Italianos en México. Arquitectos, ingenieros, artistas entre los siglos XIX y XX 9788825519853

Edited by Martín M. Checa-Artasu and Olimpia Niglio

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Spanish Pages [470] Year 2019

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Italianos en México. Arquitectos, ingenieros, artistas entre los siglos XIX y XX
 9788825519853

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esempi di architettura Spazi di riflessione 53

Direttore Olimpia Niglio Kyoto University, Japan

Comitato scientifico Roberto Goycoolea Prado Universidad de Alacalà,Madrid, España

Taisuke Kuroda Kanto Gakuin University, Yokohama, Japan

Rubén Hernández Molina Universidad Nacional, Bogotá, Colombia

Giovanni Multari Università degli Studi di Napoi Federico II

Alberto Parducci Università degli Studi di Perugia

Massimiliano Savorra Università degli Studi del Molise

Cesare Sposito Università degli Studi di Palermo

Karin Templin University of Cambridge, Cambridge, UK

Comitato di redazione Giuseppe de Giovanni Università degli Studi di Palermo

Marzia Marandola Sapienza Università di Roma

Mabel Matamoros Tuma Instituto Superior Politécnico José a. Echeverría, La Habana, Cuba

Alessio Pipinato Università degli Studi di Padova

Bruno Pelucca Università degli Studi di Firenze

Chiara Visentin Università IUAV di Venezia

EdA – Collana editoriale internazionale con obbligo del Peer review (SSD A08 – Ingegneria Civile e Architettura), in ottemperanza alle direttive del Consiglio Universitario Nazionale (CUN), dell’Agenzia Nazionale del sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) e della Valutazione Qualità della Ricerca (VQR). Peer Review per conto della Direzione o di un membro della Redazione e di un Esperto Esterno (clear peer review).

esempi di architettura La collana editoriale Esempi di Architettura nasce per divulgare pubblicazioni scientifiche edite dal mondo universitario e dai centri di ricerca, che focalizzino l’attenzione sulla lettura critica dei proget­ti. Si vuole così creare un luogo per un dibattito culturale su argomenti interdisciplinari con la finalità di approfondire tematiche attinenti a differenti ambiti di studio che vadano dalla storia, al restauro, alla progettazione architettonica e strutturale, all’analisi tecnologica, al paesaggio e alla città. Le finalità scientifiche e culturali del progetto EDA trovano le ragioni nel pensiero di Werner Heisenberg Premio Nobel per la Fisica nel 1932. … È probabilmente vero, in linea di massima, che nella storia del pensiero umano gli sviluppi più fruttuosi si verificano spesso nei punti d’interferenza tra diverse linee di pensiero. Queste linee possono avere le loro radici in parti assolutamente diverse della cultura umana, in diversi tempi ed in ambienti culturali diversi o di diverse tradizioni religiose; perciò, se esse veramente si incontrano, cioè, se vengono a trovarsi in rapporti sufficientemente stretti da dare origine ad un’effettiva interazione, si può allora sperare che possano seguire nuovi ed interessanti sviluppi.

Spazi di riflessione La sezione Spazi di rif lessione della collana EdA, Esempi di Architettura, si propone di contribuire alla conoscenza e alla diffusione, attraverso un costruttivo confronto di idee e di esperienze, di attività di ricerca interdisciplinari svolte in ambito sia nazionale che internazionale. La collana, con particolare attenzione ai temi della conservazione del patrimonio costruito nonché dell’evoluzione del processo costruttivo anche in ambito ingegneristico, è finalizzata ad approfondire temi teorici e metodologici propri della progettazione, a conoscere i protagonisti promotori di percorsi evolutivi nonché ad accogliere testimonianze operative e di attualità in grado di apportare validi contributi scientifici. Le attività di ricerca accolte nella collana EdA e nella sezione Spazi di riflessione possono essere in lingua straniera.

Italianos en México Arquitectos, ingenieros, artistas entre los siglos XIX y XX Editado por

Martín Manuel Checa–Artasu Olimpia Niglio Presentación

Luigi Maccotta

aracne editrice www.aracneeditrice.it [email protected] copyright © mmXiX Gioacchino Onorati editore s.r.l. – unipersonale www.gioacchinoonoratieditore.it [email protected] via Vittorio Veneto, 20 00020 canterano (rm) (06) 45551463 isbn 978–88–255–1985–3 Reservados todos los derechos internacionales de traducción, digitalización, reproducción y transmisión de la obra en parte o en su totalidad en cualquier medio, formato y soporte. No se permiten las fotocopias sin autorización por escrito del editor. i edición: enero 2019

ÍNDICE

PRESENTAZIONE | PRESENTACIÓN Luigi Maccotta embajador de Italia en México

INTRODUCCIÓN 19 Italianos en México Arquitectos, ingenieros, artistas entre los siglos XIX y XX Martín M. Checa-Artasu, Olimpia Niglio

INGENIEROS Y ARQUITECTOS 33 L’ingegnere Adamo Boari “un italiano bollente” Fausto Giovannardi

65 Adamo Boari y sus proyectos de arquitectura civil en la Ciudad de México (1901- 1916) Martín M. Checa-Artasu, Francisco Javier Navarro Jiménez

83 Adamo Boari y sus proyectos de arquitectura religiosa en México (1897-1902) Martín M. Checa-Artasu

107 Adrián Giombini Montanari La obra religiosa de un arquitecto italiano en México Carmen Alicia Davila

139 Pedro Gualdi en México y el papel de los italianos en el ámbito cultural de la primera mitad del siglo XIX. 1836-1851 José Arturo Aguilar Ochoa

159 Francesco Saverio Cavallari (1810-1896) Architetto, archeologo, professore e disegnatore Gabriella Cianciolo Cosentino

177 Del Complejo Hidroeléctrico de Necaxa al Edificio Excelsior La obra del arquitecto Silvio Contri en México, 1892-1924 Francisco J. Navarro Jiménez

201 El teatro José Peón Contreras en Mérida Yucatán, obra de italianos Marco Tulio Peraza Guzmán

221 Enzo Levi y el nudo gordiano Liliana López Levi

249 Bruno Cadore Marcolongo Formador de arquitectos y hacedor de arquitectura Luís Alberto Mendoza Pérez

269 Olivetti in Messico. Ovvero la qualità come sistema Alessandro Colombo, Pier Paolo Peruccio

ARTISTAS Y PROFESIONALES 285 Claudio Linati y México (1825-1832) Montserrat Galí Boadella

321 Un pittore italiano in Messico. Il paesaggismo di Eugenio Landesio (1855-1877) Olimpia Niglio

343 Adolfo Octavio Ponzanelli (1879-1952). Medio siglo de escultura en México Martín M. Checa-Artasu

357 Humberto Pedretti, Mateo Mattei y Guido Ginesi Un escultor y dos arquitectos italianos en México Martín M. Checa-Artasu

383 Tina Modotti en México: vida y mirada fotográfica Patricia Massé Zendejas

RESEÑA SOBRE CUATRO ARTISTAS ITALIANOS EN MÉXICO 407 Pedro Friedeberg, artista surrealista Alejandro Sordo

431 Cesare Augusto Volpi Jorge Volpi Escalante

433 Unas notas sobre Augusto Cesar Volpi Escultor y marmolista italiano en México Martín Manuel Checa Artasu

449 Escultor italiano que dejó huella Vicente Gusmeri Capra Helia García Pérez (†)

455 Autores

Ciudad de México. Palacio de Bellas Artes diseñado por el arquitecto italiano Adamo Boari. Detalle del tímpano central y de la cubierta. Autor: Olimpia Niglio, 2016

Ciudad de México. Detalle del grupo escultórico realizado por Alessandro Lazzerini. Benito Juárez junto a las alegorías La Patria y la Ley. Autor: Martín Checa-Artasu, noviembre 2018.

PRESENTAZIONE LUIGI MACCOTTA

Il libro che ho il piacere di presentare ai lettori messicani, curato da Olimpia Niglio, storica dell’architettura, e dal geografo spagnolo Martín M. Checa-Artasu, ci permette di conoscere un aspetto significativo della storia civile e culturale del Messico moderno. Si tratta del capitolo scritto da alcuni nostri concittadini che, in ordine sparso, decisero di lasciare l’Italia, trovando nel Messico una seconda patria che avrebbe permesso loro di esprimere pienamente talento e professionalità. La storia della presenza italiana in Messico è apparsa fino a oggi come un paragrafo minore del grande libro dell’emigrazione italiana nel mondo. Per quanto riguarda il continente americano, gli storici dell’emigrazione hanno naturalmente rivolto la loro attenzione allo studio degli imponenti flussi che dalla fine dell’Ottocento all’immediato secondo dopoguerra si sono riversati verso le nazioni rioplatensi, il Brasile e gli Stati Uniti. A eccezione di alcuni gruppi provenienti dall’Italia settentrionale – peraltro ampiamente studiati - che durante l’epoca porfiriana vi si insediarono per fondarvi alcune colonie agricole, il Messico non rappresentò una meta capace di attirare le masse contadine che abbandonavano la penisola in cerca di un futuro migliore. Questo libro ha il merito di farci conoscere un aspetto inedito, finora poco o per nulla considerato, della presenza italiana in Messico: quello di un’emigrazione individuale e qualificata, poco significativa in termini quantitativi, ma capace di lasciare nel paese d’approdo tracce tangibili nell’architettura, nell’ingegneria, nella scienza, nelle arti, nella vita culturale in genere. Quest’opera collettiva riunisce una serie di saggi di studiosi italiani e messicani che fanno emergere dall’anonimato profili e biografie di italiani che scelsero il Messico come terra d’elezione per la realizzazione delle loro capacità professionali e artistiche: dai pittori della prima metà del XIX secolo agli ingegneri, architetti, e scultori della prima metà del Novecento; da Adamo Boari - forse il più noto, legato com’è alla costruzione del Palacio Nacional de Bellas Artes e ad altri importanti edifici civili e religiosi sparsi nel territorio messicano – all’accademico Enzo Levi, passando per una nutrita schiera di architetti, scultori, marmisti e fotografi, quest’ultima arte attestata dall’intensa e appassionata vicenda messicana di Tina Modotti. Nell’introduzione al volume, si osserva giustamente che, se altri paesi europei nei circa cento anni presi in esame dagli autori riuscirono a conquistare posizioni significative nell’economia e nel commercio, l’Italia fu particolarmente apprezzata dai messicani per la forza culturale e la sensibilità artistica.

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LUIGI MACCOTTA

Posso aggiungere che, in base alla mia esperienza diplomatica in Messico, lo spessore della cultura italiana, oltre che dai singoli italiani che scelsero di vivere in questo paese, è misurabile anche da quell’influenza “a distanza” che da tempo essa esercita nell’università messicana in alcuni ambiti disciplinari, si pensi all’Architettura e al Design, al Diritto e alla Scienza politica. La realtà di questa affinità intellettuale e sentimentale, nutrita dalle radici umanistiche di entrambe le nazioni, è ancora viva e di questo, nella missione diplomatica che sto svolgendo in Messico, ho avuto e continuo ad avere continui riscontri. Certamente gli ultimi decenni, che il libro non prende in esame, sono stati caratterizzati in Messico da una grande apertura al resto del mondo che, rendendo ancora più intensi gli scambi umani e culturali con l’Italia, ha anche favorito la crescita esponenziale delle relazioni economiche e commerciali. Oggi, a fianco di un nutrito gruppo di artisti, letterati, accademici e ricercatori (si è da poco costituita l’Associazione Ricercatori Italiani in Messico, ARIM), sta maturando una presenza sempre più consistente del nostro tessuto imprenditoriale (turismo ed enogastronomia, design, meccanica, industria aerospaziale, produzione di energia sostenibile, automotive, ecc.) con più di 150 stabilimenti produttivi di imprese italiane, che trovano in Messico il terreno fertile dove affermare il “Made in Italy” non solo nei settori delle arti e della cultura, ma anche dell’economia e della manifattura. La presenza italiana in Messico è oggi sempre più articolata e capillare e, come nel passato, è caratterizzata da talento, iniziativa individuale, ambizione all’eccellenza, rispetto e amicizia per il paese che la accoglie. L’opera che qui presento ha il pregio di mostrarne le origini, incarnate dai pionieri che nel XIX e XX secolo contribuirono a disegnare quel paesaggio urbano e culturale di cui il lettore messicano potrà oggi trovare tante tracce, disseminate anche nella sua vita quotidiana.

Luigi Maccotta, ambasciatore d’Italia in Messico Città del Messico, 12 dicembre 2018

PRESENTACIÓN LUIGI MACCOTTA

El libro que tengo el placer de presentar a los lectores mexicanos, editado por Olimpia Niglio, historiadora de la arquitectura y por el geógrafo español Martín M. Checa-Artasu, nos permite conocer un aspecto significativo de la historia civil y cultural del México moderno. Se trata del capítulo escrito por algunos de nuestros conciudadanos que decidieron abandonar Italia, encontrando en México una segunda patria que les permitiría expresar plenamente su talento y profesionalismo. La historia de la presencia italiana en México ha sido hasta hoy, un párrafo menor en el gran libro de la emigración italiana en el mundo. Por lo que se refiere al continente americano, los historiadores de la emigración han prestado atención al estudio de los importantes flujos que desde el final del siglo XIX hasta la Segunda Guerra Mundial llegaron sobre todo a Brasil y a Estados Unidos. A excepción de algunos grupos del norte de Italia, ampliamente estudiados, que durante el período porfiriano establecieron algunas colonias agrícolas, México no representaba un destino capaz de atraer a las masas campesinas que abandonaban la península italiana en busca de un futuro mejor. Este libro tiene el mérito de hacernos conocer un aspecto, hasta ahora escasamente considerado: el de la presencia italiana en México a través de una migración individual y cualificada, insignificante en términos cuantitativos, pero capaz de dejar en el país trazas tangibles en la arquitectura, en la ingeniería, en la ciencia, en las artes y en la vida cultural en general. Esta obra colectiva reúne una serie de ensayos de académicos italianos, mexicanos y españoles que sacan del anonimato los perfiles y las biografías de italianos que eligieron a México como el país para desarrollar sus capacidades profesionales y artísticas: desde los pintores de la primera mitad del siglo XIX hasta los ingenieros, arquitectos, y escultores de la primera mitad del siglo XX; desde Adamo Boari -tal vez el más conocido por la construcción del Palacio de Bellas Artes y otros importantes edificios civiles y religiosos dispersos en el territorio mexicano- hasta el ingeniero Enzo Levi, uno de los introductores de la hidráulica moderna en México, pasando por una gran variedad de arquitectos, escultores, trabajadores de mármol y fotógrafos, representado en este libro, por la intensa y apasionada trayectoria mexicana de Tina Modotti. En la introducción al volumen, se observa con razón que, si bien otros países europeos en los cien años considerados por los autores lograron obtener posiciones 15

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LUIGI MACCOTTA

significativas en la economía y el comercio, en el caso de Italia, los mexicanos apreciaron especialmente su cultura y su sensibilidad artística. Puedo añadir que, sobre la base de mi experiencia diplomática en México, el valor de la cultura italiana, a parte de por los italianos que eligieron vivir en este país, también es mesurable por la influencia, “a distancia”, que se ha ejercido durante mucho tiempo en las universidades mexicanas en algunas disciplinas como la arquitectura, el diseño, el derecho o las ciencias políticas. La realidad de esta afinidad intelectual y sentimental, favorecida por las raíces humanísticas de ambas naciones, sigue viva y en la misión diplomática que estoy haciendo en México, ha tenido y sigue teniendo retroalimentación continuadamente. Ciertamente, las últimas décadas, que el libro no toma en consideración, se han caracterizado en México por una gran apertura al resto del mundo que, al hacer intercambios humanos y culturales aún más intensos con Italia, también ha favorecido el crecimiento exponencial de relaciones económicas y comerciales. Hoy, junto a un gran grupo de artistas, literatos, académicos e investigadores (recientemente se ha constituido la Asociación de Investigadores Italianos en México, ARIM), se está fortaleciendo una presencia cada vez más consistente de nuestro tejido emprendedor (turismo y enogastronomía, diseño, mecánica, industria aeroespacial, producción de energía sostenible, automoción, etc.) con más de 150 plantas de producción de empresas italianas, que encuentran en México el terreno fértil donde afirmar el “Made in Italy” no sólo en los sectores de las artes y la cultura, sino también en la economía y la fabricación. La presencia italiana en México, hoy en día, es cada vez más articulada y extendida y, como en el pasado, se caracteriza por el talento, la iniciativa individual, la ambición a la excelencia, el respeto y la amistad para el país que la acoge. El trabajo que presento aquí tiene el mérito de mostrar sus orígenes, encarnados por los pioneros que en el siglo XIX y XX ayudaron a diseñar el paisaje urbano y cultural sobre el que el lector mexicano puede ahora encontrar muchas huellas, dispersas incluso en su vida cuotidiana.

Luigi Maccotta, embajador de Italia en México Ciudad de México, 12 de diciembre de 2018

Puebla. Monumento a los exalumnos de la escuela de aviación 5 de mayo de Puebla. Inaugurado en 1 de diciembre de 1943 en la ciudad de Puebla. En este participó el marmolista italiano Augusto Bonfigli. Autor: Martín Checa-Artasu, noviembre 2018.

Ciudad de México. Detalle de la fachada de Secretaria de comunicación y transportes, proyecto del arquitecto italiano Silvio Contri. Hoy Museo Nacional de Arte. Se observa también, la Estatua ecuestre de Carlos IV realizada por Manuel Tolsa entre 1796 y 1803. Autor: Martín Checa-Artasu, noviembre 2018.

INTRODUCCIÓN ITALIANOS EN MÉXICO ARQUITECTOS, INGENIEROS, ARTISTAS ENTRE LOS SIGLOS XIX Y XX

MARTÍN M. CHECA-ARTASU, OLIMPIA NIGLIO

Introducción La trayectoria de México y de Italia se ha entrelazado de diversas formas a lo largo de la historia. A nivel diplomático las relaciones entre ambas naciones se documentan desde 1855 cuando se firmó un Tratado de amistad, de comercio y de navegación entre México y el Reino de Saboya. Tres años antes, el 4 de octubre del 1852, en la ciudad de Génoa Raffaele Rubattino, impresario genovés con otros socios, fundó la Compagnia Transatlantica di Navigazione a Vapore (Arseni, 2018), una compañia naval para el traslado de los italianos a Mar de la Plata en Argentina y a Nueva York en Estados Unidos. En el 1853 el Parlamento y el Senado del Reino de Saboya aprobó un convenio con la Compañia de Rubattino1. Sin embargo, la historia de la Compañia fue muy corta porque ya en el 1857 una fuerte crísis financiera debilitó la sociedad que acabó quebrando poco después. A pesar de ello, no se pararon los viajes entre Italia y América, todo lo contrario. Se iniciaba una flijo migratorio muy notable que poco a poco fue requiriendo del beneplácito de los países latinoamericanos, los receptores de esos migrantes. Ello explica, porque el México de Lerdo de Tejada y la Italia de Marco Minghetti establecieron relaciones oficiales el 15 de diciembre de 1874. Eran necesario sentar las bases diplomáticas ante el más que probable arribo de migrantes italianos, además de formalizar una relación de confraternidad entre dos países con historia recientes con muchas similitudes.

El convenio del 5 de abril del 1853 fue discutido en el Parlamento Parlamento y en el Senado del Reyno de Saboya y aprobado el 11 de julio de 1853 con ley n. 1592. 1

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En términos diplomáticos no hubo más acuerdos bilaterales hasta octubre de 1965, tras la visita a México del ministro de asuntos exteriores italiano Amilcare Fanfani para establecer acuerdos y tratados que favorecían las relaciones entre ambas naciones en un contexto propio de la contemporaneidad. Estos acuerdos buscaban la mutua colaboración en diversos campos2, relativos al transporte, el comercio, la movilidad de las personas y a la cultura3. En 1994, tras la entrada en vigor el Tratado de Libre Comercio de América del Norte (TLCAN) la relación bilateral se fortaleció, debido a las posibilidades de desarrollo empresarial que ofrecía México y la cercanía con el mercado norteamericano. En la actualidad en términos económicos, Italia es el segundo proveedor europeo y el noveno mundial de México. En el país azteca desarrollan su actividad distintas empresas italianas en sectores como la infraestructura, telecomunicaciones, hotelería, seguros, alimentación, etc.4 A día de hoy, las relaciones bilaterales también, se desarrollan en términos culturales con el impulso de actividades de todo tipo en ambos países, como exposiciones, las recientes en México sobre Caravaggio en el Museo Nacional de Arte o la exposición “Olivetti Makes" en el Museo de Arquitectura del Palacio de Bellas Artes o en Italia, Il tesori degli Aztechi y Frida Kahlo, ambas expuestas en el museo Le Scuderie del Quirinale, en Roma y en estos ultimos años varias otras exposiciones sobre Frida Kahlo an tenido lugar en varias ciudades de Italia; con certámenes como los premios Italia-México, convocados por la Cámara de comercio italiana en México, éstos dedicados al reconocimiento de personalidades que han fortalecido el intercambio cultural y artístico entre ambos países o el Primer Encuentro de Arquitectura MéxicoItalia celebrado en 2013 en México por iniciativa de la Orden de Arquitectos de Roma y con el continuo intercambio de artistas, arquitectos, científicos y literatos entre ambos países. En términos científicos, por ejemplo, existe desde 2014 el Programa Ejecutivo de Cooperación Científica entre Italia y México 2014-2016, coordinado la Agencia Mexicana de Cooperación Internacional para el Desarrollo (AMEXCID), dependiente de la Secretaría de Relaciones Exteriores y también el más reciente Programa Ejecutivo de colaboración cientifica y tecnológica entre Italia, Estados Unidos y México para el bienio 20182020 promovido por el Ministerio de Asuntos Exteriores de Italia. Con respecto a estos programas de cooperación cientifica y cultural se han ya realizado varias reuniones en los últimos años con investigadores italianos que trabajan en instituciones de investigación y de educación superior mexicanas organizados por la Asociación de los Investigadores Italianos en México (ARIM) creada recientemente. De igual forma, se ha

Branciforte, Laura (2005) las relaciones culturales y diplomáticas entre México e Italia (del siglo XVI al presente). Studia historica. Historia contemporánea, 23, 269-296. 3 En 1965 se firman diversos acuerdos entre ambos países: Acuerdo para la Supresión de los visados entre los Estados Unidos Mexicanos y la República Italiana; Acuerdo entre los Estados Unidos Mexicanos y la República Italiana que crea una comisión Mixta de Cooperación Económica; Convenio de Intercambio Cultural entre los Estados Unidos Mexicanos y la República Italiana y el Convenio sobre transportes Aéreos entre los Estados Unidos Mexicanos y la República italiana. 4 Donato, Giovanni (2014) Messico: la nuova frontiera per le imprese italiane. Roma: Rubbettino Editore. 2

INTRODUCCIÓN

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mantenido y desarrollado la Missione etnologica italiana in Messico5, hoy dirigida por el etnólogo Alessandro Lupo. Esta misión científica fue creada en 1973, bajo la dirección del antropólogo Ítalo Signorini, siguiendo el Acuerdo cultural Ítalo-mexicano de 1969, que preveía a realización de investigaciones arqueológicas etnológicas en México por parte de estudiosos italianos. A la fecha ha desarrollado diversas investigaciones en la Sierra Norte de Puebla, en el Istmo de Tehuantepec, en especial con la etnia huave, así como, de aspectos de la cultura azteca. La misma ha tenido el apoyo económico del Ministerio de Asuntos Exteriores italiano y a las ayudas esporádicas de Instrucción Pública, el de Universidades e Investigación Científica y Tecnológica, y del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Como no podía ser de otra manera, esta relación bilateral lleva pareja la presencia de connacionales en ambos países. En México, el Registro Nacional de Extranjeros residentes a 31 de diciembre de 2016 reporta que 7.744 son de nacionalidad italiana, una cifra que ha aumentado en los últimos años, ya que, en 2000 se reportaban 3904 transalpinos viviendo en México, fruto de la crisis financiera de 2008. Mientras, en Italia, residen 4357 mexicanos6. Como se puede deducir de lo arriba escrito, se trata de una relación bilateral boyante y con diversas facetas que cumple ya 145 años y que, sin embargo, desde las ciencias sociales y las humanidades se conoce poco todavía y de forma aún, escasamente detallada. Haciendo un recuento más o menos exhaustivo de lo que se ha estudiado con respecto a ambos países, localizamos unos pocos trabajos, particularmente del historiador Franco Savarino que se han centrado en las relaciones políticas que mantuvieron ambas naciones en los años posteriores a la Revolución Mexicana cuando en Italia el fascismo de Mussolini daba sus primeros pasos y parecía ser un modelo que seguir en México7. Otros, muy contados trabajos provenientes de la economía, la sociología o el derecho han analizado diversas problemáticas desde una perspectiva comparativa entre ambos países. Así se han analizado los distritos industriales

Lupo, Alessandro (1995) In Memoriam Ítalo Signorini. Cuadernos del Sur, Ciencias Sociales, 10, 123-128 y Lupo, Alessandro (1998) Introducción. En Lupo, Alessandro; López Austin, Alfredo (eds.) La cultura plural. Reflexiones sobre diálogo y silencios en Mesoamérica (homenaje a Ítalo Signorini).Ciudad de México: Universidad Nacional Autónoma de México; Universitá di Roma La Sapienza, pp.13-54. 6 Mexicanos Residentes en Italia, 2012. Secretaria de Relaciones Exteriores. 7 Ramos Torres, Rogelio Josué. (2016). El México callista y la Italia fascista, sus relaciones. Tzintzun. Revista de estudios históricos, (64), 195-222; Savarino Roggero, Franco (2001). The Sentinel of the Bravo: Italian Fascism in Mexico, 1922-35. Totalitarian Movements and Political Religions, 2(3), 97-120; Savarino Roggero, Franco (2002). Bajo el signo del Littorio: la comunidad italiana en México y el fascismo (1924-1941). Revista mexicana de sociología, 64 (2), 113-139; Savarino Roggero, Franco (2003) México e Italia: Política y diplomacia en la época del fascismo, 1922-1942. Ciudad de México: Secretaría de Relaciones Exteriores; Savarino Roggero, Franco (2012) Los italianos emigrados y el fascismo en México (1922-1945). Pasado y Memoria. Revista de Historia Contemporánea, (11), 41-70 y Rivera Solano, Viridiana (2014) El simbolismo fascista en Chipilo: Su impacto en una comunidad italiana en México, 1922-1942. Tesis presentada para obtener el título de Licenciatura en Historia Benemérita Universidad Autónoma de Puebla. 5

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MARTÍN M. CHECA-ARTASU, OLIMPIA NIGLIO

italianos como modelo con posible presencia en México8; la cultura de la negociación entre ambos países9; los procesos de secularización y el papel de la Iglesia católica10;los movimientos sociales y su papel en la política11 o la maternidad subrogada12. Desde la ciencia histórica tanto desde México como desde Italia se ha preocupado especialmente, de los procesos migratorios vinculados a procesos de colonización agraria organizada que propició el gobierno de Porfirio Díaz en la década de los ochenta del siglo XIX y en el estudio de los colectivos italianos derivados de esos procesos que quedaron en México13. En este punto, vale la pena señalar que se crearon seis colonias agrícolas fruto de la colonización organizada por parte de migrantes italianos: la Colonia Manuel González en Zentla y a Tepatlaxco, en Veracruz14; en Morelos la Colonia Porfirio Díaz; en la Ciudad de México, la Colonia La Aldana; en San Luis Potosí15, la Colonia Ciudad del Maíz y en Puebla, en el municipio de Mazatepec la Colonia Carlos Pacheco16 y en el de Chipilo la Colonia Fernández Leal17. Rabellotti, R. (1995). Is there an “industrial district model”? Footwear districts in Italy and Mexico compared. World development, 23(1), 29-41. 9 Gómez, M. C. (2013). Culturas negociadoras en México e Italia: una aproximación comparativa. Semestre Económico, 16(34), 169-192. 10 Savarino Roggero, Franco (2017) Riforme e Reforma. Secolarizzazione e chiesa cattolica in Italia e in Messico nel XIX secolo. En Sabina Longhitano (ed.) La Italia del siglo XIX al XXI: literatura, crítica, historia, cultura. Ciudad de México: UNAM-FFYL, pp. 135-145. 11 Hindrichs, I., Girardo, C., & Converso, D. (2011). La traducción de los valores democráticos en la participación organizativa de la sociedad civil: un estudio de caso entre México e Italia. Economía, sociedad y territorio, 11(37), 667-706. 12 Baffone, C. (2013). La maternidad subrogada: una confrontación entre Italia y México. Boletín mexicano de derecho comparado, 46(137), 441-470. 13Hay algunos trabajos de corte generalista que explican la presencia italiana en México y su desarrollo, entre éstos destacan: Bohme, Frederick G. (1959). The Italians in Mexico: A Minority's Contribution. Pacific Historical Review, 28(1), 1-18; Martínez Rodríguez, Marcela. (2010) El proyecto colonizador de México a finales del siglo XIX. Algunas perspectivas comparativas con América Latina. Secuencia, n°76, enero-abril, 2019, pp.103-132; Peconi, A. (1998) Italiani in Messico. L'emigrazione attraverso i secoli. Ciudad de México: Edizioni dell' Istituto Italiano di Cultura Cittá del Messico; Peconi, A. (1986) Breve storia della comunitá italiana in Messico (1850-1904). Rivista Italia-Messico, 2; Grillo, Rosa María (2013) Emigración Italiana en México. Revista Hispanista Escandinava, 2, 66-86; Mac Donald, J. H. (1997). Historia, economía y transformación de la identidad étnica entre los inmigrantes italianos en México. Relaciones, 71, 157-99. Sartor, M. (1987). Veneti e non in un‘emigrazione anomola di fine ottocento nel Messico. En Meo Zilio, G. (Ed.) Presenza, cultura, lingua e tradizioni dei Veneti nel Mondo, Parte I. Venezia: Giunta Regionale Regione Veneto, pp.339-373 y Sartor, M.; Ursini, F. (1983). Cent’anni di emigrazione: una comunitá veneta sugli altipiani del Messico. Treviso: Grafiche Antiga y Perlmann, J. (2005). Italians Then, Mexicans Now: Immigrant Origins and the Second-Generation Progress, 1890-2000. Russell Sage Foundation. 14 Tommasi, R. (2007) L'emigrazione trentina in Messico e la Colonia Manuel González. TN emigrazione, 38, p.4-7. 15 Sobre la Colonia Díez Gutiérrez o Ciudad del Maíz se puede consultar el blog: https://trentinidiezgutierrez.wordpress.com/historia/ 16 Sobre la Colonia Carlos Pacheco se puede consultar el blog: http://coloniacarlospacheco.gabrielaborzani.com/ 17 Sobre la colonia Fernández Leal en Chipilo, Puebla, hay diversos trabajos. Algunos de carácter antropológico e histórico: Passarelli, J. J. (1946). Italy in Mexico, Chipilo. Italica, 23, 40-45; Zago Bronca, J. A. (1982). Breve historia de la fundación de Chipilo. Chipilo: Imprenta Venecia;.Rojas Alonso, Araceli (2005) Cambios y permanencias en una colonia de italianos en Puebla: Chipilo a fines de los siglos XIX y XX. Puebla: 8

INTRODUCCIÓN

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Se trata de un fenómeno estudiado por diversos autores, desde casi sus inicios18, entre los que destaca, sin duda alguna, el filósofo y sacerdote veracruzano José Benigno Zilli Manica (1934-2016) de familia originaria del norte de Italia, quien a lo largo de su vida publicó numerosos trabajos19. Zilli documentó con mucho detalle la migración italiana hacia México a finales de siglo XIX que creo comunidades en Puebla, Veracruz, Michoacán y Morelos, que en algunos casos aún hoy perviven. A esos trabajos de Zilli se debe sumar la reciente monografía de Marcela Martínez: ¡Colonizzazione al Messico! Las colonias agrícolas de italianos en México, 1881-1910, que hace un exhaustivo y completo análisis de ese proceso de instalación italiano en México20. Pero, la migración italiana a finales del siglo XIX no sólo fue organizada. También fue realizada de forma particular, desde Italia arribaron a México personas que desarrollaron diversas actividades en el país. Así, en 1900 se reportaban 2.575 italianos residiendo en México, 1787 eran hombres y 788 mujeres. Una cifra que casi se doblaría en la década de los treinta, fruto de la crisis económica global provocada por el crac de 1929, cuando los censos mexicanos reportan 4.908 italianos viviendo en el país. Esa presencia italiana hará surgir asociaciones de ayuda mutua y de difusión de la cultura italiana como la Sociedad Dante Alighieri, creada en 1902 y que aún hoy está activa; la Benemérita Universidad Autónoma de Puebla, Instituto de Ciencias Sociales y Humanidades; Reyes Kipp, A. C. (2005) “Un arroz negro entre los blancos”. Etnicidad, tierra y poder en Chipilo, Puebla. Tesis Licenciatura. Antropología Cultural. Departamento de Antropología, Escuela de Ciencias Sociales, Universidad de las Américas Puebla. Septiembre 2005 y Savarino, Franco (2006). Un pueblo entre dos patrias: mito, historia e identidad en Chipilo, Puebla (1912-1943). Cuicuilco, 13 (34), enero-abril, 277-291. Otros inciden en el conocimiento del idioma italiano adaptado a la realidad mexicana: Romani, P. (1992). Conservación del idioma en una comunidad italo-mexicana. Ciudad de México: Instituto Nacional de Antropología e Historia; Barnes, Hilary (2009). A sociolinguistic study of sustained Veneto-Spanish bilingualism in Chipilo, Mexico. A dissertation submitted in partial fulfillment of the requirements for the Degree of Doctor of Philosophy, The Graduate School, Department of Spanish, Italian and Portuguese,The Pennsylvania State University, 296 p. y MacKay, C. (1992). Language maintenance in Chipilo: a Veneto dialect in Mexico. International Journal of Social Language, 96, 129-145; Montagner Anguiano, E. (2005). Parlar par véneto, víver a Mésico. Puebla:Secretaria de Cultura; Ursini, F. (1987). Emigrazione e lingua: Il Veneto in Messico. En Meo Zilio, G. (Ed.) Presenza, cultura, lingua e tradizioni dei Veneti nel Mondo, Parte I. Venezia: Giunta Regionale Regione Veneto, pp.265-277. 18 Rovatti, G. & C. (1882) Alcuni chiarimenti sull'emigrazione di coloni italiani pel Messico. Genova: Armanino, Genova (1882). 19Los trabajos de Zilli Manica sobre esta temática fueron numerosos a lo largo de su vida, destacando los siguientes trabajos: Italianos en México: documentos para la historia de los colonos italianos en México. Ciudad de México: Ediciones Concilio, 1981, reeditado en 2002; Braceros Italianos para México. La historia olvidada de la huelga. Universidad Veracruzana. Xalapa. 1986; Llegan los colonos. La prensa de Italia y México sobre la migración del siglo XIX. Ediciones Punto y Aparte. Xalapa. 1989; La Villa Luisa de los italianos, un proyecto liberal. Universidad Veracruzana. Xalapa. 1997; La Estanzuela, historia de una cooperativa agrícola de italianos en México. Editora del Gobierno del Estado de Veracruz-Llave. Xalapa. 1998. 148 pp. Junto al historiador Renzo Tommassi escribió Tierra y libertad: l’emigrazione trentina in Messico/ La emigración trentina hacia México. Trento. Provincia Autonoma di Trento, 2001. La colonizzazione italiana in Messico, la Cooperativa di emigrazione agrícola trentina “S. Cristoforo” (1921-1925). Giunta della Provincia autónoma di Trento. Trento,2005 y Messico, la tierra prometida, la Colonia italiana “Díez Gutiérrez” trentino-tirolese (1882-). Giunta della Provincia autónoma di Trento. Trento. 2007. 20 Martínez Rodríguez, M. (2013). Colonizzazione al Messico! Las colonias agrícolas de italianos en México, 1881-1910. Zamora: El Colegio de Michoacán, El Colegio de San Luis.

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Società Generale italiana di Beneficenza e Mutuo Soccorso, también fundada ese mismo año o la Cámara de Comercio italiana. A principios del siglo XX la prensa reportaba las diversas actividades de la comunidad italiana conmemorando diversos actos con la presencia, en muchos casos, de las más altas autoridades mexicanas. Una de las más destacadas fue la celebración del centenario de nacimiento de Giuseppe Garibaldi en julio de 1907. Todo ello, activará el interés por conocer en Italia lo que acontece en México y su realidad sociocultural y económica, un ejemplo de ese interés es la publicación en 1914 de Il Messico d’oggi, una sucinta guía del acontecer de México a través del viaje de su autor Adolfo Dollero. En esta guía se aleccionaba sobre los avances técnicos implementados por el gobierno de Porfirio Díaz y se advertía de la creciente violencia que había dado paso a la Revolución mexicana. A pesar de ello, se invitaba a los interesados a ir a México como tierra promisoria para la creación de negocios e industrias21. Eso es lo que habían hecho, muchos de los migrantes italianos arribados a México, destacando por su capacidad la integración en el territorio de establecimiento. Uno de los casos más relevantes, es el de la familia Cusi en Michoacán, quién desarrolló extensas actividades agropecuarias en la Tierra Caliente michoacana22. Otros, harán lo propio, estableciéndose y desarrollando todo tipo de actividades en ciudades que en esos momentos tenían un importante desarrollo económico, comercial e industrial. Es el caso de Monterrey donde gracias a la intensa labor del historiador y promotor cultural Salvatore Sabella sabemos de los quehaceres de los numerosos italianos que arribaron a esa ciudad norteña23. De igual forma, en esa época arribaron religiosos y sacerdotes italianos de ciertas órdenes religiosas, en especial los salesianos, en ese México de finales de siglo XIX principios del siglo XX que recibía migrantes italianos que poco a poco se integraban en la realidad social, cultural y económica del país24. De alguna forma, esos religiosos seguían la estela de aquellos misioneros italianos que desde la época colonial habían arribado a la Nueva España25. Los salesianos, a diferencia de otros ordénes que llegaban de Europa, se ocuparon mucho de la educación a todos los niveles y en los años veinte del siglo XX los salesianos de Italia, con el apoyo del Duce Benito Mussolini, construyeron también escuelas agrarias en diferentes territorios entre México, Colombia, Brazil y Argentina.

Garciadiego Dantan, Javier (2017) El mundo hispanoamericano y la Primera Guerra Mundial. Ciudad de México: El Colegio de México AC, p.158 22 Pureco Ornelas, Alfredo (2010). Empresarios lombardos en Michoacán. La familia Cusi entre el Porfiriato y la Posrevolución (1884-1938). Zamora, El Colegio de Michoacán, Instituto Mora, 432 p. 23 Sabella, Salvatore (1997). IV siglos de presencia italiana en Monterrey. Monterrey: Ayuntamiento de Monterrey. Banorte. 24 De Giuseppe, M. (2011). Fare l'indiano: sacerdotes y misioneros italianos en México, entre el Porfiriato y la Revolución. Istor: revista de historia internacional, 12(47), 52-86; De Giuseppe, M. (2011). Missionari e religiosi italiani in Messico tra porfiriato e rivoluzione: documenti dal vicariato apostolico della Baja California. RiMe–Rivista dell’lstituto di Storia dell’Europa Mediterranea, 7, 193-230. 25 Marini Mario ; Schembri Salvatore (1991). Missionari italiani in Messico. Roma, Edizioni Dehoniane. 21

INTRODUCCIÓN

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Arquitectos, ingenieros y artistas italianos en México Así entre la segunda mitad del siglo XIX y la primera mitad del siglo XX, en busca de oportunidades profesionales, arribaron a México, un significativo número de arquitectos, ingenieros y artistas. Éstos participaron en la creación y diseño de algunas obras significativas que evidenciaban los deseos de modernidad y de progreso del México del Porfiriato (1876-1911). También, la crisis de los años treinta y la Segunda Guerra Mundial trajo a otros tantos que se incorporaron en distintos quehaceres haciendo destacadas contribuciones a las obras públicas, la enseñanza y las humanidades y las artes. Talento y especialización que se transmitían entre ambos países y que hace que la migración de este tipo de profesionales no deba ser considerada sólo como un mero ejercicio de movilidad laboral, todo lo contrario, en muchos casos, estos migrantes especializados traían consigo algo que fue muy valorado en América Latina y también, en México26. Eran poseedores y transmisores de la tradición clásica que se le presuponía a todo lo italiano, especialmente en lo referente a las expresiones artísticas de todo tipo y que de distintas maneras llegaban a las escuelas de Bellas Artes del país, en especial a la Academia de San Carlos27, donde también, contrató a artistas italianos como Eugenio Landesio, Francesco Saverio Cavallari, Enrique Alciati y Adamo Boari. A ello ayudaba el dominio de una industria como la del mármol, de enorme relevancia en el plano internacional28, llegando asociados a ella agentes de Carrara o Pietrasanta dedicados a la importación de mármoles para edificios públicos y monumentos y con ellos marmolistas, escultores y otros técnicos. Así, en Ciudad de México a finales del siglo XIX se documentan dos marmolerías, la de Cesar Augusto Volpi y la “Marmolería Italiana”, de Aquiles Yardella. Para 1904 documentamos también, la de Adolfo Ponzanelli. En Monterrey, acontecerá un hecho similar con las marmolerías y los talleres de escultura de Augusto Massa, Mateo Matei y la de los hermanos Antonio y Paulino Decanini Galli. También, las habrá en Mérida y en Guadalajara. Además de todo ello, los arquitectos e ingenieros migrantes encontraron un México ávido del progreso, inducido por el Porfiriato, especialmente, entre las clases económicamente más pudientes, que se reflejaba en la construcción de equipamientos públicos de todo tipo en muchas ciudades del país29. Convirtiendo México en un Viñuales, Rodrigo (2011) Italia y la estatuaria pública en Iberoamérica. Algunos apuntes. En: Sartor, Mario (coord.). América Latina y la cultura artística italiana. Un balance en el Bicentenario de la Independencia Latinoamericana. Buenos Aires, Istituto Italiano di Cultura, Buenos Aires, 2011, p. 223. 27 Sobre este asunto conviene consultar los trabajos del historiador del arte italiano Mario Sartor. Sartor, M. (1996) L'«Academia de Bellas Artes» di Messico e la cultura artistica italiana, D Veltro, 5-6, pp 523-559; Sartor, M. (1997); Le relazioni fruttuose. Arte ed artisti italiani nell'Accademia di San Carlos di Messico , Ricerche di Storia dell'Arte, 63 pp.7-34. 28 Viñuales, Rodrigo (2017) Carrara nell’America Latina. Industria e creazione scultorea, En S. Berresford (ed.), Carrara e il Mercato della Scultura 1870-1930, Milano, Federico Motta Editore, pp. 254-259. 29 Sobre esta cuestión, existen dos trabajos pioneros de gran valor: Franklin Unkind, R. (2003) “La presencia de los arquitectos y constructores italianos en México”, Arquitectónica, 4, 7-20 y Noelle Gras, L. (2011) ”De un arquitecto italiano a otro: El Palacio de Comunicaciones como Museo Nacional de Arte”, Amans artis, amans veritatis. Coloquio Internacional de Arte e Historia en Memoria de Juana Gutiérrez Haces. Ciudad de México, Instituto de investigaciones estéticas, Universidad Nacional Autónoma de México. 26

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campo amplio de trabajo, debido a su enorme tamaño y la falta de profesionales cualificados. Así, la firma de arquitectos italianos se observa en edificios destacados de la época: el Palacio de Bellas Artes (Adamo Boari), la Secretaria de Comunicación y Transportes (Silvio Contri), el Templo expiatorio de Guadalajara (Adamo Boari), el Teatro Peón Contreras en Mérida (Pio Piacentini y Enrico Deserti) o en elementos escultóricos de gran simbolismo como la Columna de la independencia en Ciudad de México (Enrique Alciati); la Columna a Benito Juárez en Ciudad Juárez (Cesar Augusto Volpi) o Hemiciclo a Juárez en la capital (Lazzerini) sólo por citar algunos. Tras la Revolución Mexicana algunos de ello se insertaron en la realidad universitaria mexicana y a través de la docencia, aportaron su conocimiento y desarrollaron investigaciones y actividades de gran relevancia para México. Ese serían el caso de Enzo Levi, uno de los pioneros de la hidráulica en México o de Bruno Cadore Marcolongo, maestro de arquitectos en la Universidad de Guadalajara. A pesar de sus aportaciones, estos arquitectos, ingenieros, y artistas italianos son totalmente desconocidos debido a que hay escasísimos análisis sobre sus trayectorias y de sus obras. Esta monografía con sus capítulos viene a paliar esa carencia y se convierte en un libro pionero en dos sentidos. Por una parte, es la primera vez que de forma conjunta se presentan las trayectorias de algunos de esos arquitectos, ingenieros, y artistas italianos que llegaron a México desde mediados del siglo XIX hasta las primeras décadas de la siguiente centuria. Trayectorias que en algunos casos se han compilado y escrito por primera vez. En otros, unos pocos, se componen de forma conjunta para esta monografía, tomando trabajos de largo aliento y en algún caso, surgen de la memoria familiar de los descendientes de esos migrantes italianos. Así mismo, los capítulos que se presentan han sido escritos por historiadores del arte, arquitectos, historiadores y geógrafos invitados en una convocatoria específica o bien a través de la denodada búsqueda de información de los coordinadores de esta obra, que hizo que en el camino surgieran quienes pudieran aportar a este libro la biografía de alguien más. Por otra parte, con este libro se sientan las bases para seguir indagando en las trayectorias de todos aquellos migrantes sean de la nacionalidad que sean que embellecieron con sus obras a México y difundieron su talento y su conocimiento entre las siguientes generaciones. Finalmente, decir que esta monografía, que como coordinadores consideramos incompleta ante la diversidad de los ejemplos y protagonistas existentes, ha de servir de acicate para continuar indagando en esos aspectos que son propios del quehacer humano, el arte, la arquitectura, la ingeniería, la cultura, y que, tanto en México como en Italia, permiten tomar conciencia de la capacidad que el ser humano tiene de construir, crear y enseñar para dejar un mundo mejor a las generaciones venideras.

Ciudad de México - Roma, 18 de noviembre 2018

INTRODUCCIÓN

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Ciudad de México. Vista general del Palacio de Bellas Artes. Al fondo a la derecha, el Palacio Postal, ambas obras diseñadas por el arquitecto italiano Adamo Boari. Autor: Martín Checa-Artasu, noviembre 2018.

INGENIEROS Y ARQUITECTOS

Ciudad de México. Palacio Postal realizado por el arquitecto italiano Adamo Boari y el ingeniero mexicano Gonzalo Garita entre 1902 y 1906. Detalle de la escalera de acceso. Autor: Olimpia Niglio 2013.

L’INGEGNERE ADAMO BOARI “UN ITALIANO BOLLENTE”

FAUSTO GIOVANNARDI

This paper recounts the life story of Adamo Boari, born in 1863 in Ferrara, Italy. Boari graduated in engineering from the University of Bologna and immediately left to seek his fortune in the New World — in Argentina, Uruguay and then Brasil, where he worked on construction of the railways and contracted yellow fever. He returned to Italy for a short time before settling in Chicago, where he worked for Burnham & Root on preparations for the World’s Columbian Exposition (Chicago World’s Fair) of 1893, later joining the studio of Louis Sullivan. He opened a studio of his own in Steinway Hall, next to Frank Lloyd Wright’s office. Boari entered various design competitions, including one for Mexico’s Presidential Palace, which he won, although his design was not realised. This brought him to the attention of President Porfirio Díaz who commissioned various projects from him, including the most important of his career: the National Theatre of Mexico. Boari remained in Mexico until 1916, when the Mexican Civil War made it no longer possible to work. He returned to Italy, first to Ferrara, then to Rome, where he died, largely forgotten, in 1928.

"Ricordo un italiano bollente, Boari di cognome, che aveva vinto il concorso per costruire il grande Teatro dell’Opera Nazionale di città del Messico. Passò per il nostro ufficio, temporaneamente per fare i disegni di detto edificio. Era distante da tutti noi, ma era attento, curioso e vivace. Ha guardato un poco quello che stavo facendo e ha detto con un grugnito bonario: "Ah, architettura austera! ", si è girato sui tacchi con un altro grugnito ed è ritornato nella sua “gorgiera rinascimentale” italiana, come gli ho detto io per rappresaglia Frank Lloyd Wright, A Testament (1957), New York, Horizon Press

1863 Adamo Oreste Boari nacque a Marrara, vicino a Ferrara, il 22 ottobre 1863, da Vilelmo e Luigia Bellonzi che ebbero undici figli1. La famiglia possedeva, oltre alla casa

Vilelmo era nato nel 1831 e la sua professione era possidente. La moglie Bellonzi Luigia era nata nel 1837. Ebbero undici figli: Ida 1859, Giuseppe e Maria 1861, Adamo 1863, Eva 1865, Sesto 1867, Giovanni Settimo 1870, Ottavio 1872, Liduina 1874, Liduina 1875, Duina 1877 [dai registri comunali]. 1

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di Marrara, vari terreni ed alcuni pregevoli palazzi in città, che sicuramente furono di stimolo al gusto artistico dei due figli artisti, Adamo e Sesto. Adamo compie gli studi a Ferrara arrivando al biennio d’ingegneria, per concluderli, con la laurea, presso la Scuola d’applicazione per Ingegneri di Bologna, nell’anno scolastico 1885-86.

Fig.1. Il padre Vilelmo Boari

Vilelmo Boari, queste le poche notizie che abbiamo su di lui. Fece parte dei Bersaglieri del Po, volontari che tra il 1948 ed il 1949 combatterono per l’indipendenza Italiana. Fece erigere a sue spese un busto dedicato a La Marmora esposto al Museo del Risorgimento di Ferrara. Vilelmo Boari, dalla barba fluente, dall’occhio placido, ma in cui spesso guizzava un lampo del giovanile ardimento, ultimo superstite della gloriosa falange. Ricordi della vecchia Ferrara, in Rivista di Ferrara del marzo 1935 Il sig. Vilelmo Boari tiene un minuto e assai somigliante ritratto in pietra dura, che doveva servire per suggello delle lettere, ed era incastonato in un anello. E’ antico, e sembra dell’epoca. Il poeta è coronato di lauro. È un vero gioiello. Ludovico Ariosto - Bibliografia Ariostea del Prof. Comm. Giuseppe Jacopo Ferrazzi, Bassano Tipografia Sante Pozzato 1881.

Adamo inizia subito a lavorare con l’impresa Finzi alla costruzione della stazione ferroviaria di Oggiono2, ma per poco perché nel 1887 deve adempiere al Servizio militare, che comunque non gli impedisce di lavorare alla ristrutturazione di Villa Giordani a Santa Maria Codifiume3. La stazione di Oggiono venne inaugurata nel 1888 in concomitanza con la linea ferroviaria che collegava Como e Lecco. 3 Villa Giordani, prima di diventare una lussuosa residenza estiva, nel ’700, era una casa colonica, di proprietà di Francesco Giordani. Nel 1887, i suoi due figli, Luigi e Raffaele, trasformarono la casa in una 2

L’INGEGNERE ADAMO BOARI “UN ITALIANO BOLLENTE”

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1889 La situazione edilizia a Ferrara nel campo dell’edilizia non è molto stimolante per un giovane ingegnere dalle grandi ambizioni e così, tre anni dopo, nel settembre del 1889, insieme ad altri giovani ferraresi, si imbarca per il Brasile, iniziando la sua carriera professionale fuori dall’Italia. Mentre lavora alla costruzione della rete ferroviaria di São Paulo, non dimentica l’Italia, presenta infatti un progetto al concorso per il Palazzo del Parlamento italiano a Roma4, ed invia alcuni disegni per la prima Esposizione Nazionale di Architettura di Torino sul finire del 1890.

Fig.2. Il progetto della Villa a Belem (biblioteca Ariostea Ferrara)

Nel 1891 a Belem, Rio de Janeiro, progetta una villa in stile moresco con un giardino tropicale, ed è nel gruppo di progettisti di una delle proposte per il progetto che sarebbe stato inviato all’Esposizione Universale di Chicago in rappresentanza del Brasile. Viaggia in Argentina e Uruguay, visitando Buenos Aires e Montevideo. Purtroppo contrae la febbre gialla e decide di trasferirsi negli Stati Uniti per ricevere cure a Chicago. Ritorna poi a Ferrara, e s’impegna nella conduzione dei fondi di famiglia. Entra in contatto con l’agronomo Adriano Aducco direttore della Cattedra villa, con un’opera di ristrutturazione, eseguita dall’ architetto Adamo Boari- Il Resto del Carlino Ferrara 4.02.2010. 4 Il concorso bandito nel 1888 si concluse nel 1890 con 5 ex equo e nessuna decisione concreta.

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Ambulante di agricoltura5 e viene inviato nel Kentucky a compiere studi sulla coltivazione della canapa, per confrontarla con l’esperienza ferrarese. Presenta progetti e disegni alla Mostra a Palazzo dei Diamanti organizzata in occasione del quinto centenario dell’Università di Ferrara nel 1892, ottenendo una medaglia di bronzo. Nel marzo del 1893 ritorna a Chicago, per lavorare come ingegnere di cantiere nella Burnham & Root ai preparativi del Jackson Park per ospitare la Fiera Mondiale, “Columbian Exposition of 1893”. Un evento che intendeva commemorare il quarto centenario della scoperta dell’America da parte di Colombo e mostrare al mondo il potenziale industriale ed economico della fiorente città di Chicago. Il giovane ingegnere ha fatto da subito una buona impressione, tanto che lo stesso David Hudson Burnham6, lo chiama a collaborare nella supervisione e completamento dell’edificio amministrativo e nel 1893 nel gruppo che supervisiona i lavori della "White City"7. Il lavoro nella Burnham & Root, a quei tempi uno degli studi più importanti del mondo, gli fornisce le prime conoscenze sui vari aspetti legati all’esercizio pratico dell’architettura, nonché una serie di relazioni personali che negli anni a venire gli saranno utili. Tra questi Joseph W. McCarthy e Dwight Heald Perkins che lavoravano in quella società, e Luis Henry Sullivan e Frederick Law Olmsted che vi collaboravano8.

Dal 1860 al 1960, per quasi un secolo, le “cattedre ambulanti” furono in Italia il più importante mezzo di istruzione agraria “in campo”, rivolta ai piccoli e medi agricoltori, grazie all’apporto fattivo e appassionato di tecnici agrari e di docenti universitari. Il loro compito fu decisivo per promuovere il progresso in agricoltura, la meccanizzazione e la diffusione delle nuove scoperte vegetali. 6 David Hudson Burnham (1846-1912), considerato il fondatore della Scuola di Chicago di architettura, progettista di molti edifici in diverse città degli Stati Uniti e insieme a Edward H. Bennett, tra il 1906 e il 1909, del piano urbanistico di Chicago. 7 Fiera Mondiale di Chicago si apre nel 1893 su uno spettacolo: inedito, la Corte d'Onore della Manifestazione, illuminata da migliaia di lampadine a incandescenza, ben presto nota come "Città Bianca". La fiera fu interamente illuminata dalla corrente alternata recentemente inventata dal fisico Nikola Tesla, fornita dalla società di George Westinghouse e fu il primo grande esperimento per l'utilizzo di tale energia. 8 Joseph William McCarthy (1884-1965), architetto famoso per il suo lavoro sugli edifici per la Chiesa cattolica romana. Accreditato di almeno 41 chiese oltre a scuole, ospedali, conventi e altri edifici. Dwight Heald Perkins (1867 - 1941) architetto e pianificatore. Ha fatto parte del gruppo chiamato "The Eighteen" che comprendeva architetti con idee simili a Lawrence Buck e Frank Lloyd Wright. Nel 1905 fu nominato Chief Architect per il Chicago Board of Education e responsabile della progettazione di 40 scuole pubbliche. Sempre a Chicago, ha poi aperto gli studi Perkins, Fellows e Hamilton e poi Perkins, Chatten e Hammond. Louis Henry Sullivan (1856–1924) architetto considerato il padre del Movimento Moderno negli Stati Uniti d'America. Da molti è ritenuto il primo progettista dei moderni grattacieli, anche per l'influenza teorica e pratica che egli esercitò sulla Scuola di Chicago dove appunto nacquero questi nuovi edifici alla fine dell'Ottocento. Nel suo studio, che divise con Dankmar Adler, si formò Frank Lloyd Wright, ed è dove per alcuni nacque il concetto di architettura organica. Frederick Law Olmsted (1822–1903) architetto del paesaggio e urbanista. È stato uno dei primi architetti paesaggisti della storia, interessato allo studio scientifico e tecnico dei problemi ambientali; suo, tra i tanti, il progetto per il Central Park di New York. 5

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Possiamo supporre che da Burnham apprenda il gusto per gli stili classici, l’uso delle forme architettoniche del passato, come base per la progettazione di edifici con funzioni specifiche, da Sullivan l’uso di alcune tecniche per la costruzione di grandi edifici, molto in uso a Chicago in quegli anni e da Olmsted le forme di integrazione della natura nella città attraverso i giardini9. Inoltre lo svolgimento dell’evento stesso, tra maggio ed ottobre 1893, a cui hanno partecipato oltre 27 milioni di persone, deve essere stato un potente stimolo, per il giovane Boari, che allora aveva appena 30 anni.

1894 Boari entra a lavorare nell’ufficio di Louis Sullivan e Dankmar Adler, prima ai disegni strutturali per il Guaranty Building di Buffalo N.Y. e dopo in piccoli progetti interni dell’Auditorium Building in Michigan Street a Chicago. Due anni dopo, inizia a lavorare da solo, nell’ufficio numero 1106 della Steinway Hall di Chicago, dove condivide lo spazio e convive con un gruppo di architetti che lavoravano in una città che, in quegli anni, era un esempio di prosperità economica e dove si costruivano grattacieli e si incoraggiava l’edilizia, il progetto e l’innovazione architettonica. Questa coesistenza, gli permette di unirsi al gruppo chiamato "The Eighteen", formato da molti giovani architetti inquilini e non di Steinway Hall, che dibattevano e discutevano molti aspetti del loro lavoro. A partire dall’inverno 1896-97, l’undicesimo piano dell’edificio ospitava gli uffici di un gruppo di importanti architetti: Dwight H. Perkins, Robert C. Spencer, Frank Lloyd Wright e Myron Hunt. Wright vi mantenne un ufficio fino a ca. 1908. L’edificio e gli uffici sono diventati un luogo centrale per gli architetti Webster Tomlinson, Irving Pond e Allen Bartlitt Pond, Adamo Boari, Walter Burley Griffin e Birch Long. L’edificio fungeva da nucleo di un gruppo di architetti noti come i diciotto. Altri fuori da Steinway vi partecipavano Hall Arthur Dean e George Dean, Hugh Garden, Alfred Hoyt Granger, Arthur Heun, Richard E. Schmidt e Howard Shaw. Brooks, H. Allen (Oct 1963). "Steinway Hall, Architects and Dreams". Journal of the Society of Architectural Historians. University of California Press

Suo un manifesto per la 2° esposizione nazionale di biciclette, che si tiene a Chicago nel 1896. Nel frattempo studia e frequenta corsi per poter esercitare la professione; partecipa anche a numerosi concorsi, tra cui un concorso internazionale indetto nel 1897 dal governo messicano per progettare il nuovo Palazzo Legislativo. Particolarmente interessato, decide di recarsi in Messico e il 15 novembre 1897, arriva all’Hotel Jardín di Città del Messico, per una visita al sito su cui dovrà essere realizzato l’edificio oggetto del concorso. È la sua prima visita in Messico, che dura poco più di una settimana. che riprenderà nel 1908 quando dovrà progettare il collegamento tra l'Alameda del Paseo de Reforma e la Plaza del Palacio de Bellas Artes. 9

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In Messico il Governo del generale Porfirio Diaz, indice il 30 novembre 1897 un concorso internazionale per il nuovo “Palacio del Poder Legislativo Federal de los Estados Unidos Mexicanos”. Sono 56 i progetti che pervengono alla giuria, che non assegna il primo premio, ma tre secondi premi, ex equo al progetto di Boari ed a quelli di P.J. Weber & D.H. Burnham di Chicago e Pio Piacentini e Filippo Balatri di Roma.

Fig.3. Manifesto per esposizione a Chicago – Ariostea

Alla fine di aprile 1898, escono i risultati del concorso a cui ha partecipato con il motto: St. Georgius equitum patronus est in tempestate seguritas, ottenendo il secondo posto ex equo, con il primo posto che non viene assegnato. Nonostante questo risultato, l’esecuzione viene affidata all’architetto italiano Piero Paolo Quaglia (18561898), la cui proposta non aveva meritato l’interesse della giuria.

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Fig. 4 Acquerello del progetto inviato da Boari nel 1898 (archivio privato)

1898 La competizione per il Palazzo Legislativo, anche se non ha vinto e presenta problemi relativi al pagamento della totalità del premio, gli apre comunque le porte del Messico, permettendogli di avere rapporti diretti con i personaggi più importanti del governo di Porfirio Diaz. Il 18 giugno 1898, nella seconda visita, che durerà qualche mese, viene ricevuto in udienza dal presidente come vincitore del suddetto concorso. Durante il suo soggiorno, visita le rovine di Mitla a Oaxaca, ed altri luoghi dell’architettura antica del Messico, integrandole nel suo pensiero architettonico e che ritroveremo in alcuni aspetti delle progettazioni future. Incontra il vescovo di San Luis Potosí, Ignacio Montes de Oca y Obregón, conosciuto a Chicago, per definire l’incarico del progetto della chiesa cattedrale di Matehuala ed il 12 luglio è incaricato dal vescovato di Nuevo León dello studio del progetto di un grande tempio da costruire a Monterrey10, di cui poco si conosce, se non che non è stato costruito. Durante la visita a Guadalajara ha un contatto con l’arcivescovado che a breve gli commissionerà diversi progetti relativi alla costruzione di chiese e santuari. Tra questi gli viene richiesto di presentare una proposta per coprire la crociera della Parrocchia di San Miguel Arcángel (sec.XVIII) di Atotonilco Jalisco, completando la torre progettata dall’architetto Francisco Eduardo Tresguerras; il progetto della cupola e un tamburo di 16 segmenti, li invia nel settembre del 1898, e furono eseguiti negli anni successivi. 10

Alcuni disegni sono conservati nel dono Boari alla biblioteca Ariostea di Ferrara.

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A metà agosto, mentre era ancora in Messico, riceve la notifica che gli è stato assegnato il secondo premio nella Luxfer Company Competition a Chicago, bandita nel gennaio 1898, per il progetto da lui presentato. Luxfer Company Competition Probabilmente a causa di una scarsa risposta al concorso indetto dall’azienda, una proroga è stata concessa fino al 15 giugno 1898 e il risultato finale è stato pubblicato nel settembre 1898. Robert C. Spencer ha ricevuto il primo premio per la progettazione di magazzino in stile di Chicago con una galleria interna coperta di vetro [Figura 14] Nella sua sobria cura dell’ornamento e del soffitto di vetro era paragonabile al Postsparkasse di Otto Wagner a Vienna, progettato intorno allo stesso tempo60. Il terzo premio è stato assegnato a Solomon Spencer Beman per un’enorme sala congressi con anelli di vetro prismatico sul tetto. Indubbiamente le due più emozionanti proposte, che ha vinto il secondo premio, è venuta dal trentacinquenne architetto italiano Adamo Boari. Boari progetta due diversi grattacieli: dieci e ventiquattro piani, le cui facciate erano interamente coperte con i Prismi di Luxfer [Figure 15, 16]. I suoi progetti sono stati accompagnati da un breve testo esplicativo: "Il nostro sforzo è stato quello di utilizzare l’Iridian Luxfer Prism come l’intera superficie, praticamente eliminando aperture e svelamenti. Pertanto l’uso dei Prismi Luxfer raggiungerebbe il massimo dell’effetto considerato dal punto di vista della potenza di luce, così come quello di una nuova produzione di architettura moderna. La proposta è sviluppata in due progetti, uno basato su dieci piani e un’unità divisionale di 11 piedi e 10 pollici, l’altro, per un edificio di ventiquattro piani, sormontato da un ristorante, un giardino pensile e un osservatorio, con un piano particolarmente adatto all’uso dei prismi di Luxfer. Molto più radicale delle proposte di Wright per l’edificio del Luxfer Prism, i disegni di Boari rappresentano in realtà quello che sembra essere il primo progetto di una cortina di vetro virtuale per un grattacielo, e certamente meritò l’attenzione dei critici successivi riguardo alla ricerca di un predecessore del moderno edificio per uffici. Il progetto più piccolo entra chiaramente in dialogo con la proposta di Wright11. Ha le stesse proporzioni, lo stesso numero di piani, la stessa griglia strutturale di undici piedi. Ma invece di posizionare semplicemente un vetro prismatico tra il pavimento e il soffitto, Boari ha attaccato uno schermo di vetro omogeneo di fronte all’intera struttura, aumentando così la superficie del vetro del 20%. Questo aumento potrebbe essere stato il suo obiettivo principale, in linea con il desiderio dell’azienda di vendere quanto più possibile del loro prodotto, ma nel farlo ha anche creato una facciata continua in vetro. Lo schermo si curva verso l’esterno in basso, guadagnando più luce dall’alto simile alle pensiline di Luxfer, e dimostrando la qualità effimera della guaina di vetro. Entrambe le versioni sono apparse in un’illustrazione disegnata dopo la competizione per l’inclusione nella mostra del Chicago Architecture Club del 1899, che è stata pubblicata nel catalogo di accompagnamento. "Il grattacielo indipendente di ventiquattro piani sembra un gruppo di cinque colonne su un base affusolata, interamente avvolta da una cortina di vetro traslucido. Questo forniva la visione di un magnifico edificio scintillante come fulcro di una città contemporanea. Neumann Dietrich The Century’s Triumph in Lighting: The Luxfer Prism Companies and Their Contribution to Early Modern Architecture Journal of the Society of Architectural Historians, Vol. 54, No. 1 (Mar., 1995)

F.L.Wright ha elaborato una proposta nel 1897. Vedi: The Inland News and Architect Record (January 1898). 11

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Fig. 5 Disegno del progetto per Luxfer

All’inizio di ottobre 1898 torna a Chicago, dopo un soggiorno di quasi cinque mesi in Messico, professionalmente molto proficuo, sia per la conoscenza di Porfirio Diaz, con il quale ha avuto un eccellente rapporto e di diversi vescovi della Chiesa cattolica messicana, che gli hanno richiesto dei progetti.

1899 Ottiene l’accreditamento dal Chicago Architectural Board per esercitare come architetto negli Stati Uniti ed un suo progetto arriva al quarto posto nel concorso alloggi della classe operaia, organizzato dalla Charity Organization Society di New

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York. È da evidenziare12 che tutti questi lavori di Boari sono stati possibili grazie al contributo dell’allora studente di architettura Walter B. Griffin13, che aiuta anche gli altri architetti di Steinway Hall e che partecipa attivamente a tutta la serie di progetti che Boari sviluppa sia a Chicago che in Messico, tra il 1894 ed il 1903, quando diventerà assistente di Lloyd Wright nel suo studio di Oak Park. Stretto è infatti il rapporto tra Boari ed il più giovane Frank Lloyd Wright (1867-1959), che condivideranno l’ufficio tra il 1901 ed il 1903.

Fig.6. New York Tenement House Competition - Catalogo Art Architectura Club Chicago 1900

1900 A metà marzo compie un nuovo viaggio in Messico, che durerà sei mesi, per dirigere i lavori del tempio di Matehuala e vedere la possibilità di sviluppare altri progetti. Il 18 aprile ha una udienza con il ministro delle Finanze, in relazione alla questione, sollecitata anche dalla legazione italiana, del mancato pagamento di metà del premio per il concorso del palazzo legislativo. L’incontro non porterà frutti immediati, ma la conoscenza del ministro Limantour, gli sarà comunque utile nel seguito.

Vedi Vernon Christopher, Condello Annette - Adamo Boari, Mexico City and Canberra, in opere citate. Walter Burley Griffin (1876-1937) si è laurea architetto nel 1901 presso l'Università dell'Illinois, sviluppando una rinomata carriera come urbanista e architetto paesaggista. Il suo lavoro più rilevante fu il progetto urbano per Canberra, la nuova capitale dell'Australia, ottenuto in un concorso internazionale nel 1912. 12 13

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Fig.7. Estratto dai cataloghi del Chicago Architectural Clud riportanti opere di Boari.

Durante questo soggiorno, Boari partecipa attivamente a vari eventi organizzati dalla colonia italiana di Città del Messico. Il 21 maggio 1900, è al ricevimento del nuovo ambasciatore d’Italia e successivamente partecipa alla progettazione della decorazione per l’omaggio funebre che si tiene nella chiesa di Santo Domingo, al re d’Italia, Umberto I, assassinato il 29 luglio 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci. La frequentazione con la comunità italiana gli fa incontrare la donna che diventerà sua moglie, Maria Dandini de Sylva Jáuregui (Firenze 12.07.1883 - Roma 23.11.1955), figlia di un nobile italiano stabilito in Messico. All’inizio di agosto ritorna nel suo ufficio a Chicago, ma per poco perché nel gennaio 1901, ritorna in Messico. A metà del 1901 consegna il progetto del tempio Expiatorio de Guadalajara che sarà preso come base per la sua costruzione. Probabilmente grazie agli ottimi rapporti instaurati, lavora a tre progetti che cambieranno la direzione della sua carriera: il rimodellamento del Teatro Nazionale, il rimodellamento di Palazzo Nazionale e la proposta di un monumento in onore di Porfirio Díaz, pensato per essere situato in una delle rotonde lungo il Paseo de la Reforma, di fronte al Palazzo Legislativo. Tutti e tre questi progetti rimangono sulla carta, ma lo impegnano e lo fanno conoscere maggiormente.

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Fig.8. Monumento a P. Diaz - Ariostea (archivio privato)

1901 Nel gennaio riceve l’incarico di fare un progetto per il restauro dell’antico Teatro de Santa Anna, che non avrà seguito per la decisione governativa di costruirne uno nuovo. Più concreto è invece l’incarico che gli viene affidato, insieme all’ingegnere Gonzalo Garita y Frontera (1867-1921), di redigere il progetto per un edificio che avrebbe occupato il terreno dell’antico Hospital de Terceros de San Francisco. Si tratta della quinta Casa de Correos, da alcuni poi definito "il gioiello del Centro Storico", che sarà costruito in meno di cinque anni, a partire dalla prima pietra, posta il 14 settembre 1902, alla sua inaugurazione da parte del presidente Diaz, nel febbraio 1907. L’edificio di quattro piani è in stile eclettico, "isabelino plateresco e/o gotico veneziano" coperto all’esterno con pietra bianca di Pachuca, che ospita uno splendido patio, con ascensori e una scala di metallo della Fonderia Pignone di Firenze; per molti, la cosa più sorprendente è che la struttura dell’edificio è una (allora) struttura metallica molto moderna progettata e fornita dalla "Milliken Bros." di Chicago.

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Fig.9. Casa de Correos. Fotografia di Guillermo Kahlo, l’edificio nel 1906

Fig.10. La scala dell’edificio delle Poste fotografia di Guillermo Kahlo del 1906

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Probabilmente a seguito del successo del lavoro della Quinta Casa de Correos nel 1902 Adamo Boari e Gonzalo Garita furono incaricati del progetto per un nuovo Teatro Nacional, abbandonando l’idea di ristrutturare il Teatro Santa Anna, che sarà demolito per ampliare la avenida Cinco de Mayo. […] è fiancheggiato da un lato da un grande vecchio parco [l’Alameda], le strade principali della città portano alla sua piazza, e sarà il vero centro della capitale. Quindi, ciò che è richiesto è un magnifico edificio che incarnerà ed esprimerà il progresso di questa moderna metropoli The National Theatre, Mexico City by Adamo Boari, Architect, The Western Architect 17,No.6 (June 1911), p.59

Un teatro che doveva superare in tutto i migliori teatri del mondo, e per questo Boari si dedicò, per quasi due anni a girare l’Europa per studiarne i più importanti. Concentra la sua attenzione sulla sala teatrale. Adotta la forma a campana, che produce un ottimo effetto acustico e visivo. La “curva Boari” è l’esito finale dei suoi studi sui principali teatri d’Europa, mentre per gli elementi tecnologici si rifà alla sua esperienza a Chicago. Convinto assertore dell’esaltazione della cultura autoctona di ogni paese, crea un progetto ispirato al neoclassicismo e all’Art Nouveau, dando in sostanza inizio alla Belle Epoque messicana. Boari fuse stilisticamente le culture azteche, maya e il periodo coloniale spagnolo, dando vita a un capolavoro architettonico assoluto. Al rientro dal viaggio in Europa, i progetti vengono definiti ed inviati all’approvazione alla Secretaría de Comunicaciones y Obras Públicas il 17 luglio 1902. Nasce però un contrasto tra lui e Garita, che si concluderà con il polemico ritiro di quest’ultimo14. Fu stabilito un costo iniziale di 4.200.000 di pesos e la durata fu stimata in quattro anni, dopo la rielezione di Porfirio Díaz come presidente, con il mandato presidenziale esteso a sei anni. […] le forme dell’Oriente si sono mescolate con quelle dell’Occidente, e così come nel campo della scienza tutti gli uomini camminano con movimento uniforme e costante, nel campo dell’arte il mondo si unifica e inizia la sua marcia trionfale, e niente potrà fermarlo ... Non si creda per questo che sia necessario rinunciare al passato. Oggi più che mai ogni paese deve mostrare le sue forme architettoniche modernizzandole. Adamo Boari, Informe preliminar para la construcción del Teatro Nacional, México, 1910

Il gennaio del 1903 è nominato professore di Composizione, nella Escuela Nacional de Bellas Artes15. Tra i suoi allievi, il prediletto Federico Mariscal.16

Vedi Sánchez A. Guadalupe, La administración también cuenta historias. El Palacio de Bellas Artes. Op.citata. 15 E conseguentemente la certificazione del suo diploma di architetto anche in Messico. 16 Fratello di Nicolas Mariscal (1875-1964) pure lui architetto e collega di Boari nell’insegnamento, che è l’allievo prediletto di Boari e che ne completerà l’opera principale. Federico Ernesto Mariscal Piña (188114

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Il testo di seguito riportato è tratto dal suddetto libro Il grande teatro Nazionale del Messico Il teatro sorge nel centro della capitale a lato di un vasto ed annoso parco. Una pergola ricoperta di fiori tropicali connette ed innesta l’antico bosco ai giardini nuovi del teatro. L’edificio è rivestito interamente nelle sue quattro facciate di marmi italiani e messicani. Misura 96 metri di fronte e 116 metri di lato ed occupa una superficie di due ettari.... L’edificio può considerarsi terminato per ciò che riguarda la costruzione e gli impianti delle macchine; ma non è finito rispetto alle opere di sculture e di decorazioni, che sono affidate ad artisti di larga rinomanza. Il costo dei lavori finora eseguiti ha raggiunto un importo corrispondente a venticinque milioni di lire italiane. La piattaforma. Le iniezioni di cemento 1971) laureato il 24 di dicembre del 1903. 16 Professore dal 1909 al 1969 nella facoltà di Architettura della Universidad Nacional Autónoma de México e progettista di più di 130 opere.

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Avvenne che alcune di queste cause combinate fecero inclinare la piattaforma sensibilmente. Come provvido rimedio per aumentare la reazione del terreno nei punti più deboli e cedevoli si ricorse alle iniezioni di cemento e calce liquida ... Le iniezioni vennero fatte per mezzo di un tubo di ferro lungo 9 metri conficcato nel suolo, a modo di una immensa siringa ... La miscela liquida, da un recipiente collocato sul tetto perché possa acquistare la voluta pressione, discende nella siringa: donde irradia nella porosità del sottosuolo, formando vere ramificazioni di radici pietrose... L’efficacia delle iniezioni fu assoluta. La piattaforma ha cessato di inclinarsi ed ogni pericolo è rimosso. Le entrate Il giardino coperto In questo teatro del Messico, l’innovazione fondamentale delle piante consiste nell’aver spostato in avanti la cupola sopra un grande Hall foggiato a guisa di giardino coperto e di avere allineato le entrate laterali sull’asse dell’Hall. La sala a forma d’imbuto Un immenso imbuto nel cui vertice siano collocati gli attori e sul lato opposto gli spettatori, costituisce l’immagine limite ideale per una sala di spettacoli. Nel teatro del Messico ... il boccascena, ellittico, con una serie di archi si allarga gradatamente verso il fondo concavo della parte opposta; e tutte le linee del soffitto, delle gallerie, dei palchi, del pavimento tendono a convergere la visuale sopra il quadro degli spettacoli. Il sipario Il muro-sipario del fronte ha uno spessore di 32 centim. e pesa 21228 kg. È rivestito da un grande mosaico di cristalli opalescenti, fabbricato dalla casa Tiffany di New-York. Il quadro rappresenta la superba e luminosa vallata del Messico con i laghi, con i due vulcani spenti nevosi. L’illuminazione occulta Le pareti e i soffitti luminosi L’illuminazione elettrica è completamente occulta. Per sostituire i vecchi lampadari si sono adottate pareti a vetri con le lampade nascoste nello spessore dei muri e soffitti doppi con luce riverberata. ... La sala degli spettacoli invece viene illuminata da un grande plafond trasparente e da vetrate luminose collocate negli intradossi degli archi. Il plafond leggermente concavo è formato da poliedri di cristalli opalini e con figure in vetri fusi a colore che rappresentano Apollo e le nove muse. Il palcoscenico Le macchine Il piano dell’orchestra è diviso in tre sezioni ascensionali mosse da pistoni idraulici. Il pavimento del grande palcoscenico è diviso in sei piattaforme ascensionali. Il pavimento del piccolo palcoscenico è pure costituito da un grande ascensore che si abbassa fino al piano della strada e serve per innalzare le vetture, i cavalli, gli automobili ecc. Tutti i movimenti sono prodotti da forza elettrica e idraulica.

1904 Nel 1904, ebbe inizio la costruzione della cattedrale di Acapulco su progetto di Adamo Boari, nel 1909 subì i danni per un forte terremoto che causò il crollo della copertura che fu rifatta provvisoriamente in legno, quella che rimase fino al 1938 quando un uragano la distrusse. Del rifacimento fu incaricato l’arch. Federico Mariscal ed i lavori si conclusero nella decade dei ‘50.

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Il 27 novembre del 1904 hanno inizio i lavori del teatro Nacional con lo scavo per la fondazione17, da parte della Milliken Bros. Il palazzo fu eretto su una piattaforma di 7500 mq di spessore 2,4 mt (1,38 m di calcestruzzo e il resto di tezontle, una roccia vulcanica). Una volta terminata la struttura metallica, nel 1907 si sono presentati i primi segni di affondamento dell’edificio, inclinatosi prima verso sud-ovest, poi verso nord-ovest. Nel 1910, con la costruzione dei muri e l’installazione dei macchinari scenici, il peso dell’edificio aumentò e nel 1911 i terremoti provocarono un aumento nell’affondamento, arrivato ad 1,80 mt. nel 1921. Tra le possibili cause, le fluttuazioni della falda e la poca consistenza del terreno con la diversa resistenza tra le sue parti, poiché le vecchie costruzioni l’avevano compressa in modo irregolare. Da subito furono fatti dei pozzi che permisero di individuare sotto l’edificio una corrente d’acqua nella direzione nord-ovest, costruiti dei cassoni con lamiere d’acciaio per incanalare il flusso d’acqua. Vennero poi iniettate migliaia di tonnellate di miscele cementizie che hanno fermato i cedimenti. Boari era il direttore dei lavori18 e seppe circondarsi di eccellenti personalità, che vanno dagli scultori Bistolfi e Giannetti19, fabbri di straordinario talento come Alessandro Mazzucotelli, e tecnici di alta specialità, come l’ungherese Géza Maróti 20, tutti talenti dell’Art Noveau ed il catalano Agustin Querol (1860-1909), autore dei quattro gruppi bronzei con i Pegasi, eseguiti dopo la sua morte dalle fonderie Lippi a Pistoia. Per questo, nel 1906 viaggia due volte negli Stati Uniti e in Europa per selezionare lui stesso gli artisti che avrebbero partecipato all’opera. Nel 1908 è di nuovo in Europa, a Firenze per "monitorare" le opere scultoree per le facciate e a Milano, dove incontra il Mazzucotelli, poi a Parigi a parlare con Querol. A New York contatta l’architetto William H. Birkmire21 allora presidente della Building and Engineering Co. per il progetto delle strutture metallice e la Milliken Brothers, per la loro esecuzione e l’ingegnere Charles F. Smith, per l’impianto elettrico e di ventilazione. A Colonia, in Germania i tecnici che progettano e costruiscono i macchinari scenici ed accessori.

Ufficialmente la prima pietra fu posata dal presidente Porfirio Diaz il 12 aprile 1905. è responsabile non solo del progetto, ma anche della sua esecuzione, con un onorario pari al 4% del costo dell’opera. 19 Pare che del gruppo facessero parte anche Adolfo Ponzanelli di Carrara, Enrico Alciati ed Emilio Boni. 20 Géza Rintel Maróti (1875-1941) architetto, scultore, pittore e decoratore, formatosi tra Budapest e Vienna, realizza nel 1906 il padiglione ungherese all’esposizione internazionale di Milano e nel 1909 quello a Venezia: Collabora per lungo tempo alle decorazioni del Teatro Nazionale di città del Messico, sue l'arco a mosaico del proscenio e la tenda di sicurezza che la casa Tiffany a New York ha completato, le vetrate centrali nell'atrio e la scultura esterna per la cupola centrale. Realizza importanti opere per Albert Kahn e Eliel Saarinen nel Fisher building e Livingston Memorial. Nel 1931 torna in Ungheria come professore alla Scuola di Arte applicata di Budapest. 21 William Harvey Birkmire (1860-1924) inizia la sua carriera nel settore siderurgico a Filadelfia e fu un'autorità nella moderna costruzione in acciaio. Nel 1895 fonda il suo studio di architettura a New York, applicando le sue tecniche di costruzione in acciaio alla progettazione di grandi edifici. Tra i libri da lui scritti: The Planning and Construction of American Theatres - J. Wiley & sons, 1896. 17

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Leonardo Bistolfi (1859-1933) scultore e critico d’arte torinese, protagonista della scultura Liberty italiana, è l’autore del frontone allegorico sull’ingresso, un’opera maestosa conosciuta come il grande gruppo dell’Armonia con una figura centrale femminile che rappresenta appunto l’Armonia, circondata da stati d’animo musicali: il dolore, la rabbia, la gioia, la pace e l’amore. Il tutto è racchiuso in un semicircolo con putti, sormontato dalle sculture della Musica (a sinistra) e dell’Ispirazione (a destra), anch’esse di Bistolfi. Le sculture furono realizzate materialmente a Carrara, presso lo studio Nicoli e montate alla fine del 1910. Hugo Géza Maróti artista del liberty, realizza il Velario della cupola centrale che rappresenta il dio Apollo circondato dalle nove muse, il colorato arco del proscenio sopra il sipario vetrato dedicato all’arte teatrale attraverso i secoli, e nella parte superiore della cupola il complesso in bronzo con quattro figure femminili che rappresentano il Dramma, la Tragedia, la Commedia e l’Allegria, che si tengono per mano coperte da ghirlande di fiori, mentre sostengono la sfera con il cactus da dove emerge l’aquila che divora un serpente. Louis Comfort Tiffany22 , suo il sipario di oltre 20 tonnellate, unico al mondo, composto da un milione di pezzi di cristallo opalescente che rappresenta la valle del Messico, pare ispirato ad un quadro del pittore Gerardo Murillo, noto come il Dr. Atl. Alessandro Mazzucotelli (1865-1938) mastro ferraio e decoratore milanese, assistito nel processo di rifinitura dal fabbro messicano Luis Romero Soto, ha realizzato i cancelli di ferro del palazzo con le stilizzatissime cetre nella lunetta, affiancate a deliziosi motivi floreali, su schema di Boari. Ogni mattina Boari arrivava al cantiere accompagnato dalla sua "Aida". Era, per lui cacciatore, una compagna insostituibile, una compagna singolare che attirava l’attenzione per l’incredibile capacità con cui seguiva gli ordini del suo padrone. Aida era una setter che appare scolpita da Fiorenzo Gianetti tra i medaglioni che decorano le facciate esterne.

Fig. 11. Uno dei medaglioni del Teatro Nazionale; rappresenta Aida, la cagna Setter di Adamo Boari opera dello scalpello di Fiorenzo Gianetti.

Louis Comfort Tiffany (New York, 1848 – 1933) è stato un artista e designer statunitense. Famoso per le sue creazioni Art Nouveau in mosaici di vetro legato a stagno, detto vetro Tiffany. Fu anche pittore e creatore di gioielli ed elementi di arredo 22

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Fig. 12. Veduta generale, firmata da Boari e datata 1915.

La costruzione di quello che era originariamente chiamato Teatro Nacional ed oggi Palacio de Bellas Artes è stata realizzata in due fasi, la prima fu iniziata nel 1904, con il progetto di Adamo Boari. Per questa impresa straordinaria fu incaricata la società Milliken Brothers di Chicago della realizzazione delle fondazione e della struttura metallica. Acciaio, cemento, marmo bianco di Carrara sulla facciata e marmi messicani di varie tonalità all’interno sono stati i materiali principali per la sua costruzione. I lavori furono sospesi durante la rivoluzione e Boari nel perde il controllo dal 1912 e nel 1916, rientra in Italia, lasciando concluso l’intero esterno dell’edificio, tranne che per la copertura della cupola della sala. Le opere riprendono nel 1930 per il completamento sotto la direzione dell’architetto Federico Mariscal, che per ordine del governo apporta modifiche soprattutto nella zona del vestibolo, incluso decorazioni Art Deco, prodotta dalla casa Edgar Brandt di Parigi, ispirata a motivi di origine preispanica. Di seguito, in una fotografia del 1905, "la Scuola Nazionale di Belle Arti" in cui è indicato Adamo Boari, allora titolare della cattedra di "Composizione II". Nel 1906 è membro della giuria nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Milano, per l’inaugurazione del valico del Sempione, considerata la più grande opera d’ingegneria mai eseguita. Qui conosce Géza Maróti, autore del padiglione Ungherese.

1907 Su insistenza dei promotori della nuova Colonia Roma, acquista un lotto di terreno di circa 1000 mq. di forma triangolare delimitato dai viali Veracruz e Jalisco (oggi Insurgentes e Álvaro Obregón) e l’ampia strada di Monterrey, su cui costruisce, nel

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1908, una casa con caratteristiche d’avanguardia per quei tempi in Messico, con una struttura a pareti di cemento armato, ed in uno stile che all’epoca era chiamato modernismo. La sistemazione interna sembra essere stata curata da Géza Maroti.

Fig. 13. Foto dei docenti della Scuola Escuela Nacional de Bellas Artes 1905. La freccia indica Boari

Fig. 14. La casa dei Boari in una fotografia del 1911 vista dall’angolo tra i viali di Veracruz e Jalisco

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Il Messico al tempo di Adamo Boari A partire dal 1876 il Messico era caduto sotto il potere autoritario, trasformatosi in aperta dittatura, del generale Porfirio Díaz. Nel 1910, Francisco Madero, un ricco proprietario creolo progressista, chiamò le masse popolari e i proprietari più illuminati all’insurrezione, che dilagò rapidamente. Il regime di Díaz crollò e Madero nel 1911 venne eletto presidente. Di fronte al fatto che le correnti rivoluzionarie più radicali, guidate da Emiliano Zapata, agitavano lo spettro della riforma agraria, le forze conservatrici guidate dal generale Victoriano Huerta fecero assassinare Madero e nel 1913 occuparono la capitale. Contro Huerta mossero le truppe dei generali Venustiano Carranza e Álvaro Obregón e le formazioni irregolari di Zapata e Francisco (Pancho) Villa, che sconfissero Huerta, il quale lasciò il Messico nel 1914. Carranza formò allora nel 1914 un governo costituzionalista, inteso a dare al paese una costituzione e la libertà politica e a inaugurare un corso di riforme sociali. Villa e Zapata, tuttavia, continuarono la lotta con l’obiettivo di dare la terra ai contadini poveri. Il Messico piombò nel caos. Le masse popolari si divisero: mentre gli operai appoggiavano i costituzionalisti, i contadini poveri seguivano Zapata e Villa (che si sarebbe poi trasformato in un vero e proprio bandito). Nel 1917 Carranza fu eletto presidente e varò una costituzione assai avanzata che sanciva la laicità dello Stato, il matrimonio civile, la sottrazione dell’insegnamento primario alla Chiesa cattolica, la nazionalizzazione delle miniere, l’avvio della riforma agraria, i diritti politici e civili, il carattere legale dei sindacati. Il che però non valse ad assicurare la pace interna. Zapata, rimasto su posizioni radicali, venne assassinato nel 1919, lo stesso Carranza cadde vittima di un attentato nel 1920 e Villa fu a sua volta assassinato nel 1923. Tra il 1920 e il 1924 la presidenza venne retta da Obregón e tra il 1924 e il 1928 dal generale Plutarco Elías Calles.Calles si fece garante dell’attuazione della Costituzione, riorganizzò inoltre l’esercito nazionale e fondò il Partito nazionale rivoluzionario. Quando nel 1928 egli lasciò la presidenza, la Rivoluzione messicana poteva dirsi conclusa.

Uomo di innumerevoli talenti, Boari ha sempre mostrato interesse per le scienze applicate, legate alla sua formazione di ingegnere ed alla sua partecipazione a progetti delle ferrovie in Italia ed in Brasile, ed un’intensa passione per la nuova tecnologia che significava il nascente mondo automobilistico.

Fig.15. Disegno, datato 1912, per una monoposto dal nome "Aida"

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Fig. 16. La Pergola foto di Guillelmo Kahlo del 1915.

Intanto sebbene la costruzione del Teatro si fermasse, uno degli spazi fu messo in funzione: "La Pergola" in acciaio progettata da Boari a forma di serpentina e posta lungo il lato orientale del Parco Alameda per l’accesso fino alle estremità del parco nelle direzioni nord e sud.

1913 Da tempo convive con Maria Dandini Jáuregui (1883-1955) figlia del conte italiano Saverio Dandini De Sylva, più giovane di 20 anni. Il 7 gennaio, a Città del Messico, nasce la loro prima figlia María Guadalupe23. Il 12 dicembre si sposano a Firenze, dove la moglie era nata. Con la fine del regime Diaz e l’arrivo alla presidenza di Francisco Madero, l’attività professionale di Boari sembrò riprendersi. Fu prevista anche una dotazione di bilancio per la continuità del lavoro del Teatro Nazionale ed il presidente stesso visita l’edificio. 23

Sposata nel 1938 con Harald Marco Heiman Salomon (1914-1990). Morta a Lugano CH nel 1992.

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Dopo gli eventi del 1913, con l’uccisione di Madera, le cose cambiarono completamente ed anche la costruzione dei templi di Matehuala e Guadalajara si fermò e nel 1914, con le insurrezioni armate in Messico e l’inizio delle ostilità in Europa, l’attività di Boari fu praticamente interrotta. Una situazione estremamente difficile, in cui cerca tranquillità ripensando alla sua Ferrara: nel 1914 invia al padre Vilelmo un libretto di suoi sonetti, ispirati ad alcune figure femminili di Casa d’Este: Parisina, Marfisa e Leonora, dal titolo “Sonetti d’un carador d’Marrara24. Continua a seguire i lavori di consolidamento del terreno nell’area del teatro e la costruzione di due case in colonia Juárez, una di queste, in calle de Nápoles 67 esiste ancora, anche se ampiamente ritoccata. Nel 1914 elabora i piani e i modelli definitivi per il completamento interno del Teatro Nazionale e li consegna alla commissione incaricata della supervisione; nel 1915, Boari prepara un inventario dello stato del lavoro, (1095 piante, numerosi modelli e vari esempi di decorazioni in legno e bronzo), chiede a Guglielmo Kahlo25 una raccolta fotografica e nel dicembre 1915 lo presenta alla Segreteria de Comunicaciones Y Obras Publica (SCOP).

Fig. 17. lo stato delle opere esterne del Teatro Nazionale nel 1915.

Sonetti di un carrettiere di Marrara, così si definiva Boari. Guillermo Kahlo Kaufmann (1871-1941) fotografo tedesco naturalizzato messicano, padre di Frida Kahlo. Ha documentato fotograficamente importanti opere architettoniche, chiese, strade, nonché industrie e aziende in Messico all'inizio del XX secolo. 24 25

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Fig. 18. il modello principale lasciato da Boari per il completamento del Teatro Nazionale.

A causa del suo attributo di straniero, la sua situazione nell’Accademia fu attaccata e nel 1915 fu estromesso dall’insegnamento dalla Escuela Nacional de Bellas Artes.

1916 Nel mese di marzo, Adamo, Maria e la piccola Guadalupe partono per l’Italia passando da New York. In Italia si stabiliscono a Ferrara nella palazzina vicino a porta degli Angeli, che aveva acquistato nel 1914 e che si era fatto sistemare dal fratello Sesto. A Ferrara Adamo Boari si è fatto costruire a partire dal 1913 una casa, sulla vigna di corso Ercole I d’Este, dal fratello ingegnere Sesto, mandandogli i disegni dal Messico; casa in cui ha vissuto poco perché la moglie, contessa Maria Dandini De Sylva, la riteneva troppo periferica, quasi in campagna. Arch. Giulio Zappaterra, dal 1984 proprietario della casa (in Adamo e Sesto boari architetti ferraresi del primo Novecento

La Palazzina degli Angeli eretta su progetto di Adamo, ma materialmente realizzata dal fratello Sesto tra il 1913 ed il 1916, si rifà al quattrocento Ferrarese, tentando di ricreare l’ambiente del preesistente Convento di S. Maria degli Angeli ... la trifora della facciata, le lunette delle porte i cotti, in un misto con il liberty ed un Gres raffigurante S, Giorgio che uccide il drago, della Manifattura di Signa. All’incirca negli stessi anni Adamo sistema anche il Palazzo Fioravanti, sempre in corso Ercole I d’Este, lasciatogli dal padre. Gli piace andare a caccia, anche se spesso è ammalato ed ha un enfisema polmonare.

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Viene eletto presidente dell’Associazione Ferrarese degli Ingegneri e Architetti, ma a Ferrara rimarranno ben poco tempo “... per la guerra, per gli aeroplani, per cento cose...”, come scrive all’amico Ferrarese Giuseppe Agnelli (1856-1940) allora direttore della Biblioteca Ariostea.

1917 Roma, si stabiliscono in Via Parioli 17. Il 17 febbraio, nasce la seconda figlia Manuela, detta Elita26. Partecipa alle attività delle associazioni professionale ed è eletto presidente del Comitato esecutivo della Federazione fra i sodalizi degli Ingegneri e Architetti Italiani e presidente dell’Associazione Cultori di Architettura. Si adopera per far allontanare dal Campidoglio l’Ambasciata germanica, che aveva sede a palazzo Caffarelli e si batte perché il palazzo, costruito sui resti del tempi di Giove venga abbattuto. La sua idea è quella di dare un aspetto monumentale a tutto il campidoglio, il quale, integrato, risulterebbe, il monumento dei monumenti. Con la guerra in lui è cresciuto il sentimento patriottico che lo porta ad identificare nella “questione” di palazzo Caffarelli, il suo contributo alla causa italiana. Per questo scrive e fa pubblicare: Per un monumento a Dante in Campidoglio e la questione del Palazzo Caffarelli

1918 Pubblica un libro per far conoscere la sua opera: La costruzione di un teatro, Editore Danesi Roma, con foto di Kahlo, piante e disegni del teatro Nazionale del Messico

1919 Candidato al parlamento nazionale per il blocco democratico liberale alle elezioni politiche del 16 novembre 1919, così Filippo de Pisis27 lo presenta agli elettori di Ferrara, in un articolo sulla Gazzetta Ferrarese28: “Egli è uno dei più grandi architetti moderni! Dopo aver fatto parlare di sé i cenacoli di tutto il mondo, da tempo se ne viveva tranquillo ed umile per quella sana bonomia, vorrei dire per quella fine ironia ariostesca della natura ferrarese, in una sua modesta casa al limitare di una delle sue fertili vigne. In essa ricercava amoroso le glorie patrie o nuove forme statiche di bellezza per la costruzione di qualche superbo edificio da erigersi in un punto della terra.”.

Pittrice, allieva di Giacomo Balla ha studiato pittura a Parigi, dipinse moltissimi quadri ,tanti dei quali dedicati a Stromboli ove per 50 anni soggiornò per lunghi periodi. Morta a Roma il 27 gennaio 2003. 27 Luigi Filippo Tibertelli de Pisis (Ferrara, 1896–1956), pittore e scrittore è stato uno tra i maggiori interpreti della pittura italiana della prima metà del Novecento. 28 F.De Pisis Adamo Boari, la funzione politica e sociale dell’arte e un candidato del blocco. Gazzetta ferrarese 15 novembre 1919. 26

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Il Comune di Ferrara esamina la sua proposta di creare all’interno del Palazzo dei Diamanti un Museo della Vittoria con spazi per conferenze ed incontri pubblici, integrandolo con il Museo del Risorgimento, in sentore di trasferimento. Ma la proposta non ottiene risposta. Si interessa al concorso, bandito il 15 gennaio del 1920 per un monumento al fante da erigere sul San Michele, per “una grande opera d’arte che dal luogo tragico si elevi in linea purissima”.29 A Ferrara collabora con il fratello Sesto al progetto, commissionatogli dai sigg. Buzzoni e Piacentini di costruire un teatro moderno, ancora oggi di proprietà privata. I lavori iniziano nel 1920 e durano fino al 1926. La struttura è in cemento armato ed intralicciature di ferro. La sala progettata con la curva Boari. Il Teatro Nuovo di Ferrara è stato inaugurato per la prima volta il 3 gennaio 1926 con la commedia di Umberto Giordano La cena delle beffe. L’edificazione della sala fu realizzata tra il 1920 e il 1926 , mentre la facciata fu conclusa nel 1931. Il progetto si deve agli ingegneri e architetti Sesto e Adamo Boari, tra loro fratelli. Nell’ideare la sala teatrale i due misero a frutto esperienze maturate nella costruzione di edifici fuori dei confini nazionali, per esempio in Svizzera, a Città del Messico e in altre località americane; per il Teatro Nuovo realizzarono la “curva fonica Boari”, felice esito di esperienze sulla fonicità condotte nei maggiori teatri europei, senza peraltro dimenticare la ricca tradizione teatrale ferrarese. Lidia Bortolotti, Fonte MIBAC

Segue i lavori di restauro di una casa privata a Ferrara, in via Fondo Banchetto angolo Via Ripagrande.

1921 Conduce uno studio del Piano regolatore del Colle Capitolino e dei Fori imperiali e redige uno studio di massima per il Monumento al Fante Italiano sul Monte San Michele, presentando il progetto fuori concorso. Adamo Boari Studio per il piano regolatore del Colle Capitolino e dei Fori Imperiali. (Roma.E.Calzara, 1921). Si tratta di uno studio sulla sistemazione del Colle Capitolino, delle adiacenze del Monumento a Vittorio Emanuele, e del collegamento di P.za Venezia con la Via Cavour e con il Teatro di Marcello: studio condotto con molta coscienza e con grande amore per la Città.Per il prolungamento di Via Cavour l’autore si tiene approssimativamente allo stesso tracciato proposto dalla Commissione governativa nominata per lo studio della sistemazione edilizia del Colle Capitolino, variandone però alcuni particolari e creando uno speciale ingresso monumentale al Foro Romano, visibile da Piazza Venezia.Il versante verso Piazza Mentana e il Palatino sono risolti con la creazione dì un grande parco, formato dalla congiunzione dei vecchi giardini di villa Capparelli dell’Ospedale Tedesco e della Rupe Tarpea."Questo parco di alberi annosi — dice l’autore — che si apre sui fori e sul paesaggio Saranno ottantuno i progetti sottoposti alla giuria e furono esposti nella Pinacoteca di Brera a luglio dello stesso anno e in quell'occasione furono invitati al concorso di 2° grado i cinque finalisti: Enrico Griffini con Paolo Mezzanotte, Guido Cirilli, Alessandro Limongelli, Giuseppe Mancini, Eugenio Baroni. 29

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grandioso dell’Urbe morta, diventerà il ritrovo più eletto della Roma viva, che sta rigermogliando dopo la potatura della guerra. Una città moderna ideale avrà sempre un parco nel centro, Roma lo possederà mirabile, col suo parco capitolino.” Nell’ultimo limite del Colle verso il Teatro di Marcello, il Boari propone la costruzione di una serie di nuovi palazzi, che, per essere limitrofi a questo nuovo parco e nel centro della Città, avrebbero un valore commerciale grandissimo, concorrendo così a risolvere facilmente la soluzione del problema finanziario della sistemazione generale del Colle. Architettura e Arti decorative Rivista d’arte e di storia Fasc. II luglio Agosto 1921

Nominato nella commissione giudicatrice del concorso per il Monumento ai caduti di Ferrara, non aderisce, vince Giuseppe Boni, ma il monumento non viene realizzato.

1922 É nominato professore onorario dell’Accademia di Belle Arti di Carrara, in riconoscimento al lavoro fatto per il teatro Nazionale. Il 21 settembre parte da Saint Nazaire sul Flandrè, per il Messico, con la moglie, lasciando le figlie a casa. Non aveva mai prima conosciuto il distacco dalle figliolette e dalla patria nelle mie peregrinazioni, quando ero solo [A. Boari Lettera a Giuseppe Agnelli del 18.09.1922]. La casa di Colonia Roma fu affittata in quel periodo al signor R.L. Wiles, che gestiva le stazioni di rifornimento del marchio "Corona Roja". In seguito lo autorizza a demolire la recinzione ed a costruire una stazione di servizio nel giardino.30 Continua ad inviare proposte per la conclusione dei lavori del Teatro Nazionale, compresa l’installazione di un cinema per sfruttare l’edificio e prevenirne il deterioramento. Nel 1923 elabora un progetto per la sistemazione della piazza e dei giardini e pensa di tornare in Messico, ma la sua salute e l’animosità dei nuovi architetti "moderni" nella SCOP frustrarono il tentativo. Nel 1924 è eletto Accademico di San Luca31.

1925 Boari pubblica: Giacimenti petroliferi nel delta del Po. Studi ed elementi per la difesa nazionale. Roma 1925

parte delle recinzioni eseguite da Romero Soto, autore di parte delle ringhiere delle Belle Arti, furono usate come aste nella stazione di servizio 31 "L'Accademia Nazionale di San Luca, (fondata nel 1593) ha lo scopo di promuovere le arti e l’architettura, di onorare il merito di artisti e studiosi, eleggendoli nel Corpo accademico, di adoperarsi per la valorizzazione e la promozione delle arti e dell’architettura italiane." (Statuto 2005, art.1) 30

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1926 Partecipa con Giovanni Boni al Concorso per il Palazzo delle Nazioni a Ginevra, bandito nell’aprile 1926 dalla Società delle Nazioni fra tutti gli architetti degli stati associati, che inviano 377 progetti. Il progetto ottiene il secondo premio. Concorso per il Palazzo delle Nazioni La Giuria, composta da nove architetti: Berlage, Burnet, Gato, Hoffmann, Horta (presidente), Lemaresquier, Moser, Muggia e Tenghom, seleziona, in tre gruppi, nove progetti per merito, attribuendo al primo gruppo un premio di 12.000 franchi svizzeri, al secondo una prima menzione di 3800 franchi e al terzo una seconda menzione di 2500 franchi. L’Italia vede premiati, oltre ai due progetti del primo raggruppamento (Vágó e Broggi-Vaccaro-Franzi), anche gli architetti Boari e Boni per il secondo e Marcello Piacentini, Rapisardi e Mazzoni per il terzo. Fra i progetti vincitori viene scelto, per l’esecuzione, il lavoro dell’architetto Nenot; la soluzione progettuale esecutiva viene, però, affidata ad un gruppo di lavoro composto da alcuni dei vincitori - Nenot e Lefèvre francesi, Flegenheimer svizzero, Broggi italiano e Vágó - i quali modificano il progetto vincitore. I lavori, dopo una lunga procedura caratterizzata da commissioni e sottocommissioni, vengono completati nel 1935. Il Concorso per il Palazzo della Società delle Nazioni a Ginevra, in «L’Architettura Italiana», XXII, giugno 1927, 6, pp. 68 e 69

Fig.19. Adamo Boari e Giovanni Boni. Progetto per Ginevra

1928 Adamo Boari muore a Roma il 24 febbraio 1928, all’età di 65 anni. Stava lavorando al progetto del serbatoio ausiliario del quartiere Giardino, in piazza XXIV Maggio a Ferrara, siglato dal suggestivo motto “Padi Unda”32 che sarà preso ad ispirazione dall’ufficio tecnico per la costruzione anni dopo. 32

In latino: l’onda del Po.

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Fig. 20. Progetto acquedotto FE conservato alla biblioteca Ariostea a Ferrara Acquedotto di Ferrara con derivazione acqua del Po. 1928 Progetto per il serbatoio pensile in scala 1:100, disegno a matita su cartoncino: Prospetto e sezione del serbatoio, particolari del coronamento e planimetria della zona. In alto a sinistra: Le sorelle di Fetonte caduto nel Po furono tramutate in pioppi.

Il 26 febbraio 1928, la notizia apparve sui giornali messicani. La nota sull’Excelsior, firmata N.M. (si suppone Nicolás Mariscal) diceva tra l’altro: Si dica quello che si vuole, il nostro Teatro Nazionale è opera di un genio, che è appena morto nel mezzo dell’indifferenza più ingiusta e sleale: l’architetto Adamo Boari, a cui gli architetti non hanno pagato il tributo commemorativo più semplice, che ha subito le conseguenze dell’oblio - quando non dell’oltraggio - e di quelli che erano lontani - quasi come esiliato - dal lavoro in cui ha messo tutta la sua anima come artista, come ha fatto nel nostro affascinante palazzo delle Poste.

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Ferrara. Nel maggio del 1928 sfilò per le strade cittadine il corteo funebre con le spoglie di Adamo, per essere trasportate a Marrara, nella tomba di famiglia. Il teatro nuovo rimase chiuso per l’intera giornata in segno di lutto.

Dopo il 1928 Tra il 1930 ed il ‘34 l’architetto Federico Mariscal, discepolo prediletto di Boari alla Escuela Nacional de Bellas Artes, fu incaricato di sovrintendere alle opere di conclusione dell’edificio, operando in modo discreto con alcuni interventi in stile "ArtDecó", in linea con le nuove avanguardie. ll palazzo venne inaugurato ufficialmente il 29 novembre 1934 dal presidente Abelardo L. Rodríguez con il nome di Palacio de Bellas Artes, cattedrale della cultura in Messico in cui ancora oggi una delle sale porta il nome dell’architetto italiano. Il Palacio de Bellas Artes è uno dei teatri più importanti del mondo, per la sua bellezza, maestosità ed importanza. Essendo questo il più importante centro culturale nel suo genere con un programma continuo di attività artistiche di ogni genere, all’interno vi è il Teatro Nacional de México, e due musei di grande importanza per il paese: Museo del Palacio de Bellas Artes e il Museo Nacional de Arquitectura, realizzando così il concetto originale con cui è stato progettato da Boari. Nel 1934 prima della inaugurazione, furono chiamati a decorarlo i grandi muralisti e pittori messicani del XX secolo, che vi hanno realizzato: "El hombre controlador del universo” Diego Rivera, “Khatarsis” José Clemente Orozco, “La nueva democracia”, “Victimas de la guerra”, “Victimas del fascismo” e “Tormento y apoteosis de Cuauhtémoc” David Alfaro Siqueiros, “Nacimiento de la nacionalidad” e “México de hoy” Rufino Tamayo e “La humanidad liberándose” Jorge González Camarena.

Nel 1972 è stato completato il Tempio espiatorio di Guadalajara, seguendo quasi l’intero progetto Boari; il suo interno neo-gotico, sorprende sempre i visitatori. Il 4 maggio 1987 la quinta Casa de Correos è stata dichiarata Monumento Artistico della Nazione e a metà degli anni ‘90 l’edificio che aveva subito numerosi interventi è stato ampiamente restaurato.

Casa Boari Nel resede della casa ha continuato a funzionare il distributore di benzina di Corona Roja fino al 1938, quando dopo l’espropriazione petrolifera, la stazione chiuse i battenti e rimase abbandonata fino al 1940, anno in cui le figlie l’hanno venduta. Demolita per far posto ad un edificio a destinazione mista con negozi al piano terra e sei livelli di appartamenti, che è crollato durante il terremoto del 1985. Il lotto è ora un giardino intitolato alla memoria dello scrittore Juan Rulfo e non vi è nessuna targa che ricordi che c’era la casa di Adamo Boari.

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L’archivio Boari Nel 1984 la figlia Manuela ha donato al Museo Nacional de Arquitectura, presso il Palazzo delle Belle Arti di città del Messico, tutti i documenti relativi a tale progetto, mentre l’intero archivio privato di Boari è stato donato nel 1994, al comune di Ferrara ed è conservato nella Biblioteca Ariostea.

