabili, affinità, rispetto alla trattazione ulpianea. Una differenza, che rileva anche dal punto di vista sistematico, è l’impiego promiscuo – che Ulpiano accuratamente sembra evitare – dei segni pactum e conventio da parte di Paolo280. Dalla trattazione di quest’ultimo emerge, inoltre, una più marcata attenzione per le modalità di manifestazione del consenso, che si esprime nell’approfondimento del rapporto tra oralità e scrittura nella stipulatio (44.7.38), e, soprattutto, nell’attenzione rivolta verso le conventiones tacitae (D. 2.14.2 e D. 2.14.4). Il commento paolino non esita poi a riconoscere che interdum ex pacto actio nascitur vel tollitur (D. 2.14.6) e che in
276 Lenel, 1927, 64, nt. 8, ricorda che, nel titolo D. 22.2 de nautico fenore, il frammento D. 22.2.7 è stato collocato dai compilatori in successione alla celebre lex periculi, (Scaev. 6 resp.) D. 22.2.5. Diversamente, Krüger, 1905, 897, che, seguendo l’ordine della successione dei titoli nel Digesto, inserisce il frammento dopo D. 2.14.27 [F. 51] e prima di D. 44.7.38 [F. 41]. 277 Lenel, 1927, 64, nt. 8. In questo senso, v. anche Krüger, 1905, 897. 278 Cfr. Lenel, 1927, 64, nt. 8, che richiama D. 2.14.4. 279 Per la denominazione della rubrica edittale, v. Lenel, 1927, 64 e nt. 6. Sulla trattazione ulpianea, cfr. le riflessioni di Schiavone 1991, 125 ss.; Id., 2005, 347 ss.; Id., 2017, 384 ss. Sul giusnaturalismo romano, cfr. ancora Id., 2007, 3 ss. 280 Cfr. D. 2.14.2, D. 2.14.4 e D. 2.14.6. Per questa osservazione v. già Schiavone, 1991, 144 s.
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Commento quibusdam contractibus etiam usurae debentur quemadmodum per stipulationem (D. 22.2.7), a fronte della recisa affermazione ulpianea secondo cui nuda pactio obligationem non parit, sed parit exceptionem (D. 2.14.7.4). Il tema dell’azionabilità del patto ritorna ancora in D. 2.14.17.2 [F. 50]: de pignore iure honorario nascitur ex pacto actio. Sul piano delle affinità, appare degno di nota il richiamo alla distinzione tra pacta in rem e pacta in personam (D. 2.14.17 [F. 50], D. 2.14.19 [F. 50], 2.14.21 [F. 50], 2.14.25 [F. 50], 2.14.27 [F. 51]), risalente già a Labeone e a Sesto Pedio, e che riceve una più compiuta teorizzazione da parte di Ulpiano in D. 2.14.7.8. F. 41 – D. 44.7.38 Il frammento è stato inserito dai compilatori nel titolo D. 44.7 de obligationibus et actionibus, non riconducibile al sistema dell’editto perpetuo, ma di fattura giustinianea281. Il giurista si sofferma sul valore dei documenti scritti che vengono redatti in occasione della conclusione di una stipulatio, osservando che il sorgere delle obbligazioni non deriva dalla forma delle lettere, ma dal discorso che le lettere esprimono (Non figura litterarum, sed oratione, quam exprimunt litterae, obligamur)282. Il vincolo obbligatorio non scaturisce in forza dell’attestazione contenuta nel documento, ma per effetto del compimento della stipulazione283. La redazione del documento non ha valore costitutivo, ma funzione meramente probatoria284.
281 Per Soubie, 1960, 137 ss. e 188, la rubrica rifletterebbe la concezione giustinianea relativa alla derivazione delle azioni dalle obbligazioni. Tale concezione, diametralmente opposta a quella caratteristica del diritto romano classico, maggiormente incline all’adozione di una prospettiva di tipo rimediale, emergerebbe significativamente da Paraph. 3.13pr. (ed. J.H.A. Lokin, Roos Meijering, B.H. Stolte, N. van der Wal, Groningen 2010, 600 ss.): ...ὁ γὰρ περὶ ἐνοχῶν διαλεγόμενος ἠρέμα καὶ ἀνεπαισθήτως περὶ ἀγωγῶν διαλέγεται· μητέρες γὰρ τῶν ἀγωγῶν αἱ ἐνοχαί... [...chi infatti tratta delle obbligazioni, pian piano e senza accorgersene tratta delle azioni: le obbligazioni sono infatti madri delle azioni...]. Per l’osservazione secondo cui “nel diritto giustinianeo è il rapporto giuridico sostanziale quello che ormai passa in prima linea e a cui si rivolge direttamente l’attenzione del legislatore”, cfr. Rotondi, 1911, 5 s. (= 1922, 160). Sulla struttura di D. 44.7 e il suo “taglio chiaramente istituzionale”, v. Cannata, 1978, 153 (= 2011, 335). Per la tesi della distinzione dell’actio dal diritto soggettivo e il fenomeno, caratteristico del diritto romano, della “sostituzione del profilo processuale a quello sostanziale”, cfr. il fondamentale lavoro di Pugliese, 1939, soprattutto 242 ss. (= 2006, 256 ss.); v. inoltre, per una vasta panoramica delle relazioni tra diritto e processo, Id., 1994, 9 ss.; Id., 1995, 19 ss. Per un’efficace sintesi del dibattito storiografico sul tema e alcune valutazioni di carattere metodologico, cfr. anche Vacca, 2006, xvii ss.; nonché Ead., 2008, 241 ss. 282 Correttamente Cimma, 1984, 22 s., sottolinea come nel testo: “sia manifesta la reazione alla tendenza di vedere la fonte dell’obbligazione nel documento”. Sul valore e sulle funzioni del documento scritto in diritto romano, cfr. in generale Talamanca, 1964, 548 ss.; cui adde Archi, 1990, 1 ss. 283 Così Trofimoff, 1986, 214, nt. 26. Si soffermano sulla valorizzazione dell’elemento consensualistico Wacke, 1993, 25 e nt. 46 e Salazar Revuelta, 1998, 512, nt. 19, che considera il brano una testimonianza dell’“importancia del elemento consensual sobre las solemnidades orales”. 284 Con riferimento al frammento in esame, cfr. Pastori, 1992, 902. Merita di essere ricordato in proposito anche il rescritto (Impp. Severus et Antoninus AA. Secundo, a. 200) C. 8.37(38).1: Licet epistulae, quam libello inseruisti, additum non sit stipulatum esse eum cui cavebatur, tamen si res inter praesentes gesta est, credendum est praecedente stipulatione vocem spondentis secutam [Sebbene alla lettera, che hai inserito nel libello, non sia aggiunto che colui al quale veniva rilasciata cauzione si è fatto promettere mediante stipulazione, ciononostante, se l’affare è stato condotto tra presenti, bisogna ritenere che la voce del promittente sia seguita essendo stata in precedenza posta la domanda]. Su questa costituzione, v. le osservazioni di Talamanca, 1991, 205.
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Ivano Pontoriero Segue quindi la motivazione fornita dal giurista, secondo cui parve opportuno che ciò che si indica attraverso la scrittura non valesse meno di ciò che si indica ricorrendo alle parole (quatenus placuit… figuratis significaretur)285. Come è stato rilevato, il brano offre testimonianza della “trasformazione della stipulatio da negozio orale in negozio indifferentemente orale o scritto in via di semplice interpretatio”286. Ci troviamo di fronte ad una fase storica in cui è pressoché scomparso il formalismo legato all’impiego di formule verbali solenni. La volontà dei contraenti può essere ricostruita attraverso l’attestazione contenuta nel documento, fermo restando, però, che quest’ultimo deve sempre essere redatto tra persone che si trovino nello stesso luogo (inter praesentes)287. F. 42 – D. 2.14.2 Il frammento, collocato dai compilatori nella sedes materiae costituita da D. 2.14 de pactis, si sofferma sulle modalità attraverso le quali è possibile concludere una conventio. Il giurista ricorda l’opinione di Labeone, secondo cui è possibile convenire attraverso la consegna di una cosa, o anche tra persone che si trovino in luoghi diversi, per mezzo di una lettera o di un messaggero288. Paolo aggiunge che è possibile convenire in modo tacito289. Nel primo paragrafo del frammento, viene offerto un esempio al riguardo. Se il creditore restituisce al debitore il
285 Tale motivazione è sembrata in contrasto con quanto in precedenza affermato in ordine al rapporto tra oratio e scriptura (Non figura litterarum… obligamur). La critica più risalente ha dunque ritenuto il brano interpolato: v. Riccobono, 1922, 309 ss. (= 1935, 209 ss.). Per l’ipotesi che possa trattarsi di una glossa, cfr. invece Cimma, 1984, 23 e nt. 51. Si sofferma sull’impiego del verbo placuit, idoneo ad indicare la formazione di “una convinzione giurisprudenziale consolidata e pacifica, dunque risalente”, Corbino, 2006, 96. Sulle forme impiegate dalla giurisprudenza romana per esprimere un “consenso generale” e per l’importante avvertenza di metodo secondo cui “ogni testo richiede un esame critico”, v. Bretone, 2008, 829 s. 286 Così Corbino, 2006, 96, che ricorda (94 ss.) come ulteriori testimonianze di tale percorso (Paul. 7 resp.) D. 24.1.57 e (Paul. 15 resp.) D. 45.1.134.2. Su questi testi, cfr. anche Talamanca, 1991, 204 ss. 287 Cfr. il rescritto (Impp. Severus et Antoninus AA. Secundo, a. 200) C. 8.37(38).1, supra, nt. 284, e PS. 5.7.2. Il requisito della compresenza dei contraenti rimane fermo lungo tutto l’arco di evoluzione del contratto verbale, anche dopo la celebre riforma di (Imp. Leo A. Erythrio pp., a. 472) C. 8.37(38).10. Su questa costituzione, v. per tutti Scarcella, 1997, 213 ss. Per gli sviluppi successivi, con particolare riferimento a (Idem A. [scil. Iust. A.] Iohanni pp., a. 531) C. 8.37(38).14, cfr. invece Luchetti, 1996, 410 ss. 288 Mommsen 1870.I, 62, ritiene da espungere l’infinito posse, nonostante la lezione convenire posse trovi conforto in Bas. 11.1.2 (= Scheltema – van der Wal, A II, 625). Per il significato assunto dall’espressione convenire re, da apprezzare anche con riferimento al nucleo di pensiero labeoniano ricavabile da (Ulp. 11 ad ed.) D. 50.16.19, cfr. Santoro, 1981, 2410 ss. (= 2009.I, 246 ss.), secondo cui il giurista augusteo avrebbe inteso riferirsi ad un “comportamento fondamentalmente diverso dalla pronunzia orale, consistente specialmente in una datio”. Sulla base del confronto con D. 50.16.19 (sive re sive verbis quid agatur), l’autore propone di integrare il principium del brano paolino: Labeo ait convenire posse vel re vel [verbis]: per epistulam vel per nuntium inter absentes quoque posse. Sul punto, cfr. anche Santoro, 1983, 176 ss. Secondo Cannata, 2017, 165 e nt. 65, l’ablativo re deve essere tradotto “con un fatto”: “questo impiego di re non ha dunque alcun rapporto con le locuzioni… re obligari e re contrahere obligationem”. Sull’opinione di Labeone e sulla sua “considerazione aperta e fluida dei meccanismi contrattuali”, v. anche Brutti, 2017, 79. Sul commento di Labeone all’editto del pretore, cfr. per tutti Bretone, 1993, 24 ss. (= 2011, 344 ss.); sul luogo in cui sarebbe stata espressa la celebre definitio di cui dà conto D. 50.16.19, v. anche 35 ss. (= 2011, 355 ss.). 289 Per l’espunzione dell’ablativo consensu, cfr. Naber, 1897, 31 s., nt. 65; seguito da Cannata, 2017, 165, nt. 64. Una maggiore cautela in proposito esprime Brutti, 1973.II, 653, secondo cui: “il sintagma consensu convenire, nonostante l’apparente carattere pleonastico, assume un significato più netto all’interno dell’opposizione con altre forme d’incontro della volontà, che hanno qualcosa di più o di meno rispetto al semplice scambio del consenso:
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Commento documento che fornisce la prova del suo credito, si ritiene che tra i due sia stato convenuto che il creditore non avrebbe esercitato la sua pretesa290. Si considera dunque tacitamente concluso un pactum de non petendo: nell’eventuale giudizio promosso dal creditore, sarebbe stata concessa al debitore l’exceptio pacti fondata sulla convenzione tacitamente conclusa291. F. 43 – D. 2.14.4 Il giurista, dopo aver rapidamente richiamato il principio enunciato in D. 2.14.2 [F. 42], secondo cui le convenzioni possono essere concluse anche tacitamente, ricorda che nelle locazioni di abitazioni urbane le cose portate e introdotte dal conduttore sono costituite in pegno a vantaggio del locatore, anche se nulla sia stato pattuito espressamente al riguardo292. La previsione edittale relativa alla concessione dell’interdictum de migrando menziona le convenzioni di pegno sugli invecta et illata, in modo tale da permettere al conduttore
convenire re vel per epistulam vel per nuntium”. Che da sed etiam in poi possa essere individuato l’apporto della riflessione paolina è ben evidenziato da Melillo, 1970, 83; Id., 1979, 77 e nt. 153 (= 1982, 480 e nt. 153). Sul punto, v. anche Santoro, 1983, 40 s. e 176; nonché Gallo, 1992, 147 ss. Sulla rilevanza giuridica del silenzio in diritto romano e nella tradizione romanistica, anche con riferimento alla testimonianza in esame, cfr. Solidoro Maruotti, 2007, in specie 31 ss. 290 Sulla cautio e sulla sua funzione probatoria, v. per tutti Cannata, 2017, 165 e nt. 66, che ricorda la cautio pecuniae creditae di (Paul. 4 resp.) D. 44.7.29. 291 Secondo il meccanismo illustrato da Gai. 4.119: Omnes autem exceptiones in contrarium concipiuntur, quam adfirmat is cum quo agitur. Nam si verbi gratia reus dolo malo aliquid actorem facere dicat, qui forte pecuniam petit quam non numeravit, sic exceptio concipitur SI IN EA RE NIHIL DOLO MALO A. AGERII FACTUM SIT NEQUE FIAT: item si dicat contra pactionem pecuniam peti, ita concipitur exceptio SI INTER A. AGERIUM ET N. NEGIDIUM NON CONVENIT, NE EA PECUNIA PETERETUR; et denique in ceteris causis similiter concipi solet; ideo scilicet quia omnis exceptio obicitur quidem a reo, sed ita formulae inseritur, ut condicionalem faciat condemnationem, id est ne aliter iudex eum cum quo agitur condemnet, quam si nihil in ea re qua de agitur dolo actoris factum sit; item ne aliter iudex eum condemnet, quam si nullum pactum conventum de non petenda pecunia factum fuerit [Tutte le eccezioni poi sono predisposte in senso contrario a quanto afferma colui contro il quale si agisce. Infatti, se, ad esempio, il convenuto dica che l’attore faccia qualcosa con dolo, perché, puta caso, richiede in giudizio denaro che non ha mai dato, l’eccezione è predisposta così: ‘se in quest’affare niente con dolo di Aulo Agerio sia stato fatto o si faccia’; poi se asserisca che venga preteso del denaro nonostante la conclusione di un patto, l’eccezione è predisposta così: ‘se tra Aulo Agerio e Numerio Negidio non sia stato pattuito che il denaro non venisse chiesto’; e poi similmente si è soliti predisporre l’eccezione in tutti gli altri casi; perché, certo, ogni eccezione è opposta dal convenuto, ma è inserita nella formula in modo tale da rendere la condanna sottoposta a condizione, cioè in modo tale che il giudice non condanni il convenuto, se non nell’ipotesi in cui, per quanto concerne l’affare di cui si tratta, nulla sia stato commesso con dolo dell’attore; poi, analogamente, in modo tale che il giudice non lo condanni, se non nell’ipotesi in cui non sia stato concluso alcun patto di non richiedere il denaro]. 292 Cfr. (Ulp. 73 ad ed.) D. 20.2.6: Licet in praediis urbanis tacite solet conventum accipi, ut perinde teneantur invecta et inlata, ac si specialiter convenisset, certe libertati huiusmodi pignus non officit idque et Pomponius probat: ait enim manumissioni non officere ob habitationem obligatum [Sebbene in relazione agli immobili urbani si sia soliti considerare tacitamente convenuto, che le cose introdotte e portate siano vincolate allo stesso modo che se fosse stato convenuto con previsione particolare, certamente siffatto pegno non pregiudica la libertà e anche Pomponio approva ciò: afferma, infatti, che non pregiudichi la manomissione l’essere vincolato per l’abitazione]. Non appaiono fondati i sospetti di interpolazione avanzati da Koschaker, 1925, 152 e nt. 3 e da Schulz, 1951, 411. In difesa della genuinità di questa costruzione dogmatica, cfr. Schuller, 1969, 267 ss. Su D. 20.2.6, v. Stolfi, 2002.II, 187 ss.; nonché De Iuliis, 2017, 127. Il problema della manumissione degli schiavi vincolati propter pensionem è affrontato da (Paul. lib. sing. de off. praef. vigil.) D. 20.2.9, in cui si contrappone la condizione di quanti risultano vincolati (tacitamente) per il pagamento della pigione a quanti, invece, risultano vincolati ex conventione manifesta (manifestari F: manifesta Pb): cfr. in proposito Giachi, 2009, 293 ss.
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Ivano Pontoriero di prelevare i beni non concessi in garanzia293. Il percorso interpretativo che ha portato ad inquadrare nell’ambito delle conventiones tacitae la costituzione in pegno degli invecta et illata nelle locazioni urbane, come emerge da una significativa testimonianza di Nerazio Prisco, si è già compiuto in età adrianea294. La regola secondo cui gli invecta et illata risultano tacitamente vincolati al soddisfacimento dei crediti del locatore si ritrova, qualificata come iusta praesumptio, in (Imp. Iust. A. Iohanni pp., a. 532) C. 8.14(15).7295. Paolo prosegue ricordando che, in ragione del fatto che le convenzioni possono essere concluse tacitamente, anche il muto può pattuire296. Il secondo paragrafo del frammento considera la dotis promissio, che si ritiene sottoposta alla condizione tacita si nuptiae fuerint secutae297. Ciò comporta due conseguenze. La prima è che non si possa agire prima che le nozze abbiano avuto luogo298. La seconda è che, qualora le nozze non vengano contratte, la stipulazione rimarrà priva di effetti. Paolo ricorda che Giuliano era dello stesso avviso299.
293 La relativa clausola è riportata da (Ulp. 73 ad ed.) D. 43.32.1. Sull’interdetto, v. Lenel, 1927, 490; La Rosa, 1987, 284 ss., che affronta il tema anche in rapporto all’interdictum Salvianum e all’actio Serviana; du Plessis, 2007, 219 ss.; Giachi, 2009, 267 ss.; nonché De Iuliis, 2017, 126 e nt. 46. 294 (Nerat. 1 membr.) D. 20.2.4pr.: Eo iure utimur, ut quae in praedia urbana inducta illata sunt pignori esse credantur, quasi id tacite convenerit: in rusticis praediis contra observatur [Ci serviamo di questo diritto, che le cose portate e introdotte negli immobili urbani si considerano essere in pegno, come se si sia convenuto ciò tacitamente: in relazione agli immobili rustici si osserva il contrario]. Cfr. al riguado Frezza, 1963, 125 s.; La Rosa, 1987, 296; nonché De Iuliis, 2017, 126 e nt. 47. (Ulp. 73 ad ed.) D. 20.2.3 riporta un’opinione di Nerazio, che estende la regola della tacita costituzione del pegno agli immobili urbani diversi dalle abitazioni: v. al riguardo, ancora, La Rosa, 1987, 297. 295 L’imperatore sancisce che l’applicazione della disciplina relativa agli invecta et illata, quae domino pro pensionibus tacite obligantur, abbia luogo non solo a Roma, a Costantinopoli e nei territori limitrofi (non solum in utraque Roma et territorio earum), ma anche in tutte le province (in nostris provinciis). Giustiniano desidera infatti che tutti gli abitanti delle province possano giovarsi di tale iusta praesumptio. Cfr. in particolare, Schuller, 1969, 282; nonché De Iuliis, 2017, 127 e nt. 49. 296 La testimonianza è coerente con quanto afferma (Paul. 16 ad Plaut.) D. 44.7.48: In quibuscumque negotiis sermone opus non est sufficiente consensu, iis etiam surdus intervenire potest, quia potest intellegere et consentire, veluti in locationibus conductionibus, emptionibus (venditionibus ins. Mo) et ceteris [In alcuni negozi non è necessario parlare, essendo sufficiente il consenso, in relazione a questi può intervenire anche il sordo, dal momento che può comprendere e prestare il proprio consenso, come nelle locazioni conduzioni, nelle compere e altri]. Sulla condizione del sordomuto in diritto romano, cfr. Girino, 1970, 907 s. (ma in modo eccessivamente schematico), nonché Dalla, 1990, 1295. 297 Cfr. Sacconi, 1989, 78 ss. Particolarmente significativo in proposito è (Ulp. 35 ad Sab.) D. 23.3.21: Stipulationem, quae propter causam dotis fiat, constat habere in se condicionem hanc ‘si nuptiae fuerint secutae’, et ita demum ex ea agi posse (quamvis non sit expressa condicio), si nuptiae, constat: quare si nuntius remittatur, defecisse condicio stipulationis videtur [Consta che la stipulazione, che viene posta in essere per causa di dote, contenga questa condizione ‘se siano seguite le nozze’ e così solo, se risulta che le nozze si sono verificate, si può agire in forza di quella (sebbene non sia una condizione espressa): per la qual cosa, se il messo venga mandato via, si considera che sia venuta a mancare la condizione della stipulazione]. Per il dibattito giurisprudenziale precedente, v. (Iav. 6 ex post.) D. 23.3.80. Su questo frammento, e per il rapporto con la lex geminata D. 23.3.83, cfr. Mommsen 1870.I, 686, nt. 2. 298 La soluzione viene riproposta in altri luoghi paolini. Cfr. (Paul. 35 ad ed.) D. 23.3.41.1: Sed si nuptiae secutae non fuerint, ex stipulatu agi non potest: magis enim res quam verba intuenda sunt [Ma se non siano seguite le nozze, non si può agire in forza della stipulazione: infatti bisogna considerare di più la situazione che le parole]. Cfr. in proposito Masi, 1966, 86 e nt. 273. 299 Non essendo indicata né l’opera, né il libro da cui è tratta l’opinione di Salvio Giuliano, Lenel, 1889.I, 320, inserisce la testimonianza congetturalmente, e dunque preceduta da una †, nella palingenesi del primo libro dei digesta del giurista antoniniano, sotto la rubrica de pactis. Lo stesso accade per il responso giulianeo citato nel terzo paragrafo del frammento (v. infra).