Scritti di Adamo Boari Informe preliminar para la construcción del teatro Nacional In Anales de la Segreteria de Comunicaciones Y Obras Publica 24.10. 1907 Mexico Sonetti d’un carador d’Marrara Sonetti in dialetto, inviati al padre ed ispirati ad alcune figure femminili di Casa d’Este: Parisina, Marfisa e Leonora. Conservati nella Biblioteca Ariostea di Ferrara Dono Boari Accanto alla guerra: Reti e schermi contro i siluri. In “La Tribuna” a.XXV n. 28 del 28.01.1919 Per un monumento a Dante in Campidoglio e la questione di palazzo Caffarelli Tipografia del Senato, Roma 1917 La costruzione di un teatro, Danesi arti Fotomeccaniche Roma, 1918 Studio per il piano regolatore del Colle Capitolino e dei Fori Imperiali, E. Calzone editore Roma, 1921 Studio di massima per il monumento ossario al fante italiano sul monte San Michele E. Calzone editore Roma, 1921 Studi ed elementi per il Teatro Massimo di Roma, E. Calzone editore Roma, 1924 Giacimenti petroliferi nel delta del Po: studi ed elementi per la difesa nazionale, Roma Tipografia del senato 1925

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Bibliografia Checa-Artasu Martín M. (2015), “De Ferrara a la Ciudad De México pasando por Chicago: La trayectoria Arquitectónica de Adamo Boari (1863-1904)”, in Biblio 3wRevista Bibliográfica de Geografía y Ciencias Sociales, Universidad de Barcelona, Vol. XX, n.1111, Febrero. Codello Annette (2014), The Architecture of Luxury, Ashgate Publishing, London Marinelli Toselli Alessandra, Scardino Lucio (2015), Adamo e Sesto Boari architetti Ferraresi del Primo Novecento, Liberty House, Ferrara. Martínez Assad Carlos (2015), “Ocho décadas del Palacio”, in Revista de la Universidad de México, n.136 2015. Sánchez A. Guadalupe (2004), La administración también cuenta historias. El Palacio de Bellas Artes. Anuario 2003 Administración para el diseño, Universidad Autonoma Metropolitana, Diciembre. Vázquez Ángeles Jorge (2017) “Azares y coincidencias del arquitecto Adamo Boari casa del tiempo”, Revista UAM, n.41, Junio.

Sitografia Fierro Gossmann Rafael http://grandescasasdemexico.blogspot.mx/2016/02/indice-de-grandes-casas-demexico.html [consultato Ottobre 2018] Vernon Christopher, Condello Annette, s.d., Adamo Boari, Mexico City and Canberra Faculty of Architecture, Landscape and Visual Arts, The University of Western Australia, Australia https://www.academia.edu/29264363/Adamo_Boari_Mexico_City_and_Canberra [consultato Ottobre 2018]

ADAMO BOARI Y SUS PROYECTOS DE ARQUITECTURA CIVIL EN LA CIUDAD DE MÉXICO (1901- 1916)

MARTÍN M. CHECA-ARTASU FRANCISCO JAVIER NAVARRO JIMÉNEZ

This chapter describes the professional activity of engineer Adamo Boari at Mexico City between the years 1901 and 1916. We focus particularly on both National Theatre and Postal Palace projects. These two buildings are located in the Historic center of Mexico City and both represents the most well-known works of Adamo Boari. In addition to these works, we will review the case of a small project located in the Roma neighborhood which constitutes the only example of a private residence designed and built in Mexico by this Italian engineer.

¿Como llegó Adamo Boari a México? Adamo Boari (Marrara, 1863- Roma, 1928) es quizás uno de los nombres más conocidos del círculo de ingenieros y arquitectos italianos que se establecieron en México durante el régimen porfirista entre finales del siglo XIX e inicios del XX. Hasta antes de su llegada, Boari residía y trabajaba en la ciudad de Chicago donde desde 1894 había cultivado una importante trayectoria profesional, primero vinculado al proyecto de la World’s Columbian Fair y más tarde a través del libre ejercicio de su profesión como ingeniero. Así, su establecimiento en México fue fruto de una serie de circunstancias que entre los años 1898 y 1901 le obligaron a realizar continuas visitas al país. La primera de ellas fue cuando en 1898 presentó un proyecto dentro del concurso internacional para la construcción del nuevo Palacio Legislativo en la Ciudad de México1. Para conocer con más detalle la trayectoria en Estados Unidos de Boari y el asunto del concurso para la construcción del palacio legislativo se puede consultar: CHECA ARTASU, M. “De Ferrara a la Ciudad de México pasando por Chicago: la trayectoria arquitectónica de Adamo Boari (1863-1904)”, en Biblio 3W. Revista Bibliográfica de Geografía y Ciencias Sociales (Universidad de Barcelona), Vol. XX (1111), 2015 1

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En dicho concurso Boari obtuvo el segundo lugar y durante los siguientes meses recibió del jurado del concurso sólo la mitad del importe correspondiente a su premio, 7500 pesos, aduciendo la calidad de la distribución de la planta baja del futuro palacio presentada en su proyecto2. El galardón del concurso publicitado en la prensa de la época presentaba toda una serie de problemas para su cobro lo que provocó que Boari viajara varias veces a México con el objetivo de reclamar su premio, mismo que al parecer, nunca cobró en su totalidad. Irónicamente, sus viajes para reclamar el pago del premio le abrieron las puertas en México y le permitieron establecer relaciones directas con los personajes más prominentes del gobierno de Porfirio Díaz, en especial con el todopoderoso Secretario de Hacienda y Crédito público, José Yves Limantour. Probablemente, el cultivo de aquella relación podría explicar tanto los importantes encargos arquitectónicos que recibió, como que los mismos no fueran entregados a arquitectos mexicanos. Aquellos viajes de reclamación también le permitieron codearse con miembros de la jerarquía católica, para quienes diseñó y construyó importantes obras de arquitectura religiosa en las ciudades de Monterrey, Matehuala, Atotonilco Alto y Guadalajara. En esas obras religiosas Boari supo imprimir el carácter historicista del pensamiento arquitectónico de su época. No sólo eso, también puso a circular el uso de las más modernas técnicas constructivas, aplicadas a las enormes estructuras de acero que demandaban la arquitectura neogótica, neorrománica y neobizantina de sus proyectos, razón por la cual Boari fue considerado un referente en la construcción de arquitectura religiosa entre la jerarquía católica de su época3. En el ámbito civil, Adamo Boari también realizó proyectos de importantes dimensiones y de gran trascendencia política y social. El Edificio de Correos y el Teatro Nacional, ambos localizados en el Centro Histórico de la Ciudad de México, fueron diseñados entre 1901 y 1904 y representan las obras civiles más importantes de la carrera de Boari. A nivel profesional, ambos trabajos lo proyectaron como uno de los más célebres y envidiados constructores dentro del mundillo de la arquitectura mexicana de la época. De los dos proyectos, Boari sólo logró concluir el Edificio de Correos en 1907. La construcción del Teatro Nacional tuvo que detenerse durante los años álgidos de la Revolución. En 1916, no viendo claridad en la continuación de las obras, Boari dejó México. El proyecto fue retomado por el arquitecto Federico Mariscal en 1930 concluyéndose cuatro años más tarde. Tristemente, Boari no logró ver concluida su obra magna pues murió en 1928. Además de esos dos edificios, en 1907 Boari construyó su residencia particular en la colonia Roma, donde por 9 años cultivo amores familiares y amistades culturales y políticas de distinta índole. La casa fue derribada pero todavía se conservan imágenes

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Proyecto premiado. El Tiempo, 24 de junio de 1898, p.4 Sobre este tema se desarrolla en este mismo volumen un capítulo en específico.

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de ella. Se trata de un buen ejemplo de arquitectura domestica porfiriana que amerita un estudio en detalle. Así, en el presente capítulo reseñaremos las tres principales obras construidas y proyectadas por Adamo Boari en la Ciudad de México entre los años 1901 y 1916. Ejemplos señeros de la actividad proyectual y constructiva desarrollada por el ingeniero italiano en el México porfiriano. Unos apuntes, si acaso iniciales, que buscan, ante todo, dar a conocer su obra en conjunto.

El Edificio de Correos Al iniciar el nuevo siglo la Secretaría de Comunicaciones y Obras Públicas decidió modernizar una serie de infraestructuras necesarias para la administración del régimen. Los dos primeros años del siglo XX, 1900 y 1901, fueron fundamentales en la toma de decisiones sobre los nuevos edificios estatales que deberían construirse en la Ciudad de México. Además del Palacio de Comunicaciones y Obras que albergaría a la propia Secretaría, el nuevo Teatro Nacional y el Edificio de Correos fueron los proyectos edilicios más importantes del régimen de Porfirio Díaz localizados en el centro de la capital. Los tres edificios fueron planeados durante aquellos primeros años del siglo y constituyeron la parte más visible de una serie de celebraciones que el régimen pensaba llevar a cabo durante toda la década de 1910 con motivo del inicio de la revolución que independizó a México de la Corona española. El proyecto de construcción del nuevo Edificio de Correos, según sus propios artífices, surgió de la preocupación del Estado por el notable incremento en la demanda del servicio de correos que durante aquellos años habían experimentado sus oficinas centrales y provinciales. Por esa razón, hacia el año de 1900 la Secretaría de Comunicaciones acordó la conveniencia de erigir un nuevo edificio que tuviese las dimensiones necesarias para dar un buen servicio y que en el futuro simbolizara el grado de progreso y bienestar por el que atravesaba el país durante el régimen.4 El diseño del nuevo edificio le fue encargado el ingeniero Adamo Boari quien realizó todos los estudios necesarios para el proyecto aprobado en 1901. Para su construcción el Estado asignó la parte norte del predio ubicado entre las calles de San Andrés al norte (hoy Tacuba), La Condesa al este, Santa Isabel al oeste y la Plazuela de Guardiola al sur, a tan solo algunos metros de los predios donde se construirían el Palacio de Comunicaciones y el nuevo Teatro Nacional. Para el régimen esta zona del centro de la capital representaba el locus de la ciudad moderna que contrastaría con su núcleo fundacional. Además, se aseguraba que la sustitución de los antiguos edificios de la zona por unos nuevos adaptados a las necesidades de la época, redundaría indudablemente tanto en el embellecimiento de la capital como en el valor de la propiedad privada5 idea, esta última, que fue fundamental dentro de la doctrina José Martínez, et al., El correo en México, México: Servicio Postal Mexicano, 2000, p. 56. “Discurso de inauguración del nuevo Edificio de Correos el 17 de febrero de 1907”, en Secretaría de Comunicaciones y Transportes y Servicio Postal Mexicano, La Quinta Casa de Correos. Crónica del Servicio Postal Mexicano, México: M.A. Porrúa, 1990, p. 22. 4 5

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económica liberal del régimen y que daba continuidad al proyecto de liberalismo político que había comenzado Benito Juárez varias décadas atrás. En aquel predio se encontraba la Escuela de Comercio y el Hotel de Ferrocarrileros6. Ambos funcionaban dentro del antiguo edificio del Hospital Real de Terceros, fundado por la orden de San Francisco a mediados del siglo XVIII y clausurado por los decretos liberales del año 1861 (ver figura 1)7. El edificio y sus anexos comenzaron a demolerse el 8 de julio de 1901, completándose dichos trabajos y los de cimentación un año después, cuando el presidente Porfirio Díaz colocó la primera piedra que daba inicio a la obra constructiva el 14 de septiembre de 19028.

Fig.1. “Edificio del antiguo Hospital Real de Terceros de San Francisco”, 1900. Fondo Casasola, Fototeca Nacional, Instituto Nacional de Antropología e Historia (en adelante INAH).

Los avances en la construcción de este edificio fueron relativamente eficaces en el tiempo gracias al trabajo riguroso que llevó a cabo el experimentado ingeniero Gonzalo Garita, quien fue el encargado de gestionar las obras sobre el terreno. Entre los años 1902 y 1903 se tenía ya ensamblada la totalidad de la estructura de acero fundida por la Milliken Brothers en Nueva York (ver figura 2). Durante esos dos años también se lograron erigir hasta el tercer piso las fachadas de cantería de las calles de Santa Isabel y San Andrés, así como las de La Condesa y el callejón de servicio hasta el segundo

“Plano del perímetro central de la Ciudad de México del año 1883. Litografía Debray”. Mapoteca Manuel Orozco y Berra. 7 “Guía del Fondo Hospitales y Hospicios”, 1989. p. 4, Archivo Histórico de la Secretaría de Salud. 8 El Correo en México…, p. 60. 6

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piso. Además, quedaron listos los revestimientos de columnas del primer y segundo piso, así como todos los muros divisorios hasta el cuarto y último piso.9

Fig.2. Trabajos de ensamblaje de la estructura de acero del Edificio de Correos con vista al norte hacia la calle de San Andrés y al este el Palacio de Minería. Fuente: “Edificio de Correos en construcción”, 19021903. Fondo Casasola, Fototeca Nacional, INAH.

La totalidad de los muros exteriores en cantería quedaron terminados en 1904,10 dando inicio a los trabajos de instalación de pisos, ventanas, mármoles decorativos y todas las piezas funcionales y decorativas de hierro fundido y galvanizado al interior del edificio11. La escalera principal del complejo fue hecha en Florencia por la Fonderia del Pignone y transportada en partes hasta el puerto de Veracruz para su ensamblaje final dentro del ya casi terminado Edificio de Correos, que para el 31 de octubre de 1906 fue entregado por Boari y Garita a la Secretaría de Comunicaciones como obra terminada (ver figura 3), faltando únicamente el acomodo de los muebles y detalles interiores encargados al Palacio de Hierro y a otras empresas extranjeras con sede en la Ciudad de México12. El Edificio de Correos que Adamo Boari diseñó es en realidad un palacio con una distribución espacial interna bastante funcional. Parte de los estudios que el italiano realizó previos al inicio de su construcción incluyeron la participación de la antigua

“Memoria presentada al Congreso de la Unión por el secretario de estado y del despacho de Comunicaciones y Obras Públicas, 1902-1903”, p. 107. Acervo Histórico del Palacio de Minería, Biblioteca Ing. Antonio M. Anza (en adelante AHPMBIAMA). 10 “Memoria presentada al Congreso de la Unión por el secretario de estado y del despacho de Comunicaciones y Obras Públicas, 1903-1904”, p. 81 AHPMBIAMA. 11 “Memoria presentada al Congreso de la Unión por el secretario de estado y del despacho de Comunicaciones y Obras Públicas, 1904-1905”, p. 73. AHPMBIAMA. 12 “Memoria presentada al Congreso de la Unión por el secretario de estado y del despacho de Comunicaciones y Obras Públicas, 1906-1907”, p. 161. AHPMBIAMA. 9

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oficina de correos. El objetivo de su intervención en el proyecto de Boari, era construir un edificio adecuado y funcional para todas las actividades que la oficina llevaría a cabo cotidianamente13. Su estructura de fierro fue uno de los primeros ejemplos en México de planta libre sobre columnas. Con 28 metros de altura, fue el edificio civil más alto de la ciudad al momento de su inauguración. Ostenta una espléndida fachada en cantera, con algunas decoraciones de tipo renacentista y gótico.

Fig.3. “Edificio de Correos”, 1906. Autor: Guillermo Kahlo, Fototeca Nacional, INAH.

Su puerta principal es ochavada sobre la esquina y está cubierta por una marquesina de hierro forjado, la cual es sostenida, desde el muro superior, por dos

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La Quinta Casa de Correos…, p. 24.

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grandes cadenas, lo que la hace parecer un gran puente levadizo que a su vez es coronado por dos balcones y un reloj monumental14. La altura fue objeto de controversia entre el Ayuntamiento de la ciudad, algunos propietarios de la calle 5 de mayo y el propio Boari. La polémica no paso de unos reclamos que dada la importancia política de la obra fueron opacados. El diseño arquitectónico más general del edificio es un historicismo tomado muy probablemente del gótico tardío español conocido como Plateresco. Uno de los íconos de este estilo desarrollado entre finales del siglo XV e inicios del XVI, fue el Palacio del Conde de Monterrey, localizado en el centro de la ciudad de Salamanca, España, y con el cual el Edificio de Correos guarda muchas similitudes. Cabe decir que en los historicismos de Boari, se encontraban no sólo la interpretación y adecuación de las corrientes arquitectónicas medievales y modernas sino también una clara tendencia a producir su propia versión de lo que él consideraba ejemplos canónicos de un determinado estilo, ya fuesen edificios completos o partes del mismo. Véase por ejemplo el Templo Expiatorio de Guadalajara que es al menos en su fachada principal una perfecta adaptación de la Catedral de Orvieto en Umbría, Italia. En términos decorativos, el edificio destaca por un interior amplio y bellamente decorado y por su puerta de acceso esquinada, misma que tiene un porche o saledizo a manera de pan coupé sostenido por sendas cadenas sujetas al muro por escudos con cabezas de bueyes, animal que simboliza el trabajo continuo y tenaz que se le supondría al servicio de correos. Esa esquina truncada está decorada por una doble secuencia de ventanas y por una suerte de alfiz de tonos mudéjares, una aplicación historicista más de parte de Boari. Dicha esquina está coronada con un reloj traído de Alemania contruido por la empresa Hermanos Dienner y Compañía, mismo que según las crónicas de la época se hacía oír a unos pocos kilómetros a la redonda. El nuevo Edificio de Correos quedó formalmente inaugurado el 17 de febrero de 1907 en solemne acto presidido por el propio Adamo Boari y el ingeniero Gonzalo Garita. Este último pronunció ante la audiencia un extenso discurso que en realidad fue una crónica escrita por ambos ingenieros en la que daban cuenta de las generalidades del proceso constructivo del edificio en el contexto de la modernización de la ciudad y del régimen. Antes de dar el turno al presidente Porfirio Díaz, Garita concluyó su discurso de la siguiente manera: Señor presidente: el 14 de septiembre de 1902 se dignó usted colocar la primera piedra del Edificio de Correos: hoy puede decirse que pone usted la última, que, como otras tantas obras de mayor beneficio para el país, recogerá la historia como símbolo de su progresista y honrada Administración15.

“Ficha 090060071114”. Catálogo Nacional de Monumentos Históricos Inmuebles, Centro de Documentación y Archivo Histórico del INAH. 15 La Quinta Casa de Correos…, p. 31. 14

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La residencia de los Boari Dandini: crónica de una familia. Uno de los proyectos menos conocidos del ingeniero Adamo Boari fue el diseño y construcción de su residencia familiar, que estuvo localizada en el número 107 de la 6ª. calle de Monterrey, en la colonia Roma,16 Ciudad de México. En aquel entonces el predio estaba delimitado por el cruce de las calles de Tabasco al norte, Veracruz al oeste (hoy Insurgentes), Monterrey al este y Av. Jalisco al sur (hoy Álvaro Obregón). La casa fue construida en 1908 y hoy ya no existe, fue demolida.17 Al haber sido una propiedad privada derribada cuando todavía no podía catalogarse por su valor artístico, los pormenores sobre su construcción y las posibles fuentes para su estudio son mínimas o difícilmente verificables. Lo que sí existe son algunos documentos que nos hablan de las circunstancias personales y laborales por las que Boari y su familia atravesaron durante y después de la construcción de su casa. La residencia debió proyectarse durante la primera mitad del año 1907 y su construcción debió llevarse a cabo entre la segunda mitad de ese año y la primera de 1908. Ese periodo de tiempo coincidió con importantes acontecimientos en la vida personal de Boari así como con su consolidación económica derivada de los trabajos que había realizado durante los últimos nueve años en México. Entre finales de 1907 e inicios de 1908 la Secretaría de Comunicaciones y Obras Públicas saldó con el italiano los últimos pagos que le tenía pendientes como director de las obras del Edificio de Correos18. Por esas mismas fechas, en marzo de 1908, Boari también decidió comprometerse con su futura esposa, María Dandini de Silva. Para ello solicitó en México una certificación de soltería que según el propio Boari, utilizaría para contraer matrimonio en Italia19. También en marzo de aquel año, Boari solicitó un permiso para ausentarse de sus deberes como profesor de planta del primer año de Composición arquitectónica en la Escuela Nacional de Bellas artes, de la cual su amigo el arquitecto Antonio Rivas Mercado era director. Así mismo solicitó un permiso especial al Ministro de Instrucción Pública para realizar un viaje de dos meses a Europa con goce de sueldo, 20 argumentado entre otras cosas, realizar algunas investigaciones técnicas sobre el llamado Teatro popular.21 Ambos permisos le fueron concedidos a inicios de abril de 1908. Boari partió hacia Italia a mediados de ese mes y su matrimonio con Dandini debió llevarse a cabo entre mayo y julio, pues estando allá solicitó una prórroga de su

“Extracto del contrato de arrendamiento celebrado entre Adamo Boari y Mario Rivas”, 10 de febrero de 1934. Foja 1, Exp. 578951, Caja 2737, Fondo TSJDF- S.XX, Archivo General de la Nación (en adelante AGN). 17 Edgar Tavares, Colonia Roma, México: Clío, 1996, p. 40. 18 “Memoria presentada al Congreso de la Unión por el secretario de estado y del despacho de Comunicaciones y Obras Públicas, 1907-1908”, p. 100. AHPMBIAMA. 19 “Solicitud del señor Adamo Boari al Juez 2do. de lo civil en la Ciudad de México”, 12 de marzo de 1908. Foja 1-2, Exp. 136085, Caja 0772, Fondo TSJDF- S.XX, AGN. 20 “Solicitud de licencia del ingeniero Adamo Boari para ausentarse por dos meses”, 23 de marzo de 1908. Foja 2, Exp. 20, Vol. 17, Fondo Instrucción Pública y Bellas Artes, AGN. 21 “Licencia concedida para ausentarse por dos meses”, 7 de abril de 1908. Foja 3, Exp. 20, Vol. 17, Fondo Instrucción Pública y Bellas Artes, AGN. 16

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licencia de ausencia,22 retomando su cargo como profesor en la Ciudad de México el día 4 de agosto23. A su regreso de Italia es plausible que la residencia de Boari y Dandini estuviese ya lista para ser habitada por la pareja (ver figura 4). En ella nació su primera hija, María Guadalupe Boari Dandini, el 7 de enero de 1913. También ese mismo año, Boari y Dandini contrajeron matrimonio bajo las leyes mexicanas.24 La casa estuvo habitada por la familia hasta 1916 cuando por el deterioro de la salud de Boari y por la escalada en la afrenta revolucionaria por la que atravesaba México, partieron definitivamente a Roma, donde un año más tarde nació su segunda hija, Manuela25.

Fig.4. “Casa del Ing. Boari, 1910”. Tomada de: Laura González, Otra revolución: fotografías de la ciudad de México, 1910-1918. Colección Ricardo Espinosa, colaboración de Miguel Ángel Berumen, México, UNAM, Instituto de Investigaciones Históricas, 2010, p. 70. http://www.historicas.unam.mx/publicaciones/publicadigital/libros/otra_revolucion/fotografias.html (Consultado: 08 de 10 de 2018).

“Solicitud de prórroga de la licencia del ingeniero Adamo Boari para ausentarse”, 26 de junio de 1908. Foja 10, Exp. 20, Vol. 17, Fondo Instrucción Pública y Bellas Artes, AGN. 23 “Comunicación del arquitecto Antonio Rivas Mercado indicando el regreso del ingeniero Adamo Boari a su empleo”, 4 de agosto de 1908. Foja 15, Exp. 20, Vol. 17, Fondo Instrucción Pública y Bellas Artes, AGN. 24 Angela Amirati, “Archivi Culturali del novecento”, in 250 anni di libri e lettori, Ferrara: La Biblioteca Pubblica di Ferrar/Comune di Ferrara, 2016, p. 181. 25 “Poder notarial que otorga la señora María Dandini de Silva, viuda de Boari”, 13 de abril de 1932. Foja 6, Exp. 578951, Caja 2737, Fondo TSJDF- S.XX, AGN. 22

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Durante sus años en Roma, la familia Boari Dandini recibía constantes visitas de los hijos de su muy cercano amigo Antonio Rivas Mercado. La relación entre Boari y los hijos de éste era tan cercana que llegaron a considerarlo su tío adoptivo. En enero de 1927 el arquitecto y amigo de Boari falleció en la Ciudad de México. Tras su muerte, sus hijos menores fueron desalojados por su hermana mayor y su madre de la casa construida por Rivas en la calle de Héroes,26 localizada exactamente enfrente del palacete que el arquitecto italiano Silvio Contri había construido en 1892 para la familia Casassus, en la colonia Buenavista (hoy Guerrero). Después del desalojo, en marzo, el hijo menor de Rivas Mercado, Mario, le solicitó a la familia Boari que les arrendasen a él y a sus hermanas Antonieta y Amelia su casa deshabitada de la colonia Roma. Boari accedió a la petición y el 1 de abril de 1927 firmaron un contrato por tres años en el que los Rivas debían abonar mensualmente a Adamo Boari la cantidad de $281.00 pesos por concepto de renta del inmueble y $100.00 pesos más por el uso de los exclusivos muebles que la familia había dejado dentro de la casa antes de partir a Roma27. Pasados apenas once meses desde que los hijos de Rivas Mercado tomaron en arrendamiento el inmueble, Boari falleció y a partir del mes de septiembre de ese año y hasta julio de 1930 cuando dejaron la casa, los Rivas que tanto afecto le habían tenido al italiano, dejaron de cumplir con los pagos mensuales a su viuda, quien se encontraba encontraba en Roma con sus hijas. Aquel fue el motivo que orilló a María Dandini a promover un juicio desde Italia a través de un abogado y apoderado legal en México.28 Durante el juicio el hijo menor de los Rivas, Mario, fue sentenciado a pagar a la Sucesión Boari la cantidad de $8250.00 pesos por concepto de rentas insolutas.29 Sin embargo, este se negó a pagar la deuda explicando que si bien el contrato de arrendamiento lo había firmado él con Adamo Boari, quien en realidad había habitado la casa de Monterrey 107 durante todo ese tiempo había sido su hermana Antonieta.30 Finalmente, el juicio llegó hasta instancias del fiador del contrato y en mayo de 1934 la Sucesión Boari decidió desistir de la demanda por así convenir a sus intereses,31 no quedando claro si las partes habían llegado a un acuerdo personal o si la viuda de Boari simplemente se cansó de las tortuosas diligencias internacionales. La residencia de Boari fue demolida muy probablemente en 1939. En su lugar se terminó de construir en 1940 un edificio habitacional de siete niveles con locales comerciales en la planta baja proyectado por el arquitecto Juan Sordo Madaleno en

Fabienne Bradu, Antonieta (1900-1931), México: Fondo de Cultura Económica, 2011, Cap. VII. “Extracto del contrato de arrendamiento celebrado entre Adamo Boari y Mario Rivas”, 10 de febrero de 1934. Foja 1, Exp. 578951, Caja 2737, Fondo TSJDF- S.XX, AGN. 28 “Expediente del juicio de la Sucesión Boari contra el señor Mario Rivas”, 10 de febrero de 1934. Foja 1-2, Exp. 578951, Caja 2737, Fondo TSJDF- S.XX, AGN. 29 “Expediente del juicio de la Sucesión Boari contra el señor Mario Rivas”, 10 de febrero de 1934. Foja 9, Exp. 578951, Caja 2737, Fondo TSJDF- S.XX, AGN. 30 “Expediente del juicio de la Sucesión Boari contra el señor Mario Rivas”, 10 de febrero de 1934. Foja 4, Exp. 578951, Caja 2737, Fondo TSJDF- S.XX, AGN. 31 “Expediente del juicio de la Sucesión Boari contra el señor Mario Rivas”, 10 de febrero de 1934. Foja 33, Exp. 578951, Caja 2737, Fondo TSJDF- S.XX, AGN. 26 27

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colaboración con el arquitecto Augusto H. Álvarez, este último diseñador del rascacielos Torre Latinoamericana (ver figura 5)32.

Fig.5. “Edificio del arquitecto Juan Sordo Madaleno en Monterrey y Álvaro Obregón, 1940”. Tomada de: Sordo Madaleno Arquitectos. http://www.sordomadaleno.com/sma/es/projects-sm/monterrey (Consultado 10 de octubre de 2018).

El nuevo Teatro Nacional que acabo siendo el Palacio de Bellas Artes El antiguo Teatro Nacional ubicado en las calles de 5 de mayo y Vergara comenzó a demolerse a inicios del año 1901. El propósito de la demolición, además de prolongar la calle de 5 de mayo, era construir un nuevo recinto que fuese capaz de cristalizar la supuesta grandeza de los logros económicos y civilizatorios alcanzados durante el

Lourdes González, Augusto H. Álvarez. Arquitecto de la modernidad, México: UNAM/Universidad Iberoamericana, 2008, p. 32; y “Proyecto Monterrey y Álvaro Obregón, 1940”, en Sordo Madaleno Arquitectos. En línea http://www.sordomadaleno.com/sma/es/projects-sm/monterrey. (Consultado 10 de octubre de 2018). 32

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régimen de Porfirio Díaz. La excusa para emprender dicha empresa fueron los festejos del Centenario de la Independencia de México, a celebrarse en 1910. El polígono donde se construiría el nuevo Teatro Nacional quedó determinado sobre la manzana de edificios delimitada por las calles de La Mariscala al norte (hoy avenida Hidalgo), Puente de San Francisco al sur, Santa Isabel al este (hoy San Juan de Letrán) y Mirador de la Alameda al oeste.33 En esta manzana se encontraba parte del exconvento de Santa Isabel, la parroquia de San Sebastián, la de la Santa Cruz, una fábrica de cigarros, un instituto y pequeños locales comerciales y de servicios.34 Dichas construcciones fueron demolidas entre los años 1901 y 1904 para dar paso a los primeros trabajos de excavación que permitirían las obras de estabilización del terreno (ver figura 6 ).

Fig.6. “Demolición del Convento de Santa Isabel. Vista hacia la calle de La Mariscala”, 1901. Fondo Casasola, Fototeca Nacional, Instituto Nacional de Antropología e Historia, INAH.

El nuevo teatro fue diseñado por el ingeniero Adamo Boari, quien había comenzado los primeros trazos del proyecto desde los primeros meses del año 1901, a la par de las demoliciones del antiguo recinto. Si bien Boari había enviado en enero de ese año un estudio preliminar de la planta del futuro teatro al Secretario de Hacienda Yves Limantour,35 durante noviembre y marzo del siguiente año el italiano estuvo viajando por las capitales europeas con el propósito de enriquecer en lo arquitectónico y en lo funcional el anteproyecto general del futuro teatro, el cual fue presentado en diciembre de 1902 ante la oficina de la Secretaría de Comunicaciones y Obras y ante el presidente de la República. Dos años más tarde Boari volvió a viajar, pero esta vez a Nueva York para identificar las más recientes innovaciones en el campo de la ingeniería estructural

“Plano oficial de la Ciudad de México del año 1900. Compañía litográfica y tipográfica”. Mapoteca Manuel Orozco y Berra. 34 “Plano del perímetro central de la Ciudad de México del año 1883. Litografía Debray”. Mapoteca Manuel Orozco y Berra. 35 “Carta manuscrita de Adamo Boari a José Yves Limantour”, 22 de enero de 1901. Carpeta 9, Documento 23257, Colección José Y. Limantour, Fondo CDLIV, Centro de Estudios de Historia de México, CARSO. 33

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que él mismo intentaría aplicar en la construcción del nuevo teatro.36 Finalmente el 12 de septiembre de 1904, Boari firma contrato con el despacho de la Secretaría de Comunicaciones y Obras Públicas en el que se acepta el proyecto para la construcción del nuevo Teatro Nacional (ver figura 7) y se nombra al ingeniero italiano como director general de la obra, dando así inicio a las obras de cimentación.37

Fig.7. “Proyecto de fachada del Teatro Nacional de México. Por Adamo Boari”, 1912. Tomado de: Adamo Boari, La Costruzione di un Teatro, Roma: Danesi-Arti Fotomeccaniche, 1918, Tav. VII.

Entre los años 1904 y 1906 se logró demoler, excavar y cimentar por completo el terreno sobre el que comenzó a ensamblarse la estructura de acero del teatro. Las partes de esta estructura se construían en la fábrica de la Milliken Brothers en Nueva York y de a poco se iban enviando a México para el ensamblaje in situ. Además de la estructura, durante esos dos primeros años se establecieron, sobre todo al norte y al

Victor Jiménez y Alejandrina Escudero, El Palacio de Bellas Artes. Construcción e Historia, México: CONACULTA/INBA, 1995, p.11. 37 “Liquidación de honorarios conforme al contrato del 12 de septiembre de 1904”, 26 de agosto de 1911. Foja 17, Exp. 522/197, Reg. 17, Caja 26, SCOP, AGN. 36

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noroeste del centro de la ciudad, todos los talleres donde se trabajarían los modelos en yeso, las esculturas, las piedras y mármoles para fachadas y losetas.38 Hasta 1910 Boari había terminado de ensamblar el total de la estructura de acero del teatro junto con las cúpulas, los muros perimetrales del primer y segundo piso, techos, cornisa de primer piso y columnas.39 Durante esta etapa constructiva se trajeron desde diferentes talleres italianos en Carrara, Massa, Serraveza y Pietra Santa, las columnas, capiteles, bases y mármoles de cornisa que se instalaron en las fachadas. Se recibieron las esculturas decorativas del catalán Agustín Querol y del italiano Leonardo Bistolfi.40 Así mismo se comenzó con la instalación del esqueleto metálico de galerías, el plafón de cristales opalinos y los mosaicos decorativos austriacos (ver figura 8 )41.

Fig.8. “Teatro Nacional en construcción”, 1910. Fondo Casasola, Fototeca Nacional, INAH.

“Memoria presentada al Congreso de la Unión por el secretario Comunicaciones y Obras Públicas, 1905-1906”, p. 131. AHPMBIAMA. 39 “Memoria presentada al Congreso de la Unión por el secretario Comunicaciones y Obras Públicas, 1906-1907”, p. 157. AHPMBIAMA. 40 “Memoria presentada al Congreso de la Unión por el secretario Comunicaciones y Obras Públicas, 1907-1908”, p. 192. AHPMBIAMA. 41 “Memoria presentada al Congreso de la Unión por el secretario Comunicaciones y Obras Públicas, 1908-1909”, p. 159. AHPMBIAMA. 38

de estado y del despacho de de estado y del despacho de de estado y del despacho de de estado y del despacho de

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A pesar de los significativos avances en la construcción del nuevo teatro, desde finales de 1907 y hasta que Boari abandonó el proyecto en 1916, el edificio sufrió constantes hundimientos e inclinaciones en dirección oeste. Entre 1907 y hasta la década 1920 se hicieron cantidad de intentos por resolver estos problemas, incluyendo diagnósticos de compañías e ingenieros traídos del extranjero que pudiesen hallar una solución. Después de varios años de lidiar con el tema se determinó que el problema se debía a múltiples factores como la heterogeneidad en los niveles de compactación que habían ejercido durante siglos diferentes tipos de construcciones sobre el terreno; el paso de un curso de agua subterráneo entre el predio del edificio y el extremo oriente de la Alameda;42 así como un probable error de cálculo por parte de Boari y la Milliken Brothers en los trabajos de cimentación y construcción de la plataforma del edificio. Sobre la posibilidad de algún error de cálculo, cabe decir que entre 1906 y 1907 la nombrada compañía con sede en Nueva York había terminado de producir y ensamblar la estructura de acero del Palacio de Comunicaciones y Obras Públicas ubicado a escasos 80 metros del nuevo teatro. El arquitecto italiano Silvio Contri que era el director de aquel proyecto, rechazó hasta en tres ocasiones los cálculos de cimentación y estructura propuestos por la Milliken Brothers para el palacio. A pesar de las repetidas ofertas de bajo costo de la empresa, Contri aludía errores de cálculo y calidad estructural inaceptables para su proyecto43. Un terremoto en 1911, el exilio del presidente Díaz en mayo de ese mismo año y el comienzo de la Revolución tuvieron sus repercusiones sobre el proyecto del Teatro Nacional. En especial, el sismo que dañó los muros y la estructura que apenas levantaba el primer piso y hundió el suelo 5 centímetros. A pesar de ello, en 1911 se colocaba gran parte de la exuberante decoración escultórica del Palacio, hecha en mármol de Carrara por connotados artistas como Leonardo Bistolfi, quien haría las esculturas del tímpano de la entrada principal, Geza Maróti, quien construye el conjunto escultórico presidido por el águila porfiriana de la cúpula principal; y las rejas y herrería de Alessandro Mazzucotelli, diseñadas por el propio Boari44. En 1912 la revolución armada obligó a la suspensión de las obras, en parte porque gran parte de los obreros que trabajaban en el teatro se integraron a los cuerpos voluntarios en el ejército. Dos años más tarde, en 1914, se dejó entrever por primera vez que la obra de Boari realizada durante el Porfiriato debía tomar un nuevo giro, revolucionario, acorde con los nuevos tiempos. En ese año, el pintor Gerardo Murillo (el Dr. Atl) y la Confederación Artística Revolucionaria explicitaron un nuevo devenir para el teatro y reclamaban que el mismo debía ser concluido por técnicos mexicanos comprometidos con la Revolución. Como resultado de ello Adamo Boari debía ser defenestrado. Se iniciaba, así, un tour de force entre el italiano y algunos representantes de la arquitectura y el arte afines a los presupuestos revolucionarios quienes, como el arquitecto Federico

El Palacio de Bellas Artes…, p. 21. Juana Gutiérrez, El Palacio de Comunicaciones, México: Azabache, 1991, p. 80. 44 Ignacio Ulloa del Río, Palacio de Bellas Artes: rescate de un sueño, México: Universidad Iberoamericana, 2007, p.93-94 42 43

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Mariscal pretendían una decoración basada en motivos coloniales o prehispánicos para el teatro. Durante los siguientes años la construcción se ralentizó a tal punto que en 1915 el Ayuntamiento de la Ciudad de México envió una moción al Cabildo para que aprobasen una iniciativa propuesta por el propio Boari. Dicha propuesta comenzaba aludiendo a la falta de empleo entre los operarios de la ciudad y a la carencia de recursos para sostenerse durante los difíciles tiempos que estaba viviendo el país debido a la Revolución. La solución a parte de este problema era instalar locales comerciales alrededor del predio del teatro inconcluso y con los dividendos de las rentas reiniciar las obras de su construcción45. El intento del Ayuntamiento y de Boari por retomar las obras del teatro fue desestimado. No viendo claridad en el futuro del recinto, Adamo Boari decidió abandonar México, sin olvidarse por completo de su obra, la cual consideraba estaba amenazada por el abandono y la inquina de los hombres. Ello explica el envío en 1918 de su obra La Costruzione di un Teatro, una lujosa carpeta con 34 planos, fotografías y textos de todo lo que en opinión de Boari quedaba pendiente de hacer. Nada de ello sirvió, pues el reciento quedo en una suerte de abandono institucional, rodeado de bardas, con maleza y acumulación de materiales de construcción entre la decoración de mármoles aun por colocar. A pesar de ello en 1917 se instaló y se probó la maquinaria del escenario principal 46. En 1921 tras el proceso revolucionario, el gobierno de Álvaro Obregón vio en la conclusión del teatro un elemento de conciliación nacional y de normalización institucional. A pesar de ello, la obra no se retomó sino hasta 1930, debido a la preocupación que suponía el hundimiento del suelo donde se asentaba el edificio y que, como ya hemos dicho, requirió de diversos estudios por parte de distintos especialistas47. Fue el arquitecto Federico Mariscal quien retomó las obras siguiendo un plan decorativo en el interior del teatro influenciado por las culturas prehispánicas mexicanas. El magno edificio se inauguró en 1934 bajo el nombre del Palacio de Bellas Artes (ver figuras 9 y 10)48. Tristemente, Boari no lo vio nunca terminado pero su impronta quedo en el edificio, ya sea por la estructura original, por su diseño exterior que fue respetado, o ya sea por elementos tan entrañables como la escultura del rostro de su perrita Aida en la fachada del Palacio. Una sutil firma de este ingeniero italiano en uno de los edificios más significativos de México.

“Moción del C. Regidor M.F. Reyes, proponiendo la reanudación de las obras de construcción del Teatro Nacional”, 1 de junio de 1915. Foja 1, Exp. 138, Vol. 4017, Fondo Ayuntamiento. Teatros, Archivo Histórico de la Ciudad de México. 46 Ignacio Ulloa del Río, Palacio de Bellas Artes: rescate de un sueño, México: Universidad Iberoamericana, 2007, p.100-101 47 Ibidem, p.106 48 Sobre el desarrollo de esos años de obra se debe consultar: El Palacio de Bellas Artes. Informe que presentan… Ciudad de México: Editorial Cultura, 1934; Ignacio Ulloa del Río, Palacio de Bellas Artes: rescate de un sueño, México: Universidad Iberoamericana, 2007, p.96 y s. y Xavier Moyssén, Palacio de Bellas Artes. México: Aeroméxico, Franco María Ricci, 1993. 45

ADAMO BOARI Y SUS PROYECTOS DE ARQUITECTURA CIVIL EN LA CIUDAD DE MÉXICO (1901- 1916)

Fig.9. “El Teatro Nacional a la partida de Boari en 1916”. Tomada de: Adamo Boari, La Costruzione di un Teatro, Roma: Danesi-Arti Fotomeccaniche, 1918, Tav. V.

Fig.10. “Palacio de Bellas Artes”, 1934. Autor: Guillermo Kahlo, Fototeca Nacional INAH.

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Bibliografía Boari, A. (1918). La Costruzione di un Teatro, Roma: Danesi-Arti Fotomeccaniche. Amirati, A. (2016). Archivi Culturali del Novecento. In 250 anni di libri e lettori, Ferrara: La Biblioteca Pubblica di Ferrar/Comune di Ferrara. Checa-Artasu, M. (2015). De Ferrara a la Ciudad de México pasando por Chicago: la trayectoria arquitectónica de Adamo Boari (1863-1904). Biblio 3W. Revista Bibliográfica de Geografía y Ciencias Sociales (Universidad de Barcelona), Vol. XX (1111). Tavares, E. (1996). Colonia Roma, México: Clío, 1996, Bradu, F. (2011). Antonieta (1900-1931), México: Fondo de Cultura Económica. Gutiérrez, J. (1991). El Palacio de Comunicaciones. México: Azabache. González, L. (2010). Otra revolución: fotografías de la ciudad de México, 1910-1918. Colección Ricardo Espinosa, colaboración de Miguel Ángel Berumen, México: UNAM/Instituto de Investigaciones Históricas. González, L. (2008). Augusto H. Álvarez. Arquitecto de la modernidad, México: UNAM/Universidad Iberoamericana. Gorostiza, José (1934). El Palacio de Bellas Artes. Informe que presentan al Señor Marte R. Gómez, secretario de hacienda y de crédito publico los directores de la obra. Señores Ing. Alberto J. Pani y Arq. Federico Mariscal. Ciudad de México: Editorial Cultura, 89 p. Jiménez, V. y Escudero, A. (1995). El Palacio de Bellas Artes. Construcción e Historia, México: CONACULTA/INBA. Martínez, J. et al. (2000). El correo en México, México: Servicio Postal Mexicano. Moyssén, Xavier. Palacio de Bellas Artes. México. México DF: Aeroméxico, Franco María Ricci, 1993. Secretaría de Comunicaciones y Transportes y Servicio Postal Mexicano (1990). La Quinta Casa de Correos. Crónica del Servicio Postal Mexicano, México: M.A. Porrúa. “Proyecto Monterrey y Álvaro Obregón, 1940”, Sordo Madaleno Arquitectos. Recuperado de http://www.sordomadaleno.com/sma/es/projects-sm/monterrey. (10 de octubre de 2018). Ulloa del Río, Ignacio (2007) Palacio de Bellas Artes: rescate de un sueño, México: Universidad Iberoamericana, 195 p. Archivos consultados Archivio Storico della Biblioteca Vallicelliana, Roma. Archivo Histórico de la Ciudad de México. Archivo General de la Nación. Acervo Histórico del Palacio de Minería. Archivo Histórico y Centro de Documentación del INAH Archivo Histórico de la Secretaría de Salud. Archivo del Centro de Estudios de Historia de México CARSO. Biblioteca y Centro de Documentación del Palacio de Correos. Fototeca Nacional del Instituto Nacional de Antropología e Historia. Hemeroteca Nacional. Mapoteca Manuel Orozco y Berra.

Ciudad de México. Palacio Postal realizado según el proyecto del arquitecto italiano Adamo Boari y del ingeniero mexicano Gonzalo Garita entre 1902 y 1906. Detalle de la esquina donde se encuentra la puerta principal. Autor: Martín Checa-Artasu, noviembre 2018.

Guadalajara. Vista general del Templo Expiatorio proyectado en 1899 por Adamo Boari. Autor: Martín Checa-Artasu, Noviembre de 2018.

ADAMO BOARI Y SUS PROYECTOS DE ARQUITECTURA RELIGIOSA EN MÉXICO (1897-1902)

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This chapter shows the unknown professional trajectory of Italian engineer Adamo Boari between 1897 and 1902, years when he worked between Chicago and Mexico City. In Chicago, he projected some skyscrapers and social housing proposals. In Mexico, he participated in architectural competitions promoted by the Mexican government and received commissions from ecclesiastical authorities to the construction of large temples in historicist style. So that, this chapter analyzes the four architectural projects of churches that the Italian engineer had in Mexico. A facet of Boari scarcely analyzed to date.

Adamo Boari. Sus primeros años (1863-1896) Analizar la historia de la arquitectura doméstica construida en torno a un espacio vacío (Adamo Boari nacerá en Marrara, cerca de Ferrara, Italia, el 22 de octubre de 1863, siendo uno de los hijos del matrimonio formado por Vilelmo Boari y Luigia Bellonzi (Raffo, 1968, p. 802; Farinelli; Scardino, 1995; Cruz, 1977, p.1002). Inicia sus estudios de ingeniero civil en Università degli Studi di Ferrara, convertida en universidad libre desde la independencia italiana, donde sólo cursará dos años y concluye sus estudios de ingeniero, desarrollados durante tres años más, en la Università di Bologna en 18861. Tras su titulación realizará algunos trabajos de ingeniería contratado por empresas del norte de Italia, en concreto, labora con el ingeniero Amico Finzi en el proyecto para la estación de ferrocarril de Oggiono (Fierro, 2014). Tres años más tarde, en septiembre de 1889, se embarcará con destino a Brasil, iniciando así, su andadura profesional fuera de Italia.

Dato que se puede comprobar en el Archivo histórico de la Università di Bologna: http://www.archiviostorico.unibo.it/it/struttura-organizzativa/sezione-archivio-storico/fascicoli-deglistudenti/adamo-boari.asp? [Consulta: 13 septiembre 2014] 1

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En el país amazónico trabajará desde Rio de Janeiro, en un proyecto para la primera Esposizione italiana di Architettura, a celebrarse en Turín en 1890, lo que hace suponer que tenía algunos contactos entre los arquitectos e ingenieros italianos afincados en esa ciudad (Farinelli; Scardino, 1995, p.35-36). Es en este momento que viaja a la Argentina y a Uruguay, donde al parecer vislumbró algunas posibilidades laborales que no se concretaron (Bacilieri, 2007, p.32-36; Condello; Vernon, 2004, p.4). Regresará a Brasil donde sabemos que realizará en 1891 un proyecto para una pequeña villa (Farinelli; Scardino,1995, p.120). Hacía mediados de 1891 trabaja en el trazado de ferrocarriles en la región de Santos y Campinas. Tarea que hará que enferme de fiebre amarilla, lo que le hará pensar en retornar a Italia (Tovar De Teresa et al., 1995, p.170).

Su arribo a Chicago, Estados Unidos Sin embargo, una propuesta de trabajo llegada desde Chicago, parece que le hace reconsiderar ese retorno y entre mediados de 1892 e inicios de 1893 se traslada a esa ciudad estadounidense, donde es contratado por la firma Burnham & Root, quien desde mediados de 1890 era la encargada del desarrollo constructivo de los pabellones para la World's Fair Columbian Exposition. Un evento que pretendía, por un lado, conmemorar el cuarto centenario del descubrimiento de América por Colon y, por otro lado, mostrar al mundo el potencial industrial y económico de la floreciente ciudad de Chicago (Bolotin; Laing, 1992, p.9). Aunque apenas sabemos de las labores precisas de Boari en dicho proyecto, parece que estuvo encargado del diseño del edificio de la administración de la feria. A pesar de esta falta de información sobre sus actividades, a manera de hipótesis podemos inferir que su labor en esta empresa lo doto de las primeras influencias en diversos aspectos relacionados con el ejercicio de la arquitectura, así como, de una serie de relaciones personales que en los años venideros le serían de utilidad (Condello, 2002). Por un lado, conocerá de primera mano, la forma de trabajar en y de las grandes empresas de arquitectura, la Burnham & Root, era considerada uno de las más grandes del mundo. Además de ello, convivirá laboralmente con importantes arquitectos de Chicago, como el principal socio de la firma David Hudson Burnham (1846-1912), éste considerado el fundador de la Escuela de Chicago de arquitectura, proyectista de numerosos edificios en distintas ciudades norteamericanas y diseñador junto con Edward H. Bennett, entre 1906 y 1909, del plan urbanístico para Chicago2. También, hará lo propio con jóvenes y prometedores arquitectos estadounidenses como Joseph W. McCarthy o Dwight Heald Perkins quienes laboraban en dicha firma. Asimismo, conocerá a otro colaborador de la firma, el ya consolidado Louis Henry Sullivan. De esa convivencia a buen seguro tomaría varias enseñanzas y algunas influencias, quizás una de las más claras es el gusto por los estilos clásicos, una de las obsesiones de

Es muy probable que Boari no llegará a conocer al otro socio fundador de la firma: John Wellborn Root (1850-1891) que falleció poco antes de su arribo a Chicago. 2

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Burnham; el uso de las formas arquitectónicas del pasado, como base del diseño de edificios con funciones específicas y el uso de ciertas técnicas para la construcción de edificio de gran envergadura, muy al uso en Chicago en esos años. Por otro lado, en términos de conocimiento arquitectónico será uno de sus primeros contactos con la arquitectura ferial y del paisaje, puesto que en el proyecto de la World's Fair Columbian Exposition, Frederick Law Olmsted, será el encargado de proyectar el parque de atracciones sobre las 290 hectáreas de lo que actualmente es el Jackson Park. Olmsted para esos años era un connotado diseñador de jardines y parques con obra en varias ciudades de Estados Unidos, siendo su obra más relevante el Central Park de Nueva York. Este primer contacto, será sin duda, una forma de conocer las formas de integración de la naturaleza en la ciudad a través de los jardines. Un aspecto que al parecer siempre tuvo presente en sus proyectos Boari y que retomará en 1908 cuando tenga diseñar la conexión entre la Alameda del paseo de Reforma y la plaza del palacio de Bellas Artes (Condello; Vernon, 2004, p.8). Además de ello, la celebración del evento en sí, entre mayo y octubre de 1893, que contó con la asistencia de más de 27 millones de personas, debió ser un estímulo, en muchos sentidos, para el joven Boari, que contaba con apenas 30 años, para abrirse camino en el mundo de la arquitectura. En 1894, Boari abandona esa firma de arquitectos, la misma se disolvió tras exposición universal, para pasar a trabajar en el despacho de Dankmar Adler y Louis Sullivan (Fierro, 2014), haciendo los dibujos estructurales del Guaranty Building de Buffalo y más tarde, los diseños interiores menores del Auditorium Building de Chicago. Para 1896, lo localizamos trabajando por su cuenta, ubicado en el despacho número 1106 del Steinway Hall en Chicago (Condello, 2002; Martínez Gutiérrez, 2007, p.135; Neumann, 2010, p.25). Un edificio de oficinas diseñado por Dwight H. Perkins, por encargo de Burnhan, quien tras la exposición había vuelto a su trabajo en la oficina de planificación en el Ayuntamiento de Chicago. Lo cierto es que la instalación y su posterior vivencia profesional en ese edificio no será un hecho baladí. En el mismo, Boari compartirá espacio y convivirá con una pléyade de arquitectos que proyectaran en un entorno competitivo, pero a la vez, dinámico e innovador como el de Chicago, una ciudad que por aquellos años proyectaba rascacielos y era ejemplo de la prosperidad económica estadounidense que incentivaba la construcción, el diseño y la innovación arquitectónica a través de concursos y proyectos. Así, en el Steinway Hall se darán cita, además de Perkins, Henry Walter Tomlinson, R. C. Spencer Jr., los hermanos Irving, Allen Pond, Marion Mahony, Jules Guerin, Arthur H. Niemz y Frank Lloyd Wright. Con estos dos últimos compartiría el despacho entre 1901 y 1903, año de su probable traslado a México (Twombly, 1979, p.36-37). Esa convivencia, permitirá a Boari integrarse en el grupo denominado “The eighteen”, formado por muchos de los jóvenes arquitectos arrendatarios en el Steinway Hall quienes, mientras cenaban, debatían y discutían múltiples aspectos de su actividad profesional. Esa inserción tan dinámica en el mundo de la arquitectura le obligará a obtener una acreditación para ejercer como arquitecto, hecho que conseguirá en 1899, a través de la Chicago Architectural Board (Fierro, 2014). Además de ello, Boari, en ese espacio

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laboral, tendrá como colaborador al estadounidense Walter Burley Griffin (1876-1937), quién de hecho, auxiliará a otros de los arquitectos allí residentes. Éste se titulará como arquitecto en 1901 por la Universidad de Illinois, desarrollando una connotada trayectoria como urbanista y arquitecto del paisaje. Su obra más relevante fue el proyecto urbano para Canberra, la nueva capital de Australia, obtenido en un concurso internacional en 1912. Griffin a buen seguro, participó activamente en toda la serie de proyectos que Boari desarrolló tanto en Chicago como en México, entre 1894 y 1903, momento en que pasará a ser ayudante de Lloyd Wright en su estudio de Oak Park (Condello ; Vernon, 2004, p.6).

Boari entre Chicago y la Ciudad de México (1894-1901) Los años comprendidos entre 1894 y 1904 será un periodo de frenética actividad para Boari con proyectos, surgidos sobre todo a través de concursos, en Estados Unidos, México e incluso, en Italia. Mismos que realizará desde su despacho en el Steinway Hall de Chicago y que en algunos casos, le obligaran a viajar a los lugares donde debe erigirse el edificio a proyectar. Así, el 15 de noviembre de 1897 The Evening Telegraph nos informa del arribo de Boari al Hotel Jardín de la ciudad de México, establecimiento donde residirá en sus estancias en la capital. Es la primera visita al país y será de poco más de una semana. En esta ocasión, viene por los asuntos referentes al concurso internacional convocado por el gobierno mexicano para el desarrollo del palacio legislativo en el que participará. Con la visita busca conocer el terreno donde se pretende construir dicho palacio. A finales del mes de abril de 1898, ante la presentación de los proyectos, la prensa menciona el estado del concurso para el palacio legislativo donde Boari ha participado con el lema: “St. Georgius equitum patronus est in tempestate seguritas”3. El italiano obtendrá el segundo lugar en el concurso arquitectónico por el Palacio Legislativo, pues el primer lugar quedará desierto4. A pesar de ese resultado, turbios manejos e intereses personales y políticos concedieron el concurso al arquitecto italiano Paolo Quaglia, cuya propuesta no había merecido el interés del jurado (Katzman, 1964, p.45). En los siguientes meses, Boari verá como el jurado del concurso lo premia con la mitad del importe correspondiente al segundo premio, 7.500 pesos, aduciendo la calidad de la distribución de la planta baja del futuro palacio, presentada en su proyecto5. Curiosamente, el concurso del palacio legislativo, aun y no haberlo ganado y presentar una serie de problemas en cuanto al pago de la totalidad del premio que le correspondía, le abrirá las puertas de México y le permitirá tener relaciones directas con los personajes más prominentes del gobierno de Porfirio Díaz. Nuestros grabados. El palacio del poder legislativo. El Mundo Ilustrado 1894-1914 Semanario, 21 de abril de 1898, p.320; El concurso para el palacio del poder legislativo. El Imparcial, 24 de abril de 1898, p.1 y 2; La exhibición de proyecto del palacio del poder legislativo. El Imparcial, 23 de abril de 1898, p.1 4 Los proyectos del Palacio del poder legislativo, La Patria, 8 de mayo de 1898, p. 2 5 Proyecto premiado. El Tiempo, 24 de junio de 1898, p.4 3

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El 18 de junio de 1898, de vuelta en el país, en una visita que durará algunos meses es recibido en audiencia por Porfirio Díaz en calidad de ganador del concurso arriba mencionado. Es muy posible que de esa cita surgiera la propuesta de un monumento escultórico para Díaz, que jamás se llevaría a cabo. Un proyecto en el que el italiano a través de una estructura piramidal pretendía mezclar elementos escultóricos de raíz indígena como nopales o magueyes junto con elementos clásicos como guirnaldas o musas, rematándolo con una estatua ecuestre del presidente (Zárate, 2001; Brenes, 2004, p. 112). También, durante esa estancia en México se encontró con el obispo de San Luis Potosí, Ignacio Montes de Oca y Obregón, a quién al parecer había conocido en Chicago, para concretar el proyecto de iglesia catedral para Matehuala, en el estado de San Luis Potosí, del que hablaremos en detalle, unas líneas más abajo. Más allá de lo profesional, aprovecha su estancia para visitar las ruinas de Mitla en Oaxaca, entre otros lugares, pues se declara interesado en la arquitectura antigua que hay en México6. Un interés que acabará integrándolo en su pensamiento arquitectónico y tendrá reflejo en algunos aspectos del Palacio de Bellas Artes (Barragán, 1989). Estando aún en México, en julio de 1898, recibe la petición desde el Diócesis de Linares para desarrollar un proyecto para una nueva catedral en Monterrey 7. Un proyecto del que sabemos muy poco, como relatamos unas líneas más abajo. A mediados de agosto de 1898, estando todavía en México, recibe la notificación de que ha sido galardonado con el segundo premio de la Luxfer Company Competition en Chicago, con el diseño de dos rascacielos a base de los Luxfer Iridian prism8, prismas de vidrio fabricados por esa compañía que permitían el paso de luz filtrada a los interiores de los edificios (Neumann, 2010, p.18). El concurso nos alerta que Boari desarrolla primera vez, un proyecto de rascacielos y edificio de oficinas que, en aquellos años, ocupaba a los arquitectos en Chicago y en otras ciudades estadounidenses. En términos arquitectónicos, ambos edificios se resuelven como estructuras cúbicas cubiertas de los prismas de vidrio, ya mencionados, a manera de muros cortina continuos. En ambos proyectos los edificios planteados culminan en sus cubiertas con una decoración de tonos clasicista a manera de frisos y acroteras. A principios de octubre de 1898 vuelve a Chicago, tras visitar distintas ciudades mexicanas9. Muy probablemente, es en la correspondiente visita a la capital tapatía cuando traba contacto por primera vez con el arzobispado de Guadalajara, quien, al poco tiempo, le encargará varios proyectos relacionados con la construcción de iglesias y santuarios, que analizaremos más abajo. Profesionalmente, la estancia de casi cinco meses en México ha sido provechosa. Ha recibido el encargo para crear un conjunto ecuestre para Porfirio Díaz con el que ha trabado una excelente relación y distintos Visiting Architect. The Mexican Herald, 18 de junio de 1898, p. 8 Remanded, Architect Adamo Boari. The Mexican Herald, 8 de julio de 1898, p.8; Gacetilla, Adamo Boari. El Diario del Hogar, 9 de julio de 1898, p. 2 8 Personal Mention, Adamo Boari. The Mexican Herald, 18 de agosto de 1898, p.8 9 Notas Breves. El Tiempo, 4 de octubre de 1898, p.3; Información. El artista Adamo Boari. El Popular, 5 de octubre de 1898, p.1 6 7

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actores vinculados a la Iglesia católica mexicana, le han solicitado proyectos de templos. Un año y medio después, a mediados de marzo de 1900, se informa de un nuevo arribo de Boari, a México. Llega al país con su flamante título profesional de arquitecto que ha obtenido en 1899 en Estados Unidos. Esta vez viene para dirigir las obras del templo de Matehuala y ver posibilidades de desarrollar algunos proyectos de vivienda obrera en México10. Será una estancia de apenas seis meses, pues a principios de agosto de 1900 vuelve a su despacho en Chicago11. Cabe mencionar aquí en relación a la vivienda obrera, que, en el año anterior, 1899, un proyecto suyo ha quedado en el cuarto lugar del concurso para vivienda obrera que había organizado The Charity Organization Society of New York. Lamentablemente, desconocemos si Boari llegó a plantear formalmente algún proyecto de vivienda obrera en México y si éste tenía algún parecido al que había presentado al concurso estadounidense, basado en un plano donde las habitaciones tenían un carácter modular y se extendían maximizando el espacio a lo largo y ancho de la planta de un edificio de viviendas en altura. El 18 de abril de 1900 solicita audiencia con el ministro de hacienda, José Yves Limantour con el que tratará el tema de la falta de pago de la mitad del premio que le corresponde por el concurso del palacio legislativo. Un asunto en el que la legación italiana en México también estaba mediando12. En esa reunión le surge una nueva propuesta de proyecto, el diseño de un hotel en el solar donde se encuentra el asilo de pobres de la ciudad de México y del que no conocemos si tuvo resolución alguna13. Es a partir de esta fecha que Boari establecerá una correspondencia más o menos fluida con Limantour, que aumentará a medida que la obra del Teatro nacional evolucione. Durante esta estancia, Boari trabará relaciones acudiendo a diversos actos que organiza la colonia italiana que reside en ciudad de México. Un hecho que hace suponer que en ya en la mente de Boari se vislumbraba la posibilidad de instalarse profesionalmente en México. El 21 de mayo de 1900 acude a la recepción del nuevo embajador de Italia en México14. Participará activamente en el diseño de la decoración para el homenaje fúnebre que se hará en la iglesia de Santo Domingo, al rey de Italia, Humberto I, asesinado 29 de julio de 1900 a manos del anarquista Gaetano Bresci15. Ya establecido en México, a partir de 1902 o 1903, esa relación con la comunidad italiana se incrementa. Será a partir de esos vínculos que conocerá a su mujer, María Dandini Jáuregui (1883-1955), hija de un comerciante italiano asentado en México, Personals. The Evening Star, 27 de marzo de 1900, p. 4; Méjico. Los que llegan, El Tiempo, 16 de marzo de 1900; Colonias para obreros. La Patria, 4 de abril de 1900, p. 4; El arquitecto Boari. El País, 8 de mayo de 1900, p.3 11 Mister Boari to leave. The Mexican Herald, 5 de agosto de 1900, p. 16 12 CEHMEX-CARSO, Carta manuscrita de Adamo Boari a José Yves Limantour, Carpeta 12, Documento 18524, 18 de abril de 1900, Colección José Y. Limantour, Fondo CDLIV, 2a. Serie, Año 1900. 13 CEHMEX-CARSO, Carta manuscrita de Adamo Boari a José Yves Limantour, Carpeta 7, Documento 16776.2, 6 de agosto de 1900. Colección José Y. Limantour, Fondo CDLIV, 2a. Serie, Año 1900. 14 Minister Arrives. The Mexican Herald, 21 de mayo de 1900, p. 8 15 King Humbert. The Mexican Herald, 31 de julio de 1900, p. 8; Las honras a Humberto I. El País, 11 de agosto de 1900, p.2; Las honras a Humberto I. El Tiempo, 11 de agosto de 1900, p.2 10

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Saverio Dandini de Silva y de Manuela Jáuregui Baric (1842-1916), ésta última de una familia tapatía de abolengo (Molina, 2008, p.12). Cuatro meses más tarde, en enero de 1901, regresa de nuevo a México. Un retorno que se antoja fue determinante para tomar la decisión de instalarse en la ciudad de México e iniciar su carrera profesional en el país. El 22 de enero de 1901, se encuentra alojado en el Hotel Jardín, desde donde remite a Limantour “un estudio preliminar de la nueva planta del Teatro Nacional”16. Esta información se publicará, dos días más tarde en la prensa mexicana17. Se trata de la primera referencia de su actividad en el teatro nacional. Hecho que nos informa, además, del papel determinante en el proyecto de Limantour y nos aproxima a los entresijos en la forma como Boari acabó obteniendo el proyecto del Teatro Nacional. A mediados de 1901 entregará los planos definitivos del templo Expiatorio de Guadalajara que serán tomados por la comisión constructora de dicho templo como base para su construcción (Moya, 1998, p.207). Un año más tarde, recibe el encargo para diseñar y construir el Palacio de Correos, junto con el ingeniero militar Gonzalo Garita. Será con este ingeniero con quien plantee el proyecto definitivo del teatro nacional, el actual Palacio de Bellas Artes, que iniciará su construcción en 1904.

Las iglesias diseñadas por Boari. Historicismos entre la copia arquitectónica y la voluntad de la Iglesia En las líneas precedentes hemos mencionado como entre 1898 y 1901 Adamo Boari recibe encargos para realizar proyectos de templos religiosos, uno para el obispado de San Luis Potosí, otro para la diócesis de Linares y otros para la archidiócesis de Guadalajara. Se trata de proyectos en los que el arquitecto Boari tomará como referencia estilística, los estilos medievales del románico y del gótico, tomando como ejemplos en los que inspirarse casi hasta la copia formal, templos europeos de esos estilos, uno en suelo francés y otro en italiano. El hecho que Boari proyecte los templos mexicanos como cuasi copias de otros ya existentes nos pone sobre el aviso de un pensamiento arquitectónico que toma del pasado aquella arquitectura que se considera aún útil para la concreción de edificios con funciones y características específicas, como serán las iglesias. Una utilidad que presupone un conocimiento, basado en la investigación, de esas formas históricas y medievales en las que se inspira. Con todo no puede obviarse que Boari era ingeniero civil y que, además, había bebido de otras influencias arquitectónicas en Chicago donde lo histórico de la arquitectura quedaba como un elemento decorativo, pero también se basaba en un encasillamiento funcional. Es decir, había un estilo arquitectónico apegado a la historia de la arquitectura que sólo podía ser usado en relación a la función del edificio que se iba a construir. Es desde estos considerandos que debemos entender los proyectos de iglesias historicistas que Boari desarrollará en México a caballo del siglo XIX y del siguiente. CEHMEX-CARSO, Carta manuscrita de Adamo Boari a José Yves Limantour, Carpeta 9, Documento 23257, 22 de enero de 1901. Colección José Y. Limantour, Fondo CDLIV, 2a. Serie, Año 1901. 17 El teatro nacional. El Tiempo, 24 de enero de 1901, p.2 16

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La catedral de la Inmaculada Concepción de Matehuala, San Luis Potosí El 19 junio de 1898, la prensa mexicana informaba con cierto detalle que Boari iba a construir un templo gótico en Matehuala, un encargo que le había hecho el obispo de esa diócesis, Ignacio Montes de Oca y Obregón, a quien había conocido en Chicago. El proyecto para este templo será realizado en estilo gotizante y será casi una copia de un edificio religioso que en 1883 se había concluido en Lyon, Francia: Saint Joseph de Brotteaux (ver figura 1) (Dufieux, 2004, p.155). Era esta una obra que “sensu strictu” no era gótica, ni medieval y sí una versión decimonónica de ese estilo proyectada por un arquitecto protestante: Gaspard Abraham André (1840-1896). Un arquitecto que ya acumulaba una notable experiencia en el diseño de teatros, como los de Ginebra y Theatre des Celestins en Lyon, en villas y casas señoriales en la capital de la región Ródano-Alpes y que entre 1879 y 1884 proyectaría un gran templo protestante en Lyon de muy parecida factura al que inspiro a Boari (Aynard, 1898; Bruyère; Chiron, 1996). Sin mencionar esa inspiración francesa, la prensa describe las características del templo a construir18: [...] El templo será de estilo gótico lombardo muy severo en su fachada en la que predominan detalles de arquitectura bizantina. Está rodeado con una plataforma que hace las veces de atrio con su balaustrada. Se llega a la puerta principal por una escalinata de nueve peldaños. Sobre esta puerta se ve una gran ventana circular que ira cubierta con cristales polícromos que han de producir un hermoso efecto. El centro de la fachada esta coronado con un tímpano rematado éste con una pequeña cruz griega. Las torres del mismo estilo gótico lombardo son de un solo cuerpo, con sus remates abovedados en tejas rojas. La cúpula es pequeña y sin ventanas. Esta construcción importará 150.000 pesos aproximadamente. El proyecto ha quedado aprobado.

Aun y esa descripción que la prensa otorga al templo, notablemente académica, la comparación de ambos templos demuestra que el situado en Lyon ha inspirado el que se construirá en Matehuala. Según algunas fuentes esa inspiración, casi copia, fue un designio del obispo de San Luis y no tanto fruto del saber hacer de Boari, quien tomaría las indicaciones del obispo y desarrollaría el proyecto a imagen y semejanza de la iglesia lionesa (Nava Muñiz, 2004, p.140). Con todo, parece probable que Boari conociera ese templo a partir de las informaciones que en revistas y otras publicaciones llegaban a Estados Unidos sobre edificios que habían sido concluidos en fechas recientes y que formalmente eran relevantes arquitectónicamente. Ya en México, creemos que Boari hizo al menos un par de visitas a la obra potosina. Pero a la larga, no podrá atender la construcción de ésta, probablemente, porque aún residía en Chicago y a partir de 1902, por sus obligaciones en Ciudad de México con distintos proyectos. Ya en la primera década del siglo XX, concluirán el templo el arquitecto Manuel Torres Torija y el maestro de obras José R. Cortés (Ibídem, p.142 ; Eguiarte, 1989, p. 109). Serán ellos los que cubrirán las naves y culminarán la decoración interior y de la fachada principal. Las torres de este templo quedaron

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Nuevo templo parroquial en Matehuala. La Voz de México, 19 de junio de 1898, p.3

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inacabadas, seguramente por motivos económicos y por el parón de obras que la Revolución impuso en muchos lugares del país.

Fig.1. Comparativa entre la Catedral de Matehuala, en San Luis Potosí (México) arriba (Fuente: Foto Martin Checa Artasu, 2014) y la iglesia de Saint Joseph de Brotteaux en Lyon (Francia), abajo. Fuente: Grabado extraido de Aynard, 1898. Kyoto Library, 2000.

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El proyecto del templo de San Luís Gonzaga en Monterrey A partir de la revisión del fondo personal del arquitecto italiano Adamo Boari que se localiza en la Biblioteca Ariostea de la ciudad de Ferrara se localiza un proyecto fechado en 1898 que recoge, el “prospetto”, es decir, una cierta explicación, en donde se concluye que la diócesis de Linares le encargó a Boari una iglesia dedicada a San Luis Gonzaga en Monterrey (Apud Farinelli; Scardino,1995, p.121)19. Un asunto éste del que también, dio cuenta la prensa mexicana de la época de la siguiente forma20: [...] Se ha confiado al ingeniero italiano Adamo Boari, autor de uno de los mejores proyectos para el palacio del poder legislativo, la formación del proyecto de un gran templo que se piensa construir en Monterrey.

En dicho fondo se localiza la planimetría y sección de la iglesia proyectada por el italiano, con cierto parecido a la que más tarde se construiría. Parecido en lo relativo al uso del estilo neogótico, mismo que sabemos, Boari usará en otros dos proyectos de iglesias en México realizados con posterioridad: en el Expiatorio de Guadalajara y el Santuario de Nuestra Señora del Carmen de Atotonilco Alto, en Jalisco (Checa-Artasu, 2015). Gracias a esa documentación y a las notas de prensa se puede concluir que la propia diócesis de Linares encargó un proyecto de templo a Boari, ingeniero italiano que en esos momentos empezaba a visitar México, a raíz de haber sido premiado en el concurso por el Palacio Legislativo, y a pesar de residir y trabajar en Chicago. Moviéndonos en el terreno de la hipótesis, creemos que la iglesia en cuestión será el actual templo expiatorio de San Luís Gonzaga. Mismo que la bibliografía local atribuye a Genaro Dávila y Bernardo Reyes, ambos ingenieros que construirán un templo de planta central totalmente realizado en concreto. Una novedad en la época y más en su aplicación para templo religiosos (Checa, 2019). Es muy probable que Boari, quien había sido contactado por la diócesis de Linares para hacer el templo no pudiera acometer el encargo por sus continuas idas y venidas de Chicago a México. Otra posibilidad, si acaso más plausible es que Boari, simplemente enviará el proyecto a la diócesis y que allí, éste fuese revisado por una junta y otorgado a un ingeniero local como lo eran Dávila y Reyes. Hay que mencionar que este templo surge de la iniciativa de la Asociación de San Luis Gonzaga, sita en Monterrey.

El proyecto de Santuario de la Virgen del Carmen en Atotonilco el Alto, Jalisco Como ya indicábamos más arriba, durante los meses de septiembre a octubre de 1898 Boari visitará Guadalajara, en el marco de una serie de visitas que realiza a distintas ciudades mexicanas. Es muy probable que ese momento trabara relaciones

El detalle del fondo donde se encuentra este proyecto es el siguiente: Biblioteca Ariostea. Fondo Dono Boari. Busta 1 Periodo Americano. Fasc. 5 Chiese c. “Templo de San Luis Gonzaga” s.d., Monterrey, Arcidiocesi di Linares. Ver. Farinelli.; Scardino,1995, p.121. 20 Templo en proyecto. El tiempo, 12 julio 1898, p.2. 19

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con algún personaje prominente de esa archidiócesis, recibiendo varios encargos de ésta. Tras la visita, unos meses más tarde, el 14 de enero de 1899 una nota de prensa aparecida en El Imparcial indica lo siguiente21: [...] En la propia población [Atotonilco el Alto] y bajo la dirección del Señor Adamo Boari bien conocido en esa capital, se han emprendido obras para la reedificación del templo parroquial y edificación de un hospital y una casa de ejercicios. Los proyectos aprobados son muy hermosos y débase la promoción de estas mejoras al sacerdote Sánchez Aldama que ejerce allí de cura de almas.

Esta noticia nos lleva a destacar un asunto del que sólo podemos hablar en términos hipotéticos. ¿Cómo Boari establece relaciones con el Arzobispado de Guadalajara? Parece que el primer contacto con la archidiócesis de Guadalajara lo hace a través del inquieto párroco de Atotonilco Alto, Celso Sánchez Aldama, para quien diseña un santuario. Es posible que ese proyecto propiciase otro mayor, más significativo como sería el del templo expiatorio del Santísimo Sacramento, que le fue encargado con menos de un año de diferencia. Con todo, en ese contacto, debió ayudar mucho la fama del ingeniero italiano en México quien se sabía, había participado en el concurso internacional para el Palacio Legislativo y que, además, había aparecido citado en la prensa nacional como autor del proyecto de un templo catedral en Matehuala y de otro proyecto para un templo de grandes dimensiones en Monterrey. El hecho es que entre 1899 y 1901, Boari realiza varios proyectos para el Arzobispado de Guadalajara. Sólo en dos de ellos ha quedado rastro documental. El templo expiatorio del Santísimo Sacramento en Guadalajara y un proyecto para el Santuario de la Virgen del Carmen en Atotonilco el Alto. De este último, se conserva una copia del plano del mismo22, en el Archivo histórico del Arzobispado de Guadalajara donde se muestra que el promotor del proyecto era el sacerdote de dicha población, el ya mencionado Sánchez Aldama, siendo el arzobispo de Guadalajara: Jacinto López y Romo, quien recordemos fue prelado entre agosto de 1899 a diciembre 1900 (Vidargas, 1997, p.87). El proyecto de santuario para Atotonilco nos presenta una iglesia de tres plantas, la central más alta que las laterales, con una decoración claramente goticista, centrada en una torre con un contundente pináculo en la fachada principal que contiene archivoltas, gabletes y un rosetón, así como, arcos conopiales en las ventanas y arbotantes de sostenimiento en la cubierta. En planta, se observa que las instalaciones propias de un santuario, así como, la sacristía y otras dependencias se situarían a la espalda del templo. De igual forma, tendría un atrio rodeado por una barda perimetral. Toda la estructura del templo se situaría en un altozano rocoso a tenor del dibujo realizado por Boari, lo que hace suponer, que el santuario estaba pensado para emplazarse en algún cerro cercano a la población (ver figura 2.).

El redactor corresponsal, 1899, p. 1 AHAGD, Gobierno, Parroquias, Planos, PLA 3.1 Santuario de la Virgen del Carmen, Atotonilco el Alto. 1890-1899. 21 22

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Fig.2. Croquis del proyecto de Santuario en Atotonilco Alto, Jalisco, realizado por Adamo Boari en 1899. Fuente: AHAGDL, Gobierno, Parroquias, Planos, PLA 3.1 Santuario de la Virgen del Carmen, Atotonilco el Alto. 1890-1899.

Al parecer, Boari para desarrollar el mismo, según algún autor, se inspiró en diversos ejemplos del gótico español (Ibídem, p.87). Creemos, sin embargo, que su inspiración, quizás, más próxima a la copia fue la Basílica Superior o de la Inmaculada Concepción en el Santuario de Lourdes en Francia. El parecido con el templo proyectado por el arquitecto Hippolyte Durand, discípulo de Viollet le duc y consagrado en 1876 es notable (Perrier, 2010; 2016, p. 36). Algo que no debería parecer

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extraño, dado que a lo largo y ancho del orbe católico se edificaron distintos templos con semejanza formal e inspiración estética en el santuario francés. Mismo que obtuvo la atención de los creyentes por el fenómeno milagroso curativo que se le atribuye, así como, por las apariciones de la Virgen a la pastora Bernadette Soubirous en 1858. Sin ir más lejos, en México, por ejemplo, el Santuario de la Virgen de Guadalupe, también conocido como la Iglesia de los Jarritos en Cuetzalan, Puebla o varias capillas en haciendas en Yucatán serían ejemplos de lo que comentamos. Este proyecto, presentado en 1899, nunca se realizó, probablemente por lo elevado de su coste. Sin embargo, a tenor de la documentación parroquial de Atotonilco el Alto depositada en el Archivo histórico del Arzobispado de Guadalajara23, el mencionado proyecto se enmarca en la actividad constructiva asociada al fortalecimiento del espíritu católico en una zona que tenía población dispersa en distintos asentamientos y demandaba de los servicios religiosos principales. Entre 1894 y 1901 se construirán en esa jurisdicción parroquial, dos capillas, una en la hacienda de Las Margaritas y otra en la de La Ciénaga. Ambas sufragadas por sus propietarios. Se erigirá una capilla a la Virgen de los Dolores en el hospital de la cabecera municipal y se refaccionará la cúpula de la iglesia de San Miguel, también en la cabecera. Inicialmente, ambas obras habían sido proyectadas por el ingeniero Manuel Pérez Gómez. Sin embargo, de atender a la nota de prensa de El Imparcial, de enero de 1899 ya mencionada, dichas obras fueron dirigidas por Adamo Boari, quien sin duda visitaría Atotonilco con total certeza en esas fechas. Una foto de él en la cúpula en construcción de la iglesia parroquial de San Miguel parece atestiguar la visita del italiano (VV.AA., 1984, p.365; Leal, 2010, p.165). Otra fuente, incluso le atribuye la autoría del proyecto de la cúpula (Moya, 1998, p.212; Orozco, 1986, p.234).

El proyecto del templo Expiatorio del Santísimo Sacramento de Guadalajara Parece verosímil pensar que la estancia a caballo de Guadalajara y Atotonilco fue la que permitió profundizar la relación del arquitecto Boari con el arzobispado jalisciense. Boari llega a la región en un momento, de definición de la forma del templo expiatorio que sabemos que no había iniciado construcción, a pesar de que su primera piedra había sido colocada en 1897. Es muy probable que se le encargará el proyecto gotizante en esos momentos, poniéndolo en disputa con otro proyecto para el mencionado templo encargado al ingeniero tapatío Salvador Collado. Efectivamente, a tenor de informaciones tanto de archivo como de prensa, hubo al menos dos proyectos más para el templo expiatorio. Un primero del ingeniero Manuel Pérez Gómez, datado en 1897. Una nota fechada el 10 de agosto de 1897 en La Voz de México notifica la aprobación por parte del arzobispo Loza Pardave de la construcción de un gran templo expiatorio y se indica:

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AHAGDL, Gobierno, Parroquias, Atotonilco el Alto, Cajas 5 y 6.

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[...] El plano para el templo de que se trata ya ha sido levantado por el Sr. Ingeniero Manuel Pérez Gómez, quien después de un detenido estudio y fundándose en razones muy atendibles, ha determinado que dicho templo ocupe la parte occidental de la manzana, situándolo de norte a sur y quedando el pórtico principal en la calle de los Placeres.

El ingeniero Pérez Gómez se había formado en la escuela de ingeniería de Jalisco y contaba con varios años de experiencia profesional. Por ejemplo, había sido el diseñador de la carretera Guadalajara- San Blas y había participado en toda una serie de obras y refacciones en templos del arzobispado en Atotonilco Alto24. Poco más sabemos de ese proyecto de Pérez Gómez. Muy probablemente, cronológicamente fue el primero de los tres que se hicieron. Un segundo proyecto fue el que se le solicitó al ingeniero agrimensor e hidrógrafo tapatío Salvador Collado Jasso (1859-1909), egresado de la Escuela de Ingenieros de Jalisco. Hay que recordar que Collado había concluido recientemente, en 1894, el puente colgante del Arcediano. Una obra situada sobre el rio Santiago que permitía superar la Barranca de Huentitán para establecer comunicación entre Guadalajara y las localidades del norte de Jalisco (Grimaldo, 2013, p.64.). La modernidad de la obra, un puente colgante, y la utilidad de ésta le habían otorgado cierta fama en distintos ambientes de la ciudad. En abril de 1899, varias notas de prensa atribuyen al ingeniero Collado la redacción de los planos del templo del Santísimo Sacramento, que en esos momentos aún está por iniciarse y su futura participación como director de obras25. En esos momentos, Collado, era el jefe de la sección cuarta de la Secretaria de Gobierno del Ayuntamiento de Guadalajara. Años más tarde se integraría como técnico en el servicio de tranvías de la ciudad. En cuanto a su estilo y forma poco se sabe del proyecto de Collado para el Expiatorio. Ignacio Díaz Morales, arquitecto tapatío que sería el encargado de obras del templo de 1931 a 1972, nos menciona que fue rechazado por el arzobispado por su cúpula barroca y la falta de proporciones de éste (Díaz Morales, 1979, p.312). A pesar de ello, en 1902, se le otorgó el segundo premio y la medalla de plata por el proyecto del templo en el marco de la Exposición regional Jalisciense (García Rivas, 1970, p.451; Ochoa, 2013, p.145). Lo cierto es que, al disponer de estos dos proyectos, el de Collado y el de Boari, se pudo iniciar la obra, dirigida por el canónigo Pedro Romero Arnaiz, quien había sido el principal promotor de la construcción de un templo Expiatorio, dedicado al Santísimo Sacramento dentro de la archidiócesis de Guadalajara. Éste religioso, en aras de una cierta conciliación profesional o quizás con un notorio sentido práctico, siempre consideró que la realización del proyecto del Expiatorio corrió a cargo de Collado y de

De La Torre, 2000, p.227. Sobre el proyecto de la carretera Guadalajara-San Blas, consultar: Camino Guadalajara-San Blas. El Monitor Republicano, 24 de noviembre de 1881, p.3. Sobre las obras religiosas en Atotonilco el Alto ver: AHAGDL, Gobierno, Parroquias, Atotonilco el Alto, Cajas 5 y 6. 25 Nueva casa de oración. La Voz de México, 26 de abril de 1899, p.3; Gacetilla-Templo. El Tiempo, 26 de abril de 1899, p.1 24

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Boari, tal como expresó en 1906 en el marco del Congreso Eucarístico de Guadalajara (Romero, 1908): [...] El diseño de esta grandiosa basílica fue hecho por los ingenieros Salvador Collado y Adamo Boari quienes dibujaron los planos en detalle, necesarios para el desarrollo de la obra hasta su conclusión.

Pero ¿Cuáles fueron las características principales del proyecto para el templo presentado por Adamo Boari? Su proyecto será de dimensiones considerables, de 3.800 metros cuadrados de superficie, de tres naves con torre campanario en su lado izquierdo, que retoma aspectos del gótico italiano con reminiscencias bizantinas, con un notable parecido con la catedral de Orvieto, en la Umbría italiana, construida en el siglo XIV (ver figura 3). La única diferencia que se introducía es una torre campanario de cuatro cuerpos, culminada con gran pináculo y un reloj, en lado izquierdo de la fachada. El resto de la fachada es de un parecido casi exacto al templo de Orvieto, especialmente en lo que se refiere a la factura de las puertas principales y de los mosaicos que en un segundo nivel decoraban los frontones del templo.

Fig. 3. Fachada del Templo Expiatorio del Santísimo Sacramento, en Guadalajara, proyectado entre 1899 y 1900 por Adamo Boari, inspirándose en la Catedral de Orvieto en Italia. Foto. Martín Checa-Artasu, octubre de 2012.

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La arquitectura religiosa de Boari, entre la réplica inspirada en el pasado y la voluntad de la Iglesia A lo largo de este trabajo, hemos visto como los diferentes proyectos arquitectos que desarrollará Adamo Boari para la iglesia católica se sustentan en una suerte de historicismo, centrado en estilos medievales como el gótico y en menor medida el románico o el estilo bizantino. Un sustento que se basa tanto en la copia casi exacta en algún caso, como la nueva catedral de la ciudad de Matehuala que es una réplica casi exacta del templo de Saint Joseph de Brotteaux de la ciudad de Lyon o la Catedral de Orvieto para el caso del templo expiatorio de Guadalajara o el Basílica Superior o de la Inmaculada Concepción en el Santuario de Lourdes para el santuario a la Virgen del Carmen en Atotonilco el Alto, en Jalisco. Todo ello nos hace presuponer que Boari se adscribe dentro de la lógica de la inspiración a la que se sujetaban muchos de los arquitectos al diseñar piezas historicistas. La copia o la clonación de obras arquitectónicas no será un hecho extraño, especialmente desde mediados del siglo XIX, cuando la arquitectura se funde entre el neoclásico, los estilos historicistas y los eclecticismos. Además de ello, los influjos restauracionistas de Viollet Le Duc en Francia y de Luca Beltrami en Italia, de alguna forma, justificaban la recreación lo más exacta posible de un original arquitectónico del pasado (Hernández Martínez, 2007, p.34-36). Adamo Boari creemos que se adscribía a esta tendencia y que fue en México donde pudo desarrollar todos estos planteamientos. Mismos que el ingeniero italiano en agosto de 1898 publicaba en el semanario El mundo ilustrado, el texto “La arquitectura nacional” en el que de alguna forma justificaba sus elecciones sobre diseños arquitectónicas basadas en el pasado: [...] Y aquí surge naturalmente la pregunta. ¿Sería posible redimirse de los antiguos estilos y buscar motivos nuevos fuera de aquellas fuentes de un arte pasado y muerto? Mas es negativa la respuesta, pues la arquitectura se repliega sobre sí misma, valga la frase: la pintura y la escultura tienen por modelo, por fuente de inagotable imitación la verdadera naturaleza; la arquitectura, en cambio, tiene por modelo, por inspiración únicamente los productos del mismo arte arquitectónico del pasado. Aquellos que creen posible intentar una decoración enteramente nueva, realista, sin preocupación de las formas del pasado serán escultores de rica imaginación, pero nunca arquitectos. Toda tentativa en ese sentido ha fracasado.

Como se puede observar, el uso de estilos historicistas era algo que el ingeniero Boari asumía con total normalidad, como modelos en los que basarse para diseñar, a veces de forma casi mimética, más si se trataba de encargos provenientes de la Iglesia, quien explícitamente deseaba construir en estilos medievales pues la acercaban a un pasado glorioso. Un dato apunta en este sentido y además permite, aunque sea parcialmente, explicar, porque la archidiócesis de Guadalajara tomo en cuenta el proyecto del italiano Boari y no el del tapatío Collado. En 1906 se celebró en Guadalajara el Congreso Nacional Eucarístico, mismo que tras varias sesiones debatió distintos temas en torno del papel de la Eucaristía en relación a

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la situación de la Iglesia mexicana en esos años. Las actas de dicho congreso fueron publicadas en 1908, en las mismas se puede observar como las distintas secciones de estudios que se conformaron en el marco del congreso aportan sus conclusiones. La sección dedicada a la liturgia, arte e historia expresa las siguientes opiniones, que mucho tienen que ver, con el deber ser de los futuros templos católicos26: 104) Como medio de fomentar la devoción al Santísimo y al Sagrado Corazón, impúlsese la construcción de templos y edificios de caridad, de acuerdo con la arquitectura cristiana, y la conclusión oportuna y adecuada de las obras comenzadas de esta naturaleza. 105) Procurar que los Altares en que deba estar el Sagrado Depósito tengan una mesa de mármol blanco, al menos la cubierta. 106) Es de recomendarse para lo sucesivo el empleo de pilares y arcos metálicos en los templos que se construyan. 107) " El estilo modernista " arte nuevo no es conveniente se adopte en su estado actual, para la arquitectura de los templos; pero puede emplearse con cierta prudencia en la pintura puramente ornamental. 110) Recomendar la formación de Clases elementales de Arquitectura y Decoración en los Seminarios, para educar el gusto artístico de los futuros Sacerdotes, porque frecuentemente se ven obligados los Sres. Curas, Vicarios, a emprender obras reformas en los templos que tienen a su cargo, así como decorar sus Iglesias para festividades solemnes. 113) Es aceptado el empleo de fierro forjado, cuando sea el estilo gótico el que se adopte en la parte de los altares, sobre todo en los mayores, que se destina a las imágenes.

A tenor de estos lineamientos emanados en el marco del Congreso Eucarístico Nacional celebrado en Guadalajara, se puede entender por qué fue preferido el proyecto de Boari, al menos en cuanto a su estilo. El gótico era entendido por la Iglesia mexicana como el estilo cristiano al que debían someterse todos los nuevos edificios católicos. Además, se consideraba la presencia del hierro forjado en elementos de sustentación de muros y cubiertas, aunque éste debía cubrirse con algún tipo de decoración historicista. Como se deja entrever, se trata, sin duda, de una declaración de principios arquitectónicos, decorativos y estilísticos realizada por la Iglesia católica en México y que tendrá fiel cumplimiento en diversos templos que en esos años se construyen a lo largo y ancho del país como por ejemplo (Checa-Artasu, 2010,2011,2012): el templo de Sagrado Corazón de Jesús en León, Guanajuato, el templo de San José Obrero en Arandas, Jalisco o el santuario a la Virgen de Guadalupe en Zamora, Michoacán.

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Congreso nacional, 1908, p.220

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ADAMO BOARI Y SUS PROYECTOS DE ARQUITECTURA RELIGIOSA EN MÉXICO (1897-1902)

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Morelia. Santuario dedicado a la Virgen de María Auxiliadora advocación propia de la congregación religiosa de los Salesianos. Fue edificado entre 1905 y 1907 por el arquitecto italiano Adrian Giombini quien además decoro el interior. Autor: Olimpia Niglio, 2017

ADRIÁN GIOMBINI MONTANARI LA OBRA RELIGIOSA DE UN ARQUITECTO ITALIANO EN MÉXICO

CARMEN ALICIA DÁVILA M.

This text addresses the life and work of the Italian architect Adrian Giombini in Mexico, from an interdisciplinary point of view. The historical context of the time when the architect, trained professionally in Italy, arrived in this country at the beginning of the 20th century is taken into consideration. From the wide and varied work developed here, this work focuses exclusively on religious architecture: its programs, projects, designs and styles, as well as its importance in the history of regional and national architecture, since this are part of the Mexican architectural heritage and represent the ideology of an era of Mexican history with its corresponding external influences and local characteristics. To a large extent, the sources that sustain the work are first-hand: archival documents and unpublished interviews with firstdegree relatives of the architect, as well as bibliography and complementary hemerography, as well as the works themselves.

Introducción En los párrafos siguientes se aborda la vida y la obra de Adrián Giombini Montanari, quien llegó a México en los albores del siglo XX, momentos de intensa movilidad internacional y modernización en el mundo. La política mexicana impulsaba el progreso, promovía la inmigración extranjera y mostraba apertura a la tolerancia del culto religioso, condiciones que hicieron posible el arribo del arquitecto italiano a este país. La cantidad y variedad de actividades y obras que aquí desarrolló, hizo necesario seleccionar un solo aspecto de las mismas, por su representatividad. Con tal motivo se presentan las generalidades de su biografía y de su actividad profesional; de su obra arquitectónica solo se considera la religiosa por la importancia y el significado que tiene, vista como consecuencia de las condiciones ideológicas, políticas, sociales, y económicas en la historia, con relación al culto católico impulsado fuertemente desde el Vaticano, en todo el orbe, a finales del siglo XIX y principios del XX. 107

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Datos biográficos y formación profesional Adrián Giombini Montanari nació en Roma el 8 de noviembre de 1877; fue hijo de Enrico Giombini, originario de Fanno y Mariana Montanari, oriunda de Milán. Tuvo tres hermanos y una hermana, de los cuáles él fue el menor; durante su infancia y juventud, pasaba las vacaciones en familia con sus abuelos en Milán; quizá estos aspectos hayan influido en la elección de su carrera, ya que por su nieto homólogo, Adrián Giombini Cendejas, sabemos que perteneció a una familia de tradición profesional de arquitectos y pudo haber contado con las enseñanzas y experiencias de sus familiares, pues también los hermanos Ernesto y Alejandro tuvieron la misma profesión. El matrimonio Giombini Montanari se mudó a Roma debido a una invitación que Enrico recibió para construir una iglesia y esa fue la razón por la cual Adrián nació en la ciudad eterna. Fue allí mismo en donde el joven realizó sus estudios elementales y técnicos; continuó su formación profesional en la Escuela de Arquitectura y Preparatoria de las Artes, teniendo como maestro al artista Luis Bazzani. Posteriormente se inscribió “en la Escuela Superior de las Artes Ornamentales aplicadas a las industrias artísticas”, en donde obtuvo el título de Primer Grado y fue merecedor de la Medalla de Oro (A. Giombini C., comunicación personal, 21 de julio de 2014). Formado en Roma, Giombini Montanari tuvo la oportunidad de empaparse de la antigüedad romana, del conocimiento in situ de las obras clásicas, de la arqueología, la arquitectura, el conocimiento de los grandes tratadistas y de todas las expresiones del arte que más tarde, y en gran medida, repercutirían en el desempeño de su actividad profesional. Durante los años de su formación en el colegio salesiano de Roma, inició una gran amistad con su compañero, Eugenio María Giuseppe Giovanni Pacelli, quien con el tiempo llegaría a ocupar la silla pontificia bajo el nombre de Pío XII. Este dato resulta relevante en varios sentidos, uno de ellos es que en el campo profesional, nunca perdió la relación con los salesianos y de los proyectos que realizó, varios corresponden a obras hechas para dicha congregación. Por otro, la comunicación entre los dos amigos fue continua, incluso cuando el arquitecto ya se encontraba en tierras mexicanas. Durante el conflicto Estado-Iglesia, conocido como la Guerra Cristera (1926-1929), Giombini fue el contacto del Papa Pío XI en México, situación que estuvo a punto de costarle la vida, pues bajo la sospecha de aquella comunicación, los federales llegaron a su casa y revisaron todos los armarios, cajones, y espacios de su vivienda, pero no encontraron nada que lo denunciara. El arquitecto había escondido la correspondencia papal en la escultura de busto de un monje que él mismo había elaborado en yeso y luego la había sellado por la base con el mismo material. La relación con el Papa Achille Ratti se debió a su vieja amistad con Eugenio Pacelli; fue por recomendación suya el contacto de Giombini con su antecesor, el papa Pío XI, quien para entonces ya había sido designado obispo, arzobispo, y desde 1920 primer nuncio en Berlín; en 1929, asumió el cargo de secretario del Estado Vaticano y en 1939 fue electo papa bajo el nombre de Pío XII (A. Giombini C., comunicación personal, 21 de julio de 2018).

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El traslado de Giombini a tierras mexicanas obedeció a cuestiones profesionales para el sector público en la capital, pero también se enfocó a proyectar y dirigir obra civil privada y sobre todo religiosa en varias ciudades del país. De su desempeño en la Ciudad de México destaca la parroquia-santuario de María Auxiliadora que construyó para los salesianos. También hizo obras de escultura y de pintura; se dedicó a la docencia, y realizó importante labor editorial. Con objeto de enriquecer y difundir el conocimiento, sobre todo para apoyar a sus alumnos, escribió varios libros de la materia de su especialidad, publicados a lo largo de su vida profesional. Éstos fueron considerados como libros de texto indispensables en la formación de los futuros ingenieros que hacían su carrera en la Escuela de Ingeniería de la Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM), primeramente con sede en el Palacio de Minería, en el Centro Histórico de la capital y desde los años cincuenta en la Ciudad Universitaria. Los temas que expone en su obra publicada se refieren específicamente a la Perspectiva lineal aplicada a la Arquitectura, Sombra y perspectiva, Perspectiva teórica, y Geometría descriptiva. Analizó los conceptos de los tratadistas clásicos y dio un paso más en el conocimiento de estas materias, por lo que sus libros tuvieron múltiples ediciones incluso después de su fallecimiento y fueron tomados como libros de texto, además de la UNAM, por otras universidades, entre ellas la Universidad Michoacana. Otro aspecto que abarcó fue el de la ingeniería civil, participando en la construcción de una carretera en el estado de Veracruz; también realizó varios proyectos para torres y faros en puertos mexicanos, para lo cual viajó en repetidas ocasiones por diversos sitios del territorio nacional (A. Giombini C., comunicación personal, 13 de octubre de 2018). Fue el trabajo también, la razón para trasladarse de la capital a Morelia, en donde se hizo cargo de proyectar y dirigir el templo salesiano dedicado a María Auxiliadora. En esta ciudad se casó y nacieron los tres primeros de sus ocho hijos. Posteriormente regresó a la Ciudad de México para desempeñarse como profesor en la Escuela Nacional de Ingeniería de la UNAM a partir del primer día de enero del año de 1923, pero aún enfocado a la docencia no dejó de construir en otros sitios del interior del país, con muy variados proyectos de obra tanto religiosa como civil, en los sectores público y privado.

México al iniciar el siglo XX Al adentrarnos en el tema de la obra de Giombini, es menester enmarcarla en el entorno y el momento en que surgió; en la época y las condiciones en que el arquitecto desarrolló su trabajo, considerando los aspectos sociales, ideológicos, políticos, religiosos y económicos que vivía el país al cual arribó. Debemos considerar que las investigaciones en torno a la arquitectura y el urbanismo, en general, giraban en torno a los aspectos estéticos y formales –en ocasiones también tecnológicos- de las obras más relevantes, lo cual, si bien permitía su descripción y filiación a una corriente, a una época y un lugar, no permitía una comprensión cabal del espacio construido ni de su significado. Bien afirma Guadalupe Salazar (2011), que deben considerarse además “la forma, el espacio, su contexto y su concreción material, las experiencias y concepciones

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de la espacialidad por las culturas en el tiempo. La historia de la arquitectura debe atender y analizar cómo ha sido dada y conceptuada esa espacialidad y cómo se ha definido el habitar o razón de ser” (8). Solo abordando el tema en su conjunto, desde un punto de vista global e interdisciplinario, podremos explicar y comprender el qué, por qué, para qué y para quién se hace una obra arquitectónica y/o urbanística y valorarla en el amplio sentido de la palabra. De ahí que antes de iniciar con el tema central de la obra realizada por Adrián Giombini Montanari, se hará referencia a las condiciones que reinaban en el país al cual llegó. A finales del siglo XIX y principios del XX, México vivía los últimos años del periodo porfiriano de su historia en el marco de una dinámica de modernización y fortalecimiento económico que había dejado atrás los múltiples conflictos internos posteriores a la guerra de independencia. Las condiciones del cambio se consideraban triunfos del general Porfirio Díaz, quien había logrado para el pueblo la paz y el bienestar. Se procuró la higienización de las ciudades, se implementaron los sistemas de agua potable y alcantarillado, los medios de comunicación como la máquina de vapor, el teléfono y el telégrafo, y surgieron varias novedades en el campo de la tecnología y de los materiales de construcción. Una de las medidas que tomó el dictador fue atraer la inversión extranjera enfocada principalmente a dos rubros: el aprovechamiento de los grandes yacimientos petrolíferos y el implemento de amplias vías de comunicación mediante una extensa red ferroviaria que permitió la unión de la ciudad de México con los puntos más alejados del país, lo cual generó el movimiento de numerosas mercancías, incluso hasta el vecino país del norte. (Canelli, 2012:152153). La industria minera recibió un fuerte impulso y se modernizaron las ciudades con el uso de la energía eléctrica. Se implementaron varias industrias, tales como la siderúrgica, la papelera y la textil. Al mismo tiempo, México comenzó a exportar gran cantidad de productos agrícolas y ganaderos generados principalmente en la región del Bajío, así como en Jalisco, Michoacán y Puebla (Uribe S, 2010:74). Bajo esta dinámica, comenzaron a llegar personas de diversos países, algunos de ellos como inversionistas y otros, profesionales invitados por el gobierno federal para realizar obras en México, tendientes a imitar los modelos extranjeros principalmente franceses. En el escenario descrito, no obstante la bonanza para muchos, la vida cotidiana de las ciudades del país reflejaba la desigualdad social que el régimen propiciaba. Podemos decir que prácticamente el 80% de la población radicaba en el área rural, lo que significa que alrededor de 12´125,000 personas vivían “en una multitud de pequeños pueblos y aldeas, haciendas, ranchos, rancherías y campamentos…” (Loyo, 2010:174-175). Los jornaleros trabajaban “de sol a sol” y vivían cautivos económicamente por las “tiendas de raya”. La mayoría del pueblo era analfabeta y sus precarias condiciones no le permitían el acceso a la educación. Mientras ascendían los niveles del desarrollo de las industrias, aumentaba la pobreza de la mayoría de los ciudadanos; la tierra se concentró en muy pocas manos, a tal grado que “Entre 1883 y 1907 más de 49 millones de hectáreas fueron adquiridas por unos cuantos particulares”, quienes a finales del periodo de Díaz llegaron a poseer el 90% de las tierras de México (Cervantes, 2010:74).

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Las luchas intestinas que se habían generado a lo largo del siglo XIX, protagonizadas por grupos antagónicos de centralistas y federalistas, liberales y conservadores, con los años generaron la separación del poder terrenal y el espiritual y con ello vino para el clero la pérdida de gran parte de sus propiedades, a las que entonces se les dio nuevo uso, generalmente como dependencias administrativas, educativas, o instalaciones de carácter social. La disparidad social que generaba la política económica entre sus habitantes se reflejaba en las grandes masas de escasos recursos y escasos grupos que amasaban grandes fortunas. Los estilos de vida de los diferentes sectores eran consecuencia de la ideología y del estatus socioeconómico, lo cual propiciaba choques internos entre los grupos de poder, con eco en la política religiosa; se concretó entonces “una oposición organizada de inspiración liberal en el gobierno” mexicano (Canelli, 2012:155). Desde el triunfo de dicho grupo, a principios de la segunda mitad del siglo XIX y durante el porfiriato, se fueron reacomodando las relaciones clero-gobierno, en gran medida debido a una diferente relación que el general Porfirio Díaz favoreció, mediante la cual pudo darse un mejor entendimiento con la iglesia (Checa-Artasu, 2009:23, cit. en Tapia, 2013:45). A esa reacción de Díaz debió contribuir que la gran mayoría de los mexicanos profesaba la religión católica. Por otro lado, a nivel mundial el Vaticano mostraba su preocupación por el avance de las ideas socialistas y las condiciones de los obreros como consecuencia de la industrializaciòn de la época (Tapia, 2013:45-48). Al respecto, el 1 de noviembre 1885, el papa León XIII emitió la encíclica Immortali Dei, documento que se refiere a la “constitución del estado” y su responsabilidad en gobernar, enfatizando que no hay otra forma mejor de hacerlo que “aquella que florece espontáneamente de la doctrina evangélica.” El pontífice dejaba en claro la posición de la iglesia con relación a la disparidad socioeconómica de la población y los derechos del hombre independientemente de su condición, así como la responsabilidad de los católicos en esa tarea, considerando que tanto los obreros necesitan de los empresarios, como éstos de los obreros. Solo 26 días después, el Vaticano publicó su Spetata fides (León XIII, 1885-XI-27), destacando la importancia de la educación cristiana para lograr de los niños y jóvenes buenos ciudadanos; y en 1891, dio a conocer la encíclica Rerum Novarum (León XIII, 1891-V-5), misma que procuraba exponer y dar solución al aspecto social que entonces se generaba, desde luego, buscando el bien de los trabajadores y la salvaguarda de sus derechos. Todas esas medidas eran bien recibidas por el pueblo mexicano y, simultáneamente, la participación activa de la sociedad civil fue cobrando fuerza en el ámbito de la iglesia católica. El acercamiento político-religioso durante el gobierno de Díaz, se concretó con la fundación de nuevos conventos y grupos afines; surgieron entonces varios organismos civiles ligados estrechamente al clero. Las congregaciones que arribaron al país levantaron construcciones acordes a su carisma. Una de esas congregaciones fue precisamente la de los salesianos, de fuertes lazos de unión con el personaje que nos ocupa. También se dio impulso a diversas figuras cristianas, principalmente a San José y al Sagrado Corazòn de Jesús, cuyas imágenes se colocaron en prácticamente todos los

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templos con el fin de fomentar su devoción. Desde 1856, el papa Pío IX instituyó la fiesta del Sagrado Corazón de Jesús y en 1870 proclamó a San José Patrono de la Iglesia Universal. En el caso del primero, se trataba de procurar el desagravio, la expiación de las culpas, de ahí la fundación de varios templos “expiatorios” en todo el país, a finales del siglo XIX y principios del XX (Checa-Artasu, 2009:23, cit. en Tapia, 2013:49). Por otra parte, en 1921 el arzobispo Leopoldo Ruiz y Flores, titular del Arzobispado de Morelia, llevó a cabo la coronación de la virgen María Auxiliadora, patrona de los salesianos, (Tapia, 2013:54). Los avances en las relaciones entre los poderes espiritual y terrenal durante el porfiriato, dieron marcha atrás al desatarse el conflicto armado revolucionario; se implementaron entonces varias acciones anticlericales contrarias a la política de la dictadura. Los cambios que se generaron con la Revolución conllevaron de nuevo un distanciamiento entre el clero y el estado; una de las consecuencias más importantes fue la laicización de la educación, con lo cual se dio continuidad a la separación de ambos poderes, medida ya tomada décadas antes, a raíz de las Leyes de Reforma. En consecuencia, no solo disminuyó la fundación de colegios e iglesias, sino que muchos de los edificios del clero fueron ocupados con fines ajenos y diversos, ya que aun cuando la ley de nacionalización llevaba vigente varias décadas, la toma de posesión de los bienes del clero aún no había concluido (ASDS, exp./223 (723.5)/27) y dadas las condiciones, éste era un momento oportuno para hacerlo. A pesar de tener el viento en contra, la iglesia católica no dejaba de impulsar sus construcciones, la formación cristiana y la fundación de nuevas instituciones educativas. La radicalización de las facciones tendría su culminación en la siguiente década, con la Guerra Cristera desarrollada entre los años de 1926 y 1929, conflicto en el que participó Adrián Giombini de una manera importante pero muy discreta.

Vida y obra de Giombini en ciudades mexicanas Adrián Giombini arribó a tierras mexicanas a principios del siglo XX, cuando agonizaba el gobierno de Porfirio Díaz. De acuerdo con la información de sus familiares, su hija Norgelina y su nieto homónimo, el arquitecto llegó a nuestro país en calidad de profesional, para trabajar en la decoración del Palacio de Bellas Artes; participó en el frustrado Palacio Legislativo – hoy monumento a la Revolución- y en el edificio de Correos de la Ciudad de México. No permaneció mucho tiempo en la capital, pues su presencia fue requerida en Morelia por la congregación salesiana, para realizar el templo de María Auxiliadora. En esta ciudad vivió más de 15 años y fue aquí en donde contrajo matrimonio, con la moreliana María Guzmán. (N. Giombini G., y A. Giombini C., comunicación personal, 21 de julio de 2014). Al templo salesiano sucedieron muchas y muy variadas obras en la misma ciudad, en donde fijó su residencia hasta finales de 1922, cuando obtuvo un contrato de profesor en la Escuela de Ingeniería de la UNAM, a partir del 1 de enero del siguiente año. A su llegada a Morelia, el italiano se encontró con una ciudad que había multiplicado su población después de los numerosos conflictos del siglo XIX. La cifra

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estaba creciendo: de 24,000 personas que la habitaban en 1884, a los 37,278 que llegarían en 1900 y a 40,042 en 1910. Durante ese periodo la mancha urbana había aumentado de 250 a 430 hectáreas, poco más del 60%; la emigración del campo a la ciudad se hizo patente y con ello la necesidad de un mayor número de viviendas, sobre todo de carácter popular. Hasta 1910, Morelia era una de las 10 ciudades más importantes del país en cuanto a su densidad demográfica; sin embargo, en el aspecto industrial no había logrado un impulso notable y poco a poco se fue rezagando en este sentido y en aumento poblacional. (Uribe V., 2001:167). Como en el resto del país, la modernidad llegaba a Morelia con las innovaciones del momento: los sistemas de agua potable y alcantarillado, parques y jardines, la apertura de nuevas y amplias calzadas, y el empedrado de las calles, a las que además se les colocaron las banquetas. Se contó entonces con instituciones importantes, como las primeras sucursales bancarias, el Hospital Civil, el Museo Michoacano, el Monte de Piedad (Cervantes, 2001:75,84) y la Cámara de Comercio de Morelia, entre otras (Uribe S., 2010:195). La vida de la sociedad moreliana se veía influída por nuevas corrientes de pensamiento que surgían de las condiciones del momento. La modernización de la ciudad también incluía las áreas relativas al esparcimiento, la recreación, los eventos artísticos y la llegada del cinematógrafo, por citar algunas. Pero todo esto contrastaba con una población “empobrecida y analfabeta” (Uribe S., 2010:197); como se menciona en párrafos anteriores, durante el porfiriato la educación era privilegio de unos cuantos; solamente los miembros de la élite socioeconómica podían tener acceso a los estudios, y muy pocos a los profesionales. En cuanto al concepto que en el ámbito nacional se tenía sobre esta ciudad, la opinión general era que “Morelia era una de las poblaciones más católicas de la República; el clero (era) una potencia invulnerable allí, y todavía, en la actualidad, no han podido aún perderse ciertos hábitos religiosos y ciertas costumbres que dan a la capital ese tinte de tristeza o abatimiento en que parece sumergida” (O´Farril, 1895:69, cit. en Uribe S., 2010:202). Cabe aclarar que se trata de una ciudad de constrastes, ya que también había importantes corrientes de pensamiento liberal. La acción que desempeñaron las personas y los grupos conservadores fue de relevancia, como lo hace ver la obra arquitectónica desarrollada en esos años, en la que tuvo que ver Adrián Giombini.