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Commento La trattazione prosegue nel terzo paragrafo, in cui Paolo dà conto di un responso di Giuliano. Era stato convenuto che, fin quando fossero stati pagati gli interessi, non sarebbe stata richiesta la restituzione del capitale. Salvio Giuliano rispose che, nonostante la stipulazione fosse stata conclusa puramente e semplicemente, la condizione inerisse alla stipulazione, come se fosse stata espressa300. Come è stato osservato, attraverso l’apporto dell’interpretazione giurisprudenziale, la condicio: “viene ricavata dall’insieme delle trattative negoziali e dell’assetto di interessi concordato”301. F. 44 – D. 2.14.6 Il frammento, che ha suscitato numerosi sospetti di interpolazione, fornisce la nozione di legitima conventio302. Il brano è strettamente collegato alla precedente trattazione di (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.14.5, in cui si suddividono le conventiones che vengono concluse ex causa privata in legittime o di diritto delle genti303. Secondo Paolo, è convenzione legittima quella che viene confermata da una qualche legge, o, come apprendiamo dal prosieguo del brano, da un senatoconsulto o da un altro atto normativo ad essa equiparato304. La
300 Per la possibile emendazione di et in etsi, cfr. Mommsen 1870.I, 63. La soluzione prospettata è stata ritenuta non genuina: cfr. Riccobono, 1922, 350 (= 1935, 398 s.). In difesa della genuinità, v. Talamanca, 1991, 209. Per l’esegesi del brano, cfr. anche Perozzi, 1928.II, 372 s., nt. 3; Sargenti, 1959, 305 s., nt. 15 e Roussier, 1962, 9 s. 301 Così Talamanca, 1991, 209, che ricorda anche l’affinità con le fattispecie affrontate da (Paul. 3 quaest.) D. 12.1.40 e (Paul. 15 resp.) D. 45.1.134.1. In questo senso, v. anche l’interpretazione offerta da Giuffrè, 1965, 74, secondo cui il giurista pone in essere un’interpretazione integratrice. Nel brano sarebbe allora dato scorgere: “lo sforzo ermeneutico diretto a dar corpo organico e coerente a manifestazioni negoziali di per sé equivoche o erronee”. 302 Esprimono dubbi sulla genuinità del brano Pernice, 1888, 198, nt. 4; Manenti, 1891, 165 ss., nt. 1; Perozzi, 1928.I, 113, nt. 5; Grosso, 1963, 189 ss. Contro le ipotesi di alterazione formulate da Alfred Pernice e Carlo Manenti, cfr. tuttavia le fondate osservazioni di Ferrini, 1892, 85 ss. (= 1929, III 266 ss.). Nella letteratura più recente, v. Fercia, 2012, 84, secondo cui i giustinianei avrebbero assunto come base del proprio lavoro “un testo già glossato dell’ad edictum di Paolo, comprimendolo sino a ridurlo ad una sorta di indice”. Lo stato della testimonianza non escluderebbe, tuttavia “la persistente immanenza di un nucleo di pensiero originario di Paolo”. Sull’interpretazione proposta da questo autore e sul suo connesso tentativo di restituzione del testo, v. infra, nt. 307. 303 (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.14.5: Conventionum autem tres sunt species. aut enim ex publica causa fiunt aut ex privata: privata aut legitima aut iuris gentium. publica conventio est, quae fit per pacem, quotiens inter se duces belli quaedam paciscuntur [Vi sono poi tre specie di convenzioni: o infatti vengono concluse per una causa pubblica o per una causa privata; privata o legittima o di diritto delle genti. Convenzione pubblica è quella che viene posta in essere per la pace, ogniqualvolta i comandanti di una guerra pattuiscono tra loro certe cose]. Ipotizza che il brano sia stato alterato dai compilatori, attraverso la sostituzione del riferimento alle conventiones iuris civilis con quello alle conventiones legitimae e la soppressione della categoria delle conventiones previste dallo ius honorarium, per l’attenuarsi, da un lato, del formalismo caratterizzante gli antichi rapporti di ius civile, dall’altro, del venir meno della dialettica tra ius civile e ius honorarium, Riccobono, 1930, 146 s. In senso contrario, risulta però decisiva l’osservazione di Schiavone, 1991, 145 e nt. 47, che sottolinea come Ulpiano consideri civilis obligatio quella scaturita da una conventio iuris gentium ([Ulp. 4 ad ed.] D. 2.14.7). Per l’“incongruenza” del brano, dal punto di vista diairetico, cfr. Talamanca, 1977b, 276 s., che osserva: “le tres species della conventio, poste esplicitamente sullo stesso piano, si raggiungono mediante un’ὑποδιαίρεσις, precisamente attraverso due dicotomie successive (conventio publica–privata; conventio privata, legitima–iuris gentium)”. Sui rapporti della definizione paolina con la precedente trattazione ulpianea, cfr. d’Ors, 1976b, 134 s.; Mantello, 1995, 249 s. e nt. 83 (= 2014, I 457 s. e nt. 83). 304 Su questo passaggio, v. in particolare Schiavone, 1991, 144-145, che sottolinea come anche una costituzione imperiale possa essere ormai ricondotta: “entro il modello generale della ‘lex’, senza richiedere un’indicazione autonoma”.
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Ivano Pontoriero convenzione legittima ha l’effetto di far sorgere o far venir meno un’azione305. Il giurista non fornisce un elenco di conventiones legitimae ed è pertanto arduo individuare quelle alle quali intende riferirsi. Tradizionalmente, la storiografia romanistica ha indagato all’interno della categoria di quelli che, con espressione coniata proprio sulla base di questo testo paolino, vengono chiamati pacta legitima306. Un più recente orientamento, dal carattere marcatamente congetturale e che non appare pertanto in grado di incidere sull’opinione maggioritaria, ha proposto invece di identificare le legitimae conventiones con i più antichi rapporti di ius civile, tutelati da actiones stricti iuris307. F. 45 – D. 22.2.7 Il frammento è stato inserito dai compilatori nel titolo D. 22.2 de nautico fenore308. Questa testimonianza, insieme a (Scaev. 6 resp.) D. 22.2.5, sembra riconoscere al creditore la possibilità di pretendere in via d’azione il pagamento di usurae ex pacto309. La critica ha più volte messo
305 Per l’osservazione secondo cui le conventiones legitimae sarebbero state da escludere, perché già sanzionate dalla legge o da un atto ad essa equiparato, dall’ambito di applicazione dell’editto de pactis, cfr. Tondo 1998, 447 ss. 306 Cfr. in proposito Melillo, 1994, 247 ss., che ricorda il pactum donationis (cui si riferisce la costituzione [Impp. Severus et Antoninus AA. Lucio, a. 210] C. 8.53[54].1), gli accordi dotali ([Idem A. (scil. Imp. Alex. A.) Nicae, a. 222] C. 2.3.10), e, solo per il diritto giustinianeo, il compromissum ([Imp. Iust. A. Demostheni pp., a. 529] C. 2.55[56].4; [Idem. A. Iuliano pp., a. 530] C. 2.55[56].5). 307 Fercia, 2012, 61 ss.; Id., 2014, 12 ss.; Id., 2015, 26 ss. Il percorso interpretativo dell’autore prende le mosse dall’esegesi di (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.14.5 (v. supra, nt. 303), soffermandosi, in particolare, sulla diairesi delle conventiones ex privata causa in conventiones legitimae e iuris gentium. Queste ultime, come, secondo l’autore, sarebbe dato inferire dalla successiva trattazione di (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.14.7pr.-1, sarebbero quelle che danno vita a bonae fidei iudicia, mentre le altre, che affonderebbero le proprie radici nel diritto quiritario, farebbero sorgere actiones stricti iuris. Secondo Riccardo Fercia, (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.14.1.4 fornirebbe l’esempio di due conventiones iuris gentium (emptio venditio, locatio conductio) e due esempi di conventiones legitimae (fiducia, nell’originale scrittura ulpianea, alla quale sarebbe stata sostituita la menzione del pignus, e stipulatio). Tale concezione sarebbe rintracciabile anche nella testimonianza paolina di D. 2.14.6, della quale viene proposta la seguente restituzione: Legitima conventio est quae lege aliqua confirmatur. [Et ideo] interdum ex pacto actio nascitur vel tollitur, [quotiens lege aut senatus consulto adiuvatur] (cfr. Fercia, 2012, 82; Id., 2014, 15; Id., 2015, 30, nt. 40). L’espressione lege aliqua non indicherebbe così uno specifico provvedimento normativo, ma farebbe riferimento ad una “realtà normativa esistente, ma non individuabile... ‘dissolta’ nella sola interpretatio in cui consiste il ius civile, ma allo stesso tempo vigente come principium di essa” (Fercia, 2012, 99 s.; Id., 2015, 30 [la citazione è tratta da quest’ultimo contributo]). L’interpretazione proposta troverebbe inoltre conforto in dati stilistici e contenutistici ricavabili da alcuni luoghi paolini ([Paul. 15 quaest.] D. 46.3.98.8; [Paul. 72 ad ed.] D. 45.1.83.5 e, soprattutto, [Paul. 1 manual.] Vat. 50), nonché in Sch. 2 a Bas. 11.1.6 (= Scheltema, B I, 185). 308 La denominazione della rubrica è ritenuta frutto dell’elaborazione della giurisprudenza di età tardoantica da Soubie, 1960, 125. L’espressione nauticum fenus si riscontra solo nel rescritto (Idem AA. [scil. Diocl. et Max. AA.] Aureliae Iulianae) C. 4.33.4(3). La denominazione pecunia traiecticia, con talune varianti, risulta essere la più ricorrente. In soli tre casi è usata la denominazione pecunia nautica. La scelta dei compilatori bizantini è probabilmente dettata da esigenze di carattere classificatorio e sistematico. La denominazione nauticum fenus, pur essendo meno diffusa nella tradizione giuridica, si prestava meglio a dare un rigoroso inquadramento sistematico alla materia, collocata dai compilatori immediatamente dopo i titoli D. 22.1 de usuris et fructibus e C. 4.32 de usuris. Sul punto e per l’indicazione delle fonti, cfr. Pontoriero, 2011, 23 ss. 309 (Scaev. 6 resp.) D. 22.2.5: Periculi pretium est et si condicione quamvis poenali non existente recepturus sis quod dederis et insuper aliquid praeter pecuniam, si modo in aleae speciem non cadat: veluti ea, ex quibus condictiones (condiciones, F) nasci solent, ut ‘si non (non Cui. sec. B, om. F) manumittas’, ‘si non illud facias’, ‘si non convaluero’ et cetera. nec dubitabis, si piscatori erogaturo in apparatum plurimum pecuniae dederim, ut, si cepisset, redderet, et athletae, unde se exhiberet exerceretque, ut, si vicisset, redderet. (1) In his autem omnibus et pactum sine stipulatione ad augendam obligatio-
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Commento in dubbio la genuinità del frammento, non solo per ragioni stilistiche e lessicali, ma, soprattutto, per l’asserito contrasto con i principi espressi da (Paul. 3 ad ed.) D. 2.14.17pr. [F. 50] e PS. 2.14.1-3310. Appare significativa, in proposito, la posizione di Francesco De Martino, che, seguendo un orientamento già emerso nel dibattito scientifico311, considerava D. 22.2.7 una testimonianza del tutto inaffidabile, per ragioni di carattere formale e sostanziale312. L’impostazione dello studioso napoletano era condivisa da altri autori, che non trascuravano di addurre ulteriori argomenti a sostegno dell’ipotesi dell’alterazione del frammento313. Di segno opposto – e conforme all’indirizzo tadizionale314 – era l’opinione espressa da Arnaldo Biscardi, che, pur manifestando forti riserve nella valutazione della genuinità di (Scaev. 6 resp.) D. 22.2.5 e di (Paul. 3 ad ed.) D. 22.2.7, riteneva senz’altro azionabile il pactum usurarum315. Qualche elemento di novità al dibattito sul valore di D. 22.2.7 è apportato dalla più matura riflessione dello stesso autore. Biscardi accoglie l’ipotesi, già formulata, circa l’interpolazione del primo periodo del passo (In… stipulationem). Sarebbe invece sostanzialmente genuino il
nem prodest [C’è un corrispettivo per l’assunzione del rischio anche quando, pur non essendosi verificata una condizione, eventualmente di carattere penale, tu possa ricevere ciò che hai dato e inoltre qualcosa in più del denaro, purché non si cada in una fattispecie di alea: come nelle ipotesi, dalle quali sono solite scaturire azioni personali “se tu non manometta”, “se tu non faccia ciò”, “se io non sarò guarito” e le altre. Né dubiterai, se io abbia dato una notevole quantità di denaro ad un pescatore per l’acquisto delle attrezzature, affinché, in caso di esito fruttuoso della pesca, lo restituisse, o all’atleta, per esibirsi e per allenarsi, affinché, in caso di vittoria, lo restituisse. 1. In tutte queste ipotesi poi anche un patto senza stipulazione giova ad accrescere l’obbligazione]. Per l’esegesi di D. 22.2.5, v. Pontoriero, 2011, 80 ss. 310 Queste testimonianze saranno considerate infra, 177 ss. Più in generale, per una ricostruzione del dibattito storiografico relativo al prestito marittimo in diritto romano, v. Pontoriero, 2011, 5 ss. 311 Riccobono, 1922, 359 s. (= 1935, 414 s.) ritiene di fattura giustinianea l’intero frammento. L’espressione in quibusdam contractibus farebbe riferimento alle ipotesi considrate da (Alex. A. Aurelio Tyranno, a. 223) C. 4.32.11(12) e (Idem AA. et CC. [scil. Diocl. et Max. AA. et CC.] Iasoni, a. 294) C. 4.32.23, anch’esse da ascrivere alla mano dei compilatori. 312 De Martino, 1935, 230 ss. (= 1982, 15 ss.). Per quanto concerne la forma, sarebbe fortemente sospetto l’impiego dell’espressione quemadmodum per stipulationem e del costrutto dicendum est. Dal punto di vista sostanziale, il frammento si porrebbe in contrasto con la disciplina esposta da PS. 2.14.1-3, che ricorda soltanto la possibilità per il finanziatore di un prestito marittimo di ottenere il pagamento di usurae infinitae, ma nulla dice in ordine alla validità del pactum usurarum. Non mi sembra, tuttavia, che quest’ultimo rilievo possa essere enfatizzato. Si tratta, infatti, di un debole argumentum e silentio e la mancata menzione ben potrebbe altrimenti trovare spiegazione nel carattere necessariamente non onnicomprensivo di un florilegio. De Martino allega, altresì, come prova della paternità giustinianea della regola che avrebbe permesso al creditore di ricorrere al pactum usurarum, il rimaneggiamento e l’inserimento nel titolo D. 22.2 di (Scaev. 6 resp.) D. 22.2.5, che, originariamente, secondo l’autore, non avrebbe preso in considerazione il prestito marittimo. 313 De Villa, 1937, 93 ss., ritiene “interamente spurio” il testo di D. 22.2.7. Lo studioso, oltre ad essere fortemente critico nei confronti dell’impiego dell’avverbio quemadmodum, fa rilevare come l’esordio del passo in quibusdam contractibus presenti una forte assonanza, che lascerebbe intravedere la mano dei compilatori, con un passaggio di (Iust. A. Menae pp., a. 528) C. 4.32.26.2: in traiecticiis autem contractibus vel specierum fenori dationibus. Vittorio De Villa propone (104, nt. 72) una ricostruzione del tenore originale del passo formulata in questi termini: in obligationibus re contractis etiam usurae debentur per stipulationem (per alcuni rilievi critici su questa proposta, v. Purpura, 1987, 298, nt. 323 [= 1996, 202, nt. 323]). 314 Cfr. Glück, 1820, 156 s. (= 1906, 135); Huvelin, 1929, 209; Paoli, 1930, 71. Sul punto, v. anche Pontoriero, 2011, 5-6 e nt. 1, 94 e nt. 62. 315 Cfr. Biscardi, 1937, 358 ss. Il mancato o insufficiente apprezzamento positivo di (Scaev. 6 resp.) D. 22.2.5 e (Paul. 3 ad ed.) D. 22.2.7 rendono agevole la dura replica di De Martino, 1936, 439 ss. (= 1982, 38 ss.).
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Ivano Pontoriero seguito (nam… recipere), che avrebbe avuto riguardo all’opponibilità dell’exceptio pacti conventi nell’ipotesi in cui, chi avesse spontaneamente ricevuto il pagamento di usurae, fosse stato poi convenuto, per la ripetizione, attraverso la condictio indebiti316. La critica più recente ha, al contrario, del tutto ridimensionato i dubbi concernenti la genuinità della testimonianza paolina317. Alcuni autori, tuttavia, continuano a negare il riconoscimento giurisprudenziale dell’azionabilità del pactum usurarum nel prestito marittimo, attraverso l’adozione di un nuovo percorso esegetico, che inquadra l’obligatio usurarum come essentiale negotii del prestito marittimo e che trova proprio in D. 22.2.7 il punto di riferimento testuale più significativo. Il primo studioso ad aver configurato l’obbligazione del debitore di pagare gli interessi come elemento essenziale del prestito marittimo è Henryk Kupiszewski318. Il romanista polacco riteneva che l’assunzione del periculum maris da parte del creditore fosse un elemento meramente accidentale: la sua presenza avrebbe soltanto giustificato la possibilità per il finanziatore di pretendere il pagamento di usurae infinitae. La semplice mutui datio sarebbe risultata sufficiente ad obbligare il debitore a restituire il capitale e a pagare gli interessi nella misura della centesima. Un accordo supplementare avrebbe potuto concernere l’assunzione del rischio da parte del creditore e giustificare la percezione di interessi in misura più elevata. Tale accordo
316 Biscardi, 1948, 668 s. (= 1974, 104 s.). L’interpretazione proposta non appare persuasiva. Lo studioso considera inaffidabile la prima parte del frammento, che sembra proprio introdurre un’eccezione allo ius commune della pratica feneratizia (In… stipulationem). L’esemplificazione del giurista viene, poi, riportata sul piano dei principi generali (nam… recipere). In questo modo finisce, tuttavia, per essere oscurata la portata precettiva della regola enunciata. Alla posizione espressa da Arnaldo Biscardi sembra avvicinarsi, nella letteratura più recente, Purpura, 1987, 297 ss. (= 1996, 201 ss.): “Al tempo di Paolo la possibilità di ricevere e trattenere le usurae quemadmodum per stipulationem non appare affatto inusitata. In questa prospettiva il termine recipere utilizzato nel testo indicherebbe allora la possibilità di ricevere, piuttosto che quella di riprendere quanto erogato come compenso per il periodo di tempo eccedente”. Lo studioso palermitano ritiene inoltre possibile riportare il passo alla problematica della scadenza del termine e della previsione di un compenso per il periodo successivo. Gianfranco Purpura è dell’avviso che nel prestito marittimo gli interessi venissero sempre stabiliti in una misura determinata. Al contrario, gli interessi previsti per il periodo di tempo successivo alla scadenza del termine avrebbero potuto subire incrementi legati al decorso del tempo. Partendo da queste premesse, l’autore ipotizza che il testo possa essere così integrato: …dicendum est posse me sortem cum usuris recipere … oppure …dicendum est posse me sortem cum usuris recipere… Sul punto, in senso contrario all’opinione da me sostenuta circa l’azionabilità del nudum pactum usurarum (v. Pontoriero, 2011, in specie 93 ss.), cfr. anche Purpura, 2014, 414. 317 Voci, 1971, 342, nt. 78; Castresana Herrero, 1982, 98 ss.; Roset, 1994, 242; Giuffrè, 1995, 142 ss. (= 1999, 107 ss.). Da un angolo di visuale diverso, teso soprattutto a sottolineare l’impossibilità di individuare una nozione unitaria di contratto nella riflessione della giurisprudenza romana, cfr. Sargenti, 1988, 66 ss. (= 2011, 1255 s.) e Burdese, 1992, 215. 318 Uno spunto in tal senso era, tuttavia, già presente in De Martino, 1935, 233 (= 1982, 17), secondo cui il testo non affermerebbe che il pactum potesse sostituire la stipulazione, ma solo che “in taluni casi le usurae sono una conseguenza legale del contratto, senza bisogno di un particolare regolamento”. Egli, tuttavia, rilevava una sorta di contraddizione tra la prima parte del frammento In quibusdam… per stipulationem e la seconda nam… recipere. In quest’ultima, infatti, si farebbe “espressamente menzione di un regolamento volontario”. È evidente che viene meno ogni contraddizione tra la prima e la seconda parte del frammento ammettendo che la prima faccia riferimento al valore del pactum usurarum, come è, del resto, confermato dalla seconda parte, che prende in considerazione la conventio tra le parti e non fa menzione del contratto verbale.
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Commento avrebbe potuto, o meno, essere riversato nelle forme del solenne negozio verbale. I giuristi romani avrebbero, comunque, riconosciuto piena efficacia giuridica al pactum319. La tesi di Kupiszewski, secondo cui la prestazione di usurae avrebbe assunto il rango di elemento essenziale del prestito marittimo romano, ha trovato poi seguito tra autori che sono propensi a negare il riconoscimento di una protezione giurisdizionale in via d’azione al pactum usurarum320. Molti e importanti argomenti si oppongono, tuttavia, all’accoglimento di questo orientamento e depongono a favore dell’opinione tradizionale, secondo cui Paolo avrebbe riconosciuto piena protezione giurisdizionale in via d’azione al pactum usurarum nei contratti di prestito marittimo321. L’esatta collocazione palingenetica del frammento ha dato vita ad interpretazioni discordanti. Cuiacio riteneva che il brano fosse originariamente posto a commento dell’editto de edendis ab argentario rationibus322. Otto Lenel lo inquadra, invece, nell’ambito della trattazione paolina sulla clausola edittale de pactis et conventionibus e lo pone in successione a (Paul. 3 ad ed.) D. 2.14.6 [F. 44]323. La riflessione leneliana riporta decisamente la regola enunciata dal frammento contenuto in D. 22.2.7 alla problematica dell’azionabilità del pactum usurarum324.
319 Kupiszewski, 1972, 370 ss. L’esegesi del frammento non sembra convincente. Il romanista polacco afferma laconicamente: “Il passo di Paolo parla dell’assunzione del rischio della navigazione da parte del creditore: tale assunzione poteva ovviamente effettuarsi mediante una stipulatio tra le parti. Occorre tuttavia chiarire che la stipulazione non era che uno dei mezzi impiegabili a tal fine”. È appena il caso di ricordare che l’autore richiama, in particolare, a fondamento della propria costruzione dogmatica anche (Papin. 3 resp.) D. 22.2.4pr.; (Scaev. 6 resp.) D. 22.2.5; (Paul. 25 quaest.) D. 22.2.6, del quale fornisce, tuttavia, un’interpretazione erronea (cfr., sul punto, Pontoriero 2011, 49 e nt. 26); PS. 2.14.3; (Diocl. et Max. AA. Scribonio Honorato, a. 286) C. 4.33.2(1) e Bas. 53.5.16 (= Scheltema – van der Wal, A VII, 2456; Rodolakis, 238). 320 Cfr. Castresana Herrero, 1982, 98 ss. e 106. Si deve notare che, tuttavia, la posizione della romanista spagnola diverge significativamente da quella di Henryk Kupiszewski per il riconoscimento della rilevanza strutturale dell’assunzione del rischio della navigazione da parte del creditore. Sia pure incidentalmente, senza alcun preciso riferimento a (Paul. 3 ad ed.) D. 22.2.7 e senza entrare nel merito del dibattito scientifico relativo alle forme di protezione delle aspettative creditorie alla restituzione del capitale e alla corresponsione degli interessi, v. anche Sicari, 2001, 239. Del tutto conforme alla posizione espressa da Amelia Castresana Herrero è l’opinione di Lushnikova, 2007, 196. 321 Non ultimo, il testo di Bas. 53.5.7 (= Rodolakis, 237): Ἐπὶ τῶν διαποντίων ϰαὶ χωρὶς ἐπερωτήσεως ἀπαιτεῖται τόϰος ἀπὸ συμϕώνου [Nei contratti di prestito marittimo, anche senza una stipulazione, l’interesse si richiede in forza dell’accordo]. Il brano ci è pervenuto solo grazie al Codex Vaticanus Barberinianus Gr. 578, di cui si giova l’edizione di Rodolakis. 322 Cuiacius, 1584, 44: “Haec lex respicit etiam ad rationes argentariorum. In argentariis jus singulare est, ut pecuniarum, quas aliis crediderint, usurae eis debeantur sine stipulatione, ex pacto nudo, ex perscriptione sola, ut extat in Novella 136”. Secondo Cuiacio, Paolo avrebbe avuto cura di precisare che la possibilità di ottenere il pagamento di usurae ex pacto avrebbe riguardato non solo i mensarii e gli argentarii, ma tutti quelli che finanziano un prestito marittimo: “Quod cum scripsisset Paulus, tractans de rationibus argentariorum edendis, exhibendis, subducendis, sive calculo subjiciendis, facta collatione expensarum, et acceptarum pecuniarum, debitarum et creditarum, subjecit, non in mensariis sive argentariis hoc tantum obtinere, ut creditarum pecuniarum usurae eis debeantur ex pacto nudo sine stipulatione, sed etiam in omnibus qui pecuniam credunt trajiciendam trans mare”. Questa disciplina trova fondamento e giustificazione nell’assunzione del rischio dell’operazione di finanziamento da parte del creditore. A conforto della sua affermazione Cuiacio richiama anche (Scaev. 6 resp.) D. 22.2.5. 323 Lenel, 1927, 64, nt. 8; Id., 1889.I, 971; v. anche Santoro, 1983, 284 ss. 324 Cfr. Lenel, 1927, 64, nt. 8, che richiama, accanto al brano che stiamo esamindando, anche (Scaev. 6 resp.) D. 22.2.5.1.
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Ivano Pontoriero Paolo afferma che in taluni contratti è possibile pretendere il pagamento di usurae come se fosse stata posta in essere una stipulatio (In quibusdam contractibus… per stipulationem)325. Il giurista fornisce un esempio per chiarire il tenore della sua precedente affermazione e ricorda che ciò è possibile nel caso del prestito marittimo (nam… recipere)326. La tesi secondo cui il frammento costituirebbe prova del fatto che l’obligatio usurarum del debitore trovasse la sua fonte nella semplice numeratio pecuniae è smentita dalla stessa formulazione del brano. Paolo menziona una numeratio pecuniae accompagnata dall’accordo di restituire il capitale e di pagare interessi in una misura determinata, una volta realizzatasi la condizione dell’arrivo in porto della nave salva327. Il testo allude chiaramente a un accordo volto a determinare la misura degli interessi esigibili dal debitore328. L’impiego dell’espressione usurae certae non è ignoto al linguaggio della giurisprudenza romana ed è inserito il più delle volte in contesti che fanno riferimento alla determinazione – convenzionale o comunque riconducibile a un atto di autonomia privata – della misura degli interessi329. Ulteriore argomento a sostegno della tesi secondo cui D. 22.2.7 si pronuncerebbe a favore dell’esigibilità di usurae solo pattuite è costituito da (Paul. lib. sing. reg.) D. 22.1.30, che permette di individuare un particolare interesse del giurista severiano “ad evidenziare le eccezioni alla ‘regola’ del ricorso alla stipulatio”330. Le fonti conser-
325 Sono stati sollevati dei sospetti sull’impiego dell’espressione quemadmodum per stipulationem (cfr. supra, ntt. 312-313). La correttezza del modo di esprimersi del giurista è, giustamente, sottolineata da Castresana Herrero, 1982, 98 s. 326 La critica si è soffermata ad analizzare la natura e la portata della proposizione ut salva nave sortem cum certis usuris recipiam. La conventio prevede l’assunzione del rischio dell’operazione da parte del creditore, attraverso l’inserimento della condizione salva nave. De Martino, 1935, 226 s. e 233 (= 1982, 11 e 17) ha ritenuto che la seconda parte del frammento contenesse i termini di un regolamento volontario dell’operazione (nam… recipiam) e ne ha tratto la conseguenza che il periculum creditoris non costituisse un elemento essenziale del prestito marittimo. Si pone nel medesimo ordine di idee Litewski, 1973, 131. Di contrario avviso è Castresana Herrero, 1982, 80. La romanista spagnola ritiene di non poter inquadrare la condizione salva nave come condizione propria, ma come semplice condicio iuris: “No parece, pues, que el prestamista… haya incluido por su propria voluntad la condición salva nave; más bien se da a entender que aquél era consciente de que la mencionada condición estaba ínsita en la pecunia traiecticia”. Sulla natura della condizione salva nave, v. Pontoriero, 2011, 59 ss. 327 A tale proposito è appena il caso di richiamare (Ulp. 26 ad ed.) D. 12.1.7: Omnia, quae inseri stipulationibus possunt, eadem possunt etiam numerationi pecuniae, et ideo et condiciones [Tutto ciò che può essere inserito nelle stipulazioni, può esserlo anche nel versamento del denaro a mutuo, e perciò anche le condizioni]. Sul frammento, sovente ritenuto di fattura giustinianea, cfr. Sacconi, 1987, 433. 328 Non persuade l’esegesi di Castresana Herrero, 1982, 98 ss. e 106. Le parti avrebbero dovuto infatti accordarsi sulla misura degli interessi, che, in ragione dell’assunzione del rischio da parte del creditore, avrebbero potuto superare il limite legale della centesima (cfr. PS. 2.14.3). Solo in forza di una petitio principii si può arrivare a sostenere che il testo “no aborda, pues, el problema de la formalización jurídica de la usura, sino el del carácter que presentaban los intereses en ciertos negocios y más concretamente en la pecunia traiecticia” (106). Siffatta considerazione è ripresa quasi testualmente da Lushnikova, 2007, 196. 329 Cfr. VIR I 721. L’espressione ricorre in (Ulp. 31 ad ed.) D. 17.1.6.6; (Tryph. 2 disp.) D. 26.7.54; (Ulp. 2 fideicomm.) D. 32.11.15; (Scaev. 4 resp.) D. 36.1.64(62).1. A questi passi deve essere aggiunto (Ulp. 31 ad ed.) D. 17.2.52.10, in cui, tuttavia, l’attributo è forse da espungere (cfr. Krüger, 1911, 258 e nt. 11). Si veda anche (Imp. Ant. A. Rogatiano, a. 213) C. 7.57.1. 330 (Paul. lib. sing. reg.) D. 22.1.30: Etiam ex nudo pacto debentur civitatibus usurae creditarum ab eis pecuniarum [Anche in forza di un nudo patto sono dovuti alle città gli interessi sulle somme di denaro da loro concesse a mutuo]. Il rilievo è di Giuffrè, 1995, 143 (= 1999, 108). Il brano prende in considerazione i mutui erogati dalle civitates. La ragione della deroga sembra, in questo caso, risiedere nella natura di soggetto pubblico di una parte del rapporto: De Villa, 1937, 87 s.; seguito da Roset, 1994, 242. I giuristi fanno talora riferimento al denaro mutuato con l’espressione pecunia publica ([Paul. 25 quaest.] D. 22.1.11; [Ulp. lib. sing. de officio curatoris rei rublicae] D. 22.1.33).
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Commento vano anche il ricordo di fattispecie in cui, al pari di quanto accadeva nel prestito marittimo, risultavano esigibili in via d’azione usurae ex pacto ed era possibile il superamento del limite della centesima sul capitale331. Infine, può risultare di un certo interesse ricordare che l’unica altra testimonianza relativa all’esigibilità delle usurae ex pacto nel prestito marittimo, (Scaev. 6 resp.) D. 22.2.5, proviene dall’opera del maestro di Paolo. F. 46 – D. 2.14.11 Il frammento è stato strettamente collegato dai compilatori alla trattazione contenuta in (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.14.10.2332. Quest’ultimo brano si sofferma sui rapporti tra l’exceptio doli e l’exceptio pacti. Ulpiano afferma che l’exceptio doli ha carattere sussidiario rispetto all’altra eccezione333. Viene quindi richiamata l’opinione di Giuliano, che aveva riscosso largo seguito (et alii plerique consentiunt), secondo cui l’eccezione di dolo sarebbe stata concessa a coloro i quali non avrebbero potuto servirsi dell’eccezione di patto334. Ulpiano ricorda quindi, a mo’ di esempio, che se un procuratore abbia concluso un patto con un creditore, il dominus negotii potrà servirsi dell’exceptio doli, secondo quanto già affermato da Trebazio335. Il giurista più antico aveva anche ritenuto che il patto concluso dal procuratore fosse destinato a produrre i suoi effetti nei confronti del dominus negotii e pertanto, come poteva essergli opposto, allo stesso modo poteva giovargli. Il brano paolino, attraverso l’intervento di saldatura posto in essere dai commissari di Giustiniano, costituisce la motivazione dell’opinione appena richiamata: il patto concluso dal procuratore
331 Un rescritto di Severo Alessandro afferma che gli interessi sui mutui di derrate devono essere prestati anche ex nudo pacto. (Alex. A. Aurelio Tyranno, a. 223) C. 4.32.11(12): Frumenti vel hordei mutuo dati accessio etiam ex nudo pacto praestanda est [L’incremento dell’orzo o del grano dati a mutuo deve essere prestato anche in forza di un nudo patto]. Su questa testimonianza, v. Kniep, 1891, 129 ss., secondo cui la ragione della deroga risiederebbe nella recezione di usanze provinciali; De Villa, 1937, 88 ss., che dubita dell’autenticità del rescritto ipotizzando che siano state inserite le parole etiam ex nudo pacto; nonché Pontoriero, 2011, 100 s., cui si rinvia anche per l’indicazione delle fonti concernenti la misura del tasso d’interesse esigibile in queste operazioni di finanziamento. 332 (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.14.10.2: Plerumque solemus dicere doli exceptionem subsidium esse pacti exceptionis: quosdam denique, qui exceptione pacti uti non possunt, doli exceptione usuros et Iulianus scribit et alii plerique consentiunt. ut puta si procurator meus paciscatur, exceptio doli mihi proderit, ut Trebatio videtur, qui putat, sicuti pactum procuratoris mihi nocet, ita et prodesse, [Il più delle volte siamo soliti affermare che l’eccezione di dolo sia di sussidio all’eccezione di patto: e così anche Giuliano scrive che coloro i quali non possono impiegare l’eccezione di patto, si serviranno dell’eccezione di dolo e moltissimi altri sono d’accordo. Come, per esempio, se il mio procuratore concluda un patto, a me gioverà l’eccezione di dolo, come ritiene Trebazio, il quale pensa che come il patto del procuratore sia a me opponibile, così possa anche giovarmi]. 333 Sull’ambito di applicazione del rimedio, v. Longchamps de Bérier, 2013, 126, nt. 15, che, oltre al brano in esame, richiama le testimonianze di (Paul. lib. sing. de concept. formul.) D. 44.1.20; (Ulp. 76 ad ed.) D. 44.4.2.5; (Idem AA. et CC. [scil. Impp. Diocl. et Max. AA. et CC.] Helenae, a. 293) C. 8.35(36).6. 334 Lenel, 1889.I, 320, inserisce in via congetturale la testimonianza nella palingenesi del primo libro dei digesta di Salvio Giuliano, sotto la rubrica de pactis. In relazione alle ipotesi di sussidiarietà dell’exceptio doli rispetto all’exceptio pacti individuate da Giuliano, oltre a quella oggetto dell’esemplificazione ulpianea, di seguito illustrata e considerata già da Trebazio, è possibile richiamare anche (Paul. 3 ad ed.) D. 2.14.15 [F. 48] e (Paul. 3 ad ed.) D. 2.14.21.2 [F. 50]. Cfr. sul punto Burdese, 2006b, 448. 335 Lenel 1889.II, 344, colloca l’opinione di Trebazio tra i loci incerti. Per l’apporto di Trebazio, cfr. Brutti, 1973.I, 173 ss.; nonché Burdese, 2006a, 113 ss.; Id., 2006b, 446 s. e 453, il quale ricorda come ci troviamo di fronte alla “prima applicazione di cui abbiamo notizia dell’exceptio doli quale eccezione di dolo c.d. generale”.
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Ivano Pontoriero produce effetti nei confronti del dominus negotii, perché si può pagare anche nelle sue mani (quia et solvi ei potest)336. F. 47 – D. 2.14.13 Paolo ricorda che, se è stato nominato un cognitor, la convenzione da lui conclusa non nuoce al titolare, perché non è neppure possibile che si paghi nelle sue mani337. Se invece è stato costituito un cognitor nel suo interesse, questo si considera in luogo del titolare e perciò il patto convenuto dovrà essere osservato338. F. 48 – D. 2.14.15 Il frammento contenuto in D. 2.14.15 riporta l’opinione di Giuliano, secondo cui anche il patto concluso dal tutore giova al pupillo339. F. 49 – D. 26.7.22 In D. 26.7.22, il giurista si sofferma sui poteri del tutore. Quest’ultimo, per l’utilità del pupillo, può sia novare un’obbligazione sia dedurre un affare in giudizio340. Le donazioni poste in essere dal tutore, inoltre, non devono nuocere al pupillo341.
336 Cfr. Serrao, 1947, 32; cui adde Angelini, 1971, 131 e nt. 173. Sulla portata originaria del frammento paolino e per l’operazione di saldatura effettuata dai compilatori, cfr. anche Brutti, 1973.I, 175 ss. L’autore sottolinea come il significato originale del brano paolino debba essere apprezzato in relazione al successivo (Paul. 3 ad ed.) D. 2.14.13. 337 L’inscriptio riportata nella littera Florentina attribuisce erroneamente il frammento a Ulpiano, anziché a Paolo: cfr. Mommsen, 1870.I, 66. Le Pandette fiorentine contengono inoltre la lezione solvi possit, in luogo di solvi ei possit. Per l’integrazione, fondata sull’autorità di Bas. 11.1.13 (= Scheltema – van der Wal, A II, 629): αὐτῷ καταβάλλεται e di Sch. 1 a Bas. 11.1.13 (= Scheltema, B I, 225): τῷ τοιούτῳ καταβάλλει προκουράτορι, v., ancora, Mommsen, 1870.I, 66. Che l’originale scrittura paolina contenesse un riferimento al cognitor, anziché al procurator, è sostenuto da Eisele, 1881, 71, nt. 4, seguito da Lenel, 1889.I, 971, nt. 1. Sul punto, v. anche Serrao, 1947, 34 s. e Brutti, 1973.I, 176. 338 Sul primo paragrafo del frammento, cfr. Gehrich, 1963, 16 s.; nonché Brutti, 1973.I, 177 e nt. 96. 339 Per la collocazione palingenetica dell’opinione di Salvio Giuliano, cfr. Lenel, 1889.I, 320. Per l’esegesi del brano, v. Brutti, 1973.II, 639 s., il quale ipotizza che venga concessa al pupillo, convenuto in giudizio, l’exceptio doli. Propende per questa interpretazione anche Burdese, 2006b, 448. Diversamente, Wacke, 1973, 230, nt. 56, il quale ritiene piuttosto trattarsi di un’exceptio pacti. 340 Sul brano, cfr. Solazzi, 1911, 136, nt. 3 (= 1955, 466, nt. 41) e Bonifacio, 1959, 151 s. Per l’interpolazione dell’espressione ad utilitatem pupilli, già segnalata da Siro Solazzi, adde Labruna, 1962, 29 e nt. 87. Con particolare riferimento al tema della consumazione dell’azione da parte del tutore e alla possibilità che sia stata interpolata l’espressione ad utilitatem pupilli, cfr. anche Bonini, 1968b, 191 s. e nt. 51. Un indizio a favore della genuinità del riferimento all’utilitas pupilli potrebbe essere individuato in (Paul. 72 ad ed.) D. 46.2.20.1: Pupillus sine tutoris auctoritate non potest novare: tutor potest, si hoc pupillo expediat: item procurator omnium bonorum [Il pupillo non può novare senza l’autorizzazione del tutore; il tutore può se ciò convenga al pupillo. E così pure il procuratore di tutti i beni]. La protasi si hoc pupillo expediat è stata tuttavia ritenuta interpolata da Riccobono, 1893, 163 (= 1957, 35). Sui rapporti tra litis contestatio e novazione nella giurisprudenza classica, v. Sacconi, 1982, 58 ss. 341 Sembra peccare di eccessivo schematismo l’osservazione formulata da Solazzi, 1911, 136, nt. 3 (= 1955, 466, nt. 41), secondo cui: “o le donazioni non possono essere mai considerate come fatte ‘ad utilitatem pupilli’ (cfr. nondimeno la l. 1 § 2 D. 27.3 – Ulp. 36 ad ed.), ovvero se sono fatte ‘ad utilitatem’, è inutile ed ingenua la dichiarazione che ‘pupilli non nocent’”.
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Commento F. 50 – D. 2.14.17 + D. 2.14.19 + D. 2.14.21 + D. 2.14.23 + D. 2.14.25 Il principium di D. 2.14.17 afferma che l’obbligazione del mutuatario non può eccedere la misura della datio pecuniae effettuata dal mutuante. Paolo prende in considerazione l’ipotesi in cui al versamento della quantità di dieci si sia accompagnata la pattuizione di costituire in capo al debitore l’obbligazione per la quantità di venti (et paciscar, ut viginti mihi debeantur). L’obbligazione del debitore non sorge che per dieci (non nascitur obligatio ultra decem). La motivazione è che non è possibile contrarre un’obbligazione mediante la consegna di una cosa, se non per la quantità che sia stata data342. Questo principio si applica anche alla prestazione di usurae. Le Pauli Sententiae ricordano che è privo di valore il nudum pactum avente ad oggetto la prestazione di usurae, perché il nudum pactum non è idoneo a far sorgere un’azione343. Il primo paragrafo ricorda che alcune azioni, come quella di ingiurie e, poi, quella di furto, vengono meno, di diritto, a seguito della conclusione di un patto tra offeso e offensore344.
342 Cfr. sul punto Viard, 1929, 41; Stanojević, 1969, 318; Maschi, 1973, 290; Sacconi, 1987, 435, nt. 9; Roset, 1994, 236. È possibile, al contrario, che l’obbligazione sorga per una quantità inferiore a quella versata, come si evince da (Ulp. 26 ad ed.) D. 12.1.11.1: Si tibi dedero decem sic, ut novem debeas, Proculus ait, et recte, non amplius te ipso iure debere quam novem. sed si dedero, ut undecim debeas, putat Proculus amplius quam decem condici non posse [Se ti avrò dato dieci così, in modo che tu debba solo nove, Proculo afferma, e correttamente, che tu non debba di diritto più di nove. Ma se avrò dato in modo che tu debba undici, Proculo reputa che non si possa ottenere più di dieci]. Le posizioni assunte nella valutazione di questo paragrafo sono piuttosto variegate: per il rilievo secondo cui non si tratterebbe di un’ipotesi di “inerenza del patto che si restituisca solo nove al mutuo di dieci”, v. Grosso, 1928b, 6 s. (= 2001, III 87 s.). Betti, 1960, 98 s., riconduce la fattispecie considerata ad una “contestuale remissione parziale del debito”. Roset, 1994, 236, evidenzia che: “todo lo que se da por encima de lo ajustado a una dación credendi causa, desborda los límites del mutuo y será entregado a título de donación”. Per la considerazione del ruolo volto dalla conventio delle parti, cfr. Tondo, 1998, 446. Nella più recente letteratura, v. Wegmann Stockerbrand, 2017, 135. 343 PS. 2.14.1: Si pactum nudum de praestandis usuris interpositum sit, nullius est momenti: ex nudo enim pacto inter cives Romanos actio non nascitur [Qualora sia stato aggiunto un nudo patto in relazione alla prestazione di interessi, non ha alcun valore: sulla base di un nudo patto, infatti, tra i cittadini romani non nasce un’azione]. L’interpretatio precisa come per nudo patto debba intendersi l’accordo non riversato dalle parti nelle forme della stipulazione: Pactum nudum dicitur, si cautio creditori a debitore, in qua centesimam se soluturum promisit, sine stipulatione fiat. Et ideo usurae ex nuda cautione creditori penitus non debentur [Si parla di nudo patto nell’ipotesi in cui il documento scritto rilasciato al creditore da parte del debitore, in cui quest’ultimo ha promesso di pagare gli interessi nella misura della centesima, non venga accompagnato da una stipulazione. E perciò gli interessi non sono affatto dovuti al creditore sulla base di un documento scritto non accompagnato da una stipulazione]. Cfr. per tutti Cervenca, 1992, 1129 e nt. 44. 344 Cfr. Gallo, 1960, 132, secondo cui il pactum de non petendo deriverebbe dalle “antiche composizioni, anteriori alla in ius vocatio, quali ci sono testimoniate per la membri ruptio e per il furto”. Secondo lo stesso autore, il pretore attraverso l’editto sui patti: “avrebbe esteso, iure honorario, la tutela dal campo dei delitti privati a tutti i casi nei quali una parte pattuisse di non far valere una data pretesa nei confronti dell’altra”. V. anche Scherillo, 1961, 174, 178 e 224 s. (= 1994, 135 s., 138 s. e 172 s.), che ipotizza come l’efficacia estintiva ipso iure “in netto contrasto con la tradizionale concezione per cui al pactum si riconosce rilevanza soltanto sul terreno del diritto pretorio” (174 [= 1994, 136]), costituisca il residuo storico di una “antica figura di pactum (convenzione negoziale aliena da forme) idonea a produrre la nascita di un’obligatio secondo il ius civile” (225 [= 1994, 173]). Particolarmente suggestivo e ricco di implicazioni risulta il collegamento con Tab. VIII.2 (FIRA, I2, 53) = Tab. I.13 (RS, II, 606): Si membrum rup[s]it, ni cum eo pacit, talio esto. Su questi sviluppi e sul valore della pactio nel sistema decemvirale, cfr. comunque le osservazioni di Talamanca, 2008, 41 ss. (in particolare, 83 ss.). Sul brano paolino, v. anche Grosso, 1966, 72; Rozwadowski, 1973, 16; Burillo, 1982, 699; Paricio, 1984, 498, che si sofferma, in particolare, sul valore esemplificativo dell’elencazione; Végh, 1993, 187 nt. 9; nonché Salomone, 2000, 381.
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Ivano Pontoriero Infine, nel secondo paragrafo, si afferma che, per il diritto onorario, in relazione al pegno, dalla conclusione di un patto può scaturire un’azione345. Tale azione sarà paralizzata dall’exceptio pacti, ogniqualvolta venga concluso un pactum de non petendo. In D. 2.14.17.3 il giurista prende in considerazione il tema della trasmissibilità del pactum de non petendo. Se qualcuno concluda un patto che non gli venga chiesto, ma che venga chiesto all’erede, quest’ultimo non potrà servirsi dell’exceptio pacti (heredi exceptio non proderit)346. La configurazione del patto come ne a se petatur, lo rende inefficace rispetto agli eredi347. Nel paragrafo successsivo, Paolo afferma che il patto ne a me neve a Titio petatur, non potrà giovare a Tizio, perché contrario al divieto di pattuire in favore di un terzo, neppure se quest’ultimo avrà successivamente acquistato la qualifica di erede348. La motivazione fornita dal giurista, a questo proposito, è che non è possibile che ciò che è inizialmente invalido trovi conferma in un fatto successivo (quia ex post facto id confirmari non potest). Paolo ricorda che l’opinione riferita era stata, in precedenza, sostenuta da Giuliano, a proposito di un padre, che aveva concluso il patto che non venisse chiesto né a lui né alla figlia, essendo poi quest’ultima diventata sua erede349. In D. 2.14.17.5, ci si sofferma sul pactum de non petendo concluso genericamente, senza riferirsi a persone determinate, vale a dire in rem, con il venditore (cum venditore factum… si in rem constituatur)350. Tale patto, secondo l’opinione dei più, che Pomponio afferma essere osservata come diritto vigente, giova anche al successivo compratore351. Di diverso
345 Il riferimento è all’actio Serviana, su cui v. Lenel, 1927, 493 ss. e Mantovani, 1999, 45. Su questo paragrafo, cfr. Magdelain, 1958, 73; nonché Melillo, 1994, 61 s. 346 Noodt, 1713, 661, suggerisce l’espunzione delle parole sed ut ab herede petatur, considerate di natura glossematica. Ritiene, invece, che il brano sia stato interpolato Rotondi, 1913, 16 s. (= 1922, 319 s.). Voci, 1967, 244, nt. 136, osserva che il passaggio in esame: “vuole accentuare, a scopo di chiarezza, un’antitesi e non è, dunque, superfluo”. Secondo Mannino, 1994, 179, non è chiaro “se l’accordo concernesse solo la persona dell’erede, derivando, quindi, da un’interpretazione del giurista la configurazione della pattuizione come ‘ne a se petatur’”. 347 Per un inquadramento della disciplina del pactum de non petendo in materia ereditaria, cfr. Voci, 1967, 243 ss. (in particolare, con riferimento alla testimonianza di D. 2.14.17.3, v. 246, nt. 143). Sul brano, per un’interpretazione in parte diversa, cfr. anche Mannino, 1994, 179. 348 Si vedano in proposito Brutti, 1973.I, 630 s. e Mannino, 1994, 180 ss. Il divieto di pattuire in favore di un terzo riceve una formulazione di carattere generale già nell’opera di Quinto Mucio. Cfr. (Q. Muc. Scaev. lib. sing. ὅρων) D. 50.17.73.4: Nec paciscendo nec legem dicendo nec stipulando quisquam alteri cavere potest [Né pattuendo, né predisponendo una clausola accessoria, né stipulando si può provvedere in favore di un altro]. Per l’esegesi di quest’ultimo brano, v. Magdelain, 1958, 18; Sturm, 1990, 164 s.; nonché Stolfi, 2018, 365 s. 349 Sulle opinioni giurisprudenziali in materia di trattamento del patto neve a se neve a filio suo peteretur, v. per tutti Giuffrè, 1965, 75 ss. Per l’asserito contrasto di questa testimonianza con (Paul. 3 ad ed.) D. 2.14.21.2, cfr. infra, nt. 364. 350 La distinzione tra pacta in rem e pacta in personam riceve una compiuta elaborazione in (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.14.7.8, che richiama anche un’opinione di Sesto Pedio. Ipotizza che tale distinzione “se anche non ignota ai classici”, sia stata enfatizzata dai giustinianei, attraverso sistematiche alterazioni dei testi, Rotondi, 1913, 3 ss. (= 1922, 307 ss.). La tesi formulata da Giovanni Rotondi è stata accolta favorevolmente da Segrè, 1915, 1062 ss. (= 1952, 115 ss.). In senso contrario, cfr. Gallo, 1960, 133 s., nt. 15; Voci, 1967, 246, nt. 143; Brutti, 1973.II, 634 ss., nt. 11; nonché Wacke, 1973, in particolare 234, nt. 77. Per una rilettura critica complessiva, in difesa della genuinità delle fonti, v. anche Melillo, 1984, 1459 ss. Sull’opinione di Pedio e sulla sua esatta portata, cfr. Giachi, 2005, in specie 514 ss. 351 Per il pensiero di Pomponio, cfr. Stolfi, 2002.I, 466 ss., il quale osserva (v. in particolare 467 e nt. 32) che Paolo potrebbe aver avuto conoscenza dell’opinione maggioritaria richiamata e non meglio precisata (secundum plurium sententiam) attraverso “il filtro” dei libri ad edictum di Pomponio. Sul punto, v. anche Id., 2002.II, 147.