La arquitectura en el periodo entre siglos A finales del siglo XIX y principios del XX, en el ámbito internacional se percibían distintas corrientes de estilos arquitectónicos que hacían eco en México: por un lado estaba la tendencia artística impulsada por el dictador Díaz, proclive a los modelos europeos principalmente franceses; por otro, se imponía la vuelta al pasado retomando los modelos de la antigüedad, primeramente el clásico grecorromano, y después los medievales, tanto el románico como el gótico, además del árabe, el oriental, el plateresco, el colonial, el prehispánico y otros más de épocas anteriores, a los que se les antepuso el prefijo neo y que fueron conocidos como los neoestilos o revivals.

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El neoclásico había tenido muy buena aceptación en un amplio radio del globo, tanto en Europa como en todo el continente americano y México no fue la excepción. Por su parte, la arquitectura medieval, revalorada por el francés Eugéne Violet-le-Duc en el siglo XIX, cobró tal impulso que bajo su influencia se siguió construyendo aún a principios del siglo XX. En esta dicotomía, la arquitectura tuvo un doble papel: por un lado se convirtió en un agente difusor de los imaginarios de modernidad que conllevaban un “nuevo estilo de vida”, y por otro exaltaba lo tradicional, basado en lo propio (Ettinger, 2015:9). Dentro de las novedades de la época se ubicó la corriente modernista del art nouveau, a la que secundó posteriormente el art déco. Fue bajo todas estas opciones que se construyeron estaciones de tranvías, hospitales, escuelas, mercados, iglesias, cementerios, casas, y todo tipo de obras. Para la arquitectura religiosa el neogótico y el neorrománico fueron los estilos más difundidos. Para Chateubriand la importancia de los monumentos medievales era que en ellos “descansa la belleza moral de la civilización cristiana frente a la belleza ideal pagana” de las culturas clásicas (Navascués y Quesada, 1992:42-43). Es significativo que el gótico haya sido considerado de un modo especial, con preferencia sobre las construcciones de tipo bizantino o románico, calificados como estilos “descendientes desnaturalizados del arte pagano, mientras que la arquitectura gótica nacía de sí misma, no debiendo nada al paganismo”; desde sus orígenes el gótico se identificaba plenamente con el cristianismo (Navascués y Quesada, 1992:46). En el campo de la arquitectura civil, las altas clases sociales tenían preferencia por la modernidad y querían reflejarlo en su propiedad: consideraban que precisamente en esos años iniciales del siglo XX, México “estaba viviendo ´su belle époque´. La oligarquía estaba fascinada por todo lo que llegaba de Europa y los afrancesados… [que era el grupo de la] …élite ´deseosa del mundo aplaudía las obras arquitectónicas que sugería el art nouveau…” (Cannelli, 2012:153). En síntesis, los estilos arquitectónicos en boga mientras agonizaba el siglo XIX y los albores del vigésimo, versaban entre los neoestilos y las modernas corrientes artísticas, o art nouveau. Poco más tarde, en la década de los años veinte, se sumaron las Artes Decorativas, o art déco. Pero, reiteramos, para las construcciones religiosas se privilegió de modo especial al neogótico, sin dejar de lado al neorrománico. Recordemos que durante la Edad Media, la religión cristiana fue el motor que movió a la sociedad y las obras que se realizaban llevaban implícito el fin de dar gloria a Dios. Para el ámbito internacional de la primera mitad del siglo XX, México presentaba un mundo de contrastes en múltiples sentidos y en general, la imagen que proyectaba el país no era precisamente la de un país moderno, por el contrario, reflejaba el perfil de una sociedad conservadora y, en consecuencia, su arquitectura conllevaba un carácter tradicional. Fue justamente en esta época cuando surgieron las nuevas tendencias enfocadas “a la modernidad pretendidamente universal” (Ettinger, 2015:5-9) a la que querían acceder los constructores. A ello contribuyeron la circulación de ideas, los intercambios, las relaciones y otros factores que tuvieron repercusión no solo en México, sino en todo el continente americano. Tanto unas como otras fueron del

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conocimiento de nuestro arquitecto italiano y en sus obras llevó a cabo una selección de acuerdo al caso, según los programas de los que se tratara.

Los programas arquitectónicos de Giombini en México Giombini se enfocó a diferentes tipos de programas arquitectónicos y fue flexible a las diferentes peticiones que recibió; no obstante, mostró preferencia por la arquitectura religiosa, rubro en el que desarrolló sus más relevantes obras, desde pequeñas capillas, hasta grandes templos. También atendió la demanda civil tanto en lo público como en lo privado; en el primero se encuentran una sala cinematográfica, un teatro, escuelas, el primer horno crematorio de la ciudad y la readaptación de un seminario; además, carreteras y proyectos de faros para varios puertos del país (AAGC, s/f). Dentro del segundo encontramos la vivienda particular unifamiliar para la alta clase social, así como la vivienda popular multifamiliar del tipo que hoy conocemos como condominio horizontal, pero para personas de escasos recursos. De acuerdo con el contexto de la época, el arquitecto atendió la remodelación, modificación o adaptación de algunos edificios, con objeto del cambio de uso del suelo, la utilidad práctica de los espacios o, en su caso, procurar un aspecto moderno en una construcción antigua, de acuerdo a los nuevos estilos. Así como el italiano manejó lo medieval en las obras religiosas, para las civiles optó por las corrientes más modernas de su momento, como el art nouveau y el art déco. Incluso manejó el modernismo con influencia de las obras de Gaudí, como lo hizo en su casa particular ubicada en el Bosque Cuauhtémoc de Morelia, en la cual la fachada semeja un rostro con el vano de acceso simulando la boca, la nariz mediante un vano vertical con un balcón y dos ventanas circulares hacen las veces de los ojos (Ettinger, 2009: 220-221). Éste fue un ejemplo único en su estilo en la historia de la arquitectura moreliana (Servín, 2012:215230), desgraciadamente destruida hace siete años. Cabe hacer notar que el estilo neogótico -incluidas las variantes que presentó y que en muchos casos se manifestó en modalidades eclécticas-, llegó a México con notable diferencia en tiempo; no fue sino hasta finales del siglo XIX, cuando en el país se vio reflejada la influencia medieval en construcciones que denotan la libre interpretación del arquitecto y, además de enfocarse a los proyectos de los templos, incluso los protestantes, fue empleado con gran aceptación en los monumentos funerarios de las diversas ciudades del país. Sin duda, el neogótico fue preferido por la mayoría de los clérigos y de los fieles (Ruiz, 2004:272-274). Así, vemos la circulación de ideas entre el viejo y el nuevo continente, que se hizo posible gracias a la aceptación de los modelos europeos en las obras arquitectónicas mexicanas. Las obras que se realizaban, fuesen de nueva creación o solo remodelación, debían ajustarse a la legislación en la materia (Servín, 2008:114). Al igual que en la época medieval, el clero y la sociedad pretendían un ambiente propicio para la oración y el recogimiento. En los párrafos siguientes se presentan los ejemplos más notables de las obras de arquitectura religiosa de la autoría del personaje estudiado.

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La obra religiosa y sus características Como se advirtió en un principio, la amplitud de la obra realizada por Giombini en México, hizo necesario considerar en estos párrafos solo uno de sus rubros: la arquitectura religiosa, para la cual él tomó como inspiración los estilos medievales, con énfasis en la corriente neogótica, ya que ésta fue impulsada por las órdenes religiosas, como lo afirma Martín Checa-Artasu (2016), y cuenta con “una relación bien trabada… con la evolución de la Iglesia católica en el continente” (45). El arquitecto italiano tuvo estrechos lazos de unión con la congregación salesiana, para la cual construyó varios templos y capillas, precisamente de corte neogótico. A continuación se exponen sus principales obras. Templo de María Auxiliadora, en Morelia La primera obra religiosa del italiano en México, de la que tenemos noticia, fue el templo de María Auxiliadora en la ciudad de Morelia, ubicada en la calle Revolución en un predio anexo al colegio salesiano “Antonio de Mendoza”. Los archivos del propio templo indican que la construcción se inició en 1905 con proyecto de Adrián Giombini. Pero por otro lado afirman que la primera piedra fue colocada en 1897 (Tapia, 2013:114), por lo que seguramente la obra debió estar suspendida durante unos años; o bien, fue planeada y reiniciada cuando se solicitó la intervención del arquitecto. El proyecto fue realizado con planta de una sola nave ubicada en sentido sur a norte, con seis tramos, con coro a los pies en el primer punto y ábside semicircular en el segundo. El tramo que precede al presbiterio fue trazado ligeramente más angosto mediante líneas diagonales cerrándose un poco hacia el fondo, lo cual hace centrar la atención de los fieles en el espacio principal del recinto, es decir, en el altar (Fig.1). El presbiterio se eleva mediante tres escalones y un arco triunfal lo divide del cuerpo de la nave. La cubierta del templo es a dos aguas con seis tramos; el presbiterio cuenta con una bóveda de arista y el ábside presenta una media cúpula. Dos altares laterales en forma de grandes nichos con arco de medio punto preceden al presbiterio, a manera de absidiolos, cubiertos también por media cúpula. En cuanto a la ornamentación iniciaremos por el presbiterio, espacio en el que Giombini Montanari hizo gala del conocimiento de la arquitectura medieval de su tierra natal. La imagen titular corresponde a María Auxilio de los Cristianos, o María Auxiliadora, ubicada en el altar mayor. El frontal del ara presenta al centro la imagen del Cordero místico, y en la predela al tetramorfos, dos de los evangelistas a cada lado del sagrario; éste cuenta con un vano de medio punto flanqueado por un par de columnas a sus lados. Las imágenes fueron elaboradas en mosaico policromado sobre fondo oro, en teselas miniaturas de menos de dos centímetros por lado. El cordero, por ser un animal que la Biblia menciona destinado al sacrificio, se considera como anuncio del martirio de Jesús en la cruz. (Cabral, 2012, 96-97). Con frecuencia aparece en el pecho de la segunda persona de la Trinidad, o bien en el altar principal de un templo, como en este caso. El sagrario tiene un remate piramidal de estilo neogótico, con una cruz en su vértice superior; la virgen Auxiliadora corona el conjunto, flanqueada por dos ángeles.

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Fig.1. Nave del templo de María Auxiliadora, Morelia, Mich. Foto: Jorge Ojeda Dávila (JOD)

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Hay otro altar al frente, de sencilla factura, colocado después de las reformas emanadas del Concilio Vaticano II para las celebraciones del ministro de frente a los fieles. La bóveda de arista del presbiterio es dorada y está ricamente decorada con elementos vegetales, lacería y un medallón polícromo con la imagen de uno de los evangelistas en cada sección; lo cual duplica la representación que hay en el altar. En el ábside destaca la gran figura polícroma del Pantocrátor que luce en un fondo dorado. El oro, como metal incorruptible, alude a la vida eterna y su empleo nos remonta a las basílicas bizantinas, proporcionando un ambiente místico. La enorme imagen se ubica sobre una serie de once arcos ojivales que enmarcan alternadamente a cinco ángeles sosteniendo una filatelia, entre otros seis arcos con ramilletes de flores blancas. La leyenda impresa en la filatelia menciona: Sancta María, sucurre miseris, iuva pusillanimes, refove fleviles, ora pro populo, interveni pro clero, intercede pro devoto femíneo sexo, es decir: “Santa María, socorre a los miserables, ayuda a los pusilánimes, conforta a los que lloran, ora por tu pueblo, intervén por el clero, intercede por las devotas mujeres” (Tapia, 2013:133-134) (Fig.2). La parte inferior, hasta la altura de la imposta, está decorada con elementos vegetales, florales, y geométricos.

Fig.2. Ábside y bóveda del templo de María Auxiliadora, Morelia, Mich. Foto: JOD

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A lo largo del cuerpo de la nave se ubican diversas imágenes de santos de la familia salesiana, además de su patrona y protectora María Auxiliadora, así como las que impulsaba la Santa Sede. Se encuentran representados: san Juan Bosco, fundador de esta congregación enfocada al cuidado y la educación de la niñez y la juventud; san Francisco de Sales, santo patrono que inspiró la fundación, santo Domingo Savio y madre María Mazzarello, santos de amplia devoción salesiana, así como el Sagrado Corazón de Jesús, a quien se dedica el absidiolo del lado poniente (el del oriente se dedica a san Juan Bosco); también se encuentran el Señor de la Misericordia, la Santísima Trinidad y desde luego, la Virgen de Guadalupe. En el segundo cuerpo, al que separa una moldura, se abren cinco ventanas verticales, geminadas, de medio punto. En la cubierta están representados los doce apóstoles, seis en cada lado de la nave, cada uno de ellos inserto en un marco mixtilíneo rodeado de lacería y motivos vegetales. El coro cuenta con un barandal con siete elementos romboides, cinco al centro y dos a sus lados, dentro de cada uno de los cuales se inserta un cuadrifolio de hojas apuntadas. En la decoración del coro destacan los componentes florales enmarcados a los lados del rosetón que lo ilumina. En todo el interior no dejan de observarse los elementos ornamentales que utilizaría Giombini en el resto de sus obras religiosas: el cuadrifolio, la flor de lis, la rosa, la azucena, los listones y lacerías, las filatelias, el arco trilobulado, la estrella de ocho puntas, lo dorado y la línea mixta, entre otros. Los muros laterales y el mosaico del piso cuentan con abundante decoración geométrica: rombos, rectángulos, octágonos, y repite varios de los elementos mencionados, como la estrella de ocho puntos, entre otros. De todos estos elementos, el cuadrifolio es el más utilizado por el arquitecto; éste se entiende como la esquematización de una flor de cuatro pétalos. La fachada es de estilo ecléctico, ya que mezcla elementos góticos y románicos (Fig.3). Consta de dos cuerpos divididos por un friso decorado y un remate triangular a manera de frontón, con un relieve alusivo a la virgen Auxiliadora y san Juan Bosco. Presenta un vano de acceso de medio punto, y un relieve del escudo salesiano en el tímpano. En el segundo cuerpo se abre un rosetón que corresponde a la ventana coral. Dos pares de pilastras colosales rematadas en pináculos flanquean la fachada y coronando el espacio inter pilastras aparecen sendos gabletes. Este templo es un ejemplo único, en la historia de la arquitectura moreliana que se inserta en la corriente historicista o de los neo estilos. Nos recuerda la arquitectura medieval con un concepto ecléctico que incluye componentes románicos, góticos, bizantinos, e incluso árabes. Cabe aquí, hacer notar, la similitud de los elementos empleados por Giombini, con los de la vasta obra del arquitecto y religioso salesiano Ernesto Vespignani, en Argentina, en donde construyó numerosos centros educativos e iglesias en los que no imprimió un neogótico en el estricto sentido de la palabra, sino el estilo “medievalizante pero marcadamente ecléctico con rasgos del románico, de lo bizantino e incluso de lo islámico y con el uso excesivo de cúpulas, torres y amplios arcos abocinados en las portaladas.” (Checa-Artasu, 2016:50).

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Fig. 3. Fachada del templo de María Auxiliadora, Morelia, Mich. Foto: JOD

Capilla de El Prendimiento En 1913, en la esquina que forman las calles de Abasolo y Guerrero de la misma ciudad de Morelia, Adrián Giombini construyó un templo que sustituiría a una pequeña capilla de propiedad particular que databa de la época colonial, y se encontraba en peligro de venirse abajo a causa de su antigüedad, del abandono en el que estaba y de sus condiciones de deterioro (Torres, t. III, 1915:133, cit. en Servín, 2008:141). Incluso una parte del interior de la construcción ya se había desplomado y el Ayuntamiento de Morelia había ordenado su destrucción desde finales del siglo XIX (AHMM, LS 313, exp. 120, 1892). Al adquirirla mediante compra, el arzobispado de Morelia solicitó al arquitecto Giombini el proyecto para una capilla que la sustituyera, misma que fue iniciada el año de 1913, bajo la advocación de “El Prendimiento”. (AHMM, F. Ind. II, c. 23. l. 2, e.114, a.1913). Adrián Giombini proyectó el templo de una sola nave con cinco tramos, con ábside recto y ubicada de oriente a poniente con el acceso por el primer punto y el altar en el segundo. El cuerpo de la torre - campanario se encuentra al frente de la iglesia y constituye a la vez el acceso principal, haciendo las veces de nártex. Cuenta también con un pequeño atrio protegido por una reja metálica que se apoya sobre un muro. La cubierta consiste en una losa de concreto (Ramírez, 1981:202) que se apoya sobre pilastras adosadas que separan los cinco tramos de la

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nave. En el primer tramo se encuentra el coro, a media altura, elaborado totalmente de madera; los cuatro siguientes conforman el cuerpo central del recinto y el último está ocupado por el presbiterio. Del cuarto de ellos (lado norte) se desprende una capilla anexa dedicada a la Guadalupana. La iluminación del recinto es proporcionada por los tres vanos que se abren hacia la calle lateral, del lado sur, y dos más hacia el interior de la construcción al lado norte, todos de medio punto. La ornamentación interior es muy sencilla, sin embargo refleja los elementos que el arquitecto italiano manejó en sus obras. El altar es de corte neoclásico, así como el ciprés de columnas jónicas con estrías rebajadas, que aloja la imagen de Jesús del Prendimiento, a cuya advocación se dedica la capilla. Lo mismo sucede con la capilla dedicada a la virgen de Guadalupe, solo que en este caso el altar presenta columnas de fuste liso y capitel compuesto. La decoración de la nave consiste en medallones con motivos florales, listones y lazos, así como elementos vegetales, flores en colores blanco y amarillo formando ramos unidos entre sí, y franjas con motivos vegetales y florales alrededor de los tramos de los muros separados por pilastras y en los de la cubierta. La fachada es de corte neorrománico (Fig.4); es una imagen simplificada de la iglesia de san Zenón de Verona, en el norte de Italia. Su composición es interesante: como elemento principal luce la torre-campanario que sobresale del paramento y se eleva considerablemente al centro de los laterales que lo flanquean. Se forma aquí un juego con los elementos de la fachada, pues aunque tanto los laterales como el central cuentan con dos cuerpos, éstos tienen diferente altura, pero presentan los mismos motivos ornamentales. El principal –es decir, la torre- cuenta con el acceso principal consistente en un vano de medio punto; sus jambas lucen sendas columnas corintias, las cuáles sostienen un pórtico con una pequeña cubierta a dos aguas con una cruz en su vértice superior. Enseguida se observa el típico rosetón de las iglesias medievales, el cual hace las veces de ventana coral. Un friso corrido decorado con cuadrifolios insertos en círculos divide el cuerpo bajo del alto. Los tres cuerpos superiores lucen una ventana geminada sobre la cual, y bajo la cornisa, corre una serie de los arquillos ciegos característicos de la arquitectura románica y remata el conjunto una cruz metálica sobre una sencilla base. Los accesos laterales consisten en un vano de medio punto que da ingreso a dos espacios que se diseñaron con fines utilitarios: el del lado sur aloja a la escalera y el opuesto funge como bodega del templo. En esta obra, Giombini Montanari conjuga elementos que no emplea en otras obras de índole religioso, como la loza de concreto, y los motivos neoclásicos. El diseño de la portada refleja la influencia de la arquitectura del norte de Italia, región de la que eran originarios sus antecesores. La decoración interior, aunque mucho más sencilla que la vista en los párrafos precedentes, corresponde a la aplicada por él en la mayoría de sus construcciones. También debe tomarse en cuenta que por la misma fecha y al parecer para el mismo sitio, Giombini elaboró dos proyectos más. Uno cuenta con la misma dirección que El Prendimiento, y es de marcado estilo neogótico (AHMM, F. Indep. II, c.23, l.2, e.93, a.1913); podría decirse que fue éste de su particular predilección.

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Fig.4. Fachada del templo de El Prendimiento, Morelia, Mich. Foto: JOD

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El otro proyecto no cuenta con la ubicación urbana, pero por el diseño de la planta corresponde a las mismas dimensiones del aquí descrito. Este caso se refiere a una original capilla dedicada a san Antonio; cuenta con nártex, varias bóvedas de casquete y arcos de medio punto, dando cierta apariencia neo oriental (AAGC, s/f). Esta variedad nos sugiere considerar la posibilidad de que el solicitante no quedó conforme con la primera versión, o que los dos primeros se cotizaron con un costo más alto. En cualquier caso, el proyecto que realizó para la capilla de san Antonio, no lo había manejado con anterioridad y denota una más de las variantes estilísticas que dominó. Parroquia – Santuario de María Auxiliadora, en la Ciudad de México Sin duda alguna, la obra de arquitectura religiosa más importante de la autoría de Giombini en México es el Santuario Parroquial de María Auxiliadora en la capital del país. Vale la pena citar la opinión de Luis Ortiz Macedo (2004), quien considera esta obra como “el más decoroso ejemplo de la arquitectura neogótica de origen italiano en la ciudad de México, tanto en el exterior como en el interior y sus vitrales son dignos, así como las nervaduras de sus techumbres y los arcos apuntados de su estructura.” (297). El templo se ubica en la calle Colegio Salesiano número 59 de la colonia Anáhuac. Fue iniciado en los primeros años del siglo XX, pero la Revolución Mexicana dificultó el avance de las obras, por lo que su conclusión no pudo darse sino hasta 1940. Se trata de un templo de amplias dimensiones, al que se accede mediante una monumental escalinata, flanqueada por sendas imágenes del arcángel san Miguel, elaboradas en bronce. Es de planta basilical con ábside semicircular y coro a los pies. Destaca el área del presbiterio, elevado del nivel del piso mediante siete gradas. En su centro luce un impactante ciprés pétreo estructurado en dos cuerpos con un remate, ornamentado por numerosos pináculos (Fig.5). El primer cuerpo aloja a la imagen titular, María Auxiliadora, y el segundo a Cristo resucitado. Tanto la nave como el ábside están cubiertos por bóveda de crucería, ojival. El ábside está dividido en cinco secciones, a cada una corresponde un vano ojival sobre el cual luce un rosetón. Éstos, al igual que el resto de los vanos y rosetones con los que cuenta el templo a lo largo de su nave, tienen vidrieras ricamente policromadas. Los del ábside corresponden a cinco secciones, cuatro de ellos presentan a los doce apóstoles (tres en cada vidriera) y el central presenta al Espíritu Santo, así como formas geométricas y vegetales. En los laterales de las naves se ubican una serie de capillas enmarcadas por el mismo tipo de arco, dedicadas a diferentes advocaciones, cada una tiene tres vitrales más. En estos altares se encuentran las imágenes de la S. Trinidad, el Sagrado Corazón de Jesús, san Juan Bosco, M. María Mazarello, santo Domingo Savio, san Judas, san José y san Charbel, entre otras advocaciones En un segundo cuerpo, señalado por una cornisa de la que se desprende una serie de arquillos ciegos que corren alrededor de todo el recinto, se presenta una serie de vanos ojivales, cada uno con tres secciones y un rosetón sobre cada uno de ellos.

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Fig.5. Nave del Santuario – Parroquia de María Auxiliadora, Ciudad de México (CDMX). Foto: Carmen Alicia Dávila (CAD).

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En general, la decoración del interior se enriquece con los elementos ornamentales utilizados por Giombini en otras construcciones, tales como cuadrifolios, azucenas, flores de lis, elementos vegetales, arquillos ciegos, lacerías y listones, arcos trilobulados, y también arcos de herradura ojivales. Como en la edad media, las escenas que representan las vidrieras ilustran a los fieles sobre temas relacionados con pasajes del evangelio. Se incluyen los santos de la familia salesiana, así como las devociones impulsadas por el Vaticano a finales del siglo XIX y principios del XX. Podemos decir que en esa época no había ni templo ni casa cristiana que careciera de dichas imágenes, muchas de las cuales siguen luciendo en el lugar que fueron colocadas desde entonces. La fachada del templo consta de tres portadas correspondientes a la principal y dos laterales separadas entre sí por una calle conformada por sendos pares de pilastras góticas colosales que se elevan sobrepasando la cornisa superior del edificio hasta la altura del remate; entre éstas y el acceso principal hay un nicho vertical (vacío) con arco trilobulado y enmarcado por una ojiva (Fig.6). Los accesos cuentan con una archivolta integrada por tres arcos ojivales superpuestos y moldurados. En cada uno de sus tímpanos hay una imagen de busto: en la central don Bosco, en la izquierda la religiosa María Mazzarello y en la derecha el jovencito Domingo Savio. Una cornisa los separa del segundo cuerpo mediante un friso decorado con una serie de cuadrifolios enmarcados en círculos y una cornisa dentada; la de la calle central, que es más ancha, tiene una altura más elevada que las laterales, señalando su importancia. Sobre cada puerta se abre una ventana con doble arco apuntado y parteluz, enmarcada en una gran ojiva. La cantidad de vanos señalados significa que el templo recibe iluminación por sus cuatro lados mediante los múltiples vitrales polícromos que lo rodean, pero su rico colorido modera adecuadamente la intensidad de la luz. La fachada se cierra con un arco mixtilíneo rematado por una arquería ojival ascendente de cuyo vértice se desprende un dosel que cubre a la imagen titular del santuario - parroquia: la virgen María Auxiliadora. Las pilastras que dividen las tres calles se ornamentan con hojas de acanto; delgadas columnillas de tipo entorchado, acanaladas, o con incrustaciones de mosaico en oro y azul; o bien con franjas helicoidales decoradas con flores y otros elementos vegetales. Por último, a cada costado de la fachada principal se eleva una torre campanario de tipo neogótico, ricamente ornamentada, complementando así la uniformidad estilística del conjunto. Efectivamente este templo es un magnífico exponente de la ideología de la sociedad conservadora de la época; el estilo en el que se inserta corresponde fielmente al neogótico, cuidando todos los detalles de sus características, contribuyendo al impulso de las devociones impulsadas por el Vaticano y ajustándose a los objetivos de la congregación que lo solicitó. Se ubica anexo al Colegio Salesiano en donde Giombini también realizó un oratorio para esta comunidad.

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Fig.6. Fachada del Santuario – Parroquia de María Auxiliadora (detalle), CDMX. Foto: CAD.

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Santuario de Guadalupe, Canalejas, Jilotepec, Estado de México Giombini Montanari no solo construyó en grandes ciudades, también realizó obras en pequeñas poblaciones, como es el caso de Canalejas, una villa del municipio de Jilotepec en el Estado de México. Destaca en ese lugar un cerro llamado el Xindeni, en donde se encontraba un antiguo adoratorio prehispánico. Se trata de un sitio de naturales otomíes dominados en aquella época por los toltecas, quienes nombraron a esa zona Xilotépetl, de donde deriva el nombre de Jilotepec, dentro de cuyos límites se concedió la merced de “Las Canalejas” al indio Pedro Fernández a principios de la época colonial (Noguez, 2006:15-17,115). Cuenta la tradición del pueblo de Canalejas que en 1868, el jornalero Juan Nolasco encontró una piedra con la imagen de la virgen de Guadalupe, grabada. Ya al finalizar el siglo XIX, el 15 de diciembre de 1897, a iniciativa del párroco Cesáreo de Jesús Mondragón se colocó la primera piedra del hoy santuario de la virgen de Guadalupe, o virgen de la Piedrita (Fig.7), en la cúspide del cerro Xindeni, lugar en donde se había ubicado el adoratorio prehispánico, de la misma manera que los españoles habían fundado la catedral sobre el templo mexica de Tenochtitlan. Los planos para la construcción fueron elaborados por un ingeniero veracruzano apellidado Arriaga y aprobados por el canónigo D. Basilio Soto, originario del mismo lugar y párroco de Jilotepec, quien colocó la primera piedra (Noguez, 2006:61). Justamente de material pétreo se construyó todo el templo, haciendo una combinación de colores rosa y negro azulado.

Fig.7. Nave del templo–Santuario de la Virgen de la Piedrita (Virgen de Guadalupe), Canalejas, municipio de Jilotepec, Estado de México. Foto: JOD

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La construcción del templo duró 84 años, pues se dio por concluido en 1981 y fue elevado al rango de santuario diocesano el 12 de diciembre de 2013. De acuerdo a las fechas de inicio y terminación, éste comenzó antes de que el arquitecto italiano llegara a México y concluyó más de 10 años después de su fallecimiento. No obstante, se puede considerar que su participación fue muy amplia, como se observa por las características que tiene la construcción. Por la hija del arquitecto Giombini sabemos que periódicamente él acudía a esa población, a donde ella siempre lo acompañaba. Salían de México a Jilotepec y de ahí a Canalejas, haciendo parte del viaje desde la capital en tren, para seguir en auto y por último, su padre continuaba en caballo a la cima del cerro para supervisar la obra. Entre una y otra visita iban los canteros a la Ciudad de México para consultarle sobre las dudas que tenían en los trabajos y él les elaboraba en arcilla los modelos para el corte de la piedra (N. Giombini, comunicación personal, 21 de julio de 2014,). En el camino del cerro que sube al santuario, se encuentran las esculturas de los clérigos que fundaron e impulsaron la construcción, y las de los principales canteros que aportaron su trabajo. En el pedestal que sostiene la escultura de la efigie de Jerónimo Noguez se lee: JERONIMO NOGUEZ P. INCANSABLE CANTERO QUE AYUDO AL ING. ADRIAN YUNVINE (sic) A TRASAR (sic) LAS PLANTILLAS PARA LAS MOLDURAS DE LAS TORRES, RETABLO, ALTAR Y PILA BAUTIZMAL (sic). NACIO 30-09-1902. FALLECIO 10-12-1992.

Resulta admirable que este templo haya sido construido completamente de piedra, sin haber contado con ese material en el sitio. De acuerdo con las descripciones de los lugareños, los bloques pétreos y el agua fueron llevados hasta arriba “a lomo de burro, de cristiano o arrastrándola con yuntas de bueyes la primera, y en cántaros de barro la segunda”. Fue costeado por los feligreses del pueblo de Canalejas y lugares circunvecinos, en particular por las familias pudientes de Jilotepec, principalmente con el apoyo de dos presbíteros, Cesáreo de Jesús Mondragón y Felipe de Jesús Maldonado (Noguez, 2006:61-62). Una familia de canteros que por generaciones se ha hecho cargo de la construcción y el cuidado del templo, es la familia Noguez. Entre las esculturas que manifiestan la gratitud a los participantes, está la del señor Santiago, en cuyo pedestal se escribió: “Santiago Noguez C., nació (espacio en blanco)/ murió el 11-121947/ Pionero nativo de Canalejas/ Aprendió y enseñó a sus hijos/ Lázaro, Emiliano/, Simeón y Jerónimo Noguez P/ a labrar la cantera/ dedicándose por completo a la obra del santuario.” Eran ellos quienes acudían a la ciudad de México a recibir las indicaciones del arquitecto italiano para proseguir la obra, como lo afirma su hija Norgelina. El templo cuenta con planta de cruz latina, y se ubica en sentido oriente-

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poniente, con el altar en el primer punto y el acceso al recinto en el segundo, entrando por el bajo coro. Tiene una sola nave cubierta por bóveda de crucería con arcos fajones, todos ellos de tipo ojival. El primer tramo corresponde al sotocoro (también de piedra) dividido del resto de la nave por tres grandes arcos; los dos siguientes forman el cuerpo de la nave; enseguida se encuentra el transepto y al fondo el presbiterio y el ábside, que es recto. El crucero de ambas naves está cubierto por una cúpula sobre tambor octagonal con vanos apuntados en cada uno de sus lados, decorados con vitrales polícromos; la remata una linterna con iguales características y la corona una cruz metálica. En general, el templo da la impresión de austeridad, aunque encontramos los elementos manejados por Giombini Montanari en otras de sus obras. La virgen de Guadalupe, o virgen de la Piedrita, imagen titular de la advocación del santuario, se ubica en el altar mayor, y éste reúne las características propias del neogótico. En su centro luce también un lienzo de la Guadalupana, a la que flanquean las esculturas del Sagrado Corazón y San José. El presbiterio conserva su comulgatorio de piedra, cuyo barandal se ornamenta con elementos romboides, dentro de los cuales se insertan los cuadrifolios de hojas apuntadas, el mismo modelo que los de la baranda del coro en el templo de Morelia. Igual diseño presentan el púlpito y su escalera en este santuario guadalupano. El recinto cuenta con abundante iluminación; por un lado la de la cúpula y por otro la que proporcionan los vitrales laterales de la nave: cuatro a cada lado –dos por tramo, más otros dos en cada brazo de la nave transversal y, además, sobre cada par de éstos, se abre un vano circular en el espacio que forman los arcos apuntados al cerrar el tramo. Los doce vitrales laterales de la nave representan a los apóstoles, mientras que los de la cúpula se refieren a los sacramentos. La fachada principal consta de tres portadas, la principal y dos laterales (Fig.8). En la central se abre el vano de acceso enmarcado por un pórtico con archivolta conformada por columnas y dos arcos más, superpuestos, forman una especie de pórtico al estilo medieval. La flanquean sendos cuerpos laterales que sobresalen unos cuantos centímetros del paramento central y sirven de base a las torres del campanario, son octogonales, tienen un remate piramidal y una cruz. Como elementos decorativos, éstos presentan una gran moldura ojival sobre la pequeña puerta de acceso, una arquería ciega, y dos cuadrifolios en cada lado. Una cornisa les separa del elemento superior que remata la fachada, sobre la cual se apoya una gran ojiva formando un tímpano; en éste se abren una serie ascendente de pequeños vanos cuadrifoliados: tres en la base, dos en el medio y uno en la parte superior, los cuáles proporcionan iluminación al coro. Remata el conjunto una cornisa moldurada que corre a lo ancho del paramento, elevándose al centro para formar un remate piramidal, enriquecido con acróteras. Los elementos que conforman este santuario y sus ornamentos, corresponden al estilo neogótico característico de Adrián Giombini. En el largo proceso de construcción del templo de la Virgen de la Piedrita se refleja la devoción de la población y el esfuerzo material y humano para contar con un recinto digno para la Guadalupana impresa en “la piedrita”, que se ubica en el altar mayor de este santuario mexiquense.

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Fig.8. Fachada del Santuario de la Virgen de la Piedrita (Virgen de Guadalupe), Canalejas, municipio de Jilotepec, Estado de México. Foto: JOD.

Templo del Señor de Esquipulitas, en Moroleón, Guanajuato (hoy parroquia de San Juan Bautista). Una más de las obras religiosas en las que participó el arquitecto italiano que nos ocupa es el templo que se ubica en la población guanajuatense de Moroleón, a unos 20 minutos de la ciudad de Morelia. Sus antecedentes se remontan al año de 1775, fecha en que se edificó una pequeña capilla de 9 x 4 m., en el lugar en que actualmente se alza la torre. Esta construcción fue sustituida por otra, con motivo de la fundación de la Vicaría de la Congregación del Señor de Esquipulitas, la cual tuvo lugar el año de 1841, bajo la titularidad del P. fray Francisco Quintana, quien se hizo cargo de dirigir la obra material (APSJB, doc. s/f). La planta del templo es de cruz latina, con ábside recto y coro a los pies. El ábside se eleva del piso con tres gradas, y al fondo se ubica el retablo de características neogóticas, hecho de piedra con elementos sobredorados. El coro está sostenido por tres arcos trilobulados que se apoyan en columnas corintias con base en amplios pedestales, lo que da lugar al sotocoro. La nave se cubre con bóvedas de lunetos y cuenta con una cúpula sobre el transepto; se ilumina, además, con vanos ojivales que se

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abren en la parte superior de los muros laterales. Los altares que se ubican en las naves del transepto están dedicados al Sagrado Corazón de Jesús, y a la virgen Guadalupana; se venera además al Señor de la Misericordia, la Inmaculada Concepción, a san Judas Tadeo y a los santos de la familia agustina. Como podemos ver, las devociones generales de la época se adoptaron en todos los casos y a éstas se agregaron las del particular interés de cada orden, congregación, o lugar. El diseño no cuenta con todas las características del resto de los modelos de Adrián Giombini conocidos, aunque si aparecen algunos de ellos. Consta, sin duda, que el diseño de la cúpula del transepto es de la autoría de Giombini Montanari; el proyecto se localiza en el archivo personal del arquitecto, que está en poder de su nieto (Fig.9) y corresponde absolutamente a dicha cubierta tanto en lo estructural como en su ornamentación (AAGC, s/f).

Fig.9. Proyecto para la cúpula del templo del Señor de Esquipulitas, Moroleón, Guanajuato.

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La decoración de los muros también responde a la que maneja en varias de sus obras, solo que con un colorido menos rico, en el que predomina el azul. El piso es de mosaico decorado con estrellas de ocho puntas, y se identifica con ese elemento que comúnmente manejó el italiano en sus construcciones. La fachada presenta una torre campanario al frente, como en la capilla de El Prendimiento, pero según la información de archivo fue construida entre 1898 y 1904, por lo que no consideramos que haya tenido participación el arquitecto italiano. La información impresa que conserva la parroquia fue obtenida de las siguientes fuentes: del señor Alfonso Ortiz Ortiz, en 1993; fray Nicolás Navarrete, apodado “constructor de templos de piedras y almas” y el “Inventario Turístico del Estado de Guanajuato”, elaborado por la Secretaría de Turismo en el año 2001. El documento menciona que el templo cuenta con una extensión de 1,140 m2., y que “Los planos definitivos de la cúpula los realizó el arquitecto italiano Gian Pietro Jombini por encargo del R. P. Fray Miguel F. Zavala… [además, que] … La obra estuvo, en su primera etapa, a cargo del Alarife José Refugio Serrato”. La última etapa del templo inició en 1909 y concluyó en 1912, años que corresponden a la presencia de Giombini en la ciudad de Morelia. Fue consagrado y dedicado a la advocación que se le dio, el Señor de Esquipulitas, por el señor obispo don Leopoldo Flores, en enero de 1913, y actualmente constituye una parroquia con advocación de San Juan Bautista (APSJB, docs. s/f). Templo salesiano de María Auxiliadora, en Guadalajara Para la capital del estado de Jalisco, la congregación salesiana le solicitó al arquitecto Adrián Giombini otro proyecto, con el fin de levantar un templo a su patrona, la virgen María Auxiliadora. El diseño se conserva en el mismo archivo de su nieto, y cuenta con todas las características de su preferencia para las obras religiosas. Es una monumental fachada de estilo gótico, de sentido ascensional, con tres naves, flanqueadas por esbeltas torres que se elevan con dos cuerpos sobre las portadas laterales y rematan en pináculos (Fig.10). Es un diseño elegante, con amplios vitrales y carente de rosetón. El remate central es de tipo piramidal con una balaustrada ascendente decorada a base de cuadrifolios y rematada en su cúspide con un esbelto dosel que da cobijo a la imagen titular (AAGC, s/f). Lamentablemente este proyecto no pudo llevarse a cabo a causa de la guerra cristera. Probablemente, de haberse realizado, hubiese sido de la magnitud del santuario - parroquia de María Auxiliadora de la ciudad de México. Se considera también, como de la posible autoría de Giombini, el templo de La Visitación, otra de las congregaciones que llegaron a Morelia con fines educativos, iniciando el siglo XX, pero que en pocos años salió a España a causa del inicio del movimiento revolucionario. No ha sido posible, a la fecha, obtener testimonios que lo documenten ya que los archivos fueron extraviados durante la salida de las religiosas.

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Fig.10. Proyecto para el templo de María Auxiliadora, Guadalajara, Jal. Archivo particular Adrián Giombini Cendejas.

Consideraciones generales sobre la obra En las nueve obras que han sido descritas, Giombini Montanari maneja una rica variedad de elementos que las identifican. Tenemos por ejemplo las plantas de los templos: en todos los casos son de una sola nave, con la orientación tradicional que sigue la ruta del astro solar. En este aspecto se distingue únicamente el templo de María Auxiliadora de Morelia, ubicado en sentido norte sur. De cruz latina son el santuario de la virgen de la Piedrita de Canalejas y el templo del Señor de Esquipulitas de Moroleón, ambos iniciados a finales del siglo XIX; éstos constituyen una excepción en cuanto al tipo de planta proyectado por el italiano, pero no le correspondió a él su autoría; su participación inició cuando las obras ya estaban en proceso. Giombini ajustó sus proyectos a las corrientes medievales. La ubicación de la nave va en el sentido oriente poniente, como se hacía desde la época románica, “hacia el sol

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naciente (…), el lugar bendecido de donde ha de venir, al final de los tiempos, el sol de la justicia (sol justitiae) para juzgar a los hombres”. Aunque debemos considerar que esta costumbre no fue exclusiva de los cristianos, otras culturas como los egipcios y los persas así lo acostumbraron (Davy, 2007:171); los pueblos mesoamericanos también lo consideraron y en la Nueva España casi todos los templos cuentan con esta orientación desde el siglo XVI: Giombini se ajustó a esta tradición. En el caso de la ciudad de Morelia, de los templos coloniales solamente la catedral, el templo conventual de monjas indígenas capuchinas y la capilla de indios del barrio de Santiaguito, cuentan con ubicación de norte a sur, o de sur a norte. La influencia medieval de los neoestilos para el caso de la edad media y/o el neobizantino en particular, se observa de manera particular en el templo de María Auxiliadora de Morelia, con el Pantocrátor, la imagen de Cristo representado en majestad, bendiciendo con su diestra y sosteniendo un libro abierto en la mano izquierda. La inscripción que se observa dice: Ego sum via veritas et vita, es decir, “Yo soy camino de verdad y vida”, revelando la palabra divina. El fondo dorado significa la eternidad y el uso de mosaicos nos remite al cristianismo primitivo, su empleo impulsa la idea del Vaticano, de fortalecer el cuerpo de la iglesia ante los ataques en su contra. Las flores blancas, el jazmín, la azucena, y el lirio, utilizadas por el arquitecto italiano en sus obras como elementos ornamentales, significan la pureza de alma y de cuerpo, de ahí que generalmente se colocan como atributos a María y a las santas vírgenes, o en ramilletes en los muros y las cubiertas de los edificios religiosos. Al ser un templo dedicado a la virgen Auxiliadora, se entiende que las flores blancas expresan la virginidad de la Madre de Dios y se comprende la intención de su presencia; Giombini pudo emplearla con objeto de dar realce al recinto en donde se aloja la imagen de María. La flor de lis, además del significado se su blancura, es una flor que denota elegancia, ya que implica la realeza de la persona que lo lleva como atributo (Cabral, 2012, 113). Queda pendiente la confirmación de la obra atribuida al arquitecto Giombini, que no ha podido ser fundamentada; además del templo de la visitación, los cordobanes y la decoración interior de la catedral de Morelia, así como otras obras de carácter civil que presentan características que permiten considerarlo.

Conclusiones La presencia de Adrián Giombini en México obedeció a la política porfirista mediante la cual se invitó a numerosos artistas, arquitectos, empresarios e inversionistas, en afán de fortalecer y modernizar al país. Su formación respondió a múltiples factores que repercutieron favorablemente en su obra. Primeramente la influencia de la cuna de la civilización occidental, su cuna, tanto por las culturas clásicas como las medievales y los revivals, que le permitieron conocer las más altas expresiones artísticas, las cuáles aplicó tanto en la práctica de su profesión como en la

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transmisión de su conocimiento a los nuevos cuadros, enriquecido con el legado de su actividad editorial. El estudio de los tratadistas clásicos y el análisis de sus obras, hicieron posible que acá desarrollara de manera exitosa su obra arquitectónica con amplia variedad de opciones, pues como hombre de su momento, conoció también las modernas corrientes de la época. No obstante, para el caso de la arquitectura sacra recurrió a los estilos más representativos de la religiosidad, como lo son los de la edad media, el románico y el gótico, con toda su carga significativa. De tal manera, Adrián Giombini contribuyó a impulsar el flujo de ideas, patrones y modelos del viejo continente a este país y de manera especial a la ciudad de Morelia, en donde realizó la mayor parte de su obra. Como hombre católico, según se deduce por su formación, por la cantidad de obra que realizó para el clero y por su cercanía con las altas dignidades del Vaticano, su intención no podía ir en contra de la iglesia, especialmente en momentos tan difíciles. Así lo demostró al poner en riesgo su vida durante la guerra cristera. La labor realizada por Giombini en las diversas áreas de la construcción, contribuyó de una manera especial con proyectos originales y escasos en su tipo, los cuales forman parte de la historia del arte y de la arquitectura regional y nacional; constituyen un eslabón en la cadena de las corrientes artísticas que forman la historia del arte y de la arquitectura mexicana, en las que se refleja la transmisión de ideas, modelos y programas arquitectónicos de la primera mitad del siglo XX, entre el viejo y el nuevo continente. Giombini formó parte de los extranjeros que formados en su país de origen, desarrollaron, y reflejaron en México “un estilo del pasado medieval europeo” (ChecaArtasu y Niglio, 2016:14). Queda por abordar la obra civil del arquitecto italiano, tanto la pública como la privada, además de su participación en obra de ingeniería, y sus trabajos de escultura y de pintura. Así mismo, será de interés un análisis de sus publicaciones, temas que por su amplitud y la falta de espacio, no fue posible abarcar. No debemos dejar pasar el reconocimiento que en vida recibió el arquitecto Adrián Giombini Montanari. Los alumnos que recibieron sus enseñanzas lo han valorado como un excelente profesor, que dominaba su materia, aportativo y exigente. Por lo mismo, en 1996 fue objeto de un homenaje post mortem organizado por 19 generaciones (1937-1955) de ingenieros egresados de la Escuela de Ingeniería de la UNAM. En esa ocasión se refirieron a él con las siguientes palabras: Podemos afirmar que el Maestro Adrián Giombini fue en su época un verdadero símbolo de nuestra querida Escuela Nacional de Ingenieros [...]. En su larga vida tuvo muchas satisfacciones, pero sobre todo ganó el cariño y el respeto de todos los que le conocimos, en especial por su acentuada sencillez y trato afable y cordial. [...] Fue el pionero en su asignatura legando su sabiduría tanto a través de sus libros como en la impartición de su cátedra [...] su fama como maestro exigente, cumplido y eficaz llegaba mucho más allá de las aulas de Ingeniería. Entre los años 30 y los 50, los alumnos que pretendíamos ingresar a ingeniería sabíamos, antes de lograrlo, que deberíamos pasar por el tamiz del excelente y exigente Maestro Giombini (AAGC, impreso de Homenaje póstumo a AGM, 1996, s/f).

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Agradecimientos Al Lic. Adrián Giombini Cendejas, nieto del Arq. Adrián Giombini M., el apoyo brindado con importante y novedosa información para la elaboración de este texto. A la señora Norgelina Giombini Guzmán (+), hija del Arq. Adrián Giombini M., los invaluables testimonios que me compartió sobre su padre y su obra. A Don Carlos Felipe de Habsburgo Lorena, quien tuvo a bien ponernos en contacto. A Martín Checa-Artasu y Olimpia Niglio, coordinadores de este libro, su amable invitación, su paciencia y su esfuerzo para sacarlo a la luz. A Magali Zavala García, su apoyo en el Archivo Histórico Municipal de Morelia. A la Centenaria Universidad Michoacana de San Nicolás de Hidalgo, institución a la que me honro en pertenecer, por el apoyo de siempre.

Fuentes y bibliografía Archivos Archivo Adrián Giombibi Cendejas (AAGC), Ciudad de México. Documentos s/f. Archivo Histórico Municipal de Morelia (AHMM), Libro de Secretaría 313, exp. 120, año 1892. AHMM, fondo Independiente II, caja 23, legajo 2, expediente 93, año 1913. AHMM, fondo Independiente II, caja 23, legajo 2, expediente 114, año 1913. Archivo de la Secretaría de Desarrollo Social (ASDS), exp./223(723.5)/27, fs. 1, 17, 18, 22-25, 53, 65, 83, 90. Archivo Parroquial de San Juan Bautista, Moroleón, Guanajuato (APSJB). Documentos impresos sobre su historia, s/f. Archivo UNAM, Departamento de Personal, expediente 20/133/2028, Adrián Giombini Montanari. Bibliohemerográficas y tesis Cabral Pérez, Ignacio. (1995). Los símbolos cristianos. México: Trillas. Canelli, Ricardo. (2012). “El reforzamiento de la Iglesia en el último periodo de Porfirio Díaz (1904-1910)”. En Nación católica y Estado laico, El conflicto político religioso en México desde la Independencia hasta la Revolución (1821-1914)(151-205). México: INEHRM/ Secretaría de Educación Pública. Cervantes Sánchez, Enrique. (2001). "Desarrollo urbano”. En Desarrollo urbano de Valladolid-Morelia. 1541-2001 (15-119). Morelia: UMSNH. Checa-Artasu, Martín. (2016). “Las órdenes religiosas como promotoras de la Arquitectura Neogótica en América Latina. Algunos ejemplos”. En El Neogótico en la Arquitectura Americana, historia, restauración, reinterpretaciones y reflexiones (45-56). Roma: Ermes Edizioni Scientifiche. Checa-Artasu, Martín M. y Olimpia Niglio. (2016). “Por qué un libro sobre el estilo Neogótico en la Arquitectura Americana?. En El Neogótico en la Arquitectura Americana, historia, restauración, reinterpretaciones y reflexiones (13-24). Roma: Ermes Edizioni Scientifiche.

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PEDRO GUALDI EN MÉXICO Y EL PAPEL DE LOS ITALIANOS EN EL ÁMBITO CULTURAL DE LA PRIMERA MITAD DEL SIGLO XIX. 1836-1851

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The article recounts the life of Pedro Gualdi (1808-1857), an Italian artist who arrived in Mexico with an opera company in February 1836. The intention of the text is to highlight, in the first place, the role played by this painter in Mexico, with works such as the lithographic album Monumentos de México that made known, the architectural wealth of the capital. Similarly, the case of Gualdi serves as an example to understand the type of Italian migration that took place in the first half of the nineteenth century: basically artists. Finally, it is sought to include new data to the biography of the character, which were not included in previous works, such as the exact date of his arrival in Mexico and the discovery of the existence of children, until now unregistered, such as Arturo Gualdi Villalobos.

La ópera y la migración italiana en México en la primera mitad del siglo XIX El sábado 16 de enero de 1836, el periódico Diario del gobierno de la república mexicana, anunciaba en su sección de entradas que el día 4 de ese mes había fondeado en el puerto de Veracruz el bergantín francés Minerva procedente de Burdeos Francia1. Parecería poco relevante tal nota si no consideramos que para esta investigación consignaba datos importantes como el nombre del capitán que se apellidaba Lescaret, el número de la tripulación los cuales eran catorce, los días del trayecto de navegación que habían sido cincuenta y cuatro (lo que nos hace calcular que salió del puerto mediterráneo el 11 de noviembre de 1835) y el nombre completo de todos los pasajeros, la mayoría franceses o italianos, muchos de ellos comerciantes o con oficios como carpinteros, zapateros y sastres.

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Diario del Gobierno de la República Mexicana, sábado 16 de enero de 1836, p. 37. 139

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Dentro de esta lista es importante resaltar que se incluyó también a los integrantes de una compañía de ópera que venían a dar una serie de conciertos en el Teatro Principal de la ciudad de México, casi todos italianos y que ahora sabemos eran: Luigi Leonardi Sra. Amalia Pasi Sra. María Majochi con su hija Sra. Marieta Albini con una niña (no se dice si es su hija) Giusseppe Strazza, con su esposa Eugenio Santi y Giovanni Bellani (todos cantantes italianos) Además, venía también Giusseppe Foresti, sastre con su esposa y agregado a la compañía de canto, lo mismo que Pietro Gualdi, (italiano) pintor, también con la categoría de agregado a la compañía y el personaje principal en este texto. Al final se incluía a Lauro Rossi, en calidad de músico de la compañía y que era en realidad el director de la orquesta. En el mismo barco venía también Joaquín Patiño (español) administrador del teatro2 quien se había encargado de contratar a todo el grupo en Europa. A este grupo operístico, se sumarán otros cantantes italianos que ya se encontraban en la ciudad de México y que habían participado en una compañía anterior: la de Filippo Galli desde 1831, año que llegaron y permanecieron con su espectáculo hasta 1835. Los periódicos de la época de hecho llaman a esta integración como “una reforma de la compañía de ópera” que buscó mejorar la ya existente. Entre los anteriores cantantes podemos mencionar a: Sr. Joaquín Mussatti, Sres. Luigi Sirletti, Andrés Sissa y Antonio Finaglia Sras. Catarina Amati y Elena Baduera3 Sr. Luigi Spontini, que fungía de bufo También se encontraba el antiguo primer tenor Filippo Galli entonces de 53 años, pues había nacido en 1783 y era el veterano de este grupo. Otros cantantes que ocuparon un papel destacado en esta empresa fueron la Sra. Adela Cesari, la cual no estoy seguro si ya se encontraba en México, o llegó con la compañía de 1836, pues no se les incluyó en la lista, pero tampoco la encuentro registrada en la compañía anterior. (De Olavarría, 1895) En cualquiera de los casos la situación refleja dos aspectos de la inmigración italiana de estos años: el primero que, a diferencia de otros migrantes europeos, como los ingleses y alemanes, dedicados a la inversión o la minería o los franceses al comercio, los negocios y diversas artesanías,4 en el caso de los italianos Ibidem. Los nombres completos de estos artistas pudieron encontrarse gracias al folleto de una obra operística: El Conde Ory, melodrama jocoso en dos actos, para representarse en el teatro nacional. 4 Para el caso de migración de los artesanos y artistas franceses véase (Gali, 2009). 2 3

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eran muy pocos los que en estas fechas se animaban a emigrar y se concentran en actividades artísticas como la ópera, las artes pláticas (la pintura y la litografía) y la enseñanza de la música. Una constante que vamos a encontrar en la primera mitad del siglo XIX. El segundo aspecto se relaciona con el hecho de que muchos de estos italianos deciden quedarse en el país seguramente por las posibilidades que ofrecen sus actividades artísticas que es difícil las disputen otros extranjeros. El destino de Pedro Gualdi y la compañía demuestran nuestra aseveración, por ello hacemos un breve repaso de sus historias paralelas. La compañía de ópera empezó sus funciones el 1º de febrero de 1836 con el estreno de la obra La Sonámbula de Bellini a la cual siguieron otras como, La Norma, Guillermo Tell, Los Capuletos, La Italiana en Argel, La casa deshabitada, Moisés en Egipto, La Straniera, La urraca ladrona, El pirata entre otras obras de autores famosos como Donizetti y Rossini todas con enorme éxito lo que causó un gran impacto social, pues a más del furor musical que levantó el bel canto se originaron entre el público divisiones y partidos a favor o en contra de los principales cantantes (Fig.1).

Fig.1. Pedro Gualdi, Interior del Teatro Santa Anna, ca. 1844, óleo sobre tela. Fuente: catálogo de exposición El escenario urbano de Pedro Gualdi, 1808-1867, México, Munal, 1997, p. 58

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Se discutió incluso a quien le correspondía mejor un papel, siendo así que se formaron grupos de albinistas y cesarista, llegando hasta duelos y demandas judiciales ante las autoridades para favorecer a una u otra cantante. Por ello son varios los autores que han destacado el importante papel que tuvo la compañía en la ciudad de México, tanto autores actuales como los que fueron testigos y espectadores del célebre espectáculo, entre estos últimos: Manuel Payno, en su novela Los Bandidos de Río Frío; Guillermo Prieto en sus Memorias de mis tiempos y Mathieu de Fossey en su libro Viaje a México. Incluso, Prieto (1985) calificó al año del 36 como “el presagio de goces celestiales” mencionando que: Las lujosas casas que se alquilaron para los actores, los riquísimos equipajes que remitieron las lámparas, muebles, trajes de coristas y la renovación del teatro y el escenario, todo hacía esperar, como un acontecimiento extraordinario, el estreno de la nueva ópera… El talento de la Albini era clarísimo, su voz admirable, su tacto artístico, su conocimiento de la escena y sus recursos dramáticos sin igual…Mussati era la ternura melodiosa, La Cesari la gracia cantante, la Passy la tórtola hecha mujer (p.115).5

Los italianos en estos años eran muy pocos, en la ciudad de México se han registrado en el Padrón de población de 1842 37 personas, de los cuales 34 eran hombres, de dos se desconoce el dato y solo una mujer, seguramente esposa de algún migrante. (Pardo, 2018) Muchos, estoy convencido, eran cantantes o músicos de la compañía de ópera que habían decidido quedarse. A su vez en un segundo padrón de población, esta vez el de 1848, el número de inmigrantes de la península italiana aumentó a 52, con 43 hombres y 9 mujeres, y aunque tampoco se menciona seguramente se repiten las actividades en el arte y la enseñanza. (Pardo, 2004) La ópera es un ejemplo precisamente, de cómo los italianos podían combinar sus actividades cuando las compañías terminaban sus funciones y salían del país. La Sra. Adela Cesari, por señalar un caso, en los años que no hubo una compañía de ópera, entre 1838 y 1841 siguió dando conciertos particulares e incluso clases privadas entre ellas a futuras promesas mexicanas, como la célebre cantante María de Jesús Cepeda de Cosío. Por su parte Pedro Gualdi decidió quedarse durante más de 12 años, es decir de 1838 a 1851, y durante este tiempo el artista de Carpi trabajó activamente como pintor de vistas urbanas y de plafones en las casas opulentas de la ciudad, además de promover el primer álbum en litografía de los principales monumentos de la capital mexicana de los que adelante se hablará. Podemos comprobar, por tanto, que para los artistas italianos las oportunidades de trabajo eran muy viables en nuestro país y la llegada de nuevas compañías de ópera sólo renovaban otras oportunidades de empleo. Es así qué estos dos artistas se integran nuevamente en el grupo operístico que llegó en julio de 1841, la primera como cantante y el segundo como decorador de escenarios. Entre los integrantes de la compañía encontramos los siguientes cantantes:

En este texto se pone el nombre de Murati, seguramente por un error de tipografía, el cual hemos corregido a Mussati. 5

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la primma donna absoluta era Anaide Castellan de Giampetro nacida en París, pero educada desde muy joven en Milán. Prima donna sorpano era Amalia Luzio de Ricci Segunda donna Luisa Branzanti Primer tenor Emilio Giampetro Segundo tenor Alberto Bossetti Bajo bufo Luis Spontini Otros cantantes fueron Rosina Pico, Antonio Tommassi, Giovanni Zanini, Antonio Zanquírico y Luis Arriaga (Calderón, 2003), (Sosa, 2010). También encontramos en otras fuentes como en Gutiérrez (2001) en esta misma compañía a Marietta Plagiari, quien se quedó en el país y trabajó con otros grupos operísticos que llegaron en 1855.

Esta nueva compañía dio sus primeras funciones en el Teatro de los Gallos, llamado así porque se adaptó este palenque como teatro, donde generalmente había peleas de gallos. Pero después el espectáculo se trasladó al Teatro Principal donde causó, al igual que la primera compañía, un gran interés entre todas las clases sociales. Es digno de remarcar que a la ópera se consideraba un espectáculo con un carácter cosmopolita, pero, sobre todo, se le asociaba como un signo de civilización, muy caro a los intereses de las élites mexicanas. Son varios los autores que han señalado este hecho, entre ellos Hammeken (2014) quien señaló que “supuestamente, era necesario poseer un alto grado de sensibilidad estética y de educación musical y literaria para comprender el lenguaje de la ópera y poder apreciarla debidamente… se requerían vastos conocimientos previos para poder disfrutar la delicadeza de un filato o el virtuosismo de una coloratura de difícil ejecución…” (pp. 26-27). En resumen, apreciar y asistir a la ópera era un signo de modernidad y civilización, espectáculo apoyado por los gobiernos, por eso no es extraño que los artistas italianos fueran muy bien recibidos por la sociedad mexicana en especial por las clases altas, a diferencia de otros extranjeros que a menos que fueran diplomáticos o grandes inversionistas quedaban en el círculo de la clases medias o trabajadoras. Prueba de ello es lo que comentó Guillermo Prieto (1985) en otro párrafo de sus Memorias cuando refiere el recibimiento que tuvo la compañía de 1836: La posición de los actores era excelente, pues nuestra más culta sociedad les abrió sus puertas y era codiciada la amistad de las actrices y actores por las personas de mayor categoría. La casa del Sr. Gorostiza, calle del Hospicio de San Nicolás, era el punto de la reunión de la flor y la nata del mundo artístico, y allí recibían el talento y las gracias un culto verdaderamente cordial y generoso (p.115).

Fue seguramente por este prestigio, del cual gozaban ampliamente los italianos, lo que le permitió al escenógrafo Pedro Gualdi, quedarse en México y probar suerte en diversas actividades que realizaba como pintor. Interesante por ello es repasar su trayectoria y la situación cultural en México para entender su éxito como artista.

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Pedro Gualdi, escenógrafo, pintor y dibujante litógrafo en México. 1836-1851. Su influencia en México y nuevos datos a su biografía Primer Acto La presencia de Gualdi en México permite revisar los vaivenes laborales de un artista, que pudo ser el caso de otros migrantes italianos, pero también este trabajo busca precisar nuevos datos del personaje y dar a conocer otros que no fueron incluidos en su biografía más completa. Son estas últimas razones las que justifican volver a tocarlo pues en un anterior trabajo no tuvimos, por ejemplo, la seguridad sobre la fecha exacta de su entrada al país, pero gracias a la noticia ya señalada en el periódico el Diario del Gobierno, localizada años después, ahora podemos asegurar que llegó en enero de 1836. Dato importante pues algunas fuentes Pérez (1994) y Salmerón (2016) siguen repitiendo que llegó en 1838, como originalmente lo consignó Ortiz Macedo (1981).6 En nuestra investigación anterior: El escenario urbano de Pedro Gualdi (Fig. 2) resultado de la exposición en el Museo Nacional de Arte, y hasta ahora la más completa muestra que se ha presentado de su trabajo, (Aguilar, 1997) no tenía total seguridad del momento exacto de su llegada y solo la ubiqué entre 1835 o 1836. Aclarado este punto recordemos su orígenes y formación como artista. Rosa Casanova (1997) nos informa que Pietro Gualdi Lenzarini, nació en el pequeño pueblo de Carpi, perteneciente entonces al Ducado del Este, al norte de Italia el 22 de julio de 1808. Fue hijo de Antonio Gualdi sirviente doméstico y de Clara Lenzarini camarera los cuales trabajaban al servicio del sacerdote Bartolomeo Guastaverza.7 Rosa Casanova, quien revisó su trayectoria en la península, supone, por esta relación laboral de sus padres, que fue el sacerdote quien enseñó las primeras letras al joven Pietro y que seguramente fue, gracias también a él, que pudo inscribirse a la edad de 16 años en la Academia de Arte de Módena, capital del ducado, también conocida como Academia Atestina. Con documentos encontrados en los archivos de la Academia sabemos que entró en el curso escolar de 1824-1825 los cuales se abrieron el 5 de noviembre de 1824, seguramente con la ayuda de una beca proporcionada por la administración de la ciudad de Carpi (Casanova, 1997).

Quizás Luis Ortiz Macedo fue el primero en divulgar en el siglo XX la obra del artista italiano, el que originó la fecha errónea de su llegada asegurando que arribó a nuestro país en 1838. Ricardo Pérez Escamilla, por su parte, no solo señaló que llegó en 1838, sino que, sin ningún fundamento aseguró que fue nieto de un pintor del mismo nombre dedicado a las pinturas de temas históricos. Lo lamentable es que páginas de internet actuales que son muy populares, siguen repitiendo el dato erróneo del año de 1838 véase https://es.wikipedia.org/wiki/Pietro_Gualdi; también otras más como https://jorgalbrtotranseunte.wordpress.com/2014/08/17/la-catedral-de-mexico-al-atardecer-de-pedro gualdi/ consultadas el 15 de mayo de 2018. Afirmo que es lamentable porque este tipo de fuentes es las que consulta el público no especializado. Igualmente, revistas de divulgación mantienen este dato erróneo, tal es el caso del trabajo de Luis Salmerón. 7 La autora encontró el acta de nacimiento de nuestro artista, lo mismo que un registro de la familia en el Censo de Población de 1811 en el Archivo Comunal de Carpi, Italia. Casanova señala que en el acta de nacimiento su madre aparece registrada como costurera y su apellido lo anota como Nanzarini. Sin embargo, posteriores registros en México dejan más en claro que fue Lenzarini. 6

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Fig.2. Pedro Gualdi, Patio de la Escuela de Mineria, ca. 1841, óleo sobre tela. Fuente: catálogo de exposición El escenario urbano de Pedro Gualdi, 1808-1867, México, Munal, 1997, p. 90

Hay que recordar que un alumno foraneo tenía que pagar además de su alimentación y hospedaje, los materiales de estudio y otros gastos menores.8 Durante 5 años el joven Pietro permaneció en la escuela modenesa, pasando de las clases básicas, para alunni, a aquellas de nivel superior, para allievi. Estudió ornato, figura y arquitectura, clases que implicaban seguramente lecciones básicas de dibujo, práctica muy común en todas las academias europeas que desde el siglo XVII consideraban el dibujo como la base de todo aprendizaje. Era en este sistema de enseñanza que los artistas supervisados por los maestros copiaban incesantemente objetos, paisajes y figura humana. Suponemos que el mayor progreso de Gualdi fue en el ámbito del dibujo arquitectónico y no en el anatómico, que se hará evidente cuando trabajó en México, pues ni en sus obras de juventud ni en sus trabajos de litografía se nota un buen manejo en este aspecto. Rosa Casanova, aclara que no puede asegurar completamente que fue con el apoyo de una beca como pudo entrar a la Academia Atestina, pero por el origen humilde de los padres, posteriores solicitudes a la Academia de Milán y la presencia de otros nativos de Carpi la hacen suponer que no podría ser de otra manera. 8

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Después seguirá con otras clases como pintura de figura, pensamientos inventivos dibujados, academia del desnudo, estudio de figura del yeso, estudio de escultura y estudio de incisión. Los cursos en la Academia iniciaban en noviembre y acababan en julio con los exámenes y la exposición de las obras de los alumnos; había vacaciones en diciembre y en Pascua. Las clases eran de lunes a sábado con un día de descanso en medio, el de los miércoles. Los maestros con los cuales nuestro artista tomó clases fueron Francesco Buniotti, que seguramente fue decisivo pues era el encargado de dirigir los elementos de arquitectura, lo mismo que Luigi Pagliani. Otros tutores registrados fueron Giuseppe Fantaguzzi, Biagio Magnanini y Giovanni Giaroli todos ellos, que por ser maestros de provincia y no dejar una obra significativa, no se encuentran entre los consagrados del arte italiano. Dentro de la Academia no se descarta que como cualquier artista Gualdi pudiera haber trabajado en algún taller o colaborar ocasionalmente en proyectos y obras particulares. No se sabe cómo aprendió la técnica litográfica que empezaba a ser muy popular en toda Europa, pero que no se encontraba entre los cursos que se impartían en la escuela.9 Nuestro personaje sale de esta escuela en 1829 y regresa a Carpi, con las bases sólidas de una formación artística y calificado, como bien señala Rosa Casanova, como un artesano-artista que tiene que ganarse la vida de alguna manera. La misma autora supone que pudo entrar a un taller de decoradores en donde inició su trabajo como pintor de escenografías, pero no se sabe exactamente a que se dedicó, aunque es muy probable que no fuera fácil abrirse paso en el medio pues los trabajos para artistas no abundaban y menos en una ciudad pequeña. En 1832 obtuvo una comisión importante: la ornamentación de una bóveda de la iglesia de San Nicolás que había sido dañada por un terremoto el año anterior. Así Gualdi realizó pictóricamente una bóveda a casetones en estilo renacentista. También se sabe que por esos años ejecutó una vista de la misma iglesia que quizás le valieron hacer el trabajo de restauración. (Casanova, 1997) Aunque seguramente estos trabajos eventuales, y otros más, no cumplían las expectativas de desarrollo ¿acaso solo la sobrevivencia? Estoy convencido que por estas razones buscó otras alternativas; en noviembre de 1833, por ejemplo, solicitó una nueva pensión al gobernador de Módena, para perfeccionarse en la Academia de Brera de Milán. La pensión le fue concedida en diciembre, por un año y el valor de cuarenta cequiés (460.51 liras de entonces o el equivalente a 94 pesos oro) (Casanova, 1997). En Milán combina sus estudios con el trabajo de ayudante del pintor Domenico Menozzi (1777-1841), para entonces famoso escenógrafo del teatro Scala. Posiblemente llegó con alguna recomendación por sus capacidades en el dibujo arquitectónico lo cierto que este encuentro será decisivo para su viaje a México, pues aquí perfeccionó las capacidades del ilusionismo con la perspectiva y crear espacios escénicos para el teatro. Tras bambalinas el aprendizaje de Pietro fue efectivo, conociendo así los secretos de este arte efímero pues las escenografías rara vez se han conservado debido a que fueron pintadas sobre telones o mamparas que dotaban al escenario de esa ilusión o Por documentos encontrados por Rosa Casanova se sabe que esta obra fue donada a la Alcaldía de Carpi justo cuando sale para México, en noviembre de 1835, a través de su padre y como agradecimiento por los apoyos que recibió el joven Gualdi en sus estudios en las academias. 9

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magia para transportar al espectador a diversos lugares. Desde luego este trabajo no fue impedimento para que continuara en la Academia de Bellas Artes de Brera, la cual tenía excelentes relaciones con el teatro e incluso su maestro Durelli se especializaban en el vedutismo, promoviendo el dibujo arquitectónico y la perspectiva. Pietro Gualdi estuvo en esta academia en el año académico de 1834-1835 y todo parecía acomodarse para el destino que le esperaba. Después de terminar sus cursos en septiembre de 1835 nuestro artista solicitó otra pensión por un año. Rosa Casanova piensa que quizás no estaba seguro de le que iban a dar ese apoyo de la Academia y por eso se unió a la compañía de ópera. El asunto a mi parecer fue más profundo, pues aún consciente que podía continuar con esta beca, e incluso con el trabajo como ayudante de escenógrafo, las posibilidades que se le abrieron en ese momento lo entusiasmaron fuertemente ya que era probar fortuna en el Nuevo Mundo. La nueva alternativa de trabajo tuvo que ser muy tentadora y sobre todo la posibilidad de ser reconocido como artista de primer nivel en México, algo que era mucho más difícil en Italia por la abundancia de artistas y la consecuente dura competencia. Por supuesto no se equivocó en esta apuesta.

Segundo Acto La compañía de ópera se formó seguramente en Milán entre septiembre y octubre de 1835. Después de los arreglos que los integrantes hicieron con el contratista Joaquín Patiño salieron para Burdeos Francia, pues ahí se encontraban las líneas de transporte directo, por ello zarpan de este puerto, como ya hemos dicho el 11 de noviembre, para llegar al país el 4 de enero de 1836. Es probable que hayan dado alguna función en ciudades como Veracruz o Puebla, camino a la capital pues como ya dijimos, llegaron el 1º. De febrero. El papel que tendrá Pedro Gualdi en el teatro como escenógrafo será importante y sin duda representaba un salto profesional pues no será el ayudante, como lo era en Milán con Menozzi, sino el responsable completo de los decorados, anotándose así un primer escalafón en su carrera, pero desde luego las posibilidades de desarrollo ofrecían más. Diversas circunstancias convergieron para que el artista de Carpi pudiera tener un éxito profesional en México. En primer lugar, el ambiente artístico en esos años era lamentable y decadente. La Academia de San Carlos, la institución rectora de las artes había cerrado sus puertas en 1821, aunque la bancarrota y la crisis se había presentado desde mucho antes, en 1817 cuando en plena guerra de Independencia no había recursos y muchos de los antiguos maestros como Manuel Tolsá mueren. En 1824 la escuela fue reabierta por la grande demanda de estudiantes, pero solo para que se dieran clases de dibujo y sirviera en los oficios de los artesanos. No había maestros de renombre y solo el pintor Miguel Mata y Reyes, junto con un reducido grupo de artistas sostenían precariamente las clases (Báez, 2009). Muchos viajeros señalaron que después de la Independencia nadie podía esperar encontrar el esplendor que tuvo en los años que la visitó Humboldt en 1804. No hubo realmente una producción artística importante entre 1817 a 1847 por parte de la Academia (Acevedo, 1982) reduciendo al

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mínimo sus quehaceres educativos. Solo en 1843 empiezan a hacerse gestiones para reabrir la noble institución y contratar nuevos maestros los cuales llegaron hasta 1847. Fueron algunos artistas viajeros los que, de cierta manera reactivaron las artes en estos años en géneros como el paisaje, el retrato o introduciendo nuevas técnicas como lo hizo, el también italiano, Claudio Linati, quien, en 1826, trae prensas litográficas para publicar su revista El Iris, o el alemán Juan Mauricio Rugendas que estuvo entre 18311834 y vendió para el público mexicano, algunos retratos y paisajes, lo mismo que el barón de Gros, Jean Baptiste Louis diplomático que dejó varios trabajos en este último género realizados entre 1831-1836. No obstante, la mayoría prefirió dar a conocer su producción en Europa especialmente en álbumes litográficos como lo hizo el francés Frederick de Waldeck (en 1838), los ingleses Elizabeth Ward (1829) y Daniel Thomas Egerton (1840) o el alemán Karl Nebel (1836). Por lo tanto, la propuesta de Gualdi al público mexicano de vistas de edificios fue novedosa y explican su éxito. Hasta ese momento ningún otro artista había dado a conocer los monumentos de México para un público local. Por otro lado, a nuestro artista escenógrafo, le tocó llegar en el momento justo que empezó un verdadero auge para la litografía mexicana. Después de su introducción en 1826 la nueva técnica tuvo que abrirse paso en el gusto de la época, pero sobre todo buscar técnicos y operarios que conocieran el proceso, lo mismo que dibujantes especializados los cuales no abundan en nuestro país. De hecho, Claudio Linati no dejó muchos discípulos y las prensas que trajo de Europa no fueron aprovechadas en la Academia de San Carlos a donde pasaron en 1827. En un anterior trabajo (Aguilar, 2007) he considerado los años de 1827 a 1837 como los años de aclimatación de la técnica en donde se produjeron pocas obras.10 Será hasta mediados de la siguiente década cuando artistas y artesanos franceses, como Rocha y Fournier, Agustín Massé, Julio Michaud o José Decaen establecen casas litográficas comerciales que empiezan a despuntar en este arte en gran parte gracias al apoyo de los editores de periódicos y revistas ilustradas que empezaron a proliferar a partir de 1837, entre ellas El Mosaico Mexicano (1837), El Recreo de las Familias (1838), El Diario de los Niños (1839), El Apuntador (1841), El Semanario de las Señoritas Mexicanas (1840) entre otras. Se contrataron operarios especializados y por ello hubo nuevas oportunidades de trabajo para los dibujantes entre ellos Pedro Gualdi. No se puede comprender cómo concibió sus álbumes sin este ambiente propicio. A todo ello hay que agregar que, pese a los problemas crónicos del país, o quizás por ellos mismos, con asonadas militares, guerras en el exterior como la de Texas en 1836, o con Francia en 1838, surgía con mucha fuerza un nacionalismo que fomentaba el conocimiento de la nueva nación. Casualmente los editores de las revistas mencionadas, entre ellos Ignacio Cumplido, buscaban medios para crear una identidad mexicana que diera a conocer las bellezas naturales, los tipos populares y desde luego el paisaje arquitectónico con los monumentos más importantes en las principales ciudades de México, entre ellas claro, la capital. 10

Véase también el Catálogo de exposición Nación de imágenes. La litografía mexicana del siglo XIX.

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Fig.3. Pedro Gualdi, Plaza de Santo Domingo, ca. 1840, óleo sobre tela. Fuente: catálogo de exposición El escenario urbano de Pedro Gualdi, 1808-1867, México, Munal, 1997, p. 84

De ahí que no parezca extraño, sino más bien natural que Pedro Gualdi empezara a ejecutar cuadros de los edificios más emblemáticos de la ciudad de México como La Plaza Mayor, La Plaza de Santo Domingo (Fig. 3), El Palacio de Minería o el Teatro Nacional. Obras al óleo, en un formato pequeño y en donde la calidad en el manejo de la perspectiva y el dibujo arquitectónico le dan su mejor carta de presentación inscrito en este contexto de fuerte nacionalismo que le abren las puertas de un gran éxito. Con un poco de imaginación no es difícil suponer que el artista de Carpi a partir de 1838, cuando se regresaron muchos cantantes de ópera,11 era ya requerido por varios miembros de la burguesía local que deseaban adornar sus residencias con una vista de No hay una noticia específica o al menos no la hemos encontrado, en donde se diga cuándo se retiró exactamente la compañía de ópera del país. Tampoco lo mencionó Enrique de Olavarría y Ferrari. Sin embargo, la función de beneficio que se dio el 19 de febrero de 1838 en honor de la Sra. Amalia Passi, nos puede dar una pista. En la noticia la cantante se despide del público mexicano y menciona que la suya es la octava función de beneficio, lo que nos hace pensar que los otros cantantes ya habían realizado la suya y termina diciendo: “Siendo esta la última vez que tengo el honor de dirigirme al respetable público me atrevo a manifestarle mi eterna gratitud por medio del siguiente soneto…” Diario del Gobierno de la república mexicana, lunes 19 de febrero de 1838, p. 4. 11

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la Plaza Mayor u otro lugar emblemático de la ciudad. La fama le permitió al artista que pintara también al fresco algunas escenas mitológicas en el techo de estas residencias. Esta última actividad se encuentra registrada por Manuel Payno (1973) en una de sus novelas en donde describe una mansión opulenta, “…una pieza alfombrada, en la que había grandes espejos, ricos sofás y una hermosa lámpara de cristal colgada del cielo raso, donde estaba pintada al fresco, por Gualdi, la Aurora y los genios de la luz.” (p. 66) Aunque el dibujo de figuras no era precisamente una de las mejores habilidades del artista su trabajo como escenógrafo le permitieron realizar algunas escenas de este tipo para los techos. Es así como Pedro Gualdi seguramente combinó su trabajo en el teatro, sus vistas por encargo y también estos trabajos eventuales que le dan no solo para vivir, sino ser reconocido como un importante artista en México en estos años. La actividad fue incesante para Gualdi en estos años, entre 1839 y 1841 publicó dos ediciones de su importante obra Monumentos de México, que incluyeron en litografía los edificios más emblemáticos del país como son: La Catedral de México (Fig. 4), la Cámara de los Diputados, el Claustro de la Merced, la Plazuela de Santo Domingo, exterior del Santuario de Guadalupe, El Colegio de Minería o el interior de la Universidad, entre otros (Mayer 1996).

Fig.4. Pedro Gualdi, Catedral de México, 1841, litografía en el álbum Monumentos de México. Fuente: catálogo de exposición El escenario urbano de Pedro Gualdi, 1808-1867, México, Munal, 1997, p. 39.

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Era la primera vez que se daban a conocer por esta técnica la riqueza arquitectónica de la capital del país y la lectura es variada pues se puede ver como un aporte al arte mexicano, pero también como el fomento al nacionalismo mexicano, en un momento decisivo pues en medio de la anarquía y los problemas políticos el orgullo que despertaban era un aliciente moral. Lo cierto es que, en estas imágenes, como señala Fausto Ramírez (2004) “la ciudad virreinal de la época ilustrada, convertida en incipiente capital republicana, luce toda su magnificencia edilicia” y servirán de modelo para futuros trabajos como los de Casimiro Castro entre 1854 y 1855 con su obra México y sus alrededores, e incluso hasta para restaurar edificios como la Cámara de Diputados, hoy Recinto Parlamentario, en 1972. Tras ese éxito Pedro Gualdi realizó cuatro vistas de la ciudad de México en 1842, tanto al óleo como en litografía, y que tienen igual un importante éxito. Después siguió realizando obras por encargo como las vistas la Plaza de Loreto, de la Fábrica textil de Cocolapan, Veracruz del Teatro Nacional, inaugurado en 1844 que es uno de sus mejores trabajos pues la vista del interior, tomada desde el escenario permite ver la vastedad del edificio con las plateas, los palcos y el plafón o la bóveda central ornada con liras, figuras aladas y otros motivos además de la araña de luces con dieciséis bujías. El artista de Carpi también colaboró en revistas ilustradas como El Almacén Universal “y como hemos dicho en las nuevas compañías de ópera, ambitos todos en donde desplegó su gran capacidad en el dibujo arquitectónico y los elementos compositivos”. No obstante, nuevos documentos encontrados demuestran que Pedro Gualdi, no pudo superar esa limitante en el dibujo anatómico pues tuvo que recurrir a otros pintores para incluir las figuras humanas que se encuentran en sus cuadros y litografías. En un contrato de febrero de 1841 realizado entre el artista y los editores Masse y Decaen para la publicación de su álbum Monumentos de México, se hace constar que “las figuritas que se han de poner a todas las vistas no son de las pertenencias de Gualdi”.12 Seguramente los editores o el mismo Gualdi pagaron a quienes realizaron los dibujos de figuras humanas. Es probable, sin embargo, que ese camino de etapa productiva se rompiera con la guerra con los Estados Unidos y la toma de la ciudad de México en 1847, sorprendiéndole como al resto de los mexicanos que sufrieron los ataques y la ocupación. El acontecimiento fue decisivo en la vida de Gualdi, pues realizó para el ejército yanqui una serie de litografías que llevan por título Recuerdos de México, (con vistas de la Plaza de la Constitución, El Colegio Militar de Chapultepec y el exterior e interior del Teatro Nacional) seguramente imágenes vendidas a los oficiales o a los soldados que querían llevarse un recuerdo visual del país que habían conquistado militarmente, pero lo más interesante es que también ejecutó dos versiones al óleo de la Plaza Mayor en el momento de la ocupación. Por este motivo en las pinturas ahora en los Estados Unidos, se pueden distinguir las tropas del ejército invasor, la base o zócalo del monumento a la Independencia y la bandera de los Estados Unidos en Palacio Nacional (Fig. 5). Contrato realizado entre Pedro Gualdi y Agustín Masse y José Decaen, Cláusula 3ª. Con fecha del 10 de febrero de 1841, Notario 242, Placido de Ferris, Volumen1477, foja 35. Archivo Nacional de Notarias de la ciudad de México. 12

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Fig.5. Pedro Gualdi, Gran Plaza de la ciudad de México después de la ocupación estadounidense, ca. 1847, óleo sobre tela. Fuente: catálogo de exposición El escenario urbano de Pedro Gualdi, 1808-1867, México, Munal, 1997, p.97.

Pero valga la pena señalar aquí, que no siempre ha gustado la exhibición de estos cuadros pues cuando se presentaron en exposiciones como en el Museo Nacional de Arte en 1997, generó disgustos en algunas personas anteponiendo un nacionalismo a ultranza que impiden ver otras cualidades de las obras como fue el registro de un acontecimiento histórico. Esta visión parcial olvida que el artista italiano estableció fuertes raíces con el país. El 8 de octubre de 1844, por ejemplo, se casó con la mexicana Soledad Villalobos, y fue también en México donde nacieron sus hijos, el primero el 10 de diciembre de 1845 con el nombre de Eduardo Antonio Gualdi Villalobos y el segundo con el nombre de Pedro, quien nació el 29 de junio de 1847. Por lo tanto, quiero suponer que la salida de México no fue un asunto fácil y más bien obligado por las desastrosas circunstancias que dejó la guerra.13 Todo ello, desde luego, son

Después de 1847 las condiciones del país fueron difíciles para los espectáculos teatrales, pero es un hecho que las compañías de ópera siguieron con una gran actividad que se reanudó al poco dtiempo, opción que pudo aprovechar nuestro artista. En 1854, por ejemplo, el empresario francés René Masson logra contratar a la celebérrima diva Enriqueta Sontang, que muere víctima de cólera. También entre 1852 y 1855 el empresario moravo Max Maretzek, trajo otras compañías de ópera como la de Felicita Vestvali. 13

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especulaciones y siempre será una incógnita saber las razones por las qué Pedro Gualdi y su familia salieron del país, entre 1848 y 1851. Sabemos al menos que en febrero de 1848, nuestro artista todavía se encontraba en el padrón de población de la ciudad de México por ello no pudo salir antes de esa fecha (Aguilar, 1997).

Gran Final Las fechas no son precisas, pero Roberto Mayer (1997) descubrió que el 4 de diciembre de 1851 nuestro personaje se encontraba ya en Nueva Orleáns. La ciudad era para entonces una de las más grandes del país con más de cien mil habitantes, por lo tanto, era la cuarta en los Estados Unidos y la más grande en los estados del Sur. El puerto de Nueva Orleáns tenía un intenso comercio con el río Misisipi, especialmente de esclavos y era la llave de entrada a los estados del Norte. No obstante, por aquellos años cuando llegó la familia Gualdi a Nueva Orleans la ciudad dejó de ser la capital de Luisiana pues, por diversos motivos se cambió, a Baton Rouge en 1849. Desde luego evento que no disminuyó la importancia comercial de Nueva Orleans. No sabemos cuáles fueron las razones para ir a esta ciudad, pero, seguramente, en la búsqueda de nuevas posibilidades de trabajo fueron decisivas para emigrar a los Estados Unidos. Quizás algunos contactos con italianos en este lugar fueron la clave o las relaciones que estableció con generales estadounidenses durante la guerra lo animaron a partir. Aunque la migración italiana en esta ciudad sureña no fue la más abundante en la primera mitad del siglo XIX, sino hasta finales del mismo siglo, es un hecho que había una colonia importante y según Mayer (1997) “gozaba de una excelente situación económica”. Reflejo de ello es que en 1848 fue fundada la Sociedad Mutua de Beneficencia Italiana, la cual a mediados de los años cincuenta encargó al arquitecto Pietro Gualdi, (pues ahora firmaba así) la construcción de un mausoleo en el panteón de Nueva Orleans. El mausoleo lleva el nombre de Benevolente Mutual italiana sociedad tumba, y se terminó de construir en 1857. La obra es de estilo clásico hecha con materiales de mármol blanco de Carrara seguramente Gualdi hizo el diseño y otra u otras personas se encargaron de las cuestiones técnicas. Sin embargo, buscar el sustento de la familia no fue una actividad que se dirigiera a un solo rumbo. Como en México, nuestro artista buscó trabajo en diferentes lugares donde lo podría encontrar. Es así como Gualdi tuvo la idea de hacer un panorama circular de la ciudad de Nueva Orleans que se exhibió en un edificio diseñado exprofeso. Dicho trabajo, estaba muy en boga entonces y era laborioso pues implicaba tomar apuntes de toda la ciudad y reproducirlos a gran escala para dar la sensación de mirar el paisaje de la ciudad como se encontraba en la realidad. A Pedro Gualdi le llevó un año realizar tal obra monumental que medía 250 metros cuadrados. Las ganancias se conseguían con las entradas al lugar y en ocasiones los panoramas se exhibían en diferentes ciudades. Pero en este caso la suerte no acompañó al artista de Carpi pues,

Posteriormente el empresario italiano Almicare Roncari contrató a la cantante italiana Adelaide Cortesi y a tenores como Giussepe Forti, véase (Hammeken, 2017).

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seguramente por temor a un incendio, se prohibió su exhibición y aunque Gualdi intentó venderlo no sabemos si realmente lo consiguió (Mayer, 1997). En 1855, igualmente intervino en el proyecto de la construcción del tercer templo que ocuparía la primera Iglesia Presbiteriana. El trabajo de Gualdi, según Roberto L. Mayer consistió en preparar una acuarela con una vista en perspectiva de la edificación, para que los patronos y feligreses pudieran visualizarla mejor. La acuarela todavía se conserva, es de estilo neogótico pero la iglesia fue desmantelada en 1938, cuando se construyó el cuarto recinto. Pero la actividad que ocupó a Gualdi de manera regular fue la de ilustrar documentos para la compraventa de toda clase de bienes raíces. Como bien señala Mayer (1997) el documento en su parte superior llevaba un título en letra grande y frecuentemente muy elaborado que describía la propiedad, regularmente casas o edificios. En la parte central iban dibujados los planos localizados, detalles del terreno y de la construcción, si la hubiera, levantadas por un ingeniero civil o agrimensor. Finalmente, en la parte inferior se dibujaba la propiedad con una vista que tenía que mostrar todo lo que se viera a la calle. El documento entero se acuareleaba, muchas veces con colores fuertes para la llamar la atención del comprador, (Mayer, 1997) funciones que hoy cumplen las fotografías en los periódicos y más recientemente publicadas en páginas de internet donde se pueden ver los detalles de los inmuebles que se quieren comprar o rentar. Para estos documentos hoy conservados en el Archivo de Notarias de Nueva Orleans, se necesitaba las capacidades de un artista que Gualdi cumplía cabalmente pues eran en sí unas pequeñas obras de arte. Creemos que esta actividad le proporcionaba el sustento más regular. Pero el destino de Pedro Gualdi Lenzarini en la ciudad de Nueva Orleans, no durará mucho pues murió el 4 de enero de 1857, a la edad de cuarenta y ocho años y por ironías de la circunstancia es el primero en ser enterrado en el Mausoleo de la Sociedad de Beneficencia Italiana que el mismo había diseñado.14 Durante mucho tiempo no estábamos seguros si la familia del artista lo acompañó a la ciudad de Nueva Orleans, pero nuevamente, gracias a recientes descubrimientos, sabemos ahora que al menos la esposa si fue con él a los Estados Unidos. En los registros parroquiales se encontró a Arturo Gualdi Villalobos, quien nació en 1856 hijo de Pedro Gualdi y Soledad Villalobos.15 Los datos mencionan que pudo nacer en la ciudad de México, pero me inclino a creer que tal dato es equivocado y que nació en Nueva Orleans cuando su padre todavía estaba en esa ciudad, a menos que Soledad Villalobos, embarazada haya regresado a nuestro país, antes de la muerte del artista, lo cual dudo. Quiero más bien suponer que, al fallecer su padre, Arturo Gualdi Villalobos regresó a México y aquí se casó en 1870, a la temprana edad de 15 años con María Hernández. Gracias también a nuevos documentos sabemos que esta misma persona registra el 11 de octubre de 1905, a una hija, Josefina Gualdi Hernández, mencionando, además en el documento que tiene 49 años, lo que refuerza la fecha de que nació en 1856, incluye el dato que es comerciante y que vive en la calle del Reloj número 6 (hoy calle de

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La noticia fue tomada del Daily Picayune, Nueva Orleans, 6 de enero de 1857. Véase Arturo Gualdi https://gw.geneanet.org/sanchiz?lang=en&n=gualdi+villalobos&oc=0&p=arturo.

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Argentina) y que sus padres fueron Pedro Gualdi y Soledad Villalobos.16 De los dos hijos anteriores se desconoce cualquier otro dato que los ya mencionados, y no sabemos tampoco si hubo más entre 1848 y 1855. Lo importante fue descubrir que un hijo de Pedro Gualdi regresó a México y que es probable, aunque se haya perdido el apellido, que todavía queden descendientes de este artista, de tal manera que su legado no solo haya quedado en obras sino también en personas.

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Datos proporcionados por Javier Sanchiz, agradezco la información tanto a él como a María José Esparza Liberal quien me ayudo en esta búsqueda. Véase: https://www.familysearch.org/ark:/61903/3:1:33SQGRK7-9CPV?i=2901&wc=M8RT-6WL%3A218842701%2C224288301&cc=1923424 16

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ARTURO AGUILAR OCHOA

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FRANCESCO SAVERIO CAVALLARI (1810-1896) ARCHITETTO, ARCHEOLOGO, PROFESSORE E DISEGNATORE

GABRIELLA CIANCIOLO COSENTINO

Francesco Saverio Cavallari’s biography is a journey from Europe to Latin America as well as an observatory on the many faces of the profession of architect in the nineteenth century. Cavallari’s intensely eclectic work, whose interests range from topography to engineering, from archaeology to restoration, reflects the mobility of nineteenth-century intellectuals, but also shows the contradictions and uncertainties of his time, bringing out the image of an architect “without frontiers”, where by frontiers are meant not only geographical, but also, and above all, cultural and disciplinary ones. Active in Mexico City between 1857 and 1864, he taught at the Academia de San Carlos and directed the study course in architecture and civil engineering. Both in Italy, Germany and Mexico he worked as a designer, building churches and villas and exploring different historical languages, such as the Gothic and the Renaissance styles. He devoted the last thirty years of his life to archaeology, his first and greatest passion, and Sicily owes him a large number of discoveries and archaeological findings.

Introduzione Francesco Saverio Cavallari (Fig. 1), nato a Palermo il 2 marzo del 1810 dall’architetto Cristoforo e da Giuseppa Pirrone, fu architetto e archeologo, ingegnere e restauratore, docente e studioso, oltre che un abile disegnatore. Per la vastità degli interessi e la pluralità di ruoli rivestiti nel corso della sua lunga carriera, incarna l’ideale ottocentesco dell’architetto-erudito e in questo senso offre un punto di vista privilegiato per una riflessione sulle tante facce della professione di architetto nel XIX secolo. Con riferimento all’eterogeneità delle sue ricerche, il concittadino Luigi Natoli osserva: “certo non è frequente né facile veder congiunte tutte queste qualità in uno stesso ingegno, e così armonicamente che nessuna soverchi l’altra, e l’una serva per completar l’altra; ma Francesco Saverio Cavallari ne era uno dei rari e più singolari esempi” (Maurus, s. d.). Il suo operato non si dispiega solo in ambiti disciplinari diversi, ma anche in luoghi diversi. Cavallari ha lavorato, infatti, in varie città d’Italia (Palermo, Siracusa, Roma e Milano), oltre che in Germania (Göttingen) e in Messico (Città del Messico). A spingere Cavallari verso luoghi diversi ed esperienze lavorative 159

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sempre nuove sono state la sua mobilità e versatilità, la sua apertura verso le sfide intellettuali dell’epoca, e la sua fede politica anti-borbonica. La biografia di Cavallari è segnata dall’esperienza della Rivoluzione e dell’esilio: lo scoppio dei moti insurrezionali del 1848 lo spingerà a lasciare la Germania, dove lavorava da cinque anni, e a ritornare in Sicilia per servire la patria “al momento del pericolo e della prova della nostra rigenerazione” (lettera di Francesco Saverio Cavallari a Michele Amari, Göttingen, 3 giugno 1848. Cianciolo Cosentino, 2012a, p. 60). Anche le successive scelte professionali sono dettate, almeno in parte, da motivazioni politiche. Il trasferimento a Milano nel 1854 era dovuto a problemi con il governo borbonico, e la permanenza di sette anni a Città del Messico fu per lui un “esilio volontario”, motivato dalla convinzione che quella fosse un’“epoca difficile per potere coscienziosamente occupare un posto pubblico tanto in Sicilia che in Lombardia” (lettera di Francesco Saverio Cavallari a Michele Amari, Göttingen, 3 giugno 1848. Cianciolo Cosentino, 2012a, p. 68). In questa e in altre occasioni Cavallari dimostrerà il suo impegno civile, e non rinnegherà mai il suo passato rivoluzionario, definendosi sino alla fine della sua vita un “quarantottista puro sangue” (lettera di Francesco Saverio Cavallari a Michele Amari, Göttingen, 3 giugno 1848. Cianciolo Cosentino, 2012a, p. 146). La personale vicenda di Cavallari rientra nel vasto fenomeno dell’emigrazione “colta” di artisti italiani all’estero e, in particolare, della diffusione della cultura italiana nel Nuovo Mondo. Alla tradizione dei viaggi di studio e dei soggiorni formativi nelle principali capitali europee si affianca infatti, nel corso dell’Ottocento, il fenomeno relativamente nuovo e di vasta portata delle migrazioni professionali qualificate, che investe contemporaneamente Nuovo e Vecchio Mondo, Oriente e Occidente, Stati Uniti e America Latina, Russia e Medio Oriente e che, soprattutto alla fine del secolo, si svilupperà con intensità e rapidità senza precedenti (Mozzoni, Santini, 1999; Cianciolo Cosentino, 2006).

Fig. 1. Busto in gesso di Francesco Saverio Cavallari (foto: Davide Mauro 2016)

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La figura di Cavallari, alla quale è stata dedicata recentemente una monografia (Cianciolo Cosentino, 2007), con poche eccezioni è stata del tutto ignorata dalla storiografia del Novecento (Alvarez, 1906; Mistretta Buttitta, 1929; Tomaselli 1996; Vidargas, 1997). La mancanza di informazioni relative al suo operato non è da ascrivere, tuttavia, soltanto all’“ingiusto oblio” (Maurus, s.d.) dei conterranei o all’incapacità della critica di cogliere lo spessore del personaggio: la vastità geografica e tematica della sua attività e, soprattutto, la dispersione dell’intero fondo di disegni e manoscritti che, almeno fino agli anni venti del secolo scorso, era custodito nel palazzo avito di Palermo, hanno reso estremamente difficili le ricerche e hanno contribuito a lasciare in ombra la sua figura di studioso.

Formazione: archeologia e disegno Il giovane Cavallari non segue il consueto iter formativo della maggior parte degli architetti suoi contemporanei. Rimasto orfano a soli 8 anni e angustiato dalle necessità economiche, cui deve far fronte a causa della prematura morte del padre, è costretto a lavorare per guadagnarsi da vivere: i lunghi soggiorni a Roma e in Germania, che il giovane autodidatta sfrutterà per arricchire il proprio bagaglio culturale e che incideranno profondamente sulla sua formazione, sono motivati, innanzi tutto, da contingenti opportunità lavorative. Francesco Saverio studia sotto la tutela del fratello maggiore Domenico e si dedica giovanissimo al disegno e alla pittura, arti per le quali era straordinariamente portato. A scoprire il suo talento sarà il duca di Serradifalco1, che nel 1827 acquista un suo acquerello del prospetto della cattedrale di Palermo e successivamente lo assume come suo collaboratore nelle campagne archeologiche condotte in Sicilia negli anni trenta dell’Ottocento. Nel decennio compreso fra il 1827 e il 1837, Cavallari esegue scavi e rilievi in molte località della Sicilia e realizza la maggior parte delle incisioni e dei disegni contenuti in Antichità di Sicilia esposte ed illustrate (1834-1842), e Del Duomo di Monreale e di altre chiese siculo-normanne (1838), prestigiose pubblicazioni dirette ed edite dal duca di Serradifalco (Lo Faso, 1834-1842; Lo Faso, 1838) (Fig. 2). In questi anni fondamentali per la sua formazione, Cavallari acquisisce le competenze archeologiche che successivamente applicherà nella professione e affina le sue doti di disegnatore e incisore, che lo segnaleranno all’attenzione del tedesco Heinrich Wilhelm Schulz, allora impegnato nella monumentale raccolta dei monumenti di arte medievale dell’Italia meridionale. Nel frattempo, nel 1837, il fratello Domenico muore durante un’epidemia di colera e Cavallari si trasferisce a Roma su invito di Schulz.

Domenico Lo Faso Pietrasanta, duca di Serradifalco, fu architetto, archeologo e Presidente della Commissione di Antichità e Belle Arti di Sicilia (Cianciolo Cosentino, 2004). 1

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Fig. 2. F. S. Cavallari, Duomo di Monreale, interno. Da: D. Lo Faso Pietrasanta, del Duomo di Monreale e di altre chiese siculo-normanne, Palermo 1838, tav. VI

Roma e Göttingen: collaborazioni e primi progetti Heinrich Wilhelm Schulz, storico dell’arte di Dresda, fra il 1832 e il 1842 percorre in lungo e in largo l’Italia meridionale dall’Abruzzo alla Sicilia alla ricerca di testimonianze architettoniche di epoca medievale, allora pressoché sconosciute. L’opera di Schulz, imponente per la mole e la ricchezza dell’apparato iconografico, è la prima raccolta completa di monumenti medievali del Sud Italia, e sarà pubblicata postuma nel 1860 con il titolo Denkmäler der Kunst des Mittelalters in Unteritalien (Schulz, 1860) 2. Cavallari e il tedesco Anton Hallmann sono gli autori delle magnifiche tavole dell’Atlas (Fig. 3). Compatibilmente con i lunghi viaggi di studio intrapresi nell’Italia centrale e meridionale al seguito di Schulz, a Roma il giovane Saverio ha l’opportunità L’opera di Schulz, straordinariamente moderna per l’epoca in cui fu concepita, è considerata il punto di partenza per tutti gli studi successivi sul medioevo meridionale. Schulz non si limita a un capillare lavoro di ricognizione e rilievo delle principali fabbriche medievali di Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria, ma studia e trascrive numerosi documenti conservati negli archivi borbonici di Napoli. Per un inquadramento dell’opera di Schulz si rimanda a Lucherini 2007. 2

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di studiare architettura e archeologia e di entrare in contatto con il vivace ambiente culturale della capitale pontificia (Mistretta Buttitta, 1929)3.

Fig. 3. F. S. Cavallari, Cattedrale di Bitonto, facciata. Da: H. W. Schulz, Denkmäler der Kunst des Mittelalters in Unteritalien, Dresda 1860, tav. XIII

Nel 1840 Cavallari ritorna in Sicilia e collabora per circa due anni con il geologo tedesco Wolfgang Sartorius von Waltershausen ai rilievi della Carta topografica e geologica dell’Etna. Nel 1843, su richiesta dello stesso Waltershausen, si trasferisce a Göttingen per completare l’elaborazione delle carte topografiche del grande atlante etneo. Durante il soggiorno quinquennale in Germania frequenta l’ambiente accademico della Georg-August-Universität di Göttingen, intraprende alcuni viaggi di studio nell’Europa settentrionale per studiare le prime strade ferrate del Belgio, della Francia, della Svizzera e della Germania, e pubblica i primi studi di topografia e storia dell’arte: Zur Topographie von Syrakus (1845) e Zur historischen Entwicklung der Künste nach der Theilung des Römischen Reichs (1847). Perseguendo l’ideale dell’artista-erudito e quella particolare combinazione di arte e scienza ritenuta indispensabile nella formazione di un buon architetto, Cavallari si dedica a studi di matematica, filosofia, archeologia e storia dell’arte. La biografa di Cavallari Elvira Mistretta Buttitta parla di studi architettonici e archeologici ma non precisa né presso quale istituzione né a che titolo Cavallari abbia approfondito queste discipline. 3

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Negli stessi anni progetta una villa suburbana per la famiglia Waltershausen (Cianciolo Cosentino, 2012c), precoce esperimento in stile gotico-catalano direttamente ispirato alla tradizione architettonica siciliana (Fig. 4). Evidente, in particolare nel repertorio formale dei prospetti, la derivazione dai progetti di Matteo Carnilivari per le domus magnae palermitane di Francesco Abatellis e di Guglielmo Ajutamicristo. La pianta, con la sua rigorosa simmetria basata sull’articolazione di figure geometriche semplici attorno a un nucleo quadrato corrispondente al centro distributivo e funzionale della fabbrica, rivela invece la conoscenza della trattatistica e, in particolare, dei Précis di Durand4.

Fig. 4. Göttingen, Bonifatiusschule (palazzo Waltershausen), facciata (foto: Dehio 2011)

Richiamato dai moti insurrezionali del 1848, Cavallari decide di ritornare in Sicilia e, alla notizia della sua partenza, il decano Karl Friedrich Hoeck, con il voto unanime di tutti i membri della Philosophische Fakultät di Göttingen (fra i quali il matematico Gauss), gli assegna il titolo honoris causa di Philosophiae Doctor et Artium Liberalium Magister. Appena giunto in Sicilia Cavallari si arruola con il grado di Capo Sezione dell’Ufficio topografico e, nella ritirata di Catania dell’aprile del 1849, viene ferito da una scheggia di mitraglia.

Per le diverse destinazioni d’uso e i continui passaggi di proprietà, il palazzo Waltershausen è stato oggetto, dal 1897 a oggi, di continue trasformazioni e pesanti manomissioni che oggi comportano qualche difficoltà nella leggibilità del manufatto e la perdita dell’integrità e della coerenza che avevano caratterizzato il progetto originario. Attualmente l’edificio ospita la scuola elementare Bonifatius I. 4

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Palermo e Milano: insegnamento e restauro Il 1849 inaugura un periodo molto intenso tra insegnamento, incarichi pubblici e committenze private. Nominato professore di Geografia presso il Liceo Nazionale di Palermo, Cavallari ottiene contemporaneamente il primo incarico professionale in qualità di restauratore per la sistemazione della parte ornamentale della chiesa madre di Castelvetrano. Il primo lavoro importante è tuttavia il completamento della facciata della chiesa di Santa Maria a Randazzo (piccola cittadina in provincia di Catania), che lo impegnerà dal 1851 al 1854.

Fig. 5. Randazzo, Chiesa di S. Maria, facciata (foto: Archenzo 2005)

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Il completamento della chiesa madre di Randazzo, fabbrica duecentesca che era stata oggetto di radicali trasformazioni tra il XVI e il XVIII secolo, si inserisce nel quadro del rinnovato interesse per il medioevo e le architetture di epoca “moderna”. Nella sua versione definitiva, il progetto segue i nuovi orientamenti in materia di restauro e le generiche prescrizioni della committenza circa la scelta stilistica e la tipologia di intervento, che dovevano essere rispettose delle preesistenze e in armonia con lo stile del monumento. Il campanile centrale, in forme neo-medievali, si rifà a modelli duecenteschi e, in particolare, al campanile della vicina chiesa di San Martino, da cui riprende i motivi della trifora e della cuspide piramidale a sezione ottagonale (Fig. 5). Dal 1852 al 1854 Cavallari è anche titolare della cattedra di Architettura Decorativa e Disegno Topografico presso la Regia Università di Palermo e, negli stessi anni, dirige alcuni cantieri presso il Giardino Inglese, fra cui il palazzo del Sig. Gravina (oggi palazzo Bordonaro). Nel 1854, a causa di una delazione anonima relativa alla sua posizione politica, è costretto ad abbandonare il posto di professore a Palermo e la direzione del cantiere della chiesa madre di Randazzo (che sarà portata a termine dall’architetto Domenico Marvuglia) e a trasferirsi a Milano, dove per due anni ricoprirà la cattedra di Architettura e di perfezionamento degli Ingegneri presso la Regia Accademia di Brera. In adempimento alle istanze di rinnovamento imposte dal governo centrale di Vienna e sulla scia della riforma didattica portata avanti da Pietro Selvatico in seno all’Accademia di Venezia5, il nuovo piano di studi proposto da Cavallari risponde alla necessità di allargare le conoscenze degli allievi-architetti a tutti gli stili del passato e, in particolare, al gotico e al Rinascimento. Questo indirizzo eclettico e anti-classicista incontra, tuttavia, forti ostilità da parte dell’ambiente accademico e professionale milanese. Tra il 1854 e il 1856 compare sul Giornale dell’Ingegnere Architetto ed Agronomo una campagna denigratoria contro Cavallari e la sua riforma didattica. Sotto lo pseudonimo di “Magister Comacinus”, l’architetto Fermo Zuccari scrive (1855): dall’esporre i torti d’una scuola stazionaria qual è quella del classicismo, non consegue di certo la necessità di dichiararci apostoli dell’opposta scuola, la quale venne ora anche nella nostra Accademia di Brera iniziata sotto gli auspici dell’eclettismo! Mentre sprezziamo le strettoie della prima, le nostre braccia non sono aperte per accogliere le esagerazioni della seconda (pp. 214-215). Questa violenta opposizione porterà Cavallari alla determinazione di lasciare l’Italia e di trasferirsi in Messico, dove nel frattempo gli era stata offerta la prestigiosa carica di professore e Direttore della sezione di architettura dell’Accademia Nazionale di Belle Arti di San Carlos.

Figura centrale del medievalismo italiano, Pietro Selvatico è architetto, critico, storico dell’arte e docente di storia dell’architettura all’Accademia di Belle Arti di Venezia (Bernabei, 1974). 5

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Città del Messico: l’Accademia di San Carlos Dal dicembre del 1856 all’inizio del 1864 Cavallari risiede e lavora a Città del Messico, dove svolge un’intensa attività come docente e come architetto. Parallelamente all’attività didattica presso l’Accademia di Belle Arti di San Carlos, dove introduce e dirige un nuovo corso di studi in ingegneria civile, progetta diverse opere architettoniche, di cui tutt’ora esistenti sono la facciata e le gallerie di pittura dell’Accademia, la cappella Escandón e l’entrata del parco Lira a Tacubaya. Nel 1843, grazie all’iniziativa del generale Antonio López de Santa Anna, il nuovo regime centralista messicano inizia a riformare l’istruzione pubblica e a dare un nuovo impulso alla cultura e all’arte. Nell’ambito di questo programma di rinnovamento, si inserisce il progetto di rifondazione dell’Accademia, che, a partire dagli anni quaranta dell’Ottocento, sarà ricostituita su nuove basi (Báez Macías, 1974). Le istanze di rinnovamento dell’istruzione pubblica trovano una precisa formulazione in un decreto governativo (2 ottobre 1843) in cui si stabilisce l’intenzione, da parte dell’Accademia, di chiamare come direttori delle diverse sezioni i migliori artisti europei (Báez Macías, 1982). Si riteneva infatti che l’importante compito di promuovere le belle arti e di formare i giovani artisti messicani dovesse essere affidato a professori stranieri di fama ed esperienza. Le trattative con i professori europei invitati ad assumere la direzione dei diversi rami dell’insegnamento accademico iniziano nel 1844. Nel 1856 saranno assegnate a Cavallari – che completerà il corpo docente straniero – la cattedra di composizione architettonica e la direzione della sezione di architettura. Trovare un professore che fosse in grado di insegnare contemporaneamente la storia dell’architettura e le conoscenze di base per la costruzione di ponti, strade e ferrovie non era stato facile. Il progresso della scienza e della tecnica, e il crescente bisogno di costruzioni utilitarie necessarie allo sviluppo del paese esigevano che il nuovo corso di studi dell’Accademia compendiasse le conoscenze tecnico-scientifiche degli ingegneri con quelle più propriamente artistiche ritenute prerogativa degli architetti. Cavallari univa scienza e arte, cultura politecnica e formazione umanistica, presentando dunque un profilo professionale completo e flessibile, capace di rispondere alle istanze di rinnovamento della cultura architettonica messicana. Cavallari giunge in Messico nel gennaio del 1857 preceduto dalla fama legata alla sua attività di architetto, archeologo, topografo, docente e, soprattutto, alle sue competenze in materia di ingegneria. A differenza che a Milano, in Messico trova terreno fertile per la radicale riforma didattica che porterà all’introduzione della nuova figura professionale dell’ingegnere-architetto, espressione del profondo rinnovamento sociale e culturale di quegli anni e delle aspirazioni progressiste del paese. Negli anni del suo incarico, il nuovo direttore dà un riassetto complessivo alla docenza sotto l’aspetto burocratico (qualificazioni, pratiche, esami), ma soprattutto mediante l’aggiornamento della biblioteca con l’acquisizione di moderni trattati di architettura e l’arricchimento delle collezioni dell’Accademia con quadri, gessi e fotografie di monumenti europei.