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Commento avviso era Sabino, il quale riteneva che il compratore, in quanto successore di chi gli aveva venduto la cosa, potesse giovarsi del patto, anche quando quest’ultimo fosse stato concluso con riferimento particolare alla persona. Sabino, peraltro, considerava tale principio applicabile anche se la successione si fosse realizzata non attraverso una compravendita, ma attraverso una donazione352. Nel sesto paragrafo del frammento il giurista afferma che il patto concluso dal possessore dell’eredità altrui non è destinato a spiegare alcuna efficacia nei confronti dell’erede che avesse, successivamente, esperito vittoriosamente l’azione di petizione dell’eredità (Cum possessor… plerique putant). Infine, il giurista prende in considerazione il pactum de non petendo concluso da persone soggette a patria o a dominica potestas (D. 2.14.17.7). Costoro, secondo quanto chiarisce la trattazione conservata in D. 2.14.19pr., potranno acquistare l’exceptio a vantaggio, rispettivamente, del pater familias o del dominus353. Lo stesso accade se il pactum de non petendo venga concluso da coloro i quali bona fide serviunt354. Il primo paragrafo di D. 2.14.19 precisa che se un figlio sottoposto a potestà abbia concluso il patto, tale patto gioverà a lui e anche al pater familias, qualora venga convenuto attraverso l’actio de peculio355. Nel prosieguo della trattazione, contenuto in D. 2.14.21pr., il giurista ricorda che il pactum de non petendo concluso dal filius familias potrà giovare anche all’erede del padre, ma solo finché il figlio sia ancora in vita. La motivazione fornita è che si tratta di un patto relativo alla persona356.
352 Mommsen, 1870.I, 67, propone dubitativamente di emendare qui hoc esse in quin prodesse. L’emendazione non appare necessaria: cfr. Bretone, 2008, 788, nt. 8. Alcuni autori hanno suggerito di espungere la chiusa del paragrafo qui hoc esse… facta sit: Longo, 1901, 249 s.; seguito da Rotondi, 1913, 39, nt. 1 (= 1922, 339, nt. 3); de Francisci, 1924, 269; Scherillo, 1954, 121 (= 1997, 128). Sull’opinione sostenuta da Sabino, da considerare minoritaria già nel secondo secolo (et hoc iure nos uti Pomponius scribit) e che implica l’accoglimento di una nozione di successio particolarmente estesa, cfr. Melillo, 1984, 1468; Mannino, 1994, 209; nonché Stolfi, 2002.I, 468 e nt. 35. Secondo Bretone, 2008, 789, dal testo sarebbe ricavabile l’adesione di Paolo alla tesi di Sabino. 353 I compilatori hanno inserito tra (Paul. 3 ad ed.) D. 2.14.17 e (Paul. 3 ad ed.) D. 2.14.19 un breve frammento escerpito dai libri ad edictum provinciale di Gaio. Cfr. (Gai. 1 ad ed. prov.) D. 2.14.18: sive de eo paciscantur, quod cum ipsis, sive de eo, quod cum patre dominove contractum est [sia che pattuiscano in relazione a ciò che è stato contrattato con loro stessi, sia in relazione a ciò che lo è stato con il padre o con il padrone]. Su questa catena di testi, cfr. Buti, 1976, 125, nt. 124 e Mannino, 1994, 183. 354 Sulla categoria di coloro i quali bona fide serviunt, v. la ricostruzione di Buckland, 1908, 331 ss.; cui adde Reduzzi Merola, 2011, 222 ss. Sulla testimonianza paolina cfr., in particolare, Reggi, 1958, 386. 355 Anche in questo caso, i compilatori hanno inserito tra (Paul. 3 ad ed.) D. 2.14.19 e (Paul. 3 ad ed.) D. 2.14.21 un breve frammento dei libri ad edictum provinciale di Gaio. Cfr. (Gai. 1 ad ed. prov.) D. 2.14.20: vel de in rem verso, vel si quasi defensor filii, [si hoc maluerit (Iust., Lenel)] conveniatur [= o con quella nei limiti di ciò che è stato riversato nel suo patrimonio, oppure se sia convenuto come difensore del figlio, se questo abbia preferito]. 356 Secondo Rotondi, 1913, 6 s. (= 1922, 310 s.), l’inciso finale quia personale pactum est sarebbe un’interpolazione esplicativa. Lo stesso autore individua la ratio della soluzione proposta dal giurista nel rapporto tra la responsabilità adiettizia del padre (o del suo erede) e quella del figlio: “il p. ne a se petatur giova al figlio e a chi potrebbe in sua vece esser convenuto con l’azione adiettizia, ma dopo la sua morte perde ogni efficacia”. In questo senso, v. anche Mannino, 1994, 185.
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Ivano Pontoriero Nel primo paragrafo viene precisato che se il servo pattuisca che non gli venga chiesto (ne a se peteretur), il patto non avrà alcun valore (Quod si… non valebit pactum)357. Si prende quindi in considerazione l’impiego, in via sussidiaria, dell’exceptio doli (de doli exceptione videamus)358. Se lo schiavo abbia pattuito genericamente, senza riferirsi a persone determinate, l’eccezione di patto convenuto gioverà al padrone e al suo erede (et si… pacti conventi exceptio)359. Se invece lo schiavo abbia pattuito solo con riferimento alla sua persona, allora il padrone potrà servirsi dell’exceptio doli (quod si… doli superest exceptio). Il prosieguo della trattazione prende in considerazione il tema dell’efficacia del patto concluso dall’esercente la potestà rispetto ai propri sottoposti (D. 2.14.21.2). Il paragrafo si apre con l’affermazione secondo cui non è possibile che i patti conclusi dai soggetti esercenti la potestà giovino alle persone ad essa soggette. Tali patti, tuttavia, come afferma Proculo, gioveranno agli esercenti la potestà, qualora vengano convenuti in giudizio in nome dei sottoposti360. Paolo circoscrive la portata dell’affermazione di Proculo, ritenendola valida nel caso in cui ciò corrisponda all’intenzione dei paciscenti (quod ita recte dicitur, si in paciscendo id actum sit)361. Ci si sofferma quindi sul patto ne a Titio petas. Tale patto non sarà produttivo di exceptio, neppure nell’ipotesi in cui il paciscente venga convenuto in giudizio a nome di Tizio362. Il giurista fornisce la motivazione secondo cui quod ipsi inutile est, nec defensori competit. La chiusa del paragrafo, richiamando l’opinione di Giuliano, si sofferma sul patto concluso ne a se neve a filio petatur363. Questo patto non sarà in grado di produrre
357
Cfr. Grosso, 1928a, 27 s. (= 2001, III 67 s.); Jacota, 1966, 219; Buti, 1976, 125 nt. 124; nonché Mannino, 1994,
186. 358 Faber, 1604, 202 s., ha ritenuto il paragrafo interpolato da de doli exceptione alla fine. È sembrato inconferente il riconoscimento della possibilità di servirsi dell’exceptio doli a fronte della conclusione di un patto nullo. È tuttavia possibile argomentare in senso contrario, tenendo conto del carattere sussidiario del rimedio. L’ipotesi dell’interpolazione è accolta da Grosso, 1928a, 28 (= 2001, III 68); nonché da Jacota, 1966, 219. 359 Mannino, 1994, 188, in relazione al passaggio in esame, sospetta che “il testo sia stato maldestramente raccorciato, eliminando un’articolazione casistica più complessa, o che effettivamente in questo caso i compilatori giustinianei abbiano voluto richiamare, per la loro consueta completomania classificatoria, la divisio tra pacta in rem e pacta in personam”. In realtà il riferimento alla conceptio in rem appare spiegabile proprio per giustificare la diversità di trattamento rispetto all’ipotesi del pactum in personam, che, pur essendo nullo, può fondare il ricorso all’exceptio doli da parte del dominus del paciscente. 360 È difficile stabilire in quale contesto Proculo abbia espresso l’opinione richiamata da Paolo: cfr. Lenel, 1889.II, 169, che colloca la testimonianza di D. 2.14.21.2 tra i loci incerti. Sul brano, cfr. Brutti, 1973.II, 629, che richiama l’ipotesi in cui il pater familias venga convenuto in giudizio con l’actio de peculio (ipotesi cui si riferiva il precedente [Paul. 3 ad ed.] D. 2.14.19.1; Mannino, 1994, 189, il quale a sua volta osserva che “l’affermazione iniziale del passo non esclude il riferimento a qualsiasi azione adiettizia” e, più in generale, che l’exceptio potesse essere impiegata in tutte le ipotesi in cui venisse intentata nei confronti del paciscente un’azione in nome del sottoposto; nonché Babusiaux, 2006, 138-139. 361 Per il riferimento al quod actum sit, cfr. Gandolfi, 1966, 125 e nt. 307 e Babusiaux, 2006, 138. 362 Cfr. Mannino, 1994, 189. 363 Johan Gerhard Christiaan Rücker (cfr. Rücker, 1751, 48) ritiene che sia riferibile a Giuliano anche l’opinione immediatamente precedente, che nega la possibilità di concedere l’exceptio pacti nel caso in cui sia stato pattuito ne a Titio petas. Da qui la proposta di emendazione segnalata, dubitativamente, da Mommsen 1870.I, 67: competit et id Iulianus. Sul punto, v. anche Krüger, 1911, 59, nt. 3.
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Commento un’exceptio pacti a vantaggio del filius familias, che potrà, comunque servirsi dell’exceptio doli364. In D. 2.14.21.3, il giurista afferma che la figlia sottoposta a potestà potrà pattuire di non agire per la dote solo quando sarà diventata giuridicamente autonoma. Nel paragrafo successivo, Paolo aggiunge che il figlio sottoposto a potestà pattuirà correttamente in relazione a ciò che gli è stato legato sotto condizione365. Il prosieguo della trattazione (D. 2.14.21.5) affronta il tema dell’opponibilità dell’exceptio pacti nelle obbligazioni solidali (In his… quaeritur)366. Il criterio proposto dal giurista è che i patti formulati con previsione generica, dunque concepiti senza avere riguardo alle persone, giovino a tutti quelli che ebbero interesse all’estinzione dell’obbligazione di chi pattuiva (et in rem pacta omnibus prosunt, quorum obligationem dissolutam esse eius qui paciscebatur interfuit)367. E così il patto concluso dal debitore principale gioverà ai fideiussori (itaque… proficiet)368. In D. 2.14.23, Paolo, facendo applicazione del criterio individuato, precisa che, al contrario, il patto concluso dal fideiussore non gioverà al debitore principale (Fideiussoris autem conventio nihil proderit reo)369. La motivazione fornita è che il fideiussore non ha interesse a che il denaro non venga chiesto al debitore principale (quia nihil eius interest a debitore pecuniam non peti)370. Tale patto non gioverà, anzi, neppure ai cofideiussori (immo nec confideiussoribus proderit)371. Il giurista precisa a questo punto ulteriormente la portata del criterio guida già individuato in D. 2.14.21.5: l’interesse
364 Secondo Faber, 1604, 204, sarebbe interpolata la chiusa del paragrafo sed doli prosit, perché contrastante con quanto riferito in (Paul. 3 ad ed.) D. 2.14.17.4. In senso contrario, v. già Rücker, 1751, 48 s. Per l’esegesi del brano, cfr. anche Brutti, 1973.II, 630 ss., che richiama l’attenzione su (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.14.10.2, osservando come “nel frammento 21 § 2 Paolo non si limita alla questione della invalidità del pactum e perciò riporta per intero il pensiero di Giuliano”. Sul punto, v. anche Mannino, 1994, 190. Per la collocazione palingenetica dell’opinione espressa da Giuliano, cfr. Lenel, 1889.I, 320. 365 Sul brano e per la diversità di regime che caratterizza la stipulatio, v. Masi, 1966, 16. Per i diversi tipi di clausole che potevano essere impiegati nella previsione della condizione e per una possibile spiegazione del riconoscimento di pattuire vivo patre sui beni legati sotto condizione, cfr. anche Matringe, 1972, 374 e nt. 110, 388. 366 La littera Florentina contiene ni in luogo di in. Per l’emendazione, v. Mommsen, 1870.I, 67. 367 Rotondi, 1913, 40 (= 1922, 340-341) ha ritenuto di natura compilatoria il riferimento ai pacta in rem. Sospetti ancora più estesi sulla genuinità di questo paragrafo sono espressi da Flume, 1932, 133 e De Martino, 1940, 198. 368 Cfr. sul punto Mannino, 1992, 33 s.; nonché Zarro, 2017, 22 s. I compilatori interrompono la trattazione paolina inserendo il frammento (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.14.22: nisi hoc actum est, ut dumtaxat a reo non petatur, a fideiussore petatur: tunc enim fideiussor exceptione non utetur [a meno che non sia stato concluso ciò, che non si chieda solo al debitore principale, ma si chieda al fideiussore: allora infatti il fideiussore non potrà servirsi dell’eccezione]. Quest’ultimo è stato considerato interamente di fattura giustinianea, per l’impiego della costruzione nisi… tunc enim…, da Albertario, 1911, 811 (= 1953, 70); seguito, nell’intento di negare la classicità della distinzione tra pacta in rem e pacta in personam, da Rotondi, 1913, 39 ss. (= 1922, 340 s.); Flume, 1932, 135 e De Martino, 1940, 198. Per l’esegesi, v. Mannino, 1992, 63 ss. e Babusiaux, 2006, 140 s. 369 Cfr., per una critica radicale, Flume, 1932, 133 ss. e De Martino, 1940, 201 ss. Per un’equilibrata esegesi, in difesa della genuinità della testimonianza, v. Brutti, 1973.II, 641 s.; Melillo, 1984, 1464; Mannino, 1992, 34 ss.; nonché, da ultimo, Zarro, 2017, 23 s. 370 Su questa motivazione, v. in particolare Frezza, 1962, 102, che ricorda l’analoga impostazione di I. 4.14.4. Su questo brano, cfr. Zarro, 2017, 1 ss. 371 Sul significato del termine confideiussor, che indica non i fideiussori costituiti simultaneamente, ma i garanti dello stesso debito, si sofferma Parenti, 2012, 283 ss.
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Ivano Pontoriero ad avvalersi dell’eccezione non sussiste in ogni caso, ma soltanto quando la conventio, attraverso la concessione dell’eccezione, giovi principalmente al paciscente (neque enim quoquo modo cuiusque interest, cum alio conventio facta prodest, sed tunc demum, cum per eum, cui exceptio datur, principaliter ei qui pactus est proficiat)372. In altri termini, può avvalersi dell’exceptio pacti a seguito della conclusione di una conventio da parte del condebitore solidale, solo chi dispone “di strumenti di rivalsa nei confronti del paciscente”373. Il giurista, a mo’ di esempio, chiarisce che ciò si verifica nel caso del patto concluso dal promittente, che va a vantaggio dei fideiussori (sicut in reo promittendi et his qui pro reo obligati sunt)374. Il regime descritto è del tutto coerente con quanto risulta da (Paul. 3 ad Plaut.) D. 2.14.32, che, richiamando la regola secondo cui il pactum de non petendo concluso dal debitore principale giova al fideiussore, ne approfondisce la motivazione (propter rei personam placuit, ne mandati iudicio conveniatur), escludendo, al contempo, che l’eccezione possa giovare al fideiussore nel caso in cui non vi sia l’azione (di regresso) nascente sulla base del contratto di mandato (l’actio mandati contraria), come accade nel caso in cui la fideiussione sia stata prestata donandi animo375. La trattazione prosegue in D. 2.14.25376. Nel principium, che dobbiamo ritenere strettamente collegato alla chiusa di D. 2.14.23, si afferma che lo stesso accade – vale a dire il patto concluso dal condebitore solidale gioverà agli altri – anche nel caso di due promittenti (vale a dire, due coobligati in solido) e di due soci argentari (Item in duobus reis pro-
372 Mommsen, 1870.I, 67, propone l’emendazione alii in luogo di alio, ma la proposta non ha trovato seguito. Sul punto, cfr. anche Mannino, 1992, 35, nt. 9. 373 Cfr. Mannino, 1992, 39. 374 Per l’emendazione della lezione eo, presente sia nella littera Florentina, sia nei manoscritti della Vulgata, in reo, sulla scorta degli scolii ai Basilici, v. Mommsen, 1870.I, 67. 375 (Paul. 3 ad Plaut.) D. 2.14.32: Quod dictum est, si cum reo pactum sit, ut non petatur, fideiussori quoque competere exceptionem: propter rei personam placuit, ne mandati iudicio conveniatur. igitur si mandati actio nulla sit, forte si donandi animo fideiusserit, dicendum est non prodesse exceptionem fideiussori [Ciò che è stato detto, che, se con il debitore principale si sia pattuito di non chiedere, l’eccezione competa anche al fideiussore, parve bene per la persona del debitore principale, affinché non venga convenuto con l’azione di mandato. Quindi se non vi sia alcuna azione di mandato, come ad esempio se abbia prestato fideiussione con spirito di liberalità, bisogna dire che l’eccezione non giovi al fideiussore]. Rotondi 1913, 45, nt. 1 (= 1922, 337, nt. 1) ritiene il brano “formalmente insospettabile, almeno nella prima parte”; dubbi sono stati sollevati, con argomenti che non appaiono probanti, da Archi, 1964, 917 s. (= 1981, 1141 s.), con riferimento alla menzione della figura della fideiussione prestata con spirito di liberalità, e, in modo assai più radicale, da De Martino, 1940, 209, che ha giudicato il testo “del tutto emblematico”. Su questo frammento, che può invece considerarsi genuino e rispondente al pensiero del giurista classico, v. le convincenti osservazioni di Mannino, 1992, 47 ss.; cui adde Zarro, 2017, 14 s. 376 I compilatori hanno inserito tra D. 2.14.23 e D. 2.14.25 un altro frammento paolino: (Paul. 3 ad Plaut.) D. 2.14.24: Sed si fideiussor in rem suam spopondit, hoc casu fideiussor pro reo accipiendus est et pactum cum eo factum cum reo factum esse videtur [Ma se il fideiussore ha promesso solennemente nel proprio interesse, in questo caso il fideiussore deve essere considerato come il debitore principale e il patto concluso con lui si considera concluso con il debitore principale]. Allo sponsor e non al fideiussor è verisimile che si riferisse l’originaria scrittura del giurista, in ragione dell’impiego della forma verbale spopondit. Sul brano, che ha lo scopo di precisare come nel caso del garante in rem suam non valga la regola dell’inefficacia della conventio posta in essere da quest’ultimo nei confronti del debitore principale, cfr. Rotondi, 1913, 57 s. (= 1922, 357); De Martino, 1940, 205; Frezza, 1962, 102 e 267; nonché Melillo, 1984, 1465, il quale sottolinea comunque che forse già Paolo abbia potuto impiegare il verbo spondere “in un valore più generale e meno tecnicizzato”.
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Commento mittendi et duobus argentariis sociis)377. Il giurista, richiamando Labeone, afferma nel primo paragrafo del frammento che il patto concluso con riferimento alla persona non potrà giovare ad altri, così come non potrà giovare all’erede378. Nel secondo paragrafo si osserva che, il più delle volte, il debitore principale – al quale, come si è visto, non spetta l’exceptio pacti a seguito del patto concluso dal fideiussore – potrà, secondo quanto scrive Giuliano, servirsi dell’exceptio doli379. F. 51 – D. 2.14.27 Nel principium si affronta il tema degli effetti della conclusione di un pactum de non petendo in rapporto alla solidarietà attiva (Si unus ex argentariis sociis… noceat exceptio?)380. In questo caso, si esclude che il pactum de non petendo concluso da uno dei concreditori solidali, nella specie due soci argentari, con il debitore possa essere da quest’ultimo opposto all’altro concreditore381. La soluzione negativa era stata già prospettata, anche nel caso in cui il patto fosse stato concepito genericamente, senza riferimento alla persona, da Nerazio, Atilicino e Proculo (Neratius… ut solidum alter petere possit)382. Lo stesso era stato sostenuto da Labeone, adducendo la motivazione che il concreditore solidale non potesse novare, sebbene l’adempimento potesse essere correttamente effettuato nelle sue mani, come pure accadeva con riferimento alle persone sottoposte a potestà (nam nec novare… licet novare non possint)383. Paolo condivide la motivazione proposta da Labeone ed ag-
377 Cfr. Mannino, 1992, 45. Il regime di solidarietà passiva in relazione alla fattispecie dei socii argentarii è attestato, oltre che da D. 2.14.25pr., anche da rhet. ad Herenn. 2.13.19. Sul punto, cfr. Arangio-Ruiz, 1950, 82 s.; Sacconi, 1973, 53 ss., che però si sofferma solo su rhet. ad Herenn. 2.13.19; Andreau, 1987, 630, nt. 101; Petrucci, 1991, 336 s.; Id., 2002, 129 s. Su queste testimonianze, con particolare riferimento al tema della rilevanza esterna assunta dal rapporto sociale, cfr. anche Serrao, 1971, 743 s. e nt. 1; Guarino, 1972, 71 e nt. 238; García Garrido, 1982, 377 s.; nonché Talamanca, 2012, 152 s. 378 Per la collocazione palingenetica dell’opinione labeoniana, v. Lenel, 1889.I, 503. Rotondi, 1913, 23 e 57 (= 1922, 325 e 356) ritiene l’intero paragrafo “una intrusione compilatoria”. La storiografia più recente ammette, invece, la sua genuinità: v. Mannino, 1992, 45; Id., 1994, 178. Non appare condivisibile, con riferimento al nucleo di pensiero labeoniano tradito, quanto sostenuto da Zarro, 2017, 27, secondo cui: “Nel frammento 1, si rileva anche che il patto personale non era opponibile se non a chi l’avesse pattuito, tuttavia esso era trasmissibile, secondo quanto sostenuto da Labeone, all’erede”. Poco oltre (30), di nuovo l’autore sottolinea che Labeone “aveva riconosciuto la trasmissibilità all’erede del pactum de non petendo”. 379 Giuliano esprimeva probabilmente l’opinione riferita nel primo libro dei suoi digesta, sotto la rubrica de pactis: v. sul punto Lenel, 1889.I, 320. Per l’esegesi del brano, v. Mannino, 1992, 45. Alla trattazione paolina viene strettamente collegato dai compilatori il frammento (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.14.26: videlicet si hoc actum sit, ne a reo quoque petatur. idem et in confideiussoribus est [naturalmente se sia stato concluso ciò, che non venisse chiesto neppure al debitore principale, lo stesso vale anche con riferimento ai cofideiussori]. Su questo brano, v. Brutti, 1973.II, 640 s., secondo cui il “testo si riferisce al parere citato da Paolo e può considerarsi o una parte integrante della formulazione giulianea o un’aggiunta esplicativa introdotta da Ulpiano”; Babusiaux, 2006, 141 ss. e Burdese, 2006b, 449 s., nt. 19. 380 Cfr. Petrucci, 1991, 338; Mannino, 1992, 45 ss.; nonché Zarro, 2017, 29. 381 Sul regime di solidarietà attiva che caratterizza i crediti dei socii argentarii, attestato anche da (Paul. 13 ad ed.) D. 4.8.34pr. e (Paul. 62 ad ed.) D. 2.14.9, v. Arangio-Ruiz, 1950, 83 s. e nt. 3; Sacconi, 1973, 51 ss.; García Garrido, 1982, 378 ss.; Andreau, 1987, 630, nt. 102; Petrucci, 1991, 338 ss.; Id., 2002, 131 ss.; Talamanca, 2012, 153 ss. 382 Con riferimento alla conoscenza paolina del pensiero di Nerazio, cfr. Bona, 1973, 70 s., nt. 141. 383 Per la palingenesi della testimonianza di Labeone, v. Lenel, 1889.I, 504. Sulla genuinità e la ratio della motivazione fornita, v. Talamanca, 1990, 830, nt. 177; Petrucci, 1991, 338; Id., 2002, 131. Della mancanza di legittimazione a novare del creditore solidale si occupa (Venul. 3 stip.) D. 46.2.31.1. Su questa testimonianza cfr. Talamanca, 1979, 55, nt. 384.
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Ivano Pontoriero giunge, da parte sua, che la regola illustrata trova applicazione anche con riferimento a duo rei stipulandi (quod est verum… dicendum est)384. Nel primo paragrafo il giurista prende in considerazione il patto concluso con previsione di un termine. Decorso il termine, il patto non gioverà né al debitore principale, né al fideiussore (Si cum reo… prodest)385. Viene quindi affrontato il caso in cui il debitore principale abbia pattuito, senza contemplare la propria persona, che non venisse chiesto al fideiussore (quod si sine persona sua reus pepigerit, ne a fideiussore petatur). Paolo dà conto della soluzione proposta da alcuni giuristi, di cui non rivela l’identità, secondo cui tale patto non avrebbe potuto giovare al fideiussore, sebbene ciò interessasse al debitore principale, dal momento che il fideiussore avrebbe potuto giovarsi solo delle eccezioni spettanti al debitore principale (nihil id prodesse fideiussori quidam putant, quamquam id rei intersit: quia ea demum competere ei debeat exceptio, quae et reo)386. Paolo non condivide questa soluzione e afferma, invece, di aver imparato che l’eccezione potesse giovare al fideiussore (ego didici prodesse fideiussori exceptionem)387. La motivazione fornita dal giurista per la sua presa di posizione è che, in tal modo, lungi dal violare la regola secondo cui non si può pattuire in favore di un terzo, si viene in aiuto del debitore principale paciscente (non sic enim illi per liberam personam adquiri, quam ipsi, qui pactus sit, consuli videmur)388. Paolo aggiunge che la regola appena esposta trova correntemente applicazione (quo iure utimur). Nel secondo paragrafo il giurista si sofferma ancora sull’opponibilità dell’exceptio pacti da parte del garante, prendendo in considerazione l’ipotesi della conclusione, nel tempo, di accordi di segno diverso. Viene concluso un pactum de non petendo e, successivamente, un patto di contenuto diametralmente opposto (Pactus, ne peteret, postea convenit ut peteret). Il giurista spiega che il primo patto viene eliminato dal successivo (prius pactum per posterius elidetur). L’eliminazione non avviene, tuttavia, ipso iure, come nel caso di due stipulazioni successive di contenuto opposto (non quidem ipso iure, sicut tollitur stipulatio per stipulationem, si hoc actum est)389. La motivazione che giustifica tale diversità di trattamento
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Il riferimento finale ai duo rei stipulandi è ritenuto non genuinio da Talamanca, 2012, 154. Dubbi sulla genuinità di questo passaggio sono formulati da De Martino, 1940, 206: “la dichiarazione iniziale, che il pactum temporale giova al fideiussore solo nei limiti del tempo stabilito, è di una semplicità ed ingenuità degne di miglior causa”. Sul punto, cfr. invece Frezza, 1962, 107 s.; nonché Mannino, 1992, 51. 386 Come messo bene in luce da Frezza, 1962, 108, l’argomentazione proposta dai quidam, si fonda sul rilievo dell’accessorietà della fideiussio. 387 Frezza, 1962, 108 e nt. 1, ipotizza che Paolo possa aver appreso tale regola dall’insegnamento di Papiniano. L’autore mette altresì in evidenza, richiamando le testimonianze di (Paul. 29 ad ed.) D. 13.5.15, (Paul. 37 ad ed.) D. 22.1.24.2, (Paul. 59 ad ed.) D. 42.5.12pr., (Paul. 3 quaest.) D. 45.1.126.2, PS. 5.1.1 (= D. 20.3.5), l’interesse del giurista “per il problema delle conseguenze nella sfera patrimoniale di terzi degli atti di un soggetto di autonomia”. L’impiego della forma verbale didici è frequente nella scrittura paolina: cfr. Bretone, 2008, 796 s., nt. 32. 388 L’edizione di Haloander, 1529, 80, contiene videtur in luogo di videmur. Mommsen, 1870.I, 68, nt. 1, propone di emendare videmur quo iure utimur in videmurque eo iure uti. Esprime la propria preferenza per il testo tradito dalla littera Florentina Bretone, 2008, 796, nt. 29. Incorre in una petitio principii nel valutare la motivazione fornita dal giurista, escludendone la genuinità, De Martino, 1940, 206, secondo cui: “l’interesse del paciscente non entra in causa, ma in causa sta il principio, che il patto è personale ed il divieto dei contratti a favore di terzi”. Per l’esegesi del brano, cfr. Frezza, 1962, 107 s.; Mannino, 1992, 51 ss.; nonché Bretone, 2008, 796. 389 Dubita della genuinità dell’inciso si hoc actum est, Lenel, 1889.I, 973, nt. 1. 385
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Commento sul piano normativo è che in stipulationibus ius continetur, in pactis factum versatur390. Nel caso in cui vengano conclusi due patti di segno contrario, l’eliminazione del primo patto ad opera del secondo si realizzerà attraverso i meccanismi del processo: l’attore potrà servirsi di una replicatio contro l’exceptio pacti del convenuto (et ideo replicatione exceptio elidetur)391. Per la stessa ragione, vale a dire attraverso questo stesso meccanismo processuale, accade che il primo patto non giovi ai fideiussori convenuti in giudizio: all’exceptio pacti di costoro, potrà essere validamente opposta dall’attore una replicatio (eadem ratione contingit, ne fideiussoribus prius pactum proderit)392. La soluzione prospettata da Paolo è stata, talvolta, ritenuta in contrasto con (Fur. Anth. 1 ad ed.) D. 2.14.62, secondo cui, con il patto successivo, non sarebbe possibile privare il fideiussore, contro la sua volontà, dell’exceptio pacti già acquisita (semel adquisitam fideiussori pacti exceptionem ulterius ei invito extorqueri non posse)393.
390 Questa motivazione è stata ritenuta interpolata da Vassalli, 1914b, 21; nonché da Palermo, 1956, 81 s. Per la genuinità, cfr. tuttavia Georgescu, 1948, 152 s. e Biondi, 1953, 149. 391 Il meccanismo processuale di cui si tratta è richiamato da PS. 1.1.2: In bonae fidei contractibus pactum conventum alio pacto dissolvitur, et licet exceptionem pariat, replicatione tamen excluditur [Nei contratti di buona fede il patto convenuto viene dissolto da un altro patto, e sebbene generi un’eccezione, tuttavia è respinto attraverso la replica]. Il brano, che è stato tramandato, al di fuori della compilazione giustinianea, da Cons. 4.4, si ritrova anche, in una versione forse sunteggiata, in LRW: Omne pactum posteriore pacto dissolvitur, licet pariat exceptionem [Ogni patto viene dissolto dal patto successivo, sebbene generi un’eccezione]. La relativa interpretatio, venuto meno il dualismo ius civile/ius honorarium, si limita ad osservare in proposito, omettendo ogni riferimento agli strumenti formulari e traducendo la regola sul piano del diritto sostanziale: Si de una re inter ipsas personas duae pactiones fiant, posterior valebit [Se in relazione ad un affare tra le stesse persone vengano conclusi due patti, varrà quello successivo]. Su questi brani, cfr. Grosso, 1927, 51 ss. (= 2001, III 23 ss.) e Marini, 2017, 149 s., nt. 460. Sulla soluzione paolina, v. anche Lambrini, 2007, 313 e nt. 23. 392 Cfr. Mannino, 1992, 54 ss.; nonché, Lambrini, 2007, 313. 393 (Fur. Anth. 1 ad ed.) D. 2.14.62: Si reus, postquam pactus sit a se non peti pecuniam ideoque coepit id pactum fideiussori quoque prodesse, pactus sit ut a se peti liceat: an utilitas prioris pacti sublata sit fideiussori, quaesitum est. sed verius est semel adquisitam fideiussori pacti exceptionem ulterius ei invito extorqueri non posse [Se il debitore principale, dopo che abbia pattuito che non gli venisse chiesto il denaro e, perciò, tale patto abbia cominciato a giovare anche al fideiussore, abbia pattuito che fosse consentito chiederglielo: si è posta la questione se sia stata sottratta al fideiussore l’utilità del primo patto. Ma è più vero che, una volta che il fideiussore abbia acquisito l’eccezione di patto, non sia possibile dopo sottrargliela contro il suo volere]. Per una risalente interpretazione, cfr. Vangerow, 1876, 139 s. Secondo Rotondi, 1913, 35 s. (= 1922, 336 s.), sarebbe invece di matrice giustinianea il principio espresso da D. 2.14.62. Più articolata la posizione di De Martino, 1940, 206 ss., che mette in luce la “deficiente coordinazione” all’interno del titolo D. 2.14. Tale difetto potrebbe essere stato determinato da un contrasto di opinioni tra i compilatori (forse comprovato dal fatto che D. 2.14.27.2 appartiene alla massa edittale, mentre D. 2.14.62 all’appendix), o all’interno delle scuole orientali. Francesco De Martino giunge ad ipotizzare che D. 2.14 potrebbe essere derivato “da una compilazione postclassica preesistente, il cui nucleo” sarebbe stato “costituito dai numerosi testi del commentario di Paolo”. Alla luce di queste osservazioni, l’autore tende comunque a negare la classicità di entrambi i brani. Per un tentativo di conciliare le due testimonianze, v. Frezza, 1962, 109 s. Secondo l’autore l’eccezione sarebbe definitivamente acquistata da parte del fideiussore, senza possibilità di essere rimossa con il patto successivo: “quando il fideiussor abbia avuto notizia dell’esistenza del patto intercorso tra creditore e reo principale”. In senso contrario, v., tuttavia, le osservazioni di Mannino, 1992, 57 s., il quale ritiene di poter individuare una “differente concezione che sta alla base delle diverse soluzioni” contenute in D. 2.14.27.2 e D. 2.14.62. Sarebbe dato individuare, da un lato, una concezione paolina, “certamente più rigorosa in un’ottica classica” e che assumerebbe “come referente il ruolo fondamentale del pretore”, mentre, dall’altro, la diversa concezione di Furio Anziano, tendente a “superare la circostanza secondo cui, in diritto classico… la concreta attuazione dei pacta conventa, con riguardo alla loro tutela sul piano giudiziale, avveniva solo iure honorario”.
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Ivano Pontoriero La trattazione prosegue ricordando che, tuttavia, se il patto ha l’effetto di far venir meno l’azione, come accade nel caso dell’azione per le ingiurie, non sarà sufficiente un patto successivo di segno contrario a permettere di agire (sed si pactum… possit agere)394. La ragione di ciò – spiega il giurista – è che la prima azione è stata eliminata e il patto successivo non ha l’effetto di approntare un’azione (quia et prima… inefficax est). Infatti, l’actio iniuriarum non nasce in forza di un patto, ma in ragione dell’offesa (non enim… sed ex contumelia)395. La stessa regola, vale a dire quella dell’efficacia estintiva ipso iure del pactum de non petendo, trova applicazione in rapporto ai contratti di buona fede: nel caso in cui il patto abbia fatto vernir meno interamente l’obbligazione, nascente, ad esempio, dalla conclusione di un’emptio venditio consensuale, l’obbligazione precedente non viene risuscitata dal nuovo patto, ma quest’ultimo risulterà utile al perfezionamento di un nuovo contratto (idem dicemus… ad novum contractum)396. Deve essere ricordato in questa sede che Paolo approfondisce il tema del valore del contrarius consensus in (Paul. 33 ad ed.) D. 18.5.3397.
394 Mommsen, 1870.I, 68, esprime il dubbio che l’agere che si trova dopo possit sia da emendare in facere. Secondo Talamanca, 2003, 94 s., nt. 270: “non è chiaro perché il giurista abbia scelto questa precisa esemplificazione”. Marini, 2017, 149, nt. 459, ricorda in proposito il collegamento con la precedente trattazione di D. 2.14.17.1 [F. 50]. È appena il caso di mettere in evidenza, sulla scia di Talamanca, 2003, 95, nt. 271, il “carattere marcatamente teorico” della fattispecie considerata, in cui l’offeso e l’offensore pattuiscono la liberazione dalla responsabilità e, poi, concludono un ulteriore patto di segno contrario. 395 Sia Paolo, sia Ulpiano identificano l’iniuria con la contumelia: cfr. rispettivamente (Paul. lib. sing. et tit. de iniuriis) Coll. 2.5.1 e 3 e (Ulp. 56 ad ed.) D. 47.10.1pr. Nella disciplina dell’iniuria introdotta dal pretore assume un ruolo centrale la repressione dell’offesa alla sfera morale: v., in proposito, Devilla, 1962, 705. Da Coll. 2.5.1 possiamo forse desumere la paternità labeoniana di questa equiparazione. Sul punto, cfr. Pugliese, 1941, 57 s.; Bretone, 1975, 416 s. e nt. 2 (= 1982, 177 e nt. 10); Manfredini, 1977, 2 s.; Desanti, 2015, 25 s. e nt. 81. Su questo passaggio di D. 2.14.27.2, cfr. inoltre Lambrini, 2007, 314. 396 La soluzione prospettata è coerente con quanto emerge da una nota paolina alle quaestiones papinianee. Sul presupposto, enunciato da Papiniano, che l’elemento del prezzo costituica l’essenza dell’emptio venditio (v. [Papin. 10 quaest.] D. 18.1.72: …quoniam emptionis substantia consistit ex pretio), Paolo annota: si omnibus integris manentibus de augendo vel diminuendo pretio rursum convenit, recessum a priore contractu et nova emptio intercessisse videtur [se rimanendo immutate tutte le cose si pattuisce di nuovo in ordine ad un aumento o ad una diminuzione del prezzo, si ritiene essersi verificato il recesso dal precedente contratto e che sia intervenuta una nuova compera]. Sul punto, cfr. Viard, 1929, 127 ss.; Santalucia, 1965, 69 ss.; Talamanca, 2003, 92 ss.; nonché Lambrini, 2007, 316 e nt. 29. L’opinione di Papiniano è richiamata dalla trattazione contenuta in (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.14.7.5, in cui il commentatore dell’editto impiega, in luogo del termine substantia presente nel testo di Papiniano, la parola natura: sul punto, cfr. per tutti Fiori, 1999, 316. 397 (Paul. 33 ad ed.) D. 18.5.3: Emptio et venditio sicut consensu contrahitur, ita contrario consensu resolvitur, antequam fuerit res secuta: ideoque quaesitum est, si emptor fideiussorem acceperit vel venditor stipulatus fuerit, an nuda voluntate resolvatur obligatio. Iulianus scripsit ex empto quidem agi non posse, quia bonae fidei iudicio exceptiones pacti insunt: an autem fideiussori utilis sit exceptio, videndum: et puto liberato reo et fideiussorem liberari. item venditorem ex stipulatu agentem exceptione summoveri oportet, idemque iuris esse, si emptor quoque rem in stipulationem deduxerit [Come la compravendita si contrae con il consenso, così si risolve, finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione, con il contrario consenso: e perciò è stato chiesto, se il compratore abbia ricevuto un fideiussore o il venditore si sia fatto promettere mediante stipulazione, se l’obbligazione si risolva per mezzo della nuda volontà. Giuliano scrisse che certamente non si potesse agire in forza della compera, perché le eccezioni di patto ineriscono ad un giudizio di buona fede. Deve essere considerato se poi l’eccezione sia utile al fideiussore: e ritengo che essendo liberato il debitore principale anche il fideiussore sia liberato. Parimenti è necessario che il venditore che agisca in forza della stipulazione venga respinto attraverso l’eccezione, e che si applichi lo stesso diritto, se anche il compratore abbia dedotto in stipulazione la cosa]. La posizione di Paolo è coerente con quanto affermato da (Papin. 28 quaest.) D. 46.3.95.12. La ratio delle soluzioni proposte risiede nella considerazione del carattere accessorio dell’obbligazione del fideiussore. Su D. 18.5.3 e sull’apporto della riflessione paolina, v. Knütel, 1968, 116 ss.; Mannino, 1992, 59 ss.; nonché Lambrini, 2007, 315 e nt. 28.
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Commento Se, invece, il patto è stato concluso non per far venir meno l’intero contratto, ma solo per limitarlo, rendendolo meno gravoso, il patto successivo potrà rinnovare il primo contratto (quod si… primum contractum)398. Segue l’osservazione secondo cui ciò può accadere anche in rapporto all’azione di dote (quod et in specie dotis procedere potest)399. Viene quindi fornito l’esempio di una donna che abbia concluso un patto di restituzione immediata della dote e che, successivamente, abbia pattuito che la dote le venisse restituita nel termine previsto dall’ordinamento (puta pactam mulierem… dos reddatur)400. In questo caso, la dote ritornerà ad essere disciplinata sulla base delle regole che le sono proprie (incipiet dos redire ad ius suum). È stato ritenuto interpolato il prosieguo della trattazione, in cui si osserva che, ogniqualvolta la dote ritorni al suo regime naturale, la situazione della dote non diventa peggiore, ma viene restituita alla sua conformazione caratteristica (quotiens enim ad ius… sed formae suae redditur)401. Il giurista aggiunge che anche Cervidio Scevola, suo maestro, approvò queste cose (haec et Scaevolae nostro placuerunt)402.
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Una diversa interpretazione di questo passaggio è in Talamanca, 2003, 98 s. Lenel, 1889.I, 973, nt. 2 (cfr. anche Lenel, 1889.II, 317, nt. 2) ricorda come l’originale scrittura paolina contenesse un riferimento all’actio rei uxoriae, anziché all’actio de dote. Sulla riforma contenuta in (Imp. Iust. A. ad populum urbis Constantinopolitanae et universos provinciales, a. 530) C. 5.13.1, di cui dà conto il testo di I. 4.6.29, cfr. Luchetti, 1996, 539 ss. Più radicali, ma fragili, i sospetti di Longo, 1905, 611, nt. 1, che considera inserita dai compilatori l’intera proposizione quod et in specie dotis actionis procedere potest. L’unica ragione che induce Carlo Longo a dubitare della genuinità di tale proposizione è che nell’ambito della trattazione di D. 2.14.27.2 relativa ai contratti di buona fede: “si discorre di contratti, obbligazioni e non di azioni”. Dell’ipotesi di Carlo Longo dà conto Krüger, 1911, 59, nt. 14. Per l’inclusione dell’actio rei uxoriae nel novero dei bonae fidei iudicia, cfr. Varvaro, 2006, 111, nt. 272. 400 Longo, 1905, 613 s., propone di espungere le parole tempore ei legibus dato. Sul punto, cfr. anche la nota successiva. A partire dall’inizio dell’età classica (cfr. [Proc. 11 epist.] D. 23.4.17), si afferma il principio secondo cui in materia di termine di restituzione della dote un patto può solo migliorare la condizione della donna, ma non peggiorarla. Sono dunque ammessi i patti che riducano i termini di restituzione della dote, ma non quelli che li dilazionino ([Paul. 35 ad ed.] D. 23.4.14; [Gai. 11 ad ed. prov.] D. 23.4.15; [Paul. 35 ad ed.] D. 23.4.16). Sui patti concernenti il dies reddendae dotis, v. Magagna, 2002, 229 s. e nt. 129. 401 Per l’interpolazione del brano, v. Longo, 1905, 612 ss., che si sofferma sulla formulazione della rubrica di C. 5.13 de rei uxoriae actione in ex stipulatu actionem transfusa et de natura dotibus praestita e sull’impiego dell’espressione tempore ei legibus dato. Per l’ipotesi dell’interpolazione, è anche Rotondi, 1911, 84 (= 1922, 235). Sul testo, cfr. anche Kaser, 1949, 533 e nt. 93 (che propone la restituzione dell’originale testo paolino con annua bima trima die in luogo di tempore ei legibus dato); seguito da Burdese, 1959, 172. In difesa della genuinità del brano paolino, salvo la sostituzione dell’originaria menzione dell’actio de dote con quella dell’actio rei uxoriae, cfr. invece Maschi, 1937, 333 ss. 402 Lenel, 1889.II, 317 e nt. 3, inserisce l’intero paragrafo D. 2.14.27.2 tra le testimonianze in cui Scaevola laudatur non indicato libro. L’autore osserva in nota che appare più verisimile ritenere che la citazione di Scevola si riferisca alla parte finale del paragrafo, in cui Paolo dà conto del regime dell’actio rei uxoriae. Il punto di vista di Scevola, con riferimento alle convenzioni che hanno l’effetto di peggiorare il regime della dote, emerge da (Scaev. 2 resp.) D. 23.4.29pr.: Cum maritus, qui aestimata praedia in dotem acceperat, manente matrimonio pactus est circumscribendae mulieris gratia, ut praedia inaestimata essent, ut sine periculo suo ea deteriora faceret: quaesitum est, an secundum priores dotales tabulas praedia aestimata remanerent et periculum eorum ad maritum pertineret. respondi non idcirco pactum de quo quaereretur impediri, quod in matrimonio factum esset, si deteriore loco dos non esset: nihilo minus eo pacto admisso, si deteriora praedia faceret, eo etiam nomine dotis eum actione teneri [Dal momento che un marito, che aveva ricevuto in dote degli immobili stimati, in costanza di matrimonio ha pattuito, allo scopo di ingannare la moglie, che gli immobili non fossero considerati stimati, in modo tale da renderli deteriori senza suo richio: è stato chiesto se gli immobili rimanessero stimati secondo le prime tavole dotali e il rischio di questi riguardasse il marito. Risposi che il patto in questione non era impedito per il fatto di essere stato concluso in costanza di matrimonio, qualora la dote non fosse stata deteriorata: ma, nondimeno, ammesso tale patto, se avesse reso gli immobili deteriori, anche a tale titolo sarebbe stato tenuto in forza dell’azione di dote]. Come è stato osservato, sia in D. 2.14.27.2 sia in D. 23.4.29pr., la convenzione successiva, perfettamente valida, ha l’effetto di ricondurre l’actio rei uxoriae al suo regime naturale: cfr. sul punto Magagna, 2002, 268. 399
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Ivano Pontoriero Il terzo paragrafo del frammento prende in considerazione il pactum ne dolus praestetur e il pactum ne depositi agatur. La derogabilità convenzionale dei criteri di imputazione della responsabilità incontra il limite dell’invalidità del patto di esonero dalla responsabilità per dolo: l’invalidità trova giustificazione nella contrarietà del patto alla buona fede ed ai buoni costumi ([Ulp. 30 ad ed.] D. 16.3.1.7; [Ulp. 29 ad Sab.] D. 50.17.23)403. (Ulp. 29 ad Sab.) D. 50.17.23 attribuisce alla riflessione scientifica di Celso la creazione della regola dell’invalidità del pactum ne dolus praestetur404. Le fonti riconoscono, tuttavia, la validità del patto attraverso il quale il depositante si impegni a non agire in forza del contratto di deposito. D. 2.14.27.3 sottolinea come, essendo il depositario responsabile per dolo, il patto di rinuncia all’azione nascente dal contratto di deposito consegua, in pratica, il risultato di far venire meno tale forma di responsabilità405. (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.14.7.15 fa risalire già a Pomponio l’enucleazione della regola in esame406.