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Fig. 6. Città del Messico, Tacubaya, Cappella Escandón, facciata (foto: Gabriella Cianciolo 2002)

Con l’avvento di Cavallari, che segna l’inizio dell’influenza dello storicismo, il “liberalismo stilistico” è definitivo6. Tale apertura verso diversi stili del passato si rispecchia anche nelle opere realizzate da Cavallari nella capitale messicana. Alla committenza della famiglia Escandón7 è legata la realizzazione di una cappella nel quartiere di Tacubaya (Fig. 6): una piccola chiesa in mattoni a vista con impianto longitudinale ad unica navata concluso da un’abside semicircolare e coperto da una Israel Katzman descrive la riforma dell’insegnamento operata da Cavallari nei termini di un rinnovamento radicale: mentre dalla fondazione dell’Accademia fino alla metà del XIX secolo la tendenza stilistica si era indirizzata esclusivamente verso il classicismo e il rinascimento, al tempo di Cavallari prevale l’eclettismo. Al nuovo orientamento teorico corrisponde l’introduzione della cattedra di Storia dell’architettura, che non rappresenta il semplice superamento del precedente piano di studi, ma è espressione dei grandi cambiamenti culturali avvenuti in Europa tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento (Katzman, 1973, pp. 68-69). 7 Escandón è nota e ricca famiglia di imprenditori e commercianti, proprietaria di palazzi signorili nel centro storico e di alcune residenze suburbane nelle zone di nuova espansione di Città del Messico. Don Manuel Escandón, proprietario delle diligenze che collegavano la capitale a molte città dell’entroterra, successivamente avrebbe investito i suoi capitali nella costruzione delle prime linee ferroviarie messicane, affidando a Cavallari la realizzazione della linea Città del Messico-Veracruz, che tuttavia sarà portata a termine in seguito e inaugurata soltanto nel gennaio del 1873. 6

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volta a botte a sesto acuto. Per l’esterno Cavallari adotta una veste architettonica gotica, ritenuta particolarmente appropriata alla destinazione dell’edificio, riproponendo lo schema della facciata-torre, con il quale si era già confrontato alcuni anni prima nel completamento della chiesa di Randazzo. Sempre a Tacubaya, Cavallari realizza il portale d’ingresso del parco Lira, consistente in un grande arco a tutto sesto con volta a botte cassettonata, fiancheggiato da due ali più basse articolate da tre aperture cieche e da una cornice marcapiano che accentua l’orizzontalità della costruzione (Fig. 7). Il motivo dell’arco di trionfo, con la sua nitida volumetria e l’impronta classicista sottolineata dalla presenza delle colonne ioniche e delle mensole, conferisce all’insieme l’idea della magnificenza civica tipica del neoclassicismo europeo di stampo accademico.

Fig. 7. Città del Messico, Tacubaya, parco Lira, portale d’ingresso (foto: Edgar Durán 2017)

A Cavallari si devono anche i lavori realizzati nelle fabbriche dell’Accademia, in particolare il grande Salón de Actos (oggi totalmente trasformato e adibito a biblioteca), le gallerie di pittura, e la severa facciata neo-rinascimentale a due ordini, caratterizzata da un portale con colonne binate e sei medaglioni classicisti che raffigurano Raffaello, Michelangelo, Carlo III, Carlo IV, e i fondatori dell’istituzione Gil e Mangino. Il risalto del partito centrale, l’elegante bugnato in stucco, il motivo dei medaglioni e le decorazioni delle finestre e del cornicione arricchiscono questa facciata dal disegno semplice ed essenziale (Fig. 8).

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Fig. 8. Città del Messico, Accademia di San Carlos, facciata, portale d’ingresso (foto: Alejandro Navarrete 2018)

Ritorno in patria: antichità, tutela dei monumenti e ferrovie Il 1864 segna una svolta radicale nella vita di Cavallari. Dopo sette anni di permanenza in Messico ritorna in patria e, a partire da quel momento, la sua carriera professionale prenderà una direzione diversa, forse verso quella che, in fondo, era sempre stata la sua passione: “visitare, scavare, riparare, conservare e scoprire le nostre antichità!” (lettera di Francesco Saverio Cavallari a Michele Amari, Siracusa, 18 aprile 1870. Cianciolo Cosentino, 2012a, p. 116). Michele Amari, allora Ministro dell’Istruzione Pubblica, lo nomina infatti Direttore delle Antichità di Sicilia, e dal 1864 al 1896 – anno della sua morte – Cavallari sarà impegnato nella salvaguardia del patrimonio artistico e architettonico dell’isola. Ricoprendo varie cariche8, Cavallari si divide tra campagne di scavo, restauri, opere di ingegneria e un’intensa attività pubblicistica: la lunga serie di articoli, saggi, e relazioni tecniche sugli argomenti più svariati rivela l’ampiezza degli interessi e la vastità delle conoscenze dello studioso, nella cui complessa personalità convergono gli interessi cosmopoliti maturati durante Le cariche ricoperte da Cavallari dal 1864 al 1891 sono: Direttore delle Antichità di Sicilia (1864-1875), Ingegnere degli scavi di Antichità presso il Commissariato dei Musei e degli Scavi di Sicilia (1876-1881), Vice Direttore di 1° classe (1882-1886), Direttore di 3° classe dei Musei, degli Scavi e delle Gallerie del Regno (1887-1891). 8

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le lunghe permanenze all’estero, l’eredità della cultura antiquaria siciliana, la tendenza aperta e ricettiva del filone storicista italiano, le competenze tecnico-ingegneristiche frutto della pratica di cantiere e dell’esperienza sul campo e, infine, l’amore per il patrimonio monumentale dell’isola, al quale si dedicherà con passione genuina e inesauribile energia. A Cavallari si devono, fra l’altro, numerosi fortunati rinvenimenti e importanti esplorazioni in vari siti archeologici dell’isola, fra cui Selinunte, Agrigento, Siracusa, Megara Iblea, Solunto, Naxos e Pantelleria (Fig. 9). I musei archeologici di Palermo e Siracusa sono stati arricchiti dalle sue scoperte e, grazie al suo istinto “di un bravo Cane di Caccia che sente l’odore delle cose antiche”, Cavallari può affermare con orgoglio di non avere mai dato “un colpo di zappa inutile nella sua vita” (lettera di Francesco Saverio Cavallari a Michele Amari, Palazzolo Acreide, 22 giugno 1872, Siracusa, 23 maggio 1889. Cianciolo Cosentino, 2012a, pp. 148, 203). Contemporaneamente Cavallari è impegnato sul fronte del restauro, tanto dal punto di vista teorico quanto sul piano pratico. I restauri archeologici di un certo rilievo legati al suo nome riguardano alcuni interventi sul tempio di Segesta9, la ricomposizione della scena dell’antico teatro di Taormina, e la riparazione del tempio della Concordia ad Agrigento. Negli stessi anni, nell’ambito del processo di valorizzazione dei monumenti medievali siciliani, si intraprendono i primi restauri di fabbriche del periodo normanno, che per la loro particolare pregnanza simbolica rispondevano alle aspirazioni nazionalistiche dell’epoca. Cavallari esegue restauri di minore entità nel duomo di Monreale e nella Cappella Palatina10 e, in generale, partecipa attivamente al dibattito sul restauro dei monumenti medievali, per il quale propugna gli stessi criteri rigoristi adottati per la conservazione delle fabbriche antiche, in antitesi alle teorie restaurative dei rifacimenti e delle reintegrazioni mimetiche. In merito si pronuncia in una serie di scritti dai toni fortemente polemici in cui, prendendo spunto dai recenti interventi di ripristino condotti da Giuseppe Patricolo su alcune architetture normanne palermitane, si schiera contro le “rifazioni non necessarie”, giudicate “capricciose, inutili al monumento, dannose alla storia e prive di significato per le arti” (Il Precursore di Palermo. Giornale politico quotidiano, 15 marzo 1873; Cianciolo Cosentino, 2012b). Al di là delle contraddizioni fra teoria e prassi e al mutamento di rotta intercorso fra i restauri praticati nei primi anni cinquanta e l’atteggiamento rigorosamente conservativo che assumerà successivamente nei confronti del monumento come documento e testimonianza storica, da questi scritti emergono la modernità del suo pensiero e la consapevolezza dei nodi centrali del dibattito sul restauro e delle difficoltà connaturate alla disciplina.

Secondo Franco Tomaselli, “l’empirismo si interrompe con l’avvento del Cavallari che, con il suo metodo dell’analisi dei degradi e dei dissesti fondata su criteri di giudizio di natura chimica e fisica, ha contribuito alla evoluzione della metodologia del restauro nella sua dimensione pluridisciplinare più attuale” (Tomaselli, 1985, p. 166). 10 Nel 1878 Cavallari viene incaricato di approntare un progetto per riparare i danni provocati alle murature e ai mosaici del duomo di Monreale dalle infiltrazioni dell’acqua piovana. Il progetto di restauro della Cappella Palatina riguarda invece il consolidamento dell’imposta dell’arco che si eleva sopra due colonne nella parte sinistra della navata. 9

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Fig. 9. F. S. Cavallari, capitello, 1891 (collezione privata)

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Infine vanno ricordati i progetti di Cavallari per le ferrovie siciliane, in cui mette a frutto le conoscenze acquisite durante i soggiorni all’estero, applicandole alla particolare situazione geo-morfologica del territorio siciliano. Le prime strade ferrate in Sicilia vengono progettate negli anni successivi all’Unità d’Italia. I lavori procedevano con lentezza a causa di problemi tecnici, difficoltà finanziarie, contrasti politici e, soprattutto, polemiche tra comuni, province, e vari enti interessati. In qualità di ingegnere, esperto di problemi ferroviari e grande conoscitore della topografia siciliana, Cavallari partecipa al dibattito con una serie di saggi e di articoli, e con il progetto di un collegamento ferroviario tra le città di Palermo e Catania: la famosa linea di Vallelunga, realizzata su progetto di Saverio Cavallari e del figlio Salvatore dopo anni di scontri e di polemiche (Amoroso e Caliri, 1987). Protagonista della scena artistica e culturale palermitana della seconda metà dell’Ottocento, Cavallari è onnipresente in tutte le forme del dibattito teoricodisciplinare dell’epoca – manifestazioni artistiche, iniziative culturali, restauri, concorsi11. Nel 1891, all’età di 82 anni, ma ancora nel pieno dell’attività, chiede al Ministro della Pubblica Istruzione il meritato riposo, pur conservando “serena la mente, la memoria, la vista e la fermezza della mano nel disegnare” (Mistretta Buttitta, 1929, p. 28). Nel 1893 completa la sua ultima opera dedicata a Le città e i monumenti preellenici in Sicilia e, prima di vederla pubblicata, si spegne a Palermo il 1° ottobre del 1896.

Nel 1864 Cavallari fa parte, insieme a Gottfried Semper e Mariano Falcini, della Commissione esaminatrice del concorso per il Teatro Massimo di Palermo, che vedrà vincitore il progetto Archetipo e disegni di Giovan Battista Filippo Basile (Fundarò, 1974). 11

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Ciudad de México. Vista general de Secretaria de comunicación y transportes, proyecto del arquitecto italiano Silvio Contri, inaugurada en 1904. Hoy Museo Nacional de Arte. Autor: Martín Checa-Artasu, noviembre 2018.

DEL COMPLEJO HIDROELÉCTRICO DE NECAXA AL EDIFICIO EXCELSIOR. LA OBRA DEL ARQUITECTO SILVIO CONTRI EN MÉXICO, 1892-1924

FRANCISCO JAVIER NAVARRO JIMÉNEZ

This chapter presents the life and works of the Italian architect Silvio Contri who developed professional activities in Mexico between the years 1892 and 1924. His main works were both the original project of the Hydroelectric Complex of Necaxa and the build of the Palace for the Ministry of Communications and Public Infrastructures. The chapter also shows how Silvio Contri operated among both the regime of Porfirio Díaz and the Mexican oligarchy in order to develop his work in the context of the nineteenth-century Mexico City modernization.

Introducción Silvio Contri fue un arquitecto italiano con actividad profesional en México entre los años 1892 y 1924. A lo largo de su carrera profesional Contri destacó por su talento como diseñador, constructor y gestor de proyectos de diversa índole. Fue célebre entre una clase de profesionales extranjeros que fincando o no residencia en la Ciudad de México formaron parte del artificio modernizador del régimen de Porfirio Díaz. Desde su llegada al país, la calidad de su trabajo y sus habilidades para relacionarse con la oligarquía mexicana de fin de siècle le permitieron vincularse al régimen y recibir algunos encargos edilicios, extendiendo sus actividades profesionales hasta los primeros años de los gobiernos posrevolucionarios. La arquitectura de Contri se caracterizó casi siempre por la incorporación de las formas del Renacimiento toscano, reinterpretadas y supeditadas a las modernas técnicas constructivas desarrolladas durante la segunda mitad del siglo XIX, las cuales, este arquitecto efectivamente conocía pese a no ser ingeniero. Entre sus diseños, construidos o no, encontramos ejemplos de arquitectura palaciega, infraestructuras, monumentos, edificios comerciales y residencias particulares. Sus proyectos de mayor envergadura fueron el diseño original de la Planta hidroeléctrica de Necaxa, localizada 177

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en la Sierra norte del Estado de Puebla; y el proyecto y construcción del Palacio de Comunicaciones y Obras Públicas, localizado en el Centro Histórico de la Ciudad de México. Si bien Contri tuvo actividad hasta inicios de la década de 1920, ambos proyectos representaron el inicio y la cúspide respectivamente de la carrera profesional de este arquitecto. En este capítulo reseñaremos la actividad profesional que el arquitecto Silvio Contri desarrolló en México entre los años de 1892 y 1924, año en que partió a París. Realizaremos un recorrido por sus obras y mostraremos un panorama sobre la forma en que operó en el concierto de las élites porfirianas. Además, analizaremos su paso dentro de una sociedad que transitaba de un régimen decimonónico de orden y progreso hacia la primera revolución armada del siglo XX, finalizada por el asentamiento de los primeros gobiernos posrevolucionarios de los cuales Contri recibió la nacionalidad mexicana.

Roma, Rosario y la llegada a México Silvio Contri nació el año de 1856 en el Comune de Arcidosso, Provincia de Grosseto, unos cien kilómetros al sur de la ciudad de Florencia. La madre de Contri fue Anna Crimini y su padre Giuseppe Contri.1 Muy probablemente se formó como arquitecto entre los años 1874 y 1880. Estuvo casado en Italia con la señora Niccola Cutelli con quien sostuvo un juicio civil durante todo el año de 1886 en los juzgados de la Via dei Filippini, en Roma,2 obteniendo su divorcio al año siguiente, en 1887.3 Dado que ese tipo de instancias y sus oficinas todavía no estaban centralizadas, sino que existía una en casi todas las provincias del Reino de Italia, como Grosseto, podemos inferir que Contri vivió varios años en Roma hasta 1888 cuando partió rumbo a Argentina buscando nuevas oportunidades como arquitecto. En aquel año se hizo residente en la ciudad de Rosario y en octubre del mismo obtuvo una concesión por parte de la municipalidad para la construcción de una línea de tranvía.4 Contri no desarrolló el proyecto y pocos meses después, en abril de 1889, transfirió dicha concesión a la empresa Tramways del oeste.5 Paralelamente a la concesión de los tranvías, Contri participó en 1888, junto con el ingeniero Víctor Cremona, en el concurso para el diseño y la construcción del nuevo teatro La ópera de

“Carta del 11 de mayo de 1923”. Exp. III/521.22 (73) / 355, Sección de Cancillería, Departamento diplomático, Archivo histórico de la Secretaría de Relaciones Exteriores (en adelante AHSRE). 2 “Gazzeta Ufficiale del Regno D´Italia Num. 271”, Roma, Sabato 20 novembre Anno 1886. Gazzeta StoricaRegno D´Italia (1860-1946), Archivio della Gazzetta della Repubblica Italiana. 3 Suprema Corte de Justicia de la Nación, La Suprema Corte de Justicia de la Nación en el siglo XIX, México: SCJN, 1997, p. 263. 4 Sociedad de historia de Rosario, “Transferencia de la concesión de Contri-Fundación de la Compañía Tramway del oeste”, en Revista de historia de Rosario (Rosario), Vol. 7, No. 17, 1969, p. 65. 5 Rosario de Santa Fe, Digesto municipal: Ordenanzas, decretos, acuerdos, reglamentos contratos, etc. de la Municipalidad dal Rosario de Santa Fè, Rosario: Compañia Sud-Americana de Billetes de Banco, 1890, p. 316. 1

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la ciudad de Rosario, mejor conocido como El círculo.6 El anteproyecto propuesto por ambos resultó ganador y comenzaron la construcción del recinto ese mismo año, sin embargo, por dificultades económicas y logísticas, al cabo de un año y de haber construido el primer piso, tuvieron que abandonar el proyecto definitivamente. A finales de 1889, un empresario alemán tomó el proyecto original de Contri y lo entregó al ingeniero George Goldammer, quien le realizó algunas modificaciones y concluyó la construcción del teatro.7

Fig.1. “Silvio Contri a los 67 años”. Exp. III/521.22 (73) / 355, Sección de Cancillería, Departamento diplomático, AHSRE.

Finalmente, en 1892, poco antes de partir hacia México, Silvio Contri realizó gratuitamente el diseño de una Sala-cuna Modelo para el Patronato y Asistencia de la infancia de la capital de la República, en Buenos Aires.8 Habiendo dejado el puerto de Buenos Aires, Contri llegó a México y fincó su residencia formal en la capital del país. Previendo su utilización en los propios proyectos edilicios y obedeciendo a la tradición toscana, uno de sus primeros emprendimientos al llegar fue instalar una pequeña industria para el tratamiento y confección de piezas de mármol en el Municipio de Santa María Jalapa del Marqués,

Rafael Lelpi, Rosario, del 900 a la "década infame": La avalancha inmigratoria; La ciudad del nuevo siglo, Tomo I, Argentina: Homo Sapiens, 2005, p. 61. 7 “Historia del teatro El Círculo”. [En línea] http://www.teatro-elcirculo.com.ar/apartados/historia, consultado el 10 de septiembre de 2018. 8 “Memoria del Patronato y asistencia de la infancia de la capital de la República”, Buenos Aires: Establecimiento Tipográfico El Censor, 1892, p. 300. 6

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Oaxaca.9 De hecho, una de las principales destrezas de este arquitecto fue apenas arribar a México comprender las posibilidades que ofrecía el contexto social, político y económico en el que debía insertarse. Contri, como muchos otros profesionales extranjeros de la arquitectura y la ingeniería de su tiempo en México, logró de una u otra forma incorporarse al nicho de la construcción dominado por una élite que se entusiasmaba por la arquitectura europea historicista, especialmente la de corte ecléctico, neoclásico y neogótico. Véanse casos como los del célebre ingeniero italiano Adamo Boari, diseñador del proyecto original del Teatro Nacional en 1902, el del Palacio Postal de 1901 o el del Templo Expiatorio de Guadalajara del año 1900.10 Pero también se cuentan otros profesionales como el arquitecto francés Èmile Bèrnard con el proyecto original del Palacio legislativo de 1909 (no concluido),11 o el escultor italiano Adolfo Octavio Ponzanelli quien además fundó su propio negocio de mármoles, sólo por mencionar algunos.12 A su llegada, Contri encontró un país con grandes desigualdades de clase, con una economía estable y en crecimiento y una relativa paz social impuesta por la mano autoritaria de la camarilla gobernante del general Porfirio Díaz. En aquellos años, el extenso territorio mexicano servía fundamentalmente a una economía basada en el modelo de las haciendas y, paralelamente, a otra economía mucho más liberal que funcionaba a través de la inversión extranjera dedicada a explotar las materias primas y las concesiones sobre los servicios más modernos o que requerían mayor técnica del país. En parte, debido a esas condiciones estructurales, los arquitectos, urbanistas e ingenieros extranjeros como Contri, percibieron en la Ciudad de México un importante proceso de acumulación de capital ligado a las inversiones extranjeras y al mejoramiento de las finanzas públicas del Estado que generaba grandes oportunidades para el sector de la construcción. Poco tiempo después de la llegada de Contri, el llamado grupo de “los científicos” arribó al gobierno y comenzó a dirigir la administración del régimen. Fue el lustro en el que se generaron las condiciones para el desarrollo en materia urbana, de sanidad y energía que necesitaba la cada vez más populosa Ciudad de México. No hacía muchos años atrás que la capital había estado confinada espacialmente dentro de su núcleo fundacional, enfrentándose a diversas problemáticas como la falta de agua corriente,

“Según testigos del propio Contri”, 1923. Exp. III/521.22 (73) / 355, Sección de Cancillería, Departamento diplomático, AHSRE. 10 Sobre este arquitecto italiano véanse los trabajos de Martín Checa-Artasu: “De Ferrara a la Ciudad de México pasando por Chicago: la trayectoria arquitectónica de Adamo Boari (1863-1904)”, en Biblio 3W. Revista Bibliográfica de Geografía y Ciencias Sociales (Universidad de Barcelona), Vol. XX (1111), 2015; “El neogótico y el fortalecimiento de la Iglesia en Guadalajara: El templo Expiatorio”. Estudios Jaliscienses (México), (100), 40-55, 2015); entre otros. 11 Javier Pérez y Martha Bèrnard, El sueño inconcluso de Émile Bénard y su Palacio Legislativo, hoy Monumento a la Revolución, México: Artes de México, 2009. 12 Martín Checa-Artasu, “Cuando escultura y arquitectura historicista se dan de la mano: la obra del escultor Adolfo Octavio Ponzanelli en la archidiócesis de Guadalajara”. Revista Pragma, Espacio y Comunicación Visual (México), (12) 67-82, 2014. 9

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calles remozadas, espacios públicos higiénicos y viviendas adecuadas para la creciente población que se hacinaba entre las zanjas y las acequias. 13 En concordancia con el discurso urbanístico de la modernización proyectado en los planes reguladores de ciudades como París, Barcelona, Lisboa u otras en América Latina, el Estado y la oligarquía mexicana buscaron implementar una política urbana liberal, burguesa e higienista en favor de la secularización y la modernización de la capital del país.14 Esto se logró a través de la apertura y la circulación de bienes y personas, de la expansión del mercado inmobiliario, de la modernización de los espacios centrales de la ciudad, así como con el saneamiento y la mejora de los servicios públicos.15 A ello debemos integrar el discurso esteticista del régimen y de las élites involucradas que ante todo pretendían el embellecimiento de su ciudad a través del revival de la arquitectura europea. Fueron todas las anteriores, condiciones que sin duda portaban grandes oportunidades para el sector de profesionales al que Contri se integró cuando recién arribó a México.

Los primeros proyectos El primer proyecto conocido de Silvio Contri en México fue la construcción de una casa para el señor Joaquín Casasús, perteneciente a una familia oligarca muy vinculada al régimen de Porfirio Díaz. La casa fue construida por Contri apenas llegar a México en 1892 en el número 44 de la calle de Héroes,16 en la colonia Buenavista, hoy Guerrero. Esta colonia fue una de las primeras áreas de ensanche de la ciudad donde se aplicaron los criterios del urbanismo moderno. La colonia se fraccionó sobre los terrenos que antaño habían formado parte de los pueblos de indios de Nonoalco y Los Reyes, y que durante los años de la desamortización fueron anexados a la Hacienda de Buenavista y al Rancho de Los Ángeles. El extremo sureste de los terrenos de la colonia, donde Contri construyó la casa de los Casasús, había formado parte del potrero y huerta del convento de San Fernando que a través del mismo mecanismo de desamortización pasaron a manos de fraccionadores extranjeros en la década de 1870.17 La familia Casasús tuvo que exiliarse durante la Revolución y actualmente la casa construida por Contri no existe, fue derribada, tampoco se conservan planos o fotografías de ella.

Francisco Navarro, Dejar el casco antiguo. Dos casos de modernización urbana en América Latina: Lima y la Ciudad de México, 1895-1910, Tesis de maestría, México: Centro de Investigación y Docencia Económicas, 2016, p. 75. 14 Francisco Navarro, “Urbanismo y capitalismo modernos. El binomio detrás del ensanche de Lima”, en GeocritiQ. Plataforma digital ibero-americana para la difusión del trabajo científico, (Universidad de Barcelona), (333), 2017. 15 Francisco Navarro, “Del derribo de la muralla a los tranvías electrificados: elementos para la modernización urbana de la ciudad de Lima, 1869-1910”, en Biblio3W. Revista Bibliográfica de Geografía y Ciencias Sociales (Universidad de Barcelona), vol. XXII, (1.199), 2017. 16 Carlos Tello, El exilio: un relato de familia, México: Cal y arena, 1993. 17 Dejar el casco antiguo…, p. 84. 13

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Dos años más tarde, a mediados de 1894, Contri fue encomendado como ayudante del ingeniero francés Emile de Marteau en la construcción de un nuevo muelle para el puerto de Veracruz. Según la prensa de la época, aquel proyecto se proponía ampliar y remodelar prácticamente todo el puerto. Ya desde el mes de agosto de aquel año habían comenzado a levantarse grandes expectativas sobre el proyecto, que incluían la llegada al puerto de las máquinas drenadoras francesas que estaban excavando el Canal de Panamá.18 Finalmente, el contrato de concesión otorgado por la Secretaría de Comunicaciones y Obras Públicas al señor Eugene Dutour y a la Compagnie Générale Transatlantique se rescindió de común acuerdo el 5 de octubre de 1894,19 frustrando la participación de Contri en el proyecto.

El Complejo hidroeléctrico de Necaxa Unos meses más tarde, en febrero de 1895, Silvio Contri se encontraba en la ciudad de París junto a Victor Founier y a Arnoldo Vaquié. Este último era un médico francés que como Contri también era residente en la Ciudad de México, pero desde hacía menos tiempo. Fournier en cambio era un joven ingeniero civil que se había formado en L´École Politechnique de París. Durante aquella estancia los tres acordaron emprender una pequeña sociedad dedicada a aprovechar una serie de caídas de agua en el río Necaxa, en la Sierra norte del Estado de Puebla. Vaquié fue el primero en conocer la zona y vió su potencial para establecer algún tipo de proyecto generador de energía eléctrica.20 El viaje y el acuerdo firmado en París probablemente obedecieron a la necesidad de presentar el anteproyecto ante alguna compañía u organización francesa que quisiera comprometerse a aportar capital al momento de obtener la concesión del Estado y materializar el proyecto. Un mes después, al regresar a México en marzo de aquel año, la pequeña sociedad compuesta por Contri, Vaquié y Fournier, comenzó inmediatamente los trámites para solicitar formalmente ante la Secretaría de Fomento, Colonización e Industria la concesión a nombre de Vaquié para aprovechar como fuerza motriz las caídas de agua del río Necaxa, Distrito de Huauchinango, Estado de Puebla. El objetivo en aquella primera solicitud era generar una modesta cantidad de energía eléctrica que abasteciese las inmediaciones, y, por otra parte, aprovechar las aguas para el regadío de las mismas.21 En el contrato que dicha Secretaría les otorgó tres meses después, se le exigía a la pequeña sociedad utilizar la fuerza motriz para producir energía eléctrica y transmitirla hacia la Ciudad de México, la ciudad de Pachuca y otras poblaciones con el objetivo de allí transformarla y utilizarla en fuerza motriz industrial o alumbrado “Las obras del puerto de Veracruz”, agosto 23 de 1894. Diario El Tiempo, Hemeroteca Nacional. Pablo Macedo et al., Anuario de legislación y jurisprudencia: Colección completa de decretos, circulares, acuerdos y demás disposiciones legislativas. Sección de legislación. Vol. 12, México: F. Díaz de León, 1896. 20 “Convenio traducido por Contri ante notario público en México”, 28 de mayo de 1897. Foja 149, Legajo 2, Exp. 56591, Caja 4192, Fondo: Aguas Superficiales, Archivo Histórico del Agua (en adelante AHA). 21 “Solicitud del señor Arnoldo Vaquié a la Secretaría de Fomento”, 27 de marzo de 1895. Foja 15, Legajo 1, Exp. 56591, Caja 4192, Fondo: Aguas Superficiales, AHA. 18 19

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público.22 Dichas condiciones distaban mucho de la idea planteada originalmente por los socios. Con el tiempo los tres comprobarían que la empresa en la que se estaban embarcando estaba destinada a fracasar por falta de recursos técnicos como por ejemplo la nula formación de Vaquié en el rubro, insuficiencia de los recursos monetarios y eventuales diferencias entre Contri y Vaquié. En aquella sociedad Contri fue considerado porque tenía algunos años viviendo en México y conocía bien el país. Por otra parte, se alude a que era un arquitecto competente en temas hidráulicos. Sus responsabilidades dentro del proyecto eran levantar los datos necesarios para dibujar los planos topográficos relativos a la naturaleza del terreno, al volumen y la altura de las caídas de agua. Además, debía diseñar todas las estructuras y edificaciones que formaban parte del complejo.23 A partir de que el contrato de concesión les fue otorgado, Contri contó con seis meses para realizar todos los estudios necesarios para la elaboración de los planos, perfiles, estudios de detalle y memoria descriptiva relativos a las futuras instalaciones hidráulicas y eléctricas.24 Durante aquellos meses de 1895 Contri realizó un nuevo viaje a París para presentar a la compañía inversora del capital toda la información técnica del proyecto. El propósito era obtener el visto bueno y la asesoría técnica sobre el proyecto que otorgaba la compañía a través de las principales casas constructoras de receptores hidráulicos y eléctricos franceses. Una vez hechas las modificaciones finales, Contri regresó a México y la sociedad entregó para su revisión el 26 de diciembre de 1895 el primer gran proyecto para la construcción de un complejo hidroeléctrico en México (ver figura 2).25 Este mismo constituyó el primer trabajo conocido de Silvio Contri como arquitecto, sea en Italia que en México. Si bien el proyecto de Contri nunca se concluyó, este representa el inicio de su carrera profesional en México. La memoria de los trabajos relativos al proyecto hidráulico y eléctrico de Necaxa, hecha por Contri, indicaba que el complejo hidroeléctrico estaría integrado por dos caídas de agua con sendos acueductos de arcos y mampostería (ver figura 3). Se construiría un dique curvo con una altura de 24 metros que daría lugar a un embalse con la capacidad para almacenar alrededor de 3,000,000 de metros cúbicos de agua del río Necaxa. Debajo de la presa, se excavaría un gran túnel con compuertas para la salida del excedente de agua. Los tubos que conducirían el agua hacia el bloque que alberga las turbinas serían de 1 metro de diámetro y dentro del edificio más grande de todo el complejo se instalarían 10 turbinas suizas de la marca Escher Wyss de 600hp con generadores Thury de 300hp. Además, dentro del complejo sería necesario construir una línea de ferrocarril de vía estrecha que comunicase la parte baja de las vertientes con la cúspide del embalse. “Contrato de concesión”, 26 de junio de 1895. Fojas 111 y 113, Legajo 1, Exp. 56591, Caja 4192, Fondo: Aguas Superficiales, AHA. 23 “Convenio traducido por Contri…”, Foja 149. 24 “Contrato de concesión…”, Foja 111. 25 “Escrito del señor Vaquié al secretario de fomento”, 26 de diciembre de 1895. Fojas 102-103, Legajo 1, Exp. 56591, Caja 4192, Fondo: Aguas Superficiales, AHA. 22

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Fig.2. (izquierda) Primer proyecto firmado por Silvio Contri en México: “Plano general del proyecto del río Necaxa y sus caídas”, 26 de diciembre de 1895. Foja 2, Exp. 45580, Caja 3325, Fondo: Aguas superficiales, AHA. Fig.3. (derecha) “Perfil general del Complejo Hidroeléctrico de Necaxa diseñado por Silvio Contri”, 26 de diciembre de 1895. Foja 2, Exp. 51264, Caja 3687, Fondo: Aguas superficiales, AHA.

Finalmente, Contri proyectó la construcción de edificios o casas dedicadas a la administración, el almacenaje y la vivienda de los trabajadores dedicados a la construcción y operación del proyecto.26 Entre diciembre 1895 y mayo de 1897 el proyecto original de Contri sufrió varias modificaciones y anexiones. Además, la construcción de la hidroeléctrica todavía no era un hecho y el paso del tiempo sin resultados visibles empañó las relaciones entre el arquitecto y el médico encargados de construir la primera gran obra para generar energía hidroeléctrica en México. Fueron tales los desacuerdos entre ambos, que en julio de 1897 Contri acudió dos veces a solicitar la intervención del secretario de fomento para resolver lo que el arquitecto consideraba una injusticia.27 Este alegaba que Vaquié había estado intentando hacerse de la concesión de Necaxa para sí mismo ante la Secretaría, y lo había hecho motu proprio, sin consultar ni a Contri ni a Fournier. La oficina a cargo desestimó en diciembre de ese año el reclamo de Contri por considerar que el acuerdo de sociedad al que habían llegado en París a inicios de 1895 no tenía ninguna validez para fines de la concesión que se les había otorgado28, y, además, porque toda la documentación relativa a esta se encontraba formalmente a nombre de Arnoldo Vaquié.

“Memoria de los trabajos relativos al proyecto hidráulico y eléctrico de Necaxa”, 26 de diciembre de 1895. Fojas 104-109, Fojas 102-103, Legajo 1, Exp. 56591, Caja 4192, Fondo: Aguas Superficiales, AHA. 27 “Escrito del señor Silvio Contri al secretario de fomento”, 13 de julio de 1879. Fojas 146-147, Legajo 2, Exp. 56591, Caja 4192, Fondo: Aguas Superficiales, AHA; y “Escrito del señor Silvio Contri al secretario de fomento”, 17 de julio de 1879. Foja 155, Legajo 2, Exp. 56591, Caja 4192, Fondo: Aguas Superficiales, AHA. 28 “Dictamen de la Secretaría de Fomento”, 21 de diciembre de 1897. Foja 160, Legajo 2, Exp. 56591, Caja 4192, Fondo: Aguas Superficiales, AHA. 26

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En conclusión, Contri se sintió traicionado por el médico francés cuando este faltó al acuerdo de París y lo excluyó tanto a él como a Fournier en aquel intento de enajenación, dando la impresión de haberse aprovechado del indispensable trabajo técnico que Contri realizó en México y en Francia, y sin el cual hubiese sido imposible obtener y mantener la concesión de Necaxa. A inicios de 1898, Contri abandonó la sociedad y en abril del mismo año Vaquié le anunció a la Secretaría de Fomento que el ingeniero Emile Dumont procedente de L´École Centrale de París se haría cargo de los menesteres técnicos del proyecto.29 Un mes después en París, el 17 de mayo de 1898 se constituyó la Societé du Necaxa a cargo de Vaquié.30 Esta compañía de nuevo capital francés fracasó en el proyecto y finalmente entregó la concesión en 1903 a la The Mexican Light and Power Company, de capital canadiense,31 quienes finalmente construyeron en Necaxa el más grande complejo hidroeléctrico de la época en América Latina.

El monumento funerario a José María Mata José María Mata fue un importante político y militar que vivió prácticamente todos los grandes acontecimientos nacionales del siglo XIX. En sus últimos años fue un hombre cercano al régimen, aunque en una posición de poder más bien periférica. A su muerte en 1895 se le enterró en la pequeña ciudad de Martínez de la Torre, Veracruz, de la cual era alcalde. Cuatro años después se planeó el traslado de sus restos a la Rotonda de los Hombres Ilustres ubicada dentro del Panteón de Dolores, junto a lo que hoy es la segunda sección del Bosque de Chapultepec, en la Ciudad de México. Para recibir sus restos se le encomendó a Silvio Contri el diseño y la construcción de un monumento funerario a la altura del legado de un hombre tan influyente para la vida nacional como lo había sido José María Mata. Contri comenzó su construcción a finales del año 1899. La obra tiene un relevante valor artístico y arquitectónico como se describe en su incorporación al Catálogo Nacional de Monumentos Históricos Inmuebles (ver figura 4): “Es un monumento funerario de estilo neoclásico con gran calidad artística, de tipología combinada, delimitado por una pequeña reja de herrería artística con pilares de cantería en las esquinas. La plataforma tiene cabecera central de cantería y planta cuadrada escalonada triple. La cabecera es de tipo cipo pedestal, compuesta de tres cuerpos. La base moldurada, de planta cuadrada y forma de cubo, tiene sus lados enmarcados por pilastras con fuste estriado y capitel jónico, que sostienen el arquitrabe moldurado, friso liso y cornisa dentada y decorada con ovas. Estas últimas tienen decoraciones en medio de ellas. Al frente hay un marco moldurado de bronce con “Escrito del señor Arnoldo Vaquié al secretario de fomento”, 29 de abril de 1895. Foja 162, Legajo 2, Exp. 56591, Caja 4192, Fondo: Aguas Superficiales, AHA. 30 “Registro de acta constitutiva en México”, 6 de septiembre de 1898. Foja 180, Legajo 2, Exp. 56591, Caja 4192, Fondo: Aguas Superficiales, AHA. 31 “Extracto de la concesión otorgada a la Cía. Mexicana de Luz y Fuerza Motriz”, 5 de marzo de 1921. Foja 26, Exp. 56644, Caja 4200, Fondo: Aguas superficiales, AHA. 29

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cuadros salientes en las esquinas decorados con un rosetón y ornamentaciones con roleos en la parte superior e inferior. Al centro hay una palma con hojas de laurel y una corona con moño y listón colgante en relieve; abajo, una pequeña cruz latina. El segundo cuerpo del monumento es un pedestal de planta cuadrada en cuya base se aprecian dos recuadros con una flor de bronce en relieve y un friso moldurado con una flor en relieve al centro. El frente del pedestal está decorado con una guirnalda de flores en relieve y una leyenda con letras de bronce sobrepuestas”.32

Fig.4. “Monumento funerario a José María Mata en la Rotonda de los Hombres Ilustres”. Catálogo Nacional de Monumentos Históricos Inmuebles, Centro de Documentación y Archivo Histórico del Instituto Nacional de Antropología e Historia, (en adelante CDAHINAH).

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“Ficha I-09-00099”. Catálogo Nacional de Monumentos Históricos Inmuebles, CDAHINAH.

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El busto de bronce que remata la obra de Contri le fue encargado al escultor marsellés Enrique Alciati, que había llegado a México para dictar clases en la Escuela Nacional de Bellas Artes precisamente el año de la muerte de Mata.33 El monumento fue inaugurado en marzo del año 1900 y puede ser considerada la primera obra diseñada, construida en su totalidad y todavía en pie del arquitecto Silvio Contri en México.

El Palacio de Comunicaciones y Obras Públicas A finales del siglo XIX el régimen porfirista comenzó la demolición del antiguo Teatro Nacional ubicado en el extremo oeste de la calle 5 de mayo. El propósito de estas obras era liberar y prolongar dicha calle, desde la esquina suroeste del polígono de la Catedral Metropolitana, hasta lo que sería el predio donde Adamo Boari construyó el nuevo Teatro Nacional, entre las calles del Mirador de la Alameda (ala este de la Alameda) y Santa Isabel (hoy San Juan de Letrán). A la par de esta ampliación se publicó en el año de 1901 una convocatoria al Concurso de Fachadas dirigido a los arquitectos e ingenieros de la ciudad. Este proyecto impulsado por el régimen tenía como objetivo “embellecer y modernizar el aspecto de la calle 5 de mayo” y formaba parte de los preparativos para la conmemoración del Centenario de la Independencia de México, a celebrarse en 1910.34 Aquella década podría interpretarse como la víspera constructiva de la conmemoración. El espacio de la ciudad que representa el poder, el ímpetu de modernidad y la fastuosidad de aquel régimen y de aquellas celebraciones, es precisamente el área donde se construyeron el nuevo Teatro Nacional, el Palacio Postal y la más prestigiosa de las obras de Silvio Contri: el Palacio de Comunicaciones y Obras Públicas, localizado en la antigua calle de San Andrés (hoy Tacuba), entre Puente de la Mariscala y Xicotencatl (ver figura 5). Aquel año, 1901, Silvio Contri y Manuel Marroquín y Rivera recibieron el encargo de la construcción del nuevo edificio que albergaría a la Secretaría de Comunicaciones y Obras Públicas. Por indicación de dicha secretaría el edificio tenía que construirse en la Plaza de la República, sin embargo, unos meses más tarde el lugar quedó descartado. Probablemente el gobierno de Díaz decidió dejar libre dicha plaza a sabiendas de la futura proyección del Palacio Legislativo que le fue encargada a Émile Bérnard. De esa forma el lugar determinado para la construcción del proyecto de Contri fue el predio ocupado por los hospitales de San Andrés y González Echeverría. Cabe decir que el cambio en la ubicación pudo ser la razón por la que Manuel Marroquín abandonó el proyecto y el 11 de junio de 1902 la mencionada secretaría firmó el respectivo contrato con Contri, haciéndolo responsable del diseño y construcción de toda la obra.

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Carlos Martínez, La patria en el Paseo de la Reforma, México: Fondo de Cultura Económica, 2005, p. 72. Dejar el casco antiguo…, p. 101.

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Fig.5. “Plano de localización del nuevo edificio para el Ministerio de Comunicaciones y Obras Públicas. Firmado por Silvio Contri”, enero de 1903. Planoteca del Archivo Histórico de la Ciudad de México

En octubre de ese mismo año se aprobó el proyecto general de palacio propuesto por Contri y en marzo de 1904 se estableció la Oficina Técnica que realizaría todos los estudios de detalle necesarios.35 Entre 1905 y 1906 se terminaron los trabajos de demolición de los hospitales y capillas que ocupaban el predio de San Andrés desde mediados del siglo XVII. Allí se realizó una excavación de casi 21,000 metros cúbicos y se preparó todo el terreno para la construcción de los cimientos de nuevo Palacio de Comunicaciones. Durante este periodo también se hicieron todos los preparativos para comenzar la explotación de las canteras de San Martín Xaltolcan de donde se extrajeron todas las piezas de cantera gris que se labraron para la construcción del edificio.36 Entre 1906 y 1907 se terminaron de construir todos los cimientos y la Milliken Brothers, compañía establecida en Nueva York, terminó la completa estructura de acero (ver figura 6). Además, en los talleres de labrado de cantera establecidos en la Calzada de Guadalupe se produjeron más de 300 piezas de fachada y otras casi 500 piezas como capiteles y medios capiteles de pilastras y columnas, ménsulas, ménsulas claves de los arcos, ménsulas de la cornisa principal, esquinas, festones de pilastras y modillones de cornisas, además del zócalo del basamento del edificio.37

“Memoria presentada al Congreso de la Unión por el secretario de estado y del despacho de Comunicaciones y Obras Públicas, 1904-1905”, p. 75. Acervo Histórico del Palacio de Minería, Biblioteca Ing. Antonio M. Anza (en adelante AHPM-BIAMA). 36 “Memoria presentada al Congreso de la Unión por el secretario de estado y del despacho de Comunicaciones y Obras Públicas, 1905-1906”, p. 133. AHPM-BIAMA. 37 “Memoria presentada al Congreso de la Unión por el secretario de estado y del despacho de Comunicaciones y Obras Públicas, 1906-1907”, p. 159-160. AHPM-BIAMA. 35

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Fig.6. “Estructura de acero del Palacio de Comunicaciones”, 1907. Fototeca Nacional, Instituto Nacional de Antropología e Historia (en adelante INAH)

Entre 1908 y 1910 el palacio estaba casi terminado, todos los trabajos interiores del edificio, ornamentación arquitectónica en piedra, herrería ornamental, decoración, mobiliario y detalles diversos fueron ejecutados por el despacho de arquitectos, escultores y artistas de la familia Coppedé, establecido en la ciudad de Florencia. El despacho trabajó todos los encargos a través del contrato ganado por la Fonderia del Pignone, establecida en la misma ciudad.38 Además, la misma fundidora fue la encargada de contratar y enviar a México en 1905 a un amplio grupo de canteros ornatistas italianos encargados de labrar las piezas más importantes del palacio, ellos fueron: Emilio Terzani, Ottavio Pestelli, Palmiro Cucentrenoli, Rafaello Papanti, Attilo Innocneti, Narciso Braschi, Mariano Manuelli, Ezio Bartolini, Adolfo Martelli y Rafello Ottantini.39

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Juana Gutiérrez, El Palacio de Comunicaciones, México: Azabache, 1991, p. 67. El Palacio de Comunicaciones…, p. 68-69.

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Fig.7. “Palacio de Comunicaciones”, 1920. Fototeca Nacional, INAH

Para finales de 1911 el palacio estaba prácticamente terminado y reluciente para su inauguración (ver figura 7). Uno de los grandes aciertos del proyecto de Contri fue precisamente urbanístico, remetiendo la construcción del edificio del lineamiento de la calle de Tacuba y abriendo el claro para la plaza frente a este. La operación permitió dar espacio entre las fachadas del nuevo palacio y la del Palacio de Minería, evitando una competición visual innecesaria. Además, la apertura de una plaza de estas dimensiones dentro del núcleo fundacional densificado generó un nuevo espacio público, muy amplio e iluminado permanentemente durante el día. El resultado de la decisión de Contri permite que hoy, desde este lugar, la Plaza Manuel Tolsá, sea posible observar en su conjunto el resultado del proyecto de apertura y embellecimiento de la calle 5 de mayo, contigua a Tacuba, así como los cuatro grandes palacios de la zona. Contri construyó un palacio con las formas de la arquitectura renacentista florentina: un estilo histórico que en su carácter civil encajaba muy bien con las funciones de una secretaría de estado. Además, el Renacimiento le dio al edificio un cierto carácter neutro del que Contri supo tomar lo necesario para hacer una interpretación adecuada a su época. “Resolvió la doble función del palacio: de aparato y lucimiento, por una parte, y de oficinas y servicios por otra. También dividió los espacios en relación a esa duplicidad, reservando el vestíbulo, la escalera y el piso noble sobre fachada a la representación y los otros a la función utilitaria. Mantuvo, según la vieja tradición mexicana, un patio con el objetivo de mantener iluminado el

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edificio, pero que al mismo tiempo tenían funciones de servicio, embellecido por sus fachadas de columnas, sobre el que se abren corredores”.40 Como ya hemos mencionado, el nuevo palacio debía inaugurarse entre 1910 y 1911 como parte de los festejos del Centenario de la Independencia del país. Poco antes de que esto sucediera, en mayo de ese año, Porfirio Díaz abandonó la presidencia y se exilió en París. Meses más tarde Francisco I. Madero tomó su lugar en lo que fueron los inicios de la Revolución e inauguró el flamante Palacio de Comunicaciones y Obras Públicas, obra cumbre de la carrera profesional del arquitecto Silvio Contri.

Residencias y edificios comerciales (1904-1924) Silvio Contri no se limitó a proyectar obras vinculadas al Estado o la infraestructura, también se desempeñó como constructor de residencias particulares y edificios de uso comercial. En el centro de la ciudad de México construyó un par de edificios para uso comercial y una residencia particular. En las afueras del centro, construyó otro edificio comercial y una casa ya derribada. Cabe decir que de todas estas construcciones existen muy pocas fuentes de la época que aporten información para un estudio más detallado. La primera de esas residencias fue la que en 1904 Contri construyó en la calle de Tiburcio (hoy Uruguay 49), entre Damas (hoy Bolivar) y Del Ángel (hoy Isabel la Católica). La fachada está integrada por dos cuerpos claramente diferenciados, divididos por una cornisa (ver figura 8). Hoy en día este edificio alberga oficinas de la Auditoria Superior de la Federación y forma parte del Catálogo de Monumento Histórico Inmueble del INAH 41 En la calle de Betlemitas (hoy Filomeno Mata 11), esquina con 5 de mayo, Contri construyó el primero de sus edificios para uso comercial en el centro de la ciudad. Sobre este edificio no existe información alguna que nos indique en qué año se proyectó. Sin embargo, en este lugar estuvo la sede de la “Compañía de Seguros sobre la vida New York” y la esquina del predio no existió sino hasta 1901 cuando se terminó de demoler el Teatro Nacional.42 Por otra parte, algunos detalles de la fachada concuerdan casi con exactitud con la del Palacio de Comunicaciones. Ambos edificios pueden verse desde el ángulo formado por las calles mencionadas y se encuentran separados únicamente por la estrecha prolongación de Filomeno Mata hacia la Plaza Manuel Tolsá. Es posible que, por el estilo y la localización (ver figura 9), Contri haya diseñado y construido este edificio entre los años 1902 y 1905. También es posible que el proyecto haya sido propuesto por Contri en el marco de la convocatoria al Concurso de fachadas publicado en 1901 y del cual ya hemos hablado antes.

El Palacio de Comunicaciones…, p. 20. Ficha Nacional de Catálogo de Monumento Inmueble, CDAHINAH. 42 “Plano del perímetro central de la Ciudad de México. Directorio comercial. De Julio Popper Ferry”, 1883. Litografías Debray, México. 40 41

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Actualmente este edificio forma parte del Catálogo de Monumento Histórico Inmueble del INAH.43

Fig.8. “Residencia particular diseñada y construida por el arquitecto Silvio Contri en 1904”. Fotografía: Francisco Navarro, 2016

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Ficha Nacional de Catálogo de Monumento Inmueble, CDAHINAH.

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Fig.9. “Edificio comercial diseñado y construido por el arquitecto Silvio Contri entre 1902 y 1905”. Fotografía: Francisco Navarro, 2016

El segundo edificio comercial que Contri diseño y que se construyó en el centro de la ciudad fue el conocido como “Edificio High Life” (ver figura 10) en la esquina de la calle de Gante y San Francisco (hoy Francisco I. Madero). Este proyecto le fue encomendado a Contri y al ingeniero Carlos Burgatta en 1922 para establecer allí los almacenes centrales de la marca de ropa High Life. El proyecto original fue firmado por Contri el 15 de junio de 1922 (ver figura 11) y llevado a cabo por el ingeniero Miguel Rebolledo sobre el predio donde los frailes Franciscanos construyeron la primera parroquia que hubo en la capital bajo la advocación de San José de los Naturales entre los siglos XVI y XVII.44 El edificio High Life representa la última etapa de actividad constructiva de Silvio Contri, habiendo terminado el régimen de Porfirio Díaz, pasada la Revolución y ya establecido el nuevo régimen posrevolucionario en México.

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Ficha Nacional de Catálogo de Monumento Inmueble, CDAHINAH.

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Fig.10. “Edificio High Life diseñado por el arquitecto Silvio Contri en 1922”. Fotografía: Francisco Navarro, 2016

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Fig.11. “Proyecto original del Edificio High Life diseñado por el arquitecto Silvio Contri en 1922”. Caja 107, Exp. 1 (H.9), Planos y Proyectos, 1861-1992, Planoteca del Archivo histórico de la Ciudad de México

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En las afueras del centro de la ciudad Contri también construyó otro edificio de uso comercial para las oficinas del recientemente inaugurado periódico Excelsior, que en 1917 había comenzado a funcionar como uno de los diarios más importantes de la ciudad. Una vez en funciones decidieron construir su nueva sede en la esquina de la avenida Bucareli y el Paseo de la Reforma. El proyecto le fue encargado a Contri en 1922 y terminó de construirlo en 1924. Según la Revista de revistas, en una publicación del 16 de abril de 1922, se da cuenta del inicio de la obra de construcción del edificio que albergará al diario Excelsior, único diario en América Latina en contar con un edificio propio proyectado exclusivamente para sus actividades. Además, informan que la obra le fue encargada al prestigiado arquitecto italiano Silvio Contri, constructor del famoso Palacio de Comunicaciones. Dos años más tarde, en marzo de 1924, la misma revista detalla la ceremonia de inauguración del nuevo edificio (ver figura 12).45

Fig.12. “Edificio Excelsior”, sin año. Fototeca Nacional, INAH

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Francisco Schroeder, Entorno a la Plaza y Palacio de Minería, México: UNAM, 1988, p. 62.

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A Silvio Contri se le atribuyen otras obras como una residencia privada en el número 49 de la calle de Versalles, en la antigua colonia de La Teja (hoy Juárez). La casa probablemente pertenece al mismo periodo constructivo de sus dos últimos edificios, sin embargo, esta ya no existe, fue derribada. También se le atribuye un proyecto no construido para la Capilla Votiva del Sagrado Corazón de Jesús, ubicada en el Paseo de la Reforma esquina con la calle de Génova. 46 Así mismo se le atribuye participación en el proyecto del arquitecto Antonio Rivas Mercado para la construcción de la Columna de la Independencia del Paseo de la Reforma. Excepto por el proyecto para la Capilla votiva, del que existen planos, el resto no se han podido verificar por falta de fuentes confiables.

La vuelta definitiva a París Además de su actividad edilicia, Contri se convirtió en un personaje de referencia dentro de los círculos de la colonia italiana en México, sobre todo durante el periodo porfirista. Organizaba festines en honor de los más altos funcionarios diplomáticos italianos, se codeaba con sus pares mexicanos y aparecía frecuentemente en la sección de sociales de los diarios de la época. Además, México fue el lugar donde Contri vivió con su segunda esposa, Margarita Sable, con la que se casó en 1904 en Nueva Orleáns y con la que pasó el resto de su vida. También es verdad que Contri fue un personaje con muchas dificultades en su vida personal. Cuatro años después de casarse con su segunda esposa, su exesposa se trasladó a México para interponerle un juicio civil que duró por lo menos un par de años. Durante algunos meses la prensa hizo eco de aquel juicio y Contri comenzó a tener dificultades para justificar su vida personal frente quienes le hacían encargos edilicios. Tal fue su incomodidad con lo que la prensa publicaba sobre el pleito con su exesposa, que en febrero de 1908 apenas regresar de un viaje de consultoría técnica para las obras del Palacio de Comunicaciones por Europa, escribió lo siguiente en una carta dirigida a Yves Limantour, en aquel entonces el segundo al mando del régimen de Porfirio Díaz: Durante mi estancia en aquel continente tuve noticias de los ataques que se me hicieron por la prensa de México, pero solo al llegar pude conocer la magnitud y vulgaridad de ellos, apenándome esto, no solo por la dolorosa impresión que han podido causarme en la opinión de las personas a quienes estimo y que no hayan tenido noticias fidedignas de mi vida pasada. Habiéndome usted tratado siempre con la bondadosa deferencia que tanto le agradezco, considero un deber mío hacerle conocer la absoluta honradez que ha guiado siempre todos los actos de mi vida, cuyo deber deseo vehementemente cumplir […]. 47 Jesús García y Luis Romo, La capilla votiva de la Ciudad de México: apuntes históricos, México: L.G. Romo, 1936, p. 64. 47 “Carta de Silvio Contri dirigida a Yves Limantour”, 22 de febrero de 1908. Centro de Estudios de Historia de México, Archivo CARSO. 46

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En su respuesta, Yves Limantour le indica que su confianza en él es la misma de siempre y que lo sucedido con la prensa es un asunto meramente personal que en nada afectará sobre los contratos de construcción firmados con el gobierno mexicano.48 Aún con esas dificultades morales, Contri fue un arquitecto del que la prensa y la opinión pública se expresaban muy bien. Sobre todo, su fama comenzó a crecer una vez iniciados los trabajos para la construcción del Palacio de comunicaciones. Cuando este estaba ya casi terminado y una década más tarde cuando construía los edificios comerciales y residencias, el prestigio de Contri como arquitecto era innegable. Su proximidad con el régimen y la imagen pública que la construcción del Palacio de Comunicaciones le produjo, fueron quizás elementos que orillaron a Contri a salir del país durante los años más álgidos de la Revolución. Como hemos visto, su actividad profesional volvió a dar señales a inicios de la década de 1920. Por razones desconocidas, más allá de las afectivas, Contri solicitó formalmente su naturalización y en mayo de 1923 obtuvo del presidente Álvaro Obregón la nacionalidad mexicana. Un año más tarde, al concluir su último trabajo como arquitecto en México, a la edad de 68 años partió rumbo a París donde murió el 25 de febrero de 1933 junto a su esposa.

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“Carta de Yves Limantour a Silvio Contri”, 24 de febrero de 1908. Centro de Estudios de Historia de México, Archivo CARSO. 48

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Archivos consultados Acervo Histórico del Palacio de Minería. Archivio della Gazzetta della Repubblica Italiana. Archivo Histórico del Agua. Archivo Histórico y Centro de Documentación del Instituto Nacional de Antropología e Historia. Archivo Histórico de la Ciudad de México. Archivo Histórico de la Secretaría de Relaciones Exteriores. Archivo del Centro de Estudios de Historia de México CARSO. Hemeroteca Nacional. Mapoteca Manuel Orozco y Berra.

Mérida Yucatán. Teatro José Peón Contreras. Detalle de la escalera de acceso (archivo privado)

EL TEATRO JOSÉ PEÓN CONTRERAS EN MÉRIDA YUCATÁN, OBRA DE ITALIANOS

MARCO TULIO PERAZA GUZMÁN

The José Peón Contreras theater is a landmark building from Mérida’s most important economic growth period, between the late 19th and early 20th centuries. The urban development derived from the main exporting product, the henequen, brought prosperity to the business elite and manifested itself, among other things, through the recruitment of foreign artists and artisans. This with the aim of recreating the cosmopolitan character fostered by the Porfiriato in Mexico. Seldom has a period of economic growth in Yucatan been reflected at this level in the consolidation of the architecture and the urbanism of an era, while at the same time raising interest for cultural development through public works. Beyond the initially reduced audience of the theater, which belonged to the wealthiest classes, the building led with time to a significant artistic enrichment. This resulted in a historical and cultural value that nowadays many sectors of society are able to enjoy, and which also bears the signature of the Italians that made it possible, as well as that of the offspring that some of them left in Yucatan.

La aportación de extranjeros en la obra pública de México a través de la historia ha sido, sin duda, sobresaliente y fundamental para el país, dado que han aportado lo mejor de una formación de origen por lo regular más desarrollada, por provenir de países más avanzados en sus respectivas especializaciones, enriqueciendo con ello el acervo cultural de la nación. Lo ha sido particularmente en tiempos de grandes migraciones extranjeras o de importante desarrollo económico de nuestras regiones. Ese es el caso de los arquitectos, escultores e ingenieros italianos que llegaron a Yucatán durante el periodo porfiriano, atraídos por la bonanza henequenera que prevaleció a principios del siglo XX en Yucatán y en especial en Mérida su ciudad capital.

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Es de resaltar en particular la aportación de italianos, entre otras cosas, por provenir de un país con una arraigada y milenaria cultura artística, técnica y científica que se destacó desde siempre por su aportación cultural en obras de infraestructura y equipamiento urbano particularmente orientado a las artes y la cultura mundial. Ejemplos de su herencia en la materia los hay en todo el mundo y desde luego particularmente en América Latina y México en particular. En nuestro país destaca la aportación italiana en tiempos porfirianos en que México estuvo abierto a la influencia mundial, por tratarse de un régimen que identificó el futuro progreso del país con el de las potencias más desarrolladas de occidente y su inversión y desarrollo en materia de infraestructura y equipamiento urbano de sus ciudades. Aunado a ello, la condiciones de desarrollo en que se encontraba Yucatán, a inicios del siglo pasado, fueron particularmente atractivos para la participación de profesionistas y gremios extranjeros debido a que en la región no existían escuelas o universidades locales para formar técnicos y profesionales en la construcción u oficios relacionados con la Bellas Artes, los cuales solo se podrían cursar en la ciudad capital de México en la Academia de San Carlos. Situación que se agravaba por la lejanía y falta de comunicaciones ágiles entre Yucatán y la Metrópoli del país. Motivo por lo cual existían muy pocos profesionistas relacionados con la industria de la construcción, mismos que se reducían a un puñado de hijos de hacendados formados en instituciones europeas, que muchas veces ejercían a medias su profesión por tener que hacerse cargo de los negocios familiares. (Quezada, 2011)1 Es en estas condiciones que llegan a Mérida algunos profesionistas italianos que vienen o son convocados para hacerse cargo de la construcción de edificios públicos, residencias urbanas, haciendas rurales, pasajes urbanos, frescos, esculturas y hasta escuelas de artes, entre otras iniciativas. Italianos que dejaron huella con su talento en Yucatán y que no solo heredaron obras de gran aliento e importancia técnica o artística, sino incluso nutrida descendencia que hasta ahora existe y se identifica por sus apellidos característicos (fig.1).

El contexto El período porfiriano en México se distingue en Yucatán por el desarrollo económico traducido en obra arquitectónica y urbana principalmente. El auge de la economía fincada en la producción henequenera, durante fines del siglo XIX y principios del XX, va a posibilitar el desarrollo urbano mas importante de Mérida hasta entonces. La ciudad va a experimentar un crecimiento de la industria de la construcción y la obra pública sin paralelo en su historia y se va a traducir en una renovación de infraestructuras y edificación de equipamientos urbanos de todos los géneros.

1

Quezada, Sergio, 2011, Historia breve de Yucatán…. p. 177.

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Durante este período se van a construir diversas obras de carácter público dirigidas a solventar necesidades educativas, de salud, abasto, recreación y administración pública a través de los conjuntos escolares en tres barrios históricos.

Fig.1. Anuncio de oferta de servicios del Taller de Escultura del italiano Miguel Giacomino en Mérida. Yucatán.

El conjunto urbano del Parque de La Paz que integrará al Hospital O Horán, el Asilo Ayala, la Penitenciaría Benito Juárez y el parque recreativo el Centenario, así como obras emblemáticas como el mercado público Lucas de Gálvez, el Palacio Federal y de Comunicaciones, el Palacio de Gobierno o el teatro Peón Contreras. Diversas obras públicas a las que se unieron otras de ornato y arbolado urbano con la construcción de parques en las diversas plazuelas de los barrios y la Plaza Principal, así como la pavimentación de calles y alumbrado público en el centro de la ciudad entre lo mas representativo. (Vega, 2012)2 Lo mismo va a pasar con inversiones privadas desarrolladas con capital de los grandes hacendados que harán posible la construcción de grandes caserones en el centro de la ciudad y los centros de los barrios aledaños, así como la creación del Paseo de Montejo que se edificará con grandes mansiones de tipología francesa, italiana, inglesa o española, principalmente. Período que culminará con la densificación del territorio de la traza central y la construcción en piedra de la mayor parte del ámbito barrial, llevada a cabo en gran parte por sectores medios. Modificando el paisaje semirural que les distinguió durante el siglo XIX, convirtiéndolos en territorios netamente urbanizados, que incluso dieron pie a las primeras colonias aledañas.

Vega González, Antonio Rubén, 2012, La industria de la construcción en Yucatán: su origen y repercusión en la arquitectura…., p. 312. 2

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Es en este contexto de auge constructivo que se gesta la transformación del ámbito cercano de la Plaza Principal de Mérida que, a raíz de la creación del conjunto porfiriano que rodea al parque de La Paz y el Paseo de Montejo, orientará la mayor parte de la inversión hacia el poniente y el norte de Mérida y por consiguiente a las calles principales que conducen hacia dichos destinos: la calle 59 y calle 60 respectivamente. Es precisamente esta última donde se elegirá construir la obra más importante de naturaleza cultural del periodo porfiriano que reemplazará al antiguo Teatro San Carlos. A tan solo una cuadra del centro del barrio de Santa Lucía, antigua sede del emplazamiento de habitantes de raza negroide y del cementerio colonial de la ciudad y convertido para entonces en la plazuela de los Héroes de donde partía un corredor urbano que unía con el barrio de Santa Ana y el Paseo de Montejo, se ubicará el Teatro Peón Contreras, en memoria al más importante dramaturgo de Yucatán, para entonces todavía vivo. (Orosa,1997)3 (Fig.2).

Fig.2. Busto del dramaturgo José Peón Contreras esculpido por el italiano E. A. Riati, exhibido en la loggia de la fachada poniente del teatro que lleva su nombre.

3

Orosa Díaz, Jaime, 1997, Historia de Yucatán…. p. 210.

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Los antecedentes El lugar que albergaría al Teatro Peón Contreras perteneció a la Compañía de Jesús que llegó a Yucatán en 1618, siendo una Orden religiosa del clero Regular fundada por San Ignacio de Loyola en 1540 y que se caracterizó por dedicarse a la educación. Su establecimiento en la localidad se debe a un generoso legado del Capitán Martín de Palomar, quien donó el terreno y veinte mil pesos para que de sus réditos se sustentasen los sacerdotes y se edificaran sus instalaciones. El edificio fue denominado San Francisco Xavier. (Ancona, 1991)4 En 1634 contaba con varias habitaciones aunque el conjunto aún es pequeño según los testimonios. La mayor parte del edificio se construye a mediados del siglo XVII y el templo del Jesús a fines de ese mismo siglo, ampliándose en 1711 con la Sala de Generales y la capilla de Guadalupe a fines del XVIII. La edificación tendrá una extensión durante estas mismas fechas en la manzana de enfrente donde funcionará el Colegio de San Pedro. Mismo que fue sede del Seminario Conciliar en 1751. Este edificio estuvo conectado mediante un puente de madera con el de Francisco Xavier, manteniendo una comunicación directa que permitía pasar de uno a otro por encima de la calle 60. (Peón, 2008)5 A partir de la expulsión de los jesuitas en 1767 de los territorios de la Corona española, el edificio de Francisco Xavier es donado por Carlos III para el hospicio de San Carlos, pero al no consolidarse como tal, a fines del siglo XVIII el Gobernador y Capitán General, D. Arturo O Neill, lo pone a la venta fraccionando la propiedad, demoliéndose parte del edificio en 1820, año en que fue abierta la calle del Cabo Piña, el hoy llamado Callejón del Congreso, conocido así porque en su costado se establece el Congreso del Estado en la antigua Sala de Generales, la sacristía y piezas adyacentes del ex convento. (Cámara, 1946)6 Durante el gobierno de D. Benito Pérez Valdelomar , en 1806, los empresarios Joaquín de Quijano y Pedro José Guzmán adquieren la parte norte del extinto convento y construyen el Coliseo San Carlos con techo de palma con ayuda del arquitecto José del Canto, y aunque en 1808 se sustituye la techumbre con rollizo y entortado, un incendio lo arruina en la década siguiente. (Peniche Ponce, 2008)7 (fig.3). En 1831 adquiere el inmueble el empresario D. Ignacio Quijano y reconstruye el teatro con auxilio del arquitecto guatemalteco Manuel Cea Gómez. Pasando en 1834 a manos de D. Pedro Casares quien lo retuvo 26 años, hasta que en 1861 una nueva sociedad encabezada por D. Antonio García Rejón, Francisco Guardamino, Antonino Bolio y Francisco Zavala lo adquieren hasta 1877, en que dando fin a la primera etapa,

Ancona Mena, Raúl, 1991, “Arquitectura jesuítica en Yucatán”, Cuadernos de Arquitectura de Yucatán n.4, tomado de Cogolludo López de, Diego, Historia de Yucatán, Comisión de Historia de Campeche,…. p. 379. 5 Peón Ancona, Juan Francisco, 2008, “Viaje en el recuerdo” en Peniche Ponce Carlos, ed. Teatro Peón Contreras, biografía de un monumento,…. p. 38. 6 Cámara Zavala, Gonzalo, 1946, Historia del Teatro Peón Contreras…., p. 18. 7 Peniche Ponce, Carlos, 2008, “Mirada en el tiempo”, en Peniche Ponce Carlos, ed. Teatro Peón Contreras, biografía de un monumento,….p. 19. 4

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queda como único propietario el Sr. Bolio y cambia el nombre del teatro con su apellido que, sin embargo, solo duraría un año. (Peniche, Ponce 2008)8 En 1878 adquirido el inmueble en única propiedad por el hacendado y ex alcalde de Mérida en tres ocasiones, D. Francisco Zavala, será bautizado con el nombre del dramaturgo yucateco José Peón Contreras, funcionando ininterrumpidamente como teatro de la ciudad, hasta 1897 en que es adquirido por la Empresa Teatral de Mérida encabezada por D. Augusto L. Peón, D. Emilio García Fajardo y D. Gonzalo Cámara Zavala principalmente, quienes optaron por demoler el antiguo inmueble para construir un nuevo teatro a tono con los nuevos tiempos. Esta fue la empresa que inició la construcción del nuevo teatro José Peón Contreras, pero no la terminó debido a que entró en quiebra. Siendo vendida en 1906 a la Sociedad Regil, Portuondo y Compañía, formada por D. Aurelio Portuondo y Barceló y los hermanos Rafael y Alonso de Regil Casares, misma empresa que llevaría a cabo la construcción definitiva del teatro culminándola en 1908. (Peón, 2008)9 (fig.4).

Fig.3. Vista del teatro San Carlos, antecedente del Peón Contreras, sobre la calle 60 en Mérida, Yucatán

8 9

Peniche Ponce, Carlos, 2008, “Memoria y Trascendencia, op. cit., p. 19. Peón Ancona, Juan Francisco, 2008, “Viaje en el recuerdo”, op. cit. p. 52.

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Fig.4. Vista general del Teatro José Peón Contreras recién construido a principios del siglo XX

El teatro funcionó como tal hasta 1946, debido a un decaimiento de las artes teatrales en el estado, siendo destinado y adaptado como cinema, mismo que proyectó películas hasta 1974, en que fue cerrado. El año siguiente el Lic. Rafael de Regil Espinosa, administrador de la sociedad Teatro peón Contreras S.A., vende el inmueble a la familia del ramo hotelero y turístico Barbachano Peón-Gómez Rul en aproximadamente 900 mil pesos. Después de un periodo de abandono y deterioro, fue declarado en 1977 monumento artístico por el Instituto Nacional de Bellas Artes, siendo expropiado en 1979, por causas de utilidad pública. Culminando su restauración en 1981 y reiniciando sus actividades como principal teatro de la ciudad.

Los constructores italianos La construcción del teatro Peón Contreras pasó por muchos contratiempos financieros y también cambios de dirección en su diseño, planeamiento y ejecución. Fueron muchos los arquitectos, escultores, pintores y artesanos que colaboraron en su edificación, pero los autores más relevantes tuvieron una cosa en común: fueron italianos. El carácter de la obra tendría incuestionablemente esta factura desde el principio hasta su terminación que duró prácticamente ocho años y contrastaría notablemente con el estilo y la tipología de otras obras previas relevantes en la ciudad.

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La búsqueda del arquitecto que diseñara la obra implicó la consideración de autores que habían construido teatros como el de Guadalajara, Guanajuato, Querétaro y San Luis Potosí, recién construidos, sin embargo, tratando de contactar alguno de renombre, según el escritor Renán Irigoyen, un colaborador de los empresarios de apellido Roncoroni, contactó al arquitecto napolitano Alfonso Cardone para encargarle el proyecto, sin embargo, al parecer, no lo envió y Enrico Deserti enterado por un paisano italiano de apellido Moriconi, es el que se presenta en Mérida con un proyecto para el teatro. Paradójicamente el proyecto no era suyo, sino del también italiano Pio Piacentini, cuyos planos presentó a los promotores acompañado de dos bocetos para el telón de boca y el interior de la cúpula de la sala del pintor Augusto Borzacchini. (Irigoyen, 1990)10 Enrico Deserti era un profesional arriesgado y sumamente hábil como emprendedor y promotor, lo cual demostró al participar en otras edificaciones del Paseo de Montejo durante la construcción del teatro. Las casas de varios hacendados de gran alcurnia y fortuna fueron diseñadas y construidas bajo su supervisión como lo fueron las ubicadas en el Paseo de Montejo: el Palacio Cantón del Gobernador D. Francisco G. Cantón Rosado, en colaboración con el Ing. Manuel G. Cantón; Villa Beatriz de D. Aurelio Portuondo; las llamadas Casas Cámara de los hermanos Cámara Zavala y la de D. Pedro M. De Regil. En el centro de Mérida, la casa de la hija del Gobernador D. Olegario Molina Solís y hogar del matrimonio Molina-Zapata frente al parque de La Mejorada y la de D. Enrique Cámara Zavala en la calle 61 X 64 y 66, así como en la hacienda de Tekik de Regil. La propuesta de Deserti fue claramente un proyecto de clara influencia europea, a pesar de la moda de edificios de corte neoclásico norteamericano edificados previamente en la ciudad, como el Olimpo y los nuevos teatros existentes en otras ciudades del país. La propuesta es aceptada entusiastamente por el entonces presidente de la Empresa Teatral de Mérida D. Augusto L. Peón por 800,000 francos, con un plazo de 4 años, dando inicio la demolición del antiguo inmueble para dar paso al nuevo edificio el 5 de marzo de 1900. Esto a pesar de que no estuvieron presentes algunos de los miembros del consejo de la empresa como D. Rafael Peón Losa y D. Gonzalo Cámara Zavala, lo cual después traería consecuencias para el financiamiento de la obra, debido a que subió el presupuesto a mas de 1 millón de pesos, quedando suspendida a dos años de iniciarse. (Peón, 2008)11 (fig.5). Tras negársele las cantidades exigidas y sin esperar la rescisión del contrato con la empresa, Deserti se marcha de Yucatán sin entregar los planos del proyecto. Las obras estuvieron suspendidas otros dos años, sin que pudiera inaugurarla Porfirio Díaz en su visita a Yucatán en 1906 como se había planeado. Hay evidencias en los periódicos y revistas de la época del desagrado de la sociedad emeritense por las obras sin terminar y la mala impresión que causó la estructura desnuda durante tanto tiempo.

10 11

Irigoyen, Renán, 1990, Crónicas de Mérida….p. 144. Peón Ancona, Juan Francisco, 2008, “Viaje en el recuerdo”…op cit., p. 51.

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Fig.5. Proceso de construcción del Teatro José Peón Contreras

Como ya se anticipó, una nueva sociedad retoma la construcción del Teatro Peón Contreras, la cual es encabezada por D. Aurelio Portuondo, hacendado de origen cubano y los hermanos de Regil Casares. Para ello contratan al arquitecto Nicolás Allegretti, a quien contactan en Nueva York a través de otros yucatecos. Con él trabajaría también el arquitecto y escultor Alfonso Cardone, quien también había trabajado con Deserti en la casona del Gral. Francisco G. Cantón y la hacienda de Tekik

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de Regil que él concluye. (González, 2011)12 Al respecto, el mismo Portuondo, años más tarde, informa desde la Habana los pormenores a D. Gonzalo Cámara Zavala, que escribió la historia del Teatro: [...] El problema de la desaparición absoluta de los planos primitivos, que constituían nuestra más honda preocupación, lo pude resolver gracias a que en aquellos días llegó a Mérida, seguramente atraído por la noticia de que se reanudaba la construcción del Peón Contreras, un arquitecto y hábil dibujante italiano llamado Nicolás Allegretti que conjuntamente con el Sr. Alfonso Cardone, me ayudó a darle forma viable a lo que aún faltaba por construir en el interior del teatro. Allegretti hizo nuevos planos, tanto del interior como del escenario y sus complicadas instalaciones, y así pudimos continuar los trabajos sin grandes dificultades. (Peniche Barrera, 2008)

En esa misma misiva, Portuondo detalla la aportación específica de los constructores. De Alfonso Cardone menciona que las columnas laterales de orden corintio que luce el teatro son diseñadas y construidas por él, lo mismo que gran parte de los trabajos de adorno y decoración de los distintas áreas y en particular del foyer, del cual dice sentirse particularmente orgulloso. No hay duda que la participación de Cardone facilitó la recontratación de los artesanos especializados que se habían diseminado con la interrupción del teatro, dado que muchos de ellos seguían trabajando con él en otras obras en las que colaboró con Deserti. Otro tanto ayudó que para entonces, incluso, otros artesanos ya habían establecido sus propios talleres de escultura y marmolería en la ciudad. El maestro Cardone terminó viviendo en Yucatán e incluso fundó la escuela de Bellas Artes del estado en 1916 junto con los integrantes del Ateneo Peninsular, siendo su primer Director incluso cuando esta pasó a formar parte del Instituto Literario, después de la Universidad Nacional del Sureste en 1922 y cuando esta escuela pasó al Palacio Cantón en 1932, donde dio clases de modelado y escultura. (González, 2011)13 (fig.6) Respecto a la decoración y adornos en yeso menciona a dos italianos, uno de apellido Barsanti y a Fernando Cerisola como sus autores, junto a algunas de las escaleras interiores. Se afirma que este último también tuvo a su cargo la fachada del teatro. Portuondo menciona también a los marmolistas Almo Strenta y Leopoldo Tomassi que se encargaron de la gran escalera de la entrada, su balaustrada, así como de trabajos en el vestíbulo y los salones laterales. Tomassi incluso se quedó a radicar y fue cabeza de una familia de escultores que nacerían en Mérida. Otros italianos mencionados en su misiva fueron Benedetto Barone, que tuvo a su cargo la albañilería en general y José Carlevaris que se encargó de la instalación sanitaria y de quien se dice, incluso, que costeó el pedestal del busto del dramaturgo José Peón Contreras ubicado en el balcón del teatro. (Peón, 2008)14

González Rodríguez, Blanca, 2011, El palacio del general Cantón,…. p. 67. González Rodríguez, Blanca, ídem, p. 128. 14 Peón Ancona, Juan Francisco, op. it. p. 54 12 13

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Fig.6. Alfonso Cardone, arquitecto y escultor, personaje clave en la edificación del Teatro José Peón Contreras.

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El empresario particularmente elogia al arquitecto Nicolás Allegretti del que reconoce la autoría de los planos de la renovación del inmueble que sustituyeron a los de Deserti, así como la autoría de la pintura interior de la cúpula de la sala principal del teatro. Una vez terminado el Peón Contreras, no se tiene noticias de su permanencia en Mérida, al parecer regresó a Italia. Entre otros destacados artesanos italianos participantes destacan el escultor Michelle Giacomino, originario de Potenza y egresado de la Academia de Bellas Artes de Nápoles. Tuvo una gran relevancia local, lo cual se prueba con la autoría de efigies de los obispos Rodríguez de la Gala y Carrillo y Ancona en la Catedral de Mérida y de los bustos de los gobernadores de Yucatán D. Olegario Molina y del Gral. Francisco G. Cantón, incluyendo el decorado del Palacio Cantón en el Paseo de Montejo, residencia de este último. Finalmente se trasladó a Monterrey donde tuvo mucho éxito. Otro italiano relevante que intervino en el teatro es el autor del busto de bronce de José Peón Contreras, ubicado en el balcón central del teatro, el escultor E. A. Riati quien trabajó en varias esculturas para el Palacio de Bellas Artes de la Ciudad de México. Otros italianos que trabajaron en Yucatán durante este período fueron el Arquitecto Felix Ravinetti y el Ingeniero Arquitecto Eugenio Aureli. (Vega, 2012)15 No cabe duda acerca de la importancia de la contribución de los constructores italianos a la obra del teatro José Peón Contreras y muchas otras, en particular residencias en Mérida y haciendas de Yucatán, las cuales se distinguen por sus peculiares destrezas expresadas en estilos y caracteres propios y de gran relevancia estética cultivados en su natal Italia. Cuna de una tradición europea y propia a la vez en materia artística, que se distinguió siempre del resto de las otras escuelas y corrientes artísticas de los otros países del viejo continente. (fig.7)

El teatro La arquitectura del teatro José Peón Contreras corresponde al auge del romanticismo a nivel mundial, desde el siglo XVIII, del cual derivan varias corrientes estéticas que privilegian el sentido del lugar y la época, como recursos nostálgicos de la historia y, a la vez, modernos al reciclarlos y darles nuevo aliento. El historicismo académico se constituyó con corrientes de vanguardia arquitectónica que propusieron diversas propuestas que nacen con el neoclasicismo pero que variarán con el tiempo en un sinnúmero de soluciones según el contexto y la época. En cada país tendrá expresiones propias que se generalizarán en el mundo según el carácter cosmopolita o localista de la cultura de la cual se trate y estarán muy influidas por una subjetividad progresiva. (Putz, 1997)16 Para fines del XIX y principios del XX en México, existirán revivals derivados de influencias norteamericanas, francesas, inglesas, españolas e italianas principalmente.

Vega González Rubén Antonio, La industria de la construcción en Yucatán…op. cit. pp. 290-293 Putz Peter, 2000, en “Historia del pensamiento de la edad moderna; desde el renacimiento al romanticismo” en Neoclasicismo y romanticismo….pp. 6-13. 15 16

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Fig.7. Promotores y constructores del Teatro José Peón Contreras (de pie de izq. a der.): Benedicto Barone, contratista de albañilería, pisos y pintura. José Carlevaris, contratista de instalación sanitaria, herrería y mecánica. Alfonso Cardone, contratista, constructor y decorador. Almo Strenta, contratista de mármol y escalera. (Sentados de izq. a der.): José Cañellas, constructor del escenario, pintor escenógrafo y director de carpintería. Juan de Arrigunaga, contador de la compañía propietaria del teatro. Aurelio Portuondo, gerente de la compañía y uno de los propietarios del teatro. Alfredo Lobato, inspector técnico. Leopoldo Tomassi, encargado de mármoles y escalera. También participaron los italianos Nicolás Allegretti, autor de los planos del teatro y pintura de la cúpula y Fernando Cericola, contratista de la fachada

Durante el Porfirismo la mezcla e influencia entre ellas dará pie al denominado eclecticismo que retoma influencias diversas, articulándolas en un solo discurso estético plural pero también característico que se diferenciará principalmente por la ligereza o pesadez de sus proporciones, la horizontalidad o verticalidad preponderante o la rectitud o curvatura de sus formas, asociadas al manejo de la relación entre vanos y macizos en sus puertas, ventanas o aberturas. En Mérida, habrá expresiones diversas que se aplicarán según se trate de edificios públicos y privados, pero también el género y la afinidad cultural cosmopolita con los países europeos prevalecientes y norteamérica.

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Comparado con el teatro de Bellas Artes u otros teatros de grandes ciudades mexicanas como Guadalajara, el teatro Peón Contreras resulta de menores dimensiones, pero si se le compara con el que tuvieron, durante el período porfiriano, otras ciudades provincia de tamaño similar a Mérida, resulta de tamaño intermedio. Como se puede constatar, por ejemplo, con los teatros de Guanajuato, San Luis Potosí o Oaxaca. La magnitud del teatro, sin embargo, se restringe al no tener, como en otros casos, una perspectiva amplia para contemplarse, dado que no posee una plaza frontal o estar rodeado de espacios abiertos. Su ubicación alineada a la calle y tener enfrente un edificio de similares proporciones como lo fue el Instituto literario, hoy Universidad Autónoma de Yucatán, limitó su lucimiento y escala como monumento. La ubicación, proporción y escala del Peón Contreras la define la intervención previa realizada al conjunto del convento de los jesuitas consistente en seccionar en dos partes el terreno original. La creación de un callejón, que después se le denominó “Callejón del Congreso”, por albergar la sede del poder legislativo durante varios años en la originaria Sala de los Generales, sirvió para crear un frente a la mencionada sede del Congreso del Estado y otra a la nueva manzana de enfrente que albergaría al antiguo Teatro Bolio que le antecedió y Hotel Central que complementaría junto con una academia, el terreno del nuevo teatro. En estas condiciones la manzana seccionada del conjunto jesuita albergaría en su mayor parte el volumen prismático del edificio. El conjunto teatral está resuelto bajo principios compositivos que en su momento le denominaron estilo “Renacimiento” los autores, haciendo referencia al manejo de elementos grecolatinos reinterpretados e integrados a otras soluciones eclécticas mas modernas y elegantes a la manera del llamado Palladismo, que Andrea Palladio puso en boga durante ese periodo y que se caracterizaron por la sencillez y equilibrio, basándose en la aplicación de una estricta simetría y un sistema lógico de proporciones. (Engel, 1997)17 La solución en este caso se aleja de la característica arquitectura norteamericana que, en Mérida, se distingue por una influencia neoclásica, adusta, ligera y sobria en acabados y dura apariencia clasicista norteamericana, acercandose más a la más exuberante, pesada y exquisita influencia de índole francesa en sus formas. (Espadas, 1996)18 La solución volumétrica se da como en casi toda la arquitectura colonial en Mérida en forma de taza y plato. Es decir, con un cuerpo bajo que sostiene a otro más alto que se evidencian como dos partes complementarias. Lo que le proporciona estabilidad y grandeza, dado que transmite firmeza y equilibrio al volumen, proporcionando mayor monumentalidad y jerarquía al conjunto. Para subrayar esto, se añade una solución de macizo sobre vano en la planta baja a través de intercalar 5 pequeñas aberturas en forma de puertas sobre un muro almohadillado que refuerza la pesantez del cuerpo sólido en la fachada y sus frentes laterales. Esta sensación de estabilidad se refuerza

Engel Ute., 2000, “La arquitectura inglesa en el neoclasicismo y el romanticismo” en Neoclasicismo y romanticismo... p. 15. 18 Espadas Medina, Aercel, 1996, “El diseño arquitectónico del Olimpo: expresión del clasicismo norteamericano” .…p. 49 17

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con una plataforma con escalinatas que crea una propia acera superpuesta a la de la calle. (fig.8) La planta alta, por el contrario, se resuelve en la fachada principal con un vano que proporciona transparencia en forma de terraza sostenido con columnas corintias y muretes intercalados que permite una visual abierta, desde una primera galería, hacia el poniente norte y sur. Asímismo se adopta una solución simétrica respecto al eje central, adaptando dos arcos de medio punto con pilastras en los extremos y frontones curvos, que contrastan con vanos adintelados en el medio, dando la impresión de ligereza, horizontalidad y elegancia.

Fig.8. Escalera imperial del vestíbulo principal del Teatro José Peón Contreras

El ornamento de la fachada sirve para reforzar la sensación de horizontalidad con las cornisas que corren en la parte superior de ambos cuerpos para coronarlos y delimitar sus alturas respectivas. Al respecto Pablo Chico opina: [...] En los cuatro libros de la arquitectura de Andrea Palladio, encontramos un ejemplo de cómo los tratados de arquitectura dan a la planta baja el carácter de basamento para mayor realce de la segunda planta, a partir del empleo de almohadillado rústico y con el predominio de los macizos. (Chico, 2008)19 Chico Ponce de León, Pablo, 2008, “La ciudad pide un teatro”, en Peniche Ponce, Carlos, Ed.,El teatro Peón Contreras…op. cit., p. 90. 19

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En la parte superior, la cornisa superior se adereza con un arquitrabe con grifos y metopas estilizadas y un entablamento superior con mascarones y guirnaldas que corona con pequeñas cresterías en los extremos. Mismo que permite elevar la altura de la fachada y a la vez proporcionar un coronamiento superior a todo lo largo del frente. Existe un segundo cuerpo posterior coronado con la cúpula de la sala principal que sobresale al resto del edificio, aunque no se percibe por los extremos ni el frente por la escasa anchura de las calles que lo bordean. El interior del edificio se resuelve a partir de un gran vestíbulo principal o foyer que corre a casi a todo lo largo del frente, a excepción de los extremos que forman parte de una galería de espacios que circundan al espacio central del conjunto y que sirven para albergar taquillas, oficinas, guardarropas, restaurant y galerías destinadas a diversas actividades culturales. Al centro del vestíbulo se resuelve una gran escalinata de corte imperial bifurcada en tres tramos de cada lado, bajo un cubo de escalera que la alberga con sanitarios bajo las escalinatas. En la planta alta del lado poniente se desarrolla una gran loggia con pórtico y columnas jónicas rematadas con entablamento decorado con mascarones y guirnaldas, destinada a los entreactos, con vista al poniente, sur y norte (fig.9).

Fig.9. Proscenio del Teatro José Peón Contreras en sus inicios

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Del lado oriente a medio nivel se encuentra la sala de espectadores que se divide en áreas de luneta para 306 personas, plateas para 120 y palcos divididos en 4 niveles: 120 asientos en el primer nivel, 138 en el segundo y 108 en el tercero, así como proscenio, anfiteatro. Anexos a los pasillos que circundan a los palcos, se hallan los servicios sanitarios y sala de fumar. El escenario esta bordeado a los lados por áreas para camerinos para actores, bodegas, vestuarios, servicios sanitarios, talleres, casa de máquinas, subestación y patrio de servicio. Posee también un foso para la orquesta, zona de bastidores almacén y foso de escenario. La bóveda del teatro es el elemento central de la sala de espectadores. Como ya anticipamos, posee un mural circular realizado por Nicolás Allegretti, inspirado en escenas celestiales neobarrocas relacionadas con el dios Apolo, musas con guirnaldas y ángeles con arpas que danzan alrededor del centro, mismo que es rematado por un gran candil de cristales de más de 650 kgs.

El significado urbano El teatro José Peón Contreras es un elemento icónico para la ciudad de Mérida porque representa uno de los períodos mas relucientes de desarrollo económico y cultural de su historia. Ha sido un digno y consolador resultado de la oprobiosa pérdida del convento colonial de la orden del Jesús y continuador, en lo que cabe, de su misión educativa a través de la formación cultural de generaciones enteras, en materia teatral, a través de su actividad accidentada pero continúa y casi heroica a lo largo de más de una centuria. Su presencia urbana ha contribuido a una calidad paisajística que ha reforzado un corredor cultural que, junto con la Universidad, permitió dar relevancia y fomento a una gran cantidad de actividades vinculadas a la vida social y lúdica de la que se goza hoy día el sector comprendido entre la Plaza Grande, el parque Hidalgo, la plaza de Santa Lucía y la de Santa Ana. Vocación urbana cultural y recreativa que ha convertido a este eje en el más representativo y turístico del centro histórico de Mérida. Su operación ha permitido dotar a la ciudad de un espacio indispensable para las artes escénicas y eventos de la más variada naturaleza. Por su escenario han pasado, además de un sinnúmero de funciones teatrales, informes de gobierno, conferencias literarias y científicas, presentaciones de libros simposios académicos, conciertos de sinfónicas, de ballet o cantautores, óperas, ceremonias diversas y espectáculos de diverso género, independientemente de su carácter internacional, nacional o local (fig.10). Su presencia en el ámbito urbano destaca por constituir el ágora cultural por excelencia y por permitir llevar las más diversas expresiones culturales a un incontable número de espectadores durante más de 100 años de vida útil. Ha sido un elemento determinante también para la democratización y difusión de la cultura en Yucatán, a la par de constituirse en un símbolo de la libertad creativa y la difusión artística en el estado.

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MARCO TULIO PERAZA GUZMÁN

Fig.10. Vista general del Teatro José Peón Contreras durante una función

Ya sea como negocio y empresa privada o como instrumento público, orientado a las artes escénicas, el teatro José Peón Contreras ha jugado un papel determinante en el desarrollo y promoción de la cultura en nuestro estado, papel que, por su duración y relevancia, es comparable con el de cualquier institución de educación y cultura local. Como arquitectura representa el primer inmueble del siglo XX en merecer ser declarado patrimonio artístico en Yucatán, debido a su carácter estético y arquitectónico. Al margen de su contribución urbana, a través de la diversificación tipológica, carácter y monumentalidad, que aporta al patrimonio del centro histórico de Mérida. Valor arquitectónico sustentado, en gran medida, por la creatividad y destreza de los constructores italianos que aportaron su ingenio y habilidades en las diferentes dimensiones que, como arquitectura, posee el inmueble. Dejando una impronta no solo de una época de influencia artística cosmopolita del arte italiano en Yucatán, sino también de su aportación que como ciudadanos y personas dejaron a través de su descendencia en nuestra tierra, contribuyendo con ello a su engrandecimiento y enriquecimiento cultural hasta nuestros días.

EL TEATRO JOSÉ PEÓN CONTRERAS EN MÉRIDA YUCATÁN, OBRA DE ITALIANOS

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Enzo Levi (1914-1993)

ENZO LEVI Y EL NUDO GORDIANO LILIANA LÓPEZ LEVI

Enzo Levi was born in Turin, Italy, 1914, and died in Jiutepec, México, in 1993. He was part of a liberal piedmontese Jewish family. He married Nadia Levi in 1937 and in 1939 he was forced to leave Italy with this wife, due to racial laws. They first went to Bolivia and then to Mexico where they spent the rest of their life. He was a family man and kept strong ties, both with his native country and the one where he spent most of his life. They had three daughters and six grandchildren. He worked in hydraulics, doing research, constructing dams, building models, inventing solutions and writing. His most important book narrated history of water according to science. He described himself as a mathematician among engineers, but he also had multiple interests in the humanistic area, specially history and literature.

Introducción Hace mucho, mucho tiempo existió en Frigia un nudo. Se le conoce como el nudo gordiano. El oráculo predijo que la persona que lograra desatarlo sería el gran señor de Asia. Muchos hombres trataron de enfrentarse al reto: caballeros, campesinos, reyes, viajeros, todos trataban y nadie podía. Hasta que llegó un tal Alejandro Magno, examinó el nudo; sacó su espada y… ¡Zaz! Lo cortó. -¿Qué significa eso? –le pregunté a Enzo cuando me contó esa historia. -Que siempre hay que ver las cosas desde otra perspectiva - me dijo- que siempre hay una solución radical. La idea de buscar una solución radical y de ver las cosas desde un punto de vista diferente me la repitió varias veces en la vida. También me hacía apreciar la forma más simple de abordar, resolver y representar el mundo: un texto con palabras elocuentes, un dibujo con pocos trazos, un problema matemático con una respuesta sencilla. Lo simple era siempre lo mejor. Enzo Raffaele Levi nació en Torino, Italia, el 9 de octubre de 1914, en el seno de una familia judía piemontesa, liberal y emancipada. Fue hijo de Decio Vittorio Levi y de Amalia Vittorina Lattes; tuvo un hermano menor llamado Gino Alfredo. En 1937 se casó con Nadia Levi y al poco tiempo ambos fueron a buscar suerte en Bolivia. Ahí 221

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nacieron sus tres hijas: Silvana, Fiorella y Clara. Diez años más tarde migraron a México donde vivieron el resto de su vida. Ahí trabajó en obras hidráulicas del gobierno, fue profesor e investigador universitario. Tuvieron seis nietos y, así como se apasionó profundamente en su carrera profesional, le dedicó mucho tiempo a su familia y a sus múltiples intereses personales. En la universidad de Torino estudió matemáticas, sin embargo, desarrolló su vida profesional como ingeniero y se especializó en hidráulica. Fue fundador del Instituto de Ingeniería de la Universidad Nacional Autónoma de México, de donde fue también profesor emérito y Premio Universidad Nacional. A nivel internacional obtuvo también el premio Hunter Rouse de la Asociación Internacional de Ingenieros Hidráulicos (1990) y fue reconocido por formular la Ley de Strouhal Universal. Aunque era un científico y hablaba de sí mismo como un matemático entre ingenieros, fue una persona muy humanista. Admiraba a Leonardo Da Vinci que lo mismo pintaba, que inventaba artefactos, era cocinero y hacía estudios de anatomía. De igual manera, Enzo fue un historiador de la ciencia, un amante de la música, lector de filosofía y literatura. Leía una y otra vez la Divina Comedia de Dante Alighieri, se aprendía sus versos; recitaba poemas de Petrarca, Pascoli y otros autores. Reía con Bernard Shaw y admiraba a Kierkegaard. Le gustaba la música de cámara y la ópera. Su hija Clara (Levi, 1993) lo describió como una persona honesta y profundamente espiritual. Era ordenado, meticuloso y organizado, con horario y lugares establecidos para sus diversas actividades. Enzo pensaba que lo más importante para un ser humano es conservar la sencillez de espíritu ante los demás, y la dignidad frente a sí mismo; que el hombre es libre de ser y actuar como lo crea conveniente, en tanto sus obras y actitudes muestren respeto y no dañen a terceros, a la naturaleza, a otros seres vivientes o a sí mismo (Levi, 1993b). Enzo Levi fue mi abuelo. Viví con él más de 20 años, durante los cuales pude compartir muchas historias. Pasamos mucho tiempo juntos, tuvimos intereses comunes y aprendí mucho de él. En este texto busco plasmar su vida, a partir de recuerdos, de las anécdotas escuchadas en muchas conversaciones que tuvimos juntos, de las pláticas que también tuve con sus primos, con su hermano Gino y su sobrino Decio; de leer apuntes, notas y cartas suyas; textos escritos por parientes e investigaciones hechas sobre la historia familiar; de consultar documentos elaborados por Enzo y de escuchar entrevistas que le hicieron.

Levi, una familia de judíos piemonteses La familia Levi pertenecía a la comunidad judía piemontesa. Los ancestros habitaban principalmente en la pequeña ciudad de Ivrea, junto con otras familias de apellidos de ascendencia sefaradí, tales como los Jona, los Pugliese, los Olivetti, los Momigliano, los Foa y los Lattes1, con las cuales Enzo estaba emparentado, de una manera u otra. 1

Estos tres últimos de origen francés.

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Se piensa que gran parte de estas familias migraron desde España cuando los reyes católicos los expulsaron en 1492. Después de cruzar Francia o venir de Holanda se asentaron, durante el renacimiento, en las ciudades-estado de la región septentrional de la península itálica. El Ducado de Savoia, la casa reinante de Piemonte, promovió la llegada de los judíos con la idea de desarrollar comercialmente la región y de apoyarse en los banqueros hebreos para financiar sus campañas militares y ampliar su territorio (Stille, 1994: 17). De acuerdo con el árbol genealógico familiar, los Levi llegaron a Ivrea desde Chieri, un pueblo cercano a Torino. En sus memorias, un primo de Enzo, Davide Jona, cuenta que la familia era judía, no tanto por una convicción religiosa, sino por un sentimiento profundo de pertenencia a esa comunidad. Lo anterior en el marco de una sociedad fuertemente marcada por los acontecimientos sociales y políticos sucedidos en el siglo XIX, tanto en Europa occidental, como en Italia (Jona y Foa, 1997: 13-14) y en particular para la vida piemontesa. Entre estos cabe destacar la invasión napoleónica en Italia (1796), que vino acompañada por aires de libertad, igualdad y fraternidad para una comunidad judía acostumbrada a vivir en la exclusión. De aquellos tiempos se contaba la anécdota de la tatarabuela de Enzo, que decía haber bailado con Napoleón: Sun citina, ma l’hai balà cun Napuleun2. Bella Bachi (¿-1854) era la esposa de Salvador Levi un migrante del ghetto de Chieri que había llegado a la pequeña ciudad de Ivrea. La igualdad promulgada por los franceses duró poco, solo hasta 1818. Después, las escuelas piemontesas se cerraron a los judíos y hubo que buscar alternativas para la educación. Donato Levi, hijo de Bella Bachi, se quedó a trabajar en Ivrea, mientras que su esposa, Enrichetta Pugliese, e hijos, Salvador, Alin y Giulio Giacomo viajaron a Lyon (Francia) para que los dos muchachos estudiaran en el Collége Royal, entre 1843 a 1848. La foto más antigua de la familia, que aún se conserva, es justo un daguerrotipo de ese momento. Es una imagen en la que aparecen la mamá y los tres hijos. Como el padre no estaba presente, el hijo menor, Giulio Giacomo, sostiene su retrato. La pose del mayor, con una mano medio metida en la chaqueta, copiaba el estilo de los retratos de Napoleón Bonaparte. En la familia se cuenta que, siguiendo los aires del proletariado decimonónico, los dos hermanos se interesaron en las luchas sociales y participaron en movimientos socialistas. Sin embargo, ambos fueron críticos de la teoría marxista. Salvador era anarquista y Giulio Giacomo consideró que el socialismo terminaba por atentar contra la libertad individual (Jona y Foa, 1997: 17; Jona, 2000) Éste último fue el abuelo paterno de Enzo. A mediados del siglo XIX, la monarquía piemontesa apoyó a la comunidad judía. Carlo Alberto firmó el decreto de emancipación y en 1849 Gioberti les dio libertad religiosa. Todos los ciudadanos del Piemonte fueron considerados iguales ante la ley y quedaba prohibida la discriminación; cayeron los muros de los ghettos y las escuelas fueron reabiertas a los judíos. Ellos a cambio apoyaron financiera y militarmente a la 2

“Soy pequeña, pero bailé con Napoleón”.

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monarquía de Savoia durante el movimiento de unificación (Jona y Foa, 1997: 14; Stille, 1994:18). En 1855 con las leyes Ratazzi, se confiscaron los bienes de la iglesia, lo que favoreció a los judíos de la región, ya que adquirieron tierras agrícolas a buen precio, sin preocuparse por la excomunión que amenazaba a los católicos. Se dice que en aquella época, Donato Levi adquirió una casa en Borgomasino, que después quedó en manos de Salvatore y sus descendientes; una de las cuales, María Levi, de la que hablaremos más adelante, contaba que durante la guerra, cuando ella y su mamá estaban escondidas en Torino, ella iba en bicicleta a Borgomasino a pedirles comida a los campesinos. Con la restitución de la igualdad para los ciudadanos no católicos, Giulio Giacomo pudo terminar sus estudios de jurisprudencia en Piemonte y establecerse después en Ivrea. Se casó con Mentina Pugliese y tuvieron diez hijos, de los cuales el primero murió muy pequeño y el último fue el padre de Enzo. Como abogado, Giulio Giacomo no fue muy destacadado. Era un judío socialista que trabajaba por su cuenta, lo que generaba desconfianza por parte de una ciudadanía prejuiciosa. Ni siquiera en las ciudades de Milano y Torino pudo tener mucho éxito. No ganaba lo suficiente para darles una educación a los hijos y, supongo que también por sus ideas, descuidó la formación religiosa. El abogado se dedicaba, además, a escribir libros. Los dos más importantes fueron Libertad y Trabajo y El error del socialismo, donde hacía una crítica a la teoría marxista, con la que estaba en desacuerdo por propugnar por la abolición de la propiedad privada. Para él la propiedad era la acumulación del trabajo y el trabajo era la base de la libertad. Solo el trabajo legitima la propiedad (Jona, 2000; Momigliano, 2015). “Mi abuelo Giulio”, cuenta el primo Davide Jona “formó parte de los que fueron marginados como consecuencia de los contrastes tan agudos que había entre las corrientes del movimiento socialista de fines del siglo XIX” (Jona y Foa, 1997: 17). Según las costumbres de la época, las mujeres recibían una instrucción mínima, porque se esperaba que se dedicaran a administrar una casa y a cuidar a los hijos. Lo más que podían aspirar era a estudiar para maestras de primaria. Así ocurrió con las hijas de la familia Levi. Los hijos varones de Giulio Giacomo sí fueron a la universidad o a una escuela equivalente de educación superior. Tres de ellos se convirtieron en profesores universitarios. Giuseppe (Beppo) y Eugenio Elia fueron matemáticos de renombre. El primero inició como maestro de liceo y luego trabajó en las universidades de Cagliari, Parma y Bologna, de donde fue despedido cuando vinieron las leyes raciales, de las que hablaré más adelante. Entonces, migró a Argentina y en particular a la Universidad de Rosario, donde fundó el Departamento de Matemáticas que hoy lleva su nombre. El segundo, Eugenio Elia, fue considerado una de las figuras más destacadas de la disciplina en su momento; trabajó seis años en la Universidad de Génova y en 1915 se enroló en el ejército como voluntario para ir a la guerra. Murió en Caporetto en 1917, en combate con los austriacos (Jona y Foa, 1997: 17-18). El tercero Augusto fue profesor de literatura italiana en Firenze después de la guerra. Cuando Giulio Giacomo murió en 1898, su hijo menor, Decio, tenía 13 años y su educación quedó a cargo de Beppo, el mayor de los hermanos hombres. Para poder

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estudiar entró en la academia militar, donde se tituló en 1913 en ingeniería civil, especializado en electrótécnica. Después de eso se convirtió en soldado y, tuvo el mismo destino que su hermano Eugenio. El 15 de octubre de 1913, Decio Levi (1885-1917) se casó con Amalia (1893-1969), la menor de las hermanas Lattes de Saluzzo y se fueron a vivir a Torino, una ciudad cosmopolita, que entre 1861 y 1865 había sido capital del país. Cuenta Davide Jona (Jona y Foa, 1997: 16) que en ese tiempo era común que los judíos de Ivrea se fueran a centros urbanos más importantes como Torino y Milano. No fue sino hasta la década de los veinte que la pequeña ciudad de Ivrea revitalizara cuando la fábrica Olivetti3 se convirtió en un polo de atracción para unas veinte familias judías. Cuando nació Enzo, Torino se había convertido en un importante centro industrial y en un emblema de la modernidad y progreso. Tenía medio millón de habitantes, entre los cuales había unos 200 mil obreros. Lo anterior la hizo sede de una vida política radical y de contraste con la presencia de la corte de Savoia; se convirtió en un espacio de oposición entre las ideas socialistas y los defensores de la monarquía conservadora. Al ser la región que guio la unificación del país era también un lugar fuertemente nacionalista y de una tradición militar importante (Stille, 1994: 23-24). María Levi, una prima de Enzo y Gino por parte de padre y madre, recuerda cuando ella era pequeñita y sonó el timbre de su casa. Ella corrió detrás de su madre. Desde ahí vio que la puerta se abrió y entró su tío Decio. Saludó a los padres de María y se sentó. Ella después de dar las buenas tardes, se retiró de la sala y se quedó en un rincón observando a los mayores. El tío Decio se paraba, se sentaba, se paraba, daba dos pasos, se sentaba, movía las manos, se paraba, seguía moviéndose y, después de unos minutos, se fue. El papá de María cerró la puerta, las miró y dijo: “está nervioso porque hoy nació Enzo”. Un año después nació su hermano Gino (1915-2000), quien se convirtió en un gran compañero para toda la vida. A Decio no le gustaba la carrera militar y se interesaba más por las obras de ingeniería que por las de guerra. Sin embargo, eran los tiempos del imperialismo europeo y a él le tocó combatir en Libia contra los turcos. Después, durante la Primera Guerra Mundial esperaba que, al terminar el conflicto, les permitieran a los oficiales dejar el ejército en condiciones favorables y, en su caso, irse a trabajar con un primo a una fábrica, para poder así estar más cerca de sus hijos. Sin embargo, la fortuna no lo favoreció. Murió muy joven, en 1917, en el campo de batalla cuando Enzo tenía tres años y Gino, dos (Jona, 2000). Amalia enviudó muy joven. No se volvió a casar, tal como lo estableció su esposo en su testamento, y dedicó su vida a los hijos. En la primavera de 1918 decidió irse a vivir a Saluzzo, donde estaban sus padres, Rosina Jona y Raffaele Lattes. Al final de la guerra vino una crisis económica profunda, con inflación y devaluación de la lira, con lo que aumentó el costo de la vida. Ellos se sostenían con la pensión de viuda de guerra, que alcanzaba poco, lo que hizo que crecieran en un ambiente de escasez.

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En parte financiada por la familia Jona.

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Fig.1. Decio, Amalia, Enzo y Gino. Lugano 1917 (archivo privado)

La infancia en Saluzzo El primer recuerdo de Enzo era de un día en que Gino se perdió en medio del trigal. Los adultos lo buscaban angustiados sin encontrarlo. Él, que también era pequeño, vio a su hermano contento, vestido de rojo que caminaba entre las espigas del trigo. Saluzzo es una pequeña ciudad piemontesa al sur de Torino, en aquel tiempo, sede del marquesado. Tiene una parte plana y la otra que sube por la colina. Al pie de la montaña había una producción agrícola importante, así como mineras de fierro, plata, plomo y mármol. La casa donde vivían Enzo y Gino con su mamá estaba en via Savigliano4, muy cerca de Plaza Garibldi. En el edificio había tres departamentos ocupados por la familia: el de ellos, el de los abuelos y la tía Decima y el de la familia del tío Benvenuto

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Hoy en día Via Martiri della Liberazione.