403 Sulla derogabilità convenzionale dei criteri di responsabilità, cfr. in generale Pacchioni, 1913, 417 ss.; Voci, 1969, 100 s.; Cannata, 1998, 80; nonché Pontoriero 2010, 381 ss. 404 D. 50.17.23 presenta l’opinione celsina relativa all’invalidità del pactum ne dolus praestetur in termini molto generali, come riferibile almeno a tutti i contratti di buona fede. Le altre fonti di cui disponiamo dimostrano come la problematica sia stata trattata da Ulpiano in relazione al deposito e da Paolo con riferimento anche al comodato (cfr. [Ulp. 4 ad ed.] D. 2.14.7.15; [Ulp. 30 ad ed.] D. 16.3.1.6; [Ulp. 30 ad ed.] D. 16.3.1.7; [Paul. 29 ad ed.] D. 13.6.17pr.). Deve essere, altresì, rilevato come alcune fonti bizantine, che riprendono l’esposizione contenuta in D. 50.17.23, ricolleghino espressamente la regola enunciata al deposito (cfr. Bas. 2.3.23 [= Scheltema – van der Wal, A I, 51]); sch. ἐν τῷ ad Harm., App., II, 55 [= Heimbach, 787-793, praecipue 792]). La stessa motivazione addotta da D. 50.17.23 a fondamento della regola sembra fare riferimento – per l’uso del lemma singolare iudicium – ad un rapporto precisamente individuato (hoc enim bonae fidei iudicio contrarium est). Questi dati hanno portato ad ipotizzare che i commissari di Giustiniano abbiano potuto procedere alla soppressione di un originario riferimento celsinoulpianeo al deposito ed alla conseguente generalizzazione della regola in esame. Cfr. sul punto Tafaro, 1984, 39 ss. Esprime dubbi sul valore radicalmente innovativo dell’apporto celsino Voci, 1990, 138. 405 Albertario, 1912, 35 (= 1946, 254), ha ritenuto il brano interpolato. In difesa della sua genuinità, v. già Pacchioni, 1913, 424 s. Sintomatica della difficoltà di giustificare e di individuare il fondamento di tale regola è la posizione espressa da Luzzatto, 1964, 713: “Il pactum ne dolus praestetur è contra legem, e si considera, quindi, come non apposto. È invece valido il pactum ne depositi agatur, in quanto sembra venga considerato, nelle fonti, come il contrappeso della clausola con cui il depositario si impegna a praestare omne periculum…”. Se è vero, infatti, che (Ulp. 4 ad ed.) D. 2.14.7.15 richiama anche l’opinione di Pomponio relativa alla validità del patto con il quale il depositario si impegna a praestare omne periculum, non è dato individuare alcun preciso collegamento di natura logico-argomentativa o sostanziale con il precedente riconoscimento della validità del pactum ne depositi agatur. Occorre segnalare – nel panorama delle posizioni assunte sul tema – che alcuni interpreti configurano il pactum ne depositi agatur come una rinuncia preventiva all’azione da parte del depositante, altri, ritengono, piuttosto, che venga semplicemente riconosciuta dalle fonti la validità della remissione dell’azione successiva alla realizzazione dell’inadempimento da parte dell’obbligato. Espressione del primo orientamento interpretativo è l’esegesi proposta da De Robertis, 1983.I, 37 ss. Non distingue tra rinuncia preventiva all’azione e remissione della stessa successiva alla realizzazione dell’inadempimento Tafaro, 1984, 64 s. L’autore propone di ricondurre il riconoscimento della validità del pactum ne depositi agatur, nonostante l’inammissibilità del pactum ne dolus praestetur, alle caratteristiche proprie della tutela giurisdizionale offerta al deposito. Il pactum ne dolus praestetur – diversamente dal pactum ne depositi agatur – sarebbe infatti direttamente in contrasto con i caratteri essenziali della protezione formulare riconosciuta al deposito. Ritengono, al contrario, che l’affermazione della validità del pactum ne depositi agatur faccia riferimento alla remissione dell’azione successiva alla realizzazione dell’inadempimento da parte dell’obbligato Pacchioni, 1913, 424 s.; Provera, 1965, 568 s., nt. 67 e Voci, 1990, 134 e nt. 3. Quest’ultimo autore osserva come, una volta verificatosi l’inadempimento dell’obbligato, venga meno la stessa ratio dell’inammissibilità del pactum ne dolus praestetur. Sul punto, cfr. anche Santucci, 2001, 30 s., nt. 35. La glossa acc. Ne dolus a D. 2.14.27.3 precisa che l’invalidità avrebbe colpito solo il patto di esonero preventivo dalla responsabilità per dolo: v. al riguardo Pontoriero, 2010, 386. 406 Non disponiamo di elementi che permettano di stabilire se l’opinione circa la validità del pactum ne depositi agatur – come pure quella relativa alla validità del patto con cui il depositario si impegni a praestare omne periculum
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Commento In D. 2.14.27.4 il giurista ricorda che i patti che contengono una causa turpe non devono essere osservati: come, per esempio, se qualcuno pattuisca di non agire per furto o per ingiurie (Pacta… si feceris)407. La motivazione fornita è che è utile temere la pena prevista per questi delitti (expedit enim… iniuriarum poenam)408. Una volta che tali delitti siano stati commessi, è, tuttavia, possibile pattuire (sed post admissa haec pacisci possumus)409. Anche in questo caso, come abbiamo visto trattando della giustificazione della validità del pactum ne depositi agatur, una volta commesso il comportamento oggetto di riprovazione, cade la ragione del divieto e si riconosce che ciascuno possa disporre liberamente dei propri diritti. Ugualmente, non è possibile rinunciare pattiziamente all’esercizio di un interdetto unde vi, perché la relativa previsione risponde ad un pubblico interesse (item ne experiar… pacisci non possumus)410. Tirando le fila del discorso, il giurista enuncia il principio secondo cui il patto non deve essere osservato, ogniqualvolta coinvolga interessi non meramente privati (et in summa… non est servandum)411. Bisogna innanzitutto considerare – conclude il giurista – che la convenzione
– possa essere configurata effettivamente come prodotto originale della riflessione scientifica di Pomponio o, piuttosto, se la sententia del giurista venga menzionata da Ulpiano semplicemente come traguardo conclusivo di un più complesso e risalente percorso interpretativo. Sul punto cfr., in particolare, le osservazioni di Tafaro, 1984, 66 s.; cui adde Stolfi, 2002.II, 144 ss. 407 A proposito dell’espressione pacta quae turpem causam continent e, più in generale per il rilievo della polisemia dell’impiego del termine causa nelle fonti giuridiche romane, v. Grosso, 1966, 78; cui adde Santoro, 1997, 95 (= 2006, 235 [= 2009.II, 471]). Sul principio espresso, cfr. Plescia, 1987, 308 e nt. 213, che ricorda anche le testimonianze di (Paul. 3 quaest.) D. 12.5.8 e (Idem AA. et CC. [scil. Impp. Diocl. et Max. AA. et CC.] Domnae, a. 293) C. 8.37(38).4, quest’ultima, relativa ad una stipulazione de successione futura contra bonos mores interposita, afferma la nullità di tutto ciò che contra bonos mores viene dedotto in un patto o in una stipulazione. 408 Sulla motivazione, v. Gioffredi, 1971, 343 e nt. 27, che sottolinea come dalla riflessione del giurista emerga una funzione generalpreventiva della pena. L’autore ricorda che particolare rilievo per la ricostruzione del pensiero paolino assume (Paul. 18 ad Plaut.) D. 48.19.20, dove il giurista, quod poena constituitur in emendatione hominum, esclude che la pena possa colpire gli eredi. Cfr. anche Santucci, 2001, 30, nt. 35, che sottolinea la contrarietà del patto concluso prima della commissione dell’illecito: “agli elementari principi di politica del diritto, in quanto si tradurrebbe in un incentivo alla commissione di un delitto”. 409 L’autore del delitto, nonostante la pattuizione, rimane colpito dall’infamia: v. D. 3.2.1. Sul punto, v. Brutti, 1973.II, 688, nt. 91. 410 V. in proposito Brutti, 1973.II, 688 ss.; cui adde Kaser, 1986, 82 s. L’editto contemplava, sotto la rubrica unde vi, due diversi rimedi: l’interdictum de vi e quello de vi armata: cfr. Lenel, 1927, 461 ss.; nonché Gandolfi, 1958, 96 s. Il giurista fa riferimento ad interdetti ad publicam utilitatem pertinentia nella celebre classificazione degli interdetti di (Paul. 63 ad ed.) D. 43.1.2, all’interno della quale, tuttavia, gli interdicta unde vi vengono considerati nell’ambito di quelli quae ad rem familiarem spectant. Su questo frammento e sull’omologo (Ulp. 67 ad ed.) D. 43.1.1, posto dai compilatori in apertura del titolo D. 43.1 de interdictis sive extraordinariis actionibus, quae pro his competunt, v. Biscardi, 1938, 109 s.; Gandolfi, 1960, 21 ss.; Capogrossi Colognesi, 1971, 906 ss. Sulle classificazioni degli interdetti cfr., in generale, Giomaro, 1993, 506 ss. Sul significato assunto dal termine vis nell’ambito della tutela interdittale, da identificare con “quanto realizzato (non tanto, necessariamente, tramite violenza, ma piuttosto) contro una specifica proibizione” (così Stolfi, 2018, 361), deve essere ricordato l’apporto della riflessione di Quinto Mucio sull’interdictum quod vi aut clam, testimoniata da (Q. Muc. Scaev. lib. sing. ὅρων) D. 50.17.73.2. Della dottrina muciana dà conto anche (Ulp. 71 ad ed.) D. 43.24.1.5. Su questi brani, v. per tutti Stolfi, 2018, 360 ss. 411 Che l’uso dell’espressione in summa sia indizio del carattere spurio dei testi in cui essa compare è stato sostenuto da Pringsheim, 1921, 258 ss. La tesi di Fritz Pringsheim è sottoposta a revisione critica da Sargenti, 1939, 53 ss., con particolare riferimento al brano in esame, del quale viene comunque esclusa la genuinità, cfr. 74 ss. Sul testo, in senso adesivo rispetto alle conclusioni raggiunte da Manlio Sargenti, v. anche Salerno, 1981, 224 s. e nt. 22.
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Ivano Pontoriero conclusa in relazione ad un certo affare o ad una certa persona non nuoccia ad un altro affare o ad un’altra persona (ante omnia enim… persona noceat)412. Il paragrafo successivo prende in considerazione l’ipotesi in cui il pactum de non petendo abbia ad oggetto una quantità maggiore o minore rispetto all’importo dedotto in obbligazione. Nel primo caso, se, a fronte di un credito di dieci, sia stato pattuito di non richiedere venti, al convenuto gioverà per i dieci l’eccezione di patto o quella di dolo (Si cum decem… doli exceptionem placet)413. Se, al contrario, il credito sia di venti e sia stato pattuito di non chiedere dieci, il convenuto potrà giovarsi dell’exceptio pacti per dieci, risultando pertanto concretamente esigibile dall’attore solo l’importo di dieci (item si cum viginti… decem esigere debeam)414. La trattazione del giurista si concentra, in D. 2.14.27.6, sugli effetti del pactum de non petendo rispetto alle obbligazioni alternative. Se il pactum abbia ad oggetto una sola delle prestazioni dedotte in obbligazione e il creditore agisca in giudizio per l’una o per l’altra, l’exceptio pacti potrà essere opposta per l’intera pretesa (Sed si… in totum obstaturam)415. La soluzione proposta trova giustificazione attraverso il ricorso all’interpretazione analogica: come con l’adempimento, la richiesta giudiziale e l’accettilazione di una sola cosa viene estinta l’intera obbligazione, così anche attraverso il pactum de non petendo relativo ad una sola delle prestazioni alternative si rimuove l’intera obbligazione (nam ut solutione… summoveri)416. I dubbi sulla genuinità del brano, sollevati dal confronto con la nota paolina all’ottavo libro dei digesta
412 Così, il giurista esclude anche la validità del pactum ne de moribus agatur. Cfr. (Paul. 7 ad Sab.) D. 23.4.5pr.: Illud convenire non potest, ne de moribus agatur vel plus vel minus exigatur, ne publica coercitio privata pactione tollatur [Quello non è possibile convenire, di non agire per i cattivi costumi della moglie, oppure di esigere di più o di meno, affinché la pubblica coercizione non sia esclusa da una pattuizione privata]. Su questa testimonianza, v. Lenel, 1889.I, 1275, nt. 2, che propone di restituire l’originale scrittura paolina con retineatur, in luogo di exigatur; Solazzi, 1899, 276 s.; Burdese, 1959, 177; nonché Provera, 1965, 568 s. 413 A giudizio di Grosso, 1928a, 14 (= 2001, III 54), che confronta la fattispecie considerata con quella oggetto del successivo (Paul. 3 ad ed.) D. 2.14.27.8, sarebbe stata interpolata la menzione dell’exceptio doli. Per un’esegesi conservativa, cfr. invece Brutti, 1973.II, 686 ss., secondo cui l’alternativa della concessione dell’exceptio doli sarebbe giustificata dalla possibilità di concepire la pattuizione intervenuta come conventio in alia re facta, inidonea, dunque, a far sorgere l’exceptio pacti. Sottolinea l’affinità con le fattispecie affrontate, in materia di acceptilatio, da (Pomp. 27 ad Sab.) D. 46.4.15 e (Ulp. 23 ad Sab.) D. 34.3.7.2, Backhaus, 1983, 168 s. 414 La littera Florentina contiene la lezione perigerim in luogo di pepigerim: cfr. Mommsen, 1870.I, 69. 415 Cfr. Longo, 1936, 80 ss., che considera la soluzione genuina, almeno nella sostanza; Frezza, 1962, 263 ss., il quale ritiene che la soluzione offerta da Paolo dipenda dagli effetti caratteristici della pluris petitio e non dalla motivazione introdotta da nam ut, di carattere insiticio, forse frutto del lavoro di un “tardo annotatore del testo di Paolo”. Si sofferma sull’impiego del verbo petere, che si riferisce “agli effetti consuntivi” della litis contestatio sul “rapporto sostanziale” dedotto in giudizio, Brutti, 1973.II, 708, nt. 128. Sul brano, v. inoltre Ziliotto, 2004, 150. 416 La littera Florentina contiene la lezione in ius, emendata da Mommsen, 1870.I, 69, in unius in ragione di Bas. 11.1.27.6 (= Scheltema – van der Wal, A II, 633): ...καὶ τῇ τοῦ ἑνὸς γὰρ καταβολῇ καὶ ἀποχῇ πᾶσα ἡ ἐνοχὴ λύεται... [...e con il pagamento e l’accettilazione di una si scioglie l’intera obbligazione...], nonché dei relativi scolii. Eisele, 1897, 12 s., considera il brano interpolato da nam ut solutione a nulla exceptione opponenda. Maggiormente conservativa la proposta di Kalb, 1888, 72, che si limita a segnalare l’interpolazione dell’ablativo assoluto nulla exceptione opponenda. L’ipotesi di alterazione formulata da Eisele ha incontrato il favore di Segrè, 1915, 1070 ss., nt. 2 (= 1952, 129 ss., nt. 11). Longo, 1936, 24 s., richiama l’attenzione sull’“idea dell’unità dell’obbligazione alternativa”. Per l’interpolazione della parte finale del brano, v. anche Astuti, 1941, 122 s., nt. 40; d’Ors, 1944, 13; Albertario, 1945, 221 ss.; nonché Grosso, 1966, 210 ss. Brutti, 1973.II, 699 s. e nt. 117, ricorda invece che “l’analogia tra pactum e solutio” è frequente in Paolo, come dimostrano, oltre a quello qui considerato, i seguenti brani: (Paul. 3 ad ed.) D. 2.14.11 [F. 46]; (Paul. 3 ad ed.) D. 2.14.13pr. [F. 47]; (Paul. 3 ad ed.) 2.14.27pr. [F. 51]. Per una convincente esegesi conservativa, che fa leva sulla natura remissoria del pactum de non petendo, v. Ziliotto, 2004, 149 ss. e 210 ss.
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Commento di Salvio Giuliano contenuta in D. 18.5.4, possono, forse, essere superati osservando come, in quest’ultimo caso, non si prenda in considerazione un pactum de non petendo, ma un diverso accordo diretto a considerare come non avvenuta la vendita di una delle due cose (ne alterutrius emptio maneat)417. Il giurista precisa inoltre che le parti possono convenire che l’adempimento abbia ad oggetto una delle due prestazioni alternativamente previste: in questo caso, il creditore potrà agire per la prestazione individuata, senza che possa essergli opposta l’exceptio pacti (sed si id actum… convenerit). Nel paragrafo successivo (D. 2.14.27.7), Paolo si sofferma sugli effetti del pactum de non petendo con riferimento alle obbligazioni generiche. Se l’obbligazione abbia ad oggetto la dazione di uno schiavo e venga concluso un patto di non richiedere Stico, il creditore agirà correttamente chiedendo in giudizio qualsiasi altro schiavo, mentre gli sarà opposta l’exceptio pacti se chiederà Stico (Sed si generaliter… recte agam)418. La trattazione prosegue (D. 2.14.27.8) considerando l’ipotesi in cui qualcuno abbia pattuito di non esercitare l’azione di petizione di eredità e agisca in qualità di erede con riferimento a singole cose appartenenti all’asse ereditario (Item si pactus… ut heres petam). Il giurista afferma che l’eccezione dovrà essere adattata con riferimento a ciò che è stato pattuito (ex eo, quod pactum erit, pacti conventi exceptio aptanda erit)419. Lo stesso accade nelle ipotesi in cui qualcuno pattuisca di non chiedere un fondo e chieda invece l’usufrutto, o di non chiedere una nave o un edificio e, venute meno queste cose nella loro interezza, richieda le singole cose che le compongono (quemadmodum… singulas res petam)420. La chiusa nisi specialiter aliud actum est è stata ritenuta interpolata da Antoine Favre421. Se l’accettilazione fu inutile (D. 2.14.27.9), si considera tacitamente pattuito che non venisse chiesto (Si acceptilatio… ne peteretur)422. L’accettilazione inutile vale, dunque, attraverso
417 D. 18.5.4: Libro octavo digestorum Iuliani Paulus notat Si emptio contracta sit togae puta aut lancis et pactus sit venditor, ne alterutrius emptio maneat, puto resolvi obligationem huius rei nomine dumtaxat [Se sia stata contratta la compera, per esempio, di una toga o di un piatto e il venditore abbia pattuito che non rimanesse in piedi la compera dell’una o dell’altra cosa, reputo che l’obbligazione si risolva solo con riferimento a questa cosa]. Cfr. de Ruggiero, 1922, 113. L’autore osserva, tuttavia che: “sostanzialmente la cosa è uguale, e si può quindi ben pensare che se fatto un pactum d. n. p., esso avrebbe condotto al medesimo risultato”. 418 Wlassak, 1893, 13, nt. 15, sulla base del confronto con (Paul. 10 ad Sab.) D. 46.3.50, suggerisce di emendare petendo in petenti. Sembrano eccessivi i sospetti di non autenticità formulati da Grosso, 1966, 256 s., il quale considera il brano “deturpato, forse accorciato”. 419 Mommsen, 1870.I, 69, esprime il dubbio che pactum debba essere emendato in actum. 420 Cfr. Vaucher, 1940, 134 s., che ricollega la soluzione paolina al principio espresso da (Iul. 54 dig.) D. 45.1.58. Chi si fa promettere mediante stipulazione l’usufrutto su un fondo e poi il fondo, dovrà ricevere, non potendo il promittente detrarre l’usufrutto, la piena proprietà del fondo: quia fundus dari non intellegitur, si usus fructus detrahatur [perché non si ritiene che venga dato un fondo, se venga detratto l’usufrutto]. Su quest’ultima testimonianza cfr. anche Bretone, 1962.I, 155 s. Il brano può essere utilmente confrontato anche con (Gai. 1 de verb. oblig.) D. 46.1.70.2, in cui si afferma che la promessa di un fideiussore avente ad oggetto la dazione dell’usufrutto costituisca un minus rispetto alla stipulazione di dare un fondo: cfr., al riguardo, le osservazioni di Frezza, 1962, 67. Per gli esempi successivi formulati dal giurista, riguardanti res connexae come la nave o un edificio, v. Gandolfo, 1883, 119 ss. 421 Cfr. Faber, 1604, 224. 422 Sono stati avanzati sospetti sulla genuinità del brano, in particolare per l’impiego dell’espressione tacita pactione. Cfr. Riccobono, 1930, 154, secondo cui “il fr. 27 § 9 di Paolo è un sunto compilatorio, in cui la conventio è indicata come tacita pactio”. Secondo Salvatore Riccobono, ci troveremmo tuttavia di fronte ad un’interpolazione “formale”, tale da non incidere sulla sostanziale genuinità della soluzione tramandata dal brano. Per
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Ivano Pontoriero un procedimento di conversione, come pactum de non petendo423. Infine (D. 2.14.27.10), il giurista ricorda che lo schiavo ereditario non può pattuire nominativamente in favore dell’erede che deve ancora accettare, dal momento che quest’ultimo non è titolare della dominica potestas sul paciscente (Servus hereditarius… dominus sit)424. Se il patto sia stato invece concepito con previsione generica, l’erede potrà acquistare la relativa eccezione (sed si… adquiri potest)425.
zione di tacita pactione, v. anche Koschaker, 1925, 154; Betti, 1942, 188, nt. 39; Zilletti, 1961, 62, nt. 135; nonché Giuffrè 1965, 319 e nt. 297. Più radicali sono i sospetti di Beseler, 1927, 358, che propone di espungere tutto il paragrafo, e di Solazzi, 1935, 266, secondo cui: “è probabile che il rimaneggiamento di D. 2.14.27.9 non si limiti all’aggiunta di ‘tacita pactione’”. Un argomento a favore della paternità paolina del brano è costituito dall’interesse del giurista, che più volte emerge nel commento al titolo de pactis, per le manifestazioni tacite della volontà dei contraenti. 423 La conversione dell’accettilazione inutile in pactum de non petendo è attestata, oltre che da D. 2.14.27.9, da (Ulp. 48 ad Sab.) D. 46.4.8pr.; (Ulp. 2 reg.) D. 46.4.19pr.; (Marcian. lib. sing. ad hypotec. form.) D. 46.3.49. In (Iul. 15 dig.) D. 18.5.5pr. l’accettilazione inutile (perché effettuata in rapporto ad un’emptio venditio consensuale) si converte in una convenzione di recesso dal contratto. Su questi brani, cfr. Betti, 1959, 810; Giuffrè, 1965, 308 ss. e 320 ss. e Talamanca, 1991, 176 s. 424 La littera Florentina omette l’aggettivo hereditarius: cfr. Mommsen, 1870.I, 69. La motivazione è del tutto coerente con quella offerta dal giurista per giustificare l’invalidità della stipulatio heredi futuro. Cfr. (Paul. 4 reg.) D. 45.3.16: Servus hereditarius futuro heredi nominatim dari stipulatus nihil agit, quia stipulationis tempore heres dominus eius non fuit [Il servo ereditario che si fa promettere nominativamente mediante stipulazione che venga dato a chi sarà erede non fa nulla, perché nel tempo della stipulazione l’erede non fu suo padrone]. Orestano, 1982, 8 (= 1989, 135 [= 1998, 2062]), osserva come il patto venga considerato inefficace per: “la mancanza di una persona fisica giuridicamente idonea a costituire centro di imputazione di diritti e obblighi”; in questo senso, v. anche Mannino, 1994, 184. 425 La chiusa del brano è ritenuta interpolata da Rotondi, 1913, 27 (= 1922, 328 s.); seguito da Perozzi, 1928.II, 501, nt. 2. Non appare un indizio significativo in tal senso il fatto che (Paul. 4 reg.) D. 45.3.16 sia privo della “parte finale che contempla l’ipotesi della concezione in rem” (v. nota precedente). Per la genunità della soluzione, cfr. invece Mannino, 1994, 184.
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APPARATI E INDICI
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U. Wesel, Zur dinglichen Wirkung der Rücktrittsvorbehalte des römischen Kaufs, in «ZSS» 85 (1968) 94 ss. L. Winkel, L’aquéduc de Cirta (Numidie), in «T» 64 (1996) 141 ss. M. Wlassak, Zur Geschichte der Cognitur, Breslau 1893. J.G. Wolf, Das sogenannte Ladungsvadimonium, in Satura R. Feenstra, Fribourg 1985, 59 ss. J.G. Wolf, Iurisdictio Irnitana, in «SDHI» 66 (2000) 29 ss. F.B.J. Wubbe, Opus selon la définition de Labéon, in «T» 50 (1982) 241 ss. M. Zabłocka, La costituzione del “cognitor” nel processo romano classico, in «Index» 12 (1983-1984) 140 ss. P.P. Zanzucchi, La successio e l’accessio possessionis nell’usucapione, in «AG» 72 (1904) 177 ss., 353 ss. P.P. Zanzucchi, Sulla storia dell’accessio possessionis nell’usucapione. Replica al Prof. P. Krüger, in «AG» 76 (1906) 3 ss. G. Zarro, I. 4.14.4 ‘Exceptiones autem, quibus debitor defenditur, plerumque accommodari solent etiam fideiussoribus eius’: vicende di un principio, in «TSDP» 10 (2017) 1 ss. F. Zen Benetti, Per la biografia di Lorenzo Pignoria, erudito padovano († 1631), in Viridarium floridum. Studi di Storia veneta offerti dagli allievi a P. Sambin, Padova 1984, 317 ss. K.-H. Ziegler, Das private Schiedsgericht im antiken römischen Recht, München 1971. K.-H. Ziegler, Kompetenzvereinbarungen im römischen Zivilprozessrecht, in Festschrift für M. Kaser zum 70. Geburtstag, I, München 1976, 557 ss. P. Ziliotto, Studi sulle obbligazioni alternative nel diritto romano, Padova 2004. U. Zilletti, La dottrina dell’errore nella storia del diritto romano, Milano 1961. U. Zilletti, Studi sul processo civile giustinianeo, Milano 1965.