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(Nuto). A Enzo, le gustaba que desde la casa se escuchaban las campanas de la iglesia y a Gino, ver el Río Torto desde el balcón de la nonna Rosina. El tío Nuto, hermano de Amalia, y su esposa, Carmen Segre, tenían tres hijos: Giorgina (1917), Mario (1919-1942) y Giulio (1922), con quienes jugaban Enzo y Gino. Algunas veces abajo en el patio, donde se ponían los caballos, otras en la calle, donde corrían rodando un aro grande, al que había que llevar sin que se cayera. De vez en cuando, los juegos se interrumpían porque los adultos llamaban a Enzo para que fuera a decirle algo a la nonna Rosina5, que estaba casi sorda y en ocasiones decía que solo le escuchaba a Enzo. Cuando había un enfermo en la familia y necesitaban al doctor, los adultos mandaban a Enzo o a Gino a la farmacia a dejar recado. El doctor, entre una visita y otra, pasaba a la farmacia a ver si había algún mensaje. Entre las enfermedades que se recuerdan de aquel entonces, estaba la epidemia que hubo de fiebre española, poco después de terminada la guerra. A pesar de que la calefacción en casa era uno de los grandes inventos de la época, en las mañanas había que salir por la leña para calentar la casa. Enzo y Gino se peleaban porque ninguno quería ir. Así que la mamá decidió que un día fuera uno, y el otro día el otro. Amalia les contaba que cuando ella era joven y vivía en el ghetto, en invierno tenía que romper la capa superficial de hielo del platón para lavarse la cara. Después de limpiarse y vestirse, los dos niños desayunaban juntos. Para llevar a la escuela, su mamá les daba media pera a cada uno y ellos discutían por ver a quien le tocaba la parte con el rabo. -Cuando sea grande- decía Gino enojado - me voy a comprar dinero, una pera con rabo y una cartera. Después salían rumbo a la escuela. Amalia los miraba desde la ventana y ellos se despedían desde abajo. Esperaban a que su mamá entrara en la casa para que no los viera cruzar por la nieve fresca que había en la plaza, y que ella en muchas ocasiones les prohibió pisar. La plaza hoy, muchos años después, está ocupada por coches estacionados. En aquel entonces, Saluzzo era una ciudad provinciana muy tranquila, donde casi no ocurría nada. Ver un coche era un gran acontecimiento que ocurría en raras ocasiones. No había mucho que hacer, así que las mujeres se sentaban en el balcón, miraban quién pasaba y después lo comentaban entre sí. Los dos niños vestían con pantalones muy cortos. En la época se usaba que lo largo de los pantalones indicara la clase social. Los hijos de los obreros, por ejemplo, los traían mucho más largos, hasta las rodillas. Amalia tenía reuniones con las otras viudas de guerra. María Levi cuenta que en una ocasión una de sus amigas le dijo: -Me parece que usted le pone los pantalones demasiado cortos a sus hijos. Cuando van a la escuela, los veo correr por el frío. -No corren por el frío -respondió Amalia- corren porque siempre salen tarde de casa. 5

Ella tenía un aparato acústico muy grande, que podía encender y apagar voluntariamente.

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Fig. 2. Enzo y Gino (archivo privado)

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En la escuela tenían compañeros que estaban internos con los curas. A estos les censuraban los libros de texto, especialmente las imágenes de las obras de arte donde se veían mujeres desnudas. Estos niños iban a pedirles a ellos sus libros para verlos. En la escuela, Enzo tenía a un amigo que se llamaba Ezio Bertone. Un día Ezio lo invitó a su casa porque tenían un radio. Enzo nunca había visto uno. El aparato era grande y tenía una piedra que servía para sintonizar. Estuvieron toda la tarde con la familia Bertone tratando de sintonizar algo. Fue en vano, no pudieron pescar ninguna estación. Pero esa fue su primera experiencia con un radio. De niño le gustaba leer el Corriere del Piccoli. En particular, las historias a color escritas en verso. Uno de sus autores favoritos era Rubino, quien tenía un personaje llamado Pierino, al que le gustaba imitar a los grandes inventores y descubridores. Un día era Galileo con su lámpara, a la otra semana era Newton, al que naturalmente se le caía una manzana en la cabeza y otro más era Cristóbal Colón, con un sombrero que remataba al frente con una punta. El navegante tomaba un mapamundi, iba con la reina Isabel y le señalaba con el dedo el continente americano. “Se la Terra è sferica ci dev’essere l’America Onde perciò Lascia a me, la scoprirò”6. En la escuela secundaria, tuvo como maestro al profesor Paolo De Forville. Enzo lo quiso mucho, porque el hombre representaba para él algo cercano a un padre. Era un cura severo, pero simpático, con cabellos negros, lacios y con anteojos de pinza en la nariz. Vestía con una sotana larga, larga, con tantos botones “que nunca pude contarlos todos”, decía Enzo. Bajo la sotana se asomaba la punta de sus zapatos. El profesor De Forville era bueno contando historias y, a partir de ellas, Enzo seguía inventando con su fantasía. De su mente salían cosas muy divertidas. Durante el fascismo, el Profesor De Forville fue encarcelado por sus ideas. Muchos años después cuando Enzo ya vivía en México le escribió y él le envió una postal de Saluzzo y un cuaderno que guardó de su alumno. Por las tardes, su mamá los llevaba a caminar por la Colina. Pasaban la llanura, subían por las casas de la colina, y antes de salir de la ciudad estaba el castillo, que estaba ocupado como cárcel. A Enzo le impresionaba mucho pensar en los presos; le daba tristeza imaginar el encierro. Amalia era 21 años mayor que Enzo y les contaba que ella fue la única de sus hermanas que pudo escoger con quién casarse, y no tuvo un matrimonio arreglado. También le dieron la oportunidad de estudiar para maestra de primaria. Los domingos eran los días de ir al Cinema Splendor con la nonna Rosina, que era una mujer de carácter muy enérgico. Así que temprano en la mañana mandaba a Enzo, el mayor, a ver si la película que daban era apta para ellos. El miraba los cartelones y decidía. En ese entonces las películas eran mudas. A él le gustaban mucho las de Buster Keaton. En el cine había dos pisos. Arriba era más caro. Casi todos los niños iban abajo, 6

Si la Tierra es esférica, debe existir América, por lo cual, déjame y la descubriré.

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pero a ellos, la nonna Rosina los llevaba a este segundo piso. En el primer piso, los otros gritaban, comentaban, se emocionaban con la película y hacían un gran escándalo. De vez en cuando el pianista, que acompañaba a las películas mudas con su música, se enojaba, porque ya nadie lo escuchaba y se paraba a callarlos y a regañarlos. Después del cine, iban por un helado. El problema fue cuando llegaron las películas sonoras. Como la nonna era sorda, ya no las entendía. Si bien, la familia no era muy activa en la comunidad judía, tampoco estaba del todo alejada, ya que los lazos comunitarios eran muy fuertes. Amalia y Decio habían decidido ser liberales en cuanto a la educación religiosa. Ella les contó a sus hijos que ambos querían que tuvieran la posibilidad de elegir cuando fueran mayores. Les enseñó que cuando les preguntaran su religión ellos debían responder que eran libres pensadores. Enzo fue una persona de espíritu religioso desde muy joven. Sin embargo, no siguió rigurosamente los rituales del judaísmo. Cuando llegó el momento de aprender hebreo, no le gustaba, porque decía que no tenía buena memoria y le costaba trabajo. En la casa se hablaba piemontés, pero a Enzo y a Gino les hablaban en italiano. Enzo me contó que les decían que cómo su padre era oficial del ejército, e Italia estaba recién unificada había que hablarles italiano por si acaso transferían a su papá de región. Gino, eso no lo recordaba y le parecía ilógico que si su padre murió cuando ellos tenían 2 y 3 años, ese fuera el motivo de hablarles en italiano. Tal vez la razón fue el espíritu nacionalista predominante en la época, derivado de la unidad de Italia en la que todos debían asimilarse. Como decía Massimo d’Azeglio L’Italia e fatta, adesso bisogna fare gl’ italiani7. De los primos Levi había dos generaciones: los hijos de las hijas Levi, es decir, los Jona y los Pugliese que eran mucho mayores, y los hijos de los hijos Levi, más cercanos en edad a Enzo y Gino, y con los cuales ellos jugaban. En particular estaban Amelia (hija de Enrico), Giulio, Laura y Emilia (hijos de Beppo), Sara y Eugenia (hijas de Augusto) y Giuliaida (hija de Silvio). Los primos mayores solían hablar, entre ellos y con los tíos, de cuestiones políticas. Entre los temas más comunes estaban las discusiones sobre el fascismo y sobre el sionismo. El régimen fascista se caracterizaba por ser nacionalista, patriótico, totalitario y racista; un gobierno “cuyo credo fundamental era Mussolini siempre tiene la razón” (Stille, 1994:105). Entonces, las ideas antifascistas comenzaron a rondar en la familia y algunos primos criticaron la postura de Amalia que durante aquellos años fue tolerante al sistema. Más tarde, ella explicaba que no sabía cómo ser crítica y al mismo tiempo darle sentido, frente a los hijos, al hecho que su padre hubiese muerto por la patria. Una patria que años después los desconoció como ciudadanos. En las vacaciones de verano se iban con los primos paternos, a veces a Ivrea, a veces al mar. En Ivrea iban a la Vigna, que era la granja de los Pugliese, donde la familia cultivaba la tierra. En otras ocasiones, se quedaban en la casa de los Jona que estaba en Corso Botta. Los Jona, además de ser primos paternos lo eran también maternos. El 7

Italia ya está hecha, ahora hay que hacer a los italianos.

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papá de los Jona era hermano de la abuela Rosina, la mamá de Amalia. Cuando iban a Ivrea, Enzo recordaba que en la casa de los Jona, mandaban a los niños a dormir la siesta después de comer. A Enzo no le gustaba, no le daba sueño. Así que se pasaba el tiempo, que a él le parecían horas, viendo los cuadros de las batallas de Napoleón que había en las paredes. El periodo de Saluzzo terminó cuando Enzo concluyó la escuela secundaria. En el pueblo no había bachillerato, así que Amalia decidió mudarse a Torino para que sus hijos pudieran continuar sus estudios en el liceo.

Torino: antifascismo, antisemitismo y las leyes raciales Dos acontecimientos históricos del siglo XIX resonaban aún por los aires de Torino en esos años: la unificación italiana y la emancipación de los judíos después de la intervención napoleónica. Rondaban las esperanzas del progreso, los grandes inventos, los autos, el tranvía, las ferias universales que años atrás se habían celebrado en la ciudad. Todo ello contrastaba con las pérdidas y la crisis derivadas de la Primera Guerra Mundial y con la configuración de un régimen fascista, que poco a poco fue destruyendo la vida de la familia. A principios del siglo XX, el movimiento de unificación italiana era un gran referente. Las calles de Torino se llamaban como sus héroes y en las plazas se les recordaba con estatuas y monumentos (Stille, 1994: 19). En general, los judíos piemonteses de la época estaban muy asimilados a la cultura nacional y local; hablaban en italiano o en dialecto, muchos ya no sabían hebreo. En el siglo XIX habían seguido el liderazgo de Carlo Alberto y de Vittorio Emmanuele II; Cavour, quien tenía un secretario judío, los había defendido, a ellos y a su libertad religiosa. Estos, a su vez, lo apoyaron para que llegara al parlamento. Massimo D’Azeglio, quien diera nombre a la escuela donde estudiaron Enzo y Gino, fue otro de los que hicieron realidad tanto la unidad italiana como la emancipación de los judíos (Stille, 1994: 23). “La identificación con la nueva Italia fue particularmente profunda en Piemonte, donde los judíos se consideraban entre los padres fundadores del Estado italiano” (Stille, 1994:19). Los años en el Liceo Massimo D’Azeglio fueron muy importantes en la vida de Enzo, sobre todo por la influencia que en él tuvo Augusto Monti, quien no solo le transmitió un gran amor por la literatura, sino que moldeó sus ideas políticas. Muchos años después, Enzo escribió Augusto Monti era un maestro singular. Odiaba enseñarnos la historia de la literatura y de plano, no nos la enseñaba. Nos encargaba que compráramos el libro y la estudiáramos por nuestra cuenta, para cumplir con los programas oficiales. Porque según él, las noticas acerca del autor, su obra y sus tiempos no hay que buscarlas a través de los escritos de otros, sino captando todo eso haciendo nuestros los de él (Levi, 1989). Tampoco el estudio de la literatura puede implicar una indigestión de libros. ¿Cómo escoger -se preguntaba Monti- al autor, al libro, al episodio? “Escojo este autor, este libro, este episodio” -contestaba- “porque es aquel que más me gusta, porque es el autor más mío, el libro más mío, el episodio más mío”. “Y lo leo a mis alumnos a modo de hacérselo gustar así

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como me gustó a mí. De modo tal que ese autor, libro, episodio se vuelva para cada uno de mis discípulos su propio autor, su propio libro, su propio episodio. De modo que nazca entre alumno y autor esa misma adhesión, fusión, coincidencia e identificación que ya se ha realizado entre el autor y yo. En esto consiste toda la esencia de la enseñanza” (Monti citado por Levi, 1989).

Al Liceo Massimo D’Azeglio asistieron en esos años un grupo importante de activistas políticos, críticos del régimen imperante8. En la página web de la escuela9 hacen referencia a un texto de Augusto Monti, donde dice que el hecho haber sido un lugar donde se fraguaron tantos antifascistas no fue ni por culpa ni por mérito de los profesores, sino por un “efecto del aire, del suelo, del ambiente de Torino y del Piemonte“. Enzo fue alumno de Monti los dos últimos años de su carrera como profesor. Porque esos eran tiempos malos. Llevado ante el Tribunal Especial para la defensa del Estado (entendiéndose por “Estado” el régimen fascista que entonces gobernaba a Italia), acusado como antes Sócrates de corromper a los jóvenes mediante sus ideas políticas, Monti fue condenado a varios años de cárcel, después de los cuales se le vedó la enseñanza pública. No lo volví a ver (Levi, 1989).

Cuando Enzo terminó el liceo, decidió entrar a la universidad a estudiar matemática, siguiendo los pasos de sus tíos Eugenio Elia y Beppo. “Mi tío Beppo”, escribió Enzo años más tarde, “me decía: la matemática –así, porque en italiano ‘matemática’ es singular como ‘física’, la matemática es esencialmente un modo de pensar” (Levi, 1991: 53). Se graduó en 1935, con la aspiración de convertirse en profesor. En la Universidad, Enzo fue compañero de Gisela Levi, una estudiante de física que le pidió ayudar a su hermana a preparar el examen con el que se concluían los estudios preuniversitarios10. Nadia decía que su prima, Rita Levi Montalicini, la había inspirado a estudiar la universidad como ella. Muchos años después, Gisela aun recordaba la cara de Enzo y Nadia cuando se vieron, cuando se encontraban y estudiaban. Nadia presentó los exámenes, pero en lugar de entrar a la universidad, se casó con Enzo. Nadia Levi (1913-1985) también pertenecía a una familia judía de Turín y al igual que otros Levi de esta ciudad (Carlo Levi, Primo Levi, Giuseppe Levi) no era pariente de Enzo. Ella era hija de Ettore, un ingeniero, y de Andreina Orefice, quien había nacido en París. Tenía dos hermanas mayores, Edmeé (Memeé) (1908-1994) y Gisella (1910-2003). En casa hablaban italiano con su papá y francés con su mamá. Memeé tocaba el piano, Nadia tocaba el violín y según contaba Gisella, ella no tocaba nada, porque ella era muy buena para las matemáticas, pero no para la música. Por eso fue la única en ir a la universidad. Entre los que destacan Cesare Pavese, Giulio Einaudi, Leo Pestelli, Massimo Mila, Luigi Firpo, Vittorio Foa, Tullio Pinelli, Emmanuele Artom, Leone Ginzburg y Norberto Bobbio. Años más tarde, también fue ahí Primo Levi. 9 http://www.liceomassimodazeglio.it/storia.html 10 Llamados di licenza liceale, la maturita' classica. 8

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Fig.3. Enzo y Nadia Levi, abril 1938 (archivo privado)

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Durante el fascismo, el régimen había creado una atmósfera de desconfianza generalizada. Nadie sabía si sus amigos eran confiables o si eran informantes de la policía (Stille, 1991: 137). Nadia contaba que era un periodo en el cual la gente no era libre de pensar lo que quería. Así que debían tener cuidado cuando platicaban, especialmente con las porteras de los edificios, que solían estar atentas a las conversaciones ajenas y ser muy chismosas. Un par de años antes del matrimonio de Enzo y Nadia, Mussolini, siguiendo un sueño imperial, proclamó la jornada de la fe, en la cual la población tenía que donar sus anillos de boda para que la patria tuviera fondos para financiar la invasión a Etiopía el 2 de octubre de 1935. A cambio se les entregaba un anillo de fierro (Stille, 1994: 57-60) que decía “Oro a la patria”. Por tanto, cuando Enzo y Nadia se casaron en diciembre de 1937 decidieron hacerse unos anillos de oro blanco, que no llamaran la atención. Muchos judíos ignoraron las primeras señales del antisemitismo, que consideraron expresiones aisladas y marginales. Sin embargo, hubo un acontecimiento que no se pudo pasar por alto y a partir del cual se marca el inicio de una discriminación racial por parte del régimen fascista. El 31 de marzo de 1934, en día de pascua, los titulares de los periódicos publicaron la noticia de que la policía había descubierto un complot judío antifascista. Dos jóvenes judíos de Torino, Mario Levi y Sion Segre Amar fueron detenidos mientras trataban de meter clandestinamente propaganda antifascista a Italia. El acontecimiento ocurrió el 11 de marzo de 1934 en Ponte Tresa, en la frontera con Suiza. Sion Segre Amar y Mario Levi militantes del grupo político Justicia y Libertad (Giustizia e Libertà) fueron detenidos con una copia del semanario antifascista La libertad y con volantes que indicaban votar No en un plebiscito próximo; así como Cuadernos de Justicia y Libertad, la revista que publicaba el movimiento desde 193211 y una copia de un folleto intitulado Oneg Sciabbath de un grupo de estudio de la comunidad judía, que traía Sion y del cual no se había preocupado por esconder, pues consideró que no tenía nada de político. Mario brincó al río Tresa y escapó a Suiza y Sion Segre Amar fue encarcelado. Después del incidente fueron arrestados otros 15 amigos y conocidos, de los cuales 9 eran judíos (Stille, 1994: 47, 106).12 Justicia y Libertad (GL por sus siglas en italiano) era una red política clandestina, antifascista, fundada en Paris, en 1929 por Carlo Roselli, Ferruccio Parri y Sandro Pertini, de los cuales solo el primero era judío. La parte italiana estaba dirigida por Carlo Levi y Leone Ginzburg. El hecho casual que en el grupo hubiese muchos judíos fue aprovechado por el régimen de Mussolini para iniciar sus políticas antisemitas.

El acontecimiento se describe en varias fuentes: en los libros de Stille (1994), Ginzburg ( ); Jona y Foa (1997), en http://www.doppiozero.com/materiali/lettura/quegli-arresti-del-1934-torino 12 Entre ellos el famoso profesor de anatomía Giuseppe Levi y su hijo Gino (padre y hermano de Mario Levi), Leone Ginzburg (cuñado de Mario Levi), Carlo Levi y su hermano Riccardo, Barbara Allason, Carlo Mussa Ivaldi, Giovanni Guaita, Giuliana Segre, Marco Segre, Attilio Segre, Cesare Colombo, Leo Levi, Camillo Pasquali, Chiara Colombini. http://www.doppiozero.com/materiali/lettura/quegli-arresti-del-1934-torino 11

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Después de 75 años de igualdad, la comunidad judía empezó a padecer problemas que hacían eco a dos mil años de existencia precaria de un pueblo que había sido recibido, pero mal tolerado y que constantemente estaba bajo presión de ser expulsados (Stille, 1994: 49). Como consecuencia del incidente en marzo de 1934, la reconstrucción del grupo GL quedó en manos de Vittorio Foa y Michele Giua, quienes en ese momento no fueron arrestados, aunque más tarde terminaron en prisión. Vittorio Foa había sido quien encargó a Sion Segre Amar y a Mario Levi de traer de Paris la propaganda antifascista. Si bien, Enzo y Gino no eran activistas políticos, los acontecimientos tocaron a su círculo inmediato de parientes políticos, de miembros de la comunidad judía y de exalumnos del Liceo Massimo D’Azeglio. Sion Segre Amar se casó con Giorgina Lattes, la prima con la que crecieron en Saluzzo; Vittorio Foa era cuñado de su primo Davide Jona. Mario Levi, a pesar del apellido no era pariente13, pero sí pertenecía al mismo grupo social y su hermana, la escritora Natalia Ginzburg fue amiga de Nadia. Davide Jona explica la unidad de la comunidad judía a partir de los vínculos que se formaron entre los miembros de un grupo obligado a vivir en ghettos, con pocas oportunidades de movilidad, con pocos vínculos con los gentiles. Esto promovía las relaciones entre sus miembros y los matrimonios entre personas de familias que ya estaban emparentadas. En 1938 un grupo de científicos fascistas elaboró el Manifiesto por la defensa de la raza14, donde se establecen una serie de principios racistas con respecto a la población. Entre otras cosas se dice que los judíos no son de “raza italiana” y que existen razas superiores y razas inferiores. De tal manifiesto, Mussolini deriva las leyes raciales, anunciadas por él en Trieste, el 18 de septiembre de 1938. En éstas, poco a poco se introducen una serie de restricciones para los judíos. Dicen Davide Jona y Alexander Stille que cuando se promulgaron las leyes raciales, los judíos eran uno de cada mil italianos (Jona y Foa, 1997; Stille,1994). Anna Foa cuenta que el 9 de julio de 1938 los titulares de los periódicos informaban de la declaración de Mussolini, quien afirmó que “los judíos son ciudadanos de tercera”. Después, venía un listado de las nuevas reglas para la “defensa de la raza”. Los judíos no podían asistir a las escuelas públicas ni enseñar en ella, no podían ser empleados del gobierno, tener empleados arios, tener bienes ni formar parte de organizaciones, entre otras (Jona y Foa, 1997: 193). Enzo no me platicó del momento en que se dieron a conocer las leyes raciales; sino que cuando terminó la Universidad, aspiraba a un puesto definitivo como profesor de matemáticas, así que preparó arduamente los exámenes de oposición. En 1936 hizo el servicio militar en Roma y en diciembre de 1937 se casó con Nadia y se fueron a vivir a Novara, donde trabajó como profesor suplente, lo cual era también una forma de hacer méritos para obtener una plaza definitiva.

Hay un dicho piemontés que dice “Di levi piú ne levi, pi une trovi”. De Levi, entre más levantas, más encuentras. 14 Manifesto degli scienziati razziati o Manifesto della Razza. 13

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Había pocos puestos de trabajo en el país, así que, si un profesor hacía un buen examen y no alcanzaba uno de los puestos disponibles, le daban un punto, de manera tal que al año siguiente contaba con cierta ventaja. De tal suerte que quienes hacían varias veces un buen examen, tenían mayores probabilidades de ser contratados. Enzo se presentó a los exámenes y la primera vez no obtuvo un puesto. Dedicó el siguiente año a estudiar muy intensamente; mientras era profesor sustituto. Un día, uno de sus compañeros le dijo que se había inscrito en un curso y que no podría ir. Entonces, le ofreció su lugar. Enzo fue a ese curso y de compañero de cuarto le tocó una persona que trabajaba en la embajada de Bolivia y que le contó lo maravilloso que era ese país. Llegó el momento de presentar de nuevo el concurso. Esta vez ganó el puesto. Sin embargo, le informaron que no le daban la plaza “por ser de raza judía”. Enzo se molestó mucho y decidió emigrar junto con Nadia a Bolivia. Fueron de los primeros en salir del país; después de los exiliados políticos. Supo que en Bolivia se necesitaban topógrafos para construir obras de infraestructura, así que fue a la librería local y se compró un manual de topografía y el Quijote de la Mancha para aprender español. Si bien ese acontecimiento fue el principio de un exilio, Enzo que era muy positivo hablaba en términos de que se fueron en la búsqueda de nuevas oportunidades, como dos jóvenes aventureros que se dirigieron a nuevas tierras. Después de ellos, migraron otros. El tío Beppo y su familia se fueron a Argentina, a excepción de su hijo Giulio que migró a Palestina; el tío Enrico y Amelia se fueron ilegalmente a Suiza, donde estuvieron en un campo; Davide Jona y Anna Foa a Estados Unidos; Amalia y Gino los siguieron a Bolivia. Los padres de Nadia y la familia de su hermana mayor, Memeé, se refugiaron primero en Ecuador y después en Colombia. Gisela logró escapar con un trabajo como nana de una familia holandesa y se fue a Estados Unidos. Los que no migraron se escondieron en Italia. Las tías de Saluzzo, Decima Lattes y Carmen Segre iban de un lado a otro en los bosques cercanos hasta que cansadas de huir fueron a su casa, donde las detuvieron en 1944 y murieron en Auschwitz. Después de la guerra, murió la madre de Nadia y su padre regresó a Italia; la familia de Memeé migraron a Estados Unidos y Canadá.

La vida nueva: Bolivia y México Hablo de la vida nueva (Vita Nova) porque el escritor favorito de Enzo era Dante Alighieri, de manera que considero pertinente recuperar este título para marcar su salida de Europa y su llegada a América Latina. Un cambio de territorio, producto de una decisión radical, que le permitió una mirada diferente y una gran apertura hacia nuevas perspectivas. El 7 de abril de 1939 zarparon desde Genova, a bordo del Virgilio. Partieron hacia el norte de Chile, para después entrar por ferrocarril a Bolivia. En el viaje quedaron muy impresionados con el Canal de Panamá, por la obra hidráulica, por el sistema de compuertas y por la gran solución ingenieril que les permitió pasar del Atlántico al Pacífico.

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Fig.4. Constancia del trabajo negado. 1939 (archivo privado)

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En La Paz conoció a Eligio Esquivel, Director General de Riegos, quien examinó sus conocimientos de topografía y lo envió a Cochabamba a trabajar en la construcción de las presas La Angostura (hoy presa México) y La Tamborada, que estaban a cargo de un equipo que había sido enviado por el presidente mexicano Lázaro Cárdenas. Eran tres ingenieros: Gerardo Cruickshank, Alfredo Marrón y Enrique Espinoza, con quienes Enzo intercambiaba conocimientos de matemáticas por conocimientos de ingeniería. Siempre me ha sido fácil aceptar las situaciones más diversas e inesperadas, pero esa actividad me gustaba de veras. La vida al aire libre, la estrategia de distribuir a los estadaleros, el análisis de la forma del terreno, que luego había que reproducir por ringleras de líneas sinuosas realizando imágenes que había creado en mi mente, el estudio de la geometría diferencial, todo eso me divertía (Levi, 1991: 48).

A lo largo de diez años que permaneció en Bolivia, desempeñó diversas labores, inició como de topógrafo, luego fue ingeniero residente en la obra y después ingeniero superintendente de la obra, profesor universitario, jefe de sección geodésica y dirigió la construcción de un colegio (Echavez, 1992: 70; Levi, 1991). En ese país trabajó para el Ministerio de Agricultura, para el Instituto Geográfico Militar Boliviano, como jefe del proyecto de riego del Valle de Cochabamba y como ingeniero residente de las presas mencionadas. Cuando se fueron los ingenieros mexicanos, fue más difícil encontrar trabajo. En ese tiempo estuvo en la construcción del Instituto Americano de Cochabamba, mientras Nadia impartía clases particulares de violín y de italiano en casa. Ahí nacieron sus tres hijas: Silvana (1940-2016), Fiorella (1943-2002) y Clara (19442007). Amalia, la madre de Enzo, y Gino también migraron a Bolivia, aunque ellos fueron a vivir a La Paz. Después, llegó Giuliana que se casó con Gino y ahí nació Mariarosa, la primera de sus tres hijos. Una vez terminada la guerra, en 1946, ellos regresaron a Italia. Cochabamba era una pequeña ciudad agrícola, que tenía unos 80 mil habitantes (Echavez, 1992: 69), con casas de techos de dos aguas con tejas. Ahí conocieron a otras dos familias Italo-bolivianas, de las cuales se hicieron amigos: los Mercado y los Gómez D’ Ángelo. Las hijas después mantuvieron esta amistad durante toda la vida. Enzo, Nadia y las niñas vivieron en casas de patio grande y llegaron a tener dos perros: Lupino y Flic. Un día, alguien robó el violín de Nadia que estaba cerca de la ventana. Entre las cosas extrañas que les sucedieron en Bolivia fue que en una de las casas donde vivieron había una mujer que en las noches de luna llena aullaba. Desde que llegaron, Enzo y Nadia intentaron adaptarse a esta sociedad tan distante culturalmente, sin embargo, no fue fácil. Contaban, por ejemplo, la gran impresión que les causaba ver a los indígenas dormir en la puerta de entrada de las casas de sus patrones, para cuidar la propiedad. Enzo y Nadia se quedaron algunos años más. Sin embargo, cuando se terminó el trabajo en Bolivia, empezaron a buscar alternativas. La guerra en Europa había concluido y Enzo quiso recuperar su puesto de maestro.

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También intentaron a través del tío Beppo ir a Rosario, en Argentina. Desde Italia, que intentaba reconstruirse, le respondieron que sería instalado en un Liceo de Florencia. No fue fácil tomar una decisión. La oportunidad de migrar a México se dio en 1949. Por medio del Ingeniero Cruickshank, Enzo fue invitado a trabajar como investigador en el Laboratorio de Hidráulica de La Secretaría de Recursos Hidráulicos, donde Fernando Hiriart era director. Enzo y Nadia valoraron la situación y decidieron que México ofrecía mejores opciones. El trabajo era más interesante y, además, consideraron que para sus hijas era mejor crecer en otro país latinoamericano, que en un país dañado por la guerra. “El embrujo del agua decidió la situación” afirma Gabriel Echavez (1992: 70), uno de sus colegas que lo acompañó muchos años después, aludiendo a la posibilidad de trabajar en investigación. Así que, de nuevo una solución radical cambió su vida y emprendieron un nuevo viaje. Enzo se adelantó y la familia lo siguió, haciendo paradas para visitar a los parientes que estaban en Panamá (una hija de Beppo con su familia) y esperar las visas para ir a México. También pasaron por Colombia, donde estaba la hermana de Nadia y sus hijos. En ese tiempo, México tenía una cierta estabilidad económica. Las políticas públicas se orientaban al desarrollo de la infraestructura, a promover la industrialización. Fue el momento de mayor crecimiento de la Ciudad de México.

Fig.5. Enzo Levi con sus hijas en 1950. De izquierda a derecha: Fiorella, Clara y Silvana (archivo privado)

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En México llegaron a vivir a la colonia Chapultepec Morales. Enzo trabajó desde 1949 en el Laboratorio de Tecamachalco, donde después fue jefe, entre 1952 y 1967. En este periodo participó en el diseño de varias presas15 y obras hidráulicas. También fue consultor en varios proyectos privados para compañías como Ingenieros Civiles Asociados, de Estudios y Proyectos A.C., de la Fundación Ford y de la Corporación Peruana de Santa (Levi, 1993); fue contratado por la industria cinematográfica y participó en la película de 1961 Yanco, de Servando González, donde generó un vórtice en los canales de Xochimilco, para que en él se hundiera el violín del niño protagonista de la película. Desde entonces, los vórtices fueron uno de los temas que más lo apasionaron y que lo acompañaron toda la vida.16 En este laboratorio se hacían modelos de las obras proyectadas. Era una cuestión de mecánica de fluidos. Había que ver cómo se comportaba el agua y dar soluciones a los problemas que se presentaban. Comenzó también la investigación que buscaba dar explicación a los fenómenos observados. Había una cierta inventiva por parte nuestra. Además, no estábamos obligados al trabajo continuo. A veces teníamos unos intervalos en que nos parábamos. Entonces era cuando nos dedicábamos a la investigación, a ciertos fenómenos raros que habían aparecido en el estudio de los modelos hidráulicos y que nos parecía interesante profundizar más, con la autorización de las autoridades, hacíamos esas cosas también y publicábamos (Levi, 1992).

Clara Levi (1993: 17) cuenta que “en la década de los años cincuenta, la experimentación hidráulica no era fácil. Se carecía de instrumental especializado que permitiera conducir con precisión y observar con cercanía el comportamiento del fluido”. Las hijas estudiaron en la Escuela Secundaria y Preparatoria de la Ciudad de México y asistieron al Conservatorio de Música. Para la familia Levi, la formación musical era muy importante. Decía Nadia, que si la gente común y corriente no estudiaba música ¿quién iba a ir a los conciertos? Desde su llegada a México, Enzo y Nadia también hicieron un gran esfuerzo por asimilarse de la mejor manera posible a la sociedad que los acogía. Aunque había cuestiones que no les permitían integrarse del todo, sí se preocuparon de ello. No formaron grupo ni con la comunidad italiana ni con la comunidad judía. Para este entonces, ya tenían una visión religiosa muy amplia, incluyente y ecuménica. Sin embargo, su extranjería no dejaba de hacerse patente en cuestiones tales como su aspecto físico y su acento al hablar, su cultura y formas de vida. En casa siempre se habló italiano y algunas costumbres mexicanas nunca se adoptaron. Sonora, Endhó, Humaya, Netzahualcoyotl, Miguel Hidalgo, Falcón, Las Lajas, Totolica, El Túnel, Urepetiro, Tepocoacuilco, Benito Juárez, El Cazadero, El Pujal, LaBegoña, San Bernabé, EL Niagara, La Boca, Pañuelitas, Tenasco, Iturbide, Tepetitlán, Susticacán, López Rayón, Álvaro Obregón, Solís, El Sordo, La Boquilla, La Amistad, El Estribón, Presidente Alemán, La Venta, El Infiernillo, Santa Rosa, Cuapatitzio, La Soledad y Mazatepec. 16 Enzo Levi (1990) “Los vórtices en la hidráulica” En: Ingeniería hidráulica en México. Septiembre/diciembre de 1990. Instituto Mexicano de Tecnología del Agua, CNA. 15

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Como muchos migrantes, quedaron en un especie de lugar intermedio entre su lugar de origen y el de destino. Si bien se interesaban por cuestiones políticas y estaban muy al pendiente de lo que ocurría en Italia, tampoco en México fueron militantes activos. A principios de los años cincuenta se edificó la Ciudad Universitaria al sur de la Ciudad de México. Ahí se instaló la Escuela de Ingeniería y en 1956 se creó la División de Investigación, que posteriormente se convertiría en el Instituto de Ingeniería, del cual Enzo fue uno de los fundadores. Un año más tarde se creó el posgrado donde Enzo daba clases de mecánica de fluidos y matemáticas (Echavez, 1992: 70). Enzo y Nadia construyeron una casa y se mudaron a Copilco, muy cerca de Ciudad Universitaria, lo que le permitía a él caminar al trabajo e ir a comer a su casa. Silvana, la hija mayor entró a la universidad. Entonces, Nadia decidió revalidar su bachillerato italiano y también iniciar una carrera en biblioteconomía. Después, siguieron las otras hijas: Silvana estudió geografía; Fiorella, física y Clara, antropología. Unos años después, Enzo dejó el Laboratorio de Tecamachalco y se convirtió en profesor de tiempo completo de la Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM), desde 1968 hasta 1987. Entre los temas que abordó en aquellos años se encuentran el diseño de superficies vertedoras, sifones autocebantes, frenado de corrientes de alta velocidad, vertedores en curva, toma de gasto constante, protección de pilas puente contra la socavación, salto hidráulico, análisis de hidrogramas, estructura de las láminas vertientes, arrastre de aire en rápidas, caídas para canales no revestidos, mecanismo de formación de los vórtices, aplicación del vórtice, estelas tridimensionales, emisiones turbulentas de pared, sello de vórtice para flechas giratorias, producción intermitente de vórtices, la Ley de Strouhal universal, modelación matemática de flujo turbulento y falla en revestimientos de canales de alta velocidad (Levi, 1993: 25-29).

Fig.6. Enzo en el Laboratorio de Tecamachalco. 1958 (archivo privado)

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Las hijas se casaron y formaron sus propias familias. Silvana (mi madre) se quedó a vivir al lado de sus padres, lo que me permitió crecer con mis abuelos. Enzo y Nadia tuvieron seis nietos: Liliana (1967), Aldo (1970), Rossana (1972), Gianna (1974), Enzo Renato (1974) y Bruno (1979). Con ellos hablaron siempre en italiano. Para Enzo, la cultura piemontesa era importante, por lo que también les enseñaba, cantaba y explicaba las canciones tradicionales de esa región. Como abuelo se involucraba en los intereses de sus nietos. Con ellos construía juguetes, leía cuentos y novelas, recitaba poemas e inventaba historias salidas de los cuadros, incluso intentó, sin mucho éxito, enseñarles griego y latín. El acontecimiento más cotidiano era una aventura, un misterio y un desafío por resolver. En esos instantes ocurrían todo tipo de cosas: problemas matemáticos, paseos por el campo, encuentros literarios, idas al cine, concursos a ver quién pelaba la manzana haciendo una sola tira con la cáscara, sesiones de ópera, planos arquitectónicos o los pequeños arreglos que se requieren en casa. No solo encontraba cosas nuevas para los ratos libres, sino que hacía diferente y divertido cada momento de la vida cotidiana. En los años sesenta Enzo y Nadia compraron una casa en Valle de Bravo, Estado de México, un pueblo que aún no tenía el desarrollo turístico que alcanzó años más tarde. El lugar estaba rodeado de bosques, lo que les permitía hacer largas caminatas y vivir momentos de descanso, alejados de la rutina urbana.

Fig.7. Dibujo de Valle de Bravo, pintado por Enzo, 1979 (archivo privado)

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Toda su vida Enzo, fue un asiduo lector. Una y otra vez regresaba a La Divina Comedia de Dante Alighieri, que su maestro Augusto Monti le enseñó a compartir. En general, la literatura estaba siempre presente: Virgilio, Homero, Petrarca, Ítalo Calvino y Elías Canetti, entre otros. Además de la literatura, le gustaba mucho la filosofía y la historia. Esta última, decía, había que buscarla no en las interpretaciones desde el presente, sino en el sentido que le daban los contemporáneos a los sucesos. Así se lo había enseñado su maestro. Era muy modesto con sus logros académicos. Un día le contó a su hija Silvana que lo habían invitado a dar una conferencia fuera del país. “¿Sobre qué tema?”, le preguntó ella. “Sobre la Ley de Strouhal”, respondió Enzo. “Se ve que sabes mucho sobre esa ley, ¿verdad?”, continuó su hija. “Sí, claro”, afirmó, “si yo la inventé”. “Entonces, ¿por qué se llama Strouhal?”. “Es una ley que se refiere a la universalidad de la frecuencia de oscilación de los fluidos y el primero en intentar resolver este problema fue un señor llamado Strouhal”. En la década de los ochenta conjuntó su pasión por la hidráulica y la pasión por la historia y escribió El agua según la ciencia. Yo viví de cerca ese proceso. En las mañanas desayunaba con él y me contaba anécdotas de algunos de sus protagonistas. En su introducción al libro escribió: El hidráulico ha de ser, ante todo, algo así como un psicólogo del agua, conocedor profundo de su naturaleza. En efecto, no es con violencia como se pueden hurtar sus secretos, sino con amor; con esa comprensión que se deriva de una larga convivencia con ella, tan larga que ni la vida de un individuo, ni la de muchas generaciones, es suficiente. Hay que atesorar todo lo que la humanidad ha venido aprendiendo, a veces a costa suya, dejándose sorprender; otras, al intentar precaverse, realizando observaciones, ensayos, cálculos… (Levi, 1989: 15).

Las recomendaciones del profesor Monti se hicieron presentes. Enzo escogió los autores, libros y episodios que consideraba más suyos. Se los leyó a sus alumnos. Imbuido de estos preceptos, siempre me vi impulsado aún en estudios y actividades que me llevaron muy lejos de la literatura, a retroceder a los escritos originales, así fuesen de muchos siglos atrás, descubriendo frecuentemente con asombro lo diáfanos que resultan frente a ciertas reinterpretaciones modernas. Coleccioné tratados viejos y saqué fotostáticas de obras antiguas, que leía con fruición. Pero un día se me ocurrió: y en cuanto muera, ¿qué será de todo esto? podría dejarlos a una biblioteca ¡quién los leerá? Que no sea como cuando, feliz de haber descubierto en una biblioteca universitaria alemana un valioso tratado de hace 50 años sobre los escritos de Leonardo Da Vinci acerca del vuelo encontré con sorpresa que sus hojas estaban todavía sin cortar (Levi, 1989)

En ese periodo compartió su pasión por la historia con dos alumnas suyas, que después se convirtieron en sus amigas: Patricia Peña y María Francisca Naranjo, con quienes discutió ampliamente la historia de la hidráulica en México, recuperando el conocimiento de los antiguos pueblos originarios, pasando por las obras de infraestructura coloniales para llegar al México independiente y el del siglo XX. Una forma distinta de ver las cosas, lo hizo cuestionar porqué siempre miramos al Atlántico para pensar en la llegada de otros al continente americano. Seguramente los

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polinesios, siguiendo las corrientes marinas habían hecho múltiples viajes. Contrario a aceptar las teorías de que los americanos habían entrado al continente únicamente por el estrecho de Bering, Enzo creía que también los polinesios, a lo mejor tahitianos, habían llegado por el Pacífico, a través de Hawai. Sustentaba su afirmación en cuestiones como las etapas alimenticias relatadas en sus viajes, la pasión que tenían por los tocados de plumas, las pirámides escalonadas, las islas artificiales parecidas a las chinampas que se encuentran en Tahiti y al parecido físico entre los tahitianos y los indígenas de la meseta de Anáhuac. Enzo consideraba que el peregrinaje de estos pueblos después de llegar a tierra firme se debía a que llegaron a un mundo sin islas y sufrían por la falta de pescado, que era su alimentación básica. “Nada más natural, pues, que los peregrinos busquen una laguna para asentarse, levantar ahí sus campos y cultivarlos, y construir e impeler sus esbeltas canoas, indispensables para pescar, cazar, transportar productos y moverse ágilmente de un lado a otro” (Levi s/f). “La obra cumbre de la ingeniería de los antiguos habitantes del valle de México fue la domesticación de la laguna”, escribió para una conferencia que dio en Mazatlán sobre “sus fantasías sobre el origen de los aztecas”. Enzo pensaba que estos se habían asentado sobre el lago en la cuenca de Anáhuac, porque su sistema productivo tradicional requería de una laguna. Después, “la laguna de México sólo representó un estorbo para los españoles; por tal motivo acabó por desaparecer víctima del encuentro de dos mundos. Sin embargo, para los aztecas había sido centro y sustento de la vida” (Levi s/f).

Fig.8. La familia Levi. 1982. De izquierda a derecha: Fiorella, Enzo, Silvana, Clara. Abajo: Nadia (archivo privado)

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En 1985 murió Nadia y Enzo enfrentó la pérdida con otra decisión radical y en 1987 se fue a vivir a Jiutepec, Morelos, un pequeño poblado conurbado a la ciudad de Cuernavaca. El Dr. Álvaro Aldama lo invitó a trabajar en el Instituto Mexicano de Tecnología del Agua, donde se ocupó de modelos hidráulicos y de estrategias para el ahorro doméstico del agua hasta 1993. Antes de irse, se jubiló de la Universidad Nacional Autónoma de México y empezó una nueva vida en el IMTA. Una circunstancia afortunada lo llevó, junto con otros cinco compañeros, a crear una sucursal de la División de Estudios de Posgrado, de la Facultad de Ingeniería con orientación en hidráulica, de manera tal que se reincorporó a la UNAM, con sede el IMTA “en sustitución a sí mismo”, como decía la justificación de su contratación. En Jiutepec diseñó e hizo construir una casa muy cerca del IMTA, lo que le permitía caminar al trabajo. Ahí vivió acompañado por Bea, una perrita doberman, a quien le leía todas las tardes. En su jardín plantó árboles frutales y en su tejado tenía cajones de abejas. Las golondrinas llenaban de nidos afuera de las entradas de la casa y también se instalaban avispas, a las cuales, de vez en cuando había que ahuyentar. Su hija Clara lo siguió a finales de la década de los ochenta, también para trabajar en el IMTA, y junto con su familia fueron a vivir a Cuernavaca, con lo que estuvieron cercanos a él durante los últimos años.

Fig.9. Silvana, Gino, Clara, Enzo y Fiorella en la casa de Jiutepec. 1992 (archivo privado)

Enzo solía decirles a sus alumnos jóvenes que llevaba más tiempo viviendo en México, que ellos. Aunque nunca renunció a su nacionalidad italiana ni adoptó la mexicana, tampoco contempló regresar a su país de origen. Simbólicamente la muerte lo encontró a la mitad de una lectura que vinculaba sus dos naciones. Era el libro de Tina Modotti, Tinísima, de Elena Poniatowska. Enzo murió en marzo de 1993 en su casa de Jiutepec, una mañana antes de ir al trabajo. Solo algo tan radical fue capaz de interrumpir la rutina de un hombre metódico, disciplinado y tan apasionado de la investigación.

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Algunos años después, en la Facultad de Ingeniería de la UNAM decidieron darle el nombre de Enzo Levi a su biblioteca de posgrado. Como familia, estamos agradecidos por el reconocimiento.

Fig.10. Los nietos en la biblioteca que lleva su nombre. De izquierda a derecha: Liliana, Aldo, Enzo Renato, Rossana, Bruno y Gianna (archivo privado)

Epílogo a una historia La vida de Enzo Levi estuvo llena de encrucijadas, de caminos truncos y nuevas veredas, que lo llevaron a destinos no imaginados, a los cuales siempre estuvo abierto. La búsqueda entre una solución bella por su sencillez o una radical por la situación fueron los parámetros que guiaron su andar por el mundo, en búsqueda de nuevos proyectos que le permitieran afrontar las dificultades, la injusticia y mirar las cosas de una forma diferente. La historia del nudo gordiano lo acompañó toda su vida. Una decisión radical lo llevó a emigrar a Bolivia con su esposa Nadia, cuando el régimen fascista le negó la cátedra de matemáticas con argumentos raciales. Un intento de solucionar el problema, desde otra perspectiva lo hizo estudiar en el barco, topografía para encontrar trabajo y el Quijote de la Mancha para aprender español. Una decisión radical los llevó a dejar Bolivia después de diez años y una perspectiva diferente lo trajo a México, cuando podría haber optado por regresar a Italia después de la guerra y recuperar su cátedra perdida en Florencia. Una decisión radical lo situó en Cuernavaca, después de la muerte de Nadia, para iniciar una nueva vida con una mirada diferente. En la última conversación que sostuvimos, me recordó que tuviera siempre presente la posibilidad de recurrir a una solución radical. A lo largo de su vida mantuvo siempre los vínculos con la familia que había quedado en territorios lejanos. Al venir de una familia judía, la cuestión de la memoria fue siempre central y así nos lo transmitió. Los lazos con los parientes que vivían lejos,

ENZO LEVI Y EL NUDO GORDIANO

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dispersos por el mundo, y con el país que dejó atrás fueron siempre indisolubles. Había que aprovechar cualquier oportunidad para estar en contacto, para ir, para recibir o para mantener relaciones epistolares. Italia estuvo continuamente presente. Por correo le llegaban semanarios políticos y, hasta su muerte, recibió la revista Qui Touring por una suscripción vitalicia que le regaló su mamá cuando cumplió trece años. No se puede renunciar a lo que uno es. Sin embargo, siempre se puede elegir. Y él eligió seguir una tradición liberal, resultado de una emancipación, abrirse a la aventura y apelar a la posibilidad de la asimilación. Trató de insertarse en las sociedades latinoamericanas y se interesó ampliamente por la cultura local. Se consideraba un hombre afortunado. Aunque la gran rueda de la fortuna lo situó, a veces, en la cúspide y otras en el fondo, él miró siempre las cosas con optimismo y enfrentó los problemas, ya fuera con la solución más simple y sencilla o con un giro radical de los eventos.

Referencias Echavez Gabriel (1992) “Enzo Levi Lattes” en: Nuestros maestros. Tomo II. Ciudad de México. Universidad Nacional Autónoma de México. Instituto de Ingeniería (2006) “Enzo Levi Lattes” en: Fundadores del Instituto de Ingeniería. México. UNAM. Jona Davide y Anna Foa (1997) Noi Due. Bologna. Il mulino. Jona Mario (2000) Storia di famiglia. Inédito. Levi Clara (1993) “Enzo Levi: Vida y obra” en Enzo Levi (1914-1993). Cuernavaca. Instituto Mexicano de Tecnología del Agua. Levi Clara (1993b) “Enzo Levi, un científico profundamente humano” en Ingeniería hidráulica en México. Mayo-diciembre de 1993. Cuernavaca. IMTA. Levi Enzo (1989) El agua según la ciencia. México. CONACYT y Ediciones Castell Mexicana S.A. Levi Enzo (1989) “Presentación de El agua según la ciencia”. Texto inédito del 5 de octubre de 1989. Levi Enzo (1991) “Un matemático entre ingenieros” Ponencia presentada en el XXIV Congreso Nacional de la Sociedad Matemática Mexicana. Ed. Aportaciones Matemáticas. No 11. Serie comunicaciones. Pag 5-13. Levi Enzo (1992) Entrevista radiofónica conducida por Jaime Litvak dentro del programa Espacio Universitario. Radio UNAM. Levi (s/f) “Toltecas, aztecas y la laguna de México”. Texto inedito. Momigliano Levi Paolo (2015) “Eugenio Elia Levi e la sua famiglia” en Celli Andrea e Maurizio Mattaliano Eugenio Elia Levi: Le speranze perdute della matematica italiana. Milano. Egea. Monti Augusto (1968) Scuola classica e vita moderna. Torino Einaudi Editore. Stille Alexander (1994) Uno su mille. Milano. Oscar Mondadori.

Bruno Cadore Marcolongo (1915-1993). Archivo Sonia Cadore

BRUNO CADORE MARCOLONGO FORMADOR DE ARQUITECTOS Y HACEDOR DE ARQUITECTURA

LUIS ALBERTO MENDOZA PÉREZ

Bruno Cadore Marcolongo (1915-1993), the prestigious architect from Italy, was invited by the Mexican government, through Architect Ignacio Díaz Morales, to incorporate into the School of architecture of the University of Guadalajara. He was an architect from the Istituto universitario di architettura di Venezia and obtained a Doctorate (PhD) from the Università degli Studi di Firenze, Italia. He worked for architect Giovanni Michelucci on the Florence Train Station Project. He was an outstanding professor and prepared various generations of architects. He was also a professor of Theory and History of Architecture, Architectural Composition, and Architectural Restoration. He wrote some observations or notes for the subjects of Theory and History of Architecture and Restoration, respectively. He performed various architectural projects in the states of Nuevo León, Jalisco and Colima, Mexico. In this work, one may see his labor as a trainer of architects and part of his architectural work.

En memoria de Bruno Cadore

Introducción La fundación de la escuela de arquitectura de la Universidad de Guadalajara se circunscribía a una época de intensa reflexión arquitectónica y urbana. Ciertamente, la ciudad de Guadalajara ameritaba una institución que formara profesionales de la arquitectura ante la creciente demanda de atender las necesidades arquitectónicas y urbanas derivadas del crecimiento de la ciudad. La limitada oferta educativa de estudios de arquitectura en México en la década de los años 40, se circunscribía como carrera profesional de arquitectura en la Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM), y en el Instituto Politécnico Nacional (IPN), éste último ofrecía la carrera de ingeniero-arquitecto, basada en las ideas de personalidades como Juan O’Gorman, Enrique Yáñez, José Luis Cuevas y también del arquitecto alemán Hannes Meyer quién había sido director de la Bauhaus en Alemania. Ambas entidades educativas se 249

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encuentran en la ciudad de México, en el centro del país. Ante esta situación, el arquitecto Ignacio Díaz Morales destacado por su influencia en la arquitectura jalisciense contemporánea, promovió la creación de la escuela de arquitectura en la Universidad de Guadalajara, su finalidad sería: “ formaran profesionistas a quienes en el futuro, les correspondiera la tarea de orientar a la comunidad y a sus autoridades, así como la de corregir, mejorar y diseñar el hábitat urbano del hombre” (Moya-Pérez, 1998), y con ese motivo se invitó a varios profesores europeos, entre ellos tres italianos, entre ellos el arquitecto Bruno Cadore y Marcolongo, procedente de la Facultad de Arquitectura de Florencia y antiguo colaborador del arquitecto Giovanni Michelucci. Sin embargo, poco se ha explorado sobre el papel formador que tuvo Bruno Cadore Marcolongo. Realizó sus estudios y egreso del Instituto Universitario de Arquitectura de Venecia (Zohn, 1998), posteriormente obtuvo el grado de Doctor en arquitectura la Universidad de Florencia el 24 de abril de 1945. Desde su nacimiento hasta su llegada a México, el mundo europeo y por lo tanto Italia, pasaron por acontecimientos bélicos desde principios del siglo XX, la primera guerra mundial, mientras nacía Bruno Cadore Marcolongo (9 de abril de 1915) y su formación académica de arquitecto la realizó a finales de la década de los años 30. La experiencia de las consecuencias bélicas en las ciudades propició que las reflexiones de la arquitectura y el urbanismo fueran sacudidas desde sus cimientos por los arquitectos e ingenieros europeos. A su vez, la dinámica de crecimiento de las ciudades y de las industrias impactaron en la enseñanza de la arquitectura, muestra de ello fue la fundación de la escuela de la Bauhaus en 1919, el primer rascacielos d cristal de Mies Van Der Rohe en 1920, Le Corbusier y Ozenfant con la revista L’Espirit Nouveau de Paris de 1921, la importante Carta de Atenas redactada por Le Corbusier en 1933, la Modern Architecture Internactional Exhibition en el Museo de arte Moderno de Nueva York en 1932, organizada por Phillip Johnson y Henry-Russel Hitchcock Jr. Ante este escenario, se perciben las nuevas ideas que promovían una nueva visión de la arquitectura apoyada en la tecnología y en atención ante los grandes problemas de vivienda que ya se manifestaban en muchas partes del mundo. En ese sentido, las escuelas de arquitectura eran un sitio ideal para el exposición y experimentación de las nuevas tendencias arquitectónicas. La escuela de arquitectura en la Universidad de Guadalajara se inauguró el 1 de noviembre de 1948, de manera oficial, con la apertura de la escuela de arquitectura promovida por el Arquitecto Ignacio Díaz Morales (1905-1992). El arquitecto Díaz Morales, fomentaba las ideas funcionalistas de la arquitectura, al igual que José Villagrán García (1901-1982), con quien había establecido una amistad cercana y a quien muchos arquitectos consideran como principal promotor de la arquitectura moderna mexicana. Estas ideas que tenían como fundamento el bullicio de un mundo nuevo, y enriquecidos por los pensamientos y las obras del movimiento moderno, sirvieron de base para la formación de nuevas generaciones de arquitectos en la Universidad de Guadalajara. Es en esa nueva escuela de arquitectura, cuando llega Bruno Cadore Marcolongo en septiembre de 1950 a invitación del gobierno de México

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realizada a través del arquitecto Ignacio Díaz Morales. Su llegada es celebrada como uno de los acontecimientos iniciales, ya que su presencia, junto con Silvio Alberti Levati, Horst Hartung Franz (1919-), Erich Coufal Kieswetter (1926-), Mathías Goeritz (1915-1990), Carlangelo Kovacevich, consolidó el pensamiento arquitectónico moderno que se manifestó en sus arquitectos egresados. Cadore llega a México en 1950 a la edad de 35 años, la escuela de arquitectura fundada por Ignacio Díaz Morales tenía 2 años de haber iniciado sus actividades académicas, sin embargo, impartió clases desde la primera generación de estudiantes de arquitectura, entre los que se encontraban André Bellón, Guido Ramella, Humberto Sánchez Altamirano, Enrique Nafarrate entre otros. El principio de formación del arquitecto “(la escuela) estuvo inmersa en una mística escolar muy densa y elevada, que tenía como meta la superación personal, mediante la entrega del alumno al estudio y el sometimiento voluntario a las disciplinas escolares propias de la Arquitectura, mística que produjo generaciones de egresados de muy consistente preparación profesional” (Moya-Pérez, 1998). El arquitecto Bruno Cadore Marcolongo, se caracterizó por ser un docente congruente con su forma de pensar, generoso, respetuoso de la individualidad, sereno y con un fino sentido del humor, en algunas ocasiones seco pero directo en su hablar, sus clases de historia y teoría de la arquitectura tenían algo más que la misión de enseñar, sus clases invitaban a la reflexión del quehacer arquitectónico, buscar y encontrar las cualidades, características de las edificaciones y las intenciones que tenía el autor en cada una de las obras.

Buscando a Cadore El trabajo de investigación se desarrolló desde el enfoque cualitativo, precisamente con el fin de construir el perfil y la obra de Bruno Cadore Marcolongo, uniendo cabos, a partir de la experiencia de alumno de Teoría de la Arquitectura y Diseño arquitectónico (1978-1979), compañero del curso Diseño Urbano impartido por Philip Opher de la Universidad de Oxford impartido en la Universidad de Guadalajara (1982), entrevistas semiestructuradas con Sonia Cadore, Aldo y Elena Ceruti, Olga Becerra y Enrique Martínez de la Universidad de Guadalajara, el encuentro con dos libros que escribió para los estudiantes de licenciatura y posgrado en la Universidad de Guadalajara, la consulta en el Archivo Municipal de Guadalajara, en el Archivo Histórico de Colima y en el Archivo Histórico de Manzanillo. Se visitó e identificó la mayoría de su obra y en algunos casos recorrió y reconstruyó gráficamente la forma original de unas obras actualmente demolidas o transformadas. Todo ello da evidencia de su calidad de arquitecto, siguiendo el pensamiento de Vitruvio, la arquitectura es teoría y práctica (Vitruvius, 1960). Cadore tenía su teoría y desarrolló su práctica arquitectónica en obras que son un ejemplo de elegancia, buena solución espacial, formas sencillas y equilibradas, que indudablemente demuestran que la buena arquitectura ayuda a vivir mejor.

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La actividad proyectual del arquitecto Cadore es diversa, según los registros que se obtuvieron, desarrolló proyectos de casas residenciales, edificios y locales de oficinas, hoteles, fábricas y casas campestres en las ciudades de Guadalajara, y Tamazula en el Estado de Jalisco. En las ciudades de Manzanillo y Colima en el Estado del mismo nombre. Así como en el Estado de Nuevo León. Algunos proyectos aún existen como es el caso de los edificios de oficinas y de comercio en la Avenida Chapultepec, unas residencias en Guadalajara, Tamazula Jalisco y Manzanillo, un hotel en Colima.

Los caminos de Cadore Explorar la trayectoria de Bruno Cadore Marcolongo, significó, adentrarse en una etapa de la historia del siglo XX, por demás llena de acontecimientos de todo tipo. indudablemente, las nuevas manifestaciones de arquitectura moderna, que buscaba apoyarse en la nueva tecnología, así como en los nuevos retos que implicaba una nueva visión de la arquitectura son el trasfondo del siglo XX. Las nuevas escuelas de arquitectura que empezaron a proliferar en la primera parte del siglo XX permitieron que las ideas racionalistas, funcionalistas, se propagaran por todas partes; en el caso de México, no fue la excepción. Cuando el Arquitecto Ignacio Díaz Morales concibió la creación de la escuela de arquitectura, también identificó la necesidad de contratar profesores que tuvieran una visión moderna de la arquitectura, es decir, pretendió, ante todo, un pensamiento fresco y actual del quehacer arquitectónico. Ante ese planteamiento intención, buscó profesores egresados de las escuelas vanguardistas del continente europeo, y en esta búsqueda, invitó a colaborar en el proyecto académico, como se comenta con anterioridad, a tres arquitectos italianos, Silvio Alberto Levati que procedía de Milán, al arquitecto Carlangelo Kovacevih de Florencia, y a Bruno Cadore Marcolongo, el arquitecto Horst Hartung Franz procedía de Alemania y Erich Coufal de Austria, cada uno de ellos con un oficio del quehacer arquitectónico diferente. En el caso particular de Bruno Cadore Marcolongo, quien ya contaba con el grado de doctor por la Universidad de Florencia, llegó a la Universidad de Guadalajara para impartir clases de historia de la arquitectura desde una perspectiva actual en su momento1, lo que resultaba novedoso. Bruno Cadore Marcolongo nació el 9 de abril de 1915 en la población de Cento, perteneciente a la región de Emilia-Romagna, cerca de Ferrara y cuya capital es Bolonia. Hijo de Ercole Cadore y Amelia Marcolongo. Fue el mayor de tres hermanos (Bruno, Óscar y Ana María) y pronto tuvo que apoyar a su madre para la manutención de la familia a la muerte de su padre.

Luis Ortiz Monasterio en su libro La Historia del arquitecto mexicano siglos XVI-XX, señala que la historia del arte (se llevaba) en los tres primeros años, hasta 1949, cuando aparece por primera vez como historia de la arquitectura, en cuatro años. 1

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Fig.1. Bruno Cadore Marcolongo a la izquierda, Silvio Alberti Levati a la derecha. Archivo Sonia Cadore. Circa 1970

Un año antes de su nacimiento (1914), Antonio Saint’Elia, quien se había alistado en el ejército y murió en 1916 en el campo de batalla, había proyectado la Città Nuova, Las ideas futuristas de grandes metrópolis habían caracterizado su pensamiento arquitectónico y urbano. Saint’Elia publica un manifiesto para la arquitectura donde se expone, según Benévolo, “el primer intento consciente – aunque imperfecto y limitado a los enunciados verbales- de trasladar al campo de la arquitectura el espíritu revolucionario que sopla en los medios de la vanguardia” (Benévolo, 2007). “El problema de la arquitectura moderna no es un problema de retoque lineal. No se trata de encontrar nuevas molduras, nuevos marcos de ventanas y puertas, para sustituir las columnas, los pilares, las ménsulas con cariátides, con moscones o con ranas, no se trata de dejar la fachada de ladrillo visto o de revocarla o de aplacarla con piedra, no se trata, en una palabra, de determinar diferencias formales entre el edificio nuevo y el viejo, sino crear de pies a cabeza la nueva casa, acaudalando todos los recursos de la ciencia y de la técnica, eliminando señorialmente todas les exigencias de nuestras costumbres y de nuestro espíritu… determinando formas nuevas, líneas nuevas, una nueva razón de ser solo en las condiciones especiales de la vida moderna…” (Benévolo, 2007, pág. 418). Cuando Bruno Cadore Marcolongo realizó sus estudios de arquitectura a finales de la década de los años 30, las ideas y las tendencias racionalistas confrontaban a la arquitectura tradicional, el movimiento moderno se había enriquecido, se había creado

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la Bauhaus (1919) dirigido por Walter Gropius y la Bauhaus, y el quehacer arquitectónico de Le Corbusier, las reuniones del Congreso Internacional de Arquitectura Moderna (CIAM) en 1928 y cuyo enunciado “El destino de la arquitectura es expresar el espíritu de una época” (Benévolo, 2007) que trataban de la arquitectura y los problemas urbanísticos, así como la redacción de La Carta de Atenas (1933). A su vez, la creación del Instituto Universitario de Arquitectura de Venecia (IUAV) en 1926 y dirigido por Giovanni Bordiga, la Primea Exposición de Arquitectura Racionalista en el Palacio de las Exposiciones de Roma, así como otros movimientos arquitectónicos que se presentaron como fueron el Art Nouveau y el Art Deco formaron un ciclorama de la arquitectura en los años de estudio de arquitectura y que son una muestra de los diferentes matices del horizonte teórico y práctico de la arquitectura en Europa. Mientras que, en América, la obra de Frank Lloyd Wright, Richard Neutra acaparaba la atención, la exposición internacional de arquitectura moderna promovida por el Museo de Arte Moderno de Nueva York (1932), promovida por Philip Johnson y HenryRussel Hitchcock donde se presenta la producción de varios arquitectos como una muestra de una nueva arquitectura. Y México, la presencia de Adam Boari con el proyecto del Palacio de Bellas Artes, la conclusión de la obra le correspondió al arquitecto Federico Mariscal, La obra de Carlos Obregón Santacilia, y en Guadalajara la presencia de Juan José Barragán, y la arquitectura de Luis Barragán en la década de los años 20, entre otros, es el escenario y muestra la intensa actividad de ideas que se pregonaban sobre la arquitectura en esa época. Un hecho particular en la historia de la arquitectura italiana de la década de los años 20 es la presencia del grupo de los 72, quienes manifestaban que “la nueva arquitectura debe ser el resultado de una estrecha adecuación a la lógica y a la racionalidad” (Colquhoun, 2005), y que posteriormente se desintegró, sin embargo, su actividad profesional individual que para algunos de los integrantes que empezaron a recibir destacan los proyectos de la Facultad de Física , obra de Giuseppe Pagano y la estación ferroviaria de Santa María de Novella en Florencia, proyecto que desarrolla el arquitecto Giovanni Michelucci junto con los entusiastas estudiantes del grupo Toscana los alumnos; Baroni, Gamberini, Guarnieri, Lusanna (Dezzi-Bardeschi, 1988) y Cadore (Cadore S. , 2018) en el año de 1936, marca un parteaguas en la arquitectura italiana ya que “se trataba de una construcción en un ambiente muy comprometido, precisamente tras el ábside de Santa María Novella (Benévolo, 2007)”. El arquitecto Bruno Cadore Marcolongo llega a la escuela de arquitectura de la Universidad de Guadalajara, imparte clases de historia de la arquitectura y el taller de composición arquitectónica, particularmente haciendo énfasis en la arquitectura contemporánea ya que, como buen italiano, le gustaba conversar. Su actividad en la docencia se desarrolló durante 40 años. En el ámbito cultural de Guadalajara, desarrolla una cercana amistad con los pintores José María Servín Zepeda ((1917-1983) y Tomás Cuffin, con quienes compartía el gusto por la pintura y el arte en general.

Grupo lidereado por los arquitectos Edoardo Persico y Giuseppe Pagano y que posteriormente se desintegra. 2

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De su actividad arquitectónica en México, se puede destacar varios proyectos como son unas casas habitación para la familia Medina, edificios de oficinas en la Avenida Chapultepec y Lerdo de Tejada, Estudio de fotografía de Llano en la misma avenida esquina con la calle López Cotilla, su propia casa y la casa de la familia Ochoa en la colonia Jardines del Bosque; dos residencias en la colonia Providencia y Country Club, residencias en el club de Golf Santa Anita, oficinas y casas habitación en Tamazula, Jalisco. En el Estado de Colima, proyecta un hotel y una gasolinera. En la ciudad y puerto de Manzanillo realizó una residencia y unos bungalós, un condominio conocido como Pájaro de Fuego. Existen otros proyectos en el Estado de Nuevo León, así como unas restauraciones, entre otras obras identificadas. A su vez participó en varios concursos de proyectos arquitectónicos.

Encontrando a Bruno Cadore, docente y formador de arquitectos La escuela de arquitectura que se abrió en el año de 1948 tuvo una inscripción inicial de 17 estudiantes. Cuando Cadore se incorporó a sus actividades docentes, le antecedía su experiencia en la Universidad de Florencia, su formación académica y su experiencia profesional, impartió la clase de historia de la arquitectura, mientras que la materia de teoría de la arquitectura la impartía el arquitecto Díaz Morales (KasisAriceaga, 2004). Admirador de Vitruvio quien definió las características de la arquitectura y del oficio del arquitecto de su momento. Así como de Andrea Palladio arquitecto vanguardista de su época, Bruno Cadore se inclinaba por un particular gusto por la arquitectura moderna y contemporánea. Con el fin de abrir las puertas del conocimiento, ya que los libros especializados eran caros y escasos en esos años, escribió para sus alumnos y para la escuela de arquitectura un libro Lecciones de historia de la arquitectura moderna y teorías, en la nota inicial del libro menciona: “Estos apuntes fueron preparados para remediar de alguna manera la falta de texto para el curso de Historia de la Arquitectura Contemporánea y Teorías. Desde hace muchos años he venido aconsejando a los alumnos primeramente el Pevsner y el Giedion, después, cuando fue traducido al español, el Zevi y por último el Benévolo. Había sin embargo la dificultad de que el Benévolo es casi imposible encontrarlo en el mercado y además su costo es muy elevado (Cadore B. , 1971)”. Además de impartir clases en la carrera, la Universidad de Guadalajara, ofreció el primer curso sobre restauración de monumentos (1969), donde Bruno Cadore compartió la cátedra con el arquitecto Víctor Manuel Villegas Monroy (1913-2013) quien impulso la creación de la carrera de arquitecto en la Universidad de Guanajuato en 1954 y que era director de la misma; el arquitecto Salvador Díaz-Berrio Fernández (1940-2013); también catedrático de la misma universidad, el arquitecto Horst Hartung Franz (1919-1990), siendo director de la escuela de arquitectura de la Universidad de Guadalajara, el arquitecto Humberto Ponce Adame. Posteriormente, y producto de un curso de especialización en urbanismo, escribió un nuevo libro de apuntes de Restauración donde expuso desde las teorías hasta la elaboración del proyecto de restauración (Cadore B. , 1970).

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Fig.2. Bruno Cadore en la primera sede de escuela de arquitectura. Archivo Sonia Cadore. Circa 1965.

Con el fin de ofrecer opciones de formación complementaria en diferentes especializaciones, Cadore participó en la creación de la maestría en Investigación sobre Arquitectura, donde se revisaba desde los tratadistas y la visión filosófica hasta la arquitectura contemporánea correspondiente, y colaborando también en las maestrías en Restauración y Urbanismo, cuando estas se abrieron a finales de los 80, entre sus alumnos, figuró y coordinó dichos programas Javier Huízar Zuno (Martínez, 2018). Durante los años 60 y 70, existió una proliferación de metodologías de diseño, como era, entre otros, el caso de Lenguaje de Patrones, de Cristopher Alexander, estudioso de estos procesos, solía mencionar que era importante la lectura y la filosofía de cada proceso metodológico.

La obra arquitectónica de Cadore La obra arquitectónica de Bruno Cadore Marcolongo en México, se inició aproximadamente en el año de 1952, cuando realizó dos proyectos de casas habitación por la calle de López Costilla, para la familia Medina, casas modernas, con un tratamiento de macizo sobre vano y que constaban de dos niveles, en ellas se manifiesta su inclinación por los colores claros con predominio del color blanco. Posteriormente, en el fraccionamiento Jardines del Bosque realizado por el arquitecto

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Luis Barragán y con la colaboración de Mathias Göeritz con la escultura del pájaro amarillo, realiza dos proyectos de casa habitación, una sería su casa y otra estaba proyectada para la familia Ochoa. En caso particular de la casa Luna 1505, número oficial que se le asignó la Dirección de Planeación, Servicios Urbanos y Obras Públicas del Municipio de Guadalajara del año de 1957 (Cadore B. , Permiso de construcción 512, 1957). El arquitecto realizó el proyecto de su propia casa, donde se destacan varios elementos que son dignos de considerar y que posteriormente los utilizaría en diferentes proyectos. Por un lado, destaca la concepción de la estancia como núcleo central de la casa, alrededor de este espacio giran los demás, la utilización de la luz indirecta que baña las circulaciones verticales y la utilización de una fuente. El jardín interior ilumina la estancia y existe una vinculación de la planta baja con el jardín posterior. Se destaca el manejo de diferentes alturas en sus espacios interiores. En lo que respecta a la fachada principal, utiliza líneas horizontales con un color amarillo rojizo para acentuar su presencia y volumetría., en el muro de piedra que mira la calle utiliza un diseño de herrería para ocultar el medidor de luz y buzón. Aquí, el detalle consiste en que utiliza el diagrama de Piet Mondrian, con el manejo de colores que utilizará posteriormente en sus diferentes proyectos. Otro detalle que nos muestra en esta obra es el tratamiento que le da al muro que contiene el espacio del tinaco en la parte superior de la construcción que se visualiza desde el exterior, lo pinta con figuras geométricas, integrando esa forma rectangular en posición vertical que contrastaba con la horizontalidad de la construcción. Este efecto visual lo repite en varios proyectos posteriores a manera de firma. Sonia3 menciona de su casa: “aplicó un concepto muy moderno ya que no existía una sala- comedor como tal, había un jardín y una cascada interior que daba mucha luz a toda la planta baja y el sonido del agua era sumamente agradable y relajante, los ventanales eran de piso a techo con una gran vista al jardín (Cadore S. , 2018). En 1960 desarrolla en la misma calle el proyecto de la familia Ochoa (Cadore B. , Permiso de construcción 602, 1959), donde desplanta sobre la planta baja, la casa habitación, mantiene la estancia como núcleo central y la zona privada mira libremente el jardín interior. Actualmente ambas casas han sido modificadas en el transcurso de los años por los nuevos propietarios. En ambos casos la iluminación natural al interior de las casas es un atributo de disposición de elementos y solución espacial bien solucionado. Circulaciones horizontales libres, ventiladas e iluminadas de manera lateral o cenital dan un efecto de amplitud. De igual manera, en ambos casos, el tratamiento de muro de piedra al exterior se ha manejado de manera aparente y los acabados en los muros fueron terminados en color claro. El tratamiento de los muros que en las dos casas ocultan el tinaco, se repite con dibujos geométricos a manera de firma.

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Sonia Cadore, hija menor del Arquitecto Bruno Cadore y que vivió en el domicilio citado.

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Fig.3. Calle Luna 1505, Fotografía Bruno Cadore, Archivo Sonia Cadore, 1958.

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Fig.4. Plantas arquitectónicas a partir del plano de permiso de construcción 1957. Dibujó Yalitza Quintero.

Fig.5. Plantas arquitectónicas a partir del permiso de construcción. Dibujo Yalitza Quintero.

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A principios de los años sesenta realiza dos obras en el Estado de Colima, por un lado, el Hotel El Costeño y gasolinería, realizada para el empresario Pascual Moreno Barreto y un condominio habitacional de playa con aproximadamente 11 casas y departamentos en el puerto y ciudad de Manzanillo. En el caso del Hotel El costeño, nombre modificado, ya que el nombre original era Motel Costeño, Se trata de una obra particularmente desarrollada en el año de 1959, emplazada en el entronque de la carretera a Manzanillo y carretera a Jiquilpan, antiguo camino que podía conducir a Guadalajara y México, y con frente al sur, este sitio era estratégicamente ideal para sus funciones debido a su excelente ubicación, ya que también ofrece la posibilidad de tener comunicación directa y cercana con el centro de la ciudad de Colima, debido a la apertura de la avenida Rey Coliman a mediados de los años 50 por parte del gobernador en turno. Debido a su fachada principal que se encuentra orientada hacia el sur, en dirección de la carretera a Manzanillo, el paisaje que ofrecía a los viajeros que llegaban a Colima era la fachada horizontal del hotel y como respaldo la vista de los volcanes (el Nevado de Colima y el Volcán de Colima respectivamente), esta composición visual natural, es aprovechada por el arquitecto Cadore como insignia del mismo hotel, de tal manera que sintetiza el paisaje en una imagen de color azul y que se imprime en toda la vajilla del restaurante del hotel. Así, el arquitecto Cadore la consideró ideal como imagen de la empresa. La particularidad del hotel estriba en la concepción espacial misma, es una edificación de dos niveles; en la planta baja se encuentra la recepción, la administración, el paso vehicular de los automóviles al interior del predio, un restaurante y bar. En este último espacio cuenta con un excelente mural sin firma del autor que describe los temas de cultivo de la sal y del plátano en Colima. En la planta alta los cuartos se encuentran colocados uno frente al otro gracias a un distribuidor central, cada cuarto tiene una composición distinta a partir de los mismos elementos espaciales, baño, guardarropa, en algunos casos balcón. Otra particularidad de la planta alta es la solución que presenta para la iluminación y ventilación, al crear una cubierta ligeramente más alta en el distribuidor, que de las habitaciones, crea un efecto Venturi de iluminación y ventilación, este efecto se caracteriza porque en la parte alta se permita un espacio que dé paso libre al aire y a la luz; en el caso del aire, que llega con una temperatura diferente al interior del distribuidor, al pasar por el espacio el aire nuevo jala y extrae al aire caliente del interior. Así el distribuidor de planta alta es más fresco y mejor iluminado. Nuevamente presenta sus colores preferidos, blanco, gris claro y rojo amarillento para acentuar los efectos de horizontalidad. Actualmente el hotel ha sido modificado y ampliado, conservando la planta alta y el restaurant bar de la versión original El condominio Pájaro de Fuego, fue un conjunto de 11 departamentos y casas habitación de playa que contaba con una alberca y escultura central, la escultura era una alegoría al Pájaro de Fuego, que daba nombre al conjunto. Ubicado en la playa de Salahua en Manzanillo, el ingreso principal por una calle que comunicaba directamente con el Boulevard Miguel de la Madrid Hurtado. construido a finales de la década de los 60, este conjunto ofrecía, 11 unidades habitacionales distintas.

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Fig.6. Fachada principal del hotel Costeño. Archivo Sonia Cadore. 1959

Fig.7. Distribuidor planta alta, estado actual. Fotografía del autor

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El conjunto arquitectónico actualmente se encuentra demolido, sin embargo, hay que resaltar el testimonio que ofrecen las entrevistas y las fotografías correspondientes. La ubicación de la escultura Pájaro de Fuego se situaba junto a la alberca, conociendo la historia del ballet de dos actos de Igor Stravinsky, bien pudiera cobrar sentido el nombre y la escultura, la obra de ballet narra cómo el Príncipe Iván rescata a un extraño pájaro, mitad mujer, mitad oro, mitad fuego. Al dejarle ir, el Pájaro le da una pluma al Príncipe Iván. En el segundo acto el Príncipe se enamora de una doncella cuando de pronto el brujo irrumpe en una escena y encarcela a las doncellas en un castillo, el príncipe Iván recuerda al pájaro de fuego y la pluma que le había dado, la llama y regresa para vencer al brujo y liberar a todos, así el Príncipe Iván lleva a su prometida al palacio real en medio de la alegría. A partir de esta historia, la escultura se sitúa al centro del condominio y la alberca, simulando la pluma del Pájaro de fuego, que libera a todos de sus preocupaciones. Rodeado de diferentes proyectos, el conjunto arquitectónico resultó diverso, en compañía del paraíso tropical rodeado de palmeras que quisieron mantener para el mismo proyecto. Nuevamente utiliza el recurso de formas geométricas en su obra arquitectónica, así como la inspiración literaria. En la figura 7 se puede apreciar el cubo en el parte superior decorado de esta manera, como una característica firma de su obra. En la figura 8, se aprecia la escultura del Pájaro de Fuego, acentuando su presencia por las figuras geométricas en su cuerpo. Por sus características paisajísticas, el Pájaro de Fuego que a su vez era utilizado como fuente, era sitio para reuniones y eventos sociales colectivas.

Fig.8; Vivienda del Conjunto Pájaro de Fuego. Archivo Sonia Cadore. Circa 1970

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Fig.9; Escultura Pájaro de Fuego que daba nombre al Conjunto Pájaro de Fuego. Archivo Sonia Cadore. Circa 1970

En las décadas de los años 50, 60 y 70, se utilizó la modalidad de los Trailers Park, conjuntos de estacionamientos privados para camiones casa cuya modalidad era la prefabricación (también conocidas como mobile home) de viviendas que se desplazaban, al contrario que los inmuebles que se encuentran anclados al piso, el concepto de estas casas prefabricadas era precisamente la movilidad. Estos conjuntos urbanos contaban con espacios de estacionamiento y el suministro de luz eléctrica, de agua potable, drenaje, gas y un espacio de convivencia y administración, así como con servicios complementarios, como alberca, restaurante, área recreativa o de encuentro, por lo general debían estar cerca de una avenida ya fuera a la entrada de las ciudades en el caso de Guadalajara, existieron varios conjuntos urbanos de este tipo arquitectónico que parecía ser una alternativa para los viajeros por prolongado tiempo. Popular es por la alternativa de poder llegar a casi cualquier ciudad, los Trailers Park resultaron, al paso del tiempo, una alternativa que no prospero. En esta obra en particular, Cadore, realizó el proyecto de Trailer Park “Yuca”, que se encontraba en la esquina de Niño Obrero y la Avenida Las Torres (actualmente Lázaro Cárdenas). su emplazamiento urbano, a la entrada de la carretera a Nogales o Norte del país. El Tráiler Park “La Yuca”, tenía un interesante tratamiento espacial que incluía desde la alberca y área de servicios con un predominio de los colores que Cadore aplicaba a sus obras y además contó con el primer baño de vapor en un tráiler park (Ceruti, 2018). Actualmente demolido, se le recuerda por su arquitectura.

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LUIS ALBERTO MENDOZA PÉREZ

Fig.10. Fotografía aérea del Trailer Park Yuca. Archivo Sonia Cadore. Circa 1970.

Fig.11. Fotografía del área central con alberca y servicios del Trailer Park Yuca. Archivo Sonia Cadore. Circa 1970.

BRUNO CADORE MARCOLONGO

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En el género comercial, Cadore también proyectó tres edificios en la Avenida Chapultepec, dos de ellos ubicado uno frente al otro. Particularmente destaca el Edificio Monte Carlo, que se encuentra ubicado al oriente con la avenida y al sur con la calle Lerdo de Tejada. Edificio de comercio y oficinas de cuatro niveles, y que se considera un ícono de la misma avenida. Esta obra fue realizada en el año de 1968 para un empresario tapatío. En esta obra su composición plástica, el volumen masivo pero fragmentado para quitar rigidez geométrica y hacerla visualmente ligera. El ingreso las oficinas se realiza por la avenida, enmarcadas por el manejo de cantera y celosía que permiten la iluminación en las plantas superiores e incluyen el estacionamiento en el sótano. La modulación de sus ventanas y columnas, el volumen de la fachada se manifiesta una imagen geométricamente de forma básicamente cuadrada. Y ante la rigidez de la misma y por la disposición de los perfiles metálicos de las ventanas y la manera en que disimula la estructura que soporta el edificio, le dan ligereza a la percepción de las fachadas. Se enmarcan, en planta baja con una marquesina recubierta de cantera color café claro, el uso del color blanco en los vanos y láminas, característica de la obra de Cadore. Remata el edificio con un voladizo en la parte superior que, de manera rítmica, la fragmenta como si se endientara la cubierta, quitando el peso visual a la horizontalidad para elevarla visualmente. En el interior, la limpieza de los espacios, la clara iluminación y la elegancia de los acabados, convierte a este edificio en una obra de excelencia arquitectónica de su tiempo. En su inauguración, como se mencionó anteriormente, se instaló en la planta baja la tienda comercial El Nuevo París, la Empresa Huerta y Compañía quien publica un desplegado de agradecimiento “por el magnífico local cuya construcción estuvo a cargo del arquitecto Bruno Cadore (Huerta y Cia, 1968)”.

Fig.12. Fotografías del edificio Monte Carlo, Chapultepec 268. Archivo Sonia Cadore. Circa 1968.

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Reflexiones finales Conocer los antecedentes del arquitecto Cadore previo a su llegada a México, nos permite visualizar la razón de su inclinación por la arquitectura moderna y contemporánea. En el transcurso de la primera mitad del siglo XX, se manifestaron muchos movimientos arquitectónicos, momentos teóricos y obras desarrolladas por grandes arquitectos, la presencia y generación de libros, el auge de las revistas de arquitectura moderna y exposiciones donde se hablaba del estilo internacional, el racionalismo, el funcionalismo, los congresos internacionales de arquitectura (CIAM) sembraron en él la semilla de una nueva arquitectura. Comprendía cabalmente que el objetivo de la arquitectura, además de solucionar problemas del hábitat, es el compromiso de ayudar a vivir mejor. Su experiencia en la participación en el equipo dirigido por Giovanni Michelucci, la experiencia de trabajos de restauración de puentes en Italia, le permitió conocer de primera mano, los inicios de la nueva arquitectura, surgida de las discusiones de arquitectos italianos particularmente. En el ámbito académico, su cercanía a la lectura de los arquitectos de la época, como Bruno Zevi, Pevsner, posteriormente Benévolo, Banham, Tafuri, del mundo europeo. La presencia de la teoría de José Villagrán García y las propias de Ignacio Díaz Morales a su llegada a México y también la presencia de Göeritz en los primeros años de la década de los 50, y sus propias ideas, convirtieron a Cadore en un referente de la enseñanza de la arquitectura en la Universidad de Guadalajara, reconocido por arquitectos de la talla de Fernando González Gortázar. Por su aporte a la formación de generaciones de arquitectos y especialistas de la arquitectura en 40 años de docencia tuvo gratificación en proyectos y obras desarrollados por los arquitectos egresados. En lo que respecta su obra arquitectónica, cabe resaltar el manejo de los espacios y de los materiales de construcción, la utilización de sus colores predilectos que predominaron a lo largo de su producción arquitectónica, el análisis de las necesidades y el buen emplazamiento que lograba, los recursos visuales y la firma en los muros en la parte superior de las viviendas, permitían su identificación, logrando la integración de todos los elementos que se presentan en las fachadas con elegancia y distinción. La utilización de celosías adecuadas y sin el abuso, obras arquitectónicas sencillas, más no simples, discretas más no mudas que permiten a la ciudad y a sus habitantes el disfrute de las mismas, reconocida por los propios usuarios y clientes que tuvo como proyectos elegantes, luminosos. La presencia de Bruno Cadore Marcolongo desde su llegada se manifestó de múltiples maneras, su colaboración en eventos sociales, sus donativos, su presencia en el mundo cultural de Guadalajara, la docencia, la arquitectura. Por su trayectoria fue reconocido en varias ocasiones, como lo demuestran; Premio Jalisco de Arquitectura (1985), Universidad de Guadalajara (1986), Colegio de Arquitectos del Estado de Jalisco (1988), Fundación Utopía (1989), Academia Nacional de Arquitectura (1990). Finalmente, persona congruente, generosa, respetuosa, de fino humor y sobre todo de “boune gustaio”. Hay en Bruno Cadore Marcolongo, una presencia relevante en la teoría y en la práctica, tal como señala Vitruvio de los atributos de la arquitectura y de los arquitectos. Hay una herencia de Bruno Cadore Marcolongo que habrá de seguir estudiando.

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Bibliografía Benevolo, L. (2007). Historia de la Arquitectura Moderna. Barcelona: Editorial G. Gili. Cadore, B. (1957). Permiso de construcción 512. Guadalajara: Archivo Municipal. Cadore, B. (1959). Permiso de construcción 602. Guadalajara: Archivo Municipal. Cadore, B. (1970). Restauración, para el curso de especialización en urbanismo. Guadalajara: Universidad de Guadalajara. Cadore, B. (1971). Lecciones de historia de la arquitectura moderna y teorías. Guadalajara: Universidad de Guadalajara. Cadore, B. (s.f.). Imagen en vajilla. Imagen en vajilla. Casa Italia, Guadalajara. Colquhoun, A. (2005). La arquitectura moderna. Una historia desapasionada. Barcelona: Gustavo Gili. Dezzi-Bardeschi, M. (1988). Giovanni Michelucci. Un viaggio lungo un secolo, disegni di architettura. Firenze: ALINEA editrice s.r.l. Goldberger, P. (2012). Porqué importa la arquitectura. Madrid: Ivorypress. González-Gortazar, F. (2014). Arquitectura, pensamiento y creación. México: Fondo de Cultura Económica. Huerta y Cia, S. (7 de Abril de 1968). Felicitación. Felicitación inauguración, págs. 10-A. Kasis-Ariceaga, A. (2004). Ignacio Díaz Morales. Monografiías de arquitectos del siglo XX. Guadalajara: Gobierno del Estado de Jalisco, Universidad de Guadalajara, Instituto de Estudios Superiores de Occidente. Manfredo Tafuri, Francesco Dalco. (1972). Arquitectura contemporánea 2. Milano: Electa Editrice. Moya-Pérez, A. (1998). Origen de la escuela de arquitectura de la Universidad de Guadalajara. Guadalajara: Universidad de Guadalajara. Ortiz-Monasterio, L. (2004). La historia del arquitecto mexicano. Siglos XVI-XX. México: Proyección de México. Revisiones GDL. (30 de 01 de 2016). Obtenido de www//revisionesgdl.com: https://revisionesgdl.com/2016/01/30/ficha-av-chapultepec-284/ Vitruvius. (1960). The ten books on architecture. Harvard: Dover Publications, Inc. Wilkinson, P. (2018). La Arquitectura Fantasma. Barcelona: Blume. Zohn, L. (1998). Una nostalgia amotinada. Guadalajara: ITESO.

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Adriano Olivetti nel suo studio ad Ivrea (1958)

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ALESSANDRO COLOMBO, PIER PAOLO PERUCCIO

The text was written on the occasion of the Olivetti Makes exhibition -organized by the Polytechnic of Turin and Instituto Nacional de Bellas Artes, curated by Pier Paolo Peruccio, exhibition design Alessandro Colombo and Paola Garbuglio- held at the Palacio de Bellas Artes in Mexico City from October 22, 2018 January 13, 2019. The exhibition, placed in the frame of Mexico City World Design Capital 2018, has retraced a chapter not so far investigated in the history of Olivetti, founded in 1908 in Italy in Ivrea, an industrial city registered in 2018 by UNESCO in the List of World Heritage Sites. Olivetti Makes illustrated the concrete dimension of Olivetti's cultural and industrial policy in Mexico, starting in December 1949, when the first nucleus of a company for the sale of Olivetti products was established.

Nella cultura del progetto, di design del prodotto, architettonico, grafico e di comunicazione, il nome Olivetti evoca, quasi come sinonimo, quello di qualità. Costituisce una sorta di isola felice ove tutto sembrava, e forse in gran parte è, fatto al meglio e con la più alta considerazione delle professionalità coinvolte: un mondo nel quale la migliore apparecchiatura elettromeccanica è prodotta nello stabilimento meglio disegnato, da maestranze che lavoravano in un clima positivo e collaborativo ed è disegnata dai designer più bravi, comunicata in maniera seducente ed elegante, e, soprattutto, costituisce il motore di un sistema che produce profitto, cultura, sussidiarietà, pace sociale in un insieme forse inimitabile e irriproducibile.

Il testo è stato redatto in occasione della mostra Olivetti Makes –organizzata da Politecnico di Torino e Instituto Nacional de Bellas Artes, curatela Pier Paolo Peruccio, allestimento Alessandro Colombo e Paola Garbuglio- tenuta al Palacio de Bellas Artes di Città del Messico dal 22 ottobre 2018 al 13 Gennaio 2019. L’esposizione, collocata nella cornice di Mexico City World Design Capital 2018, ripercorre un capitolo finora poco indagato della storia della Olivetti, fondata nel 1908 in Italia a Ivrea, città industriale iscritta nel 2018 dall'Unesco nella Lista dei Siti Patrimonio mondiale dell'umanità. Olivetti Makes illustra la dimensione concreta della politica culturale e industriale della Olivetti in Messico, a partire dal dicembre del 1949, quando si costituì il primo nucleo di una società per la vendita dei prodotti Olivetti. 1

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Olivetti è, in sintesi, la rappresentazione di quella qualità globale della quale si è a lungo parlato negli anni a venire. La mostra Olivetti Makes racconta questa vicenda con particolare attenzione alla storia dell’azienda in Messico, nazione nella quale ottengono risultati straordinari: non possiamo non guardare con ammirazione l’immagine coordinata delle Olimpiadi del 1968 -per le quali Olivetti vince la gara per il centro stampa e la fornitura di tutte le apparecchiature elettromeccaniche- le straordinarie immagini di Mario Carrieri dei tesori custoditi nel museo di Città del Messico, gli interni disegnati da Egidio Bonfante e Silvana Bellino, la grafica che, in generale nel gruppo ed in particolare in Messico, è il fiore all’occhiello della comunicazione riassunto per noi nella straordinaria copertina del volume Mexico: Tierra de Contrastes a firma di Massimo Vignelli, nel quale le lettere della parola Mexico, colorate come in un arcobaleno, campeggiano sul fondo nero del fronte del libro2. Essere tornati sul tema dopo anni di silenzio, anche legati alle non fortunate vicende che hanno investito il gruppo di Ivrea, è stato non solo un dovere dal punto di vista storico e critico, ma anche una necessità culturale in senso ampio, sia per ribadire la straordinarietà della vicenda e dei risultati raggiunti, sia per dare a tutti, ma in particolare alle giovani generazioni, gli strumenti per conoscere un passato che nel tempo è prossimo, ma nelle caratteristiche è remoto, comparato ai tempi che stiamo vivendo. Preparare, curare, allestire una mostra su Olivetti è stato un poco come tornare “a sciacquare i panni in Arno”, per parafrasare Alessandro Manzoni, non ce ne voglia. È stato tornare a capire le ragioni profonde del progetto, il suo legame con la società, l’economia, la politica, la visione del mondo che è necessario avere per tracciare una strada, per raggiungere degli obiettivi, per pensare e fare in modo che una migliore qualità di vita diffusa sia un bene comune e raggiungibile. Non è questa una visione messianica, né utopica: se leggiamo la storia che presentiamo è, al contrario e con grande realismo, la visione di uomini di industria, di imprenditori e manager che hanno, alla fine, il compito e l’obiettivo di produrre reddito e guadagni in una società occidentale e capitalista che non è messa in discussione, ma viene temperata e interpretata attraverso gli strumenti della cultura e della qualità generalizzata ed eretta a sistema. È forse questo uno dei risultati migliori dell’epoca moderna che ha contraddistinto il XX secolo, ma che non è riuscita né ha cambiarlo né a condurlo su lidi migliori di quelli caotici, contraddittori, ma soprattutto effimeri e privi di visioni, che viviamo ora. L’auspicio è quello di tornare, quindi, a quell’eldorado del progetto che prima è stato ricordato, non per evocarlo nostalgicamente, ma per riappropriarci dei suoi risultati, delle sue conquiste, dei suoi metodi quali strumenti per affrontare la nostra quotidianità e per provare a disegnare un futuro nel quale progettare e non essere progettati. Olivetti Makes racconta gli esiti di un progetto di espansione industriale in America Latina avviato dalla società Olivetti a partire dagli anni Venti del secolo scorso con la 2

Gutierrez, Electra e Gutierrez, Tonatiuh (a cura di), Mexico: Tierra de Contrastes, Olivetti 1978.

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costituzione in Argentina di una delle prime filiali di vendita Olivetti all’estero. Nella splendida cornice del Palacio de Bellas Artes la mostra Olivetti Makes illustra la dimensione concreta della politica culturale e industriale della Olivetti in Messico, a partire dal dicembre del 1949, quando si costituisce il primo nucleo di una società per la vendita dei prodotti Olivetti. Questa società, da semplice avamposto per la vendita di formidabili macchine per lo scrivere e per il calcolo importate dall’Italia, si ristruttura e si amplia un po’ alla volta per diventare negli anni Sessanta officina per il montaggio e poi stabilimento a ciclo integrale di produzione per la vendita di macchine Made in Mexico. E il prodotto di riferimento della Olivetti in Messico sarà la macchina da scrivere portatile, che riuscirà a penetrare in particolare nel mercato della scuola con ricadute positive non solo in termini commerciali, ma soprattutto di familiarizzazione con un prodotto allora ad alto contenuto tecnologico. Il titolo della mostra evoca l’azione del “fare” e del “produrre”, ma anche del saper “comunicare” pragmaticamente le qualità estetiche e tecnologiche dei prodotti attraverso grafiche e altri artefatti visivi, esposti tra l’altro nei punti vendita Olivetti, tra cui spicca lo showroom a Città del Messico sul Paseo de la Reforma. L’azienda progetta in Messico anche luoghi di produzione e lavoro provando a replicare modelli positivi di relazione tra fabbrica e società, sulla scorta dell’esperienza già maturata in Italia. Alcuni progetti e intenzioni rimarranno solo sulla carta (ad esempio il progetto di fabbrica firmato dall’architetto Ricardo Legorreta), anche a causa di un contesto politico ed economico in cui non è possibile applicare tout court il modello olivettiano di impresa, e di un cambiamento tecnologico epocale, il passaggio dalla meccanica all’elettronica, che negli anni settanta investe l’industria mondiale delle macchine da scrivere e da calcolo con conseguenze tangibili tanto nello sviluppo dei nuovi prodotti quanto nella riorganizzazione dei processi industriali. Molte sono le storie legate al prodotto industriale che si intrecciano: dalla storia economica a quella sociale, politica, industriale e culturale analizzando un periodo della storia del Messico che va dagli anni Cinquanta agli anni ottanta del Novecento. Un capitolo a parte della mostra è dedicato al ruolo della Olivetti nella progettazione e nella fornitura dell’occorrente per la gestione della rete di centri stampa per i XIX Giochi Olimpici del 1968. Qui l’azienda di Ivrea si occupa dell’allestimento dell’intero sistema mediatico dell’evento: la progettazione, fin nei minimi dettagli, degli arredi e gli accessori per i 19 centri stampa, la fornitura di macchine per scrivere con tastiere per oltre 30 alfabeti. Provvede poi anche all’impiego di tecnici, interpreti, operatori e la progettazione di numerosi prodotti grafici e di merchandising a partire dal kit per il giornalista con la borsa a tracolla bianca. Nella mostra Olivetti Makes si offre, infine, uno sguardo inedito sulla sostenibilità ambientale. Si descrive, infatti, il ruolo di Aurelio Peccei, fondatore nel 1968 del Club di Roma, e amministratore delegato della Olivetti dal 1964 al 1967, nell’avviare un dibattito internazionale sul futuro del pianeta Terra: sono gli anni della fase pionieristica del personal computer, della pubblicazione dei primi saggi sui “future studies” e della pubblicazione del volume “The Limits to Growth” (1972). Sono temi

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estremamente importanti e oggi di grande attualità, che maturano anche nel contesto cultuale olivettiano. Di seguito sono delineate le sezioni nelle quali è stato articolato il racconto di questa straordinaria avventura in Messico dell’azienda di Ivrea, avventura che oggi appartiene, purtroppo, solo al racconto del passato.

110 anni La storia della società Olivetti La società Olivetti viene fondata nel 1908 a Ivrea, vicino a Torino. Le vicende dell’azienda sono legate alla politica industriale illuminata di Camillo Olivetti (18681943) e del figlio Adriano (1901-1960). Quest’ultimo avvia fin da metà degli venti una razionalizzazione della produzione e una riorganizzazione delle fabbriche secondo un approccio che è debitore nei confronti non solo di Taylor e Ford, ma anche di un dibattito internazionale che coinvolge tanto ingegneri della produzione quanto intellettuali. Al centro del progetto la fabbrica, che diventa luogo di produzione e lavoro, ma anche motore di sviluppo economico e sociale, e professionisti che vengono individuati dallo stesso Adriano Olivetti all’esterno dei circuiti del cosiddetto “star system”. Ciò dimostra il suo felice intuito e coraggio nello scegliere giovani collaboratori, appena diplomati o laureati, il più delle volte senza alcuna esperienza professionale in azienda, come Costantino Nivola e Giovanni Pintori, solo per citarne alcuni. Anche le competenze si intrecciano: grafici, architetti, design e letterati collaborano insieme scambiandosi talvolta anche i ruoli. La macchina per scrivere Studio 42, ad esempio, è il risultato di un lavoro di équipe tra il grafico svizzero Xanti Schawinsky e due architetti, Luigi Figini e Gino Pollini, già impegnati nell’ampliamento della fabbrica di via Jervis a Ivrea (1934) e nei progetti di industrial design, di allestimento, di grafica pubblicitaria fino al piano per un nuovo quartiere nella città di Ivrea premessa la Piano regolatore della Valle d’Aosta.

L’ambiente Ovvero la sostenibilità ambientale ante litteram Il punto di vista della Olivetti nei confronti della distruzione delle risorse naturali del pianeta è ben espresso nella campagna pubblicitaria Save our Planet che l’azienda stessa sostiene nel 1971. Si tratta di 6 manifesti, riprodotti ciascuno in 2000 esemplari, di noti artisti, architetti e fotografi americani, venduti per sostenere con il loro ricavato progetti dell’UNICEF nei paesi in via di sviluppo. Il progetto è di Jean Lipman all’epoca editrice delle pubblicazioni del Whitney Museum of American Art di New York. La salvaguardia dell’ambiente e il futuro del pianeta Terra sono temi cruciali per il torinese Aurelio Peccei (1908-1984), alto dirigente Fiat e Amministratore Delegato della società Olivetti dal 1964 al 1967, e poi Vice Presidente fino al 1973. Peccei nel 1968 fonda insieme ad Alexander King il Club di Roma, un think-tank libero e indipendente

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dedito non solo ad analizzare la cosiddetta world problematique, ma anche dedito all’azione: non soltanto, quindi, pura speculazione intellettuale circa l’analisi del sistema Terra, ma attività concrete di sensibilizzazione. Una tra tutte quella che ha portato alla stesura del volume The Limits to Growth (Meadows et al, 1972) che avrà una prima anticipazione nel volume The Chasm Ahead (1969). A Peccei dobbiamo l’avvio del dibattito internazionale sui limiti della nostra crescita economica.

I Giochi Olimpici del 1968 Una straordinaria esperienza in un momento difficile Dopo le due precedenti edizioni dei Giochi Olimpici di Roma del 1960 e di Tokyo del 1964, dove la Olivetti svolge un ruolo di protagonista nell’organizzazione della comunicazione degli eventi, la Olivetti si aggiudica anche la XIX edizione di Città del Messico. La progettazione e organizzazione dei 19 Centri Stampa è celebrata dalla stampa dell’epoca: “rappresenta il più autentico trionfo dell’Italia in questo agitato Messico 1968 – si legge in un articolo apparso su “Il Giorno” del 25/10/1968 - e bisogna darne il merito alla nostra Olivetti o più esattamente, per rispettare le sfumature, alla società la cui ragione sociale è Olivetti Mexicana SA. Vincendo aspre rivalità e una concorrenza poderosa, questa figliola messicana della casa di Ivrea firmò nel 1966 un convenio col Comitato Organizzatore dei Giochi della XIX Olimpiade per progettare, realizzare e organizzare i centri stampa e la rete di comunicazione per trasmettere i servizi dei risultati delle gare”. Oltre 3000 reporter seguirono gli eventi e per loro la Olivetti organizzò l’allestimento del sistema mediatico che non si limitava alla fornitura delle macchine da scrivere e da calcolo o la progettazione dei centri stampa affidata a Egidio Bonfante con l’architetto Silvana Bellino, ma anche alla progettazione e il supporto dell’intero impianto operativo. Per quanto riguarda la rete dei centri di stampa ne vengono allestiti due principali (nella città olimpica e all’hotel Maria Isabel) e altri 17 dislocati per i campi di gara (stadi, arene, piste di atletica, piscine ecc.). Le sale stampa sono dotate di servizio telefonico, telegrafico e di telex. I giornalisti potevano utilizzare postazioni di lavoro complete con macchine per scrivere e tutto il materiale necessario. Vengono messi a disposizione da parte della Olivetti anche interpreti nelle tre lingue ufficiali dei Giochi: spagnolo, inglese e francese. Il centro stampa più importante è il “Libertador Miguel Hidalgo” allestito presso il Villaggio Olimpico. Si tratta di un ampio open space organizzato in isole di postazioni segnate da una partizione con il marchio O di Olivetti disegnato da Marcello Nizzoli nel 1952, di colore azzurro, e disposte a inframezzare gruppi di isole. La pavimentazione è rivestita con moquette color vinaccia, alle pareti un tessuto con impresso il logo “Olivetti Press Centre” nelle tre lingue: elemento portante dell’identità visiva complessiva dei centri stampa Olivetti. Tutti i materiali promozionali distribuiti ai giornalisti vengono progettati da Milton Glaser (Push Pin Studio) e Giorgio Soavi.

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America Latina Un mercato importante La politica di espansione della Olivetti in America Latina prende avvio all’inizio degli anni Venti quando Camillo Olivetti apre una rete di punti vendita in Argentina, Uruguay e Paraguay. Quest’area geografica già allora è considerata strategica per la presenza di una comunità italiana ben radicata, in particolare in Argentina e Brasile, e per la possibilità reale, vista la dimensione di questi Paesi, di incrementare i volumi di vendita della macchina per scrivere M20, fiore all’occhiello della produzione Olivetti di quegli anni. Qui, nel secondo dopoguerra, la Olivetti rafforza la sua presenza: nel 1951 a Buenos Aires con l’avvio di un primo stabilimento di montaggio di macchine per scrivere con componenti riforniti dall’Italia. La presenza di “plantas armadoras” garantisce, infatti, uno status di organizzazione semi-industriale e diventa un percorso obbligato per poter vendere nei paesi a forte protezione doganale. Successivamente, per le società estere (siano esse aziende produttrici di macchine da cucire, di macchine per il calcolo o di penne stilografiche) si rende necessario la creazione sul posto di un vero e proprio stabilimento produttivo, come avverrà per la Olivetti in Argentina, in Brasile e in Messico. A Merlo, vicino a Buenos Aires, si avvia nel 1954 la costruzione di una fabbrica progettata dall’architetto Marco Zanuso. Si tratta di un progetto raffinato di architettura industriale, modulabile e ampliabile, contenente le officine, il montaggio e gli uffici, e che si caratterizza per l’elemento tecnico della condotta dell’aria come cifra stilistica dell’intero complesso. Le lunghe superfici della fabbrica sono interrotte da travi parallele a sezione ovoidale: un elemento, insieme al dettaglio tecnologico sul fronte dell’edificio, ampiamente fotografato e pubblicato sulle riviste dell’epoca. In Brasile, a Guarulhos, in un sobborgo di San Paolo, le soluzioni progettuali adottate dall’architetto Zanuso, autore anche in questo caso dell’intero progetto dello stabilimento per la produzione di macchine per scrivere, inaugurato nel novembre del 1959, creano un interessante dialogo con il paesaggio circostante. La superficie è di 35.000 mq organizzata per un ciclo produttivo completo: officina, montaggi e servizi. Anche in questo caso la struttura è modulabile e per l’area destinata alle lavorazioni di officina è previsto un sistema di cupole a pianta triangolare che posano su colonne cave, all’interno delle quali sono collocate le apparecchiature per il condizionamento dell’aria.

Olivetti Mexicana La Olivetti in Messico La consociata Olivetti Mexicana SA viene costituita nel 1949 a Città del Messico. Si tratta, inizialmente, di un ufficio per la vendita di macchine da scrivere e da calcolo prodotte in Italia. Purtroppo la vendita subisce continui rallentamenti a causa della mancanza di scorte e dei lunghi tempi di consegna dei prodotti. Diventa così necessario dotarsi quanto prima di un magazzino e, successivamente, di avviare fasi di

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assemblaggio di componenti per superare gli ostacoli dovuti alle restrizioni delle importazioni di prodotti finiti. La politica industriale attuata in Messico è in linea con quanto avvenuto negli altri paesi dell’America Latina. Nel novembre del 1960, presso la Colonia Industrial Vallejo, si iniziano ad assemblare componenti di macchine che formeranno prodotti finiti Olivetti, venduti a partire dal 1961, con uno scarto temporale rispetto al Brasile e all’Argentina già avviate da tempo a un tipo di produzione a ciclo completo. A partire dal 1962 si dà avvio anche al progetto della prima fabbrica Olivetti in Messico. La zona scelta è Colonia Industrial Vallejo, dove è presente un magazzino per l’assemblaggio. La società Cubiertas Ala dell’architetto Felix Candela firmerà il progetto e la fabbrica sarà inaugurata il 18 ottobre 1965. Lo stabilimento si compone di tre edifici: la fabbrica vera e propria, circa 11.000 mq, per la produzione dei componenti; la zona per l’assemblaggio di 5.000 mq; poi altri 5.000 mq per gli uffici, i magazzini, il centro di formazione e il Servizio Tecnico di Assistenza ai Clienti (STAC). In questo stabilimento negli anni Sessanta vengono prodotte la Diaspron 82 -prima macchina di fabbricazione nazionale impiegata principalmente per il lavoro in ufficio- la portatile Lettera 22, la semiportatile Studio 44, la macchina da calcolo Summa 20 e, successivamente, la Tekne, una macchina da scrivere elettrica. A metà anni Sessanta la distribuzione nel mercato interno avviene attraverso 8 succursali dirette (a Guadalajara, Monterrey, Puebla ecc.) e da circa 90 concessionarie distribuite sul territorio nazionale. È interessante notare la crescita esponenziale dei dipendenti della Olivetti Mexicana: da 17 nel 1950 a 895 nel 1957 fino a 1.500 nel 1967.

Ricardo Legorreta Un importante architetto per Olivetti Mexicana Nel 1968 il nuovo piano di espansione della Olivetti in Messico prevede la costruzione di uno stabilimento produttivo a meno di 50 km a nord di Città del Messico. Il terreno individuato si trova a Cuatitlán, in un’area agricola di 400.000 mq vicino dall’autostrada che collega Città del Messico allo stato di Querétaro. Dopo un’attenta analisi si decide di affidare il progetto architettonico a Ricardo Legorreta e la costruzione dello stabilimento all’impresa Bufete Industrial. Ricardo Legorreta era allora un giovane architetto, ma già conosciuto per la sua opera che portava le idee di Barragan -nume tutelare dell’architettura messicana in grado di amalgamare tradizione messicana e movimento moderno- ad una scala più grande, quella di edifici commerciali, educativi, pubblici, utilizzando i colori brillanti, le luci e le ombre nel delineare volumi contraddistinti dalle solide forme geometriche platoniche. Il progetto prevede la costruzione di tre volumi regolari collegati tra loro da passerelle coperte: quello più grande per le officine, l’area del montaggio e il magazzino; uno più piccolo per gli impianti di verniciatura, pressofusione e iniezione della plastica; infine il terzo, di chiara matrice olivettiana, che si connota non solo come stabilimento produttivo, ma anche come luogo di socializzazione e cultura. Si riconoscono infatti i servizi sociali, come la mensa, la biblioteca, l’asilo nido e

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l’infermeria coerenti a schemi e modelli applicati in altre fabbriche Olivetti in Italia, da Ivrea a Pozzuoli. Infine, campi da calcio, e spazi verdi per lo svago dei dipendenti. Un volume ortogonale, rosso, contenente la cisterna dell’acqua, si eleva ortogonalmente allo sviluppo della fabbrica segnando assieme a una vasca, l’ingresso alla palazzina per uffici. Tutto l’insieme, come spiega l’architetto Legorreta nella relazione descrittiva del progetto, stabilisce una connessione con il verde circostante valorizzando i luoghi di produzione e lavoro.

Il Progetto culturale Un aspetto fondamentale della politica industriale olivettiana Nell’ambito degli accordi ALALC (Associazione Latino Americana di Libero Commercio), nel 1968 la Olivetti ottiene un Accordo specifico di Complementazione per i prodotti d’ufficio: al Messico viene assegnato il mercato delle portatili per l’intera America Latina, all’Argentina le macchine da calcolo e al Brasile le macchine per scrivere professionali. Questo accordo garantisce alla Olivetti flussi bilanciati tra paesi e favorisce la specializzazione di una sola linea di prodotto. Nel 1979 lo sviluppo del mercato della portatile rende necessario decentrare i montaggi in due nuove sedi, ad Apizaco, nello stato di Tlaxcala, e a Tepeaca, nello stato di Puebla. Si costituiranno così due società, rispettivamente la Ensambladora Tlaxcalteca SA (ETSA) e la Armadora Tepeaca SA (ETSA) dirette entrambe da un gruppo di azionisti messicani. Sempre a fine anni Settanta si inaugura presso la Torre del Reloj di Polanco (Città del Messico) il Centro Cultural Mexico-Italia “Adriano Olivetti”, il cui progetto degli interni è affidata al designer H. von Klier. Questo centro diventa luogo di incontri e di mostre avvicinandosi, almeno idealmente, alla visione di responsabilità sociale e culturale che ha contraddistinto negli anni la società Olivetti.

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Città del Messico, Palacio de Bellas Artes, Olivetti Makes. Dettagli [22 ottobre 2018 - 13 Gennaio 2019]

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ARTISTAS Y PROFESIONALES

Le général Guadalupe Victoria, Président de la République Méxicaine, litografía coloreada a mano. Plancha número 13, Costumes Civils, Militaires et Réligieux. Dibujada por Linati, litografiada por Sattanino.

CLAUDIO LINATI Y MÉXICO (1825-1832)

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Claudio Linati (Parma 1790-Tampico 1832), was a painter, draftsman, lithographer and poet, but first he was “a revolutionary”. He lived in a time of great transformations, at the time when the Old Regime ended, monarchies fell, America became independent and spread the principles of the French Revolution: equality, fraternity and freedom. His life was governed by these principles, which cost him the loss of his property, the separation of his family and exile. Two works of great importance for the Mexican history of the 19th century have remained: the magazine El Iris (1826), where he published the first lithographs made in our country, and the album Costumes Civils, Militaires et Religieux du Mexique (Brussels, 1828), which portrays the Mexico of his time. Based on new data and approaches, we will try to make new contributions to the study of Linati.

Introducción La figura de Claudio Linati es compleja, no sólo por la educación recibida, por su carácter y circunstancias personales, sino también porque la época en la que transcurrió su vida fue de profunda transformación, marcada por la Revolución francesa y el fin del Antiguo régimen, hechos que determinaron la aparición de nuevos paradigmas políticos, sociales y culturales. Vivió en carme propia la lucha entre un sistema que se resistía a morir y una sociedad que aspiraba a ser más democrática y justa, regida por los principios de libertad, fraternidad e igualdad. Linati vivió su época con intensidad, como militar, revolucionario, exiliado, viajero en tierras extrañas, empresario en tierras nuevas, aventurero, poeta, articulista, dibujante, pintor y litógrafo. Pero también como esposo, padre y amigo. Su pensamiento sobre México está permeado por todas estas circunstancias. Para acercarnos a sus ideas, en imágenes o en palabras, es necesario entender a este personaje en sus varias facetas y abordar su visión de México en los diversos terrenos en los que dejó testimonio: la correspondencia; el dibujo y los textos, principalmente en El Iris y en L´Industriel de Bruselas. Los acercamientos a Claudio Linati parecerían agotados. Contamos con estudios muy serios sobre distintos aspectos: como editor de El Iris; como dibujante y litógrafo y, sobre todo, como autor del álbum Costumes Civils, Militaires et Religieux, publicado en Bruselas. 285

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No obstante, quienes analizan El Iris no suelen relacionarlo con el álbum y viceversa, y tampoco hay hipótesis acerca de los motivos de sus dos viajes a México (por ejemplo, las redes de italianos), y mucho menos un análisis de cómo va cambiando su pensamiento sobre México –a veces contradictorio- desde que llega a Veracruz en 1825 hasta que termina la edición de Costumes en1829. Para lograr esta visión global y a la vez transversal de su pensamiento sin dispersarnos demasiado, hemos tomado la etapa de producción del álbum en Bruselas como eje de nuestro ensayo.

Breve semblanza biográfica. Una vida de pasión y compromiso Claudio Linati, de acuerdo con la biografía redactada por su hijo, nació en Parma el 1 de febrero de 1790, hijo del conde Filippo Linati (1757-1837) y de Emmanuela dei Conti Cogoranti, fallecida en el parto.1 A partir de los 9 años el padre lo confió a un joven preceptor, Giuseppe Caderini, quien, mientras le enseñaba latín y griego y lo educaba en los ejemplos de griegos y romanos, iba inculcando al joven Claudio “ideas de libertad y revolucionarias, que casi lo llevan al patíbulo.”2 Además de los estudios literarios y humanísticos, Claudio manifestó desde temprano un especial interés por el arte, participando en una sociedad de grabadores, la Società parmigiana degli incisori a l`acquarello, en la que desarrolló importantes amistades juveniles, y gracias a la cual se han conservado obras primeras de un joven Claudio que todavía no decidía si su futuro serían las armas, las letras o el arte.

La estancia en París y su participación en las guerras napoleónicas En 1809 el conde Linati colocó a Claudio en la guardia del príncipe Borghese, gobernador de Parma. Concedida una licencia por enfermedad, Claudio se trasladó a Paris, en donde se encontraba su padre. El conde Linati era un admirador de Napoleón y de Francia, apoyando los planes de Bonaparte en Italia. Desde 1808 pasaba largas temporadas en Paris, como diputado de Parma en el Cuerpo Legislativo de Francia. Viendo las inclinaciones artísticas de Claudio, el padre lo instaló en Paris para que ampliara sus conocimientos artísticos. De esta estancia parisina nos queda la correspondencia entre Claudio Linati y Giuseppe Caderini, en la que el joven le confiesa sus inquietudes, mencionando como maestro a un pintor italiano, Gioachino G. Serangeli (1768-1852), que alcanzó cierta fama en Paris a principios de siglo XIX.3

Filippo Linati (1883), Vita dal Conte Claudio Linati seguita da un saggio poético del medesimo da documenti e note, Parma, Luigi Battei. Es la biografía más completa de Linati, aunque la correspondencia y algunos datos tomados de su amigo Fiorenzo Galli nos permiten completar este bosquejo. 2 Op.cit., p.8. 3 Gioachino Giuseppe Serangeli había nacido en Roma y falleció en Torino. Su arte presenta todos los rasgos de la pintura académica de la época: poca profundidad, dibujo algo seco. Fue discípulo y seguidor de David, es decir, davidiano. Desde esta época se introduce la idea de que Claudio Linati fue discípulo de David; no obstante, como se verá en este ensayo, las noticias al respecto son ambiguas. 1

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Además de las clases con Serangeli es probable que realizara las actividades propias de los artistas en el París de aquellos años: visitar museos y asistir como oyente a los talleres que, como el de David, atraían a estudiantes y a numerosos amantes de la pintura admiradores del gran pintor de la revolución. Otro artista famoso en aquellos años era François Gérard (1770-1837), a su vez discípulo aventajado de David, cuyo estilo, más suelto y de colores más armoniosos, se refleja en la obra de Claudio. El taller de Gérard era casi tan famoso como el de David, y Claudio Linati, años después, se reconocía discípulo de este artista, preferido de Napoléon y Josefina. La estancia en Paris fue corta pero intensa, ya que tuvo oportunidad de reafirmar su vocación artística y frecuentar los círculos de italianos afrancesados, como los músicos Ferdinando Paer y Ferdinando Carulli. Al abandonar Paris unos meses después, le escribe a Caderini “Veni a Parigi per istruirmi, ora ne partiró per rendermi bestia.”4, es decir, para regresar al ejército. El plan inicial de reunirse con su padre en España, donde la familia tenía propiedades en Cataluña, no se concretó y por el contrario regresó a ocupar su plaza en la Guardia Borghese. En 1812 fue transferido a un cuerpo de caballería holandés, distinguiéndose en la batalla de Lützen. Un año después cayó prisionero en Leipzig y fue confinado en Hungría; vivió también en Silesia y Varsovia, en donde subsistió haciendo retratos y pequeñas pinturas. En 1814 viajó a Barcelona y en febrero de 1815 se casó con Isabel de Bacardí, perteneciente a una familia de la alta burguesía catalana con quien compartió una época feliz y próspera lejos de la vida militar que aborrecía. Los primeros años fueron de estabilidad junto a una esposa culta y atenta, que demostró gran entereza a lo largo de su vida.5 En 1816 nació el primer hijo, Filippo, y dos años después Emmanuelina.6 Pero esta paz conyugal no duraría mucho, y la zozobra política y militar de la Europa post-napoleónica lo llevaría a ser un proscrito en Italia, España y Francia, abocándolo a la aventura mexicana. Según sus biógrafos italianos, en torno a 1818-1819 la familia se trasladó a Parma, en donde Claudio entró en contacto con una logia del Sublime Maestro Perfecto, convirtiéndose en un propagandista del programa revolucionario de los Ducados de Módena y Parma. Descubierta la conspiración, fue condenado a muerte, pena que se le conmutó a cambio de abandonar Italia. La familia se instaló de nuevo en Barcelona.

Carta de Linati a Caderini (29 de junio de 1809), en ”L´Epistolario de Claudio Linati,” con un estudio introductorio de Giuseppe Micheli, p.82. 5 De ella el hijo mayor, escribió: “(…) conosceva la música ed il canto, la letteratura spagnuola e la francese, il che per quel tempo a per quel luogo era moltíssimo; ma quello che é ancora piu, univa ad un cuore ardente ed appassionato, molta grandeza d´animo, molta costanza nei propositi e quelle virtù per combattere e vincere l`avversa fortuna, di cui diede poi tante proven ella travagiata sua vita.” (F. Linati, 1883, 12). 6 Con Isabel tendrán otros tres hijos: Camillo, 1820; Leocadia, 1823 y Albina, 1831, que Claudio no conoció. 4

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Un proscrito italiano en una Europa convulsa (1820-1826) Las desventuras de estos años fueron compartidas por otros tantos italianos, la mayoría de ellos carbonarios, que recorrieron Europa en busca de asilo y paz. Barcelona fue asilo de muchos de ellos, con los que Linati estableció una entrañable amistad: el principal de ellos, Fiorenzo Galli (1802-1844), con quien poco después fundó El Iris.7 El mismo Galli, en un libro publicado posteriormente, Historia de las campañas de Cataluña, proporciona algunos datos de estos exiliados, incluyendo a Claudio Linati.8 Entre 1822 y 1824 se dieron en España una serie de acontecimientos políticos y militares conocidos como Trienio Liberal, durante los cuales Claudio Linati participó defendiendo la causa liberal. Claudio contribuyó con sus propios recursos a la causa, y por recomendación del general Mina organizó una compañía en la Cerdaña que defendió la ciudad de Seo de Urgell. Tras diversas situaciones militares y familiares trágicas, incluido el secuestro de su hija Manuelina, Linati y su familia salieron a Francia, habiendo perdido todos sus bienes, confiscados por Fernando VII. La derrota de los liberales supuso para España una debacle en todos los frentes, retrocediendo en los avances políticos y culturales, regresando a un régimen despótico. Cataluña fue una de las zonas en las que la lucha entre la reacción y el proyecto liberal fue más sanguinaria. Claudio Linati se comprometió con los sectores más liberales, jugándose vida y hacienda por mantenerse en sus ideales. De la participación de Linati nos habla Fiorenzo Galli en su libro ya citado. Galli a su vez se refugió en Inglaterra acompañando al general Mina, de quien era asistente en el Estado Mayor. El exilio afectó a toda la familia; Isabel partió a Parma con sus hijos mientras Claudio era encarcelado en Montlouis. La correspondencia con los amigos, especialmente con Antonio Panizzi, permite reconstruir el periplo de encierros, soledad y tristeza, sin recibir noticias de la familia. En una de las cartas a Panizzi escribió: Duro è davvero, abbandonare per sempre una moglie che amo, e che non merita, i figli, il padre, rinunciare agli oggetti da cui si ricevette la vita, però soggiacere all’insultante indulgenza di tirannia è tuttavia più duro. Perfino la mia coscienza è tranquilla, quello che io sento è il non essere morto nel campo di battaglia (…). Dieci anni in pace non li vive l’Europa.9

En otra carta a Panizzi se refiere a Fiorenzo Galli como “mio particolare amico, anima elevata”, joven virtuoso. Y le advierte a Panizzi:

Los editores de El Iris fueron Claudio Linati, Fiorenzo Galli y el cubano José María Heredia. Es importante recordar que Fiorenzo Galli había sido editor de una revista en Barcelona, El Europeo, y que poco después algunos de los artículos que Galli publicó en Barcelona se reprodujeron en El Iris. Ver Sprague (2009). 8 Fiorenzo Galli publicó este libro en Paris en 1829 y Linati escribió una reseña en L´Industriel. 9 Micheli (1935), Memorie Parmensi per la Storia del Risorgimento, Carta de Claudio Linati a Antonio Panizzi, Montlouis 25 de noviembre de 1823. 7

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Egli ti parlerà molto di me, se potremo trovarci tutti tre assieme, né la miseria né la sfortuna potranno impedirci di passare momento piacevolissimi”10

Y le ruega le de noticias de Londres, de cómo vivir allí con pocos recursos, qué clase de protección ofrece el gobierno a los prófugos, etc.. Y termina así su carta, como adivinando cuál puede ser la salida a esta terrible situación: imagina la felicidad de los que se han ido al otro lado del Atlántico y desde las playas vírgenes del nuevo hemisferio miran con sonrisa desdeñosa como la corrupta Europa se agita locamente. Sabemos por la correspondencia que en enero de 1824 estaba en Montpellier; en ella se refiere por primera vez a México y a la minería, mencionando una empresa que explotaba minerales en México y sugiriendo a Panizzi que le consiga empleo en ella. La idea de trasladarse a Inglaterra no estaba del todo descartada, y le pregunta a Panizzi si se podría ganar la vida como retratista en miniatura, aunque la opción de Grecia le atrae.11 A finales de año residía en Aviñón, decidido a dejar Francia. Su concepto de los países católicos del sur era negativo, tras la experiencia del fanatismo religioso en la Guerra de Cataluña. Curiosamente, en una de sus cartas expresó que ni México ni Sudamérica serían nunca tierras de libertad, debido al catolicismo. Su estancia en México sólo servirá para reforzar esta idea, convencido de que la felicidad social requiere exterminar la superstición y el fanatismo creados y alimentados por sacerdotes y frailes.

Primera estancia en Bruselas El día 1 de noviembre de 1824 escribió a Panizzi desde Bruselas, una ciudad que ya entonces acogía a los perseguidos y proscritos sin importar su ideología. Así lo expresó a Panizzi: Perfino calco una terra ospitale, e malgrado la nebbia e la pioggia, non duolmi dell’abbandonato sole del meriggio.”12

Vivía de la literatura, escribiendo artículos y haciendo traducciones. En abril del siguiente año todo apunta a que el proyecto de irse a México se estaba fraguando. Bruselas jugó un papel fundamental en la vida de Claudio Linati y en sus relaciones con México. A finales de noviembre Linati se sentía sólo y aislado, y escribió a Panizzi que en Bruselas se aburre un tanto porque no conoce italianos ni españoles refugiados. Este dato es importante ya que el cónsul de México en Bruselas, Manuel Eduardo de Gorostiza, pieza clave en el viaje de Linati a México, era un correligionario de Claudio en su calidad de exiliado liberal.13 Ibid., p. 95 Le confiesa a Panizzi que por este motivos ha escrito dos cartas, una a la Sociedad de los Filohelenos en Londres y la otra a Lord Byron, quien por cierto moría en estas fechas en Misolonghi. 12 Micheli (1935), carta de Claudio Linati a Antonio Panizzi, 1 de noviembre de 1824. 13 Manuel Eduardo de Gorostiza, Veracruz 1789, Tacubaya, 1851. Al salir de España se puso en contacto con José Mariano Michelena, encargado de la Legación mexicana en Londres, quien lo protegió. 10 11

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Gorostiza, nacido en Veracruz, vivía en España desde niño, en donde había desarrollado una exitosa carrera como dramaturgo, pero su compromiso con el movimiento liberal lo obligó a exiliarse. Instalado en Bruselas reclamó su derecho a la nacionalidad mexicana y fue nombrado por el gobierno de Guadalupe Victoria representante de México en los Países Bajos. Gorostiza fue el encargado de canalizar la propuesta de Claudio Linati de llevar la litografía a México, poniéndolo en contacto con la Legación Mexicana en Londres, responsable de la tramitación oficial y de obtener los recursos necesarios para la compra de la imprenta. El viaje de Linati a México se hizo a través de Inglaterra. El viaje se efectuó en verano de 1825, con el fin preciso de tomar el buque que lo llevaría, junto con Gaspare Franchini y Carlos Sattanino a México. Es probable que Claudio Linati pensara en México como una de las opciones más firmes para labrarse un futuro, tomando en cuenta que estaba proscrito de Italia y España y que Francia, regida otra vez por los borbones aliados con Fernando VII, le negaba la residencia. Ya vimos como en su correspondencia con Panizzi, Claudio se refirió dos veces a México, la primera vez refiriéndose a una epresa minera y la segunda poniendo en duda que en los países dominados por el clero católico pudieran fructificar las ideas de libertad. Insistimos en estos dos tópicos porque reaparecerán con frecuencia en sus escritos. En los primeros meses de 1825 concurrieron varias circunstancias que llevaron a Claudio Linati a presentar el proyecto de la litografía ante las autoridades mexicanas: la asociación con el litógrafo italiano Gaspar Franchini, el contacto con el liberal hispano-mexicano Manuel Eduardo de Gorostiza y quizás la noticia de que Fiorenzo Galli se había instalado en México.14 En esta ocasión no podremos tratar con detalle el tema de los preparativos para llevar la litografía a México, entre otras cosas porque los documentos sobre la negociación entre Bruselas, Londres y México, iniciada en abril de 1825, ya ha sido publicada y comentada de manera muy detallada por varios investigadores.15 Pero es necesario decir que a partir de abril de 1825 se iniciaron los trámites ante el cónsul Gorostiza, y en verano de aquel mismo año Linati, Franchini, Sattanino y un cuarto ayudante, estaban en Londres para embarcar en un buque de la armada mexicana, mientras las prensas, piedras y demás materiales y herramientas, salían de Amberes con dirección a Veracruz. El pasaporte para viajar a México lo habían recibido el día 14 de junio de 1825. La correspondencia entre los diplomáticos en Europa y el gobierno mexicano fue intensa en estos meses. La información que arroja esta documentación es muy rica. Hemos escogido un oficio del ministro plenipotenciario en Londres, José Mariano Michelena, explicando a Lucas Alamán, secretario de Relaciones Interiores y Exteriores quién era Claudio Linati y cuál era su compromiso con México. Michelena escribe que la documentación que adjunta “lo instruirán de la solicitud de Linati y Franchini, Nombrado cónsul en los Países Bajos, más tarde pasará a la Legación de Londres. En 1833 regresó a México, ocupando cargos muy importantes, entre ellos primer director de la Biblioteca Nacional. También se dedicó a fundaciones de beneficencia. 14 La única biografía sobre Fiorenzo Galli, podemos encontrarla en P. Sprague (2009, 39-46). 15 E. O´Gorman, y J. Fernández (1995); E. Cervantes Sánchez (1997); A. Aguilar Ochoa (2001).

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propietarios de un establecimiento de Litografía y Calcografía en Bruselas (…) que se ofrecen abrir una Academia gratuita de ambas artes. (…) las proposiciones poco onerosas de los interesados, lo han impulsado a franquearles toda clase de auxilios para el transporte de sus piedras y máquinas, a darles algunas cantidades en Londres para habilitación de papel y otras cosas, y el pasaje de ellos y dos personas más en el bergantín de guerra nacional El Bravo”. Michelena los califica de hombres desgraciados e industriosos (…) el primero es hombre respetable en Italia y todos son víctimas de la tiranía y de su amor a la libertad.”16 Por una carta a Panizzi y por los documentos oficiales mexicanos, podemos deducir que Linati estuvo en Inglaterra entre julio y agosto de 1825 y que aprovechó la ocasión para encontrarse con Antonio Panizzi. Juntos visitaron los numerosos amigos italianos exiliados en Inglaterra, compañeros de aventuras y penalidades.

México. Fundación de El Iris Claudio Linati y sus acompañantes llegaron a Veracruz en septiembre de 1825; permaneciendo unos días a bordo para evitar la fiebre amarilla. A Claudio le impactó ver la fortaleza de Ulúa ocupada por los españoles. En una carta a Panizzi el 22 de septiembre le contaba de San Juan de Ulúa acosada por los republicanos mexicanos; los recuerdos de la guerra en España estaban todavía muy vivos. En diciembre escribió de nuevo a Panizzi desde la ciudad de México. El día 20 había visto a Rivafinoli, un italiano gerente de la mina de Tlalpujahua, y hablaron de Fiorenzo Galli, empleado en aquella mina. En la misma carta escribe algo revelador: “(…) ho fatto una raccolta di costumi messicani che si pubblicherà in Europa (…).” 17 El 6 de enero le contó a Panizzi los problemas de Fiorenzo Galli con Rivafinoli, dando por sentado que se quedaría en la ciudad de México para emprender un proyecto conjunto. En la misma carta afirmaba que el futuro de México era la agricultura, las carreteras y las canalizaciones. Y le anunciaba que empezaría un periódico “a su modo”, para civilizar a estos semibárbaros. Aunque Linati parece adjudicarse la paternidad de El Iris, la idea del periódico no surge sino en el momento en que Galli y Linati se reencuentran en la ciudad de México y esta idea era con toda seguridad de Fiorenzo Galli. Durante su estancia en Barcelona, y antes de entrar como ayudante del general Mina, Fiorenzo Galli fue el alma de una publicación barcelonesa considerada en la actualidad un punto de referencia del inicio del romanticismo en España. Galli trajo consigo a México ejemplares de dicha revista, titulada El Europeo, hasta el punto que varios de los artículos escritos por Galli en Barcelona se reimprimieron en El Iris.18

Cervantes Sánchez (1997), Oficio enviado por José Mariano Michelena a Lucas Alamán, julio de 1825 Micheli (1935), Carta de Claudio Linati a Antonio Panizzi, ciudad de México, 20 de diciembre de 1825. 18 Fiorenzo Galli había presentado a Linati un colega en las minas de Tlalpujahua, Fréderik Waldeck, personaje que tendrá mucha actividad en México en los años siguientes. Claudio Linati, previendo el próximo fin de Franchini le propuso, sin éxito, la dirección de la imprenta litográfica. 16 17

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El día 4 de febrero de 1826 iniciaba la publicación de El Iris, cuyas oficinas se encontraban en la calle de San Agustín, actual República de Uruguay.(II. 1). Para estas fechas Gaspar Franchini ya estaba muy enfermo y su muerte dejó a Linati en una situación muy precaria, por los gastos de su enfermedad y por el fallecimiento de un buen amigo que por sus conocimientos de la técnica litográfica era el alma de la imprenta.

Fig.1. El Iris. Periódico crítico y literario, por Linati, Galli y Heredia. México:1826.

La revista fue anunciada en varios periódicos del país, y al parecer tuvo suficientes suscriptores. Sin embargo, a juzgar por una carta de Claudio Linati al ministro Espinosa de los Monteros, la marcha de la revista había significado mucho esfuerzo. En

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el mencionado oficio Linati explicaba que a pesar de la muerte de Gaspar Franchini, y a pesar de no ser él mismo impresor, “se puso en el deber de llevar adelante la Litografía, lo que después de muchos ensayos y experimentos costosos cree haber conseguido, sujetando al juicio de los inteligentes sus últimas producciones. (…) sin embargo, celoso de cumplir con lo que prometió, ha mantenido hasta ahora a un joven oaxaqueño para que aprendiera la Litografía y reemplazara al difunto impresor, con tanta más ventaja que conoce bastante bien el dibujo.” 19 Al final del documento anunciaba que esperaba de la generosidad del gobierno mexicano para obtener una indemnización que le permitiera a él y a su dependiente Sattanino, enfermos los dos, regresar a Europa. Las negociaciones siguieron varios meses; hasta que en septiembre del mismo año hubo un acuerdo aceptable para ambas partes. Arreglo que incluía dejar a dos discípulos formados: el oficial del Estado Mayor Serrano así como a un joven oaxaqueño, Gracida, que ha pasado a la historia del arte nacional como el primer litógrafo mexicano.20 Hechos los arreglos correspondientes de entrega de la imprenta, que terminó depositada en la Academia de San Carlos, Claudio Linati, Carlos Sattanini y un tercer personaje que algunos identifican con Fiorenzo Galli, partieron de México el 13 de diciembre hacia Nueva York. Un mes después Linati y Sattanino embarcaban rumbo a la ciudad de Amberes. Claudio Linati llegó a Bruselas en mayo de 1827. Una carta a Panizzi desde Londres, de 7 de marzo de 1827, indicaría que antes de instalarse en Bélgica pasó por Londres. No es raro, ya que en dicha carta manifestaba que había escrito un libro sobre México que pretendía vender a algunos libreros. A este libro hará referencia un par de veces en sus escritos en L´Industriel, y pudo tratarse de un libro sobre la minería en México.

México en El Iris En la edición facsimilar de El Iris (1988), Mario Schneider y María del Carmen Ruiz Castañeda llevaron a cabo el primer estudio importante sobre la revista de Linati, Galli y Heredia. Años más tarde Eugenia Claps Arenas (2001), llevó a cabo un análisis pormenorizado de las temáticas desarrolladas en El Iris, por lo que no vamos a repetir este recorrido. Más bien relacionaremos los escritos sobre México, directos o indirectos, con los textos que poco después Linati publicó en Bruselas, ya sea en forma de artículo en L´Industriel, ya sea como texto que acompaña las litografías del álbum. El objetivo declarado de El Iris se publicitó en varios medios coetáneos y la revista lo declaró en la Introducción en el primer número, con textos de los tres redactores: Heredia, Galli y Linati. Resumiendo podemos decir que la revista pretendía

Oficios de Claudio Linati al ministro Espinosa de los Monteros, julio de 1826. Doc. 357, p. 337. En realidad el primer litógrafo mexicano fue José Manzo y Jaramillo, quien realizó las primeras litografías en París, a finales de 1825, mismas que se exhibieron en Puebla en 1826. José María Gracida había sido discípulo de la Academia de San Carlos mientras aprendía el oficio de litógrafo con Claudio Linati. 19 20

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[…] ofrecer a las personas de buen gusto en general y en particular al bello secso (sic), una distracción agradable para aquellos momentos en que el espíritu se siente desfallecido bajo el peso de atenciones graves, ó a abrumado con el tedio (…) Tenemos la intención de acompañar con algunos números del Iris retratos fieles de los personajes contemporáneos que se han hecho célebres por sus talento ó virtudes (…)21

Entre los personajes privilegiarán a los héroes de la independencia, para que los lectores aprecien sus sacrificios para darnos patria así como a grandes personajes de la época. También se ofrecerá poesía, teatro –por ser escuela de las costumbres. Las biografías se redactarán “con pluma filosófica” con el fin de promover sentimientos nobles y generosos. Se anunciarán descubrimientos y novedades en artes y ciencias. También se ofrecen a publicar artículos que se les comuniquen. Heredia, quien es autor de la primera traducción, ruega para terminar, el favor del bello sexo. Por su parte Linati escribe un texto sobre el teatro en Europa en tanto que Galli se hace cargo de la introducción a los temas de bellas letras, música y modas. Para deleite y como reclamo de las jóvenes mexicanas, este primer número incluye al final una bella litografía a color con un figurín de muselina rosa, a la última moda europea.22 Claps Arenas distingue en la revista las siguientes temáticas: literatura; educación y variedades; biografías de personajes mexicanos y de otros países, y finalmente política, el tema más delicado y por el que finalmente tendrán problemas con las autoridades mexicanas y con el propio José María Heredia, de acuerdo con Ángels Solá (1986).23 Esta autora ha realizado el análisis más amplio y exhaustivo de los contenidos políticos de El Iris y de la relación de Galli y Linati con un personaje que fue quien, probablemente, los llevó al delicado terreno de la política mexicana: Oracio de Attelis, marqués de Santangelo. La tesis de Solá sobre el fin abrupto de El Iris se inscribe en la lucha que se estaba dando en México entre escoceses y yorkinos. De acuerdo con Solá, el cierre de El Iris no se dio tanto por haber defendido las posturas de Orazio de Attelis cuando el gobierno mexicano lo atacó, sino a la coincidencia de los tres italianos en los mismos principios carbonarios e internacionalistas. Solá escribe: […] el motivo (del cierre de El Iris), estriba en que los tres estaban llevando a término una misma tarea: la de crear una opinión pública que forzase el gobierno a adoptar medidas políticas más radicales. Tanto Santangelo como Linati y Galli centraban su análisis político en las coordenadas de la situación internacional y sus trabajos no sólo tenían el mismo objetivo sino que desarrollaban un mismo plan. Los de Santangelo no acabaron de perfilarse (…) pero pienso que eran los mismos de dictadura que expuso El Iris.24

Heredia, Introducción, El Iris (1826), pp. 1-2. El tema de las modas en El Iris fue estudiado en M. Galí Boadella (2004). 23 Los acercamientos a El Iris, a pesar de tratarse de una publicación de corta duración, son muy variados. Por nuestra parte analizamos los artículos de Claudio Linati desde el punto de vista de su afrancesamiento político y estético; es decir que la posibilidad de análisis desde otras perspectivas no se ha agotado todavía. 24 Àngels Solá (1986), “Escoceses, yorkinos y carbonarios. La obra de O. de Attelis, marqués de Santangelo; Claudio Linati y Fiorenzo Galli en México en 1826”, en Historias, num. 13, abril-junio, p. 88-89. 21 22

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Una preocupación de los tres editores era el tema de la regeneración de la sociedad mexicana, y esta preocupación se asoma en muchos textos, aun cuando no se mencione a México directamente; como cuando se habla de dictadura, o de tiranía, temas que muchas veces tocaban aspectos sensibles de la política mexicana. Por nuestra parte, ante las limitaciones que tiene un capítulo, hemos decidido no profundizar en el estudio de El Iris, y enfocar la atención en textos poco conocidos de Linati escritos en Bruselas, tanto los de carácter periodístico como aquellos que acompañan las imágenes del álbum, y en su caso relacionarlos con los de El Iris. Nosotros pensamos que los motivos para abandonar México no fueron sólo políticos. De hecho en su carta a Espinosa de los Monteros, Claudio Linati manifestó que el rudo trabajo de impresor lo había enfermado. Creemos que la aventura mexicana no cumplió sus expectativas, deseaba ver de nuevo a su familia y amigos y el momento mexicano no era propicio para despegar como empresario; por el contrario tenía el proyecto de publicar un libro y el álbum de trajes mexicanos en Europa. En este punto nos parecen relevantes unas precisiones acerca de Linati y la litografía. Como ya hemos leído, Claudio Linati no pensaba hacerse cargo de las tareas de impresor; sólo la muerte de Franchini y el rechazo de Fréderik de Waldeck de dirigir la imprenta lo empujaron a realizar esta tarea. Sus conocimientos sobre la técnica eran rudimentarios. La misma litografía, en el momento de su traslado a México, estaba en una fase inicial. En 1822 Godefroy Engelmann, el principal litógrafo de su época,25 había publicado el primer manual completo y útil, pero todavía muy básico; los grandes adelantos se darán al final de la década, y sobre todo a partir de 1837, cuando Engelmann desarrolló la cromolitografía. Es muy probable que durante la ejecución del álbum en Bruselas, Claudio Linati adquiriera mayores conocimientos al lado de Sattanino. También cabe la posibilidad que participara en la tarea del acuarelado de las imágenes. Cabe señalar que un discípulo de Engelmann llevó la litografía a Barcelona en 1820, pero no hay ninguna noticia de que Linati se acercara entonces a esta nueva técnica de impresión artística. En aras de enlazar con el siguiente capítulo, queremos señalar algunos artículos y litografías publicados en El Iris que conviene tener en cuenta como antecedente a la hora de analizar el proceso de producción de Costumes mexicains en Bruselas. En primer lugar recordemos la litografía más ambiciosa de Linati titulada Tiranía, una tema de preocupación constante, presente en muchos de sus textos; en segundo lugar los retratos del presidente Victoria, Hidalgo y Morelos, considerados por Linati los artífices del nuevo México y la cara más positiva del país (II. 2). El tópico de las modas y los figurines se abandona, lo que nos lleva a pensar que dicho tema fue utilizado como reclamo por parte de los editores de El Iris, tratando de acercar a la mujer como nuevo público lector, un sector que en Europa ya estaba integrado al consumo Godefroy Engelmann (1778-1839), su primer taller lo abrió en Mulhouse y un año, después, en 1816, se instaló en Paris. En 1822 publicó se célebre Manuel du dessinateur lithographique (2ª. edición de 1824, que es la que llegó a México con José Manzo). Es muy probable que Claudio Linati también poseyera el manual de Engelmann, la base en aquellos años para el aprendizaje de la técnica litográfica. En 1830 la empresa de Engelmann, con sucursal en Londres, publicó una edición inglesa del álbum de Claudio Linati. 25

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editorial. En todo caso el álbum reproduce trajes, pero no modas. Algunas de las preocupaciones expresadas en El Iris, como las antigüedades mexicanas; el tema de la superstición y el fanatismo, la religión católica vista como freno a la civilización, reaparecerán en su etapa de dibujante y escritor en Bélgica. Finalmente me gustaría insistir en el hecho que sus preocupaciones se sitúan en un contexto internacional, en un horizonte muy amplio que hay que tomar en cuenta. Esta dimensión suele olvidarse cuando se analiza su obra gráfica en Costumes mexicains, viendo solamente bellas y curiosas láminas sobre el México del siglo XIX, un antecedente del costumbrismo romántico y una fuente de la iconografía nacional mexicana. Pero si revisamos el proceso de producción del álbum y en especial los textos sobre México publicados en L´Industriel, la imagen del país adquiere matices menos idílicos y exhibe los sentimientos contradictorios de Claudio Linati ante la realidad mexicana.

Fig.2. El General Guadalupe Victoria. Firmado Linati f. Litografía nacional. El Iris, número 9, Sábado 1 de abril de 1826.

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El proceso de producción y promoción de Costumes mexicains, y los artículos de Claudio Linati en L´Industriel. Una radiografía de su pensamiento sobre México L´Industriel,26 se convirtió en el órgano de difusión del álbum de Linati al anunciar las sucesivas entregas. Por estos anuncios conocemos la periodicidad de los fascículos, que constaban de cuatro litografías a color, a 1.50 florines. Los textos de promoción del álbum descubren el proceso de producción, las estrategias para atraer lectores así como algunas ideas de Claudio Linati sobre México. El autor de estos avisos podría ser en algunos casos el propio Linati, aunque parecen redactados por otra persona. Hay que señalar que en un principio las entregas constaban únicamente de las imágenes litografiadas, y sólo al final, a partir de la penúltima entrega se anunciaron los textos. Para ser precisos: “La onceava entrega de Costumes mexicains, dibujados del natural, y litografiados por el conde Linati, acaba de aparecer en la Lithographie Royale; el autor se ha rendido a los deseos de los suscriptores añadiendo un texto bastante curioso a cada una de las planchas; la obra completa se terminará en 15 días (…)”.27 (II. 3)

Fig.3. Portada de la primera edición de Costumes Civils, Militaires et Réligieux du Mexique. Dessines d´aprés nature par Claude Linati, Bruxelles, 1828

L´Industriel empezó a salir en enero de 1828 y publicó su último número la primera semana de 1830. El periódico se imprimió en distintas imprentas bruselenses, pero las litografías que lo ilustraban se producían en la Lithographie Royale propiedad de J.-B. Jobard. Al principio era bisemanal, y más tarde sólo dominical. 27 Costumes mexicains, L´Industriel, num. 66, dimanche 23 de novembre 1828, p. 8. 26

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Fig.4. Paso del Viático, dibujo acuarelado sobre papel, Claudio Linati, México, 1826. Colección Museo Soumaya, Ciudad de Mèxico.

Antes de conocer estos anuncios conviene saber que Jobard ya había publicado álbums parecidos, mismos que Claudio Linati pudo conocer antes de su viaje a México. Ello explicaría que tan pronto llegara a Veracruz, Linati se pusiera a la tarea de dibujar los tipos mexicanos.(II. 4) En varios países europeos se habían publicado series de trajes, vistas, uniformes militares, religiosos y fiestas populares. Estas publicaciones solían ser resultado de los periplos de viajeros interesados en lo exótico o amantes de aventuras en países desconocidos; pero algunos respondían principalmente a intereses de editoriales a la caza de un público ávido de novedades y exotismo. La aparición de la litografía abarató estas publicaciones ilustradas, ampliando el mercado considerablemente. En Inglaterra editores como Rudolph Ackermann son un buen ejemplo de este interés comercial. Así, en 1820, Ackermann ya había publicado en Londres un álbum con vistas de Buenos Aires y Montevideo.28 L´Industriel era un periódico promovido y dirigido por Jean-Baptiste Jobard. Nació Jobard en 1792 en Baissey (Haute-Marne, Francia) realizando estudios en Langres y Dijon. A los 17 años entró a trabajar en las oficinas del catastro, ocupación que lo llevó a Holanda, que en aquel momento estaba bajo dominio francés. Pocos años después, habiendo conocido la litografía y consciente de su valor comercial y artístico, renunció a su plaza y se instaló en Bruselas, en donde apenas se había introducido la litografía y Picturesque Ilustrations. Buenos Ayres and Monte Video. Twenty-four Views. Published by R. Ackermann, printed by L. Harrison, 373 Strand, London MDCCCXX. En 1830 apareció una edición inglesa del propio álbum de Claudio Linati. Ackermann, editor alemán con empresa en Londres, publicaba libros y revistas para la América recién independizada; abrió una tienda en la ciudad de México, regentada por su hijo. 28

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no había ningún taller importante. En 1817 el hermano de Alois Senefelder, llegó a Bruselas para dar cursos de litografía; poco después Jobard imprimió su primer trabajo importante: las planchas de los Annales générales des Sciences physiques. Pero no fue sino a finales de 1820 que Jobard fundó su propia imprenta litográfica, contratando al joven Jean-Baptiste Madou.29 J.-B. Jobard fue sin duda el editor-litógrafo más importante de los años veinte en Bélgica. Además de sus álbums, produjo numerosas obras por entregas, estampas de actualidad, trajes, escenas de la revolución belga, etc.. Algunas de las publicaciones fueron reconocidas por la Societé d´Encouragement de Paris. Entre ellas: Histoire de Napoléon, La Description de Java, con diez litografías a color, Le Voyage pittoresque dans les Pays Bas, La Description de la bataille de Waterloo, Les costumes belges anciennes et modernes, L´Oeuvre de Flaxman, La Méthode de Dessin d´aprés Pestalozzi, etc.. Fue un hombre interesado en los avances científicos y técnicos, prefigurando el método cromolitográfico y la fotolitografía de acuerdo con su biógrafa Marie-Christine Claes. Desde el punto de vista artístico y técnico, Jobard siempre fue un editor creativo y a la vanguardia. Se le reconocen mejoras de todo tipo: incrementó la libertad del artista gracias a las innovaciones técnicas y la variedad de medios: el lápiz graso, el pincel y la tinta diluida. Trató de igualar con las piedras las diferentes técnicas de la talla dulce mejorando la rapidez y la precisión de ésta y disminuyendo el costo. Facilitó el trabajo del obrero mejorando la función en las prensas (…). (Claes, 2006, p.1-2)

A raíz de los acontecimientos políticos de 1830 su establecimiento cerró, aunque L´Industriel sugería que la competencia de los libreros parisinos podría haber sido el origen de su ruina. A partir de entonces se orientó hacia la prensa política, fundando varios periódicos, entre ellos Le Courier belge. Entre sus primeras publicaciones periódicas se encuentra L´Industriel, periódico mensual, editado entre 1828 y 1831, en el que Claudio Linati colaboró intensivamente. En 1841 Jobard fue nombrado director del Museo de la Industria y fundó su Bulletin du Musée Industriel. Creador de la famosa lámpara de los pobres, que iluminaba, calentaba y servía para cocinar, sus inventos tenían tanto de utópico como de preocupación social. Este interesante personaje fue sin duda un apoyo incondicional para Linati, y no solamente su editor, como lo demuestra que Claudio se convirtiera en uno de los principales articulistas de L´Industriel. Revisando el periódico encontramos que en el num. 13, se anunció Costumes Belgiques, una de las publicaciones estrella de Jobard. Unas semanas después, en el número 34, inició la publicidad de Costumes mexicains.30 Se trataba de la tercera entrega, es decir que las dos primeras aparecieron en los primeros meses de 1828. Madou (1796-1877) fue dibujante, pintor, topógrafo y litógrafo. Sus obras son muy numerosas, pero nos interesa señalar dos títulos publicados por Jobard que guardan relación con al álbum de Linati: Costumes Belges, civiles, militaires et religieux, anciens et modernes (1825 y años siguientes), así como Voyage pittoresque dans les Pays Bas (1821-1828). De la primera Linati parece haber tomado incluso el nombre. 30 El álbum de Linati se anunciaba en L´Industriel como Costumes mexicains y vamos a respetar esta forma en nuestro texto. 29

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La publicación se anunció como Costumes mexicains, publiés par Charles Sattanino, italien, con el siguiente texto: ¡Otra vez trajes! Después de los suizos y los griegos vemos aparecer los mexicanos. Así, poco a poco daremos la vuelta al mundo paseando frente a las tiendas de estampas. La tercera entrega de los trajes mexicanos, dibujados por el señor Linati, que acaban de aparecer en la Lithographie Royale, igual que en las primeras entregas, lleva la huella del clima, que libera a estas gentes de muchos de los inconvenientes y necesidades de las que los largos inviernos nos esclavizan.31

Aparece aquí uno de los prejuicios más generalizados sobre los climas tropicales, según el cual los hombres pueden dedicarse a holgazanear gracias a la bondad del clima. Como forma de reclamo enumera algunos de los tipos que contiene el álbum: el vendedor de dulces cubierto con su manta; la joven india, con sus formas apenas veladas por una gasa ligera; el escribano público para los “amores iletrados” y el negro que habita las costas. Y añade: En general la ejecución de esta tercera entrega parece más cuidada que las primeras; y deseamos que el autor, animado por sus amateurs, tal y como lo ha sido por un augusto personaje, pueda continuar una empresa que le hace honor.32

Un par de meses después se anunciaba la quinta entrega; en este caso como Des Costumes Mexicains, par M. Linati. Cabe señalar que se promovían también Souvenirs de Bruxelles y la Guide du Voyager dans Bruxelles, todo ello en venta en la tienda de Jobard. Es decir, para un público que viajaba, ávido de noticas de nuevos países, de ser posible exóticos. Aquí el redactor entra a describir con lujo de detalle las cuatro planchas: caballos mexicanos, la joven a caballo, el carnicero y el pastor. El común denominador de las cuatro imágenes es el caballo mexicano, que el anuncio considera noble descendiente del caballo “andaluz que los conquistadores españoles llevaron a América, formando una parte integrante, muy importante, de la población mexicana (…).”33 En el siguiente número se promovió no sólo el álbum de Linati sino también Costumes belgiques, Chateaux et monuments du Pays-Bas, así como otra de las series notables de Jobard titulada Musée de peinture et sculpture. Los Costumes mexicains llevan ahora el nombre de Sattanino, éditeur. El periódico señalaba que las láminas proporcionan al lector una idea de la diversidad de los caballos mexicanos, además de presentar un cuadro del “estado social y las condiciones curiosas de este país interesante”.34 Curiosa le parece la litografía del Apache, que describe de manera Costumes mexicains, publiés par Charles Sattanino, italien, L´Industriel, num. 34, dimanche 27 avril 1818. La cuarta entrega no se anunció. 32 Sugerimos que este ilustre personaje pudo ser el rey de los Países Bajos, cuyo retrato Claudio Linati había dado a conocer unas semanas antes. 33 Des Costumes mexicains, L´Industriel, num. 48, dimanche 20 juilliet, p. 7. 34 Costumes mexicains, L´Industriel, num. 50, dimanche 3 d´aout, p. 7. En realidad se trata de la sexta entrega, y corresponde a las ilustraciones 21, 22, 23 y 24 del álbum original. 31

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novelesca y muy gráfica; a continuación comenta que el autor nos transporta al sur del país, a las orillas de Guazacualco, en donde unos militares vigilan las costas mientras la naturaleza despliega el “lujo de su vegetación”. La escena le sirve al comentarista de la nota – seguramente al propio Linati- para apelar a “los sueños” de exotismo de la “imaginación europea”.35 El texto capta perfectamente las contradicciones del europeo ante esta América salvaje pero a la vez subyugante, la América que sin embargo ha luchado por la liberación de sus cadenas: Cuántos sueños no despliega la imaginación europea en estas playas encantadas; aunque los rayos ardientes del sol, los insectos desagradables e inoportunos, los reptiles venenosos, los crustáceos incómodos ahí están para equilibrar las ventajas de una fertilidad espontánea y para explicar el aire de indolencia, de cansancio y de miseria, ya sean hombres, ya sean caballos, condenados a resguardar estas playas ricas pero insalubres. Mientras que los descendientes del Cid y de Vasco de Gama parecen irritarse porque el yugo que los oprime no es suficientemente pesado, y corren a pedir más cadenas, o que aquellos en este grupo que se atreven a invocar la libertad lo hacen tan débilmente que ridiculizan esta causa sagrada, compran sus favores al precio de su sangre y reafirman su altar con el hierro de sus espadas.36

A estos hombres, añade el autor de la nota, se los ha visto desafiar a la muerte y mantener el honor bajo el fuego enemigo; se los ha visto sacudidos por una indignación noble, aquella necesaria para fundar imperios y repúblicas. La nota pudo ser de Linati porque expresa claramente su impresión dual de México: la contradicción entre una naturaleza exuberante y fértil pero capaz de someter la naturaleza humana; unas condiciones sociales corroídas por el despotismo, pero patriotas dispuestos a dar la vida para obtener la libertad. Una imagen de esta idea podría ser la escena en la que un criollo echa el lazo a un oficial español arrastrándolo fuera de la línea de batalla. En esta escena, como dice el autor de la nota, se ve por un lado la habilidad de estos campesinos para manejar el lazo, al tiempo que ofrece un rasgo de este heroísmo que sólo se produce por el amor a la patria. A continuación se ensalza al nuevo ejército mexicano, creado por el gobierno independiente, con una buena organización de las tropas y 13 regimientos de caballería, que contrastan con el Apache que cabalga casi desnudo a su antojo por la zona norte del país. El siguiente número del periódico dedicó dos artículos a México, ambos con toda seguridad de Claudio Linati, aunque se publicaron sin firma. El primero relata con bastante detalle la vida del presidente Victoria, bajo el título de “Notice sur le Président actuel du Mexique”; el segundo se titula “Les Mines du Mexique”, un tema que ya había aparecido en el número 5 de L´Industriel. Aquella vez se anunciaba como el extracto de una obra inédita, y creemos que podría ser el libro que Claudio Linati pretendía publicar en Europa. No hay duda de que ambos artículos se deben a Linati y estarían destinados a despertar el interés no sólo de un público general sino de algún El tema de la colonia de Guazacualco ya fue tratado en El Iris, porque en aquella población el italiano Francesco Vecelli realizaba obras por encargo del gobierno mexicano. 36 Costumes mexicains, L´Industriel, num. 50, dimanche 3 d´aout; todas las traducciones son de la autora del texto. 35

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empresario interesado en invertir en México. El artículo hace un resumen histórico de la minería mexicana, sus propietarios y diversas anécdotas acerca de los yacimientos. Su tono raya a veces en lo novelesco, tratando de captar la atención de los europeos hacia este país bárbaro pero a la vez prometedor. La figura de Guadalupe Victoria atrajo fuertemente a Claudio Linati. Expresó elogios hacia su persona en tanto presidente de la joven República, pero se sintió cautivado por su vida novelesca afín a la idea del héroe de la época: revolucionarios que pasan pruebas sin fin para librar al mundo de la tiranía y el oscurantismo. La primera vez que Claudio Linati se ocupó del presidente Victoria fue el en El Iris, iniciando una serie de retratos de próceres.37 (Ver Il. 2) Se trata de una litografía firmada por Linati; el retrato de perfil sugiere que se tomó de una miniatura, de un retrato en una cera o por medio de un pantógrafo. En Costumes mexicains, junto con la imagen de Victoria de cuerpo entero, vestido de militar (Il. 5) , se imprime un texto corto pero muy elogioso, que sirve para ensalzar aquellos pueblos y aquellos héroes que luchaban en diferentes frentes, regiones y con suertes distintas, contra la tiranía y por las libertades. En otras palabras, Guadalupe Victoria se hermanaba con el propio Linati y tantos otros patriotas liberales, en especial italianos, que en Europa y en América arriesgaban su vida por liberar sus países del yugo extranjero. Cuando una nación se sacude el yugo de una opresión extranjera reivindica sus derechos y cuando el patriotismo conduce sus ejércitos a los combates, aquellos quienes desafían la muerte y los peligros sobre los campos de batalla, reciben las muestras más brillantes del reconocimiento de la patria (…) Si Washington es digno vencedor de Estados Unidos, Victoria lo ha sido también en México y nadie más que él podía inspirar una mayor confianza en la Nación y ofrecer mayores garantías a la libertad. Los sacrificios que hizo por ella, la entereza que mostró en las circunstancias más difíciles, los grandes sacrificios que sorteó con la austeridad de un verdadero patriota, la persecución que padeció por parte de Iturbide, quien temía su popularidad y principios, reemplazan en Victoria esas brillantes cualidades a menudo peligrosas para el jefe de una república naciente. Los recuerdos de la guerra son demasiado recientes para que el traje militar no sea un honor eminente, cuando una larga paz haya originado el desarrollo brillante de la industria y del comercio, el traje civil estará más en boga.38 (Linati, 1828, ilustración 13)

El nombre completo de nacimiento de Guadalupe Victoria (186-1843) era José Miguel Ramón Adaucto Fernández y Félix; se cambió a los nombres patrióticos de Guadalupe (por la Virgen) y Victoria, por la Independencia, y así se lo conoce en la historia. Es el único presidente mexicano del siglo XIX que terminó su gestión. El retrato apareció en el num. 9 de El Iris, y no llevaba texto. 38 Claudio Linati, texto que acompaña la ilustración num. 13 de Costumes civiles. El texto termina con un párrafo dedicado al uniforme que lleva Guadalupe Victoria, necesario en un álbum que también reproducía trajes militares, en este caso la combinación del uniforme francés y español. Como antiguo soldado, y a pesar de que decía aborrecer la vida militar, sus textos sobre uniformes sugieren una cierta afición al tema. 37

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Fig.5. Le général Guadalupe Victoria, Président de la République Méxicaine, litografía coloreada a mano. Plancha número 13, Costumes Civils, Militaires et Réligieux. Dibujada por Linati, litografiada por Sattanino.

En el artículo del periódico sobre Victoria se amplían datos de la biografía del presidente mexicano, sobre todo en el aspecto político, pero sin olvidar sus hazañas. Linati lo consideraba un hombre de honor que rechazó las ofertas del virrey Apodaca y prefirió refugiarse en las montañas de Veracruz, donde recibió la protección de los indígenas, a pesar de que el virrey mandó quemar los pueblos de la zona para evitar su apoyo. A partir de allí empezó la leyenda, identificándolo con un cadáver que apareció en el monte; de esta forma el ejército dejó de perseguirlo, iniciando un periodo de 14 meses sin comer y en las situaciones más extremas. Reapareció cuando Iturbide proclamó la Independencia; parecía un “fantasma negro y harapiento”. Pero la relación con Iturbide no se concretó en un acuerdo político. En palabras de Linati: “Victoria n´avait pas combatu pour changer de maître, mais pour obtenir un gouvernement libéral. Iturbide, dans l`impossibilité de le faire adopter ses vues, le contraignit á se refugiar de nouveau dans les fôrets: Victoria n`en sortit, pour cette fois, que pour

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donner contre l`ambitieux empereur le signal d`une révolte générale.”39 Si comparamos ambos textos, el del álbum se inclina más por lo novelesco mientras que el artículo del periódico exhibe la posición política del presidente mexicano, rechazando la idea de un emperador. Claudio Linati, como ya lo había expresado en El Iris, era contrario a los imperios, y desconfiaba de aquellos que, como Napoleón, traicionaron las esperanzas de libertad convirtiendo sus gobiernos en remedos de las monarquías opresoras. Las entregas de Costumes mexicains se suceden ahora con gran rapidez, ya que en el número 53 se anunciaron otras cuatro láminas. El texto que las promovía expresa esperanza sobre el futuro de México, y también sirve para desarrollar una reflexión histórica. Resulta interesante un comentario dirigido a los clientes de la Imprenta Jobard: el autor de estos trajes no se limita a dibujar vestimentas sino que su objetivo ha sido “proporcionar un panorama de una población interesante y poco conocida”, y afirma: México, en pocos años, presentará un aspecto completamente diferente al que tiene actualmente. En este momento ya ha cambiado con relación a lo que era pocos años ha (…) Una revolución que ha elevado al pueblo conquistado al nivel de los conquistadores, que ha sustituido el feudalismo por la igualdad; la inquisición por la libertad de prensa (…).

A continuación expresaba sus ideas acerca de lo que significaba este gran movimiento que entonces se llamó mundialización: La civilización lanza a todos los pueblos en un solo molde, y los trajes variados, jerárquicos y curiosos del griego, del albanés, así como el del criollo hispanoamericano, desaparecerán bajo la uniformidad europea. No nos lamentemos. Si bien es cierto que el campo de la curiosidad se encoge, también es cierto que la felicidad de los pueblos se ampliará bajo la influencia que significará reunirlos en una sola y gran familia, con los mismos gustos, los mismos placeres, las mismas necesidades.40

El autor, ya fuera Linati o Jobard, estaba convencido de que “la opresión, la ignorancia, el fanatismo” eran los causantes de que en América se hubiera producido “la pereza, la mendicidad, el monaquismo; y en la medida en que la libertad se consolide, el lépero, el franciscano, el jugador, el esclavo indolente, el petimetre, darán lugar a una generación activa e industriosa. “41 En esta entrega iban las planchas del sereno, la sirvienta indígena; un oficial superior de dragones y el regidor del ayuntamiento con su nuevo uniforme. Y terminaba con un comentario que sugiere que el autor de esta nota podría ser Jobard: Los amigos del autor lo comprometen a publicar las notas enriquecidas que ha traído de sus viajes, y esperamos poderlas anunciar a nuestros suscriptores.42

Claudio Linati, L`Industriel, num. 51, dimanche 10 août, p. 6 Sin autor: Costumes mexicains, par Ch. Satanino et C. Linati, L´Industriel, num. 53, domingo 24 de agosto, p. 6 41 Ibidem. 42 Ibidem. 39 40

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Se trata de una nota ambigua, pero podría interpretarse como una demostración del interés despertado por el álbum y las noticias sobre México. ¿Pensarían Jobard y Linati en la publicación de una recopilación de artículos sobre México? ¿O se trataría de una estrategia comercial para despertar el interés de los lectores? Hay que señalar que en el número siguiente, se publicó un artículo que aunque dedicado inicialmente a Grecia, se refería también a la nueva presencia europea en América. A pesar de que antes se había elogiado la llegada de un nuevo tipo de europeo, que iba a llevar la civilización y la modernidad a América, en un artículo muy interesante firmado con la L. de Linati, titulado “Invasion et civilisation”, Claudio Linati reconocía que los europeos no son bien vistos en la América recién independizada, y las razones para ello merecen leerse: Se va a este país (México) para vender mucho y caro, y para comprar poco; se acusa a los habitantes de barbarie y de ignorancia, a menudo por el hecho de no tener nuestros vicios o nuestras necesidades frívolas. Se muestra una gran avidez y el deseo de enriquecerse rápidamente, pero nunca el deseo de establecerse en su país o de dejarles huellas bienhechoras de su estancia. ¿Puede sorprendernos entonces que consideren a los europeos como sanguijuelas a las que hay que dejar que se hinchen y expulsarlas o despreciarlas después? (…).”43

L´Industriel anunció también la imagen del negro en la hamaca, que iniciaba con un comentario positivo: “Los negros son hombres, y tienen derecho a serlo.”, pero la descripción que hace de su modo de vida es negativo, una fórmula contradictoria muy frecuente en Linati. Veamos el tono del texto: Los negros son hombres, y tienen derecho a serlo. Desgraciadamente, cuando el hombre está embrutecido o es un bárbaro, hace un mal uso de su libertad, y ejerce el despotismo del que acaba de ser liberado en contra de quien es más débil que él para rebelarse contra la injusticia. En México los negros son libres desde hace tiempo, pero en general, en lugar de trabajar pasan el día acostados en su hamaca, cultivando el maíz que estrictamente necesitan para vivir el resto del año, y delegando el trabajo de la casa e incluso el cultivo de los campos en la pobre negra, quien recibe más golpes que caricias.44

En el álbum, Linati y Sattanino incluyen otra lámina con el tema del negro mexicano, titulada “Nègre de Vera-cruz”. Parece que a Linati el tema de los negros le llamaba la atención, no solo como elemento que exhibía la variedad racial y social de México, sinó que para un europeo el tema de la esclavitud y la integración de la población negra era una forma de comprobar los resultados y la buena marcha de la aplicación de los derechos del hombre proclamada por la Revolución francesa. Claudio Linati, “Invasion et civilisation”, L´Industriel, num. 54, pp. 4-5. El tema de la liberación de Grecia era muy sensible en aquellos años. De hecho al inicio del artículo Claudio Linati mencionaba personajes como Lafayette, Mina, o Byron, famosos por haber participado respectivamente en las independencias de los Estados Unidos y México. Lord Byron (1788-1824) en aquellos años estuvo firmemente comprometido con la lucha de independencia de Grecia, en la que participaron numerosos italianos también. 44 Costumes mexicains, par Ch. Sattanino et C. Linati”, L´Industriel, num. 57, domingo 21, p. 6. 43

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En el número 57 de L´Industriel se publicitó una imagen con una de las “mil invenciones de los Lazzaroni de México.” No es raro que se utilice el termino italiano lazzaroni, mucho más comprensible para un europeo que el mexicano de lépero.

Fig.6. Manière de porter des mendiants, pour exciter la pieté. Plancha número 32, Costumes Civils, Militaires et Réligieux. Dibujada por Linati, litografiada por Sattanino.

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La escena representa a un joven que carga en sus espaldas a un mendigo de más edad, que tiende la mano para recibir la limosna. (Il. 6) El comentario es por demás interesante, ya que Linati se refiere al origen de la mendicidad: “la Iglesia ha exaltado tanto la mendicidad que las nuevas repúblicas tendrán mucho trabajo para deshacerse de esta plaga y establecer depósitos y casas de reclusión como en Europa.”45 Sin comentarios negativos se presenta la imagen de un padre Camilo, orden que se dedicaba a atender a los sentenciados en el momento de su ejecución. Transcurrió casi un mes, para que en el número 60 (12 de octubre de 1828), se volviera a anunciar Costumes mexicans, mencionando los dos autores, es decir, el litógrafo y el dibujante, Sattanino y Linati. Se anunciaron las cuatro imágenes que compone la entrega: Guarda Cívico de Alvarado; un vendedor de odres para almacenar el pulque; el entierro de un pobre y finalment el tema del juego, titulada El Monte. En el texto de presentación se anunció que la revista insertaba un fragmento “de un manuscrito inédito sobre México, relativo al juego, que el autor mismo de estos trajes nos ha permitido extraer.” Como ya hemos visto en otros casos hay una viva contradicción entre el texto que acompaña la lámina, de carácter descriptivo y poco crítica, y el extenso articulo, demoledor, que Claudio publicó en L´Industriel. En el texto del àlbum, se culpaba a la metrópoli de haber incentivado el juego, como una forma de provocar el “embrutecimiento y la nulidad política” de las colonias. En consecuencia el actual gobierno lo ha prohibido y está haciendo esfuerzos para acabar con esta lacra. Antes había hecho una observación interesante: las fortunas desaparecían con la misma facilidad que se ganaba el dinero en las minas. Minas que daban sus tesoros gracias al sudor de millares de indígenes. Estas ideas se desarrollaron con más extensión y crudeza en el texto inserto en el mismo número de L´Industriel. El carácter a veces personal y en primera persona con el que se redactó el texto confirmaría que el autor es Linati, aunque no lleva firma. Vale la pena transcribir algunos fragmentos porque se trata del más extenso de todos los artículos escritos por Linati para L´Industriel y sin lugar a dudas, el texto más crítico y duro sobre México: El juego es una pasión general, excesiva y casi única de los mexicanos. Es una pasión de todas las edades, de todos los sexos, de todas las condiciones. Se juega en las calles, en el umbral de las puertas, en las escaleres, en las antecámaras y en el salón. Los soldados juegan en la caserna, los oficiales, los generales, en sus pabellones. Se juega en la ciudad, se juega en el campo, e incluso se hacen partides de varios días fuera de México, para jugar y nada más que para jugar. La más notable es la que se hace todos los años en San Agustín de las Cuevas, pequeño poblado a cuatro leguas de México. Es para festejar el santo del lugar que se entregant con furor a todos los excesos de este funesto vicio, que fortunes inmensas son

Costumes mexicains, par Ch. Sattanino et C. Linati L´Industriel, num. 53, domingo 21, p. 6. El tema de la mendicidad y los establecimientos de beneficencia preocuparon a muchos mexicanos después de la Independencia, aunque la situación de los gobiernos no permitió desplegar las instituciones adecuadas en las primeras décadas. El tema tampoco fue fácil de resolver en Europa, en donde se optó por recluir a los pobres y mendigos en instituciones de beneficencia que, en definitiva, causaban una situación de discriminación lacerante e injusta. 45

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arriegadas por una dama o un valet, y que la concupiscencia y la desesperación se convierten en tiranas de la multitud apiñada en los antros de juego. (...) (Linati, 1828)

La estampa litografiada retrata esta realidad: alrededor de la tabla de juego se apiñan hombres de edades variadas, representantes de todas las clases y grupos sociales: un militar y un burgués, que es quien reparte las cartas; un charro y un ranchero, hasta un lépero, mientras otro vigila que no se acerque el policia que asoma detrás del muro que los oculta. (Il. 7)

Fig.7. “Le Monte”. Jeu favori des Méxicains. Plancha numero 34, Costumes Civils, Militaires et Réligieux. Dibujada por Linati, litografiada por Sattanino.

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El texto del álbum cuenta que el gobierno actual está haciendo esfuerzos para desterrar este vicio, pero el articulo es implacable: no solo se pierden fortunas considerables y se arruinan vidas individuales, el juego es un ejemplo de que México tardará en ingresar a la economia moderna, es decir, capitalista. Para Linati la economia española no educó a los naturales del país a invertir de manera productiva, viendo como natural la circulación de una masa de numerario sin objeto aplicable, y convirtiéndose en la base de un juego inmenso y continuo. Linati concluye: [...] (el juego) es un flujo, una prodigalidad, que destruye cualquier sistema de economía y orden, de tal manera que un minero es un jugador, y que la mayoría de los mexicanos juegan porque la mayoría deben su fortuna rápida a las minas que han explotado con suerte, en donde han vivido con persones que les han transmitido sus hábitos de riesgo y codicia.46

La revista no tendría muchos meses de vida: el último número apareció el día 1 de enero de 1829, incluyendo la tabla de materias. Poco antes, en el número 60 se anunciaba la onceava entrega con estas palabras: La onceava entrega de Costumes mexicans, dibujados directamente por el conde Linati, acaba de aparece en la Lithographie Royale; el autor se ha rendido a los deseos de los subscriptores añadiendo un texto ciertamente curioso a cada una de las ilustracions; la obra estará terminada en 15 días; podemos decir que es la primera y única publicación hasta el presente que proporciona una idea exacta de las costumbres y los trajes de los descendientes de los Moctezuma y los Hernán Cortes.47

Notemos que por primera vez se lo menciona como conde, pero hay otra anotación en el párrafo final de esta presentación que también es reveladora: “Sabemos, con mucho interés, que el retrato de Moctezuma fue pintado por orden de Cortes y que se encuentra en el gabinete de M. Buloc (sic) en donde M. Linati obtuvo el permiso de dibujarlo; formará parte de su bella colección”48 Podemos afirmar entonces que durante alguna de sus estancias en Londres, Claudio Linati conoció la colección de antigüedades y curiosidades mexicanas que Bullock había llevado en 1824, misma que exhibió en el célebre “Egyptian Hall” de la capital inglesa.49 No sabemos si Claudio Lianti visitó la muestra durante su estancia en Inglaterra antes de embarcar hacia México; en todo caso habría contactado con él, obteniendo el permiso para copiar el retrato de Moctezuma antes de emprender la publicación del álbum; creemos que el contacto se dio en 1827. (Il. 8)

Sur le jeu au Mexique, sin firma, L´Industriel, num. 60, domingo 12 de octubre, p. 6-7. L´Industriel, domingo 23 de noviembre de 1828, p. 8. En El Iris, num. 5,( Sábado 4 de marzo de 1826, pp. 42-45) Linati escribió un texto bastante largo, pero más general, sobre el juego en Europa y América; en él se anuncian ya algunas de las ideas que expondrá ampliamente en Bruselas. 48 Ibidem. 49 Véase Primera exposición de arte prehispánico, por William Bullock, prólogo, traducción y notas Begoña Arteta, México, Universidad Autónoma Metropolitana, Azcapotzalco, 1991. 46 47

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El último número de 1828, anunciaba la doceava entrega, con la que se completaban las 48 planchas del álbum. Daba también la noticia de que el retrato de Moctezuma se colocaria en el frontispicio. El editor consideraba que el álbum era una obra excepcional tanto por “su buena ejecución” como por las investigacions requeridas; y se refería de manera particular a Claudio Linati, dando detalles de su vida y dedicándole elogios. Entre otras cosas recordaba que Linati era parte de la “lista honorable de refugiados del mediodía”, utilizando su exilio para viajar a México, en donde estableció la primera litografía.

Fig.8. Moctetzouma Xocotzin. Dernier Empereur du Mexique, peint par ordre de Fernand Cortez. Frontispicio de Costumes Civils, Militaires et Réligieux. Dibujado por Linati, litografiado por Sattanino.

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Y añadía: El conocimiento perfecto de la llengua del país, unida a sus numerosas relaciones, le permitieron tomar noticia exacta de las costumbres, los usos y prejuicios de los habitantes de esta nueva república.50

Para disipar dudas acerca de su formación, el autor de esta reseña biográfica precisaba que Linati fue alumno de Girodet, un dato muy relevante sobre su educación artística, en la que la formación al lado de David no es del todo clara. Recordemos que su hijo Filippo, siguiendo una afirmación de su abuelo, anotó en la biografia de Claudio Linati que fue discípulo de David. 51 Las noticias sobre Linati y su álbum en L´Industriel terminan con estas palabras: “(...) la parte descriptiva está llena de vida y de observaciones profundas y nos descubre un escritor tan juicioso como pintoresco. Se puede decir de él que ha realizado la utopia de un viajero perfecto en que igual como Solvyns, ha dibujado, descrito y grabado su propio viaje.”52 Claudio Linati escribió más de diez artículos a lo largo de los 70 números de L´Industriel. De hecho es el autor con más presencia en dicho periódico, lo que sugiere una relación muy estrecha con Jobard y una buena recepción por parte de los lectores. Si tomamos en cuenta que seis de estos artículos tenían como tema México y que los anuncios de las entregas de Costumes mexicains también difundían tópicos mexicanos, podemos afirmar que fue en Bruselas y en L´Industriel dónde las ideas de Linati sobre México tuvieron más eco. El carácter de este ensayo nos obliga a seleccionar algunos de los temas tratados por Claudio Linati entre 1826 y 1829.El juego es uno de ellos y ya le dedicamos un espacio. Hemos optado por hablar de Linati y las antigüedades mexicanas porque la mayoría de autores consideran que no fue un tema de su interés.

Claudio Linati y las antigüedades mexicanas Aunque parecería que Linati no estuvo interesado en este tema, entre 1826 y 1829 trató las antigüedades en por lo menos cuatro ocasiones. En 1826 publicó en El Iris un informe sobre la Isla de los Sacrificios, redactado por su amigo Francesco Vecelli. Para ilustrarlo, Claudio Linati dibujó y litografió unas vasijas que, de acuerdo con Leonardo López Luján, serían las primeras con tema arqueológico mexicano. El artículo se compone de dos partes, la primera es un comunicado titulado “Antigüedad” enviado L´Industriel, num.70, domingo 21 de diciembre, p. 8 No está de más recordar que el pintor David había muerto en 1826 en Bruselas, mientras Linati estaba en México; El Iris le dedicó una nota necrológica, en la que Linati declaraba: “Discípulo de este famoso pintor, creo pagar una deuda a la gratitud, con dedicar un artículo a su memoria” El Iris, p. 70. En aquellos años cualquier seguidor de la línea clasicista de David se consideraba alumno del gran pintor francés, (Galí, 2004) entendiendo que se trataba de una escuela. 52 L´Industriel, número 70, domingo 21 de diciembre 1828, p. 8. Se refiere a Frans Balthazar Solvyns (17911824), marinero, grabador y escritor flamenco, quien viajó a la India y dejó un libro con sus impresiones acompañado de láminas sobre objetos y costumbres hindús. 50 51

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por Vecelli, con una introducción; la segunda parte, a modo de colofón, es un pequeño texto de Linati explicando las vasijas. El Iris presentó así al autor de comunicado: “Un erudito italiano, el célebre arquitecto D. Francisco Vecelli, acaba de remitirnos el comunicado siguiente.”53 Francesco Vecelli había sido jefe de ingenieros del príncipe Beauharnais; como tantos italianos exiliados, pasó a Inglaterra y más tarde a México, a donde llegó en marzo de 1825, poco antes que Linati. El Gobierno encargó a Vecelli la construcción un nuevo puerto así como la apertura de un camino por el Istmo, de Guazacualco a Tehuantepec. Las vasijas pertenecían a Vecelli, por lo tanto la imagen es original de Linati. (Il. 9) En el texto que las acompaña se expresa la afición de los eruditos y aficionado a las antigüedades americanas, a establecer comparaciones con las otras grandes culturas antiguas conocidas: chinos, etruscos, romanos, griegos e hindús. En mayo de 1826, Vecelli todavía estaba en Veracruz y El Iris informaba del proyecto de conectar la reconquistada fortaleza de Ulúa con el puerto a través de dos calzadas.54 Otra noticia nos habla de que Vecelli logró conjuntar una colección de 30 esculturas huastecas mientras elaboraba un plano de las márgenes del río Pánuco. La amistad con Francesco Vecelli viene corroborada por un artículo que Claudio publicó en 1828 en Bruselas, titulado “Colonie de Guazacualco”. 55 Tendremos que esperar hasta el número 57 de l´Industriel para encontrar una colaboración de Claudio Linati con tema arqueológico. Se trataba de un texto bastante extenso titulado “Ruinas de Mictla”. Linati no conoció Mitla y todo indica que su fuente era el viaje de Dupaix y Castañeda, material que conoció a través de la colección De La Tour Allard. El texto de Linati no proporciona su fuente; la pista nos llega en el texto que acompaña la litografía Joven de Palenque. 56 En el artículo sobre Mitla, Claudio Linati expresó algunas ideas curiosas sobre el México antiguo. En primer lugar recuerda a sus lectores que América no era un terreno virgen sino que tenía una civilización importante y “desconocida”; se refiere a Palenque, a los zapotecos de Oaxaca y a los aztecas. Consideraba que el “fanatismo” de los españoles fue el culpable del despoblamiento de estas tierras que sin duda tuvieron adelantos. Termina afirmando que el principal poder de estos pueblos residía en la clase sacerdotal, opinión que adelanta el sentido general de sus observaciones. A continuación describía el palacio de Mitla:

Vecelli-Linati, “Antigüedad”, El Iris, Número 3, sábado 18 de febrero de 1826. pp. 20-22. No debe sorprendernos la L. al final, utilizada cuando el editor intervenía en la redacción o adaptación del texto. Según Lopez Luján (2013), Vecelli tenía la misión de definir el lugar donde anclarían unos buques ingleses que no podían llegar a Veracruz debido a que Ulúa estaba en poder de los españoles. También señala que tuvo a su cargo reparar el camino entre Veracruz y Real del Monte, para transportar la maquinaria para las compañías mineras inglesas. Vecelli fue miembro de la Sociedad de Geografía y Estadística de México. 54 El Iris, “Fortificación”, firmado L., número 15, sábado 6 de mayo de 1826, pp. 11-13. 55 Linati, “Colonie de Guazacualco”, L´Industriel, num. 35, jeudi 1 de mai 1828, p. 2. Este contacto entre Linati y Vecelli, aficionado a las “antigüedades mexicanas”, nos permite pensar que Francesco Vecelli pudo ser uno de los informantes de Linati en los temas acerca de la arqueología mexicana. 56 Sobre la colección La Tour-Allard, así como la de Dupaix-Castañeda, véase Paz Cabello (2012). 53

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[...] este edificio es un cuadrado perfecto de doscientos pies de lado. Estaba dividido en cuatro habitaciones perfectamente iguales, en medio de las cuales había un patio. La primera estaba reservada al culto y a los sacrificios. La segunda habitación al gran Pontífice y su corte; la tercera era la de los reyes de Teozapatlan, especie de magistrados y jefes guerreros subordinados sin embargo al poder religioso, y la última, llamada Leoban o lugar de reposo, era el templo de los funerales en donde se encontraba una puerta que conducía a un subterráneo inmenso en donde se echaba a los muertos que se consideraba dignos de pasar a un lugar de delicia y a una vida eterna.57

Fig.9. Vasijas mexicanas. El Iris, número 3, Sábado 18 de febrero de 1826. Estampa dibujada y litografiada por Claudio Linati.

El autor continuó con sus impresiones sobre la civilización que levantó esta arquitectura admirable. En ellas reafirma su idea de que en estas tierras, ya fuera sus antiguos pobladores, ya fuera los conquistadores, en última instancia a ambos los unía el fanatismo. Así cuenta como “La superstición era tal entre los indios, que algunos, atormentados de penas o de enfermedades, creyendo gozar antes de la felicidad que les esperaba, obtenían con mucho esfuerzo lograr entrar en el fatal subterráneo, en 57

Claudio Linati, “ Ruines de Mictla”, L´Industriel, num. 57, dimanche 21, pp. 2-3, firmado L.

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donde encontrarían la muerte en medio de las tinieblas y de la desesperación.” 58 Siguiendo la costumbre de expresar opiniones políticas, sociales y religiosas sobre los temas tratados, Linati concluye su artículo de Mitla con una reflexión sobre las ventajas de vivir en el momento actual, cuando los hombres ya no tienen que ser víctimas de los terrores religiosos, ni tienen que ser sacrificados por élites religiosas opulentas que derraman la sangre de sus pobres congéneres. En este mismo número se anunció la nueva entrega de Costumes mexicains. El hecho de que entre las imágenes se encuentre la “Jeune fille de Palenga (sic)”, nos lleva a pensar que por estas fechas Linati estaría investigando sobre la cultura maya. El propio Linati menciona en el texto “la hermosa colección de dibujos reunida por M. de la Tour Allard”. No sabemos dónde ni cuándo exactamente consultó estos dibujos, pero otras fuentes podían ser los documentos del Museo Nacional, o informaciones del propio Francesco Vecelli. En el número 57, como veíamos, se publicitaron las nuevas estampas del álbum. La joven de Palenque destaca sobre un paisaje con una pirámide. (Il. 10) En el texto que la acompaña, Claudio Linati expone el posible origen de las mujeres del sur de México: “las indígenas de Tehuantepec, del Yucatán, de Guatimala (sic) y sobre todo aquellas de los alrededores de Palenque, ofrecen rasgos más regulares, un tono de piel a veces claro, y un traje que recuerda el de los antiguos egipcios o el de los fenicios.”59 Hace referencia a las discusiones de los sabios sobre estas civilizaciones americanas y anota que algunos de ellos creen encontrar influencias fenicias en la arquitectura de Palenque, con el argumento de que a fin de cuentas la raza humana es una sola originada en Adán. Con bastante buen sentido Linati comentaba que estas teorías se basaban en pocos y mal estudiados restos de antigüedades En todo caso, creía que los monumentos de Palenque pertenecían a una civilización mucho más avanzada que la de los aztecas y los pueblos del norte, reconociendo la fuente de esta hipótesis: “La bella colección de dibujos recopilados por M. de la Tour Allard sostiene esta idea.”60 En repetidas ocasiones Claudio Linati habló de un libro sobre México que deseaba publicar en Europa. Es probable que el viaje a Londres tuviera este fin, además de la oportunidad de conocer la colección de Bullock, si es que no había conocido ya su exposición de 1824 en el Egyptian Hall de Picadilly, en Londres.61 La relación con W. Bullock se descubre en una de las notas aparecidas en L´Industriel, concretamente cuando se refiere al retrato de Moctezuma que va a figurar en el frontispicio del álbum.

Ibid. Claudio Linati “Jeune fille de Palenque”, en L´Industriel, Costumes mexicains, planche ving-neuvième. 60 Ibidem. 61 William Bullock ya había organizado una exposición en el Egyptian Hall en 1812, con antigüedades y curiosidades orientales y de los mares del Sur; algunas de estas piezas pertenecieron al capitán James Cook. El libro sobre antigüedades mexicanas de Bullock, así como la exposición fueron casi simultáneas y tuvieron un gran éxito; el libro fue traducido a varios idiomas. Linati pudo conocerlo antes de su viaje a México. 58 59

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Fig.10. Jeune fille de Palenque, dans la province de Yucatan. Plancha número 29, Costumes Civils, Militaires et Réligieux. Dibujada por Linati, litografiada por Sattanino.

El redactor de la nota se refiere a dicho retrato con estas palabras: “Hemos sabido, con interés, que el retrato de Moctezuma se pintó por órdenes de Cortés, y que se encuentra en el gabinete de M. Buloc (sic), donde M. Linati obtuvo el permiso de dibujarlo; será parte de su bella colección.”62 Vemos que Claudio Linati, como todo hombre culto interesado en América, tenía conocimientos acerca de sus antigüedades, un tema que desde que Alexander von Humboldt publicó su Vue des cordillères et monuments des peuples indigènes de l`Amèrique (Paris-1808-1813) despertó curiosidad en los círculos cultivados de Europa.

62

L´Industriel, num. 66, domingo 23 de noviembre de 1828, p. 8

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Epílogo: los últimos años de Claudio Linati y una reflexión Al terminar la edición de su álbum, Claudio Linati retomó sus actividades políticas, animado por la revolución de 1830 que derrocó los borbones en Francia. En París formó parte de la Giunta liberatrice italiana, y al fracasar el proyecto entró en contacto con los liberales españoles que preparaban una insurrección en contra de Fernando VII. El mismo año de 1830 se dio la última reunión familiar en Lugano, con Isabel y sus hijos. Fracasadas las dos insurrecciones, México volvía a ser una opción. De acuerdo con la biografía escrita por su hijo, el año de 1832 Claudio lo pasó entre Paris y Burdeos; en esta última ciudad publicó un texto titulado “La France et l´Europe en 1832”, en donde proclamaba que Francia debía, por su propia seguridad y por vocación, promover la emancipación de todas las naciones oprimidas. Pero los vientos no soplaban en este sentido, y a pesar de que se le otorgó la nacionalidad francesa por su calidad de veterano y una pensión de oficial en retiro, decidió regresar a México. Al desembarcar en Tampico enfermó de la fiebre amarilla y murió tres días después, el 11 de diciembre de 1832. El hijo comentó al respecto que su padre se adelantó a la muerte de Fernando VII, fallecido poco después, que le habría permitido regresar a España; tampoco pudo vivir la revolución Italiana de 1848. El Destino, escribió Filippo Linati quiso otra cosa, “e forse più che il destino, volle la Providencia che vi fosse un esule e quindi un partire in più, perchè solo con questi si vincono le grandi cause della civiltà e della giustizia.”63 A Tampico llegó para recibirlo el fiel Fiorenzo Galli, quien sólo pudo escribir una sentida nota necrológica, en donde lo retrata con gran emoción, poniendo de relieve los momentos más importantes de su corta pero intensa vida. El hecho de que Galli lo fuera a recibir a Tampico fortalece la idea de que habían elaborado algún plan conjunto, quizás recuperar la imprenta litográfica, o iniciar algún negocio o proyecto cultural. Pensamos que los datos personales y biográficos de Claudio Linati son necesarios para entender con más finura y profundidad su relación con México. Una relación compleja, en donde se combinaba el entusiasmo y la admiración por su revolución de independencia con la crítica implacable a los vicios de una sociedad apenas liberada de las cadenas del colonialismo, la tiranía y la superstición. Esta contradicción se expresa con nitidez en la distancia entre las imágenes del álbum, que nunca llegan a la crítica ácida con escenas que pudieran lastimar el buen gusto, y los textos que escribía en L´Industriel. Las imágenes siguen la línea editorial de un género de publicaciones que si bien querían mostrar países exóticos y curiosidades etnográficas no dejaban de ser un producto comercial. No creemos que el nuevo público lector de la Europa burguesa se sintiera cómodo con las miserias de las antiguas colonias. Se trataba de atrapar a un público consumidor, no de escandalizar las buenas conciencias. La novedad, el exotismo, incluso lo insólito, eran bienvenidos, pero el análisis implacable de una sociedad con carencias, miserias y vicios, que se debatía entre la ignorancia heredada del sistema colonial y la fe en un futuro de igualdad y fraternidad no era un producto editorial apetecible. En definitiva, la visión que algunos estudiosos del álbum 63

Filippo Linati, op. cit., p. 31.

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transmiten es la del pintoresquismo o como mucho el retrato de una sociedad pretérita, curiosa, pero superada. Hemos tratado de entender sus escritos, sus dibujos y su vida como un todo, inmerso en un contexto histórico internacional, porque esta era la perspectiva de Claudio Linati, capaz de comparar la lucha de liberación de Grecia con la situación de México, capaz de entender, a pesar de estar convencido de sus bondades, que los nuevos “colonizadores” de las américas eran fríos comerciantes que llegaban a depredar sin dejar nada. A diferencia de otros estudios que nos han precedido, enfocados en un solo aspecto de su actividad y sin el contexto internacional, pensamos que no es posible separar El Iris de Costumes mexicains, de la misma manera que no es posible separar los escritos publicados en México de los escritos de Bruselas. No hubo espacio para explorar la correspondencia con la atención que merece; pensamos que algunas de las dudas o incógnitas que se han presentado a lo largo de nuestro ensayo se despejarán con un análisis más detallado de sus cartas y con un mejor conocimiento de sus amigos y colegas, los numerosos italianos esparcidos por Europa y América con quienes Claudio Linati compartió ideales y esperanzas, penas y frustraciones, pero también proyectos comerciales o culturales en el Nuevo Mundo.64 Al asomarnos a la vida de Linati se percibe que formaba parte de unas redes de italianos que merecen ser estudiadas en su conjunto. Estamos convencidos que al reconstruir la red de relaciones de Claudio Linati en México –un trabajo iniciado por Àngels Solá con el caso de Orazio de Attelis- entenderemos mejor su primera estancia en el país y también su decisión de regresar años después. Por el momento lo único que sabemos de sus intenciones al volver a México en 1832 se condensa en esta frase enigmática, escrita por su hijo en la biografía de Claudio, al comentar que con este segundo viaje a México esperaba rescatar “alcuni crediti vistosi, che a carico di quel governo aveva con altri beni ereditato nella sua giovinezza” (F. Linati, 1883,31).

La vida de Claudio Linati fue desarrollada recientemente por F. Fantechi (2010), en forma novelada pero muy documentada, con numerosas sugerencias que deberán explorarse; por ejemplo el tema de las redes de italianos exiliados en México. 64

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Eugenio Landesio. Autorretrato, óleo sobre tela, 1873 (archivo privado)

UN PITTORE ITALIANO IN MESSICO IL PAESAGGISMO DI EUGENIO LANDESIO (1854-1877) OLIMPIA NIGLIO

Since the mid-nineteenth century, numerous migratory flows have been recorded from Europe to the new continent. These migratory flows were mainly determined by economic, political and religious factors. Among the emigrants aren’t only workers and craftsmen but also writers, engineers, architects, artists, musicians. The landscape painter Eugenio Landesio, of Piedmontese descent, was 45 years old when he moved to Mexico City to take up the position of professor at the Academia de San Carlos. Landesio introduced, for the first time in Mexico, the theme of art for the landscape and produced numerous pictorial works some of which are conserved at the Museo Nacional de Arte. Landesio was a precursor of the theories on the valorization of natural and anthropic landscape through art. This essay intends to retrace the fundamental steps of his life to discover together the inheritance that Landesio has left to future generations, writing new pages of history.

Introduzione: l’Italia in Messico nel XIX secolo James H. Mc Donald dell’Università del Texas (Sant’Antonio) in occasione del V° centenario della scoperta del continente americano (1492-1992) ha proposto un’interessante riflessione sull’immigrazione italiana in Messico e sull’integrazione identitaria con le popolazioni indigene. Il tema è particolarmente delicato considerati i riscontri non certamente tutti positivi che la storia ci ha tramandato. Infatti come l’autore stesso ha rilevato la copiosa letteratura circa le origini dei contatti tra il nuovo continente e il resto del mondo, a quei giorni conosciuto, certamente non aveva risparmiato osservazioni in merito ai dialoghi non sempre idilliaci e costruttivi tra i messicani e le comunità straniere (McDonald, 1997, p. 160). Tali riscontri si sono manifestati in modo molto più evidente soprattutto a partire dal XIX secolo quando, dopo l’indipendenza del Messico dalla Spagna (3 ottobre 1821) non si parlò più di conquista ma di immigrazione. Ovviamente questa immigrazione fu caratterizzata da differenti componenti e finalità nelle quali, in questo caso specifico, escludiamo le missioni di origine religiosa (Niglio, 2016). Molti degli studi realizzati sul tema hanno dimostrato come il fenomeno migratorio in Messico interessò diversi paesi e numerose comunità. Le ragioni erano principalmente di origine religiosa ed economica (Backal, 321

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1991; McDonald, 1988; Nacif Elias, 1995; Pappatheodorou, 1987). Tra i principali flussi migratori verso il Messico sin dalla prima metà del XIX secolo si registrarono soprattutto italiani e giapponesi che viaggiavano per trovare lavoro a differenza invece degli inglesi, tedeschi, francesi e libanesi che principalmente si trasferivano dalle loro terre natie per sviluppare nuove rotte commerciali. Non va poi escluso che molti erano stati costretti al trasferimento a causa di persecuzioni politico-religiose e tra questi soprattutto immigranti spagnoli, ebrei sefarditi e aschenaziti ma anche comunità provenienti dal medio-oriente. Non è difficile intuire che queste immigrazioni di massa provenienti da differenti aree geografiche e culturali non tardarono a manifestare intolleranza e comportamenti conflittuali di tipo etnico. Certamente le comunità che più facilmente si erano integrate con la popolazione indigena erano quelle di origine asiatica. Seppure le motivazioni, che avevano indotto diverse comunità a trasferirsi in altri luoghi, erano del tutto differenti le une dalle altre, non c‘è alcun dubbio che nel caso della comunità italiana un fattore determinante fu l’opportunità di poter ricevere un piccolo appezzamento di terreno dove potersi insediare e quindi far prosperare la propria famiglia. Una politica di colonizzazione agraria che trovò un’ampia applicazione soprattutto sotto la presidenza di Benito Juárez tra il 1867 e il 1872. In realtà la maggioranza degli emigrati italiani giunse in Messico a partire dalla metà del XIX secolo in quanto molti furono chiamati dall’amministrazione centrale dello stato messicano che proponeva loro acquisto di terreni a costi molto favorevoli nonché di concedere loro tutto il necessario per avviare un’attività di sviluppo nelle aree agricole. Ovviamente tutto questo flusso era fortemente controllato dalla borghesia locale. In realtà l’interesse del Messico per la comunità italiana era determinata dal fatto che nel nostro paese era molto forte la tradizione agricola e ben sviluppate le tecniche di lavorazione della terra (Dessy, 1899). Purtroppo, come spesso accade, le grandi aspettative del Messico nei confronti dell’Italia ben presto si dimostrarono un grande fallimento. In verità i messicani avevano riservato grandi speranze a seguito dell’immigrazione degli italiani a causa della necessità di forza lavoro che il paese richiedeva in molti settori. Allo stesso tempo il Messico auspicava uno sviluppo capitalista delle aree rurali quindi l’integrazione tra le comunità straniere e i contadini messicani (Zilli, 1981; Zilli, 1986). Intanto tutti questi buoni auspici non si realizzarono affatto e le comunità straniere una volta giunte in Messico si stanziarono in specifiche aree dando vita a distretti urbani molto circoscritti e quindi non integrati con il tessuto sociale e culturale locale. Tutto questo non favorì l’integrazione e quanto lo stesso governo messicano aveva auspicato per lo sviluppo del paese. Con riferimento agli italiani questi si stanziarono principalmente nel centro del paese tra Chipilo, Puebla, La Perla de Chipilo e Guanajuato, senza escludere ovviamente la capitale Città del Messico. Molte altre colonie italiane si insediarono a partire dalla prima metà del XX secolo, favorite anche dai contatti tra il governo messicano e il duce Benito Mussolini in Italia (Savarino, 2006, p. 278). In questa epoca infatti si registrarono numerose colonie italiane in Huatusco (Veracruz), Mazatepec, Tetelas e Chipiloc (Puebla), Barreto (Morelos), Aldana (Distrito Federal) e Ciudad del Maíz (San Luis Potosí).

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Tuttavia la comunità italiana, che era emigrata nel nuovo continente sin dalla prima metà del XIX secolo, proveniva principalmente dalle regioni del centro-nord dell’Italia e in particolare dalla Toscana, Friuli, Veneto e Piemonte. Fu proprio quest’ultima regione a registrare una forte ondata migratoria nella metà del XIX secolo e le ragioni furono principalmente di natura politica. Molti emigrati erano intellettuali, militari o artigiani e operai che spesso si arruolavano nella Legione Straniera per scappare dalle persecuzioni politiche. Intanto nella prima metà del XIX secolo, soprattutto nel sud dell’Italia, anche la lotta al brigantaggio, la penuria di risorse e la insalubrità di molte aree depresse, aveva provocato il trasferimento di diverse comunità in territori più accoglienti. Tuttavia la simbolica data d’inizio dell’emigrazione italiana può essere considerata il 4 ottobre 1852, ossia quando a Genova fu fondata la Compagnia Transatlantica per la navigazione a vapore verso il continente americano. L’emigrazione verso il nuovo continente fu enorme principalmente nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento. Si esaurì durante il Fascismo, ma ebbe una piccola ripresa subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale a partire dal 1945. Le nazioni maggiormente interessate a questo flusso di emigranti italiani furono gli Stati Uniti nel Nordamerica e il Brasile e l’Argentina nel Sudamerica. In questi tre Stati infatti attualmente sono registrati circa 65 milioni di discendenti di emigrati italiani. Una quota importante di italiani, soprattutto delle regioni del nord dell’Italia, si diresse anche in Canada, Uruguay, Venezuela, Cile, Peru, Messico, Paraguay, Cuba e Costa Rica. Con riferimento alla regione del Piemonte i flussi migratori erano iniziati già prima dell’Unità d’Italia (1861) e a registrare questa particolare realtà sono tuttora i registri dei rispettivi Ministeri dell’immigrazione nei paesi ospitanti. In particolare i piemontesi si erano trasferiti soprattutto verso il nord Europa, negli Stati Uniti o in America Latina tra Messico, Argentina e Brasile. Seppur di numero ridotto si incontravano comunità piemontesi anche in Colombia (Hernández Molina, Niglio, 2016). Risulta altresì molto interessante il riscontro del fenomeno migratorio attraverso i registri anagrafici delle parrocchie, soprattutto tra il 1800 e il 1865, quindi prima dell’Unità d’Italia; infatti tali registri costituivano l’unica fonte di informazione in merito a nascite, trasferimenti e morti. Sempre con riferimento all’area piemontese un fatto che certamente favorì lo spopolamento di molte aree rurali ma anche urbane fu il trasferimento, nel 1965, della Capitale da Torino a Firenze; questo causò la perdita di numerosi posti di lavoro e quindi la necessità di trovare in altri luoghi forme di sostentamento per la vita. Intanto il fenomeno migratorio soprattutto verso l’Europa centro-nord e l’America divenne sempre più consistente raggiungendo già negli anni ’70 del XIX secolo entità prossime alle trecento mila unità. A quest’epoca, come già anticipato, molti emigrati provenivano dalle regioni centrosettentrionali, primo fra tutti il Piemonte, seguito da Toscana, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna.

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Ed è proprio in Piemonte che al principio del XIX secolo era nato l’artista Eugenio Landesio che, come molti suoi connazionali, raggiunse il Messico per opportunità di lavoro e lasciando in questa terra un’inestimabile patrimonio artistico.

Eugenio Landesio. Il periodo della formazione (1809-1832) Eugenio Landesio era nato il 25 gennaio del 1809 a Venaria Reale, vicino Torino da Giovanni e Rosa Sander, entrambi di origini molto modeste e che per le ragioni innanzi descritte ben presto furono costretti a trasferirsi dal loro paese a Roma, che a quei giorni non ancora capitale dell’Italia ma pur sempre una città grande e quindi ricca di opportunità per una famiglia che aveva necessità di risorse economiche. Ovviamente questo trasferimento favorì anche la formazione del giovane Eugenio che iniziò proprio a Roma i suoi studi di disegno e le prime lezioni di pittura con il paesaggista francese Constant Bourgeois (1767-1841) che aveva lasciato il suo ruolo di colonnello nell’esercito francese per dedicarsi alla pittura. In particolare Constant Bourgeois amante dell’Italia e ammaliato dai paesaggi della penisola aveva dedicato gran parte della sua produzione proprio alle vedute e alla pittura del paesaggio.

Fig.1. Constant Bourgeois, Vista della costa di Posillipo a Napoli, Italia 1817. John H. Wrenn Memorial Collection.

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Le sue principali produzioni riguardavano incisioni e litografie che ritraevano le emozioni dei viaggi realizzati tra Francia, Svizzera e Italia. Certamente gli insegnamenti di Bourgeois avevano fortemente influenzato il giovane Landesio tra l’altro circondato da un contesto culturale in cui l’interesse per il paesaggio era confermato anche dalle tendenze artistiche dell’epoca segnate dal purismo e dalla cultura neoclassica. In realtà nel XIX secolo l’arte che ritrae il paesaggio divenne un genere del tutto indipendente ma la sua affermazione fu tale che ben presto acquistò una propria dignità nelle pagine di storia. Molti accademici in realtà ripudiavano questo tipo di rappresentazione perché considerata solo una fonte di svago dell’artista e non una forma nobile propria dell’arte. Tuttavia nel corso dell’Ottocento la rappresentazione del paesaggio conquistò anche l’interesse popolare e iniziò così a divenire una forma artistica molto importante. Le ardici di questo specifico interesse vanno però ricercate in quelle tendenze e correnti culturali che si erano già dichiarate nel XVIII secolo con la cultura illuminista e con la centralità che fu assegnata al pensiero umano e alla volontà creativa dell’artista. In ambito filosofico si parlò anche di rivelazione interiore, di un legame misterioso con l’ambiente, di un intimo rapporto fra la vita dello spirito e quella della natura, concepita non già come una macchina ma come un immenso organismo animato: la materia diventava anch’essa emblema o simbolo di un mondo spirituale, e, lungi da ogni distinzione razionale, tutte le cose e tutte le sensazioni apparivano animate da un unico soffio vitale (Honour, 2007) Lo scrittore francese Jean-Jacques Rousseau aveva fortemente esaltato il concetto di natura e aveva posto l’uomo al centro dell’universo. Per Rousseau la natura rappresentava il sentimento e quindi la sensibilità dell’uomo di saper leggere ciò che lo circondava. Dal movimento dello Sturm und Drang (Impeto tempestoso, da un dramma di Klinger), sorto in Germania intorno al 1770 ebbe poi origine il Romanticismo nordeuropeo, la prima corrente artistica che aveva considerato il paesaggio come veicolo preferenziale per l’espressione del proprio io. In realtà già nella seconda metà del XVIII secolo la mentalità e la sensibilità umana erano cambiate e le nuove istanze artistiche riflettevano il pensiero di filosofi che stavano rivoluzionando radicalmente i concetti relativi alla percezione. Immanuel Kant (1724-1804) ad esempio nelle sue Critiche aveva evidenziato il fatto che la nostra esperienza del mondo derivava dalle facoltà conoscitive di ognuno di noi e dall’organizzazione esistente nella nostra mente. Non conosciamo la realtà, ma solo un’impressione di essa, derivante dalla nostra percezione, quindi totalmente soggettiva. Kant era anche cosciente dello stretto legame tra percezione ed interiorità, tanto che nella Critica della Ragion Pratica raccontava di aver osservato la vastità del firmamento e di aver avvertito contemporaneamente l’esistenza dentro di sé della legge morale. Un esempio pratico di come la contemplazione della natura possa innescare all’interno dell’uomo un insieme di sensazioni che lo portano a conoscersi più approfonditamente (Ciseri, 2003). Dal canto suo invece il filosofo Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) arrivava a negare l’esistenza di una realtà assoluta, in quanto non può esserci un mondo separato da

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colui che lo percepisce. Da ciò deriva che la nostra conoscenza è, di per sé, l’atto creativo. Ovviamente tutte queste teorie erano giunte a Roma anche grazie alle varie istituzioni accademiche sia francesi che tedesche presenti nella città e in particolare proprio per la presenza del governo francese che fino a tutto il congresso di Vienna (1814) aveva governato il territorio italiano subito dopo le conquiste napoleoniche. Non è infatti possibile intendere l’evoluzione formativa del giovane Eugenio Landesio senza questo inquadramento storico-culturale seppur sintetico.

Gli esordi e le committenze romane (1832-1854) Aveva solo 23 anni quando Landesio esordì presso La Società degli Amatori e Cultori delle Belle Arti in Roma con un dipinto che raffigurava la Vergine in visita a Santa Elisabetta, opera poi acquisita dalla Società e vinta durante la consueta estrazione alla fine dell’esposizione da Vincenzo Camuccini (1771-1844), pittore, restauratore e vicepresidente dell’Accademia di San Luca. In realtà La Società era parte di un progetto molto importante che aveva visto le sue origini già alla fine del XVIII secolo e precisamente nel 1792 quando l’abbate Michele Mallio negli Annali di Roma sosteneva la necessità di realizzare nella città un edificio destinato ad esibire opere d’arte e a cui il pubblico poteva accedere liberamente. In verità proprio quel contesto culturale, che caratterizzò l’Europa a partire dall’Illuminismo, aveva reso necessaria la presenza di una sede idonea in cui condividere e discutere temi connessi all’arte e l’abbate Mallio aveva precocemente avvertito la mancanza tanto da proporne subito l’istituzione. Nel frattempo nel 1804 il trasferimento dell’Accademia del nudo dal Campidoglio all’ex monastero delle Convertite in via del Corso aveva segnato l’inizio di questo progetto proposto dall’abbate. Il tema divenne ben presto di dominio pubblico tanto che molti letterati tra cui Melchiorre Missirini (1773-1849) nella Memorie per servire alla storia della romana Accademia di San Luca (1804) lamentava la mancanza di una sala espositiva dedicata all’arte per la diffusione delle opere realizzate in numerosi studi artistici presenti non solo a Roma ma in tante altre città italiane. Le argomentazioni avanzate da Missirini, anche per il progetto proposto dal Canova, furono poi riprese nel 1824 proprio da Vincenzo Camuccini dell’Accademia di San Luca il quale si rivolse al cardinale Bartolomeo Pacca con la preghiera di poter ricevere in concessione i locali presso la Dogana di piazza del Popolo al fine di realizzare questa grande sala espositiva dedicata all’arte. La proposta di Camuccini si andava tra l’altro ad inserire nel più ampio progetto di rinnovamento urbano della piazza del Popolo su progetto di Giuseppe Valadier. Ovviamente il contatto con il cardinale Pacca sortì un favorevole effetto e così a partire dal 1824 si avviarono i lavori proprio per la realizzazione della sala e la stessa Accademia di San Luca si impegnò nella redazione del regolamento per le esposizioni delle arti a Roma. Tutto questo ovviamente favorì un fermento nelle attività creative e la presenza a Roma di artisti che provenivano anche da altri paesi per partecipare ai concorsi d’arte e alle esposizioni (Montani, 2007).

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Fig.2. Pianta della Porto del Popolo. Officio doganale, Caserma die Carabinieri ed annessi, in Cabro generale dei Fondi Urbani e Rustici di pieno diritto o utile dominio della Rev. Camera Apostolica. Vol. I che comprende quelli di Roma Suburbano ed Agro Romano, 1827 in ASR, Disegni e piante, Extravagantes, f. 23. (Montani, 2007)

L’esordio presso La Società degli Amatori e Cultori delle Belle Arti valse a Landesio una certa notorietà tra gli artisti emergenti ma non si lasciò distrarre da questo riconoscimento. Anche la possibilità che tanti artisti ebbero a Roma di partecipare ad esposizioni pubbliche grazie al progetto della Società e quindi della sala espositiva in Piazza del Popolo —dove ancora oggi una lapide marmorea ne ricorda la fondazione —consentì al giovane artista piemontese di venire presto a contatto anche con altre realtà culturali. Negli anni che seguirono si dedicò principalmente al disegno e alla tecnica litografica insieme con Giovanni Brocca (1803-1876) milanese e formatosi presso l’Accademia di Brera. Anche Brocca ben presto si era entusiasmato per la rappresentazione del paesaggio e aveva risieduto a Roma tra il 1839 e il 1845, anni in cui conobbe Eugenio Landesio e altri artisti. Brocca e Landesio viaggiarono molto insieme per le campagne romane realizzando numerose vedute prospettiche sia della città di Roma che dei paesaggi di campagna, poi stampati su litografie presso lo stabilimento Wieller di via del Corso a Roma. Presso questo stesso stabilimento nel 1835 Landesio pubblicò la prima Raccolta di trentaquattro piante disegnate dal vero e litografate, importante repertorio di soggetti caratteristici della pittura di paesaggio.

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Fig.3. Eugenio Landesio, Paesaggio con piante e figure, Fondo Zevi (Bologna), 1840ca.

Fig.4. Eugenio Landesio, Quattro vedute della Campagna Romana, disegno, ca. 1841, Roma, BIASA, Collezione Lanciani, Roma XI, 26, V, 15-18: 30578 (Avanzi della Villa di Cicerone), 30578/1 (Fuori porta San Lorenzo presso ponte Mammolo), 30578/2 (Via dei sepolcri al Tuscolo), 30578/3 (Cremona, 2017)

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Fig. 5. Eugenio Landesio, Veduta della via dei sepolcri tuscolani, litografia, 1841 (da Canina 1841, tav. XXI), Roma, BIASA, Collezione Lanciani, Roma XI, 26, V, 34, 30594 (Cremona, 2017)

Le vedute di fig.4 e fig.5 sono conservate presso la Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte, Archivio Storico, Fondo Rodolfo Lanciani, nella collezione Roma XI, 36 («Campagna») dove ci sono numerose rappresentazioni della campagna romana di insigni artisti di cui anche otto disegni di Eugenio Landesio con prevalenza di paesaggi archeologici, come gli acquedotti o ancora il Tusculum e le rovine della Villa di Cicerone nonché disegni su Villa Adriana a Tivoli (Cremona, 2017). La presenza di numerosi e autorevoli letterati e artisti stranieri consentì ben presto al giovane Landesio di essere osservato e apprezzato anche da studiosi stranieri tanto che le sue produzioni litografiche sul paesaggio romano riscossero ben presto molti apprezzamenti da parte del pittore ungherese Karoly Markó il Vecchio (1791-1860) che a partire dal 1832 aveva risieduto in Italia. Karoly Markó il Vecchio era uno dei massimi rappresentati della pittura paesaggistica Nord Europea e molti suoi dipinti raffiguranti i paesaggi italiani si trovano in importanti musei europei e tra questi il Museo Thorvaldsen a Copenaghen dove si conserva proprio un’opera (fig.6) dal titolo Paesaggio montuoso Italiano [Italienishce Berggegend] mentre un suo autoritratto è custodito presso gli Uffizi a Firenze. Continuando intensamente la sua produzione artistica nel 1839 Landesio decide di inviare all’Accademia di Belle Arti di Berlino due sue opere: Diana al bagno ed Entrata delle terme di Diocleziano a Roma che gli valsero buoni commenti da parte della critica. Intanto presso la sala espositiva di piazza del Popolo a Roma, in occasione delle esposizioni annuali della Società degli Amatori e Cultori delle Belle Arti, nel 1939 presentò la rappresentazione della Tenuta Tragliatella presso Bracciano, mentre nel 1840 propose la Veduta della Rufinella, opera poi acquistata dalla regina Maria Cristina di Borbone, vedova di Carlo Felice, purtroppo ora andata dispersa. Infatti dopo la morte di Carlo Felice (1831), la regina aveva scelto la villa della Rufinella come sua dimora estiva e aveva avviato un ampio programma promozionale che prevedeva, oltre a campagne di

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scavo nelle zone dell’antico Tuscolo e di Veio affidate all'architetto Luigi Canina, anche la committenza ad artisti piemontesi e liguri attivi a Roma di una serie di vedute e pitture di storia finalizzate alla celebrazione della dinastia sabauda (Castelnuovo, Pirovano, 1991).

Fig.6. Karoly Markó il Vecchio, Paesaggio italiano, 1836, Museo Thorvaldsen, Copenaghen

Poco più che trentenne, nel 1841, Landesio ricevette l’incarico di dipingere un quadro su commissione raffigurante un tema che aveva già trattato in precedenti rappresentazioni pittoriche, ossia una Veduta del teatro del Tuscolo (opera anch’essa dispersa) per commemorare la visita di papa Gregorio XVI alla villa di Frascati nell’ottobre del 1839. L’opera sin dalle origini fu destinata al castello ducale di Agliè, in provincia di Torino così come le successive due altre commesse relative al Furio Camillo all'assedio di Veio (1842) e I Fabi al fonte Cremera (1846) (Cappelli, Pasquali, 2002). Negli anni che seguirono Landesio si dedicò alla realizzazione di alcune litografie raffiguranti monumenti dell’antica Roma e vedute del Tuscolo poi riportate nel volume dell’architetto Luigi Canina, Descrizione dell’antico Tusculo, opera finanziata da Maria Cristina di Borbone ed edito in Roma nel 1841. Nel frattempo contemporaneamente lavorò come progettista per Marcantonio Borghese, figura eminente della vita pubblica romana, che incaricò il giovane Landesio per la decorazione di due importanti ambienti del palazzo Borghese in Roma. Nella prima sala Landesio affrescò quattro vedute di villa Borghese (1841: Veduta di villa Borghese, I propilei egizi, Il laghetto all'ingresso della porta del Popolo, Il tempietto di Esculapio), mentre nella seconda sala realizzò quattro paesaggi raffiguranti le proprietà della famiglia: Palazzo Borghese in Campo Marzio, Villa Borghese al Pincio, Palazzo Borghese a Nettuno, Villa Mondragone a Frascati (1841-42), nei quali accrebbe il ruolo delle figure in rapporto al paesaggio.

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Fig.7. Eugenio Landesio, litografia tratta dalla raccolta Vedute principali della villa Borghese, Roma 1942

Infine dalla collaborazione con l’architetto Luigi Canina nacquero anche le litografie per il volume Vedute principali della villa Borghese pubblicati a Roma nel 1842. Nel 1846 Eugenio Landesio fu nuovamente presente all’esposizione annuale della La Società degli Amatori e Cultori delle Belle Arti con tre lavori di diversa ispirazione: un quadro storico di grandi dimensioni con La sconfitta e la morte dei Fabi sotto le mura di Veio, probabilmente legato alla committenza sabauda; un dipinto di argomento religioso con La vocazione di San Giovanni Evangelista; una Veduta del muro di Teramo a Civita Castellana, opera nata dallo studio del motivo dal vero analogamente alla Veduta di alcuni sepolcri etruschi presso Viterbo, esposta l’anno successivo e realizzata, come la litografia Veduta della città di Sutri (1846) in seguito a un soggiorno nel viterbese. Nello stesso anno Landesio illustrò la tomba scoperta a Veio da Giovanni Pietro Campana (1808-1880), collezionista romano, per il volume dell’architetto Luigi Canina L’antica città di Veio, opera editoriale pubblicata in Roma nel 1847 e dedicata a Maria Cristina di Borbone. L’anno seguente, nel 1847, Landesio firmò un contratto con la calcografia camerale per la realizzazione di disegni tratti dagli artisti Nicolas Poussin e Gaspard Dughet, preparatori poi delle serie incisorie eseguite tra il 1847 e il 1849 da Augusto Marchetti (Sisi, 2003). Fino a tutta la metà del XIX secolo la traiettoria formativa e di affermazione professionale di Eugenio Landesio fu molto lineare e segnata da committenze importanti che gli consentirono di farsi conoscere anche in ambiti culturali fuori dall’Italia. Inoltre la presenza di artisti stranieri nella città di Roma aveva facilitato le sue relazioni oltre i confini nazionali. Da tutto questo ne determinò quella che possiamo definire la seconda importante fase professionale di Landesio, ossia quella che lo vide ben presto emigrato nel nuovo continente e precisamente nella capitale del Messico per assumere un importante incarico accademico.