229
ABBREVIAZIONI
«AHDE» «ANRW» «AUPA» «BIDR» «CCGlotz» «DDP» «ED» «EGI» «JRS» «NNDI» «NRHDFE» «PAPhS» «RAL» «RE» «RGDR» «RHDFE» «RIDA» «RIL» «RLT» «SDHI» «SC» «T» «TSDP» «ZPE» «ZRG» «ZSS»
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230
GIURISTI CITATI*
Africano, Sesto Cecilio: 5; 5.12; 20.28; 21; 21.30; 21.31 Alfeno Varo: 42.18; 45; 45.35; 46.46; 119.78; 140 Aristone, Tizio: 45; 45.34 Atilicino: 24; 24.40; 86; 87; 183 Cassio Longino, Gaio: 43; 44; 44.27; 44.30; 46; 46.46; 64; 65; 103; 103.10; 104.11; 104.12 Celio Sabino: 45; 48.50 Celso, Publio Giuvenzio: 20.28; 25.44; 41.12; 42.14; 43; 43.22; 43.23; 45; 46; 47; 47.47; 47.48; 48; 48.50; 49.54; 50.55; 55; 134; 134.127; 153; 188
Giuliano, Salvio: 14.6; 16.13; 16.17; 20; 20.28; 21.30; 21.31; 24.41; 25.44; 26; 26.45; 38.2; 41.10; 41.12; 42; 42.14; 42.16; 42.17; 46; 46.44; 48; 48.50; 49; 49.54; 50.55; 51; 51.59; 51.60; 52; 52.62; 52.63; 52.65; 53; 53.69; 54.71; 55; 66; 67; 68; 69; 80; 81; 82; 83; 84; 85; 86; 87; 111; 111.44; 115.61; 115.62; 133.123; 151.210; 153; 153.217; 168; 168.299; 169; 175; 175.332; 175.334; 176; 176.339; 178; 180; 180.363; 181.364; 183; 183.379; 186.397; 191; 191.417 Labeone, Marco Antistio: 37; 41.11; 41.12; 42; 42.14; 42.18; 42.19; 43.19; 43.20; 44.29; 46; 46.44; 47; 48.50; 48.51; 53; 72; 73; 74; 75; 80; 81; 86; 87; 135.134; 137.142; 138; 138.143; 139; 139.146; 139.147; 140.155; 143.169; 144.169; 164; 165; 166; 166.288; 183; 183.378; 183.383
Cervidio Scevola, Quinto: 5; 5.11; 16.13; 16.17; 41.11; 44.26; 45; 45.39; 46; 46.45; 47.47; 50.54; 50.55; 86; 89; 187; 187.402
Licinio Rufino, Marco Gneo: 11; 11.41; 11.42
Furio Anziano: 185.393
Marcello, Ulpio: 5; 5.12; 16.17; 20.28; 21; 21.30; 21.31; 25.44; 41.12; 42.14; 42.16; 43; 43.22; 45; 46; 47; 47.48; 48; 48.50; 50.54; 50.55; 55; 115.61; 131.117; 136.140; 139.147
Gaio: 16.17; 51; 51.60; 52; 52.63; 53; 54.71; 54.72; 94; 104.12; 124.92; 158; 160.256; 179.353; 179.355
Macro, Emilio: 13
* A cura di Gianmichele Lucatuorto ed Elena Pezzato. I nomi dei giuristi sono stati ordinati talvolta secondo il nomen, in altri casi secondo il cognomen, seguendo l’uso più consueto. Per evidenti ragioni abbiamo escluso le citazioni di Giulio Paolo.
231
Iulius Paulus Marciano, Elio: 14.8; 16.13; 20; 20.28; 21.30; 22; 22.32; 22.33; 22.34; 32; 32.21; 33.25; 34; 34.28; 36; 36.36; 36.37 Meciano, Lucio Volusio: 14.6; 35 Mela, Fabio: 45; 45.33; 139; 139.147 Modestino, Erennio: 13; 13.1; 14.6; 16.17; 20.28; 25.44 Mucio Scevola, Quinto: 24.41; 41.10; 42.14; 43.19; 45; 46.46; 140; 142.165; 178.348; 189.410 Nerazio Prisco, Lucio: 41.12; 42.14; 44; 44.25; 47; 47.48; 48.50; 49.54; 86; 87; 168; 168.294; 183; 183.382
Pomponio, Sesto: 37; 38.2; 41.10; 41.12; 42.14; 43; 43.20; 46; 46.44; 47; 47.47; 48; 48.50; 49.54; 50.54; 50.55; 51.59; 51.60; 52.62; 52.63; 52.64; 52.65; 53; 54.71; 74; 75; 78; 79; 84; 85; 109.36; 149; 149.196; 156.235; 160; 160.256; 167.292; 178; 178.351; 179.352; 188; 188.405; 189.406 Proculo: 14.6; 42.14; 43; 44; 44.31; 46; 46.46; 68; 69; 84; 85; 86; 87; 106.20; 121; 139; 139.150; 177.342; 180; 180.360; 183 Sabino, Masurio: 20.28; 41.11; 42.14; 43; 43.21; 44; 44.27; 44.30; 46; 46.46; 50.55; 72; 73; 84; 85; 143; 143.167; 179; 179.352 Servio Sulpicio Rufo: 37; 41.10; 41.11; 42.14; 42.18; 44; 44.26; 44.32; 46; 142.165 Trebazio Testa: 41.11; 42.18; 44; 45; 46; 175; 175.332; 175.334; 175.335
Nerva, Marco Cocceio, pater: 45; 45.43 Nerva, Cocceio, filius: 44 Ofilio, Aulo: 42.18; 44; 44.29; 45; 46 Ottaveno: 45; 74; 75; 148; 148.194; 149; 149.195 Papiniano, Emilio: 4; 5; 5.14; 6.14; 8; 9; 9.32; 9.33; 11.41; 14; 14.6; 14.8; 16.17; 17; 17.17; 18.20; 19.24; 19.25; 20; 20.27; 20.28; 22; 22.32; 22.33; 22.34; 24.39; 24.41; 25; 25.43; 25.44; 26; 26.45; 30.12; 41.12; 42.14; 43; 43.24; 46; 46.45; 48; 48.50; 49.54; 55; 60; 61; 115.62; 184.387; 186.396
Ulpiano, Domizio: 4; 4.3; 4.5; 5.8; 6; 6.20; 7; 7.20; 7.22; 8; 8.30; 9; 9.32; 9.35; 10; 10.38; 10.40; 11.41; 14.6; 14.8; 15.9; 16.16; 16.17; 17.17; 20; 20.28; 21; 21.30; 21.31; 23.36; 23.38; 24.41; 25; 25.44; 26; 37.1; 38.2; 38.3; 39; 39.4; 39.5; 40; 40.7; 40.8; 40.9; 41.12; 42; 42.14; 42.16; 43.22; 45.37; 46; 46.44; 46.45; 46.46; 47; 47.48; 48; 48.50; 48.51; 49; 49.52; 49.54; 50; 50.55; 51.57; 51.59; 51.60; 52; 52.62; 52.63; 52.64; 52.65; 53; 54; 54.71; 55; 60; 61; 76; 106; 122; 123; 126; 129; 134.127; 137.142; 148.191; 151; 153; 153.217; 156.235; 158; 162; 164; 165; 169.303; 175; 176.337; 183.379; 186.395; 188.404; 189.406
Pedio, Sesto: 37; 41.11; 44; 44.28; 48; 48.50; 53.68; 156.235; 165; 178.350
Urseio Feroce: 42.14
Pegaso: 45; 45.42
Viviano: 42.14; 45; 45.38
232
FONTI ANTICHE*
TRADIZIONE MANOSCRITTA
Artemidorus Onirocritica 4.80
[T. 1]
3.1; 4.6; 5; 5.13; 59
Basilica (Scheltema – van der Wal) 2.2.8 2.3.23 11.1.2 11.1.13 11.1.27.6 53.5.16 60.32.8 60.5.4.3
154.225 188.404 166.288 176.337 190.416 173.319 149.197 152.214
Basilicorum liber LIII (Rodolakis) 53.5.7 53.5.16
173.321 173.319
Basilicorum Scholia (Scheltema – Holwerda) Sch. 2 a Bas. 11.1.6 Sch. 1 a Bas. 11.1.13 Sch. 2 a Bas. 48.14.4
170.307 176.337 21.30
* A cura di Gianmichele Lucatuorto ed Elena Pezzato. Il primo numero indica la pagina. I numeri dopo il punto indicano le note.
233
Iulius Paulus Boethius In Topica Ciceronis Commentariorum libri VI 2.4.19
15.12
Cassius Dio Historiae Romanae 80.2.1 80.2.2 80.9.1-4
7.24 7.23 7; 59
[T. 2]
Codex Theodosianus 1.4.1 1.4.2 1.4.3 3.13.2 4.4.3.3 9.43.1pr. 14.10.1
14.8; 16.13; 17.17 14.7; 16.13; 62.3 14.7; 14.8; 16.13; 16.17; 62.4 16.15 16.13 14.8; 16.13 10.37
Collatio legum Mosaicarum et Romanarum 2.4 2.5-6 2.5.1 2.5.3 4.2-4 4.6 7.3 7.3.2 8.2 10.9 11.6 12.6 12.7 12.7.5
41.9 15.10 186.395 186.395 15.10 15.10 41.9 42.14 15.10 15.10 15.10 15.10 41.9; 42.14; 43.23 43.23
Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti 4.4 7.3 [T. 9]
185.391 3.1; 14.7; 62
234
Fonti antiche Corpus iuris civilis Institutiones Const. Omnem §1 §4 §5
17; 17.19; 25.43 25.43 17; 17.19; 25.43; 25.44
1.6.2 2.6.12 2.6.13 2.7.4 2.10.11 2.14pr. 4.6.29 4.13.5 4.14.4 4.15.8
24.40 34 27.1; 33; 34 20.29 159.254 24.40; 25.42 187.399 152.213 181.370 104.13
Digesta Const. Deo auctore §6 1.1.11 1.8.9.5 1.15.3.2 1.16.12 1.16.16 1.18.21 1.21.5pr. 1.22 1.22.1 1.22.4 2.1 2.1.4 2.1.5 2.1.6 2.1.7 2.1.7.1 2.1.7.3 2.1.9 2.1.11pr. 2.1.20
14.8 148.192; 162.267 135.134 33.23 74; 75; 98; 128.107; 129.109; 145 139.148 154.224 145.176 154.224 154.224 49.54 146 114.55; 125.96; 125.97 144; 145.175 74; 75; 98; 128.107; 129.109; 144; 145 147.186 147.186 146 74; 75; 99; 147; 147.189; 148 134.130 64; 65; 97; 102; 102.3; 102.4; 103.6; 106; 106.23; 107.24; 124.93
[F. 28]
[F. 27]
[F. 29] [F. 1]
235
Iulius Paulus 2.2 2.2.2 2.2.3.6 2.3 2.3.1pr. 2.3.1.4 2.4.18 2.4.19 2.4.21 2.5 2.5.1 2.5.2 2.5.2pr. 2.5.2.1 2.5.3 2.6.1 2.7.4.2 2.8 2.8.2pr. 2.8.2.2 2.8.2.4 2.8.5 2.8.8.5 2.9.1.1 2.9.2pr. 2.10.2 2.11.1 2.11.2pr. 2.12 2.12.1 2.12.1pr. 2.12.1.2 2.12.2 2.12.3 2.12.4
146; 153 76; 77; 99; 153 42.17 102 102.5; 109.35; 126.100 103; 103.7 111.43 66; 67; 97; 98; 108.32; 109.37; 110; 111; 112; 112.48; 115; 116 66; 67; 97; 98; 110; 111; 111.45; 111.46; 112; 116 108; 108.29 108 66; 67; 97; 108; 109.36; 110.38 118.72; 126.99 112; 121; 121.85 133; 134.127; 134.128 66; 67; 97; 110; 110.38 40.8 40.7 110.40 110; 110.41 110 110 161.259 44.29 44.29 150.207 119.76 135.132 112; 123; 123.90 123 112.150; 121.85 122.88 122.88; 123 112; 112.50; 113; 113.51; 122; 122.86; 122.88; 123 68; 69; 97; 98; 110; 112; 112.50; 113; 113.52; 121; 121.85; 122.86; 123 123.89 158; 160 156.232 157.240 157.236 157; 157.240 157
[F. 32]
[F. 6] [F. 7a] [F. 4]
[F. 5]
[F. 12]
2.12.6 2.13 2.13.1pr.-1 2.13.1.2 2.13.1.2-4 2.13.1.3 2.13.1.4 236
Fonti antiche 2.13.2 2.13.4 2.13.4pr. 2.13.4pr.-1 2.13.4.2-5 2.13.4.5 2.13.5 2.13.6 2.13.6pr.-1 2.13.6.1-7 2.13.6.2 2.13.6.5 2.13.6.8 2.13.6.8-10 2.13.6.10 2.13.7 2.13.7.1 2.13.8 2.13.9 2.13.9pr. 2.13.9pr.-2 2.13.9.1 2.13.9.2 2.13.9.3 2.13.9.3-4 2.13.9.4 2.13.10.1 2.13.10.3 2.13.13 2.14 2.14.1.4 2.14.2 2.14.2pr. 2.14.2.1 2.14.4 2.14.4.2 2.14.4.3 2.14.5 2.14.6 2.14.7 2.14.7pr.-1 2.14.7.4 2.14.7.5 2.14.7.8
[F. 35]
76; 77; 99; 156; 157; 157.240 157; 158; 161 156; 158 157.242 158; 158.249 158 78; 79; 99; 156; 157; 158; 161 158 158; 158.249 161 157.237; 160; 161.258; 162.262 160 156; 162.263 161 162; 162.264 78; 79; 95.8; 99; 156; 158; 158.245; 160; 162 162 163; 163.273 78; 79; 95.8; 99; 156; 158; 158.245; 158.248; 160; 161; 162; 163.274 159.250 156; 158; 158.249 159 160 160; 161.258; 162.262 160 160; 160.257 160.256 156; 163; 163.273 163; 163.273 40.7; 163; 164; 166; 185.393 170.307 80; 81; 99; 164; 164.280; 166; 167 164; 166.288 166 80; 81; 99; 164; 164.278; 164.280; 167; 47.49; 168 168.299; 169 169; 169.303; 170.307 82; 83; 99; 164; 164.280; 169; 170.307; 173 169.303 170.307 165 186.396 165; 178.350
[F. 36]
[F. 39] [F. 37]
[F. 42] [F. 43]
[F. 44]
237
Iulius Paulus 2.14.7.15 2.14.9 2.14.10.2 2.14.11 2.14.13 2.14.13pr. 2.14.13.1 2.14.15 2.14.17 2.14.17pr. 2.14.17pr.-2 2.14.17.1 2.14.17.2 2.14.17.3 2.14.17.3-7 2.14.17.4 2.14.17.5 2.14.17.6 2.14.17.7 2.14.18 2.14.19 2.14.19pr. 2.14.19.1 2.14.20 2.14.21 2.14.21pr. 2.14.21.1 2.14.21.2 2.14.21.3 2.14.21.5 2.14.22 2.14.23 2.14.24 2.14.25 2.14.25pr. 2.14.25.1 2.14.25.2 2.14.26 2.14.27 2.14.27pr. 2.14.27pr.-1 2.14.27.1 2.14.27.2
188; 188.404; 188.405 183.381 175; 175.332; 181.364 82; 83; 99; 175; 190.416 82; 83; 99; 176; 176.336 190.416 176.338 82; 83; 99; 164; 175.334; 176 82; 83; 99; 177; 179.353 171; 177 82; 83; 99 186.394; 177 165; 178 178; 178.347 82; 83; 99 181.364; 178 178 179 179 179.353 82; 83; 84; 85; 99; 165; 177; 179; 179.353; 179.355 179 180.360 179; 179.355 82; 83; 84; 85; 99; 165; 177; 179.355 179 180 175.334; 178.349; 180; 180.360; 181.364 181 181 181.368 82; 83; 86; 87; 99; 177; 181; 182; 182.376 182.376 82; 83; 86; 87; 99; 165; 177; 182; 182.376 182; 183.377 183; 183.378 183 183.379 40.7; 86; 87; 99; 164.276; 165; 183 183; 190.416 86; 87; 99 184 5.11; 45.39; 47.49; 184; 185.393; 186.395; 187.399; 187.402
[F. 46] [F. 47] [F. 48] [F. 50]
[F. 50]
[F. 50]
[F. 50] [F. 50]
[F. 51]
238
Fonti antiche 2.14.27.2-10 2.14.27.3 2.14.27.4 2.14.27.5 2.14.27.6 2.14.27.7 2.14.27.8 2.14.27.9 2.14.27.10 2.14.32 2.14.51.1 2.14.62 3.2.1 3.3 3.3.2 3.3.4 3.3.6 3.3.11 3.3.14 3.3.16 3.3.20 3.3.22 3.3.24 3.3.26 3.3.32 3.3.36 3.3.39.7 3.3.41 3.3.42 3.3.43 3.3.45 3.3.73 3.5.5.11(9) 3.5.5.12(10) 3.5.18(19).1 3.5.18(19).1-2 3.5.18(19).2 3.5.20(21)pr. 3.5.33(34) 4.2.9pr. 4.3.1.1 4.3.1.4 4.3.7.7 4.4.14 4.4.23
86; 87; 99 188; 188.405 189 190 190 191 190.413; 191 191; 192.422; 192.423 192 182; 182.375 43.23 185; 185.393 189.490 95 96.9 96.9 96.9 96.9 96.9 96.9 96.9 96.9 96.9 96.9 96; 96.9 96; 96.9 41.9; 43.20 96.9 96; 96.9 96.9 96.9 154.224 44.28 44.28 5.11; 43.21; 45.39; 47.47 41.11 42.18 45.35 3.1; 11.41 43.20; 48.50 156.235 156.235 41.10 47.49 47.49 239
Iulius Paulus 4.4.24.2 4.4.49 4.5.7pr. 4.6.28.4 4.7.8.1 4.8.1
[F. 19]
4.8.11.5 4.8.23pr. 4.8.23pr.-3 4.8.23.1 4.8.23.2 4.8.23.3 4.8.32 4.8.32.7 4.8.32.9 4.8.32.14 4.8.32.16 4.8.34pr. 4.9.3pr. 4.9.3pr.-4 5.1.1 5.1.2.1 5.1.2.3-5 5.1.2.3-8 5.1.2.4 5.1.2.5 5.1.2.6 5.1.5 5.1.12.1 5.1.24pr. 5.1.24.2 5.1.49.1 5.1.55 5.2.8pr.-14 5.2.9 5.3.4
[F. 16]
5.11; 41.11; 45.39; 47.47 29.10 27; 27.1; 28 139.147 40.8 70; 71; 98; 129.109; 131; 134; 134.127; 134.129 42.17 43.23 48.50 43.23 43.23 43.23 40.7 106.19 131.117 27.1; 31; 33; 39.4 47.49 183.381 43.20 48.50 126.101 138.144; 139.148 131.117 131 131.117 131.117; 136.140 136.140; 139; 139.147 109.36; 118.72 145; 145.177 131.117 109.36 5.11; 47.47 154.224 48.50 13.1; 13.3 70; 71; 98; 117; 117.69; 127; 127.103; 131.118 51.57 44.25 48.50 42.17 43.22 47.49 127.104
5.3.8 5.3.13.3 5.3.16.2-7 5.3.16.6 5.3.25.15 5.3.36.5 5.3.41pr. 240
Fonti antiche 5.4.1.1 6.1 6.1.5pr.-2 6.1.5.1 6.1.5.2 6.1.5.3 6.1.9 6.1.23.7 6.1.72 6.2.11.5-10 6.2.11.6 6.2.11.8 6.2.11.9 6.2.11.10 7.1.4 7.1.50 7.7.1 7.9.8 8.2.26 8.3.3pr. 8.3.3pr.-3 8.3.3.1 8.3.3.2 8.3.3.3 8.3.5pr. 8.5.4.2-5 8.5.8.5 8.5.8.6 8.5.8.7 9.1.1.11 9.2.3 9.2.5pr. 9.2.5.1 9.2.27.7-12 9.2.27.9 9.2.27.11 9.2.27.12 9.2.27.15 9.2.27.16 9.2.27.17 9.2.29.4 9.2.32pr. 9.2.40
127.104 40.7 48.50 43.20 43.20 46.46 45.42 15.12 49.54 48.50 43.20 43.20 43.20 43.20 70; 71; 98; 128.107; 129.109; 131; 132 5.11; 47.47 72; 73; 98; 129.109; 137; 142; 143.166 27.1; 34; 35; 41.13 50.55 44.25 48.50 44.25 44.25 44.25 44.25 48.50 46.46 43.20 43.20 46.46 41.9 41.9 41.9 41.9 42.14 42.14 42.14 43.23 43.23 41.9 46.46 148.193 80; 81; 99; 156; 158.245; 162; 163; 163.269; 163.273; 163.274 151.208
[F. 17] [F. 24]
[F. 40]
9.2.44 241
Iulius Paulus 9.2.45pr. 9.3.5.10 9.4 9.4.2pr. 9.4.2.1 9.4.3 9.4.4
150.207; 151.208 153.217 40.7; 149; 149.201; 150.204 153.217 151; 151.209; 151.210; 153.217 95.8; 147; 147.185; 147.188; 150.202; 151 74; 75; 95.8; 99; 147; 147.185; 147.188; 147.189; 148; 149 149; 150.204 151 151; 151.211 151.211 151 95.8; 147; 147.185; 153.217 95.8; 147; 147.185 148.191 42.17 43.20 48.50 43.24 43.24 43.24 43.24 40.7 38.2; 50.55 5.11; 47.47 128; 128.105 50.55 43.20 42.17 48.50 48.50 43.20 42.19 139.146 48.50 47.49 44.25 174.327 132.120; 136.136; 144.173 177.342 50.55 5.14; 6.14; 9; 46.45; 169.301 43.22
[F. 31]
9.4.4pr. 9.4.4.1 9.4.4.2 9.4.4.2-3 9.4.4.3 9.4.5 9.4.7 9.4.31 10.2.16.5 10.2.18.2 10.2.20.3-9 10.2.20.5 10.2.20.6 10.2.20.8 10.2.20.9 10.2.25 10.2.25.7-8 10.2.46 10.2.55 10.3.28 10.4.3.13 10.4.5.1 10.4.5.1-2 10.4.7.5-7 10.4.7.6 10.4.11.1 11.4.1.5 11.6.3.2-5 11.7.3 11.7.20pr. 12.1.7 12.1.10 12.1.11.1 12.1.31.1 12.1.40 12.2.3 242
Fonti antiche 12.2.3.3 12.2.14
[F. 38]
12.2.16 12.2.34.4 12.2.42pr. 12.5.8 12.6.6pr. 12.6.26.3 12.6.26.14 12.6.39 12.6.43 13.5.15 13.6.5.3 13.6.9 13.6.17pr. 13.7.16pr. 13.7.18.1 14.2 14.2.2 14.3.5.7-9 14.3.5.8 15.1.3.13 15.1.11.2-9 15.1.11.4 15.1.11.5 15.1.11.8 15.3.5.1 15.3.7.4 16.2.9 16.2.10 16.2.11 16.3 16.3.1pr. 16.3.1.6 16.3.1.7 16.3.1.10-14 16.3.5 16.3.6
[F. 21]
43.22 78; 79; 99; 156; 161; 161.258; 161.260; 162 161.259 161.259 50.55 189.407 50.55 41.9 43.23 36; 36.35; 36.36 50.55 184.387 46.46 132.121 188.404 27; 27.1; 28; 29; 38.4 133.124 40.7 40.7 48.50 42.19 115.62 48.50 42.17 42.17 42.17 43.20 42.19 30 30 27.1; 30; 31; 33; 36; 39.4 136.136 136.137 188.404 188; 188.404 48.50 136 72; 73; 98; 129.109; 132; 135; 136; 136.136; 144.173 136 136 136 42.16; 45.37 136
16.3.7 16.3.12.2 16.3.17 16.3.19 16.3.33 243
Iulius Paulus 17.1.3.2 17.1.6.6 17.1.10.3-6 17.1.10.10 17.1.12.8 17.1.12.15 17.1.22 17.1.40 17.2.32 17.2.52.6-10 17.2.52.9 17.2.52.10 17.2.52.16 17.2.52.17 17.2.58.1 17.2.65 17.2.65.4 17.2.65.8 18.1.72 18.5.3 18.5.4 18.5.5pr. 18.5.6 19.1.11.7 19.1.11.7-13 19.1.11.8 19.1.11.9 19.1.11.10 19.1.11.11 19.1.11.12 19.1.11.13 19.1.11.15 19.1.24.1 19.1.43 19.2.13.4 19.2.15.2 19.2.19.10 19.2.31 19.2.39 19.5.20pr. 20.1.10 20.2.3 20.2.4pr. 20.2.6 20.2.9
41.13 174.329 48.50 42.19 43.24 43.24 40.7 41.13; 47.49 138.145 48.50 43.24 43.24; 174.329 44.25 44.25 43.23 40.7 47.49 45.35 186.396 186; 186.397 191; 191.417 192.423 72; 73; 98; 129.109; 137; 143; 143.167 44.25 48.50 44.25 44.25 44.25 44.25 44.25 44.25 42.17 50.55 10.38 41.10 41.10 49.54 140 132.121 143; 143.169 50.54 168.294 168.294 167.292 167.292
[F. 25]
244
Fonti antiche 20.3.5 21.1.1.10 21.1.1.11 21.1.4.6 21.1.6.1 21.1.8 21.1.10pr. 21.1.12.4 21.1.14.3 21.1.14.4 21.1.14.5 21.1.17 21.1.17pr. 21.1.17.3 21.1.17.4 21.1.17.6 21.1.17.6-16 21.1.17.7 21.1.17.8 21.1.17.9 21.1.17.10 21.1.21.1-3 21.1.21.2 21.1.21.3 21.1.30pr. 21.1.31.6 21.1.31.7 21.1.31.7-8 21.1.31.8 21.1.31.13-15 21.1.33pr. 21.1.38.7 21.1.38.9 21.1.44pr. 21.1.56 21.2.56.7 21.3.2 22.1 22.1.11 22.1.24.2 22.1.30 22.1.33 22.2 22.2.4pr. 22.2.5
184.387 45.38 45.38 43.20 45.40 45.36 45.36 45.40 45.40 44.28 44.28 45.38; 45.41 45.36 45.38 44.31; 45.38 45.41 48.50 45.41 45.41 45.41 45.41 48.50 38.2 43.20 38.2 43.20 43.22 48.50 43.22 48.50 43.20 45.36 43.20 41.11 11.41 41.11 49.54; 50.54 170.308 174.330 184.387 174; 174.330 174.330 164.276; 170; 171.312 173.319 164.276; 170; 170.309; 171; 171.309; 245
Iulius Paulus
22.2.5.1 22.2.6 22.2.7 171; 22.6.9.1-3 22.6.9.5 23.2.60.4 23.2.65 23.3.4 23.3.21 23.3.41.1 23.3.56.3 23.3.80 23.3.83 23.4.5pr. 23.4.14 23.4.15 23.4.16 23.4.17 23.4.29pr. 24.1.2 24.1.36pr. 24.1.36.1 24.1.57 24.3.49.1 26.1.10 26.1.12 26.2.30 26.5.1 26.5.3 26.5.11 26.5.15 26.5.19pr.-1 26.5.24 26.6.2.5 26.7.12.1 26.7.16 26.7.22 26.7.54 26.10.1.4 27.1.6.5 27.1.6.10 27.1.6.19
171.312; 171.315; 173.319; 173.322; 175 173.324 173.319 82; 83; 99; 163; 164; 164.276; 165; 170; 171.313; 171.315; 172; 173; 173.320; 174 35 27.1; 35; 35.33; 36; 36.36; 38.4 46.45 14.5 133.124 168.297 168.298 5.11; 47.47 168.297 168.297 190.412 187.400 187.400 187.400 187.400 187.402 5.12 47.49 47.49 166.286 15.9 144; 144.171 144.170 11.41; 15.9 145.175 144.172 144.170 72; 73; 98; 129.109; 137; 144 144.172 38.2 13.1; 13.4 27; 27.1; 28; 29; 38.4 5.12 82; 83; 99; 163; 164; 176 174.329 145.175 13.1; 13.3 13.1; 13.3 13.1
[F. 45]
[F. 26]
[F. 49]
246
Fonti antiche 27.1.13.2 27.1.19 27.1.32 27.3.1.2 27.6.6 27.8.1pr. 27.8.1.10 27.8.1.17 27.8.2 27.8.6 27.9.1.2 27.9.13.1 28.2.19 28.5.23.3 28.6.38.3 29.2.56 29.2.97 29.4.6pr.-2 29.4.24.1 29.5.1.27 29.5.18 29.6.1.1 31.83 31.87.3 32.11.15 32.78.6 33.4.16 33.7.18.4 33.7.18.13 33.9.4.4 34.2.32.3 34.2.32.7 34.2.34pr. 34.3.7.2 34.5.12(13) 35.1.24 35.1.81pr. 35.1.102 35.2.1.9 35.2.22pr. 35.2.36.4 35.2.46 35.3.9 36.1.44(43) 36.1.64(62).1
13.1; 13.3 13.3; 15.9 3.1; 5.11; 11.41; 47.47 176.341 47.49 144.172 38.2 115.62 144.172 107.28; 115.61; 124.93 28.6 46.45 5.11; 47.47 50.55 5.11; 47.47 45.37 46.45 48.50 41.13 41.10 13.1; 13.4 50.54 11.41 6; 6.19 174.129 5; 5.13 5.11; 47.47 5.11; 47.47 5.11; 47.47 119.78 5.11; 47.47 5.11; 47.47 140 190.413 50.54 50.54 3.1; 11.41 18.20; 19.25 15.9 3.1; 11.41 5.12; 21.31 50.54 35; 35.30 43.24 174.329 247
Iulius Paulus 37.4.13.3 37.5.15pr. 37.6.2 37.6.2.2 37.8.1pr. 37.8.1.9 37.10.1.9 37.10.3.7-13 37.11.10 37.14.17 37.15.7.3-4 38.1.9pr. 38.2.10.1 38.6.5pr. 38.12.1 38.13.1 38.17.2.23 39.1.2 39.1.21.5-7 39.1.21.6 39.1.21.7 39.2 39.2.1 39.2.4 39.2.4.3-4 39.2.4.4 39.2.4.5 39.2.5 39.2.5.1 39.2.5.2 39.2.9.2 39.2.9.3 39.2.13.14 39.2.15.32-35 39.2.18 39.2.24.2-5 39.2.24.9 39.2.24.10 39.3.1.3 39.3.1.4 39.3.1.6 39.3.1.8 39.3.1.9 39.3.1.10 39.3.1.11
49.54 41.13 40.7 41.13 50.54 49.54 43.20 48.50 5.11; 47.47 14.6 161.259 142.164 42.17 49.54 13.2; 13.3 50.54 144.172 49.54 48.50 43.19 43.19 114; 114.54 114.55 112.48 114.57 116 112 68; 69; 98; 113; 114 114; 115.59 115; 115.60 46.46 49.54 161.259 48.50 40.7 48.50 45.38 45.38 46.46 46.46 44.32 44.27; 44.30 44.27 44.27; 44.30 44.27; 44.30
[F. 8]
248
Fonti antiche 39.3.1.22 39.3.1.23 39.3.2 39.3.2.4 39.3.2.5 39.3.2.10 39.5.2.3-4 39.5.20.1 39.6.13.1 39.6.35.4 40.2.17 40.5.6 40.5.23.2 40.8.9 40.12.10 40.12.23pr. 40.12.24.3 40.13.4 41.1.44 41.2 41.2.1 41.2.1.16 41.2.1.22 41.2.3 41.2.3.3 41.2.3.5 41.2.3.18 41.2.3.23 41.2.7 41.3 41.3.4 41.3.4.1 41.3.4.21 41.4 41.4.2 41.4.2.4 41.4.2.9 41.4.2.20 42.1.4.8 42.5.6.2 42.5.12pr. 42.7.1.2 43.1 43.1.1 43.1.2
43.19 43.19 40.7 47.49 45.35 47.49 49.54 50.54 50.55 50.55 146.178 41.13 30.12 11.41 46.46 46.46 41.13 3.1; 11.41 43.20 40.7 40.7 41.13 41.13 40.7 47.49 47.49 41.13 46.46 47.49 40.7 40.7 30.12 47.49 40.7 40.7 41.13 41.13 27.1; 33; 34; 34.27 49.54 5.11; 45.39 47.49; 184.387 50.55 40.7; 189.410 189.410 189.410 249
Iulius Paulus 43.3.2.1 43.8.2.15 43.8.2.28 43.8.2.29 43.14.1.8 43.14.1.9 43.16.1.32 43.20.1.19 43.20.1.20 43.24.1.5 43.24.1.9-11 43.24.1.11 43.24.5.3 43.24.5.4 43.24.5.6 43.24.5.8 43.24.5.9 43.24.5.10 43.24.7.2-3 43.24.7.4 43.24.13.2 43.25.1.4 43.26.2.2 43.26.19.2 43.32.1 43.33.1.1 44.1.20 44.2.1 44.2.2 44.2.11.3 44.2.30.1 44.4.2.5 44.4.4.26 44.4.4.29-31 44.4.4.32 44.4.7pr.-1 44.7 44.7.15 44.7.29 44.7.35 44.7.35pr. 44.7.35.1 44.7.36 44.7.37 44.7.38
40.8 43.19 45.43 45.43 45.33 45.33 42.17 45.34 45.34 46.46; 189.410 48.50 43.19 44.32 44.32 44.32 46.46 46.46 43.19 48.50 44.32 43.19 49.54 50.54 50.54 168.293 50.54 175.333 132.120 49.54 38.2; 49.54; 50.54; 50.55 11.41 175.333 42.17 48.50 49.54 49.54 156; 165; 165.281 49.54 167.290 64; 65; 97; 103 104.14; 105 105 132.120; 144.173 156.234 80; 81; 99; 163; 164; 164.276; 165
[F. 2]
[F. 41] 250
Fonti antiche 44.7.48 45.1.2pr. 45.1.58 45.1.67 45.1.68 45.1.76.1 45.1.80 45.1.81pr. 45.1.83 45.1.83.5 45.1.89 45.1.125 45.1.126.2 45.1.134 45.1.134.1 45.1.134.2 45.3.16 45.3.26 46.1.70.2 46.2.20.1 46.2.31.1 46.3.13 46.3.49 46.3.50 46.3.69 46.3.87 46.3.95.12 46.3.98.8 46.4.8pr. 46.4.15 46.4.19pr. 46.6.8 46.8.8.2 46.8.12.2 47.2.32 47.2.92(91) 47.6.1pr. 47.6.1.2 47.9.4.1 47.9.8 47.9.12pr. 47.10.1pr. 47.10.15.30 47.10.17.18-22 47.10.17.20
168.296 133.126 191.420 131.119 70; 71; 98; 129.109; 131; 133; 134; 134.127 154.225 50.54 134.127 40.7 170.307 154.225 154.225 184.387 15.11 169.301 166.286 88; 192.424; 192.425 15.9 191.420 176.340 183.383 49.54 192.423 191.418 49.54 50.55 186.397 170.307 192.423 190.413 192.423 144; 144.171 135.134 49.54 163.270 150.207 148.191 148.193 27.1; 31; 32; 33; 33.23; 39.4 49.54 33; 33.24 186.395 43.24 48.50 42.17
[F. 18]
251
Iulius Paulus 47.10.17.22 47.10.34 47.12.1 47.12.2 47.23 47.23.2 47.23.3 47.23.3.1 47.23.4 47.23.8 48.1.2 48.6.10.1 48.7.1.2 48.7.2 48.8.10 48.19.20 49.1.25 49.3.1.1 49.4.1.5 49.4.2.3 49.14.21 49.14.50 49.16.13.5 50.1.25 50.1.25-29 50.1.26
[F. 13]
50.1.27 50.1.28
[F. 15]
50.1.29 50.4.3.5 50.8.8(6) 50.8.9(7) 50.15.1pr. 50.15.1.4 50.15.8 50.15.8.6 50.16 50.16.1-4 50.16.2
42.17 148.193 132.120; 144.173 43.23 149 66; 67; 97; 105; 105.18; 117.69 105; 105.18 105.17 74; 75; 99; 147; 147.189; 149 105; 105.18 51.57 50.54 27.1; 32; 32.21 50.54 41.9 189.408 6; 6.17 145.177 163.269 13.2; 13.3 5.12 46.45 13.2; 13.3 107; 124.93 107; 116; 123 70; 71; 97; 98; 107; 107.24; 113.53; 116; 116.65; 116.66; 117.67; 123; 123.91; 124; 124.92; 124.93; 125; 125.96; 125.97 107 70; 71; 97; 98; 106; 106.20; 106.23; 107; 107.24; 116; 116.65; 117.67; 123; 123.91; 124; 124.92; 124.93; 126; 126.101; 131.118; 139.148 117.67; 124.92 115.62 107.28; 124.93 68; 69; 98; 115; 115.62 4.5 38.2 4.5 38.2 94; 95.7; 154; 155; 155.230 106; 116 68; 69; 97; 98; 106; 106.22; 116; 117; 117.69; 119; 119.75; 120;
[F. 3] [F. 30]
[F. 9]
[F. 10]
252
Fonti antiche 50.16.2-4 50.16.2pr. 50.16.2.1 50.16.2.3 50.16.3 50.16.4 50.16.4-6 50.16.4.1 50.16.5 50.16.5pr. 50.16.5.1 50.16.6 50.16.6pr. 50.16.6.1 50.16.7 141; 50.16.8pr. 50.16.8.1 50.16.19 50.16.25pr. 50.16.25.1 50.16.77 50.16.87 50.16.178pr. 50.16.222 50.17 50.17.23 50.17.50 50.17.73.2 50.17.73.4 50.17.102-106 50.17.103 50.17.103-106 50.17.104 50.17.105 50.17.106
118 98; 119; 119.77; 120.80 98; 119.75; 120; 120.82 106 106.22; 116; 119; 119.76; 120 68; 69; 98; 106; 106.20; 106.21; 116; 117; 117.69; 119.75; 120; 120.83; 121.84; 130; 130.112; 137.141; 139; 139.150; 140; 140.151 137.141 140 72; 73; 98; 130; 137; 137.141; 139; 141.158 98; 121.84; 129; 129.109; 130.112; 134.127; 137.141; 140; 141.158; 141.159 98; 129.109; 137.141; 141.156; 141.158 130; 130.113; 137.141 121.84; 140.151 130.113; 138.144 72; 73; 98; 129.109; 136.136; 137; 137.141; 142.161; 142.162 76; 77; 99; 153; 154; 155 76; 77; 99; 153; 154; 155; 156 137; 137.142; 138.143; 142; 166.288 47.49; 133; 133.123 46.46 45.35 119.78 140.152 140.152 94; 95.7; 116.64; 155 188; 188.404 150.207; 151.208 189.410 178.348 107; 116; 116.64 66; 67; 97; 98; 107; 110 123 116; 116.64; 132.120; 144.173 70; 71; 98; 107; 107.25; 116; 116.63; 116.64; 117; 117.67; 123; 123.91; 124; 124.92; 124.93; 125; 132.120 72; 73; 98; 129.109; 132; 135; 136.136; 144.173 135.134 47.49; 51.57 50.54
[F. 11]
[F. 22]
[F. 23] [F. 33] [F. 34]
[F. 7b] [F. 14] [F. 20]
50.17.122 50.17.124 50.17.161 253
Iulius Paulus Codex Iustinianus Cost. Cordi §3
25.44
1.2.22 1.14.12 1.17.1.6 2.3.10 2.18(19).24.1 2.55(56).4 2.55(56).5 2.55(56).5.3(1) 3.1.14.1 3.28.25 3.28.33 3.28.33.1 3.28.35.1 3.28.36 3.28.36.2 3.33.15.1 3.33.17pr. 3.34.14pr. 3.42.5 4.5.10 4.5.10pr.-1 4.5.10.1 4.5.10.1-2 4.32 4.32.11(12) 4.32.23 4.32.26.2 4.33.2(1) 4.33.4(3) 4.65.1 4.65.4 4.65.4.1 5.4.6 5.4.25 5.4.25.2 5.4.28 5.13 5.13.1 5.70.7.1a 5.71.14 5.75.5
19.24 19.24 14.8 170.306 20.28 170.306 19; 19.26; 170.306 3.1; 19; 19.25; 25.42; 40.9 134.129 18.21; 18.22 18 3.1; 17.20; 18; 18.21; 20.27; 25.42 20.28 25.44 20.28 20.28 20.28 20.28 14.6 25.44 41.9 42.14; 43.22; 43.23 20.28 170.308 171.311; 175.331 171.311 171.313 173.319 170.308 15.10 7; 9 14.6 14.5 25.44 20.28 25.44 187.401 187.399 20.28 14.6 144.172 254
Fonti antiche 6.2.22.3a 6.22.10.3 6.24.14 6.24.14pr. 6.25.7(6) 6.25.7(6).1 6.25.9(8).1 6.25.10(9) 6.25.10(9)pr.-1 6.26.10 6.26.11 6.26.11pr. 6.27.5 6.28.4 6.28.4.3 6.28.4.3-5 6.29.3.1 6.30.19 6.30.19pr. 6.37.12 6.40.3 6.40.3.2 6.42.16pr. 6.42.30 6.46.7(6) 6.46.7(6)pr. 6.49.7 6.49.7.1b 6.51.1 6.58.14 6.58.14pr.-1 6.58.14.1 6.61.5.1 7.2.15 7.7.1 7.7.1pr. 7.7.1.1-1a 7.7.1.1a 7.7.1b(1) 7.17.1 7.32.3 7.32.12pr. 7.45.13 7.45.14 7.57.1
20.28 20.28 25.44 20.28 19.25 19.25; 20.27 20.28 25.44 20.28 20.28 25.44 20.28 24 23.36; 25.44 20.28 41.9 20.28 18; 19.24 3.1; 17.20; 18; 18.23; 19.24 14.6 25.44 20.28 14.6 18.20; 19.24; 19.25 25.44 20.28 25.44 20.28 25.44 23 23.36 3.1; 20.28; 25.42 16.13 25.44 20; 21.31; 25.44 20; 20.29 21.30 20.28; 21.30; 24; 25.42 20.29 150.206 14.6 20.28 19.24 18.20; 19.24 174.329 255
Iulius Paulus 8.14(15).7 8.35(36).6 8.37(38).1 8.37(38).4 8.37(38).10 8.37(38).14 8.40(41).27 8.47(48).10pr. 8.47(48).10.1a 8.47(48).10.1a-1b 8.53(54).1 9.8.5 9.8.6pr.-1 9.22.11 9.41.11.1 9.51.13 pr. 11.48(47).20
168 175.333 165.284; 166.287 7; 9; 14.6; 189.407 166.287 166.287 110.39 19.26; 20.28; 21; 22.32; 22.34; 25.42 20.28 22.34 170.306 16.13 16.13 14.5 14.6 14.8; 16.13 19.24
Novellae Iustiniani 4.1 22.43 74 praef. 87 praef. 97.6.1 108 praef. 108.1 108.2
24.41 24.41 24.41 24.41 24.41 24.41 24.41 24.41
Constantinus Harmenopulus Manuale legum sive hexabiblos cum appendicibus et legibus agrariis (Heimbach) sch. ἐν τῷ ad App., II, 55 188.404 Eutropius Breviarium ab urbe condita 8.23
6.20; 8.30; 9.35
Fragmenta Argentoratensia IIb verso
115.61
256
Fonti antiche Fragmenta Vaticana 1 45 46-54 50 55 56-58 68 69 94 95-107 108-112 114-118 120 159 227 229 230 231 237 243 244 245 246 247 266 298-309 306 307 310-311 318 319 320-321 321 322-324 340b 341
15.9 15.9 15.9 170.307 15.9 15.9 15.9 15.9 15.9 15.9 15.9 15.9 41.9; 42.14 38.2 11.41; 15.9 15.9 15.9 15.9 15.9 15.9 13.3; 15.9 15.9 15.9; 38.2 15.9 41.9; 41.10; 44.27; 44.31 15.9; 40.9 42.14 42.14 15.9 40.9 15.9; 16.16; 40.9 15.9; 40.9; 41.10 42.14 15.9; 41.9 41.9 15.9; 41.9; 41.10
Gaius Institutiones 3.124 4.46
140.152 108.32; 108.33; 109.37; 110; 110.39
257
Iulius Paulus 4.110-111 4.119 4.171 4.183 4.185
104.12 167.291 141.160 108; 108.33 132.121
Gellius (Aulus) Noctes Atticae 7.6.12 13.18.2
33.23 33.23
Herodianus Ab excessu divi Marci 5.6.1
[T. 3]
8; 60
Historia Augusta, vedi Scriptores Historiae Augustae Interpretatio Codicis Theodosiani 3.13.2
16.15
Interpretatio Pauli Sententiarum 1.1.2
185.391
Isidorus Etymologiae sive Origines 5.24.30 15.2.10
[T. 10]
3.1; 62 135.135
Lex duodecim tabularum VIII.2 (= I.13 RS)
177.344
Pauli Sententiae 1.1.2 2.12.3-4
185.391 136.137 258
Fonti antiche 2.14.1 2.14.1-3 2.14.3 5.1.1 5.7.1 5.7.2 5.21.2
177.343 171; 171.132 173.319; 174.328 135.134; 184.387 62.5 166.287 8.27
Plinius Minor Epistulae 2.9
33.23
Probus De notis iuris fragmenta 6.20 6.63
119.79 126.100
Rhetorica ad Herennium 2.13.19
183.377
Scholia Sinaitica 2 8 11 12 13
15.11 15.11 15.11 15.11 15.11; 41.9
Scriptores Historiae Augustae Vita Alexandri Severi 26.5 26.5-6 26.6 27.1-2 68.1
[T. 6] [T. 6] [T. 6] [T. 7] [T. 8]
6; 8 3; 8; 8.30; 61 5.14; 8 3; 10; 61 3; 3.1; 6.15; 6.16; 61
Vita Pescennii Nigri 7.1
9.31 259
Iulius Paulus 7.2 7.3-4 7.4
9.31 3; 8; 60 3; 5.14; 6; 6.14; 9.33
[T. 5] [T. 5]
Spicilegium Solesmense (Pitra) Fr. Ulp. 6 ad ed.
40.9
Theophilus Institutionum paraphrasis (Lokin – Meijering – Stolte – van der Wal) 2.14pr. 24.40 3.13pr. 165.281 Victor Sextus Aurelius Liber de Caesaribus 24.6
[T. 4]
3; 6; 6.15; 7; 8.30; 60
Zosimus Historia Nova 1.11.2
7.23
EPIGRAFI CIL = Corpus Inscriptionum Latinarum VI 228 X 4554 (= ILS 477) XI 3587
5.14 7.24 4.3
Fragmentum Atestinum ll. 1-4 ll. 4-6 l. 6 ss.
135.135 127; 127.102 124.94
ILS = Inscriptiones Latinae Selectae (Dessau) 477, vedi CIL 260
Fonti antiche IGR = Inscriptiones Graecae ad res Romanas pertinentes (Lafaye) IV 1281 6.16 Lex Irnitana 19 29 48 49 49, ll. 36-37 49, ll. 37-40 49, ll. 40-42 66, l.10 84 84, l. 1 84, ll. 1-6 84, ll. 4-6 84, ll. 6-16 84, ll. 8-9 84, ll. 9-16 84, ll. 17-18 84, ll. 18-20 84, ll. 20-23 85, ll. 36-37 86, ll. 22-23
102.5; 109.35 144.172 103.7 112; 122; 122.87 122.88 123.89 122.87; 122.88 109.35 103.6; 125.97; 127.102 121.84 124.94 124.94 124; 124.95; 127.102; 142.163 135.133 135.135 126.101; 127; 127.102 127.102 118.73; 130.114 120 120
Lex Rubria de Gallia Cisalpina 20 20-23 21 21, ll. 1-6 21, ll. 18-19 21, ll. 21-24 22, ll. 27-28
125.97 124.95; 142.163 125.97 124.94 124.94 118.73; 126.100 141; 141.159
Lex Ursonensis sive Coloniae Genetivae Iuliae c. 109
144.172
Tabulae Herculanenses (Camodeca) D13 88+58
144.172 144.172
261
Iulius Paulus PAPIRI Fragmentum Berolinense de iudiciis 1-3
41.9; 41.10
Fragmentum Vindobonense de formula Fabiana 17.18 P. Ant. I, 22, col. II, recto 10-col. II, verso 27
41.10; 42.14; 43.20; 46.46
P. Berl. 11753+21294 16976 verso 36
17.18 17.18
P. Grenf. II 107 (= Pauli ex lib. XXXII ad edictum frag. Bodl.) recto 17.18; 41.11; 42.14; 42.18; 44.26 verso 17.18; 41.11; 42.14; 42.18 P. Haun. leg. fdc. (Nasti) 58-60
17.18
P. Laur. II 38 lato A 3 II 38 lato B 13
17.18 17.18
P. Oxy. XVII 2104 XXXI 2565 XLIII 3106
6.17 10.40 6.17
PSI 1348 p. 3 recto 27-28 1348 p. 3 recto 33-34 1348 p. 4 verso 3-9 1349 verso 1449 recto 1-9 1449 verso 1-13
17.18 17.18 17.18 17.18 41.10 41.10; 42.14; 43.20 262
Finito di stampare nel mese di dicembre 2018 per conto de «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER tipografia CSC Grafica s.r.l. via A. Meucci, 28 00012 - Guidonia - Roma