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Eugenio Landesio in Messico (1854-1877) Nel 1834 presso l’Accademia di San Luca in Roma Landesio aveva conosciuto il pittore catalano Pelegrín Clavé y Roqué il quale si era poi trasferito in Messico per assumere l’incarico di direttore dell’Accademia di San Carlo di Città del Messico fino a tutto il 1868 quando fece ritorno a Barcellona e dove divenne membro della Real Academia Catalana de Bellas Artes de San Jorge. Fu proprio il direttore Clavé che nel 1853 aveva invitato l’amico Eugenio Landesio ad inviare suoi disegni e litografie all’esposizione dell’Accademia messicana. In questa occasione Landesio aveva realizzato l’opera Vista de Roma tomada de la villa Freborn por la via Cassia (1853), un paesaggio classicisticamente concepito per soggetto e composizione scenografica che fu acquistato poi dalla stessa Accademia per la sua galleria di pittura (Rodriguéz Prampolini, 1997, p. 426).

Fig.8. Eugenio Landesio, Vista de Roma tomada de la villa Freborn por la via Cassia (1853), Messico

I riscontri della critica in Messico furono molto positivi tanto che due anni dopo, nel 1855, Landesio fu nuovamente contattato ma questa volta per un incarico accademico. Infatti sempre Clavé lo incaricò per la cattedra di pittura di paesaggio e per la cattedra di prospettiva e ornato presso l’Accademia di San Carlo di Città del Messico. Fu una

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vera grande novità in quanto per la prima volta in Messico si apriva una cattedra di pittura dedicata al paesaggio. Nulla di simile c’era stato prima di allora. Certamente il tema risultava molto interessante tanto che le straordinarie caratteristiche del paesaggio messicano non tardarono a emozionare il nostro Eugenio Landesio così come ebbe modo di dimostrare in molte delle opere da lui realizzate in Messico tra il 1855 e il 1877. Così a seguito dell’incarico accademico Landesio lasciò Roma al principio del 1854 per imbacarsi a Genova e raggiungere così le coste oltreoceano alla volta del Messico. Il 2 maggio del 1854 iniziò la sua attività accademica e per evidenti mancanze di riferimenti bibliografici per i suoi corsi si impegnò anche nella redazione di importanti volumi per aiutare gli studenti nello studio delle sue discipline. Tre i principali libri che editò in Messico presso l’Accademia: Los cimientos del artista dibujante y pintor. Compendio de perspectivas lineal y aérea, sombras, espejos y refracción, con las nociones necesarias de geometría (1866); La pintura general o de paisaje y la perspectiva en la Academia Nacional de San Carlos (1867); Escursión a la caverna de Cacahuamilpa y ascensión al cráter del Popocatepetl, (1868). In particolare nel volume La pintura general o de paisaje y la perspectiva en la Academia Nacional de San Carlos Landesio aveva strutturato l’opera in due parti ben distinte: studio dei luoghi (Localidades) con riferimento alle specifiche caratteristiche materiali e studio della storia (Episodios) ossia degli avvenimenti che hanno caratterizzato i luoghi osservati. Non escluse poi un aspetto molto importante che era lo studio topografico e quindi degli aspetti morfologici dei luoghi e che introdusse un tema fondamentale che è quello della geografia. Fino a quei tempi lo studio della pittura non aveva avuto alcun riferimento con discipline non artistiche, differentemente Landesio aveva dimostrato l’importanza dell’apporto interdisciplinare nello studio del paesaggio. Ovviamente queste sollecitazioni gli derivavano anche per la sua formazione e le esperienze che fino a questi giorni lo avevano visto operare in Italia. In questo libro, inoltre, Landesio definì la pittura di paesaggio superiore a qualsiasi altro genere per i diversi elementi che entrano nella composizione del quadro e spiegò il suo metodo di insegnamento, basato sull’individuazione di alcune leggi invariabili nella creazione artistica trasmissibili agli alunni sotto forma di ricette, ed esponendo la sua concezione della pittura quale attività estetica indissolubilmente composta da principi teorici e allo stesso tempo pratici, concezione che motivò la sua diffidenza verso la critica d’arte svolta da alcuni scrittori e letterati. Il suo insegnamento si basava soprattutto sul disegno dal vero e sulla conoscenza diretta di cosa poteva significare realizzare un monumento o un oggetto secondo una determinata linea prospettica. Landesio invitava i suoi allievi ad osservare molto il paesaggio e ciò che li circondava e invitava gli stessi a trarre ispirazione proprio da questa attenta osservazione e non solo dalla fantasia. Per questo motivo Landesio si impegnò nella redazione di quello che fu il suo primo libro accademico dedicato agli studenti. Si trattò dell’opera già menzionata, Los cimientos del artista dibujante y pintor. Compendio de perspectivas lineal y aérea, sombras, espejos y refracción, con las nociones necesarias de geometría (1866) che raccoglieva le lezioni tenute presso l’Accademia e

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completato da una cartella di ventotto litografie tratte da tre dei suoi più validi allievi: Luís Coto, Gregorio Dumaine e José María Velasco. In questo libro Landesio offriva ai suoi allievi numerose istruzioni su come dovevano scrutare la realtà, come osservare gli oggetti, come raggiungere una rappresentazione quanto più possibile realista e al tempo stesso in grado di trasmettere emozioni all’osservatore. Un aspetto molto importante era la tecnica delle ombre che permetteva all’artista di dare una precisa configurazione all’oggetto anche in relazione al grado di luce rispetto al quale veniva osservato. Non c’è alcun dubbio che questi volumi, a carattere molto interdisciplinare, hanno costituito le prime trattazioni di educazione artistica a carattere sistematico pubblicate in Messico e destinate alla cultura accademica nel settore delle arti e che mai nessuno prima di allora aveva analizzato e proposto. Per queste evidenti ragioni certamente possiamo considerare Eugenio Landesio un vero precursore nell’accademica messicana delle teorie artistiche connesse al paesaggio e allo studio della geografia dei luoghi, temi che oggi sono alla base degli studi sviluppati da Martin Checa-Artasu in merito ai programmi di protezione e tutela del paesaggio naturale e culturale in Messico in ambito geografico (Checa-Artasu e Al., 2014 e 2017). Intanto durante il suo lungo ventennio in Messico Landesio oltre a dedicarsi all’insegnamento aveva messo a servizio di importanti committenti la sua professionalità di artista. Nel 1864 fu nominato pittore di camera dall’imperatore Massimiliano d’Asburgo e incaricato dell’esecuzione a fresco, nel castello di Chapultepec, di sei grandi paesaggi storici dedicati al Messico preispanico ma purtroppo queste opere non furono mai realizzate. Intanto mosso da interessi di carattere scientifico, nel 1868 visitò con lo scultore Miguel Noreña Agurte, anche questo docente presso l’Accademia di San Carlo, le grotte di Cacahuamilpa e scalò il vulcano di Popocatépetl con il pittore Jorge Obregón da cui derivarono le prime vedute stereoscopiche dell’interno del cratere. In seguito a tale impresa dipinse due quadri ispirati all’originale conformazione naturale delle grandi sale sotterranee di Cacahuamilpa (Salón de los órganos e Salón de los monumentos, 1869, Città del Messico, Museo Nacional de arte) e due vedute del vulcano di Popocatépetl (El Popocatépetl. Sacado desde el cerro de Tlamaca e El Popocatépetl. Su cráter visto desde el labio S.E. mirando hacia N.O., 1869). Queste opere, litografate da José María Velasco, servirono poi a illustrare l’opuscolo Excursión a la caverna de Cacahuamilpa y ascensión al cráter del Popocatépetl pubblicato in Madrid nel 1869. In seguito ai capovolgimenti politici sopraggiunti nel paese, nel 1868 Landesio si vide costretto ad abbandonare la cattedra di prospettiva e, nel 1873 anche quella di pittura di paesaggio diretta per diciannove anni. Intanto nel 1868 anche Clavé aveva lasciato la direzione dell’Accademia e il problema della successione vide impegnati in una forte controversia lo scrittore Ignacio Manuel Altamirano con Eugenio Landesio che si era fortemente esposto anche a difesa di suoi candidati tra cui José María Velasco che sempre si dimostrò il suo più fedele e affezionato allievo e che gli succedette in entrambi gli insegnamenti presso l’Accademia (Larrucea Garritz, 2016). Alla fine Landesio accettò di restare come docente incaricato prima di rientrare definitivamente in Italia nel 1877.

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Fig.9. Eugenio Landesio, El puente de S. Antonio en el camino de S. Angel, junto a Panzacola, México 1855, Museo Nacional de Arte.

Tra il 1855 e il 1877 Eugenio Landesio aveva realizzato moltissimi dipinti ispirati al paesaggio agrario e indigeno messicano, nonché aveva fortemente esaltato le bellezze naturali e antropiche di questo territorio del centro America. Particolarmente affascinato anche dalle tradizioni culturali locali Landesio aveva ritratto soprattutto le comunità rurali, i monumenti degli ordini missionari fuori dai centri abitati nonché la maestosità delle montagne e delle valli che costeggiavano lunghi torrenti e laghi. Il paesaggio messicano ritratto da Landesio risentiva chiaramente di quello stile purista e classicista che aveva caratterizzato gli anni della sua formazione in Italia ma allo stesso tempo stabiliva un armonico dialogo con le culture locali. Tra le principali opere certamente, in questo contesto, merita menzionare El puente de S. Antonio en el camino de S. Angel, junto a Panzacola del 1855 e conservato presso il Museo Nacional de Arte; una straordinaria veduta panoramica della Hacienda de Colón a Puebla, opera realizzata tra il 1857 e il 1858 ma di ignota ubicazione; ed ancora El valle de México desde el cerro de Tenajo del 1870 e conservato presso il Museo Nacional de Arte di Città del Messico (Moyssén, 1963).

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Fig.14. Eugenio Landesio, Antisacristía del convento de San Francisco, México 1855, Museo Nacional de Arte.

Fig.15. Eugenio Landesio, Patio de la hacienda de la Regia, México 1857, Museo Soumaya, D.F.

UN PITTORE ITALIANO IN MESSICO. IL PAESAGGISMO DI EUGENIO LANDESIO (1855-1877)

Fgi.16. Eugenio Landesio, La hacienda de Colón a Puebla, 1857–1858 [Artnet]

Fig.17. Eugenio Landesio, El valle de México desde el cerro de Tenajo del 1870, Museo Nacional de Arte

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Fig.10. Eugenio Landesio, Escursión [sic] a la caverna de Cacahuamilpa y Ascensión al cráter del Popocatepetl por Eugenio Landesio escrita en castellano por el mismo, Impr. del Colegio del Tecpam, 1868, BN-FR.

Fig. 11. Eugenio Landesio, Caverna de Cacahuamilpa, in Escursión [sic] a la caverna de Cacahuamilpa y Ascensión al cráter del Popocatepetl por Eugenio Landesio escrita en castellano por el mismo, Impr. del Colegio del Tecpam, 1868, BN-FR, p. 19.

UN PITTORE ITALIANO IN MESSICO. IL PAESAGGISMO DI EUGENIO LANDESIO (1855-1877)

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Fig.12. Eugenio Landesio, Popocatepetl, in Escursión [sic] a la caverna de Cacahuamilpa y Ascensión al cráter del Popocatepetl por Eugenio Landesio escrita en castellano por el mismo, Impr. del Colegio del Tecpam, 1868, BNFR, p. 47.

Fig.13. Eugenio Landesio, Popocatepetl, in Escursión [sic] a la caverna de Cacahuamilpa y Ascensión al cráter del Popocatepetl por Eugenio Landesio escrita en castellano por el mismo, Impr. del Colegio del Tecpam, 1868, BNFR, p. 49.

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Verso una nuova maniera Dopo il suo rientro in Italia nel 1877 Landesio rimase in contatto con i suoi ex allievi e colleghi messicani ma ben presto dovette fare i conti con un ambiente culturale in forte rinnovamento. Il rientro in Europa aveva sin da subito prospettato a Landesio un ambiente in forte fermento; infatti sin dalla prima metà del XIX secolo le strutture accademiche tradizionali erano state minate da distinte maniera di produrre arte. La rivoluzione industriale aveva in parte soppiantato le tradizioni artigianali e privilegiato la produzione meccanica e tutto questo ebbe importanti riflessi anche nella produzione dell’arte. I risultati più immediati di questa “rivoluzione” furono da subito visibili nell’ambito dell’architettura in cui alla sapienza e alla competenza artigiana si sostituì quella standardizzata proposta dall’industria. Ovviamente la frattura con l’accademismo e la tradizione aveva aperto uno sterminato campo di opportunità ma stava all’artista scegliere quelle più opportune ed adeguate per la rappresentazione della realtà (Gombrich, 2008, p. 379). Nel 1855, primo anno di Landesio in Messico, in Toscana a Firenze nacque il movimento dei Macchiaioli, un gruppo nutrito di giovani artisti che in reazione all’inerzia formale dell’Accademia aveva affermato la tecnica pittorica della “macchia” sostenendo così una visione delle forme realizzata dalla luce quale macchia di colore che si accostava e sovrapponeva ad altre. La prima esposizione pubblica del gruppo si ebbe nel 1862 (Rewald, 1976). Alcuni anni dopo, nel 1874 a Parigi ebbe vita la prima esposizione del gruppo degli Impressionisti, ossia di giovani artisti interessati a riprodurre nella pittura gli effetti delle nuove tecniche di rappresentazione tra cui la fotografia, applicando anch’essi la tecnica della “macchia” non solo al paesaggio ma a ogni scena di vita quotidiana (Gombrich, 2008, p. 399). Tutte queste novità accolsero Eugenio Landesio una volta rientrato in Italia e nel 1878 all’esposizione permanente di Milano vide per la prima volta la nuova pittura a macchia. Nel 1879 insieme all’amico catalano Clavé si recò a Parigi per visitare l’Esposizione Universale e dove venne a contatto con il gruppo degli impressionisti. Purtroppo Landesio colpito da malore morì il 29 giugno del 1879 a Roma. Non c’è alcun dubbio che la sua opera ha lasciato riflessi importanti soprattutto nelle generazioni di artisti messicani che si sono ispirati alle sue opere. Ovviamente in Italia la sua notorietà, in questi anni di grandi mutamenti e dopo la sua partenza in Messico, aveva subito forti declini tanto che neppure la storiografia aveva mai dedicato grande attenzione all’artista. Eppure il suo contributo è stato molto significativo anche per la promozione della cultura artistica italiana in Messico e queste pagine hanno tentato di riscattare un altro italiano che all’estero ha scritto importanti pagine di storia.

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ADOLFO OCTAVIO PONZANELLI (1879-1952) MEDIO SIGLO DE ESCULTURA EN MÉXICO

MARTÍN M. CHECA-ARTASU

This chapter analyzes the work of the Italian sculptor Adolfo Octavio Ponzanelli (born in Carrara in 1879 and died in Mexico City in 1952) and, his professional activity in Mexico between 1903-1952. It studies his activity related to sculptural projects and to religious furniture for various Mexican dioceses.

El arribo a México y los primeros encargos Adolfo Octavio Ponzanelli nació en Carrara en 1879, localidad toscana conocida por sus canteras de mármol. Se formó en el arte de la escultura siguiendo una tradición familiar secular. Misma que le llevará en su juventud a trasladarse a Paris donde al parecer, será discípulo de Augusto Rodin y conocerá a los mexicanos Dr. Atl y Amado Nervo (Savarino, 2003, p.169)1. La fecha de su llegada a México no es clara, pero se ha de situar entre 1903 y 1904. De hecho, una nota de prensa aparecida en The Mexican Herald, el 21 de enero de 1906 se indica que “en los dos últimos años ha estado residiendo en esta capital”. (SA, 1906, p.6). Algunas fuentes dan por hecho que su arribo a México se debió a la contratación por parte del arquitecto Adamo Boari para participar como escultor y marmolista en las obras del Teatro Nacional (hoy Palacio de Bellas Artes) (SA, 2001). Otra fuente señala que su arribo a México se debió a su contratación como ayudante de Leonardo Bistolfi, uno de los escultores encargados de la decoración del Teatro Nacional (Martínez Domínguez, 2005, p. 55). Lo que sí parece un hecho contrastado documentalmente, es la participación del propio Ponzanelli como marmolista en el Teatro Nacional, pero a Respecto a la tradición secular hay que decir que se localiza en la catedral de Carrara una placa donde se da fe de la actividad escultórica de Valerio Ponzanelli fechada en 1200. De igual forma, tanto en Italia como en España y entre los siglos XV y XVII encontramos el apellido Ponzanelli asociado a obras escultóricas. 1

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partir de 1932. Será él quien adquirirá en Durango, las placas de ónix y de mármol rojo con betas blancas que complementan la decoración art decó del hall del palacio de Bellas Artes (Ulloa, 2007, p. 129-131). De igual forma, se le atribuye su participación como cantero y escultor, entre 1907 y 1910, en las estatuas de la columna de la independencia, donde estuvo a las órdenes del escultor encargado de la obra: Enrique Alciati (Casas; Cavazos, 2009, p.128). De su factura son, al parecer, el león guiado por el niño, realizado en bronce y la figura de Nicolás Bravo (VV.AA., 2006, p.32). En esos primeros años de estancia en México, hay destacar tres encargos que sí están plenamente documentados. El primero, fechado entre 1906 y 1907 es la estatuaria de la tumba del General Rafael Cravioto (1829-1903), ex gobernador de Hidalgo, de familia de raíces italianas, en el Panteón Municipal de Huauchinango (Puebla). Hecha en mármol de Carrara, había sido encargada por la familia del político poblano en 1905 y supuso el primer viaje de vuelta a Italia, a finales de enero de 1906, en concreto, a su ciudad natal para obtener el mármol para dicha obra (SA, 1906, p.6). La decoración de ese panteón fue concluida y presentada en sociedad en noviembre de 1907 (SA, 1907, p.6). La segunda obra está fechada entre 1907 y 1911. Por mediación del abogado y político tabasqueño Manuel Sánchez Mármol realiza un busto al general Porfirio Díaz. Éste, inicialmente se situó en un pedestal alegórico junto a figuras relativas a la paz, la guerra y la historia y el águila mexicana (SA, 1906b, p.5)2. Una tercera obra es el busto en mármol de Carrara de Benito Juárez, realizado en 1909 por encargo del embajador de México en Estados Unidos, Francisco de la Barra para que fuese expuesto en la galería del Bureau of American Republics de Washington (SA, 1909, p.4). Como se ve en esos primeros años de estancia en México ha obtenido encargos de parte de las altas instancias políticas del país lo que muy probablemente le permitió tener otros trabajos y una rápida consolidación profesional en México. Su actividad se venía desarrollando desde 1904, en un taller de marmolería y escultura, conocido comercialmente como Mausoleos Ponzanelli (Méndez, 2003, p. 331). Mismo que estaba situado en la calle Éufrates, número 7 de la ciudad de México y que se mantendría hasta su muerte en 1952 (Ulloa, 2007, p. 131), cuando sus herederos deciden trasladarlo a Naucalpan, donde hoy se mantiene3. Es desde su taller que realiza distintas obras, tanto funerarias como de estatuaria conmemorativa y decorativa aprovechando tanto las relaciones que tenía con la élite política mexicana y con la comunidad de empresarios italianos en el país como por la notable aceptación de su trabajo por parte de una clientela formada por miembros de la burguesía, de la política y de la Iglesia (Wiencke, 2009, p.17). Su estilo figurativo, de corte clásico basado en la expresión plástica del cuerpo o del rostro, complementado por alegorías mitológicas será del gusto de una clientela que tiene capacidad de Es probable que este busto fuese el subastado en 2000 en Francia para obtener fondos para la repatriación a México de los restos de Porfirio Díaz. 3 Los papeles de carta de Adolfo Ponzanelli nos indican que tenía un despacho particular en la calle 2ª de Nazas, número 43, muy cercana al taller. 2

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sufragar una estatuaria en vida o bien una vez fallecidos. En relación a lo último, localizamos esculturas funerarias de Ponzanelli en el Panteón Francés de la ciudad de México (Herrera, 2009), en el Panteón del Tepeyac (Segarra, 2005, p.36; Wiencke, 2009, p.293), en los de El Carmen y Dolores en la ciudad de Monterrey (Casas; Cavazos, 2009, p.53), en el Panteón Municipal de Morelia y en el cementerio Civil de Pachuca, entre otros. Los diversos encargos no sólo fortalecen su actividad como escultor, sino que le obligan a ampliar las perspectivas de negocio. Es en algún momento, de los años diez del siglo XX cuando obtiene o bien una concesión o cuando menos contactos para la explotación de ciertos yacimientos de mármol en Torreón, Coahuila y en Dinamita, Chihuahua. Para julio de 1914 aparece como vocal en la Compañía de petróleo Tuxpam & Ozuluama, SA, con sede en la ciudad de México y explotaciones de 1.194 hectáreas repartidas en cinco bloques, en Tlacolula, en la ribera del río Cucharas y del Tuxpan y en Topila4. En ese mismo año, adquiere una ladrillera sita en las cercanías de la hacienda de San José de los leones, Naucalpan, donde años más tarde se instalará la firma Mármoles Ponzanelli (SA, 1914a, p.6; SA, 1914b, p.5). Si su actividad profesional y sus negocios parecen marchar con buen pie, también lo hará su vida social y personal. Así, se documenta su participación en actos y actividades que organiza la comunidad italiana en la ciudad de México. Un ejemplo de ello es su intervención en la comisión para la fiesta nacional italiana, del 20 de septiembre de 1907, que contará con la presencia de Porfirio Díaz (SA, 1907b, p.5; 1907c, p.3). Desde el punto de vista personal, el 18 de julio de 1908 se casa con Giannina Conty (i), hija de emigrados italianos con varios años de residencia en México (SA, 1908, p.4). Tras la Revolución mexicana el negocio de venta de mármoles y de trabajo escultórico camina a paso firme. De este momento, 1921, es el busto de Dante Alighieri que se ubicarán en el atrio del templo de San Pedro y San Pablo, fundado por la compañía de Jesús en 1572 y que en esos momentos estaba a punto de convertirse en la Sala de Discusiones libres, creada por José Vasconcelos (Fierro, 2003, p. 161). Se trata de un busto hecho en mármol sobre un pedestal donado por el gobierno italiano con motivo del seiscientos aniversario de la muerte del poeta florentino.

El escultor Ponzanelli y los encargos de la Iglesia A partir de la década de los treinta, coincidiendo con el final de la Guerra Cristera (1926-1929), Ponzanelli empezará a desarrollar distintos encargos para la Iglesia católica, específicamente, para la diócesis de León y para la Archidiócesis de Guadalajara. Su labor dedicada al diseño de estatuaria y mobiliario religioso se extenderá hasta casi su fallecimiento en Ciudad de México en 1952 (Checa-Artasu, 2014).

Anuncio de dicha compañía solicitando accionista para ampliación de capital aparecido en The Mexican Herald, 22 de marzo de 1914, p.12 4

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Al parecer, los primeros encargos para la Iglesia se dan en la Diócesis de León y en concreto, en el Templo de El Señor del Hospital de Salamanca donde hará los mármoles que decoran el altar principal (Rojas, 1982, p.230). En León, desarrollará a partir de 1935 los relieves marmóreos en los tímpanos de las puertas principales del Templo de Sagrado Corazón de Jesús, con motivos relativos a la muerte y resurrección de Cristo y pasajes de la vida de Santa María Margarita de Alacoque (Checa Artasu, 2011, p.196). También dejará su huella escultórica en 1938 en la Capilla a Cristo Rey, situada en un anexo de la catedral de la ciudad, donde desarrolla el denominado “Cristo Blanco” (Ojeda, 1973, p. 84-86). En la diócesis de Guadalajara tendrá cuando menos cuatro encargos significativos para la archidiócesis de Guadalajara5. Dos en la catedral de Guadalajara, otro en San Juan de los Lagos y el tercero en el templo expiatorio. Todos los encargos fueron realizados directamente por el arzobispo de Guadalajara, José Garibi Dávila. La documentación preservada en el Archivo histórico del Arzobispado de Guadalajara nos muestra como el escultor y obispo mantendrán una fluida correspondencia entre 1936 y 1941 dando cuenta de todos los pormenores en relación a los encargos escultóricos y de marmolería hechos para estos templos. Es una relación, mediada, por un lado, por el respeto y la sumisión que Ponzanelli guarda para con el prelado. Por otro lado, será crispada, especialmente en lo referente a pagos y precios de la obra que el escultor realiza y por las continuadas peticiones, cambios y sugerencias, entendidas como órdenes, que el arzobispo hace al escultor. Será una relación ambivalente y ciertamente, algo tensa, entre dos hombres que conocen perfectamente la actividad profesional que ambos desempeñen. En la catedral de Guadalajara, el obispo encargó en septiembre de 1936 una serie de placados en mármol para el frente del presbiterio, que fueron presupuestados en 1250 pesos6. Más tarde, entre enero y marzo de 1939, el escultor recibirá el encargo para el zócalo y unas escaleras en el mismo presbiterio, así como, para el diseño del sagrario7. En ese intervalo de tiempo, marzo de 1937, recibe una petición personal de Garibi vinculado a un acto político promovido por la diócesis tapatía, los actos conmemorativos para el entierro del arzobispo Francisco Orozco Jiménez. Cabe recordar que el arzobispo Orozco había sido considerado cabecilla de los cristeros y desterrado del país volviendo de forma clandestina con la ayuda del entonces monseñor Garibi y no había podido ser enterrado en la catedral a su muerte en 1936. Ponzanelli realizó un par de bustos del prelado fallecido, destinados para su inhumación en la sede catedralicia, acaecida el 22 de febrero de 1936. Un acto éste, que fue hábilmente convertido por el arzobispo Garibi en un acto público que congregó a un importante número de fieles católicos en las calles de Guadalajara y significo un Carta de Adolfo Ponzanelli a Arzobispo José Garibi, 25 de marzo de 1937. Archivo histórico del Arzobispado de Guadalajara. Gobierno, Parroquias, Expiatorio, caja 1, exp. 1938-1942, 20. 6 Carta de Adolfo Ponzanelli a Arzobispo José Garibi, 18 de mayo de 1938. Archivo histórico del Arzobispado de Guadalajara. Gobierno, Parroquias, Expiatorio, caja 1, exp. 1938-1942, 01. 7 Carta de Adolfo Ponzanelli a Arzobispo José Garibi, 17 de marzo de 1939. Archivo histórico del Arzobispado de Guadalajara. Gobierno, Parroquias, Expiatorio, caja 1, exp. 1938-1942, 15. 5

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acto de relectura y reconfiguración de las maltrechas relaciones entre la Iglesia tapatía y el Estado mexicano (Preciado, 2013, p.139). Ponzanelli completaría su labor en relación al funeral del arzobispo Orozco Jiménez, en 1941 al entregar una lápida sepulcral hecha en mármol para la tumba de éste, situada en suelo catedralicio (Preciado, 2007, p. 72-73; Dávila, 1953, p. 49; Martínez González, 1992, p. 67). Entre 1937 y 1939 compone un Vía Crucis para la Colegiata de Nuestra Señora de San Juan de los Lagos, que al parecer estaba destinado para el templo del Sagrado Corazón de Jesús de León8. Para esa misma colegiata diseña las escaleras posteriores al altar mayor en mármol blanco de Carrara que son entregadas en mayo de 19379.También, construirá un nuevo altar en mármol rosado para la iglesia de Nuestra de Señora del Carmen de esa ciudad de los Altos de Jalisco que se colocará en 193810.

Sobre el templo Expiatorio del Santísimo Sacramento de Guadalajara Ponzanelli tuvo una especial relación con el Templo Expiatorio del Santísimo Sacramento en Guadalajara. En este templo desarrollará dos proyectos de los que hablamos en unas líneas más abajo. Sin embargo, en este punto, se hace conveniente una breve reseña de este templo. Se trata, sin duda, de uno de los ejemplos más significativos de arquitectura neogótica de México, resultado de la conjunción de dos proyectos arquitectónicos (Checa-Artasu, 2015). El primero del ingeniero agrimensor e hidrógrafo tapatío Salvador Collado Jasso (1859-1909), egresado de la Escuela de Ingenieros de Jalisco y proyectista, en 1894, del puente colgante del Arcediano sobre la Barranca de Huentitán para establecer comunicación entre Guadalajara y las localidades del norte de Jalisco (Grimaldo, 2013, p.64). En abril de 1899, varias notas de prensa atribuyen al ingeniero Collado la redacción de los planos del templo del Santísimo Sacramento, que en esos momentos aún está por iniciarse y su futura participación como director de obras (SA, 1899, p. 2; 1899b, p.1). En cuanto a su estilo y forma poco se sabe. Ignacio Díaz Morales, arquitecto tapatío que sería el encargado de obras del templo de 1931 a 1972, nos menciona que fue rechazado por el arzobispado por su cúpula barroca y la falta de proporciones de este (Díaz Morales, 1979, p.312). A pesar de ello, en 1902, se le otorgó el segundo premio y la medalla de plata por el proyecto del templo en el marco de la Exposición regional Jalisciense (García Rivas, 1970, p. 451; Ochoa, 2013, p.145). El segundo proyecto es el que el arzobispado de Guadalajara encargo, entre 1899 y 1900, al arquitecto italiano, aunque era ingeniero de formación, Adamo Boari, quien ya

Cartas de Adolfo Ponzanelli a Arzobispo José Garibi, 13 de marzo de 1937 y del 17 de marzo de 1939. Archivo histórico del Arzobispado de Guadalajara. Gobierno, Parroquias, Expiatorio, caja 1, exp. 19381942, 15 y 19. 9 Carta de Adolfo Ponzanelli a Arzobispo José Garibi, 25 de mayo de 1937. Archivo histórico del Arzobispado de Guadalajara. Gobierno, Parroquias, Expiatorio, caja 1, exp. 1938-1942, 23. 10 Cartas de Adolfo Ponzanelli a Arzobispo José Garibi, 25 de marzo de 1937 y del 2 de marzo de 1938. Archivo histórico del Arzobispado de Guadalajara. Gobierno, Parroquias, Expiatorio, caja 1, exp. 19381942, 20 y 46. 8

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había realizado algunas obras para la archidiócesis de Guadalajara, en concreto, en el municipio de Atotonilco el Alto. Su proyecto será de dimensiones considerables, de 3.800 metros cuadrados de superficie, de tres naves con torre campanario en su lado izquierdo, que retoma aspectos del gótico italiano con reminiscencias bizantinas, con un notable parecido con la catedral de Orvieto, en la Umbría italiana, construida en el siglo XIV. La única diferencia que se introducía es una torre campanario de cuatro cuerpos, culminada con gran pináculo y un reloj, en lado izquierdo de la fachada. El resto de la fachada es de un parecido casi exacto al templo de Orvieto, especialmente en lo que se refiere a la factura de las puertas principales y de los mosaicos que en un segundo nivel decoraban los frontones del templo. Una vez que la comisión de construcción del Expiatorio dispuso de los proyectos arquitectónicos, según parece tomaron en consideración los planteamientos de Boari y en menor medida, los de Collado, empezaron las obras del templo. Se abrieron los fundamentos y se inició el acopio de material, piedra de cantera, para levantar las primeras paredes. El proyecto constructivo caminó con paso firme entre 1901 a 1912, coincidiendo con la prelatura del arzobispo José de Jesús Ortiz y Rodríguez (septiembre de 1901 a junio de 1912) quién designa al canónigo de la catedral de la Catedral del Guadalajara, Pedro Romero Arnaiz para el seguimiento de la obra. Misma que al parecer, inicialmente se soportaría por las propias aportaciones de este canónigo (Mata, 2005, p.247). Conviene añadir en este punto que Romero había sido el creador del Apostolado Expiatorio Eucarístico, movimiento religioso que entre sus objetivos tenía el construir un templo en diócesis para venerar a la Eucaristía y su papel en relación a la expiación y al perdón de los pecados. Para 1911 se dan por concluidos los pilares y las soleras del templo (González Escoto, 2006, p. 36). Al año siguiente, debido a los embates revolucionarios en Guadalajara las obras quedan paralizadas. Se habían construido hasta ese momento: los fundamentos de las tres naves con sus muros y columnas, pero con unas condiciones de estabilidad y resistencia pésimas, que años más tarde, significarían una serie de cambios el proyecto original (Moya, 1998, p.208). Las obras del templo quedaran estancadas hasta 1919 (Kasis, 2004, p.108). Tras ese impasse se retomarán concluyéndose una capilla provisional que permitirá hacer las primeras misas (González Escoto, 2006, p. 36). En febrero de 1924, tras la muerte del canónigo Romero, el arzobispo de Guadalajara: Francisco Orozco Jiménez delega la gestión y seguimiento de la obra, a su mano derecha, el futuro cardenal: José Garibi Rivera, por aquellos entonces presbítero. Una delegación de funciones que se formaliza, pues como mínimo desde mediados de 1923, Garibi se cuida de los pormenores de la construcción, dada la avanzada edad del canónigo Romero. Con su nombramiento, este religioso iniciará con mano firme su gestión del templo, que continuará aun siendo arzobispo de Guadalajara. Se puede afirmar con certeza que es por la dedicación y gestión hasta el mínimo detalle que el templo expiatorio de Guadalajara pudo ser concluido unos años más tarde. Durante este periodo, en agosto de 1923, se encargará al menos una escultura del Sagrado Corazón de Jesús al escultor queretano Agustín F. Espinosa. Un profesional

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que hacía dos décadas que trabajaba para el Arzobispado de Guadalajara. Obra suya es la escultura de la Sagrada Familia, esculpida en 1906, de la parroquia de Jesús María y José del municipio de Jesús María; la imagen de la Virgen de la Soledad, hecha para el Santuario de Ntra. Sra. de la Soledad de Ayo el Chico (Orozco, 1947, p.138) y El Niño Jesús de la Catedral de Zapotlán El grande. Este artista también tiene obra en la basílica de la Inmaculada Concepción de Mazatlán (Contreras, 2008). Entre 1924 y 1930 se delega la dirección de obras del templo en el ingeniero tapatío Luis Ugarte Vizcaíno quien construye el coro (Kasis, 2004, p.108). Este ingeniero civil, autor de obras en Guadalajara como la reforma del Mercado Corona, la cúpula del Instituto Cultural Cabañas, el Palacio Municipal, el Cine Alameda (Hermosillo, 2011), era docente en la Escuela libre de Ingenieros de Guadalajara. Allí tendrá como uno de sus alumnos más avezados, al entonces todavía pasante de arquitectura Ignacio Díaz Morales Álvarez Tostado (1905-1992). Ugarte le invitará a participar en la obra del Expiatorio, asumiendo la dirección de obras unos años más tarde. Será Díaz Morales quien introducirá en está construcción los cambios necesarios para solucionar los problemas estructurales que padecía. Además de ello, introducirá cambios al proyecto de Boari, haciendo una relectura de este que mucho tendrá que ver con la propia concepción que él tenía de los estilos históricos y en especial del gótico. Sin duda alguna, Díaz Morales impregno con su particular huella la obra del Expiatorio que tras cuatro décadas vio su culminación en 1972. Para ello hizo cambios en la estructura de pilares del templo y en las paredes laterales, así como en la girola y capillas interiores, construyendo un anexo al templo que haría las funciones de oficina y de salón para las adoraciones nocturnas. Hacía 1991 culminaría el proyecto arquitectónico del templo con el diseño de la plaza del Agave, situada al frente del templo a manera de atrio y con un aparcamiento subterráneo en vecindad a la zona de criptas del templo.

La relación de Ponzanelli con el templo Expiatorio de Guadalajara Como ya habíamos mencionado más arriba, Ponzanelli tuvo una especial relación con el Templo Expiatorio del Santísimo Sacramento donde desarrollará dos proyectos. Uno que certifica sus primeros contactos entre el escultor y el arzobispado tapatío en marzo de 1926 cuando se le encarga un comulgatorio que, al parecer, quedará en proyecto11. Algo lógico, por otro lado, ya que son años convulsos en la diócesis y, por ende, para el templo que apenas presenta unos muros alzados y unas pocas bóvedas de cerramiento aún inconclusas. Cabe recordar que esos años se iniciará la Cristiada, de 1926 a 1929, que tendrá una notable resonancia en Jalisco. El arzobispo Orozco Jiménez llegará a ser expulsado de la diócesis y se le obligará a exilarse. José Garibi al final de la contienda es nombrado obispo auxiliar, de facto será el reorganizador más importante de la archidiócesis hasta su nombramiento como arzobispo en 1936.

DI 3.1, 1926, 356, Autor: Adolfo Ponzanelli, México, D.F. 8 marzo 1926. Plano al parecer de un comulgatorio. Mapoteca del Archivo histórico del Arzobispado de Guadalajara. 11

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El segundo proyecto que desarrollará Ponzanelli para este templo será la construcción del rosetón para la fachada de éste. Creemos que colmó la paciencia del escultor lo que significó el punto final de su relación con está archidiócesis. El rosetón gótico fue un elemento de inspiración del Art Nouveau, especialmente las formas resultantes del paso de la luz a través de las formas trazadas en piedras y cubiertas de vidrios de colores.

Fig.1. Templo Expiatorio del Santísimo Sacramento de Guadalajara. Foto: Martín Checa Artasu, 2018

El principal impulsor del Gothic Revival, Pugin experimento con ello, al igual que William Morris (Sebreli, 2011, p.158). Ese hecho pareciera ajeno al caso que nos ocupa, sin embargo, el rosetón se resolverá como una pieza primordial en la conformación de la fachada del templo expiatorio de Guadalajara. A manera de hipótesis, planteamos que el rosetón neogótico que se construirá para el templo expiatorio de Guadalajara, más allá de imitar al que existía en la catedral de Orvieto, edificio modelo del templo jalisciense, buscaba recrear una imagen, la de la hostia consagrada como disco solar, referente de la advocación a la que había afiliado el edificio. Para el caso que nos ocupa, el rosetón se resuelve con 16 pilastras redondas, cumpliéndose así el simbolismo de la perfección cristiana asociada a ese número (Becker, 2009, p.364). Asimismo, se enmarca el mismo en un cuadrado en el que se sitúa en cada esquina bajorrelieves con los retratos de los cuatro evangelistas, transmisores del valor de la Eucaristía como el cuerpo de Cristo en sacrificio por la humanidad. Pero ¿Cómo se construyó el rosetón del templo expiatorio? En 1937, se reactiva la relación entre el escultor y el arzobispo Garibi vinculada al templo expiatorio, al menos así lo deja entrever la documentación recabada. Ponzanelli es contratado el 10 de julio de 1937 para desarrollar el rosetón del templo, que se presupuestó en 30.000 pesos12. Contrato de obra entre el José Garibi Dávila, arzobispo de Guadalajara y Adolfo Ponzanelli, escultor de fecha 10 de junio de 1937. Archivo histórico del Arzobispado de Guadalajara. Gobierno, Parroquias, Expiatorio, caja 1, exp. 1938-1942, 26 12

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El mismo debió haber sido hecho en mármol blanco de Carrara con pequeñas incrustaciones de mármol negro de Bélgica. Éste detalle fue eliminado finalmente por no haber sido acordado entre las partes y por los costos que significaba13. El tamaño del rosetón se diseñó en 5.76 metros por lado, conformándose así una superficie de 33,17 metros cuadrados de cantera trabajada. El rosetón circular a manera de rueda se situaba dentro de un marco que en sus cuatro esquinas presentaba los rostros de los cuatro evangelistas. Estos fueron proyectados en mármol en primera instancia al unísono que el rosetón. Sin embargo, los retratos “de estilo clásico” no serán del gusto del arzobispo quien reclamará al escultor que haga otros de “tipo racial hebreo” en bajorrelieve14. El rosetón es construido en ocho meses los talleres Ponzanelli de la ciudad de México y fue remitido a Guadalajara en 52 cajas, en marzo de 1938, delegando la colocación de éste en el maestro cantero Pascasio Morales, quien trabajaba en el taller del escultor y que fue enviado a Jalisco para cubrir los diferentes encargos que la empresa de marmolería tenía en esa zona15. En carta fechada el 18 de mayo de 1938, el mismo Ponzanelli se dirige al obispo José Garibi y Rivera con el fin de reclamarle por una serie de cambios que se estaban dando en la construcción del rosetón. Por sus declaraciones sabemos que el mármol de Carrara para el rosetón fue cambiado, probablemente por su alto precio. Este se acabó construyendo en mármol amarillo de Siena con incrustaciones de mármol rojo. En la misma misiva el escultor reclama por una serie de perforaciones que se han hecho en el mármol que no se ajustaban al diseño original. El 9 de junio de 1938, Ponzanelli remite una misiva al arzobispo donde pide disculpas por el comportamiento del cantero que ha dejado a cargo de la obra del rosetón. Al parecer éste se había enfermado pues padecía de alcoholismo, descuidando la obra en el Expiatorio, hecho que había obligado hacer la bendición del templo, sin estar éste concluido16. En octubre de 1938 el arzobispo Garibi encarga a Ponzanelli un par de diseños para una custodia, que tendrá una altura de dos metros y estará hecha en bronce y bañada en oro de veinticuatro quilates. El escultor, actúa como intermediario con Fundición Artística, empresa de la Ciudad de México, encargada finalmente de hacer la custodia. Dicha custodia se valorará en 24.300 pesos17. Se trata de una propuesta que se enmarca en el deseo del arzobispado por tener en el nuevo templo una custodia gigante capaz de resguardar la hostia consagrada, el símbolo eucarístico al cual se rinde tributo en el templo expiatorio. Las gestiones para la Finalmente, el mármol negro de Bélgica fue sustituido por mármol rojo. Carta de Adolfo Ponzanelli a Arzobispo José Garibi, 16 de julio de 1937. Archivo histórico del Arzobispado de Guadalajara. Gobierno, Parroquias, Expiatorio, caja 1, exp. 1938-1942, 34. 14 Carta de Adolfo Ponzanelli a Arzobispo José Garibi, 15 de junio de 1937. Archivo histórico del Arzobispado de Guadalajara. Gobierno, Parroquias, Expiatorio, caja 1, exp. 1938-1942, 27. 15 Carta de Adolfo Ponzanelli a Arzobispo José Garibi, 20 de mayo de 1938. Archivo histórico del Arzobispado de Guadalajara. Gobierno, Parroquias, Expiatorio, caja 1, exp. 1938-1942, 05 16 Cartas de Adolfo Ponzanelli a Arz. José Garibi. 9 de junio de 1938. Archivo histórico del Arzobispado de Guadalajara. Gobierno, Parroquias, Expiatorio, caja 1, exp. 1938-1942, 67 y 60. 17 Carta de Adolfo Ponzanelli a Arz. José Garibi. 27 de octubre de 1938. Archivo histórico del Arzobispado de Guadalajara. Gobierno, Parroquias, Expiatorio, caja 1, exp. 1938-1942, 09. 13

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elaboración de esta se alargarán hasta inicios de 1939, momento en el que al parecer la relación entre Ponzanelli y el arzobispado de Guadalajara entra en un parón. Retomándose en 1941 con la entrega de la lápida sepulcral para la tumba del arzobispo Orozco que será el último encargo a Ponzanelli por parte de la Archidiócesis,

Las últimas obras Las últimas obras documentadas de Ponzanelli son para la basílica de la Virgen de Guadalupe, diseñando sendas estatuas dedicadas a fray Juan de Zumárraga y a Juan Diego que se ubican en las escaleras hacía el Cerrito del Tepeyac (Sentíes, 1999, p.82). Para la Archidiócesis de México diseña un conjunto escultórico sobre la aparición de la Virgen de Guadalupe a Juan Diego y que hoy permanece en los jardines del Vaticano. El conjunto, realizado en mármol de Carrara, será un regalo de la archidiócesis de México al Papa en turno que se entregará en 1939. Cabe añadir, que en dicha obra colaborará su hijo Octavio Ponzanelli Conti (1918-1986), mismo que en las siguientes décadas se convertirá en un connotado y solicitado escultor (Hernández; Franco, 1995, p.63). En la década de los cuarenta, Ponzanelli con 60 años cumplidos, había consolidado claramente su actividad y su clientela y ya había empezado a delegar parte de sus trabajos a su hijo. Es en esa década que rrealizará encargos para la diócesis de Cuernavaca donde restaura y reelabora una estatua de la Virgen del Calvario, entre 1946 y 1948. Ubicada en la zona de El Calvario, dicha pieza había sido vandalizada en diciembre de 1934 por un grupo afín a los planteamientos anticlericales de Garrido Canabal (Melgar, 2005, p.200; López González, 1999, p.86; López Beltrán, 1957, p. 79). Dicha escultura se encuentra a día de hoy sita en la iglesia de San José El Calvario, en la capital morelense. Probablemente, la última obra que se le puede atribuir la realizará para la diócesis de Coahuila, en 1946 consistente en un enorme altar en mármol para el Santuario de la Virgen de Guadalupe, una suerte de baldaquino enmarcado en un arco trilobulado que contiene el lienzo de la Virgen de Guadalupe (Fuentes, 1988, p.106). Adolfo Octavio Ponzanelli fallecerá en la Ciudad de México en 1952 dejando un legado que hemos tratado de rescatar en esta sucinta biografía. Su obra y sus conocimientos se transmitirán a sus herederos ya seguirán en la actividad escultórica, tanto su hijo, Octavio Ponzanelli Conti, escultor, dibujante y ocasional poeta, del que debemos destacar obras como “el éxtasis” en la Capilla Alfonsina; “La ola” y el busto del Dr. Atl (Hernández; Franco, 1995, p.64) como sus nietos Gabriel y Octavio Ponzanelli Quintero18. Por otro lado, la marmolería que el fundó seguirá su trayectoria en Naucalpan hasta nuestros días19.

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http://escultoresponzanelli.com.mx/curriculum-vitae https://www.marmolesponzanelli.com/

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Ciudad de México. Detalle de “ La música” realizado por Leonardo Bistolfi para el Palacio de Bellas Artes. Autor: Martín Checa-Artasu, noviembre 2018.

HUMBERTO PEDRETTI, MATEO MATTEI Y GUIDO GINESI UN ESCULTOR Y DOS ARQUITECTOS ITALIANOS EN MÉXICO

MARTIN M. CHECA-ARTASU

This chapter documents the trajectory of two architects Mateo Mattei and Guido Ginesi and a sculptor Humberto Pedretti, Italians who deployed their activity in several Mexican cities (Guadalajara, San Pedro Tlaquepaque, Monterrey, Nuevo Laredo and Saltillo) in the years of the Porfiriato and immediately after the Mexican Revolution. The three trajectories are an example of the very little documented activity of the numerous Italian artists that took place in Mexico from the end of the 19th century to the first half of the 20th century.

El presente texto muestra de forma somera la trayectoria de dos arquitectos y un escultor italianos que desplegaron su actividad en varias ciudades mexicanas (Guadalajara, San Pedro Tlaquepaque, Monterrey, Nuevo Laredo y Saltillo) en los años del Porfiriato y los inmediatamente posteriores a la Revolución Mexicana. Estas biografías surgen de la recopilación más o menos exhaustiva a partir de distintas fuentes escritas. Es un texto necesariamente corto, dada la escasez de los datos, pues son muy pocos los análisis que sobre este tipo de artistas se han realizado a la fecha en México1. Inevitablemente, este texto utiliza, los trabajos de diversos investigadores que han analizado la historia y la construcción urbana de esas ciudades. De alguna forma es un pequeño homenaje a todos ellos, pues desde el análisis de la historia local, tan necesaria para no perder las raíces y conocer como el pasado a dado pie al actual presente, nos dan las pistas de la trayectoria de estos artistas transalpinos. De igual forma, en los casos que ha sido posible se ha hecho una recopilación de la actividad de 1 Son pocos los trabajos específicos sobre artistas italianos que trabajaron en México. Entre estos destacamos: El relativo al escultor Michel Giacomino de: Esquivel Tovar, Enrique; Santacruz Vargas, Julia (2011) Un destacado escultor …, pp. 35-62. Sobre el escultor Adolfo Octavio Ponzanelli de: Checa-Artasu, M. (2014). Cuando escultura …, pp. 67-82 y sobre Enrique Alciati. García Barragán, Elisa (1970) El escultor Enrique …, pp.51-66 357

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los tres biografiados y de algunos más que se citan en el trabajo a través de la prensa de la época, una fuente secundaria que nos ayudado a recabar datos, otrora desconocidos. Las tres trayectorias son, acaso, paradigmáticas de la actividad, insistimos inexplorada, que numerosos artistas italianos desarrollaron en el México desde finales de siglo XIX hasta la primera mitad del siglo XX.

Presencia de los artistas italianos en el México Porfiriano En el México porfiriano se desarrolló una notable actividad artística, tanto en lo referente a la construcción de edificios como en la estatuaria pública como en la decoración de interiores. Ésta se dio en ciudades de todo el país y con especial, preponderancia en la capital. México, dadas las condiciones socioeconómicas y culturales de su incipiente burguesía y por la serie de obras públicas que implementaron tanto el gobierno de la nación como los de algunos estados, se convirtió en un amplio campo de trabajo para artistas de cualquier disciplina, ingenieros y arquitectos ante la escasez de profesionales mexicanos cualificados que pudieran atender la demanda tanto de objetos artísticos de todo tipo como la derivada de las obras públicas a realizar. Se trataba de una demanda que ve en el arte italiano un referente del más alto ideal artístico y que, además, simpatiza con el país transalpino por su proceso de unificación, que en parte recuerda al proceso de independencia mexicano. Además de ello, la presencia de una colonia italiana en México, pequeña quizás en número, pero llamativa en cuanto a sus actividades y con capacidad económica y comercial ayudaba establecer vínculos entre los clientes mexicanos que demandaban arte, los artistas, escultores y arquitectos que hacían las obras y los proveedores de los materiales con los que se hacían. Otro aspecto no menos destacable, es la eclosión en esos años en Italia del estile Liberty, movimiento de las artes plásticas vinculado al simbolismo que se extiende por toda Italia y que también, se exportará más allá de la península itálica2.Muchos de los escultores italianos que dejaron obra en México se inscriben en esa corriente. Así, en México, la huella de arquitectos italianos se observa en edificios destacados de la época: el Palacio de Bellas Artes (Adamo Boari), la Secretaria de Comunicación y Transportes (Silvio Contri), el Templo expiatorio de Guadalajara (Adamo Boari), el Teatro Peón Contreras en Mérida (Pio Piacentini y Enrico Deserti), El nuevo teatro El Progreso de Monterrey (Lorenzo Ginesi) y el Hospital Muguerza de Monterrey (Guido Ginesi Dolciotti). También, se deja sentir la impronta italiana en conjuntos escultóricos de gran simbolismo patriótico como las de algunos héroes patrios en el Paseo de la Reforma y el de la Columna de la independencia en Ciudad de México (Enrique Alciati); la Columna a Benito Juárez en Ciudad Juárez (Cesar Augusto Volpi), parte de la decoración escultórica del Palacio de Bellas Artes (Leonardo Bistolfi, Domenico Boni, Gianetti Fiorenzo y Alessandro Mazzucotelli) 3, la de la sala de recepción de la

2 Speziali, Andrea(2015) Italian Liberty…. 3 Fernández María (2014) Cosmopolitanism …, p.129

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Secretaria de relaciones exteriores (Enrico Nessi) o la del Hemiciclo a Juárez en la Ciudad de México (Alesandro Lazzerini) sólo por citar algunos. Algunos de estos artistas llegaron a territorio azteca, aprovechando las condiciones que les proponía el régimen de Porfirio Díaz y se integraron en la vida cultural del país, desarrollando proyectos, creando negocios e incluso, impartiendo docencia como lo hicieron Adamo Boari y de Enrique Alciati4. Otros vivieron muy puntualmente en México o nunca visitaron el país y se limitaron a enviar sus trabajos a través de distintos mecanismos. Ese sería el caso de Pio Piacentini (1846-1928) arquitecto romano quien remitió los planos del proyecto del Teatro Peón Contreras de Mérida a Enrico Deserti quien residía en la ciudad yucateca y era el intermediario con las autoridades de ese estado. También, fue enviada por vía marítima a la Ciudad de México la decoración escultórica del hemiciclo a Juárez que, en 1910, tras sesenta y cinco días de trabajo, hizo Alessandro Lazzerini (¿-1942) en su taller5. Éste próximo al estile Liberty, pertenecía a una larga estirpe de escultores de Carrara. Era docente en la Academia de Bellas Artes de Florencia y tenía taller en dicha ciudad. No era la primera encomienda de este tipo que recibía. Unos años antes había elaborado en bronce las figuras alegóricas que decoran el acceso a la facultad de medicina de la Universidad de Uruguay en Montevideo, diseño del napolitano, Jorge Robertí, escultor residente en el país austral. Éstas, también fueron remitidas en barco6.

Escultores italianos y el Palacio de Bellas Artes En este punto, vale la pena comentar brevemente los vínculos entre varios escultores italianos y la estatuaria del Palacio de Bellas Artes en la Ciudad de México, pues ejemplifican las diversas maneras de proceder de éstos cuando tenían que hacer obras en el extranjero. En un principio, el arquitecto Adamo Boari, responsable de la obra planeó contratar escultores de la talla de Auguste Rodin, Leonardo Bistolfi y Paolo Troubetskoy. Finalmente, probablemente por razones económicas, escogió a los italianos Leonardo Bistolfi y Edoardo Rubino, al español Agustín Querol y al húngaro Géza Maróti. También, en la realización de la decoración escultórica, el propio Boarí contrató a Gianetti Fiorenzo quién estuvo trabajando a sueldo entre 1907 a 1919 en los talleres de la obra del palacio y es el autor de las guirlandas, claves, máscaras, guirnaldas y florones que decoran la fachada de éste7. Las cancelas y bardas perimetrales al palacio se le encargaron a Alessandro Mazzucotelli.

4 Boari y Alciati impartieron docencia en la Academia de San Carlos en la primera década del siglo XX. Ver. Fuentes Rojas, Elisabeth (2000) Catálogo de los …, p. 37 y 38 5 Lavagnini, Luigi (1962) Carrara nella …pp.227-231.La escasa bibliografía sobre este monumento menciona que las esculturas fueron realizadas por un italiano de apellido Lazaroni. Vázquez Mantecón, María del Carmen (2006) Muerte y vida eterna …, p.47 6 Laroche, Walter E. (1980) Estatuaria en el Uruguay…, p.38 y 39. 7 Gorostiza, José (1934). El Palacio de Bellas Artes…, p.17-18

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Sabemos que Leonardo Bistolfi (1859-1933), un reputado escultor piamontés, máximo representante del simbolismo en Italia, formado en la academia de Brera en Milán y en la Albertina de Turín8, remitió desde Italia su conjunto escultórico “ La harmonía" que iba en el tímpano de la fachada del Palacio de Bellas Artes y que tuvo un costo de 96.640 pesos de la época. Un conjunto que a decir de la prensa fue muy valorado por el rey de Italia, al visitar el taller del escultor en Turín en octubre de 19089. Unos meses antes, en abril, se había cerrado el contrato entre el gobierno mexicano y Walton, Goody and Cripps Ltd., tratantes de mármol de Carrara, para suministrar 4000 toneladas del mármol para las obras del Palacio, una parte de estas fue entregado al escultor Bistolfi para ejecutar su obra10. Existe la duda de si Bistolfi viajó a México en algún momento11, lo cierto, es que junto el Mausoleo de la familia Crovetto en el Cementerio Central de Montevideo, el conjunto escultórico del Palacio de Bellas Artes, son las dos únicas obras de este escultor en América Latina. Cabe añadir en este punto, que Bistolfi también estuvo implicado, aunque negativamente, la elaboración de la estatua de Giuseppe Garibaldi, que hoy se encuentra en la Avenida Chapultepec. En julio de 1910 miembros de la colonia italiana en la Ciudad de México solicitaron al escultor turinés sobre la posibilidad de hacer una copia de la estatua de Garibaldi había hecho para el ayuntamiento de San Remo y traerla a México12. El escultor se negó a tal procedimiento, lo que obligó a abrir una suscripción de donativos para elaborar una estatua del prócer italiano. Finalmente, fue el escultor Cesar Augusto Volpi, residente en la ciudad, quien haría el encargo, con la elaboración de un busto de Garibaldi. La primera piedra del monumento se colocó el 20 de septiembre de 1910 en la plaza Orizaba en la colonia Roma. Años más tarde la estatua se trasladaría de lugar. Con respecto al escultor turinés Edoardo Rubino (1871- 1954) cabe decir que era discípulo directo de Bistolfi y también como él se involucró en el movimiento simbolista. En 1907 se implicó en el proyecto del Palacio de Bellas Artes gracias a su amigo, el tallista y escultor Luciano Spirito13, quien en el mismo período estaba en México participando en las obras de cantería y talla de la columna de la Independencia que en cuanto a la decoración escultórica se le había confiado al franco italiano Enrique Alciati. Al parecer, la participación del escultor Rubino en Bellas Artes quedo reducida al diseño de unas fuentes monumentales en los anexos del Palacio. El diseño de éstas fue pagado, 1835 pesos, por la Secretaría de Comunicación y Transportes en 190914. Añadir, que, por esas mismas fechas, en 1907, Rubino junto a Davide Calandra

8 Sobre este escultor se puede consultar: Bossaglia,R.; Berresford S. (1984) Bistolfi…p.175 y Mazza, Germana (2001) La gipsoteca Leonardo …, p.54. 9 S.A. (1908) “ Esculturas para el teatro nacional …, p.2 10 S.A. (1908) Marble to …, p.2 11 Una información reportada por el periodista José L. del Castillo en abril de 1910 parece indicar que si llego a visitar la ciudad de México. Ver. S.A. (2010) “ El escultor Bistolfi…, p. 15 12 S.A. (1910) “El donativo …, p.2 13 Berresford, Sandra (2007) Carrara e il …, p.276 y 301. 14 S.A. (1909) Memoria presentada …, p.160

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participaba en el concurso para la estatua del General Bartolomé Mitre en Buenos Aires, monumento que no vería la luz hasta 192715. La participación de Domenico Boni, nacido en Carrara en 1886, se puede explicar porque era un colaborador de confianza del escultor catalán Agustín Querol16. Efectivamente, Boni realizó cuatro escayolas de desnudos femeninos para la firma Triscornia & Heraux 17, misma que los haría en mármol y que en 1909 los enviaría a la Ciudad de México para embellecer los frontis laterales del Palacio de Bellas Artes18. Un año más tarde Boni viajaría a La Habana para participar en el concurso internacional para la elaboración de una estatua ecuestre del General Antonio Maceo Grajales, que acabaría instalándose en 1915. Dos años más tarde fallecería en la isla caribeña. Otro que realizó su encargo sin visitar México, diez bardas de hierro colado, fue Alessandro Mazzucotelli (Lodi, 1865-Milán 1938), un escultor y decorador que desarrolló toda su obra en hierro forjado, material con el que consiguió una notabilísima especialización enmarcada en el estile Liberty. Mazzucotelli recibió el encargo de Boari, quien seguramente conocía su interesante trayectoria desarrollada en gran medida en ciudades del norte de Italia: El encargo mexicano no será el único que proveniente del extranjero tendrá en su vida profesional. Años tarde atenderá proyectos en Buenos Aires, Argentina y en Bangkok, Tailandia19. Los ejemplos de Bistolfi, Boni, Fiorenzo, Mazzucotelli y Rubino nos ilustran sobre las distintas formas de proceder de los escultores italianos. Unos enviaban sus piezas, otros residían en el país donde se realizaba la construcción que debían decorar y en la mayoría de los casos, estaban vinculados a la comercialización del mármol de Carrara que en esos años tuvo un muy notable auge en toda América Latina20.

Marmolerías y escultores italianos en las ciudades mexicanas Pero la inserción en la sociedad porfiriana de distintos artistas italianos, algunos arquitectos de formación, unos pocos pintores y decoradores y muchos otros escultores conocedores del trabajo con el mármol y la piedra se hizo aprovechando el creciente gusto de la incipiente burguesía mexicana que se concentraba en las ciudades y que deseaba estatuas decorativas tanto en vida como en la muerte. Fue en las ciudades donde encontraron un nicho de mercado donde desarrollar sus actividades. Tanto es así, que algunos de ellos cambiaron de ciudad sus negocios con el fin de encontrar clientes y mayores expectativas de desarrollo profesional. Hay varios ejemplos de ello por todo el país. 15 Butera, Alejandro (2012) Pioneros del Tabaco…, p.191. 16 Berresford, Sandra (2007) Carrara e il …, p.252 17 Fueron dos las compañías europeas que se encargaron de hacer las reproducciones de las estatuas en mármol y también en bronce: Walton, Goody and Cripps Ltd. y Triscornia and Heraux. Ver Fernández María (2014) Cosmopolitanism …, p.129 18 Bochicchio, Luca (2012) Transported Art: 19th-Century …, p.75-76 19 La trayectoria de este artista se puede conocer en: Onesti, Cossimo (1953) Lo stile Liberty …, pp.95-103 y Bossaglia, Rossana; Hammacher, Arno M. (1971) Mazzucotelli: l'artista ... 20 Berresford, Sandra (2007) Carrara e il …,p.72

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En la Ciudad de México a finales del siglo XIX se documenta la marmolería de Augusto Cesar Volpi, fundada en 1892 y con despacho y taller en la calle 3ª de Nuevo México, 76. En esta marmolería trabajó también su hermano Cesar Augusto y el escultor Vicenzo Bonnani21.

Fig.1. Monumento a Benito Juárez en Zitácuaro, Michoacán atribuido a Augusto Cesar Volpi y construido en 1906. Foto: Martín Checa Artasu. Abril de 2009. 21 Conocemos este dato por la necrológica de Bonnani aparecida en El Diario, el 12 de mayo de 1909.

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A los hermanos Volpi se les pueden atribuir numerosas obras entre las que destacan tres magníficos mausoleos de estilo grecorromano en el panteón francés para las familias Rubín; Escandón Arango y Braniff, los dos primeros construidos en 1898 y el segundo en 191222. Participan en 1904 en la ornamentación del monumento a Juárez, en Veracruz y en ese mismo año, el ayuntamiento de Atizapán de Zaragoza les encarga una estatua del Benemérito de las Américas23. En 1906 realizarán el monumento a Benito Juárez para el Ayuntamiento de Zitácuaro, Michoacán. Una estatua de más de 5 metros de alto, realizada en mármol de Carrara y que fue hecha en Italia, siguiendo los modelos realizados por los Volpi24. En 1910 Cesar Augusto hará el monumento a Garibaldi, situado en la Avenida Chapultepec. Un año más tarde, producirán el monumento al poeta y político Juan de Dios Peza (1852-1910) que se localiza en el Panteón Español. Este había sido proyectado por Augusto Cesar Volpi, pero esculpido por Carlo Nicoli en Italia25. En 1918 levantará un monumento en la tumba del pintor Carlos Alcalde, también en el Panteón Francés26. Entre 1903 y 1911 documentamos la “Marmolería Italiana”, de Aquiles Yardella27, con tienda en la Avenida Independencia número 40. Esta firma realizará en la primera década del siglo XX distintos trabajos por varios estados del país. Entre estos destacan: los placados de mármol de las escaleras del Palacio Postal, el altar mayor del Santuario de la Virgen de Guadalupe en Lagos de Moreno en Jalisco, el altar mayor del Santuario de Soriano en Villa de Colón, Querétaro y una estatua del Arzobispo de San Luis Potosí: Ignacio Montes de Oca y Obregón. En la ciudad de León, en Guanajuato, firmará los altares mayores de la catedral y del templo del Corazón de María y un altar en la capilla de la Santa Casa de la catedral28. Para 1904 documentamos también, la de Adolfo Octavio Ponzanelli (1879-1952)29, al cual nos referimos en un capítulo en este libro. También, había una sucursal de la Marmolería “ La ciudad de Carrara” 30, fundada en Puebla en 1897 por Franco Gamboa, donde eran socios, los escultores italianos Augusto y César Bonfigli. Al parecer esta marmolería tenía sucursales en otras poblaciones y era apreciada por la “finura de sus trabajos y por trabajar con materiales importados desde Italia”31. De estos dos escultores destaca la tumba de Gustave Richaud del cementerio francés de Puebla.

22 S.A. (1898) “ Capilla de la familia Rubín en el Panteón Francés.” El tiempo ilustrado, 13 de noviembre de 1908, p.1 y 4. La capilla de la familia Braniff fue levantada en 1912 siguiendo un modelo de Volpi. Sin embargo, la propia familia contrató otro diseño, neogótico, a Adolfo O. Ponzanelli que nunca se hizo, aunque fue objeto de polémica que se ventiló en la prensa de la época. Ver. S.A. (1912) “ Contra pruebas …, p.4. 23 S.A. (1904) “El monumento a Juárez …, p.1 y S.A. (1904). “ De la capital…, p.4. 24 Arias, Miguel (1905) “El centenario …, p.5 25 S.A.(1911). “ El cantor del hogar …, p.1. 26 S.A. (1918) “El monumento …, p.5. 27 Viñuales, Rodrigo (2011) Italia y la estatuaria pública …, p. 223. 28 S.A. (1905) “Marmolería …, p.4; S.A. (1908) “Marmolería …, p.5 29 Checa-Artasu, M. (2014). Cuando escultura …, pp. 67-82. 30 Montero Pantoja, C.; Mayer Medel, M. S. (2006) Arquitectos e ingenieros …, p. 160 31 Gamboa Ojeda, Leticia (2006) Une necropole assez ...

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Figg. 2-3. Anuncios en prensa de la Marmolería Italiana de Aquiles Yardella y de Cesar A. Volpi. Extraídos de: El Diario, 20 de diciembre de 1908, p.5

Al parecer, Augusto Bonfigli siguió su trayectoria en solitario y a él se le atribuyen distintas lápidas de corte futurista instaladas en los años treinta del siglo XX en el Cementerio de Chipilo, comunidad italiana en el estado de Puebla. Él también, será el autor del monumento a los egresados de la Escuela de Aviación 5 de mayo, datado en 1943 y que encontramos en la calle 24 sur de la ciudad de Puebla32. En la década de los diez del siglo XX se anunciará en la prensa la “marmolería italiana de Reynaldo Guagnelli en la calle Ancha, 170, dedicada a la elaboración de

32 Rivera Solano, Viridiana (2014) El simbolismo fascista …, p.123 y Sánchez de la Barquera, Elvia (2006) …

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estatuas y elementos funerarios33. En los años veinte y treinta localizamos en la capital el taller dedicado a la elaboración de estatuaria y mobiliario en piedra artificial y cemento de Enrico Nessi, quien sabemos hizo la decoración de el Estadio Xalapeño en Xalapa, Veracruz, en la sala de Telégrafos nacionales de la Secretaría de comunicación y transportes y del salón de recepción de la Secretaria de relaciones exteriores.34 En Monterrey, acontecerá un hecho similar con el trabajo del arquitecto y escultor Mateo Mattei, a quien rescatamos su biografía más abajo, quien se instalará en la ciudad a partir de 1867, para más tarde trasladarse a Nuevo Laredo en 188035. Ya en la primera década del siglo XX en la capital regiomontana encontramos la marmolería Giacomino y Cía.”, más tarde denominada: “Gabriel D’Annunzio”, propiedad del escultor Michele Giacomino Manchinelli (1862-1938), donde también, laboraba el escultor Augusto Massa Rossolini, con quién más tarde formaría una sociedad especialmente dedicada a la confección de mausoleos y decoraciones funerarias36. Un caso similar, es el de Antonio Decanini Galli, quien en 1903 se encuentra instalado en Chihuahua ofreciendo servicios de decoración en general y de elaboración de estatuas y lápidas de mármol. En 1907, Decanini se trasladará a Monterrey donde junto con su hermano Paulino fundará la Marmolería Italiana”. También, en Mérida localizamos la marmolería del arquitecto Félix Ravinetti quién se ha asociado en 1902 con Michele Giacomino, quien tenía un negocio similar en Monterrey. Ravinetti en la capital yucateca compartirá profesión con Enrico Deserti, Nicola Allegretti, Alfonso Cardone, Benedetto Barone y Eugenio Aureli, todos arquitectos con actividad en la ciudad a principios del siglo XX37. Finalmente, en Guadalajara encontramos desde 1901 al escultor de Brescia, Vicenzo Guzmeri quién es propietario de “La Marmolería italiana” y hará diversas obras sacras38.

Humberto Pedretti (1879-1937), ceramista en Tlaquepaque; escultor en San Luis Potosí, Guadalajara y Los Ángeles Este escultor nació en Brescia el 8 de marzo de 1879. A los 15 años parte a Milán para iniciar sus estudios artísticos que se prolongarán hasta 1898. Posteriormente, se trasladará a Zúrich y más tarde a Múnich donde al parecer inicio su actividad como escultor39. Llega a México con veintidós años, instalándose en San Pedro Tlaquepaque en 1902 pues ha sido contratado como director artístico en la alfarería de Heraclio 33 El País, 8 de agosto de 1911, p. y El Pueblo, 9 de diciembre de 1915, p.4 34 Calderón, Ricardo (1926) Nessi, El Artista del Cemento. … p. sin número y Calderón, Ricardo (1927) El Taller de piedra …, p. 40 y 41 35 Alarcón Cantú, Eduardo (2006 ) Arquitectura …p.243 y s. 36 Esquivel Tovar, Enrique; Santacruz Vargas, Julia (2011) Un destacado escultor …, p. 50-51 y Esquivel Tovar, Enrique; Santacruz Vargas, Julia (2010) Hacer presente al ausente…, pp.165-182. 37 Vega González, Rubén Antonio (2012). La industria …, p. 290 y s. 38 Bartero, G. (1914) Registro delle ditte italiane …, p.8 39 Hughes, Edan, Artists in California …, p.863. Shipp, Steve (2003) Latin American …, p.519. Parte de la información biográfica sobre este escultor ha sido extraída de Askart.com http://www.askart.com/artist/Humberto_J_Pedretti/10041645/Humberto_J_Pedretti.aspx#

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Farías40. Éste era un empresario tapatío de larga trayectoria en varios sectores que había residido en Europa y había aprendido nuevos métodos de producción industrial para la cerámica. Ello le llevó a crear un taller en Tlaquepaque en 1890 implementando los nuevos métodos industriales de producción. La contratación del escultor italiano sólo se explica por el ánimo de Farías por “ europeizar” la producción cerámica y hacerla más atractiva y exportable, cosa que en su caso si sucedió41. Cuatro años tarde, 1906, Pedretti abrirá su propio taller y el 16 de abril de ese año se casa con Matilde Alatorre con quién tendrá 5 hijos42. Por razones laborales en noviembre de 1907 se traslada a San Luis Potosí donde abrirá taller en la 3ª calle de Maltos, número 1143, para realizar entre otras obras: la decoración de la casa de Federico Meade, mejor conocida como el Palacio Monumental44, la decoración del Banco de San Luis, una estatua al pianista Pedro Luis Ogazón y el busto del gobernador de ese estado, José Espinosa Cuevas45. En la capital potosina permanecerá dos años más, donde será uno de los fundadores del Centro Artístico de San Luis Potosí en noviembre de 1908, participando activamente en un homenaje al poeta Manuel José Othón organizado por esta entidad46. También, allí será homenajeado en los círculos literarios de la ciudad, dedicándole en el número 13 de la revista artísticoliteraria “Capullos”, en la que el propia Pedretti presentará tres grabados correspondientes a otros tantos proyectos de estatuaria: Monumento a Othón; Bañista sorprendida y La Fama. La prensa potosina recogerá este hecho y aprovechará para hacer una descripción de Pedretti, que entonces cuenta con 30 años47: [...] Porque a la verdad ¿Quién no conoce al joven meritísimo, al esforzado hijo de Italia tan buen artista como irreprochable caballero, Sr. Pedretti? En un tiempo relativamente corto que lleva en esta ciudad se ha formado un caudal inmenso de simpatías y afecto como resultado de una conducta austera, tanto en sus deberes de honorabilísimo padre de familia como en todas sus reacciones sociales. Pedretti es un joven de elevado talento y modestia sincera; sus conocimientos se han aquilatado en viajes múltiples por los centros más populosos de la vieja Europa y como vive enamorado del arte puede decírsele un mañana

40 López Cervantes, Gonzalo (1993). Ixca Farías: exposición…,p.29 41 Mariscal Orozco, José Luis; Becerra Angulo, Jorge Arturo (2006) El devenir de …, p.60; Mariscal Orozco, José Luis ( 2012) Modelando la identidad…, p.55 42 Franco Fernández, Roberto (1989) La pintura en …, p.56. La prensa se hizo eco del enlace. Ver: S.A. (1906) “ Enlaces…, p.3 43 S.A. (1909) “Humberto Pedretti…, p.2 44 Federico Meade era un importantísimo hacendado potosino que adquirió el solar para construir esta casa en 1904. Ver Cockcroft, James D. (1999) Precursores intelectuales …, p.41. Estaba situada en la calle Aldama, 305 fue diseñada por el arquitecto franco canadiense Henry Guindon y destaca por le uso de la cantera de color rosado y sus decoraciones neoclásicas. 45 S.A. (1907) “Sr. Humberto Pedretti…, p.1; S.A.(1908) “ Visita a un artista…, p.3. El busto del gobernador Espinosa fue presentado en el Teatro de la Paz, el 30 de noviembre de 1908. Ver. S.A.(1908) “ El banquete de anoche…, p.2 46 Esta entidad será instigada por Pedretti junto con el poeta Jacobo C. Dávalos; los escritores Jorge A. Vázquez y Carlos de Olavarría. ver S.A. (1908) “Centro artístico de San Luis Potosí…, p.3. Sobre el homenaje al poeta Othón, ver: S.A. (1908) “Manuel José Othón…, p.1. 47 S.A: (1908) “ El último número …, p.2

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muy venturoso, pues que los hombres que como él laboran con energía inquebrantable pueden esperarlo todo de sus propias fuerzas.

Efectivamente, así sucedió, Pedretti siguió laborando en aquellos lugares donde se le requería. Así, en torno a 1910 realiza algunas obras en la Ciudad de México, decorando la Cámara de Diputados48. En la capital, en febrero de 1910 presentará al gobernador del Distrito Federal una propuesta escultórica en yeso para el monumento a Jesús García Corona, el héroe de Nacozari, que al parecer nunca se realizó49. En 1911 vuelve de forma definitiva a Guadalajara donde residirá al menos hasta finales de 1919, diversos trabajos de decoración de fachadas y desarrollando su actividad como escultor50. Así, esculpirá los bustos de los presidentes Benito Juárez y Francisco Madero (en dos ocasiones) y de personajes como Agustín Rivera51, Amado Nervo, José María Morelos y de José Silverio Núñez. Éste fechado en 1903, hoy se localiza en el Jardín de San José o de la Reforma52. En 1917 realizó el cuadro “El capital saludando al trabajo” para los talleres militares de Guadalajara dirigidos por el Coronel Eduardo Treviño53. Igualmente, mantuvo buenas relaciones con la comunidad italiana residente en Guadalajara participando del Círculo Italiano. Allí confraterniza con el ingeniero milanés Ángel Corsi, quien haría diversas residencias en la ciudad y con el escultor de Brescia Vicenzo Guzmeri, residente en la ciudad desde 1901 y propietario de “La Marmolería italiana”. Guzmeri será el autor del altar del templo de Mexicaltzingo en 1922 y de las esculturas del tímpano del templo expiatorio de Guadalajara. Al final de la Primera Guerra Mundial participará activamente en el Comité Aliado internacional de Guadalajara haciendo varias actividades públicas. Colaboró con Félix Bernardelli, pintor brasileño de origen italiano residente en la ciudad, en la academia de enseñanza de arte que éste había creado en Guadalajara, donde dará clases de modelado54. Además de ello, participa como docente en las actividades artísticas del Conservatorio Jalisciense de Música donde dará clases de italiano55. Fue miembro del Ateneo Jalisco en la sección de pintura y escultura y participo junto con muchos otros en el Centro Bohemio de Guadalajara desde su fundación en 1912 hasta su desaparición en 191856.

48 Sabemos que estaba trabajando en esa decoración porque sufre un robo de sus herramientas que es reportado por la prensa. Ver S.A. (1910) “En el edificio …, p. 6 49 S.A. (1910) “Un hermoso proyecto de monumento …, p.1 50 Murià, José María (1995). Breve historia de… 51 Un primer busto de Francisco Madero que realizó Pedretti se inauguró en el antiguo jardín de Aránzazu el 24 de noviembre de 1916. Posteriormente volvió a realizar otro busto de Madero junto con el de Agustín Rivera en 1917, entregándolo en octubre de ese año. Ver: S.A. (2016) “Celebrase el aniversario …, p. 4; S.A. (1917) “Los bustos …, p. 4. 52 González Huezo, Arabella (coord.) (2005) Guía arquitectónica …, p. 47. 53 S.A. (1917) “ Una obra de arte en los …, p. 4. 54 S.A. (1970) Diccionario Porrúa de historia…, p.1594 55 Camarena E.F. (1964) “Hace 50 años…, p. 27 56 Hernández Allende, Constancio (2002) El centro bohemio …, p.92 y 120.

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Fig.4. Pedretti junto al monumento The Doughboy en 1924. Foto de Watler Frederick Seely, extraída de: The Doughboy. Historical Background. [web] Public Art in Los Angeles. http://www.publicartinla.com/Downtown/figueroa/Pershing_Square/doughboy1.html#1

A mediados de septiembre de 1919 se trasladó, probablemente por razones económicas, a Los Ángeles, en California57, donde residirá durante quince años, teniendo su taller en el 1825 N. Alexander Avenue de esa ciudad58. Allí continuará su actividad escultórica con obras como los bustos de Enrico Caruso, de Albert Einstein y de Rodolfo Valentino, éste, hoy en el Museo de cine, entre varias otras. También, impartirá docencia en el Art Center School, en Pasadena, desde su fundación en 1930 hasta 1936. Participará en varios certámenes, donde ganará algunos premios por sus obras y expondrá en algunas salas californianas: Painters & Sculptors of LA de 1923-25; Sculptors Guild de1925; International Artists en Burbank de 1925; PAFA de 1926; San Diego FA Gallery de 1927, donde ganará el segundo premio con la escultura “seated 57 S.A. (1919) “Para los Estados Unidos…, p. 7 58 Ryckman, John W. (1929) Story of an Epochal Event …, p.84

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woman”; Pacific Southwest Expo en Long Beach de 1928; LA County Fair de 1928 y California Art Club, 1934. Su obra más destacada en California es la estatua llamada: The doughboy (así eran conocidos los soldados estadounidenses durante la 1era Guerra Mundial) hecha en bronce y colocada sobre un pedestal creado por los arquitectos: Clifford A. Truesdell y Henry Carlton Newton59. Dicha estatua se localizada en la Pershing Square de Los Ángeles60. En el pedestal se puede leer la inscripción: “Dedicated to the sons and daughters of Los Angeles who participated in World War, 1917-1918”. Se trata de un soldado con todo su equipo, con aire marcial y en acción de caminar que sujeta con su mano derecha la bandera estadounidense. La estatua fue iniciativa del Soldier Monument Committee of the Association of the Army of the United States como homenaje a todos los soldados angelinos caídos en la I Guerra Mundial. Pedretti fue seleccionado para realizarla en febrero de 1924. En primera instancia, hizo una copia en escayola a tamaño natural y 300 replicas más pequeñas que fueron vendidas por 10 dólares, a manera de donativo, por dos conocidas actrices de la época: Derelys Perdue y Charlotte Stevens. La copia en tamaño natural en escayola se mandó a Roman Bronze Works de Brooklyn, New York para hacer el modelo en bronce que fue inaugurado el 4 de julio de 1924. Aunque había vuelto en alguna otra ocasión a Guadalajara61, en enero de 1935 regresó a Tlaquepaque para contraer segundas nupcias, el 25 de febrero62, con Josefina Arias quien era propietaria de un taller de cerámica en la calle Independencia, 10463. Al parecer, su interés era integrarse en las actividades del taller de su esposa, como propietario de pleno derecho y, además, implicarse en la vida cívica de Tlaquepaque64, pues en agosto de ese año se ofrece a hacer el busto del recién fallecido maestro Aurelio Ortega y también, para montar una exposición permanente de artículos de barro en el Parián65. En ese momento, reside en la calle Pedro Romero de Guadalajara , junto con su hija Rosa Pedretti Alatorre y es de nuevo objeto de interés de la prensa como lo demuestra la entrevista que le hace el periodista de El Informador, Oto Lear, el 23 de enero de 1935, quien lo describe, a sus 56 años, de la siguiente manera66: [...] El maestro Pedretti ostenta aún pleno vigor y su cabeza cana y hermosa da la impresión de un Einstein o de un Polacco, de un poeta o de un pintor clásicos. La fuerza de su carácter ser revela en todos sus gestos, actitudes y frases. No sólo habla, también esculpe la idea y la adentra en el oyente haciéndole sentir imágenes llenas de color y de vida que desfilan inquietas y ansiosas en busca del final objetivo. 59 La explicación de esta estatua ha sido extraída de Several,Michael (2000) The Doughboy… 60 FWPWPA (2011) Los Angeles in the 1930s…, p.158 61 Así lo reporta El informador, el 14 de septiembre de 1929, p. 5 62 S.A. (1935) “Participación.” …, p. 5 63 Martínez Reding, Fernando (1992). Enciclopedia temática…, p.57 64 McMenamin, Donna (1996) Popular Arts ..., p.17. Años más tarde permanecerá el taller de Josefina Arias con el nombre: Josefina Arias Viuda de Pedretti. Ver Mariscal Orozco, José Luis; Becerra Angulo, Jorge Arturo (2006) El devenir de …, p.82 65 Carlos Casas, Bernardo (2018) Crónicas de Tlaquepaque… 66 Lear, Oto (1935) “El escultor …, p. 12

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A pesar de esas alabanzas, Pedretti no permaneció mucho tiempo en Guadalajara, volviendo a California. En mayo de 1937 se da la noticia de que estaba ingresado en un hospital de Los Ángeles debido a “ una aguda afección”67. Dos meses más tarde, el 14 de octubre de 1937 fallece a la edad de 58 años.

Mateo Mattei Giannini (1839-1912), escultor y arquitecto en Monterrey y en Nuevo Laredo Este arquitecto y escultor italiano que al parecer nació en la Toscana en 183968. Llegó a Monterrey en 1861, con apenas 22 años, invitado por el gobernador de Nuevo León Santiago Vidaurri, le acompañaba su esposa, la genovesa Agostina Gatti (1847-1926) con quien tendrá diez hijos69. En esos años, Monterrey iniciaba algunas obras de embellecimiento significativas promovidas por la gobernatura del estado: la alameda de Monterrey; la Plaza de la Llave; el Mercado Colón y el Teatro del Progreso. Todo ello, a pesar de haber vivido un periodo conflicto por la guerra de Reforma y por las tensiones provocadas por las veleidades separatistas del propio gobernador nuevoleonés. Tres años más tarde, en febrero de 1864, encontramos a Mattei construyendo una fuente de mármol, con peana decorada con delfines, surtidor central y un plato de 8 metros de diámetro por él diseñada en la plaza Zaragoza70. Será la primera que se hará en la ciudad. En 1894 esa misma fuente se trasladó a la plaza de la Purísima, donde hoy se puede admirar71. Dos años más tarde, en 1866, realizará un busto de Benito Juárez, para el acto de homenaje que le hará el General Mariano Escobedo en el Colegio Civil de Nuevo León72. Hará otros bustos de próceres nacionales y regiomontanos como los de Ignacio Zaragoza, Manuel de Mier y Terán, Gerónimo Treviño y José Eleuterio González, para los que el gobierno del Estado de Nuevo León le concederá en 1868, un privilegio por 10 años para el uso de los moldes de éstos73. También ejerció de arquitecto en Monterrey, donde diseñó la casa del comerciante irlandés, Patricio Milmo O’Down. Ésta era de dos plantas, de grandes dimensiones y estaba construida en cantera y con suelos de mármol74. Igualmente, se le atribuyen obras y refacciones en varias iglesias nuevoleonesas. El altar de la Catedral de Monterrey, la cúpula de la Iglesia de San Juan Bautista de Cadereyta; el bautisterio y la fuente bautismal del templo de San Miguel Arcángel en Bustamante. Hará refacciones 67 S.A. (1937) “ De Los Ángeles…, p. 6 y S.A. (1937) “ De Los Ángeles…, p. 6 68 Barragán Juan Ignacio (1992). Historia: Arquitectos del noreste…, p.12-13 69 Sabella, Salvatore (1997) IV siglos de presencia …, p.75 70 Saldaña, José P.(1981).Estampas antiguas …, p.96 71 Casas García, J. M.; Cavazos Pérez V. A.(2009) Panteones de El Carmen …, p.29 72 Cavazos Pérez Víctor Alejandro (1977) El Colegio Civil de Nuevo León…, p.46. 73 Barragán Juan Ignacio (1992). Historia: Arquitectos del noreste…, p.12-13 y S.A: (1946) La ciudad metropolitana de …, p.181 y Decreto No. 15. 28 Noviembre de 1868.S.A. (1998) Las más importantes leyes …, p.155. 74 Saldaña, José P.(1981).Estampas antiguas …, p.224

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y añadidos decorativos en las iglesias de San Carlos Borromeo en Candela (Coahuila) y de San Juan Bautista en Lampazos (Nuevo León). Éstos unos templos sencillos en su factura a los que añadirá algunas decoraciones de corte neoclásico en el interior. En 1880 se trasladó a Laredo en Texas para participar en la construcción del puente en la frontera mexicano-estadounidense, sobre el rio Bravo. Poco después, se instala en Nuevo Laredo donde desarrollará algunas obras, entre las que destaca la Escuela Hidalgo, construida entre 1896 y 1897 en un sencillo estilo neoclásico con un frontón y pilastras decorativas75. Ésta se quemó en 1946. La mencionada escuela fue un proyecto surgido por la necesidad de escuelas en la ciudad detectada por la Junta de instrucción local de la que Mattei era vocal, una prueba de su integración en la realidad laredense76. En la ciudad fronteriza, también diseñará la sede y teatro del Club Concordia en 1889. En 1892 diseña la primera planta de captación de aguas y cinco años más tarde el Hospital Belisario Domínguez77. Otros proyectos de él serán el del panteón municipal, el del rastro y el de la logia masónica78. También, en Nuevo Laredo dejará alguna obra religiosa. En concreto, la decoración interior (altar, columnas y molduras) de estilo neoclásico del templo del Santo Niño, proyectado por el ingeniero francés E. R. Laroche en 188879. Murió en Nuevo Laredo en 1912 a la edad de 73 años.

Guido Ginesi Dolciotti (1877-1953). Arquitecto y constructor en Monterrey Este arquitecto había nacido en Ancona el 26 de julio de 1877. Arribó entre 1904 y 1905 a Monterrey, acompañando por su padre Lorenzo Ginesi (1852- 1909) también arquitecto y a su madre Gessira Dolciotti (1857-1944), también originaria de Ancona. Algunas informaciones apuntan que antes de su llegada a México la familia residió en Argentina, extremo este que no hemos podido comprobar. A principios del siglo XX Monterrey era una ciudad boyante económicamente, que había crecido en su trama urbana y se había dotado de numerosos equipamientos públicos fruto de las políticas de embellecimiento del gobernador de Nuevo León: del general Bernardo Doroteo Reyes Ogazón (1850-1913). En la capital regiomontana, los Ginesi encontraran, además, una significativa colonia italiana, 131 personas según el censo de 1910, algunas de las cuales eran comerciantes y profesionales de distintos rubros80. Entre éstos, los dedicados a la arquitectura y las artes plásticas. Efectivamente, en esos años encontramos en Monterrey a Annibale Guerini, un decorador y pintor quien había llegado a finales del siglo XIX y que realizó entre 1899 y 1901 la decoración y pintura del Palacio de Gobierno en Monterrey, destacando las

75 Alarcón Cantú, Eduardo (2004 ) Arquitectura histórica …, p.58 76 Alarcón, Eduardo; Ceballos Ramírez, Manuel (1999) Nuevo Laredo: siglo y …, p.82 77 Alarcón Cantú, Eduardo (2006 ) Arquitectura e Imagen … pp.244-245 78 Sabella, Salvatore (1997) IV siglos de presencia …, p.75 79 Burian Edward (2015). The Architecture and …, p.28. Laroche había sido el autor de "Plano de los dos Laredos" en 1881. 80 Altamirano, Hugo (1984) Ornamentación en la fachada …, p.15

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pinturas al óleo que representaban las estaciones del año en el techo del salón de recepciones81. Guerini quién también intervendría en la decoración del Teatro principal de la ciudad fundaría en 1899 una empresa de fabricación de cemento y un taller de objetos de arte decorativo de yeso, cemento y cartón82. También, encontramos a los escultores Michelle Giacomino y Augusto Massa Rossolini, mencionados más arriba, que desarrollaran una ingente actividad, especialmente, en la confección de mausoleos y tumbas y en la decoración de algunas residencias. Localizamos, igualmente, al escultor y pintor Antonio Decanini Galli (1877-1948) originario de Lucca83, quien tras residir en Chihuahua se instala en la ciudad en 1907. Decanini fundará el “Centro Cultural y artes plástica”, la primera academia de arte de Monterrey y con su hermano Paulino fundará la “Marmolería Italiana”. Asimismo, en la ciudad encontramos al constructor Gaetano Fausti, quien junto su hijo Diofausto realizará numerosas obras en los años posteriores a la revolución mexicana84. Lorenzo Ginesi en la capital regiomontana desarrollará algunas obras para el sostenimiento de su familia. Entre éstas destacan el antiguo colegio de María Auxiliadora, hoy la secundaria número 1, el nuevo Teatro El Progreso85, iniciado a finales de 1907 con un costo de 150.000 pesos, y algunas viviendas de factura clásica como la localizada en la calle Hidalgo, 49, acabada en 1908 y propiedad de Ana María Treviño Quiroga. Está combina el ladrillo con los elementos de cantera de tonos clásicos. Lamentablemente, el 20 de febrero de 1909, a los dos años de su llegada a la ciudad y con 57 años, fallecerá de un ataque al corazón repentino86. Su hijo Guido continuará con la actividad constructiva, ahora casado con Ana Bruscas con quien tendrá siete hijos87. Sus principales obras las hará tras el periodo revolucionario, destacando su participación como constructor del Hospital Muguerza que había sido diseñado por el arquitecto Herbert Green88. Es un edificio de cinco cuerpos, los dos de los extremos de tres plantas, los dos siguientes de cuatro plantas y uno central de seis pisos coronado por otro piso retranqueado que culmina con una suerte de cúpula cuadrangular. El edificio construido entre 1934 y 1935 tenía capacidad para 100 camas y combina elementos clásicos con motivos art decó. Fue iniciativa de un conocido empresario regiomontano, José A. Muguerza Crespo (1858-1939) y de su mujer Adelaida Lafón. 81 Casas García, Juan Manuel; Murillo, Claudia (2010) Bajo el símbolo del rojo clavel…, p.69 y Barragán, Francisco (1991) El Palacio de Gobierno …, p. 51 y 55. 82 S.A. (1899) Periódico Oficial …, p.273 y 275 83 Sobre este artista italiano conviene consultar: Evangelista Márquez, Sergio (2015) Antonio Decanini Galli…; Barragán Juan Ignacio (1992). Historia: Arquitectos del noreste…, p.16 y Sabella, Salvatore (1997) IV siglos de presencia …, p.66. 84 Barragán Juan Ignacio (1992). Historia: Arquitectos del noreste…, p.121 85 El primer teatro El Progreso se incendió en 1898. La obra del nuevo teatro El Progreso fue confiada a Lorenzo Ginesi. Ver: S.A. (1905) “New Monterey …, p.10. 86. S.A. (1909) “Nuevo León…, p.4 87 Los nombres de sus hijos eran: Gessira, Aida, Anna, Josefina, Lorenzo, Diana y María 88 Mendirichaga, Rodrigo (1994) Solitario y magnifico …, p.26.

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Fig.5. Retrato de Guido Ginesi. Extraída de Lic. Eduardo Alvarado Ginesi página oficial Facebook

Muguerza, era sobradamente conocido en la ciudad, ya fuera porque presidió el Casino de Monterrey ya fuera por ser miembro de la burguesía industrial de la ciudad89, ya fuera por ser accionista y directivo de la empresa como la Cervecería Cuauhtémoc. Otras obras suyas en Monterrey, que lamentablemente han sido modificadas, son el edificio del Instituto Mexicano del Seguro Social en la avenida Pino Suárez y Calzada Madero, hoy ocupado por una sucursal bancaria. Un centro comercial, hoy llamado Plaza Madero, en la esquina de la calle Colegio Civil y la Calzada Madero. También, construyó las residencias de las familias Muguerza, Guzmán, Rock y Holck y el Edificio Rebeca.

89 Cerutti, Mario (1992) Burguesía, capitales e industria …, p.145

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En la vecina ciudad de Saltillo en el estado de Coahuila construyó en 1934 el Hotel Arizpe, hoy ocupado por una escuela. Se trata de un edificio de factura spanish colonial tanto en su decoración como en su arquitectura90. Éste se despliega en torno a un patio porticado al que daban la mayoría de las 50 habitaciones que el hotel tenía. En la fachada exterior presenta tres cuerpos. Destacan el central con una entrada de tres vanos porticada y el situado a la izquierda que es una torre decorado con azulejos que culmina en una galería. Al parecer, Ginesi también hizo algunas obras más en Ciudad Victoria, Tamaulipas. A la edad de 76 años fallece en Monterrey el 21 de enero de 1953.

Conclusiones Las tres trayectorias son paradigmáticas de la actividad inexplorada, que los artistas italianos desarrollaron en el México desde finales de siglo XIX hasta la primera mitad del siglo XX. Son ejemplos del notable contingente de artistas y arquitectos italianos se asentaron en tierras mexicanas y que a través de estas líneas hemos querido reivindicar. Se trata de un trabajo arduo, ya sea por la dificultad de encontrar informaciones, ya sea por la imposibilidad de conocer muchas de las obras que hicieron, pues se han perdido o han quedado enterradas en el olvido. Precisamente, el rescate de éstas se revela hoy un asunto de importancia para la valorización del arte y sus expresiones, en un país como México asolado por la violencia y la impunidad. El rescate de la belleza que se le supone a la actividad de estos artistas italianos, así como, el conocimiento de las técnicas, materiales y expresiones que emplearon, enriquece la historia del arte de México. Vayan estas pocas líneas en este sentido.

90 Fierro Gossman, Rafael R. (1998) La gran corriente ornamental …, p.88 y 92.

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Busto del General José Silverio Núñez en la Plaza de la Reforma de Guadalajara, fue realizado por italiano Humberto Pedretti en 1903. Autor: Martín Checa-Artasu, Noviembre de 2018.

Ciudad de México. Tímpano del Palacio de Bellas Artes, con el conjunto escultórico realizado por Leonardo Bistolfi. Autor: Martín Checa-Artasu, noviembre 2018.

Tina Modotti a San Francisco, 1920

TINA MODOTTI EN MÉXICO: VIDA Y MIRADA FOTOGRÁFICA

PATRICIA MASSÉ

This text summarizes the career of Tina Modotti during her years in México, country where her photographic talent emerged and developed. Her work was a reflection of her life, therefore, most of her photos, particularly characterized by the sharp focus and vision intensity, place her in the national reconstruction process, between 1923 and 1929, linked to muralists and social and vanguard art. Among other aspects, and without disregarding the main events of the life of the Italian artist, this text highlights the collision of political activism and photographic art during her personal maturity years; emphasizing certain part of her production as militant photography; acknowledging her as well as an early combative photographer in México. Her relation with the communist press of the time is also reviewed as an example of committed photojournalism, a practice that back then, was unknown in this country.

Tina Modotti (1896- 1942) es una renombrada figura en la fotografía mexicana y del mundo. Una parte considerable de sus negativos están en México y esto ha facilitado que los mexicanos mantengamos un constante interés en su obra. En agosto de 1978 Carlo Vidali, en nombre y representación de su padre Vittorio Vidali (último compañero de la fotógrafa), donó al Instituto Nacional de Antropología e Historia 84 negativos de nitrato y 10 transparencias, realizados entre 1823 y 1830, que forman parte del patrimonio fotográfico de la nación (Casanova y Konzevik, 2006: 204). Además, el acervo fotográfico del Instituto de Investigaciones Estéticas de la Universidad Nacional Autónoma de México guarda 115 originales fotográficos de los murales que pintó Diego Rivera en la Secretaría de Educación Pública y en Chapingo, así como de algunas obra de caballete, y también 5 originales de los murales de Orozco en el edificio de San Ildefonso, todos ellos impresos por la misma Tina (González, 1999). Con aguda mirada selectiva la fotógrafa depuró figuras, rostros, personas, espacios arquitectónicos y escenarios mexicanos con un realismo tan refinado y directo como nunca antes se había visto en México. En las fotografías de Tina lo mexicano dejó de ser 383

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lo folclórico o pintoresco, y ganó integridad y dignidad cultural por sí mismo. Su trabajo dejó honda huella en las generaciones de fotógrafos mexicanos por venir. Manuel y Lola Álvarez Bravo fueron sus sucesores inmediatos. Pero también el nombre de Tina Modotti arrastró, ineludiblemente, el mito de la italiana que en vida ya era una leyenda en México. Tan pronto se estableció en México corrieron los rumores acerca de su notable belleza, y después de sus amores y sus amoríos. Al cumplirse el primer lustro de la década de 1920, ella supo colocarse en el centro de atención en la ciudad de México, entre los artistas vanguardistas. Diez años después casi nadie quería hablar de ella, en la ciudad que la había visto surgir como fotógrafa. Antes de finalizar el siglo XX Tina se puso de moda en México. A los libros que mayormente han circulado en este país acerca de su persona (Constantine, 1979; Barckhausen-Canale, 1989; Hooks,1993), además de los italianos de los que se tiene noticia, por la información que proporcionó Gian Franco Ellero (1992), Tina Modotti garibaldina e artista (1973) y Tina Modotti fotógrafa e rivoluzionaria (1979), se suma una exitosa novela (Poniatowska,1992), la traducción al español de la cartas que la fotógrafa le escribió a Edward Weston, y que son referencia obligada por su naturaleza testimonial (Saborit, 1993), así como investigaciones sobre su producción fotográfica, fundamentalmente la realizada por Mariana Figarella (2002) y otras especialistas (González, 1999), (Rodríguez y Méndez, 2008 y 2015). Igualmente los investigadores Laura Mulvey y Peter Wollen dieron a conocer al gran público una exposición con un concepto feminista que llegó de Londres a la ciudad de México, hacia 1993, bajo el título Frida Kahlo y Tina Modotti, tema sobre el cual habían dirigido un documental en 1984. Y recientemente en Madrid empezó a circular Tina Modotti. Fotógrafa y revolucionaria (2017). Ciertamente es una bibliografía muy básica en español, porque los textos sobre la fotógrafa y su obra darían para una investigación en sí misma. La producción fotográfica de Tina fue esencialmente mexicana, y el itinerario de su vida privada fue indisoluble de su obra, por ello en esta última se transparentó enteramente su vida. En México Tina se moldeó. El país a donde llegó anhelante de un espíritu renovador la ha honrado con amplio reconocimiento. La modernidad y la ruptura en la fotografía mexicana de la década de los años veinte suelen relacionarse con los nombres de Tina Modotti, junto con el de Edward Weston, su compañero, con quien ella llegó de los Estados Unidos a radicar a la ciudad de México en 1923. En ese tiempo ésta era la capital de un país que iniciaba su etapa de reconstrucción nacional, inmediata al movimiento revolucionario que derrocó al antiguo régimen del general Porfirio Díaz. La actividad artística impulsada por el gobierno de México, en los años veinte, estaba encabezada por Diego Rivera y David Alfaro Siqueiros, quienes habían participado de la vanguardia parisina y catalana. La nueva Secretaría de Educación Pública, fundada en octubre de 1921, era resultado del régimen postrevolucionario y en sus muros Rivera plasmó parte de su obra al fresco. La necesidad de un arte social y a la vez moderno estimuló profundamente al muralismo. Para el resto del mundo el suceso artístico del muralismo no pasó inadvertido; suscitó una gran admiración e

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interés. La educación fue uno de los pilares que despuntaron en el nuevo proyecto de nación moderna, y bajo el liderazgo de José Vasconcelos, con su visión educativa integral, el muralismo cobró vida de una manera inédita, sobre todo en la capital del nuevo país. “Vasconcelos canalizó las preocupaciones de los artistas mexicanos en torno del sentido social del arte” (Figrella, 2002:36). Tina se identificó muy pronto con esa consiga. La lucha contra el analfabetismo impulsó las escuelas rurales, la proliferación y difusión de bibliotecas, y el apoyo sin igual a las bellas artes. Fueron funciones educativas colosales que propiciaron un clímax cultural en el país, sobre todo entre 1820 y 1824, durante el gobierno de Álvaro Obregón. En el núcleo de aquella algarabía educativa y artística se instalaron los nuevos residentes, procedentes de Los Ángeles. La predisposición y el talento fotográficos que Tina desarrolló en México, siempre preocupada en llevar su obra al extremo de la perfección, abonaron en su carácter decidido, impulsivo e independiente, para colocarla oportunamente en el centro de aquel ambiente tan excitante, que su esposo (el pintor Roubeaux de l´Abrie Richey [Robo]), antes de morir, había descrito muy tempranamente como el paraíso de los artistas.

De Udine a América Tina fue la tercera de siete hijos de Guiseppe Saltarini Modotti y Assunta Mondini. Llevó el nombre de Assunta por su madre, Adelaide por su abuela materna y Luigia por su tía materna (Ellero, 1992:6). Nació en Vía Pracchiuso, domicilio de Udine. Hasta los nueve años vivió en Austria, por lo que hasta que volvió a Udine aprendió a leer y a escribir. Uno de los asistentes al bautizo de Tina fue Demetrio Canal, un líder local socialista. Mecánico de oficio, su padre, compartió una conciencia socialista. La región del Friuli se había integrado al reino de Italia en 1866, después de ser disputada por franceses y austriaco. El intenso movimiento migratorio de italianos del norte hacia América suscitó que el padre de Tina emigrase. En ausencia del miembro que aportaba el principal sustento económico de la familia, Tina empezó a trabajar en 1908, a los 12 años, en una fábrica de seda; cumpliendo una jornada laboral de 12 horas diarias. A veces volvía del trabajo y se iba directo a la cama, sin comer –dijo alguna vez su hermana Yolanda. Tan sólo Tina entre todos sus hermanos se enroló como trabajadora a tan temprana edad. La misma Yolanda declararía años después que su principal preocupación en la niñez (entre 1905 y 1913) fue tener algo qué comer, “no tuvimos un solo juguete y nunca tuvimos tiempo de divertirnos” (Ellero, 1992: 10-12). Conforme el padre fue enviando dinero para el traslado gradual, todos los Modotti Mondini se reunieron paulatinamente en América. Tina llegó en 1913 al progresista y liberal puerto de San Francisco, en el estado de California. Allí la colonia italiana sumaba en ese tiempo la mitad de su población, por lo que la cohesión étnica facilitó la integración de la comunidad al “país de las oportunidades”. Tina no tardó en incorporarse como obrera textil a la fuerza de trabajo que ya conocía el movimiento

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sufragista. Muy pronto su búsqueda de mejora laboral la llevó a dedicarse a la costura. Y en seguida se enroló en el teatro que se hacía en su comunidad, pasando de allí a la actuación en el cine mudo que impulsaba la nueva industria cinematográfica de Hollywood.

México, el lugar de la utopía Al poco tiempo de haberse casado con el pintor de origen canadiense Roubeaux L’Abrie Richey (Robo), la vida de Tina cambió de rumbo. No solamente se fue a vivir a los Ángeles, sino que también, de un modo imprevisto su esposo le abrió el camino que la llevó a trasladarse más tarde a México. Allí vislumbró una nueva oportunidad profesional y, en definitiva, allí moldeó su vida y se hizo fotógrafa. Allí surgió su leyenda. En 1919 Tina había posado como modelo de su esposo. Los dibujos ilustraron los sonetos del mexicano Ricardo Gómez Robelo, donde aparece la imagen erótica de la mujer fatal. El escritor mexicano –primer propagador de la leyenda de Tina en Méxicohabía preparado ese libro durante su exilio en Los Ángeles, entre 1914 y 1919, por causa de los sucesos de la Revolución mexicana. Como consecuencia de ese proyecto Robo viajó, al comenzar el año de 1922, invitado a la ciudad de México por el autor del libro que ilustró y que era a la sazón titular de Bellas Artes. El país estaba en plena reconstrucción nacional, transcurrido el movimiento armado. Dos meses después el pintor falleció por enfermedad. El breve tiempo que permaneció en México despertó en Robo una fascinación por lo que ocurría en ese país. Tina quedó repentinamente viuda, en una etapa temprana de su vida. No pasó mucho tiempo cuando entabló una nueva relación de pareja con el fotógrafo Edward Weston (1889-1958). Los trámites para trasladar a su difunto marido la llevaron por unos días a tierra mexicana. Ese viaje breve decidió su destino para volver y emprender una nueva vida. En esencia la elección de Tina daba crédito a la fascinación de Robo. México era el lugar de la utopía. La ciudad de México ofreció las condiciones propicias para que la joven italiana se hiciera fotógrafa. Su acompañante y pareja, Edward Weston, estaba enteramente identificado con la estética que defendía la autonomía fotográfica. Ambos se vincularon de lleno al círculo de artistas mexicanos vanguardistas que fueron llamados para realizar los frescos de los nuevos templos destinados al servicio de la población. Nada los acercó, ni les atrajo de los fotógrafos mexicanos. Tina se inició como discípula de Weston; primero, como su dócil asistente, imprimía todas las imágenes de su maestro, en el estudio que habían establecido; posteriormente aprendió el manejo de la cámara, para explorar las formas puras, al margen de lo que proyectaran en un plano emocional o de sus efectos aparentes. Tal fue la mística desarrollada en Los Ángeles por el grupo de fotógrafos que proclamó la autonomía del medio. La dedicada aprendiz asimiló una estética que era de ruptura total con la tradición. El manejo del foco nítido se confrontó en México con el gusto imperante por el pictorialismo. Arraigado desde 1891 hasta los años 20 del nuevo siglo, el pictorialismo

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que se practicaba en México era totalmente opuesto a aquella nueva estética proveniente de Los Ángeles. El pictorialismo experimentaba la calidad plástica de la fotografía a partir de valores procedentes de las artes como la pintura, el grabado o el dibujo. El foco suave al momento de la toma de la imagen, así como los efectos de revelado que buscaron los difuminados, las técnicas de impresión, a base de la goma bicromatada, aspiraban a la semejanza con las técnicas reconocidas dentro del campo del arte. Enteramente familiarizada con la estética concebida por los artistas que solían frecuentar a su esposo (entre ellos Imogen Cunningham y Edward Weston), Tina Modotti aprendió la pureza de la fotografía y cultivó la intensidad de visión. De modo que se ejercitó para buscar que lo fotografiado se realizara por sí mismo, sin trucos, destacando la belleza de su desnuda realidad. En su etapa de artista fotógrafa debutante, particularmente, a partir de 1925, cuando Tina cambió su cámara por una Gráflex (durante un estancia en Estados Unidos), ella se concentró principalmente en fotografiar lo inanimado: flores, plantas, objetos y formas en el entorno inmediato: la carpa, el ángulo específico de un espacio arquitectónico, el poste de luz (fig.1). Hasta entonces su ámbito de acción había sido la ciudad de México y sus alrededores. Los retratos también fueron una fuente de ingresos constantes.

Fig.1. Tina Modotti, Escaleras, ca. 1925, Fototeca Nacional, 35308. Secretaria de Cultura INAH-MEX. Reproducción autorizada por el Instituto Nacional de Antropología e Historia [18 de octubre de 2018]

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Modotti y Weston se presentaron como artistas fotógrafos ante los artistas plásticos e intelectuales vanguardistas que los acogieron, por la afinidad de sus miras estéticas. Presentaron dos exposiciones fotográficas en la Ciudad de México y en Guadalajara. Tina fue contratada por los muralistas David Alfaro Siqueiros, Diego Rivera y José Clemente Orozco para documentar todo el proceso de creación de su obra. El entrenamiento visual y el conocimiento que Tina adquirió al fotografiar los murales, no sólo a nivel de apreciación de lo que el ojo vio a través del objetivo de su cámara, sino de su compenetración conceptual, fue determinante en la maduración de su mirada fotográfica (Figarella, 2002: 167). De igual modo Tina se integró al consejo editorial de Mexican Folkways, una revista bilingüe destinada al folklore y al arte, donde empezó a publicar parte de su obra fotográfica.

El México profundo Tina Modotti se acercó paulatinamente a una humanidad sometida. En realidad, tan pronto como llegaron Weston advirtió en seguida –como lo escribió en su diario- que llegaba a una ciudad donde por todas partes veía “sometidos e infectos limosneros en insistente solicitud”. Al mediar 1926 ambos empezaron a explorar el México rural, advirtiendo la profundidad y la complejidad de lo que entonces era el país. Su contacto con los poblados de Oaxaca, Jalisco, Michoacán y Puebla, en el interior del país, los allegó a la vida ordinaria de los habitantes de aquellas comunidades donde se detuvieron para fotografiar el arte popular y la arquitectura colonial de los lugares. La editora y promotora cultural, Anita Brenner, había contratado a ambos, por un par de meses, para que realizaran las fotografías que ilustrarían su libro Idols Behind Altars (publicado en 1929). Meses después Weston regresó a California. El encuentro de Tina con un país donde más de un 80% era analfabeta, aproximadamente el 70% de sus habitantes vivían en un medio rural y donde las fincas privadas abarcaban más del 90% de las tierras cultivables del país, la enfrentó con la precariedad y con las necesidades de una mejor condición de vida para una mayoría aún desatendida por el nuevo régimen, que impulsaba una nueva cultura. Su manera de ver al mundo cambió. Para entonces ella ya había entrado en su tercera década de vida. Por sus cartas sabemos que ya venía manifestando su conflicto existencial entre el arte y la vida. Y además su obra fotográfica demostró que tal conflicto lo resolvió fusionando su activismo político con su arte fotográfico. Al menos en su correspondencia epistolar ella no volvió a manifestar posteriormente aquel malestar. La militancia pasó a integrarse a su quehacer como fotógrafa y ella fue consolidando una madurez profesional. El sindicalismo político se había introducido al interior de la propia Secretaría de Educación desde 1922, cuando Rivera, Siqueiros y Xavier Guerrero fundaron el Sindicato de Pintores, Escultores y Grabadores Revolucionarios. La revolución socialista estaba en el pensamiento y la acción de estos “artistas obreros”, que concibieron el arte como un deber colectivo, con un sentido político, de lucha social, y basado en el indigenismo. Tan pronto como Tina entabló una relación sentimental con

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Xavier Guerrero (el colaborador de Diego Rivera en los frescos de la Escuela Nacional de Agronomía) ella se convirtió en una fotógrafa combativa. Tina llegó a declararle por carta que el sentimiento que tuvo por él había sido el más grande orgullo de su vida (Saborit, 1992: 148). En 1927 se afilió al Partido Comunista de México que, al igual que en otros países, como Italia bajo el liderazgo de Antonio Gramsci, luchaba por la revolución mundial. El órgano de difusión del Partido Comunista Mexicano, El Machete, dio cabida a la publicación de algunas de las fotografías de Tina Modotti (fig.2). Este semanario había sido fundado bajo la consigna de que la imagen gráfica sería el principal recurso informativo y discursivo. Si bien la fotografía no había sido considerada en tal consigna, varias de las contribuciones de Tina ganaron un espacio que las hace dignas de considerarlas como un singular ejemplo de fotoperiodismo comprometido y, por lo tanto, combativo (fig.3). Dicha función fotográfica también era inédita en México. Desde ese espacio circularon algunas de sus imágenes en el semanario comunista AIZ (Arbeiter Illustrierte Zaitung), donde John Heartfield colaboró con sus fotomontajes. Así también llegó a publicar en la revista política New Masses en Estados Unidos, donde entregaba artículos el novelista John Dos Pasos a quien Tina había conocido. La pareja que Tina había hecho con Weston se había disuelto. Entretanto, los retratos no dejaron de ser parte de lo que le proporcionó a Tina ingresos para su manutención. Quizás “alcatraces” fue una de sus fotografías más tardías, donde se aplicó a mirar particularmente lo inanimado, no obstante que “máquina de escribir de Julio Antonio Mella” la realizara en 1929, con motivo de la muerte de éste. Pero de manera natural Tina empezó a sacar provecho de su gran facilidad y predisposición para entablar contacto con la gente del pueblo. Su búsqueda fotográfica, que no cesaba, tomó una nueva directriz y devino enteramente comprometida con la militancia comunista. Algunos resultados fotográficos se publicaron en Mexican Folkways, pero sobre todo en El Machete. Su innata latinidad y su permanente orgullo friulano, halló expresión en los motivos fotográficos donde podemos reconocer más abiertamente ese rasgo de la personalidad de Tina, fundamentalmente en su mirada hacia el trabajo, la niñez campesina, la maternidad y, en general, hacia la gente del pueblo (fig.4). Con ese sector social experimentó un sustancial encuentro fotográfico, no sólo con la fortaleza del México profundo, sino también con el candor popular y con la desprotección infantil. Insistiré en el hecho de que en los años veinte los proyectos plásticos que gozaban del apoyo de las instituciones del gobierno mexicano se planteaban como alternativas político-estéticas; sin embargo, la realidad social nacional no dejaba de ser compleja, por lo que las alternativas artísticas sostenían el proyecto de un arte nacionalista, que revalidaba costumbres, mitos y leyendas populares, con un lenguaje vanguardista. En todo ello vibraba la sensibilidad y la feracidad de la fotógrafa, que estaba al tanto del fascismo y del activismo por una revolución socialista en su país de origen.

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Fig.2. Tina Modotti, Niña con cubeta, ca. 1926, Fototeca Nacional, 35323. Secretaria de Cultura INAH-MEX. Reproducción autorizada por el Instituto Nacional de Antropología e Historia [18 de octubre de 2018]

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Fig.3. Tina Modotti, Campesinos leyendo el machete, 1929, Fototeca Nacional, 35319. Secretaria de Cultura INAH-MEX. Reproducción autorizada por el Instituto Nacional de Antropología e Historia [18 de octubre de 2018]

Fig.4. Tina Modotti, Manos descansan sobre una pala, 1927, Fototeca Nacional, 35309. Secretaria de Cultura INAH-MEX. Reproducción autorizada por el Instituto Nacional de Antropología e Historia [18 de octubre de 2018]

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Sensibilidad latina y maternidad La madre amamantando como asunto fotográfico es muy revelador de la fibra sensible que manifestó una mujer que no llegó a procrear hijos. Esta fue una de las expresiones más diáfanas de la mexicanidad femenina en la obra de Tina Modotti. La clara visualización del resultado final no desatendió el sentido de afectividad que le provocó la escena. De ningún modo se apartó de la actitud honesta al fotografiar en varias ocasiones a Luz Jiménez, una empleada del servicio en casa de una pareja de amigos, que había posado en varias ocasiones para Diego Rivera, Jean Charlot, Edward Weston y para la misma Tina. Ésta eligió fotografiar más de una vez a la muchacha que se había embarazado estando soltera (Figarella, 2002: 184). Desde el objetivo de su cámara, la fotógrafa se empeñó en destacar su faceta de madre, sin importar su condición, simplemente fotografió a la madre que ofrece el seno materno a su hija. Con ella el acercamiento se dio con mucha familiaridad, se aproximó físicamente todo lo necesario para apreciar sin distracción la naturalidad del evento, eligiendo un espacio iluminado directamente por la luz solar, para registrar un hecho que tal vez no dejó de resultar maravilloso y digno de fotografiar por la italiana. Quizás Tina contempló con asombro un gesto que culturalmente no le resultó del todo ajeno en un ámbito estrictamente privado y cerrado, pero que fotográficamente le atrajo mostrarlo a cielo abierto, por toda la naturalidad que podía explotar bajo esas condiciones (fig.5). Incluso podríamos establecer un conexión, no obstante que en el plano histórico no podría ser posible, entre la acción fotográfica y un pronunciamiento de asombro hacia la maternidad, expresado por otra peculiar sensibilidad femenina que se pronunció en La Nación de Buenos Aires, en 1919, es decir, antes de que Tina hiciera sus fotografías. Me refiero a la escritora, premio novel de literatura, Gabriela Mistral, quien publicó un breve ensayo en cuyo contenido exclamó lo siguiente: “A nadie le parece maravilloso que una mujer amamante” (Morales Faedo, 2015: 57). Sea como fuere, lo real es que desde la atemporalidad que la distancia puede poner en juego, hay una especie de afinidad y paralelismo afectivo en ambas creadoras, que procuraron llamar la atención, cada cual desde su medio y su tiempo, sobre un hecho que en México no había captado la atención para ser reverenciado. Tina elaboró también una de las representaciones más vibrantes de la maternidad, en aquella donde vemos a un bebé desnudo cargado por la madre embarazada. Tal vez en esa fotografía habría una remembranza de su madre embarazada, criando a sus otros hermanos cuando eran pequeños. (fig.6). El cuerpo entero de la rolliza criatura ocupa el primer plano en la fotografía, mientras que tan sólo advertimos de ella su torso parcialmente traslapado y de perfil, en un segundo plano. Aunque el infante parece haber sido el principal punto de interés fotográfico, en tanto que su tierna corpulencia determinó la elección del encuadre, la imagen trasciende hacia el vínculo del hijo con la madre. Lo interesante es precisamente la particularidad de esa maternidad desdoblada: por una parte con el vástago en brazos, y por otra parte con el hijo que se está gestando. Por efecto del encuadre bastante cerrado, observamos claramente la gravidez de la mujer, como circunstancia adyacente al bebé que sujeta con un solo brazo.

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Fig.5. Tina Modotti, Niña amamantándose, ca. 1929, Fototeca Nacional, 35302. Secretaria de Cultura INAHMEX. Reproducción autorizada por el Instituto Nacional de Antropología e Historia [18 de octubre de 2018]

Al colocarse con la cámara a la altura del ombligo de la fotografiada, la fotógrafa tuvo que mantenerse reclinada, en una postura de encogimiento y de cierta pequeñez frente a aquella robusta mujer que, por efecto del encuadre, queda sometida al anonimato total y, sin embargo, el vigor de su brazo la atrae simbólicamente a un primer plano, como una figura significativa que brinda seguridad a su cría. Así la imagen elabora una trascendental representación de la vitalidad de la maternidad, encarnada en la mujer capaz de llevar con firmeza una doble carga: la de un criatura dentro del vientre y la del chiquillo que tal vez aun no alcanza un año de vida. Bajo el principio de honestidad, que expresó en su manifiesto fotográfico publicado en 1929, Tina eligió compenetrarse con una humanidad que representaba a una mayoría mexicana analfabeta y empobrecida. Como fotógrafa logró entablar una conexión profunda con aquellos que a primer golpe de vista pudieron resultar desventurados, por lo que ellos dejaron de serle ajenos, integrándolos a una condición de existencia común. Tal vez ella llegó a reconocerse a sí misma en un país

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predominantemente pobre. En cierto modo, aquella realidad social la conectaba con sus orígenes y su niñez rodeada de precariedad.

Fig.6. Tina Modotti, Madre e hijo, ca. 1929, Fototeca Nacional, 35346. Secretaria de Cultura INAH-MEX. Reproducción autorizada por el Instituto Nacional de Antropología e Historia [18 de octubre de 2018]

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La fotógrafa militante Muy cerca de cumplirse la primera década del actual siglo XXI salió a la luz un revelador expediente documental de la labor integral de Tina Modotti como fotógrafa militante radicalizada. Las memorias del científico agrónomo indio, graduado en agricultura y genética, líder independentista y promotor de la revolución verde en la India y en México, Pandurang Khankhoje (1884-1967), publicadas bajo el título I Shall Never Ask for Pardon (2008), permiten ampliar un capítulo vital y significativo de la fotógrafa, a la vez que agregan una instrumento desconocido para el estudio del agrarismo radical mexicano en la década de 1920. Los ideales de una revolución mundial socialista reunieron a Tina y al científico Khankhoje en un proyecto de trabajo común y comunitario en México. El primer encuentro ocurrió cuando ella posaba para los murales de la capilla de Chapingo, que pintaba Diego Rivera. A partir de entonces la labor fotodocumentalista de Tina se arraigó al agrarismo, y no por ello abandonó del todo su interés por hacer un trabajo personal. Dentro del Partido Comunista Mexicano se había conformado el bando obrerista, por un lado, y el agrarista, por el otro; este último consideró que el problema social más importante por resolver era el de la repartición de tierras a los campesinos, por lo que éstos fueron considerados el sector más revolucionario de la lucha social, por encima de los obreros. El proyecto educativo campesino centrado en la conformación de una serie de escuelas de agricultura, del cual da cuenta el expediente en cuestión, y que parcialmente informó el órgano oficial del Partido Comunista Mexicano, El Machete, inició en diciembre de 1924, en la comunidad de Atenco, en Texcoco, Estado de México. Entre los miembros del Consejo Directivo de todas las Escuelas Libres de Agricultura en México figuró Diego Rivera, por muchos identificado como el “Lenin de México”, quien también fue secretario general del Partido Comunista Mexicano. Tina se dedicó a fotografiar los experimentos y las actividades del programa de producción de maíz de las Escuelas Libres de Agricultura en México, que ofreció enseñanza campesina y consulta gratuita, de las cuales Khankhoje fue su fundador y director general. Gran parte de esa experiencia fotográfica había permanecido inédita. A la par realizó diversos retratos de campesinos que pueden ser atribuidas al contacto cercano que la fotógrafa estableció con la gente de las comunidades donde se establecieron las Escuelas (fig.7). El expediente donado a México contiene parte de las acciones programáticas del proyecto. Khankhoje llegó a México en 1924, como migrante político, para realizar investigaciones estratégicas del maíz híbrido y se desempeñó como profesor de cultivos agrícolas y botánica hasta 1928, en los nuevos planes de estudio de la Escuela Nacional de Agricultura, implementados en sus nuevas instalaciones de la exhacienda de Chapingo (Estado de México). La renovación de la institución involucró programas que pretendían vincularse a los planes agrarios nacionales, dirigidos a cubrir las necesidades de reparto de tierras, así como a la creación de nuevas variedades de semillas y plantas. Chapingo fue un semillero de agrónomos que conocían la lucha bolchevique.

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Y bajo esa orientación actuaron. Khankhoje y sus ideales independentistas lo llevaron a Moscú, donde se entrevistó hasta en tres ocasiones con Lenin (Duque, 2014: 11).

Fig.7. Tina Modotti, Niño y joven campesinos, retrato, ca. 1928, Fototeca Nacional, 35345. Secretaria de Cultura INAH-MEX. Reproducción autorizada por el Instituto Nacional de Antropología e Historia [18 de octubre de 2018]

Las dos primeras Escuelas Libres de Agricultura llevaron por nombre el del caudillo agrarista, “Emiliano Zapata”, que había sido asesinado en 1919 y que había enarbolado la demanda campesina de “tierra y libertad”, movilizando el levantamiento armado en el Sur de México, durante la Revolución iniciada en 1910.

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El proyecto educativo inició con un plan experimental de “escuela ambulante” (realizado en 1925 y 1926), que consistió en impartir conferencias y hacer demostraciones prácticas, basadas en la explotación racional y científica del campo. Como programa se insertó en una estructura organizativa planeada para implementar un agrarismo radical, respaldado por el Partido Comunista Mexicano. El agrónomo indio ya era en 1928 el presidente del departamento de Agricultura de la Liga de Comunidades Agrarias de México, que respaldaba el proyecto educativo revolucionario de las Escuelas. La Liga contaba con una organización a nivel nacional, tenía fuerza política y líderes que eran defensores de los intereses populares y que en algunas regiones habían dotado de armas a varias comunidades agrarias organizadas (Falcón, 1991). Por acuerdo de la Liga Nacional y la del Estado de México, cuyo secretario de organización de esta última fue Xavier Guerrero, el programa educativo comenzó en San Miguel de Chiconcuac, un poblado cercano a Chapingo, donde se estableció la Escuela Libre de Agricultura Emiliano Zapata número 1, en el distrito de Texcoco (Massé, 2014). Las copias fotográficas por contacto, insertas en los legajos mecanografiados que forman parte del expediente, compuesto por informes, así como por algunos recortes de El Machete, fueron realizadas en su mayor parte por la fotógrafa italiana y documentan varias actividades campesinas desarrolladas en tres poblados de la municipalidad de Texcoco, cercana a la Escuela de Chapingo. Dichas actividades tuvieron lugar en el curso de octubre de 1927 y durante 1928, la mayoría dan a conocer reuniones en las comunidades, grupos de alumnos campesinos, grupos de maestros, así como de visitantes y algunas cooperativas. También fotografió aspectos del campo de experimentación, algunos eventos inaugurales, conferencias, fiestas y eventos especiales en torno de las clases. Hacía tiempo que Tina se había privado del ocio y de la tranquilidad que le habían permitido trabajar satisfactoriamente su obra, por lo que en las imágenes del expediente se aprecian tomas de conjunto con encuadres abiertos, sometidos a condiciones del momento y difícilmente le permitieron aplicarse a los estándares fotográficos que ella había pretendido antes. Con todo, el expediente inédito permitió contextualizar gran parte de los afanes de Tina dedicados al campesinado mexicano, como una labor fotodocumentalista, producto de su militancia comunista (fig.8). Así como también ofrece un testimonio del uso de las fotografías tomadas para el proyecto en general. Integradas en los reportes contenidos en el expediente inédito, las fotografías cumplieron una función testimonial, al servicio de un plan de combate social. Muy probablemente Tina realizó en ese periodo de su vida sus abstracciones de contenido revolucionario, donde la formula purista de Weston la modificó con un mensaje político. “Mazorca, canana y hoz”, en particular, fue utilizada como un fotodocumento junto a la canción popular revolucionaria “El 30-30, corrido que cantan los agraristas”. (El 30-30 alude al modelo de la “carabina 30-30”, nombre que durante la Revolución Mexicana adoptó el fusil de cacería Winchester 30-30 de 1894.) Fotografía y “corrido” fueron publicados en el número 4 de Mexican Folkways de 1927, y la letra relata la miseria del campesino.

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Fig.8. Tina Modotti, Miguel Delgado y familia con Ricardo Flores ante la cosecha de maíz, Escuela Libre de Agricultura, 1928, Fototeca Nacional, 35354. Secretaria de Cultura INAH-MEX. Reproducción autorizada por el Instituto Nacional de Antropología e Historia [18 de octubre de 2018]

La composición en sí misma abstrae el valor alegórico de los tres elementos integrados, que generan un ícono con fines propagandístico. Bajo un orden en sutil movimiento éstos se entrelazan para elabora el emblema de una revolución nacional e internacional; la canana representa la revolución mexicana, la mazorca la revolución verde y la hoz la revolución socialista. Su distribución en la imagen acentúa la integración armónica de cada objeto, en una dinámica donde predominan las diagonales. La luz enfatiza la frontalidad de la representación, al tiempo que las sombras suaves subrayan el volumen de los objetos, asegurando la calidad estética de la construcción visual. Lo trascendental del rigor formal y la claridad geométrica de la imagen, fue su uso social. Al sintetizar los ideales educativos revolucionarios impulsados por Pandurang Khankhoje, sirvió para la elaboración del membrete y sello de las Escuelas Libres de Agricultura Mexicana (fig.9). La utilidad del valor comunicativo de la fotografía la proyectó como insignia de las Escuelas.

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Fig.9. Tina Modotti, Hoja dos del expediente de Pandurang Khankhoje, 1928, Fototeca Nacional, IASS Doc:2. Secretaria de Cultura INAH-MEX. Reproducción autorizada por el Instituto Nacional de Antropología e Historia [18 de octubre de 2018]

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Bajo esa modalidad, la hoz guió la verticalidad de la composición transformada en escudo, y el aplanamiento de los elementos contribuyó a la simplificación gráfica. En este caso, la ideologización de “Mazorca, canana y hoz” sintetizó la directriz que tomó la obra de Tina Modotti como fotógrafa militante, que destinó su trabajo para fines combativos. En toda la serie de alegorías revolucionarias que se conocen (mazorca, canana, hoz; guitarra, canana, hoz; sombrero, martillo, hoz, y hoz y martillo) la italiana experimentó la abstracción fotográfica con un sentido declaradamente ideologizado, lo que Mariana Figarella denominó la trasmutación simbólica de los objetos, y donde, además, advierte paralelismos conceptuales y formales con elementos del muralismo mexicano, como los plasmados por Diego Rivera en las grisallas, que son representaciones cerradas en el segundo piso de la Secretaría de Educación, así como también en algunas secciones de los murales de Chapingo (Figarella, 2002: 174). En el caso de “Guitarra, canana y hoz” esta fotografía fue usada para anunciar en El Machete un cuaderno de canciones revolucionarias recopiladas por la cantante de corridos populares, recopiladora de cantos indígenas, compositora y feminista Concha Michel (1899-1990). Precisamente el expediente Khankhoje contiene un par de retratos de la cantante acompañada de un grupo de campesinos, cuyo pie de foto revela su vinculación con la actividad de las Escuelas Libres de Agricultura: “Canciones populares el día de la inauguración de la Escuela número 2 ‘Emiliano Zapata’, Ocopulco, Distrito de Texcoco, Estado de México” (fig.10). En suma, las fotografías vinculadas con el expediente en cuestión arraigan a Tina a las entrañas mexicanas, donde el maíz fue estratégico en la lucha campesina del momento. “La causa” había absorbido enteramente su energía creadora.

La extranjera perniciosa Al comenzar 1929 ocurrió un evento que ensombreció la vida de Tina Modotti. El dirigente comunista cubano y exiliado en México, Julio Antonio Mella, fue víctima de un atentado, mientras caminaba tomado del brazo de la fotógrafa, a la sazón su pareja. La muerte del cubano involucró a Tina en las averiguaciones y su casa fue cateada por la policía. Su vida privada quedó expuesta en la prensa, haciéndola objeto del escándalo público. Finalmente resultó libre de culpabilidad. Pero la hostilidad de tal episodio la motivó a emprender un viaje a Tehuantepec, en Oaxaca. La impresión que le causó ver a tantas mujeres activas deambulando en las calles, propició más de una veintena de fotografías que procuraron captar aquella sociedad que se mostraba matriarcal. Inevitablemente tuvo que actuar bajo las condiciones que el instante fugaz le ofrecía; ella que estaba acostumbrada a trabajar despacio, planeando su composición, se vio muy limitada de componer sus escenas y, no obstante, logró algunas fotografías donde la respuesta frontal de las fotografiadas demuestran la habilidad de la fotógrafa para colocarse frente a la gente común (fig.11). Tina, admitió haber actuado bajo condiciones apresuradas, “a las carreras”.

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Fig.10. Tina Modotti, Día de la inauguración de la Escuela Libre de Agricultura, n.2 Emiliano Zapata en Ocopulco, 1928, Fototeca Nacional, 35335. Secretaria de Cultura INAH-MEX. Reproducción autorizada por el Instituto Nacional de Antropología e Historia [18 de octubre de 2018]

Algunas de sus placas resultaron borrosas y otras movidas, porque las mujeres trataban de escapar de la mirada intercedida por una cámara voluminosa “con lente Tessar 4/5”. Precisamente en aquel lugar realizó la fotografía citada párrafos arriba, del bebé regordete desnudo que la madre encinta carga con un solo brazo. Antes de que concluyera el año la fotógrafa ya había vislumbrado la posibilidad de irse de México. 1929 había sido un año de agitación política en ascenso en el país. Se preparaba el relevo presidencial y se inició una acción represiva contra los órganos de acción del Partido Comunista Mexicano. Tina previó una despedida con una exposición de su obra. Estimó que algo le debía al país, “por lo que aquí se puede hacer, sin recurrir a las iglesias coloniales, a los charros, y a las chinas poblanas…” – expresó (Saborit, 1992: 118). Del 3 al 14 de diciembre tuvo lugar la única exposición individual de Tina Modotti en México, organizada en el edificio de la Biblioteca Nacional, de la Universidad Nacional Autónoma de México, donde exhibió 60 piezas fotográficas.

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Fig.11. Tina Modotti, Mujer con canasta sobre la cabeza, retrato, 1929, Fototeca Nacional, 35364. Secretaria de Cultura INAH-MEX. Reproducción autorizada por el Instituto Nacional de Antropología e Historia [18 de octubre de 2018]

A manera de preámbulo de su partida Tina publicó su manifiesto “Sobre la fotografía” “On Photography” una declaración de sus principios y de su afirmación profesional, al margen del arte. En ésta se reconoce como fotógrafa a secas, que no pretende producir arte, sino “fotografías honestas, sin trucos ni manipulaciones”, y admitiendo todas la limitaciones inherentes a la técnica fotográfica. Se presenta como usuaria de la cámara utilizada como herramienta, como un medio elocuente y directo de registrar el presente. Y como tal concibe a la fotografía como el medio más satisfactorio para registrar la vida objetiva; derivando de ello su valor documental y su promoción en la producción social (Mexican Folkways, oct-dic.,1929, 4: 196-198). Al principiar 1930 Tina fue acusada de participar en el intento de asesinato del presidente recientemente electo; fue aprehendida, encarcelada durante algunos días y deportada del país. El 25 de febrero zarpó, en calidad de detenida, en un buque de carga con rumbo a Europa. Viajó estrictamente vigilada en todos los puertos donde el vapor tocó tierra y padeció la reclusión y el hedor de la celda.

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Berlín-Moscú-España Con la fuerza de su voluntad y de sus amigos del Socorro Rojo Tina Modotti logró llegar a Berlín, después de los fallidos intentos por ingresar a Estados Unidos, Holanda, e Italia. Es sabido por sus cartas que en Berlín admitió ¡no saber qué hacer con la fotografía!, al encontrarse con una “gran cantidad de excelentes fotógrafos”. Lo voluminoso de su cámara Graflex parecía anacrónica en un lugar donde se usaban cámaras más compactas. Tina estaba acostumbrada a la visualización del tamaño definitivo de la fotografía, no al pequeño formato de los modernos equipos. La ascendente carrera de los nazis en el parlamento y la inseguridad laboral propiciaron la partida de Tina hacia Moscú, en octubre de 1930. El Socorro Rojo al que se había afiliado en México le abrió un espacio de participación en Moscú. Tina abandonó la cámara fotográfica y se convirtió en trabajadora política de tiempo completo y vivió en compañía de su última pareja Vittorio Vidali. En 1934 salió de Moscú con la expectativa de establecerse en la España, donde se había proclamado la República, pero su aprehensión por la Guardia Civil española la llevó a establecerse en París y allí continuó su laborar en el Socorro Rojo Internacional. A finales de 1935 volvió a España y la rebelión militar la condujo a trabajar en el Hospital Obrero. Durante la Guerra Civil trabajó con las Brigadas Internacionales. La mujer rodeada de un “aura romántica” en Valencia, donde la encontró Angélica Arenal (esposa de David Alfaro Siqueiros) en 1937, se vio forzada a salir de España como refugiada, con un pasaporte falso. Vía Francia regresaría a México. Su visado de tránsito que le permitiría permanecer en Estados Unidos no le funcionó y llegó al puerto de Veracruz en abril de 1939. Panteón de Dolores, destino final en ciudad de México Tina Modotti regresó a México, con el nombre de María, su nombre de guerra recibido en España. Volvió con el cansancio y el desaliento de la República española fracasada. Tan pronto como se instaló retomó la actividad política en la Alianza Antifascista Giuseppe Garibaldi y procuró ganarse la vida como traductora. También se dice que intentó volver a la fotografía. EL círculo de amistades que frecuentó fue otro distinto al que dejó en 1930, entre ellos Pablo Neruda, quien escribió el poema de su epitafio. Al cabo de tres años encontró su destino final de manera intempestiva. Murió en la ciudad de México, la madrugada del 6 de enero de 1942, víctima de un ataque cardiaco masivo, a bordo de un taxi que la conducía a su casa. En relación con su deceso y los días previos, sus allegados declararon haberla visto fatigada. Por referencia de Vittorio Vidali, la última pareja de Tina, circuló información general acerca de su leve historial de problemas cardiacos durante su estancia en Europa. Bastó un ciclo de siete años en México para que Tina Modotti produjera la obra fotográfica que aseguró su renombre. No obstante la relativa dispersión en que aún se encuentran sus fotografías, lo que se conoce de su producción ha mantenido vivo su reconocimiento mundial. En su tiempo algunos la llamaron fotógrafa norteamericana y otros llegaron a referirse a ella como fotógrafa de México. Más, en esencia, Tina Modotti nunca olvidó que Italia era su país.

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Referencias bibliográficas Barkhausen Canale, Christiane (1989), Verdad y leyenda de Tina Modotti, Cuba, Casa de las Américas. Cacucci, Pino (1993), Los fuegos, las sombras y el silencio, Una Biografía de Assunta Lugia Adelaide- Tina Modotti, México, Joaquín Mortiz. Casanova, Rosa y Konzevik, Adriana (2006), Luces sobre México, Catálogo selectivo de la Fototeca Nacional del INAH, México, Consejo Nacional para la Cultura y las Artes, Instituto Nacional de Antropología e Historia y RM. Constantine,Mildred (1979), Tna Modotti, una vida frágil, México, Fondo de Cultura Económica. (Originalmente: Paddington Press 1975) Ellero, Gianfranco (1992), The childhood of Tina Modotti, Udine, ArtiGrafiche Friulane. Falcón, Romana (1991), El surgimiento del agrarismo cardenista. Una revisión de las tesis populistas, p. 340. http://codex.colmex.mx:8991/exlibris/aleph/a18_1/apache_media/BAB31LBM8XK2Q46RMPEMTRD 67AIYTQ.pdf.

Figarella, Mariana (2002), Edward Weston y Tina Modotti en México. Su inserción dentro de las estrategias estéticas del arte postrevolucionario, México, Instituto de Investigaciones Estéticas. (trad. Al italiano: Edward Weston e Tina Modotti in Messico. Cinemazero, 2003). González Cruz Manjarrez, Maricela (1999), Tina Modotti y el muralismo mexicano, México, Universidad Nacional Autónoma de México, Instituto de Investigaciones Estétcas (Colecciones del Archivo Fotográfico, I). Khankhoje, Pandurang (2008), I Shall Never Ask for Pardon, (Ed. Savitri Sawhney), Penguin. Hooks, Margaret (1993), Tina Modotti, Photographer and Revolutionary, London, Harper Collin-Pandora. (Trad. Al español: Barcelona, Plaza&Janés, 1998) “Informe de las Escuelas Libres de Agricultura y Campo de Experimentación de la Liga de Comunidades Agrarias”, 23 de octubre de 1927. Mecanoscrito. Lozano, Elisa y Sotelo, Jesús (2000), Tina Modotti, Una nueva mirada, 1929, México, Centro Nacional de la Cultura y las Artes. (Catálogo). Poniatowska, Elena (1992), Tinísima, México, Era. Saborit, Antonio (1992), Una mujer sin país. Cartas de Tina Modotti a Edward Weston (1921-1931). México, Cal y Arena, Saborit, Antonio (1999), Tina Modotti, vivir y morir en México, México, Consejo Nacional para la Cultura y las Artes. Tina Modotti fotógrafa y revolucionaria (2017), con textos de Margaret Hooks, Madrid, La Fábrica. Referencias Hemerográficas Duque, Arline, Pandurang Khankhoje, el “sabio hindú”, en México”, Alquimia, (2014,17: 8-17). González Cruz Manjarrez, Maricela, “Tina Modotti y e muralismo, un lenguaje común”, Anales del Instituto de Investigaciones Estéticas (2001, 78: 175-188).

TINA MODOTTI EN MÉXICO: VIDA Y MIRADA FOTOGRÁFICA

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Massé, Patricia, “Tina Modotti y el agrarismo radical en México”, Alquimia, (2014, 17: 30-48) Modotti, Tina, “Sobre la fotografía”, Mexican Folkways (1929, 5: 4). Rodríguez y Méndez de Lozada, María de las Nieves, “Fotografías inéditas de Tina Modotti”, Anales del Instituto de Investigaciones Estéticas (2008, XXX- 9: 213-224). Rodríguez y Méndez de Lozada, María de las Nieves, “Imágenes colaterales. La influencia de la Vanguardia soviética en la obra de Tina Modotti”, Anales del Instituto de Investigaciones Estéticas (2015, 106: 149-177).

Pedro Friedeberg, Las horas cruzadas, 2016 [Tinta y acrílico sobre papel, 45 x 39cm]

RESEÑA SOBRE CUATRO ARTISTAS ITALIANOS EN MÉXICO

Pedro Friedeberg. Foto: Christophe von Hohenberg

PEDRO FRIEDEBERG, ARTISTA SURREALISTA

ALEJANDRO SORDO

Pedro Friedeberg (Florencia, Italia, 11 de enero de 1936) La carrera de Pedro Friedeberg comenzó en 1959 con su primera exposición individual en la Galería Diana en la Ciudad de México, animado por los artistas Remedios Varo y Mathias Goeritz. Su obra tuvo una magnífica recepción y un año después fue incluida en la Exposición Retrospectiva de la Pintura Mexicana organizada por el Museo de la Ciudad Universitaria. En 1961 fundó el grupo de Los Hartos, dirigido por Mathias Goertiz en el cual también participaron José Luis Cuevas, Chucho Reyes, Ida Rodríguez Prampolini y Alice Rahon, quienes se manifestaron en contra de la pretensión de la grandeza del arte moderno en general, el individualismo exagerado y la firma del artista que se toma muy en serio a sí mismo. En 1968, Antonio Souza lo presenta como el artista de su galería dentro del marco del programa de la Olimpiada Cultural, evento paralelo a los XIX Juegos Olímpicos en la Ciudad de México. Al mismo tiempo, produce en la ciudad un mural en el Hotel Camino Real, y una serie de vitrales para la Feria Mundial en San Antonio, Hemisfair ’68. En 1962, Friedeberg inicia su proceso de internacionalización y expone su obra en la Carstairs Gallery en Nueva York y en la Galerie Villa André Bloc, en París; donde presenta por primera vez su obra más icónica: la Mano-Silla. En 1963 expone individuales en la Pan American Union en Washington, DC., en el Palacio Foz en Lisboa, y en la Galerie Carroll en Múnich. En 1964 participa representando a México en la Cuarta Bienal de París; en 1966, lo representa en la Tercera Bienal Americana de Arte en Córdoba en Argentina, en 1968, en la Primera Exposición Internacional de Dibujos Modernos en Rijeka, en 1969, en la X Bienal de Sao Paulo, Brasil, en 1970, en la Bienal del Uruguay con sede en Montevideo y, en 1973, en la II Bienal de Arte Coltejer en Medellín, Colombia. En 1965 es elegido por la Container Corporation of America para publicar un dibujo sobre el individuo en la revista Time. En 1966, es incluido en la Exposición Labyrinthe, en la Akademie der Künste en Berlín. A lo largo de la década de los 60 y 70 su actividad internacional causa interés en ciudades de Estados Unidos, Alemania, Italia, Francia, Canadá, Japón e Israel.

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Pedro Friedeberg en su taller en Ciudad de México. Foto: Alejandro Sordo, 2014

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Pedro Friedeberg también forma parte de los artistas que rechazaron el status quo en el arte mexicano y se une a la exposición Confrontación ’66, formando así parte del movimiento de la Ruptura. En 1968 forma parte de la exposición organizada por la Galería José María Velasco 50 años de Pintura en México y en 1971, en el Salón Anual de la Plástica Mexicana. En los años 70 comienza como grabador participando y ganando premios en diversas exposiciones como Artes Gráficas Panamericanas en el Palacio de Bellas Artes y la Primera Bienal Internacional de Obra Gráfica en Segovia, España. También en ésta década, Friedeberg se concentra en el Arte correo participando en encuentros mundiales en Estados Unidos, Italia, Argentina y México. Su primera exposición individual institucional en México fue en 1973 en el Ex Convento del Carmen en Guadalajara y en el Museo de Arte Contemporáneo de Pátzcuaro. En 1974 realiza una exposición itinerante en Canadá, junto con José Luis Cuevas y Xavier Esqueda llamada Three Mexican Artists. En 1979 exhibe exposiciones individuales en el museo The Art Center Museum en Waco en Texas, en la Vaughan Collection en Canadá y en la Casa de las Américas en Cuba. También en 1979 gana el Primer Premio en la Trienal latinoamericana de Grabado en Buenos Aires. Este mismo año funda, junto con el artista Xavier Girón, la controvertida galería La Chinche en la Zona Rosa de la Ciudad de México. Durante los años 80 fue representado por la Galería Pecanins, quienes promovieron su trabajo en Barcelona y en la Ciudad de México. Participó en exposiciones importantes como la del Foro de Arte Contemporáneo, las Muestras de Pintura organizadas por el Fondo Banamex, y en exposiciones destacadas como la exposición curada por la historiadora y crítica de arte Teresa del Conde, de nombre “Los Artistas celebran a Orozco”, en la que los principales artistas mexicanos contemporáneos homenajearon al muralista. En 1984, expone en la Galería de Arte Misrachi con motivo de la publicación de un libro con una serie de dibujos inspirados en la poesía de Pita Amor llamado La Jungla. Ese mismo año se muda a San Miguel de Allende y en 1985 realiza la primera de siete exposiciones en el Centro Cultural El Nigromante, principal foro para las artes visuales de esa ciudad. Al mismo tiempo su actividad internacional continúa y expone en Francia junto con otros 18 artistas mexicanos en el Instituto Cultural de México en París. En 1986, se lleva a cabo la primera revisión a su trabajo artístico con la exposición Clepsidra y Babilómetro en el Museo de Arte Moderno (MAM) de la Ciudad de México. Participó en la colectiva Confrontación ’86, que revisa la generación de la Ruptura 20 años después, en el Palacio de Bellas Artes. En 1985, expuso en Estados Unidos en el Houston Museum of Fine Arts y en 1989 en una exposición itinerante en Estados Unidos llamada The Latin American Spirit, que viajó En 1990 comenzó a ser representado por la Galería de Arte Mexicano. En 1992 tiene su primera retrospectiva en el Instituto Veracruzano de Cultura. Continúa su carrera internacional en Estados Unidos, especialmente en Nueva Orleans, Los Ángeles, en las principales ciudades de Texas y en Montreal, Canadá. En ese mismo año Frideberg realiza una curaduría en homenaje a Bridget Tichenor y se presenta en el Armory Show de Nueva York.

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Pedro Friedeberg frente al mural. Título: en el Hotel Camino Real de la Ciudad de México

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En 1994 forma parte de la exposición Objeto-Sujeto curada por CURARE y de Chairmania, expuesta en el National Design Museum de Nueva York. En 1996 expone en el Museo Casa Diego Rivera en la Ciudad de Guanajuato y arte correo en el Salón de San Miguel de Allende. En 1997, expone en el Museo Omar Rayo en Colombia y en 1998 inaugura su propia galería. Continúa su trabajo como grabador en el Taller Jesusa, en el Museo Nacional de la Estampa y en el Museo Histórico de San Miguel de Allende. En 1997 expone en Diálogos Insólitos en el MAM y Design for Delight, una exposición itinerante presentada en Canadá, Francia, Alemania, Polonia y cinco sedes en los Estados Unidos. En 2001, expone De la Ruptura al Geometrismo, en el MAM, una curaduría de Rita Eder. En el mismo año es incluido en Maestro latinoamericanos, en el Museo José Luis Cuevas, y en la Pollak Collection. En este año comienza a participar en la Colección Pago en Especie de la SHCP. En 2002 tiene una Exposición Retrospectiva en el Museo de Historia Mexicana de Monterrey y en 2003, participa en Aparentemente sublime del IX Salón de Arte Bancomer. En 2005 forma parte de la representación de México como invitado especial en la Feria ARCO de Madrid. En 2009, expone una importante retrospectiva en el Museo del Palacio de Bellas Artes. Recientemente ha tenido exposiciones en el Antiguo Palacio del Arzobispado, la Biblioteca PAPE, el Centro Cultural Tijuana, el Museo Iconográfico del Quijote, y en el Museo de la Filatelia. Fue incluido en la California-Pacific Triennial en Orange County, California en 2013 y su obra ha sido expuesta en el MAM en Diseñando México 68, en 2008, Cinetismo, en 2012 y la Generación de la Ruptura y sus antecedentes, en 2014; y en el Museo Universitario Arte Contemporáneo en La Era de la Discrepancia, en 2007, Transurbaniac, en 2011 y Desafío a la Estabilidad, en 2014. En 1993 recibe la Beca del Sistema Nacional de Creadores y en 2012 recibe La Medalla de Bellas Artes. En años recientes Friedeberg ha vuelto a saltar a la fama internacional. Su obra ha sido publicada en revistas especializadas de arte. En Alemania, Francia, España, Italia, Inglaterra, Estados Unidos, entre muchos otros. En 2016 presentó la exposición Casa Irracional en el muso Franz Mayer, en 2017 participói en las exposiciones organizadas por la Getty Foundation en el LACMA, el MAK Center y el la Schindler House en la ciudad de Los Ángeles, California. Publicó un libro de ilustraciones del Elogio de la Locura, escrito por Erasmo de rotterdam en la primera traducción directa del latín al español. Actuaslmente sigue trabajando en su estudio en la colonia Roma de la Ciudad de México.

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Pedro Friedeberg, Ambasciata d’Italia in Pijijiapan, Chiapas, 2018 [Escultura de madera policromada, 72.2 x 38.1 x 23.4 cm]. Foto: Bernardo Aja

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Pedro Friedeberg, Anatomía Irreprochable, 2017 [Tinta y acrílico sobre papel, 35 x 28 cm]

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Pedro Friedeberg, Cromoorientación por tarantulismo simplificado, 2018 [Tinta y acrílico sobre papel, 35 x 28 cm]

PEDRO FRIEDEBERG, ARTISTA SURREALISTA

Pedro Friedeberg, Me temo lo peor, 2018 [Tinta y acrílico sobre papel, 35 x 28 cm]

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Pedro Friedeberg, Mueblería selénica, 2018 [Tinta y acrílico sobre papel, 35 x 28 cm]

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Pedro Friedeberg, Monumento melancólico simplificado, 2018 [Tinta y acrílico sobre papel, 35 x 28 cm]

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Pedro Friedeberg, Segunda inauguración del Museo de obscenidades de buen gusto, 2017 [Acrílico sobre madera, 65 x 46 cm]

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Pedro Friedeberg, Hopla! 2018 [Tinta y acrílico sobre papel 35 x 28 cm]

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Pedro Friedeberg, Hotel du Bonheur 218, 2018 [Tinta y acrílico sobre papel, 35 x 28 cm]

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Pedro Friedeberg, Hotel Smetana, 2018 [Tinta y acrílico sobre papel, 35 x 28 cm]

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Pedro Friedeberg, Esquina pensaduría, 2018 [Tinta y acrílico sobre papel, 35 x 28 cm]

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Pedro Friedeberg, Mascotas Bienvenidas, 2018 [Tinta y acrílico sobre papel, 35 x 28 cm]

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Pedro Friedeberg, Palacete de un plutócrata, cromosófico e ictiománico con tendencias malacológicas, 2018 [Tinta y acrílico sobre papel, 35 x 28 cm]

PEDRO FRIEDEBERG, ARTISTA SURREALISTA

Pedro Friedeberg, Una casita en la playa es todo lo que necesito! 2018 [Tinta y acrílico sobre papel, 35 x 28 cm]

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Pedro Friedeberg, Ayúdame a vomitar!, 2018 [Tinta y acrílico sobre papel, 35 x 28 cm]

PEDRO FRIEDEBERG, ARTISTA SURREALISTA

Pedro Friedeberg, I love you, 2018 [Tinta y acrílico sobre papel, 35 x 28 cm]

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Pedro Friedeberg, Firmas múltiples, 2018 [Tinta y acrílico sobre papel, 35 x 28 cm]

CESARE AUGUSTO VOLPI JORGE VOLPI ESCALANTE

Muy poco sé de mi bisabuelo, Cesare Augusto Volpi. Nació en Carrara el 25 de junio de 1857. Sus padres se llamaban Giuseppe Volpi y Anna Zacagna. De profesión cantero, luego escultor. Desde joven se acercó al internacionalismo y al anarquismo y se convirtió en secretario local del grupo “Carlos Marx”. Su nombre de combate era Petino y, según la prefectura de Massa, tenía fama de “violento y ardiente”, pero también era “educado e inteligente”. Sabía leer y escribir y se le consideraba un trabajador asiduo en las cave de mármol. El 16 de junio de 1879 fue presentado ante el Pretor de Carrara como “sospechoso de delitos contra las personas y contra la propiedad. Fue amigo cercano de los anarquistas apuanos Ezio Puntoni, Giovanni De Santis, Primo Ghio y Luigi Pedron. En la década de 1890 emprendió propaganda activa entre la clase obrera y tuvo mucha influencia en el Partido en las zonas de Carrara y Pisa. También se mantuvo en contacto con los anárquicos pisanos Olinto Salvestroni, Giovanni Sassetti y Guido Paolicchi. Participó en todas las conferencias anarquistas celebradas en Carrara en esa época, incluida la llevada a cabo por Primo Ghio en la taberna de Felice Pedroni en Via Lunense el 12 diciembre de 1893 y la de Luigi Molinari del 26 dicembre 1893 en Pian di Maggio. Participó en diversas insurrecciones en enero de 1894 en apoyo a los trabajadores sicilianos. Fue arrestado y condenado por el Tribunal de Guerra de Massa, que el 10 de marzo de ese año lo condenó a un año de cárcel y a uno de vigilancia especial por llamamiento a la guerra civil. Una vez que salió de la cárcel de Perugia, en septiembre, gracias a una amnistía, solicitó el permiso para emigrar a América. El 2 de enero de 1895 llegó a México. Tras un breve regreso a Carrara, en 1897, como representante de los anárquicos de Carrara en los funerales del garibaldino e internacionalista Jacopo Sgrarallino, volvió definitivamente a México en junio de 1898 junto con su esposa, Minerva Ducchini, su hermano Augusto Cesare, y sus tres hijos (entre ellos mi abuelo Guglielmo o Guillermo). Fundó una empresa importadora de mármol, trabajó en distintos proyectos de arte funerario y en varios de los monumentos comisionados por el gobierno del general Porfirio Díaz para celebrar el centenario de la Independencia de México en 1910, entre ellos el Hemiciclo a Juárez y el piso del Palacio de Telecomunicaciones (hoy Museo Nacional de Arte). El historiador Carlos Martínez Assad ha documentado que una novia o modelo suya fue la verdadera inspiración para el Ángel de la Independencia, proyectado por Antonio Rivas Mercado, pero elaborado por otro italiano, Enrico Alciati. Asimismo, donó a México el busto a Garibaldi tallado por él que hoy se encuentra en la Avenida Chapultepec, frente al Metro Salto del Agua. Murió en la Ciudad de México el 30 de enero de 1923. 431

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Fig.1. Ciudad de México, El Angel de la Independencia. Foto Olimpia Niglio (2014)

UNAS NOTAS SOBRE AUGUSTO CESAR VOLPI ESCULTOR Y MARMOLISTA ITALIANO EN MÉXICO

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Brief review of the biography and the sculptural work of Augusto Cesar Volpi in Mexico between 1891 and 1921, documented through the news of the press of his time.

Introducción En las líneas siguientes desglosamos de forma somera la biografía de Augusto Cesar Volpi, escultor y propietario de una exitosa marmolería en la Ciudad de México, desde la cual desarrolló, a lo largo de más de 30 años una exitosa actividad dedicado a la decoración con estatuaria, a veces elaborada en Italia, y con plafones de mármol de monumento funerarios, estatuaria pública e incluso arte sacro. La información recabada para elaborar este texto ha sido extraída, en su mayoría de notas de prensa de la época. Mismas que nos permiten componer una primera visión de la vida y obra de este escultor italiano de las primeras dos décadas del siglo XX.

Algunos datos biográficos Augusto Cesar Volpi nació en Carrara en 1861 en una familia vinculada al negocio de la cantería de mármol. Desconocemos su desarrollo formativo y en que institución adquirió los conocimientos para ostentarse y ejercer como escultor y arquitecto a lo largo de su vida. Entre 1890 o a inicios de 1891, llega a México, acompañado por su esposa Marcela Barghini con la que tendrá varios hijos. Según algunas fuentes invitado por el General Carlos Pacheco Villalobos, Secretario de Fomento, Colonización e Industria de México del gobierno de Porfirio Díaz. Al parecer esa invitación surge por las buenas recomendaciones que le habían hecho a Pacheco dos residentes italianos cercanos al militar1. A Volpi, con 30 años se le encarga la gestión algunos yacimientos de 1

S.A. (1904) “ El despacho de …, p. 68. 433

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mármoles en Orizaba, Veracruz a cuenta de la Compañía Mexicana de Mármoles S. A2. Al poco tiempo, parece que en torno de 1892 o 1893, probablemente coincidiendo con la salida de Pacheco de la Secretaría de Fomento, decide fundar una marmolería en la ciudad de México, dedicada a la venta de objetos artísticos traídos de Italia y también, especializada en el diseño de monumentos funerarios y mausoleos, con despacho y taller en la calle 3ª de Nuevo México, 76, que más tarde, en 1907 trasladará a la 2ª calle de Revillagigedo. Seis años más tarde, en 1898, se incorpora definitivamente al negocio su hermano Cesar Augusto, nacido en Carrara en 1857 quien ha llegado a México proveniente de Italia, dejando atrás un pasado anarquista que le ha llevado a la cárcel en su país3. De igual forma, sabemos que también trabajó en la misma el escultor Vicenzo Bonnani4. El 24 de junio de 1901 solicita, junto Enrique Fernández Castello, una patente de privilegio para un procedimiento para hacer piezas de madera a la Secretaria de Fomento5. Se trata de una solicitud que, a buen seguro, tenía que ver con algún procedimiento que quería desarrolla asociado a su negocio de marmolería. Desde la marmolería Volpi participó en distintas obras públicas que se hacían en la ciudad en esos momentos, dotándolas de mármoles y otros materiales. Así, en 1908 realiza la escalera monumental de la Escuela Nacional de Jurisprudencia6 y también la placa de mármol con motivo de la inauguración de ésta en mayo de 19087. Ese mismo año, es comisionado por la Secretaria de Fomento para investigar en San Luis Potosí, los posibles yacimientos de granito para la construcción del Palacio legislativo8. Cuatro años más tarde, coloca el mármol de las escaleras de la Secretaria de comunicaciones, hoy Museo Nacional de Arte, cobrando 2000 pesos por ello9. En 1920 su marmolería se encarga del revestimiento de mármol de la tienda departamental El Palacio de Hierro inaugurada en 192110. A nivel personal, sabemos que Augusto Cesar Volpi se involucró en distintas ocasiones en las actividades que desarrollaba la activa colonia italiana en la Ciudad de México. En septiembre de 1894 figura como vocal suplente de nueva junta de la Sociedad italiana de mutuo de socorro y hermandad11. En octubre de 1900 al renovarse la junta de la Sociedad de beneficencia italiana, es nombrado vocal de ésta12. Participara en distintos actos cívicos y festivos, siendo durante años, miembro del

S.A. (1901) “ Semblanzas. Hombres útiles…, p.3 Ver reseña sobre Cesare Augusto Volpi en este mismo libro. 4 Conocemos este dato por la necrológica de Bonnani aparecida en El Diario, el 12 de mayo de 1909. 5 S.A. (1901). “ Secretaría de Fomento…, p.1. 6 Díaz y de Ovando, C. (1974). La ciudad de México …, p.126 7 S.A. (1908) “ Placa de mármol…, p. 3 8 S.A. (1908) “Semana metropolitana…, p.3 9 Contraloría de la Federación (1912) Cuenta de …, p.121. 10 Martínez Gutiérrez, Patricia (2005) El Palacio de Hierro…, p.135 11 S.A. (1894). “ Sociedad italiana de mutuo …, p. 3. 12 S.A. (1900) “Nueva junta directiva…, p.3 2 3

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comité organizador de las fiestas que la comunidad italiana hacia cada 20 septiembre en el Tivolí del Eliseo para conmemorar la entrada de Garibaldi en Roma13.

Obras de arte funerario Las primeras obras que son de la autoría de Volpi son capillas, mausoleos y monumentos funerarios. Éstas le serian encargadas por familias pertenecientes a las clases acaudaladas de la Ciudad de México. La primera que hemos podido documentar data de 189414,cuando realiza las esculturas y decoración en mármol de la tumba de Javier Torres Adalid (1834-1893) localizada en el Panteón Francés15. Ésta, diseñada por el ingeniero Ignacio de la Barra, es una suerte de templete clásico con cubierta de bóveda de cañón16. En la fachada se observa un juego de cuatro columnas, dos de ellas con estriadas y con capiteles dóricos. Éstas enmarcan dos estatuas de factura clásica que representan a la fe y a la esperanza y una puerta de hierro colado decorada con una cruz. Además, dichas figuras sujetan un dintel con filigrana labrada en piedra. Sobre éste hay un busto de Torres Adalid. Detrás de éste, el arco de la bóveda está cubierto con vidrio opaco y una reja con filigranas vegetales de hierro colado que tiene la función de lucernario para la capilla. Cabe añadir que Torres Adalid fue abogado y diputado federal por un distrito del Estado de México en la década de los años 60 del siglo XIX. Provenía de una familia de hacendados de origen colonial y participó de los negocios de su hermano, Ignacio Torres Adalid, llamado “ el rey del Pulque”, por ser propietario de varias haciendas pulqueras y ganaderas en el Estado de México, Hidalgo y Tlaxcala17. Se caso en 1860 con Leonor Carlota Rivas Mercado, hermana del arquitecto Antonio Rivas Mercado. Falleció a los 58 años. En noviembre de 1897 entrega el monumento funerario al General José Justo Álvarez Valenzuela (1821-1897) en el Panteón de Dolores. Se trata de un militar de alto rango que había sido entre 1856 y 1857 fue comandante general y gobernador de Tabasco y que falleció el 22 de enero de 1897 siendo tesorero de las Cámaras Federales18. Un año más tarde, El Tiempo Ilustrado19, nos informa de la realización en estilo “grecorromano” de sendas capillas funerarias, una para la familia Rubin y otra para la familia Escandón Arango20.

S.A. (1905) “Las fiestas …, p.22 Esta información se ha obtenido considerando que la fecha de fallecimiento de Torres Adalid fue en 1893. Ver Soto-Rodríguez, Omar. Genealogías mexicanas [web] https://gw.geneanet.org/genemex?lang=es&n=torres+adalid&oc=0&p=javier 15 Ramírez, F. (1986). Tipología de la escultura …, p.156 16 S.A. (1894) “Una obra …, p. 2 17 Ramírez Rancaño, Mario. (2012). El Rey del Pulque: Ignacio … 18 S.A. (1897) “Crónica menuda…, p. 4. 19 S.A. (1898) “Capilla de la familia …, p.1. 20 S.A. (1898) “ Capilla de la familia Escandón …, p. 4. 13 14

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Fig. 1. Capilla funeraria de Javier Torres Adalid en el panteón francés. Fuente: Find a grave [web] https://www.findagrave.com/memorial/31199941/javier-torres_adalid

Efectivamente, se trata de capillas de planta rectangular con una fachada muy similar entre ambas, con claras reminiscencias clásicas, asimilándolas a un pequeño templo griego. Un modelo éste que Volpi repetirá en otras ocasiones. Posteriormente, entre 1898 y 1904, realizará algunas capillas más para las familias Pellotier, Ricoy, Landa y Escandón; Pardo y Contreras y mausoleos y tumbas para el General Aureliano Rivera, muerto en 1903; Benito de la Barra y la Sra. Guzmán Ramos21. Todas ubicadas en el panteón francés de la Ciudad de México22. En el panteón del Tepeyac, en 1903 ha realizado una capilla para la familia Tenconi. Éstos, también italianos fundaron en 1884 la pastelería y salón de té El Globo, situada en las calles de Bolívar y Madero , que años más tarde, daría paso a una conocida cadena de pastelerías mexicana. En su mayoría, las capillas y mausoleos son construcciones de factura clásica, con muchos elementos que recuerdan a la arquitectura griega, decoradas con bustos, altorrelieves y realizadas mayoritariamente en mármol. 21 22

S.A. (1904) “ El despacho de …, p. 68. Herrera Moreno, Ethel (2013) El panteón francés …, p.156 y s.

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En este mismo rubro, en 1906 inicia la construcción bajo contrato, con un coste de 56.000 pesos, de la tumba de Thomas Braniff Woods, importante empresario y banquero del Porfiriato, muerto el 22 de enero de 190523. De nuevo, Volpi, diseña una capilla funeraria de planta rectangular con una cúpula decorada con pequeños azulejos como cubierta y con una fachada con un pórtico con frontón y columnas estriadas con capiteles corintios. Toda la capilla está hecha en mármol. La tumba está elevada sobre un zócalo al que se accedía mediante cinco escalones. En estos se distribuían tres estatuas de ángeles en distintas posiciones, caído, de rodillas y orando. Todos de facies clásica y hoy desaparecidas24. La capilla tiene una puerta de hierro colado en su acceso principal. La similitud con un templo griego es extraordinaria, lo que hace pensar de los valores clásicos que impregnaban el quehacer de Volpi. La cubierta de esta capilla culmina con un ángel con las alas abiertas. Lo que sumado a los tres ángeles de la entrada supone un juego místico pleno de simbolismo cristiano en torno a la muerte (dolor, llanto, oración y resurrección). Como hecho anecdótico, vale la pena comentar que, en 1912, la prensa del momento recogió una controversia entre Volpi y el escultor italiano Adolfo Octavio Ponzanelli quién al parecer, instado por la familia Braniff, también hizo una propuesta de capilla funeraria que no llego a buen puerto25. También, en enero de 1906, la marmolería de Volpi participa en el montaje de los mármoles de la Capilla de la Familia Moncada en el Panteón del Tepeyac26. Misma que al parecer tiene en su decoración un ángel esculpido por el escultor italiano Giulio Monteverde27. No volvemos a tener noticias de otra obra funeraria realizada por Volpi hasta 1911 cuando toma el contrato para realizar el monumento al poeta y político Juan de Dios Peza (1852-1910) en el Panteón Español28. El autor de Canto a la patria (1876), Horas de pasión (1876) y Leyendas históricas, tradicionales y fantásticas de las calles de México (1898) entre otras muchas, había fallecido el 16 de marzo de 1910 y algunos miembros de la colonia española en México hicieron una suscripción popular para construir un monumento en su tumba. Éste fue proyectado por Augusto Cesar Volpi, será esculpido, en los últimos años de su vida por el escultor de Carrara, Carlo Nicoli Manfredi (1843-1915) en su taller en Italia. Nicoli había desarrollado buena parte de su carrera en España donde dejo esculturas en ciudades como Alcalá de Henares, Ceuta o Cádiz29. En México, también podemos consignar al menos tres obras de él: una estatua denominada “La Libertad” en el cementerio de los Gringos en Colima, Nayarit y dos encargos que Volpi le hizo: el monumento a Juan de Dios Peza y al General Nicolás Bravo. S.A. (1908) "Capilla Braniff en …, s.p. Collado, María del Carmen (1987) La burguesía mexicana…, p.81 25 S.A. (1912) “ Contra pruebas …, p.4 26 Segarra Lagunes, Silvia (2005) Panteón del Tepeyac…, p.65 27 Segarra Lagunes, Silvia (2012) El ángel del silencio …, p. 99 28 S.A.(1911). “ El cantor del hogar …, p.1. S.A. (1911) “ Los españoles residentes …, p.5. 29 Bazán de Huerta, Moisés (1987) Aportaciones a la obra escultórica …, p. 223-224 23 24

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Fig.2. Capilla de la Familia Braniff en El Mundo ilustrado, 1908. Fuente: S.A. (1908) “Capilla Braniff en el Panteón Francés por Augusto Volpi, conocido escultor italiano”, El Mundo Ilustrado, t. II, núm. 12, 20 de septiembre de 1908

La última obra funeraria de Volpi de la que tenemos referencia es el monumento a al dibujante y artista Carlos Alcalde en el Panteón Francés. De nuevo, en 1917 Volpi toma el contrato para este monumento hecho por una suscripción popular desarrollada a lo largo de 191830. Se trata de un sencillo monumento con pedestal troncocónico y un busto del artista en su cima.

Obras de arte sacro A tenor de las informaciones recabadas, a diferencia de otros escultores italianos en México, Volpi desarrolló pocas obras para la Iglesia. En concreto, sólo hemos podido documentar tres obras. La primera de ellas, datada de 1903, cuando consignamos un encargo de arte sacro vinculado al Arzobispado de Guadalajara. Se trata del altar mayor con su ciprés y unas 30

S.A. (1917) “Monumento …, p. 7.

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estatuas de los cuatro evangelistas para el templo de Nuestra Señora de Guadalupe, hoy Parroquia de San Francisco de Asís, en Tepatitlán de Morelos, en Jalisco31. La estatuaria, en el caso de los apóstoles, es de cuerpo entero, de factura clásica tanto en rostros como en ropajes, colocada sobre pedestales octogonales de dos cuerpos. Todo labrado en mármol blanco y rodeando la zona del altar de este templo. La mesa del altar y el ciprés están hechos también, de mármol blanco. El ciprés tiene seis niveles escalonados, culminando en una hornacina enmarcada en un dintel con dos columnas a lado y lado sobre la que se eleva un baldaquino de planta circular rodeado de columnas y con cúpula de cierre. Se trata de un conjunto muy elaborado que remite a una gran habilidad tanto en el tallado del mármol como en la elaboración de la estatuaria. La segunda obra que podemos documento es de 1908. Sabemos de ella por una nota de prensa aparecida en periódico El Tiempo. El 30 de abril de 1908 se hicieron entrega de cuatro altares dedicados a la Virgen de los Dolores, San Antonio, Virgen de Guadalupe y Santa Brígida destinados al templo de Santa Brígida, fundado en 174032. Están hechos en estilo bizantino, según la nota, en mármoles de Carrara, de Yautepec, de Francia y de África. Lamentablemente, poco podemos decir de ellos, porque el Templo de Santa Brígida fue derribado en 193333. Por la misma nota, sabemos de la participación de Volpi en la concepción de unos altares en el templo de Santa Clara, hoy convertido en biblioteca.

Estatuaria para el espacio público Una de las vertientes más destacadas de la obra de Augusto Cesar Volpi es la estatuaria para el espacio público. Gracias a sus diseños y desde su marmolería realizó diversos trabajos en varias ciudades mexicanas. La información recabada nos indica que es a partir de 1904 que podemos certificar que Volpi desarrolló varios proyectos que suponían la realización de estatuas, partes de monumentos o para participar en la decoración con placados de mármol para monumentos. Todos ellos dedicados a Benito Juárez. De alguna manera, el escultor italiano salió beneficiado de dos sucesos que acontecieron entre 1904 y 1906 y que convirtieron a Juárez en un mito patrio34. El primero las acciones de refutación que entre círculos intelectuales y políticos se dieron en 1904 en forma de artículos e incluso, monumentos por el libro del polemista Francisco Bulnes, titulado El verdadero Juárez y la verdad sobre la intervención y el Imperio, donde cuestionaba el papel de Juárez en la historia reciente mexicana. El segundo suceso que beneficio a Volpi fue la serie de eventos, actos y también, el deseo de levantar monumentos con motivo del centenario del natalicio de Juárez.

Gallegos Franco, Francisco ( 2008) Historia mínima …, p.70 Fernández, Justino (1966) Santa Brígida de …pp.15-24. 33 S.A. (1908) “ Los Ilmos. Señores Costamagna …, p.3 34 Díaz Escoto, Alma Silvia. (2008). Juárez: la construcción …, pp. 33-56. 31 32

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TABLA 1. OBRAS ATRIBUIDAS AL ESCULTOR AUGUSTO CESAR VOLPI (1893-1921) Ciudad de México Ciudad de México Ciudad de México Ciudad de México Ciudad de México Tepatitlán de Morelos, Jalisco Ciudad de México Veracruz Atizapán de Zaragoza. Estado de México Ejutla de Crespo, Oaxaca Ciudad de México Ciudad de México Zitácuaro, Michoacán. Ciudad de México Ciudad de México Veracruz Chilpancingo, Guerrero Ciudad de México Ciudad de México Ciudad Juárez, Chihuahua Ciudad de México Ciudad de México

Monumento funerario al Javier Torres Adalid en el Panteón Francés

1893

Monumento funerario al General José Justo Álvarez en el Panteón de Dolores. Capilla funeraria de la familia Rubín en el Panteón Francés

1897.

Capilla funeraria de la familia Escandón Arango en el Panteón Francés Monumentos funerarios a las familias Pellotier, Ricoy, Landa y Escandón; Pardo y Contreras, del General Aureliano Rivera; de Benito de la Barra y de la Sra. Guzmán Ramos Altar mayor con su ciprés y estatuas de los cuatro evangelistas en la Parroquia de San Francisco de Asís, antes de Nuestra Señora de Guadalupe. Monumento funerario de la familia Tenconi en el Panteón del Tepeyac

1898.

Monumento a Benito Juárez Estatua de Benito Juárez

1904 1904

Estatua de Benito Juárez

1904

Mausoleo familia Braniff en el Panteón Francés

1906-1909

Capilla de la Familia Moncada en el Panteón del Tepeyac

1906

Monumento a Benito Juárez

1906

Escalera monumental y placa conmemorativa Escuela Nacional de Jurisprudencia Altares para templo de Santa Brígida

1908

1898.

1898 a 1904

1903

1904

1908

Estatua del General Nicolás Bravo, situada frente a la escuela primaria 1910-1911 Francisco J. Clavijero o “La Cantonal”. Monumento a Vicente Guerrero 1910 Monumento al poeta y político Juan de Dios Peza en el Panteón Español. Busto de Giuseppe Garibaldi con peana en el Jardín Garibaldi, entre calles Guaymas y avenida Chapultepec. Monumento a Benito Juárez

1911

Monumento al dibujante y artista Carlos Alcalde en el Panteón Francés Revestimiento de mármol de la tienda departamental El Palacio de Hierro

1917 -1918

Elaboración: Martín M. Checa-Artasu

1910-1911 1910

1921

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Sobre el primer suceso, Volpi atendió los encargos de los ayuntamientos de Veracruz, aquí, sólo para colocar los placados del monumento a Juárez que se levantaba en la ciudad35. Realizó dos monumentos con estatua a solicitud de los ayuntamientos de Atizapán de Zaragoza en el Estado de México y de Ejutla de Crespo en Guerrero36. Este último, levantado tras una larga discusión municipal sobre la idoneidad de hacerlo37. Respecto a la celebración del centenario del natalicio del Benemérito de las Américas en 1906, Volpi atendió el contrato con el ayuntamiento de Zitácuaro, en Michoacán para la realización de un monumento a Juárez que tuvo un costó en torno a 5.000 pesos38. Éste acabo midiendo 5.75 metros y está compuesto de un pedestal octogonal de tres cuerpos. En el primero de los cuales hay una cartela a manera de pergamino con la inscripción. “ El respeto al derecho ajeno es la paz”. La estatua de Juárez lo muestra de pie con levita, con el brazo derecho sujetando la constitución abierta y con el izquierdo señalándola. La estatua como todo el monumento es de mármol de Carrara y fue hecha en Italia, siguiendo los modelos realizados por Augusto C. Volpi. Todos estos encargos, aunque responden a tareas distintas y a resultados disímiles entre sí, dan fe de notable reconocimiento que Volpi tenía tras más de una década de instalación profesional en México. En 1910, aprovechando los festejos y actos que por el centenario de la independencia de México se hicieron por todo el país, Volpi también desarrolló varios proyectos. En Veracruz, en 1911 levantó una estatua del General Nicolás Bravo, hoy situada frente a la escuela primaria Francisco J. Clavijero, también conocida como “La Cantonal”. Ésta fue donada por la comunidad española en el puerto de Veracruz con motivo del ciento y un aniversario de la independencia de México39. La estatua nos presenta a un Nicolás Bravo con ropaje militar y actitud desafiante. Se hizo en bronce en Italia, siendo elaborada por Carlo Nicoli, siguiendo los croquis de Volpi. El pedestal, de sección octogonal y la peana de sección circular se realizaron en mármol de Carrara. Ésta última está decorada con un friso de fasces y guirnaldas vegetales, que simbolizan probablemente, tanto el carácter militar como el de impartición de justicia que Bravo desarrolló durante la guerra de independencia. Otra obra de Volpi es el monumento a Garibaldi que hoy localizamos en la Avenida Chapultepec con la calle Guaymas en la Ciudad de México. El citado monumento tiene una historia peculiar que vale la pena reseñar en este trabajo. En julio de 1910 varios miembros de la colonia italiana en la Ciudad de México solicitaron al escultor turinés Leonardo Bistolfi sobre la posibilidad de hacer una copia de la estatua de Garibaldi que éste había hecho para el ayuntamiento de San Remo y traerla a México40.

S.A. (1904) “El monumento …, p.1. S.A. (1904) “De la capital…, p.4. 37 S.A. (1904) “Monumento …, p.2 38 Arias, Miguel (1905) “El centenario de Juárez …, p.5 39 S.A. (1911) “Monumento al héroe Don …, p.1 40 S.A. (1910) “El donativo …, p.2 35 36

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Fig.3. Monumento a Benito Juárez construido en 1906 por Volpi en Zitácuaro, Michoacán. Foto Martín Checa, noviembre de 2009

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Fig.4. Monumento del General Nicolás Bravo en Veracruz. Foto Martín Checa, enero de 2009

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Fig.5. Monumento a Garibaldi en la Ciudad de México, instalado en 1911. Foto Martín Checa, 10 junio de 2018.

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El escultor se negó a hacerlo, lo que obligó a abrir una suscripción de donativos para elaborar una estatua del prócer italiano. Finalmente, fue el escultor Cesar Augusto Volpi quien haría el encargo y donaría su obra o parte de ella. Efectivamente, parece ser que el busto de héroe italiano fue realizado por Alessandro Lazzerini41, el mismo que había hecho la estatuaria del hemiciclo a Juárez, y comprado por Volpi en Italia. El pedestal de cuatro metros de mármol fue efectuado en la marmolería de los Volpi inscribiéndose la leyenda: El Cav. Augusto Volpi. A la Ciudad de México. La primera piedra del monumento se colocó el 20 de septiembre de 1910 en la plaza Orizaba en la colonia Roma. Casi un año más tarde, en junio de 1911 llegaba el busto de Garibaldi a México y era colocado sobre su pedestal42. En 1909, Augusto Volpi y Fransisci Rigalt43 ganan el primer premio dotado con 3000 pesos en el concurso promovido por la Junta Patriótica Benito Juárez para construir un monumento a Juárez en la ciudad fronteriza que lleva su nombre44. Se trataba de un monumento que se haría por suscripción popular y que había sido diseñado por el ingeniero José R. Argüelles45. Finalmente, Volpi a pesar de haber ganado el primer premio del concurso para el monumento sólo realizó las piezas de mármol del monumento e hizo el seguimiento de la fundición de la estatua en bronce que se realizó en Florencia46. La estatuaria y bajorrelieves fue modelada por el escultor mexicano Enrique Guerra. Este monumento se inauguró en septiembre de 191047. Finalmente, Volpi también es autor de una estatua a Vicente Guerrero, en Chilpancingo, la capital del estado de Guerrero. Misma que colocó en 1910. Nueve años más tarde, y a pesar de los reclamos del escultor, el gobierno del Estado de Guerrero seguía sin haber pagado dicha obra48.

De Biasi, P. (1922) “Cronache d’arte…, p.138 Toscano, Verónica (2010). Los hitos de la memoria …, p.121. 43 Las fuentes consultadas confunden este escultor. En algunas se le atribuyen nacionalidad italiana y en otras, nacionalidad española y un nombre de pila, Joaquín, diferente. S.A. (1910) "El monumento …, p. 7. 44 S.A. (1909) “Monumento a …, p.4;.S.A: (1909) El gobierno del estado ... 45 S.A. (1909) “Copia de la escritura …, p.14-18. 46 S.A. (1910). “El monumento …, p.4 47 S.A. (1910) “El monumento a Juárez …, p. 1. 48 S.A. (1919) “Gobierno del Estado. Poder …, p.3 41 42

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Bibliografía consultada Bazán de Huerta, Moisés (1987) Aportaciones a la obra escultórica de los Nicoli. Sus esculturas para la ciudad de Ceuta. Norba: revista de arte, núm. 7, pp. 223-236. Collado, María del Carmen (1987) La burguesía mexicana: el emporio Braniff y su participación política, 1865-1920. Ciudad de México: Siglo XXI. Contraloría de la Federación (1912) Cuenta de la hacienda pública federal. Ciudad de México: Departamento de Contraloría De Biasi, P. (1922) “Cronache d’arte“ Il Carroccio. Rivista di coltura, propaganda e difesa italiana in America, vol. XVI, núm. 1, 31 de julio de 1922, p. 556. Díaz Escoto, Alma Silvia. (2008). Juárez: la construcción del mito. Cuicuilco, núm. 15(43), pp. 33-56. Díaz y de Ovando, C. (1974). La ciudad de México en 1904. Historia Mexicana, núm. 24(1), pp.122-144 Fernández, Justino (1966) Santa Brígida de México. Anales del Instituto de Investigaciones Estéticas, núm.35, p.15-24. Gallegos Franco, Francisco ( 2008) Historia mínima de Tepatitlán. Tepatitlán: Consejo de Cronistas de la Ciudad de Tepatitlán de Morelos. Herrera Moreno, Ethel (2013) El panteón francés de la Piedad como documento histórico: una visión urbano-arquitectónica. Vol.1. Ciudad de México: Instituto Nacional de Antropología e Historia Martínez Gutiérrez, Patricia (2005) El Palacio de Hierro: arranque de la modernidad arquitectónica en la Ciudad de México. Ciudad de México: Facultad de Arquitectura e Instituto de Investigaciones Estéticas, Universidad Nacional Autónoma de México. Ramírez, F. (1986). Tipología de la escultura tumbal en México, ca. 1850-1930. Anales del Instituto de Investigaciones Estéticas, núm.14(55), pp.133-159 Ramírez Rancaño, Mario. (2012). El Rey del Pulque: Ignacio Torres Adalid y la industria pulquera . Ciudad de México: Instituto de Investigaciones Sociales, Universidad Nacional Autónoma de México y Quinta Chilla Ediciones. S.A. (1909) El gobierno del estado de Chihuahua y la Junta Porfirista: ofrecen este álbum al señor Gral. Don Porfirio Diaz, presidente de la República Mexicana, en recuerdo de su visita à la capital del estado, Chihuahua, octubre 13 y 14 de 1909. Chihuahua: The State. Sborgi, Franco; Lecci Leo (2008) Garibaldi: iconografia tra Italia e Americhe. Roma: Fondazione Casa America Segarra Lagunes, Silvia (2005) Panteón del Tepeyac: Paisaje, historia y restauración. Apuntes, vol. 18, núm. 1-2, p.65. Segarra Lagunes, Silvia (2012) El ángel del silencio del Panteón del Tepeyac. En Segarra, S. ; Castillo , A. (eds.) Crítica de arte en México. Antología de textos 2011-2012. Ciudad de México: Sección mexicana de la AICA (Asociación Internacional de Críticos de Arte), pp. 97-119. Toscano, Verónica (2010). Los hitos de la memoria o los monumentos en el centenario de la independencia de México. Ópera imaginaria en una obertura y tres actos. Historia Mexicana, núm. 60(1), pp. 85-135.

UNAS NOTAS SOBRE AUGUSTO CESAR VOLPI

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Hemerografía consultada Arias, Miguel (1905) “El centenario de Juárez en Zitácuaro.” La Patria, 16 de noviembre de 1905. S.A. (1894). “ Sociedad italiana de mutuo de socorro y hermandad.“ El Nacional, 14 de septiembre de 1894. S.A. (1894) “Una obra de arte.” El Universal: diario de la mañana, 10 de noviembre de 1894 S.A. (1897) “Crónica menuda.” La Patria, 12 de noviembre de 1897. S.A. (1898) “Capilla de la familia Rubín en el Panteón Francés.” El tiempo ilustrado, 13 de noviembre de 1898. S.A. (1898) “Capilla de la familia Escandón Arango en el Panteón Francés.” El tiempo ilustrado, 13 de noviembre de 1898. S.A. (1900) “Nueva junta directiva.” El Tiempo, 27 de octubre de 1900 S.A. (1901). “Secretaría de Fomento.” El popular, núm.1612, 24 de junio de 1901 S.A. (1901) “ Semblanzas. Hombres útiles. Sr Augusto Volpi.” El lazo de unión, 23 de junio de 1901 S.A. (1904) “El despacho de mármoles del Sr. Augusto C. Volpi.” El mundo ilustrado, 18 de septiembre de 1904. S.A. (1904) “El monumento a Juárez en Veracruz.” El Imparcial, 6 de octubre de 1904. S.A. (1904). “ De la capital.” El Correo Español, 18 de octubre de 1904. S.A. (1904) “Monumento a Juárez. El Evangelista Mexicano, 15 de octubre de 1904. S.A. (1905) “Las fiestas italianas”. El Mundo Ilustrado, 1 de octubre de 1905, p.22 S.A. (1908) “Los Ilmos. Señores Costamagna y Fernández consagran los nuevos altares de Santa Brígida.” El Tiempo, 2 de mayo de 1908. S.A. (1908) “Placa de mármol.” El Tiempo, 15 de mayo de 1908. S.A. (1908) “Capilla Braniff en el Panteón Francés por Augusto Volpi, conocido escultor italiano”, El Mundo Ilustrado, t. II, núm. 12, 20 de septiembre de 1908. S.A. (1908) “Semana metropolitana.” El Contemporáneo, 24 de noviembre de 1908 S.A. (1909) “Monumento a Juárez.” El Diario del Hogar, 14 de septiembre de 1909. S.A. (1909) “Copia de la escritura mediante la cual el Sr. Ingeniero Armando I. Santacruz cede al Sr. Ing. Julio Corredor Latorre todos los derechos y acciones que tiene y puedan corresponderle en virtud de la minuta fecha 30 de julio del corriente año, otorgada por los representantes de la Junta Patriótica “Benito Juárez” y los expresado señores ingenieros Armando I. Santacruz y Julio Corredor Latorre.” Periódico Oficial del Estado de Chihuahua, 14 de noviembre de 1909, p.14-18. S.A. (1910). “El monumento a Juárez en Chihuahua”. El Tiempo, 15 de junio de 1910. S.A. (1910) “El monumento a Juárez se inaugura en septiembre”. El Imparcial : diario de la mañana, T. 28, núm. 5,018, 15 junio de 1910. S.A. (1910) “El monumento a Juárez.” El Imparcial : diario de la mañana. t. 28, núm. 5,019, 16 junio de 1910. S.A. (1910) “El donativo de la colonia italiana.” Iberia: diario de la mañana, 7 de julio de 1910.

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MARTIN M. CHECA-ARTASU

S.A.(1911). “El cantor del hogar tendrá pronto mausoleo.” El Iberia: diario de la mañana, 18 de enero de 1911. S.A. (1911) “Los españoles residentes en México honran la memoria del poeta Juan de Dios Peza.”El Tiempo, 17 de enero de 1911. S.A. (1911) “Monumento al héroe Don Nicolás Bravo.” La Opinión, 8 de marzo de 1911 S.A. (1912) “ Contra pruebas no hay argumentos.” El Diario, 11 de agosto de 1912. S.A. (1917) “Monumento a Carlos Alcalde.” El Excelsior. 22 de diciembre de 1917, núm. 280. S.A. (1919) “Gobierno del Estado. Poder legislativo. Informe.” Periódico oficial del Gobierno del Estado de Guerrero, núm.29, 13 de septiembre de 1919.

ESCULTOR ITALIANO QUE DEJÓ HUELLA* VICENTE GUSMERI CAPRA

HELIA GARCÍA PÉREZ (†)

El monumento conmemorativo de la Independencia Nacional, que se levanta sobre la Calzada del mismo nombre, pero que antiguamente llevaba la denominación de Paseo Porfirio Díaz, en su cruzamiento con la calle de Medrano, está adornado con unas alegorías en mármol cuyos bocetos pueden atribuirse al escultor Vicente Gusmeri Capra, nacido en 1866 en el pueblo de Brescia, en Villa Carcina, Italia, a 50 kilómetros de Milán. A los 20 años fue laureado en Roma por la belleza de sus esculturas. Su hermano Francisco también era escultor, pero éste murió a la edad de 35 años. Los dos hermanos se despidieron en Nápoles y Vicente viajó a Brasil junto con otros italianos como Luigi Fazzi y Carlo Barberi; posteriormente, se trasladó a México por mar, desembarcando en Veracruz, y luego yendo a la ciudad capital, donde conoció al también escultor Enrique Alciati, el autor de “El ángel del silencio”, que actualmente se encuentra en el Panteón de los Dolores, y quien también ornamentara la Columna de la Independencia en la misma ciudad capital.

Su estancia y obra en Jalisco Cuando vino a Guadalajara, conoció aquí a la que sería su esposa, Luisa Morandini, también italiana. Vivieron en el Barrio de El Santuario, por las Calles de Francisco Zarco y Mezquitán, donde el artista instaló su taller, llegando a tener entre 50 y 80 operadores. Después, instaló otro taller en 1904, junto con su socio Francisco Brizio Piomati: la Marmolería Italiana Brizio y Gusmeri, por las Calles de Alcalde y Herrera y Cairo. Ahí tuvo como alumno a Salvador Cuevas, quien realizaría en mármol el Altar de la Basílica de Zapopan, sede de La Generala de Armas de Jalisco, Nuestra Señora de Zapopan.

* Este texto escrito por Helia García Pérez salió el 7 de Octubre de 2007 en el Seminario Arquidiocesano de Guadalajara, Órgano de formación e información Católica en la siguiente página web http://www.semanario.com.mx/ps/2010/10/a-proposito-del-bicentenario-de-la-independencia/ consultada el 21 de noviembre de 2018. Los editores del libro Martín M. Checa-Artasu y Olimpia Niglio han dedicido este hacer este homenaje a la autora y al escultor italiano. 449

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Fig.1. Guadalajara. Calzada Independencia, monumento conmemorativo de la Independencia Nacional realizado por el italiano Vicente Gusmeri Capra (1910). Archivo privado.

Si bien la columna del Monumento a la Independencia, que está cumpliendo 100 años de antiguedad, fue realizada por Eulalio González y Alberto Robles Gil, a través de un concurso, la aportación escultórica de Vicente Gusmeri ha quedado hasta hoy en el anonimato, pues las alegorías en mármol diseñadas por él y que se mandaron hacer a Italia, fueron instaladas meses después del 16 de septiembre de 1910, hasta que llegaron del Viejo Continente por encargo del entonces Gobernador de Jalisco, don Miguel Ahumada. Es por eso, quizás, que el nombre de este escultor italiano no quedó en la memoria de los tapatíos; pero mediante estas líneas se hace honor y justicia merecida al creador de estas figuras que están coronadas por La Victoria Alada en bronce y que no es de su autoría. Pero sí fueron suyas, en cambio, las figuras de D. Miguel Hidalgo que mira hacia el Norte, junto con las otras tres figuras de insurgentes,

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mientras que al Este y al Oeste se encuentran las representaciones de La Epopeya y La Historia; al Sur, están un león rugiente, una águila y las cadenas rotas que significan la Abolición de la Esclavitud, que fue, seguramente, el mayor logro histórico del Cura Hidalgo aquí en Guadalajara. Por otra parte, gracias al ingenio de Vicente Gusmeri, abundan las Arcadias angelicales, que ornamentan más de una veintena de monumentos mortuorios de las familias de la alta Sociedad tapatía en el Panteón de Mezquitán; entre ellas, las de don Ramón Navarrete (1897); Leopoldo Valencia (1901); Cuquita Sánchez Vda. de Arregui (1921); Ramón Ortega (1918); Pepito Ramírez (1928); Próspero Conté (1928); Domingo Uriarte (1910), y otras personalidades de principios del Siglo XX. Otras de las obras en Guadalajara de este escultor italiano fueron: el Altar Mayor de la iglesia de San Juan Bautista de Mexicaltzingo; un monumento funerario ubicado en la Iglesia de San Sebastián de Analco, dedicado a los deudos de las Familias Palomar y Corcuera, y otro en la Iglesia de El Carmen, in memoriam de una jovencita de 15 años, de apellido Rosales, así como las figuras de los lunetos de las puertas de entrada del Templo Expiatorio, como los de La oración del huerto; el Ciprés de la Parroquia de la Asunción, en Lagos de Moreno, que está coronado por dos amorcillos custodiando la Cruz de la Fe.

Fig.2. Guadalajara. Arcadias angelicales que ornamentan el Panteón de Mezquitán realizadas por Vicente Gusmeri Capra. Autor: Karen Arlette Flores, julio 2008.

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Querencias y gratos recuerdos dejó aquí Vicente Gusmeri falleció en esta ciudad de Guadalajara, lejos de su Patria. Fue hombre discreto, entregado a su trabajo y a su única hija, Eleonora Gusmeri, quien falleció a los cien años de edad en 2009, en la Colonia Providencia de esta urbe tapatía. El maestro Gusmeri, viudo, con su hijita Eleonora, recordando siempre a su esposa amada (+1912), dejó esculpida su efigie con su fino cincel en la figura de “El ángel del silencio”, otra escultura maravillosa que corona su sepulcro, y a donde él llegó a acompañarla desde 1938, año en que falleció, a los 72 años. Gracias al entusiasmo de sus nietas Carmen y Luisa Gerini Gusmeri y sus hermanos, la Secretaría de Cultura publicó el libro Vicente Gusmeri, el escultor de las luces y de las sombras, en agosto de 2006, del cual yo soy autora, junto con Salvador de la Torre Ruiz. Los tapatíos estamos en deuda con Vicente Gusmeri Capra porque su legado artístico a la ciudad es muy rico en alegorías, símbolos, bustos, y en obras escultóricas de carácter ornamental.

Bibliografía de la Torre Ruiz Salvador, García Pérez Helía (2006), Vicente Gusmeri Capra: el escultor de las luces y de las sombras, Guadalajara, Jalisco: Secretaría de Cultura del Gobierno de Jalisco.

Guadalajara. Calzada Independencia. Detalle del grupo escultórico del monumento conmemorativo de la Independencia Nacional realizado por el italiano Vicente Gusmeri Capra (1910). Archivo privado

Guanajuato. Fachada del Templo de Sagrado Corazón de Jesús en León donde el escultor italiano Adolfo Octavio Ponzanelli desarrollará a partir de 1935 los relieves marmóreos en los tímpanos de las puertas principales, con motivos relativos a la muerte y resurrección de Cristo y pasajes de la vida de Santa María Margarita de Alacoque. Autor: Martín Checa-Artasu, diciembre 2009.

AUTORES

COORDINADORES MARTÍN M. CHECA-ARTASU (España). Doctor en Geografía Humana por la U. de Barcelona Es profesor titular del Dep. de Sociología de la U. Autónoma Metropolitana, Unidad Iztapalapa. Pertenece al Sistema Nacional de Investigadores Nivel 2 del CONACYT. Miembro regular de la Academia Mexicana de Ciencias y de ICOMOS México. Mercator Fellow en el proyecto internacional de investigación:Global Gothic: Arquitectura gótica internacional en los siglos XX y XXI, de la Technische Universität Dresden (Alemania) de 2018 a 2021. Ha coordinado solo o en coautoría los siguientes libros: Barcelona, la ciudad de las fábricas (2000); El espacio en las ciencias sociales. Geografía, interdisciplinariedad y compromiso. (El Colegio de Michoacán, 2013), Arquitecturas de lo sagrado en el México contemporáneo (U.A. Aguascalientes, 2014); Las “otras ciudades” mexicanas. Procesos de urbanización olvidados (Instituto Mora, 2014); Paisaje y territorio. Articulaciones Teóricas y Empíricas (UAM & Tirant México, 2014); Historia de la electrificación. Estrategias y cambios en el territorio y la sociedad (U. Barcelona, 2015); El petróleo en México y sus impactos en el territorio (Instituto Mora, 2016) El neogótico en la arquitectura americana. Historia, restauración, reinterpretaciones y reflexiones (Aracne editrice, Roma, 2016) y Paisaje: métodos de análisis y reflexiones.(UAM Iztapalapa; Editorial del Lirio, 2017). Mas Información: http://martinchecaartasu.com/

OLIMPIA NIGLIO (Italia). Arquitecta, historiadora de la arquitectura por la Universidad de Napoli “Federico II”, Maestria en Management of Art (Business School Sole24ore, Roma), Doctora en Conservación de los Bienes Culturales por la Universidad de Napoli “Federico II” y Post Ph.D por el Ministerio de la Educación, de la Universidad y de la Investigación Cientifíca. Profesora en la Pontificia Facultad Teologica Marianum ISSR e investigadora en la Kyoto University (Japan) y en la Universidad de Bogotá Jorge Tadeo Lozano (Colombia). Profesora invitada en muchas universidades extranjeras, ha publicado muchos libros y articulos cientificos sobre la historia de la arquitectura y el patrimonio cultural entre Oriente y Occidente y ha recibido muchos premios académicos internacionales por su trayectoria de investigación comparativa. Es miembro de The city Planning Institute of Japan, es miembro de numero de la Academia Colombiana de Historia de la Ingenieria y de las Obras publicas, de la red CONACYT “Centros Históricos de Ciudades Mexicanas”, de ICOMOS Italia e ICOM. Es directora desde el 2004 de la revista internacional EdA Esempi di Architettura y de colección de libros cientificos. Es curadora de exposiciónes internacionales de arquitectura realizadas entre Latinoamérica, Europa, Asia.

AUTORES

JOSÉ ARTURO AGUILAR OCHOA (México). Estudió la Licenciatura en Historia en la Facultad de Filosofía y Letras de la UNAM, donde también realizó estudios de Maestría en Historia de México y de Doctorado en Historia del Arte. Actualmente se desempeña como Profesor de Tiempo completo en el Instituto de Ciencias Sociales y Humanidades “Alfonso Vélez Pliego” de la Benemérita Universidad Autónoma de Puebla. Ha sido merecedor de la beca de Hispanitas en el año 2000 otorgada por el gobierno de España, y la Beca DAAD del gobierno alemán en el 2005 y en octubre del 2017 se le otorgo el premio “Luis Rivera Terrazas” por el CONCYTEP. Pertenece al Sistema Nacional de Investigadores (SNI) nivel II y su área de especialización es el siglo XIX en México, especialmente la historia de la litografía, del grabado, la fotografía y el cine mexicano. Actualmente está trabajando sobre la vida cotidiana en el Segundo Imperio.

GABRIELLA CIANCIOLO COSENTINO (Italia). Si è laureata in architettura presso l’Università di Palermo, dove nel 2004 ha conseguito il dottorato di ricerca (PhD) in Storia dell’Architettura e Conservazione dei Beni Architettonici. Ha ricevuto varie borse di studio da istituzioni italiane, tedesche e americane, fra cui MIUR, DAAD, Alexander von Humboldt Stiftung, Bibliotheca Hertziana, Italian Academy for Advanced Studies in America (Columbia University). Dal 2014 al 2017 è stata responsabile di un progetto di ricerca finanziato dalla DFG (German Research Foundation) presso la Technische Universität München, dove dal 2015 insegna Storia dell’Architettura. Attualmente coordina un progetto di ricerca interdisciplinare su Pompei presso il Kunsthistorisches Institut di Firenze. I suoi interessi di ricerca riguardano l’architettura dell’Ottocento e del Novecento, con particolare attenzione ai rapporti fra Italia e Germania. Recentemente si è occupata di ricezione dell’architettura medievale del Sud Italia, arte musiva, storia del restauro e cultural heritage.

ALESSANDRO COLOMBO (Italia). He is born in Milan. After classical and musical studies, he graduated from Politecnico di Milano with Marco Zanuso. In 1989 he began his collaboration with Pierluigi Cerri. In 1991 he won with Paola Garbuglio the Major of Osaka City Prize, awarded by the Japan Design Foundation with the project: "Earth: Instructions for Use", showed by the major design centers in the world. In 1995 he became associate of Gregotti Associates International. With Bruno Morassutti he participates in international competitions of architecture. He designed, with Pierluigi Cerri and Risco, the public spaces and temporary structures of Expo '98 in Lisbon. In 1999 he was lecturer at the Stockholm Nobel Foundation. Since 1998 he is art director and designer for Unifor, DADA and Molteni&C. Among the awards Compasso d'Oro in 2004, Premio Nazionale Ance In/arch for his project for Fondazione Arnaldo Pomodoro in Milan. He is teacher at the Design school (Interior Design) and at the IDEA Master in Exhibition Design of Politecnico di Milano. He is board member of IDEA, Italian Association Exhibition Designers and correspondent for il Giornale dell’architettura. He is curator and designer of exhibitions at the Italian pavilion at the post Expo 2010 in Shanghai. On behalf of Politecnico di Milano he is responsible of the project of the Coffee Cluster at Expo 2015 in Milan.

In 2016 he carries out the exhibition for the 60th anniversary of the laying of the first stone of the Pirelli skyscraper for the Regional Council of Lombardy. In December 2016 he was appointed Ambassador of Italian Design by the Ministry of Foreign Affairs and International Cooperation, by the Ministry for Cultural Heritage and Tourism and by the Ministry of Economic Development in collaboration with the Triennale Design Museum, for the conference "Italian Design Day" held on 2017 in Vancouver, Canada, and on 2018 in Jakarta, Indonesia.

CARMEN ALICIA DÁVILA MUNGUÍA (México). Doctora en Historia del Arte y Arquitectura de Iberoamérica por la Universidad Pablo de Olavide de Sevilla; Maestra en Historia del Arte Mexicano, por la UNAM; Licenciada en Historia por la UMSNH, institución en la que se desempeña desde hace más de 20 años como profesora-investigadora titular, adscrita al Instituto de Investigaciones Históricas. Líneas de investigación: Historia y conservación del arte y de la arquitectura. Autora de los libros: Una ciudad conventual: Valladolid de Michoacán en el siglo XVII (2010); Los carmelitas descalzos en Valladolid de Michoacán. Siglo XVII (eds. 1999, 2002, 2010); coordinadora y/o co-coordinadora y coautora de Exiliados de la Guerra Civil española en México (2015); Patrimonio nicolaita. Arquitectura, pintura y escultura de la UMSNH (2015); Ideología, procesos políticos y manifestaciones artísticas. Del Porfiriato a la posrevolución (2012); La Independencia de México. Conflictos militares, procesos políticos y manifestaciones artísticas (2012); Espacios de encuentro cultural. Casos de estudio en Iberoamérica (2008); Museo de Arte Colonial. Catálogo comentado de pintura (2006); Miguel Hidalgo en la historia y en el arte (2004); Desarrollo urbano de Valladolid-Morelia. 1541-2001 (2001), entre otros. Investigación actual: Vida y obra del arquitecto italiano Adrián Giombini M.

PEDRO FRIEDEBERG (Florencia, Italia, 1936). Nació cerca de la Piazza de Santa María Novella en Florencia el 11 de enero de 1936 de padres alemanes, su padre de apellido Hoffman y su madre Gerda Landsberg. A los tres años, en 1939, huyó de la guerra en Europa y en México su madre se casó con Erwin Friedeberg quien lo adoptó como hijo. Su infancia transcurrió en la ciudad de México, con visitas frecuentes a una familia de teosofistas en Texcoco. Estudió en un colegio internado en Boston, Estados Unidos, y regresó a México para estudiar arquitectura, carrera que dejó inconclusa por dedicarse al arte de tiempo completo. Trabajó como ilustrador de la revista Mexico this month, editada por Annita Brenner, y su carrera dio un salto a la fama a partir del diseño de la mano silla. Su carrera tuvo un corte internacional, fue más conocido fuera del país, en Estados Unidos y en Europa que en México.

MONTSERRAT GALÍ BOADELLA (México). Historiadora del arte por las universidades de Barcelona y Zagreb, Croacia. Doctora por la UNAM con una tesis sobre la introducción del romanticismo en México. Estudió música en Barcelona y Munich. Ha sido profesora en la UNAM, en la Escuela Nacional de Antropología e Historia y en la Universidad Iberoamericana entre otras. Es miembro del Sistema Nacional de Investigadores nivel 3. Actualmente es investigadora en el Instituto de Ciencias Sociales y Humanidades de la BUAP (Puebla). Fue directora del Museo Universitario del Chopo de la UNAM. Su

especialidad es la historia del arte mexicano, con énfasis en la historia del arte en Puebla (siglos XVII-XIX). Se ha enfocado paralelamente a estudiar las relaciones culturales entre México y Europa. Ha escrito 13 libros, así como más de 80 artículos y capítulos de libros, publicados en España, México, Francia, Alemania, Québec y Estados Unidos. Entre las distinciones recibidas destaca el Premio Estatal de Ciencia y Tecnología en Ciencias Sociales y Humanidades 2005.

FAUSTO GIOVANNARDI (Italia). Nato in Italia sull’Appennino tra Firenze e Bologna, dove si ostina a vivere tutt’ora, Fausto Giovannardi si è laureato nel 1977, ancora giovane, in ingegneria civile edile strutture a Firenze, con una tesi (antesignana) sul preconsolidamento di edifici in zona sismica. Dopo un primo periodo come dirigente dell’ufficio tecnico di un grosso comune, sceglie la libera professione e costituisce lo Studio Giovannardi e Rontini, con sede a Borgo San Lorenzo (FI), che arriva ad avere 20 dipendenti. Socio di varie associazioni professionali è dal 2010 direttore responsabile della rivista scientifica “Ingegneria sismica”. Da tempo raccoglie storie di ingegneri e delle loro opere. Storie spesso sconosciute e che rischiano di perdersi irrimediabilmente. Ovviamente cammina sui monti dell’Appennino con il suo cane, gira in bicicletta con i suoi nipoti e quando può viaggia per il mondo curiosando tra antico e moderno, tra ponti e strutture, tra musica e cucina, riportando tutto a casa nei suoi taccuini pieni di appunti e disegni.

LILIANA LÓPEZ LEVI (México). Es nieta de Enzo Levi y es doctora en Geografía por la Universidad Nacional Autónoma de México. Trabaja como profesora investigadora Titular en el Departamento de Política y Cultura de la Universidad Autónoma Metropolitana, Unidad Xochimilco, donde actualmente es responsable del área de Sociedad y Territorio del Doctorado en Ciencias Sociales y también jefa del Área de Gestión Estatal y Sistema Político de la misma institución. Asimismo, es profesora de asignatura en la Facultad de Filosofía y Letras de la Universidad Nacional Autónoma de México. Pertenece al Sistema Nacional de Investigadores. Nivel II. Sus líneas de investigación son imaginarios y territorios; espacio y cultura urbana; cultura política; vulnerabilidad y desastres.

PATRICIA MASSÉ ZENDEJAS (México). Investigadora en la Fototeca Nacional del Instituto Nacional de Antropología e Historia. Doctora en Historia, maestra en Historia del Arte y licenciada en Sociología. Autora de: Fotografía e historia nacional. Los gobernantes de México (2017); Juan Antonio Azurmendi. Arquitectura doméstica y simbología en sus fotografías (2009), Cruces y Campa. Una experiencia mexicana del retrato tarjeta de visita (2000) y Simulacro y elegancia en tarjeta de visita. Fotografías de Cruces y Campa (1998). Ha publicado en: Migración, etnicidad y retorno del espacio cantábrico al mundo americano (2016), Quintas de Tacubaya (2011), A Companion to Mexican History and Culture (2010).

LUIS ALBERTO MENDOZA PÉREZ (México). Doctor en Arquitectura, miembro del Sistema Nacional de Investigadores de CONACYT, Miembro del Comité Científico de Arquitectura del siglo XX ICOMOS, Miembro de DOCOMOMO MÉXICO.

Coordinó el cuerpo académico de Arquitectura y Patrimonio de la Universidad de Colima por 15 años. Actualmente desarrolla estudios sobre la arquitectura del siglo XX y actual en la región occidente de México.

FRANCISCO JAVIER NAVARRO JIMÉNEZ (México). Nació en la Ciudad de México y actualmente es doctorando en Geografía en la Universidad Complutense de Madrid. Estudió una maestría en Historia Internacional en el Centro de Investigación y Docencia Económicas y la licenciatura en Geografía Humana en la Universidad Autónoma Metropolitana. Ha realizado diversas investigaciones en archivos históricos en Italia, Perú y México. Se interesa por los procesos de urbanización y modernización de las ciudades latinoamericanas durante los siglos XIX y XX; la historia urbana, el paisaje urbano en zonas patrimoniales, la historia de la arquitectura y las fuentes históricas para el estudio de las ciudades.

MARCO TULIO PERAZA GUZMÁN (México). Arquitecto, con maestría y doctorado en arquitectura por la Universidad Autónoma de Yucatán (UADY) y la Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM), respectivamente. Profesor investigador en la Facultad de Arquitectura de la UADY de 1980 a la fecha. Desde 2003 es miembro del Sistema Nacional de Investigadores (SNI) y evaluador de proyectos, planes y programas del Consejo Nacional de Ciencia y Tecnología (CONACYT) y la Secretaría de Educación Pública (SEP). Ha sido Jefe de la Unidad de Posgrado e Investigación, así como coordinador de las áreas de Diseño Arquitectónico y Teoría de la Arquitectura en la FAUADY, así como Secretario General del Patronato del Centro Histórico de Mérida y el Colegio Yucateco de Arquitectos.

PIER PAOLO PERUCCIO (Italia). PhD, is a design historian, architect and Associate Professor of design at Politecnico di Torino. He is director of the SYDERE (Systemic Design Research and Education) Center in Lyon-France (http://www.sydere.polito.it) and Vice Head of the Design School at Politecnico di Torino. He is also the coordinator of a II Level Specializing Master in Design for Arts (http://www.design4arts.polito.it). He is currently working on several research projects concerning history of design, systems thinking and innovation in design education. He is co-editor of book series (Umberto Allemandi and Electa Mondadori publishing houses), author of several books on design history such as “Storia Hic et Nunc. La formazione dello storico del design in Italia e all’estero” (2015, with D.Russo), “Storie e cronache del design” (2012, with E. Formia), “Design and Corporate Image” (2011 with D. Baroni) and “La ricostruzione domestica” (2005). He is author of more than 100 articles on industrial and visual design published in International. He has taught courses and workshops in Europe, USA, Latin America and Asia.

ALEJANDRO SORDO (México). Gestor cultural y director del Estudio Pedro Friedeberg en Ciudad de México es licenciado en Relaciones Internacionales, Estudios culturales, Derecho ambiental internacional, Estudios regionales y Geografía en la Universidad

Nacional Autónoma de México. Es Maestro en Estudios de Arte Moderno y Contemporáneo, Filosofía del arte, historia del arte moderno y contemporáneo. Los estudios universitarios sirvieron para conocer un método analítico de actores y factores sistemático y radial. Considerar todos los factores y actores para lograr los mejores resultados planificados estratégicamente. Tiene dirección curatorial de las colecciones: Arte y letras, Narrativa visual, Arte, Literatura Mirlo y Teoría crítica.

JORGE VOLPI ESCALANTE (México). Nació en Ciudad de México el 10 de julio de 1968. Es un importante escritor mexicano miembro de la denominada generación del crack y actualmente coordinador de Difusión Cultural de la Universidad Nacional de Ciudad de México. Comenzó a escribir muy joven, a los dieciséis años, tras participar en un concurso de cuento en el Centro Universitario México, al que también acudieron Ignacio Padilla y Eloy Urroz, con quienes más tarde elaboraría el Manifiesto Crack. Su primera producción novelística agrupa A pesar del oscuro silencio (1993), La paz de los sepulcros (1995) y El temperamento melancólico (1996) y las novelas cortas Días de ira (en el volumen Tres bosquejos del mal, 1994), Sanar tu piel amarga (1997) y El juego del Apocalipsis (2000). Con La tejedora de sombras —novela sobre Christiana Morgan y su relación con el fundador de la Clínica Psicoanalítica de Harvard, Henry Murray— obtuvo el Premio Planeta-Casa de América 2012.

Ciudad de México. Palacio Postal realizado según el proyecto del arquitecto italiano Adamo Boari y del ingeniero mexicano Gonzalo Garita entre 1902 y 1906. Detalle del soporte de la escalera del Palacio Postal. Autor: Martín Checa-Artasu, noviembre 2018.

Ciudad de México. Vista general del Hemiciclo a Benito Juárez, inaugurado en 1910. Diseñado por el arquitecto Guillermo Heredia y con el grupo escultórico realizado por Alessandro Lazzerini. Autor: Martín Checa-Artasu, noviembre 2018.

Esempi di architettura – Spazi di riflessione collana diretta da Olimpia Niglio

1. Luce e colori sulle rovine. Strategie museografiche per la comunicazione dell’archeologia Santina Di Salvo 2. Lo ZEN 2 di Palermo: un laboratorio per il progetto e la gestione del recupero Giuseppe Alaimo 3. Aracne “LA TECNICA DEL RAGNO”Geometrie per costruire con le esatte proporzioni dei Metodi Originari Giancarlo Melchiorri 4. Rivestimenti fotovoltaici: generazioni, rivoluzioni e applicazioni Cesare Del Vescovo 5. Il Conservatorio delle Verginelle in Catania. Indagini preliminari e progetto di riuso di una fabbrica tradizionale Alessandro Lo Faro 6. Venezia nel tempo: atlante storico dello sviluppo urbano 726-1797 Corrado Balistreri, Dario Zanverdiani, con un saggio di Egle Renata Trincanato 7. Terra Alcami. Imago Urbis. Rappresentazioni iconografiche e cartografiche antiche Ignazio Longo 8. Le Corbusier e la superficie. Dal rivestimento d’intonaco al “béton brut” Anna Rosellini 9.

L’architettura del territorio. I piccoli centri dell’aquilano | The architecture of the territory. The small towns around L’Aquila Camillo Orfeo 10. Dottrina e operatività ‘nel restauro’ e ‘oltre il restauro’ in Francia. Rapporti e confronti con l’Italia dalla Conferenza di Atene al Congresso di Parigi. 1931-1957 Marco Riccardi 11. Tra lo Jonio e il Mare del Nord L’ammissibilità alla lista dei siti UNESCO patrimonio dell’Umanità Francesco Forte 12. Questioni sul recupero della città storica Andrea Iacomoni (a cura di) 13. Rivestimenti foto–dicroici. Applicazioni Cesare Del Vescovo (a cura di)

14. Napoli, la stagione della città metropolitana Francesco Forte 15. L’architettura popolare nei centri minori della Sicilia occidentale Tipologie edilizie, materiali, tecniche costruttive e ipotesi di recupero Stefano Lo Piccolo 16. Arturo Pazzi, architetto di Roma Capitale Giovanni Duranti 17. La riqualificazione dell’edilizia residenziale del secondo dopoguerra. La “zona a mare” di Catania Giuseppe Margani 18. Progettare e misurare l’efficienza ambientale L’esperienza del laboratorio di progetto e costruzione dell’architettura della scuola di architettura e società del Politecnico di Milano Andrea Campioli, Michele Paleari 19. Temi, visioni e strategie per la città storica del terzo millennio. Metamorfosi di un fenomeno, consuetudine di un processo Natalina carrà 20. Foto-dicoicro tra progettazione e sperimentazione. B&B Il Parco_Assergi_Aq Cesare Del Vescovo (a cura di) 21. Micro_città Marinella Arena 22. 100 idee per Reggio Calabria città matropolitana Concetta Fallanca (a cura di) 23. La grande dimensione in architettura. Il centro direzionale di Napoli Giovanni multari (a cura di) 24. Tracce dell’antico segni del nuovo. interventi contemporanei sul patrimonio preesistente a Lisbona dalla ricostruzione del Chiado a oggi Elvira Reggiani 25. Aracne “LA TECNICA DEL RAGNO” vol. 2. Rettifica della circonferenza e quadratura del cerchio in cantiere con le possibilità dei metodi originari: diario dello studio in essere Giancarlo Melchiorri 26. Disegnare connessioni L’architettura in ferro tra manualistica e costruzione nel XIX secolo. Il Ponte Pio a Velletri Laura Farroni 27. Il progetto come fonte, come metodo, come prassi Roberta Lucente

28. Avvicinamento alla storia dell’architettura giapponese Dal periodo Nara al periodo Meiji Olimpia Niglio 29. Modelli e immagini per la rappresentazione dell’architettura Cristina Candito 30. Aracne “LA TECNICA DEL RAGNO” vol 3. Geometrie e misurazioni micrometriche dal triangolo per la circonferenza, il cerchio, il quadrato, in opera con le possibilità dei metodi originari: diario dello studio in essere Giancarlo Melchiorri 31. Urban Infill. Didattica e progetto nel Laboratorio di Sintesi finale Armando Iacovantuono, Paolo Marcoaldi (a cura di) 32. Architetture resistenti / Resistant Architectures. progetti per la musica nel rione Sanità Giovanni Multari, Gioconda Cafiero (a cura di) 33. Ingenieros y arquitectos italianos en Colombia Olimpia Niglio, Rubén Hernández Molina (a cura di) 34. El Neogótico en la Arquitectura Americana Historia, restauración, reinterpretaciones y reflexiones Olimpia Niglio, Martín Manuel Checa-Artasu (a cura di) 35. Historic Towns between East and West Ciudades históricas entre Oriente y Occidente Olimpia Niglio (a cura di) 36. Territori di pietra. Il suolo, il paesaggio, le architetture, i materiali / Stone Territories. Soil, landscape, architectures, materials Domenico Potenza (a cura di) 37. L’utilizzo della cupola nell’architettura religiosa normanna Il caso delle strutture monastiche greche nell’area dello stretto di Messina Elena Trunfio 38. Micro spazi Macro ambienti Andrea Lupacchini 39. Urbanity. Theories and Project Designs: New Strategies for Sustainable. Developments of Ukrainian Cities Maria Grazia Folli 40. Costantinopoli, Vienna, Szigetvár: un progetto nel luogo di morte di Solimano il Magnifico. La costruzione di una tesi di architettura in un vicino (e dimenticato) Oriente balcanico Alessandro Mosetti

41. Osservazioni sul disegno geometrico descrittivo Andrea Donelli 42. Architettura e rovina archeologica Etica, estetica e semantica del paesaggio culturale Vincenzo Paolo Bagnato 43. Disegno, rilievo e rappresentazione Pensiero, analisi e sintesi di esperienze di ricerca Andrea Donelli 44. Nuove forme dell’abitare Letture e trascrizioni intorno alla scuola di architettura di Sarasota in Florida Domenico Potenza, Silvia Brunoro, Pasquale Tunzi 45. Neapolis Living as a student. Nuove residenze per studenti nel centro antico di Napoli Giovanni Multari (a cura di) 46. Rigenerare territori fragili Strategie e progetti Matteo di Venosa, Mario Morrica 47. Il sistema solare passivo Barra–Costantini per la climatizzazione degli edifici Michele Lepore 48. Design e città Forme e processi di valorizzazione urbana Rossana Gaddi 49. Design per la comunicazione Patios de la Arquitectura Doméstica Vìctor Delgadillo, Olimpia Niglio 50. Disegno di Moda / Fashion drawing Corpo, abito, illustrazione / body, clothing, illustration Alessandra Avella 51. Memoria in fumo La manifattura Tabacchi di Palermo Silvia Pennisi 52. [UNISS MIAS]5 Il viaggio continua... Josep Miàs, Sabrina Scalas (a cura di) 53. Italianos en México Arquitectos, ingenieros, artistas entre los siglos XIX y XX Martín Manuel Checa–Artasu, Olimpia Niglio (editado por)

Este libro se terminó de imprimir en el mes de enero de 2019 en la imprenta «System Graphic S.r.l.» 00134 Roma — via di Torre Sant’Anastasia, 61 para la «Gioacchino Onorati editore S.r.l. — unipersonale» di Canterano (RM)